Jean Bastaire Eros redento - Parrocchia S. Nicola di Bari

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Jean Bastaire Eros redento - Parrocchia S. Nicola di Bari
Jean Bastaire
Eros redento
“La nostra lampada a cinque bracci è in realtà
la nostra carne, che l’anima impugna come una
fiaccola nuziale mentre va incontro a Cristo suo
sposo, nel giorno della resurrezione: con i suoi
cinque sensi fa risplendere lo splendente
fulgore della sua fedeltà”.
(Metodio d’Olimpo)
Il testo che segue è un tentativo di dissodamento. Gli si potranno rimproverare
delle visioni troppo frettolose e delle formule categoriche. Accetto queste
critiche perché il mio intento non è un’analisi serena bensì una lotta esistenziale
per un giusto apprezzamento dell’eros, sconosciuto a quelli che lo esaltano
come a quanti lo disprezzano. Secondo me, il desiderio è figlio di Dio, la carne
sgorga dallo Spirito, anche se il peccato dell’uomo in seguito la travia.
Senza altra competenza che quella di un normalissimo cristiano, offro qui i
frammenti di un’erotica teologica: una manciata di proposte sulle radici e i fini
trascendenti dell’immanenza sessuale. Non una canonizzazione, ma una
demistificazione dell’abituale erotismo. Uno sforzo per riconoscergli un altro
significato. Un tentativo di interpretarlo come linguaggio trinitario.
Pasqua 1990
LA LIBERAZIONE ILLUSORIA
La nostra società vive in una grande illusione: crede di essersi liberata nei
confronti del sesso o di aver liberato il sesso. Niente più diffidenza, rifiuto,
castrazione. L’invocazione si sostituisce all’esilio, l’approvazione alla condanna.
È vero che è stata tolta una censura e che una menzogna si è sbriciolata:
nessuno potrà rimpiangere la scomparsa dell’abbinata ipocrisia-salacità grazie
alla quale dei costumi austeri avevano come canale di scarico le Folies Bergères.
Represso o solleticato, il sesso era sempre biasimato: poteva essere solo lo
strumento di un’onta tenace o salace. Se ne ridacchiava per scusarsi di castrarlo.
Alla colpevolezza ha fatto seguito la permissività. Il priapismo ha rimpiazzato il
puritanesimo. Ma il fatto di essere venuta alla luce impedisce forse alla
schiavitù di sussistere? L’alienazione continua: la licenza sfida la continenza,
ma si tratta sempre dell’asservimento a una pulsione incontrollata.
La copulazione non è padroneggiata, né più né meno di ieri. La nostra società vi
immette solo il furore che un delirio a lungo frenato ha accumulato nelle sue
vene. Non è forse il momento di riconoscere in questa frenesia l’ultima
manifestazione del male denunciato: un blocco della funzione genitale?
“Nascondete il sesso che non sarei in grado di vedere”, diceva l’epoca
vittoriana, nascondendosi per vedere meglio. Solo ciò che è vietato, infatti, è
attraente. Oggi abbiamo denudato il sesso ma, così facendo, ne abbiamo
consacrato la supremazia. Ciò che procurava un delizioso fremito di terrore era
la trasgressione; adesso abbiamo eretto la trasgressione a metodo di
conoscenza.
Nessuno deve essere sprovveduto di fronte ai pretesti di cui è circondata questa
prassi. Si crede di sdrammatizzare portando sotto gli occhi della ragione una
fissazione patologica. In realtà non si fa che drammatizzare al massimo, dal
momento che si garantisce con tutte le risorse del conscio un inconscio turbato.
Lungi dal desacralizzare delle deviazioni perniciose, si incrementa la loro
potenza oscura con la forza della luce.
La guarigione autentica non consiste nello sfogare il represso, bensì
nell’effettuare uno spostamento d’accento per ottenere la reintegrazione in un
insieme. La salvezza non si trovava nel riconoscimento esplicito di una dittatura
occulta, ma nel rigetto del fascino di una funzione genitale abusivamente
considerata come l’espressione della totalità dell’essere.
La trappola si è richiusa sui liberatori che pretendevano di aprirla, dando
ragione a coloro che, ossessionati dal loro basso ventre, riducevano l’arte di
vivere al gioco d’astuzia con questa fatalità. “La vostra ossessione - si è detto
loro non è falsa: basta assumerla. Ogni realtà umana si esaurisce nella sessualità
e ogni sessualità si riduce al genitale”.
Duplice riduzione che inverte la corrente e restringe l’uomo a una parte del suo
essere. Parte indubbiamente capitale e in cui si concentra l’umile splendore
genesico, ma che non è in grado di riassumere il mistero dell’esistenza.
La realtà dell’essere umano deborda in modo infinito la differenziazione
sessuale. Ogni individuo è di fatto maschile e femminile: dall’uomo alla donna
cambia solo il polo d’emergenza. Così la coppia, lungi dall’essere l’arena in cui
si affrontano due specie estranee, è il luogo in cui si rivelano e si uniscono, oltre
al sesso dominante in ciascuno, la virilità della donna e la femminilità
dell’uomo.
Analogamente, la differenziazione sessuale eccede in ogni senso la funzione
genitale: non siamo uomini e donne per copulare. I rapporti genitali sono la
conseguenza e non la causa della differenziazione sessuale. Non solo ci
sarebbero potuti essere altri modi per riprodursi, ma il maschile e il femminile
si orientano verso un’unione ontologica che si manifesta a diversi livelli e di cui
l’unione genesica è solo una figura.
Di una realtà locale e parcellare si è fatto il fondamento; si è scambiata la
modalità per la sostanza, il termine per l’origine. Come meravigliarsi del
conseguente pessimismo se tutto si riduce a secrezioni di ormoni e a
strofinamenti di epidermidi, con i danni psichici che ne derivano?
Sotto questa influenza deleteria, uno dei termini-pilota del linguaggio umano
ha subito un’enorme svalutazione. Provate a parlare di erotismo ai nostri
contemporanei: la loro idea immediata sarà quella di amore sensuale, con tutte
le connotazioni psicologiche, morali e religiose possibili, ma qualificanti un
fenomeno essenzialmente fisico. Si potrà fare distinzione tra un erotismo
coniugale e un erotismo sacro, tra un erotismo poetico e un erotismo politico.
Ma, per sentieri spinosi o per viali fioriti, si tratta comunque di raggiungere, in
senso proprio o figurato, l’orgasmo, questo vertice del piacere.
Indubbiamente l’erotismo trova nella sfera genitale una delle sue realizzazioni
più forti e, a partire da essa, diffonde un equilibrio di cui trae beneficio tutto il
corpo. La sensazione di compimento procurata da questa alleanza non è
un’illusione né, ancor meno, un peccato. Ma, per l’appunto, è il segno di
un’unione più alta.
L’erotismo è uno slancio dello spirito in cerca di pienezza. Fenomeno
radicalmente interiore, risale una corrente, dissipa un’opacità, scioglie una
servitù. In questi termini è sempre stato capito, finché la nostra epoca non ha
abbassato il processo al suo livello inferiore e ha perso letteralmente il senso dei
gesti che compie.
Un simile smottamento non si sarebbe verificato se, per secoli, il cristianesimo
deformato dal giansenismo non avesse spesso vissuto in un profondo disprezzo
del corpo e in un odio di tutto ciò che assomiglia all’istinto, considerato il
grande perturbatore. Un falso concetto trasformava l’ascesi da strumento di
educazione di tutto l’essere ad arnese di repressione della carne, “ad majorem
Dei gloriam”. Come se Dio traesse gloria dal massacro di ciò che ha creato
nell’innocenza del Verbo, e ha assunto e riscattato mediante l’incarnazione di
suo figlio Gesù!
L’ostilità si concentrava sul sesso, riducendolo alla sua unica accezione genitale,
con la conseguenza dello sviluppo di una teologia della castrazione. Bisogna
ristabilire il flusso della corrente nell’autentica direzione, reintegrando il
genitale nella sessualità e la sessualità nello spirito.
È l’unico modo per riabilitare il desiderio umano che, lungi dall’essere una
concupiscenza fisica o psicosomatica, è una manifestazione della grande marea
che solleva l’essere verso il suo Creatore. Lo spirito non è una derivazione della
carne. Al contrario la carne è una fioritura dello spirito. Il sesso procede
dall’anima che lo esprime.
UNA SORGENTE RADICALE
Non si può negare che nella maggior parte delle religioni, e in ogni caso nei
livelli più alti di ciascuna, la ricerca della salvezza si accompagni a una stretta
continenza. Che si tratti del cristianesimo o dell’induismo, del buddismo o del
taoismo, l’esistenza di persone che si fanno “eunuchi per il regno dei cieli” è
una costante degna di nota.
Un po’ ovunque si avverte anche una spiccata preferenza per questo tipo di
vocazione, considerata atta a offrire una liberazione più rapida e completa. Gli
esseri continenti appaiono persone più avanzate nel cammino, costituiscono
una sorta di élite che si distingue dalla massa dei fedeli, votati ai piaceri gregari
della riproduzione.
Nessuna di queste religioni proibisce il matrimonio né esclude dalla salvezza
coloro che hanno un’attività sessuale: diversi stati di vita sono compatibili con
l’accesso a Dio. Tuttavia, quali che siano le vocazioni, sono tutte regolate da una
legislazione imperativa che disciplina la funzione genitale.
Nemmeno l’ebraismo e l’islam, pur riservando poco spazio alla rinuncia
sessuale, si astengono dal legiferare in modo rigoroso sul comportamento nei
rapporti tra l’uomo e la donna. Ovunque ci si giri, la sessualità è oggetto di
un’attenta vigilanza: nell’uso come nell’astensione, è giudicata come una forza
esplosiva di cui è capitale conservare il controllo.
In India lo hatayoga integrale, che non si riduce alla scienza delle posizioni,
offre un buon esempio di questa situazione poiché insegna una disciplina
chiara e metodica, minuziosamente codificata nei secoli. Qui la fioritura
dell’energia spirituale è paragonata a un serpente che sale lungo il midollo
spinale. L’ascesa avviene in diverse tappe, ciascuna contrassegnata da un
centro: il primo è a livello degli organi genitali, poi attraverso il plesso sacro,
l’epigastrio, il cuore, la laringe e la fronte, l’energia raggiunge la cima del
cranio, dove avviene l’implosione dell’estasi.
Lo yogi realizza in tal modo un vero e proprio pompaggio a partire dalla base
del proprio essere. Recupera una forza impedita oppure trasforma un
dinamismo primitivo? Entrambe le spiegazioni hanno in comune il fatto di
allargare il fenomeno ben al di là di una fisiologia sessuale.
Per l’occidentale materialista l’operazione consiste nel captare e nel maneggiare
un dato grezzo inconscio in modo da condurlo a un grado trascendente di
coscienza. Per l’orientale idealista si tratta, al contrario, dello svelamento di una
realtà nascosta, del decondizionamento di una realtà inghiottita nelle tenebre e
che fa ritorno alla luce.
Altre scuole indù, raggruppate nel tantrismo, si spingono oltre e insegnano a
servirsi sessualmente del sesso per raggiungere la trascendenza. L’arma
assoluta della disintegrazione dell’io è il coito stesso. Tramite la padronanza
dell’orgasmo, l’adepto si identifica con un processo che lo libera dai limiti
carnali. Una disciplina appropriata gli consente, al momento dell’eiaculazione,
di trattenere lo sperma e di restare al massimo livello di tensione genesica. La
formidabile potenza contenuta in questo parossismo irradia nell’organismo una
deflagrazione intima che fa crollare le barriere dell’essere.
L’adepto può addirittura invertire il fenomeno e riassorbire il seme. Nella
misura in cui coincide con questa retroversione dello spasmo, egli risale il corso
della creazione e riemerge alla sorgente. Là dove l’orgasmo avrebbe dovuto
generare una perdita assoluta, una “piccola morte”, il suo compimento negativo
produce un guadagno inaudito, una pienezza folgorante. La morte è rovesciata
come un guanto: l’assunzione in un giubilo cosmico prende il posto
dell’estinzione in un tetro nulla.
C’è bisogno di dire che questo genere di esercizio è di un’austerità tale da
sfidare ogni parallelo orgiastico e che non vi si può ricorrere senza incontrare
rischi decisivi? La suprema licenza vi diventa ascesi suprema e la funzione
genitale, lungi dall’esaurire le forze dell’anima, vi si trova consumata nel fuoco
dello spirito.
All’interno dei misteri antichi e delle religioni primitive, i matrimoni rituali
esprimevano indubbiamente un’esperienza analoga, in cui l’unione sessuale
svolgeva una funzione non solo simbolica ma mistica. La prostituzione sacra
era cosa ben diversa dalla sacralizzazione del piacere e i baccanali
manifestavano così poco uno scatenamento edonista che si concludevano
spesso con la mutilazione e la morte.
Si può cogliere qui, ancora una volta, il controsenso che commette la nostra
epoca quando considera la genitalità un fine e non un mezzo, il sesso come fine
in sé e non come via di passaggio. Si capisce ancor meglio fino a che punto la
potenza del sesso è in realtà la forza incarnata dello spirito, l’energia creatrice
concentrata nel suo luogo d’elezione più immediato: quello della trasmissione
della vita e della riproduzione della specie.
Bisognerebbe fare uno studio sulle avventure della libido e sulle strane
accezioni che questo termine ha finito per assumere nel corso dei secoli. In un
movimento parallelo e di senso inverso a quello che interessava l’erotismo, la
libido è stata promossa, valorizzata, qualificata con valenze positive man mano
che l’erotismo perdeva quota e si identificava con la sfera genitale.
Per gli antichi, la libido era un desiderio violento, sregolato, generalmente
malvisto e associato alle tendenze oscene. Erede di questa accezione
peggiorativa, la morale cristiana ha confuso la libido con il desiderio sessuale in
ciò che ha di deplorevole, con il rischio di confondere il desiderio con la sua
perversione.
II freudismo ha mostrato che la libido così concepita era la fonte dei peggiori
disordini. Ma invece di purificare il desiderio da questa contaminazione
abusiva, si è fatto garante dell’amalgama rivendicando un termine di cui faceva
slittare il significato dal patologico al sano.
Immediatamente la libido si è vista conferire un’inattesa onorabilità: non si
trattava più di guarirne ma di guarirla. Si è coltivata l’idea di una libido malata
che bisognava risanate: equivoco fatale che non ha liberato il desiderio.
Nonostante le apparenze, i solitari della Tebaide non vivevano in un’ambiguità
simile, seppur di segno opposto: se condannavano la funzione genitale e ne
bandivano le manifestazioni, era perché, nella loro situazione, essa era
inaccoglibile. A ragione vedevano in essa il nemico principale, quello che li
attaccava al centro vitale delle loro forze, là dove Dio depone il carico massimo
di deflagrazione ontologica. Il furto di sostanza era patente, lo stravolgimento
di energia si operava senza vergogna: si può ben capire come gli anacoreti vi
abbiano riconosciuto la mano di Satana, il grande predatore dell’opera divina.
Le tentazioni che assalivano Antonio durante le sue innumerevoli notti insonni
non erano l’effetto di una nevrosi ma il marchio di una battaglia in cui erano
impegnate le profonde riserve dell’essere. Antonio non combatteva per
rispettare un codice morale, lottava letteralmente per la propria vita, per non
essere privato di ciò che impediva alla sua esistenza di ricadere nell’entropia di
un mondo perituro.
Ci si è spesso ingannati nel non vedere come questi folli di Dio fossero degli
atleti dello spirito, tesi verso la più elevata realizzazione, la più corposa riuscita,
e non degli allucinati prodotti da una società morbosa. Ma si è commesso un
errore equivalente nello sceglierli come modelli, applicando ad altri stati di vita
ciò che era valido solo per il loro.
Presa alla lettera, la loro testimonianza ha provocato di conseguenza un
disastroso malinteso. Si è fatta astrazione dal loro scopo, si è separato dal suo
contesto il loro disprezzo della carne: in tal modo si è snaturato il senso della
loro lotta. Se ne è ritenuto solo il momento negativo, mentre questo si
giustificava unicamente in una finalità positiva.
Alcuni asceti falsavano essi stessi il proprio sforzo soccombendo a diverse
eresie gnostiche che li portavano a considerare l’universo come cattivo, opera di
un demiurgo malefico. Ma la maggior parte di loro non bestemmiava il Dio
della Bibbia e ripeteva con l’autore dell’inizio della Genesi: “E vide che era cosa
buona”.
Per nulla ostili al matrimonio degli altri, sviluppavano a loro uso una pratica
della rinuncia creatrice, coscienti che i suoi fini non erano temporali ma
escatologici. La loro ascesi non insegnava la decreazione, la disincarnazione
bensì, al contrario, l’assunzione del creato e la trasfigurazione della carne.
Invece di incitare a disperare del corpo, il loro esempio dimostrava che ogni
uomo vi poteva trovare un veicolo per l’eternità.
TUTTO È PNEUMATICO
Primario nell’uomo è lo slancio di un’energia creatrice che, trovando la propria
sorgente in Dio, suscita e rinnova costantemente l’esistenza, all’inesauribile
scopo dell’amore e della lode. La vita chiama la vita: nati da un dono, a nostra
volta doniamo noi stessi. A tutti gli stadi dell’essere e quale che sia lo sbocco
offerto, non esiste altro peccato che il frenare l’oblazione.
L’amore è liberazione nella duplice accezione del termine: si libera una grazia
non trattenendola per sé e ci si libera spezzando delle catene. L’uomo che
imprigiona il dono imprigiona se stesso. Questa è la legge misteriosa che fa del
peccato lo strumento del castigo e del peccatore la vittima della propria colpa.
Una strana giustizia impoverisce colui che rifiuta di essere povero: più
accaparra, più l’accaparratore si trova carente. Al contrario, l’energia trasmessa
si moltiplica: chi apre le mani vede affluire in sé forze insospettate. Più si
spossessa, più la sua ricchezza aumenta.
Da questa fecondità nasce una felicità, una gioia accompagna questa
munificenza, lo stupore è la sanzione dell’abbandono felice. Un’esultanza
solleva, trasporta: l’esistenza diventa un canto, ora mormorato sottovoce, ora
dirompente in una piena gloriosa.
Come non ringraziare per questo perpetuo equilibrio instabile, per questo
straripamento continuo che ci rovescia in una pienezza sempre più ampia?
Rendiamo grazie, letteralmente. Restituiamo il dono ricevuto: in uno scambio
spontaneo rendiamo l’offerta. Ammirabile ambiguità dell’espressione: il
movimento stesso che riporta alla sua origine il dono costituisce la lode. Non
soddisfatta di sgorgare da cuore a cuore, la grazia si fa gratitudine e ritorna al
seno del Padre sotto forma di adorazione.
È di questo che si tratta in tutto l’universo, dagli elettroni fino all’estasi, dalla
santità fino alla copulazione. I modi di esprimersi dell’energia divina sono
diversi, i suoi luoghi di incarnazione non potrebbero essere messi tutti sullo
stesso piano, ma sempre si manifesta questa reversibilità di amore e di lode.
Qualsiasi cosa facciamo o viviamo, qualunque cosa avvenga, non esiste altro: il
mondo è regolato su questa pulsazione. Dalla realtà più cupa alla cosa più
trasparente, da ciò che è più lontano dall’uomo al più intimo della sua sostanza,
tutto accoglie questa luce e vibra su questa onda.
Nulla di ciò che è basso sussiste senza essere parte integrante di questa
sommità. Nell’infimo e nell’abietto è presente questo potere determinante. Dio
non compie nessuna scelta tra ciò che ha creato: ogni cosa ha valore nel rango
che occupa e, in alto o in basso alla scala, riceve la stessa grazia.
Un enorme depauperamento ha relegato lo Spirito ai confini delle stelle o,
quando lo lasciava restare quaggiù, gli ha riconosciuto solo una presenza
allusiva. Estenuata dalla distanza o dal timore, la forza di Dio è sembrata avere
con il mondo unicamente relazioni timide, circospette, diffidenti.
Attenuandosi il fuoco centrale, la creazione si è raffreddata. L’universo
pietrificato è diventato opaco. Là dove c’erano degli esseri e fiorivano iniziative
si sono trovate solo realtà strettamente sottomesse al determinismo. Di una
materia cieca si è fatto il nemico dell’anima e di tutto ciò che ancora conservava
un’anima: l’uomo, finché anche l’uomo non è stato vinto dalla glaciazione.
Diventato a sua volta oggetto, è stato identificato con questa materia ostile che
braccava lo spirito fin nelle sue più recondite trincee.
Bisogna invertire la corrente e reinnestare tutto sull’origine affinché, una volta
che l’energia ha ripreso a circolare, le cose ritrovino un volto. La materia è
generata dallo spirito, il mondo procede da un soffio: tutto è pneumatico.
Fin nella sessualità, compresa la funzione genitale, l’uomo è concepito a
immagine e somiglianza divine. Questo non significa che si debba sessualizzare
Dio e confondere l’orgasmo con la rivelazione, come è tentato di credere
Wilhelm Reich da mistico deviato sui sentieri di Freud. Al contrario, sono il
sesso e la funzione genitale che, non essendo più disprezzati dai puritani né
sfruttati dagli edonisti, devono manifestare la loro natura profonda di figli dello
Spirito.
Non sono di una pasta diversa dal resto del mondo: sono fatti della stessa stoffa
di cui sono intessuti i figli di Dio. Come tutto ciò che esce dalle mani del Padre,
sono rivestiti di un’eminente dignità. Meritano quindi di essere accostati con
una fede umile e rappacificata. La loro cattiva reputazione non è solo un
inganno: è un insulto che raggiunge l’opera creatrice alla sua radice, là dove
l’eterno partorisce il tempo e l’ineffabile si rende visibile.
Verbo di Dio, Gesù non ha disdegnato di nascere da un sesso né di avere un
sesso. Una donna l’ha concepito nel proprio grembo, l’ha portato per nove mesi
e l’ha messo al mondo nel modo proprio di una partoriente. La verginità di
Maria attesta l’origine divina del bambino, non esprime minimamente un
rifiuto del sesso e nemmeno condanna l’attività genitale. Un simile disprezzo
della fecondità e dei mezzi abituali per ottenerla sarebbe d’altronde stato in
contraddizione con la mentalità di Israele e la legge mosaica.
Senza dubbio Maria non ha avuto alcuna relazione con il suo sposo. Pur
tuttavia ha concepito come qualunque altra donna: lungi dall’essere una madre
portatrice, è stata una vera madre, diversamente Gesù non avrebbe potuto
essere suo vero figlio. Quando si è trattato di venire al mondo, Dio ha
imboccato i sentieri che lui stesso aveva tracciato. Non si è vergognato di
chiedere mediante il suo Spirito un dono carnale per prendere carne: era la
condizione per diventare esattamente simile a noi.
Anche se Cristo non ha esercitato funzioni genitali, non ne ha però mai
biasimato l’uso, a condizione che questo si inscrivesse nel disegno del Padre.
Non ha introdotto discriminazione alcuna tra i suoi apostoli e discepoli: sposati
o no, tutti erano ammessi a ricevere e a diffondere la Parola. Non ha mai messo
in guardia contro la frequentazione di qualche donna, avesse anche avuto
cinque mariti come l’infedele samaritana o fosse di scandalo pubblico come la
peccatrice di Magdala. La sua riprovazione si indirizzava contro la volontà di
peccato, non contro il sesso del peccatore: non confondeva la natura spirituale
della colpa con la carne del colpevole.
Analogamente invitava quanti lo ascoltavano a lasciare marito o moglie non per
spezzare le relazioni coniugali, ma per operare un distacco interiore. Non si
trattava di ripudiare una situazione avvilente, ma di ordinare ogni situazione al
suo fine autentico: il regno di Dio.
Non ripeteremo mai a sufficienza che l’incarnazione, lungi dall’essere
un’impresa di rigetto e di rottura, è opera di risanamento e di assoluzione. Gesù
non ha paura di compromettere Dio con la carne, poiché annuncia la salvezza a
ogni carne.
Il Verbo libera la creazione non come un giustiziere che tronca, brucia e
fulmina, ma come un amante che accoglie, solleva e medica. Tutto è prezioso
agli occhi del Figlio, poiché tutto nasce dal Padre. Non c’è nulla quaggiù che
non desti la sua sollecitudine e non chiami in causa la sua compassione.
Il peccato non crea nulla, tanto meno un regno. Esiste solo il regno di Dio, che il
male può pervertire. Questa patologia spirituale provoca depressioni, tumori,
blocchi: impossibile sconfiggerla senza una terapia. Gesù è il terapeuta. Non il
medico dell’anima, come si è detto sovente, bensì il medico dell’anima carnale,
dello spirito incarnato. Agisce al livello più recondito, ma per raggiungere tutte
le manifestazioni dell’essere.
Attraverso l’anima, penetra in corpi stremati cui ridà vigore, in membra distorte
che raddrizza. Mediante lo spirito, rigenera una carne in punto di morte.
Progressivamente, come in una seconda creazione, genera nuovamente tutti gli
uomini e, dal corpo dell’umanità, estende la sua grazia al corpo dell’universo
intero.
È il taumaturgo di un mondo in cui l’energia divina si imbatte in ostacoli,
divaga, si infossa nelle tenebre complici della colpa. È il mediatore che
ristabilisce un amore contrariato, dispiega una tenerezza trattenuta, svela una
luce nascosta. Per lui, con lui e in lui la gioia riprende a diffondersi e la gloria si
alza nuovamente, come alba che si irradia.
L’INFANZIA DEL SESSO
L’erotismo dell’infanzia è un problema nel quale la nostra epoca, così sollecita
alla rimessa in discussione, non ha mancato di introdurre il sospetto, dopo che
generazioni di educatori si erano applicate a falsarne l’approccio.
Negli ultimi secoli si dava per scontato che l’infanzia non avesse sesso, che
rappresentasse un momento della vita in cui queste vergogne non esistevano.
Periodo bianco, che non conosce nulla di ciò che successivamente infervorerà la
carne.
Si sviluppava una mitologia ambigua della purezza, un immaginario basato
sull’immagine-schermo, l’immagine copri-sesso, in cui l’innocenza presente è
garantita dalla rimozione dei mali futuri. Mitologia di adulti che proiettavano
sull’infanzia le loro angosce e scongiuravano retrospettivamente le disgrazie
sopraggiunte, come se la perseveranza nell’errore potesse evitare di generare gli
stessi drammi.
Si badava di preservare i bambini da ogni gesto indecente, da ogni contatto
dubbioso; si insegnava loro che una zona del corpo, limitrofa agli organi
d’escrezione, era sporca; li si educava come cherubini in una battaglia persa in
anticipo perché combattuta alla rovescia, con la schiena voltata verso la realtà
futura.
Il freudismo ha avuto buon gioco nel ricordare alcune verità elementari il cui
significato non sfuggiva ai bambini delle campagne né a quelli di città curiosi
dei comportamenti canini. Ha soprattutto ristabilito l’essere umano nella sua
continuità psicosomatica che ne fa, fin da prima della nascita, un individuo
sessuato, maschile o femminile: è seme di uomo, non seme di angelo. Di
conseguenza si ritrova in lui tutto ciò che costituisce un individuo eroticamente
caratterizzato.
Evidentemente non si tratta, tra sessi, di un’opposizione di natura o di essenza,
ma di una distinzione dialettica in cui ogni sesso si nutre del confronto con
l’altro, in seno a una comunione più intima.
Anziché pensare di mantenere i bambini in una situazione castrata, è bene
abituarli a vivere in modo sempre più franco la loro identità erotica. In questo
campo come in ogni altro, l’importante è diventare ciò che si è.
Giusta in linea di principio, la reazione freudiana non ha però forse commesso
lo stesso errore dell’atteggiamento puritano, l’una e l’altro partecipi della stessa
ossessione? Non si sfugge all’impressione che il freudismo proietti a sua volta
sull’infanzia una situazione adulta. Là dove si rimuoveva e si purgava, esso
toglie le briglie ed esalta. Ma la battaglia non continua forse a svolgersi sopra la
testa dell’infanzia, tra persone adulte che non finiscono mai di regolare i loro
problemi?
Come artisti maldestri che raffigurano i bambini come adulti in scala ridotta, i
freudiani hanno troppo spesso la tendenza a rappresentarli con una sessualità
adulta in miniatura. L’erotismo puerile è quindi visto attraverso lenti
deformanti che, invece di assimilare l’esperienza specifica, esprimono
soprattutto lo sconvolgimento introdotto dal pieno esercizio delle funzioni
genitali.
Se imbocchiamo il famoso ponte degli asini del complesso di Edipo, cosa vi
troviamo? Il desiderio di accoppiarsi con la madre e di sopprimere il padre: una
rivalità tra maschi per il possesso di una femmina. Visione tipicamente
postpuberale e assai estranea ai sentimenti dell’età infantile, a meno di
ricondurre ogni rivalità e ogni gelosia a una competizione d’infrastruttura
genitale.
L’universo infantile conosce indubbiamente una ricerca appassionata
dell’identità e della complementarietà sessuali. Duplice ricerca che ispira al
bambino e alla bambina atteggiamenti incrociati di cui non bisognerebbe
ridurre la complessità.
Per virilizzarsi, il bambino ha bisogno di mutare il padre e, di conseguenza, di
escludere la madre. Ma si virilizza veramente solo in rapporto con la
femminilità, nell’unione con la madre e l’opposizione al padre. Analogamente,
in senso inverso, per la bambina.
È perciò reale che nella famiglia esiste una rete di tensioni e di fusioni, di
captazioni e di rigetti, legata alla differenziazione sessuale. Ma si tratta di
tutt’altro che dell’appagamento di uno spasmo.
Ancor più tipico dell’infanzia che non il complesso di Edipo è il complesso di
Demetra, la dea madre da cui procede ogni creatura, maschio o femmina, e
dalla quale questa si deve liberare. Con la gestazione “in utero” abbiamo a che
fare con una storia concreta, fatta di un passato reale e non di un ipotetico
futuro. Ogni essere umano nasce da una donna, dopo essere stato portato nel
suo grembo per nove mesi. Tale situazione crea legami che interferiscono a
lungo con la fioritura della bipolarità erotica. Come strapparsi allo stato
fusionale prenatale in modo da affermare una sessualità personale?
Contro la madre, il bambino deve liberare i tratti di un’alterità radicale se vuole
assicurare la propria virilità, mentre la bambina deve procurarsi i mezzi per
un’effettiva dissidenza se vuole conquistare la propria femminilità. Per l’uno
come per l’altra, l’ostetrico è evidentemente il padre: è lui che taglia realmente il
cordone ombelicale e sorveglia l’emancipazione reale delle nuove creature. È il
mediatore dell’indispensabile rivolta e, nello stesso tempo, il garante della
differenziazione sessuale. Dove questi manca, femminilità e virilità restano
incerte, per difetto o per eccesso.
In questo senso, piuttosto di parlare, seguendo Freud, di un assassinio del
padre ad opera del figlio, sarebbe meglio evocare l’uccisione della madre da
parte del padre. Sacrificio fecondo che, avendo per attori i coniugi, non
colpevolizza la progenie, al contrario del parricidio freudiano che genera
rimorsi.
La verità del complesso di Edipo - e del suo omologo complesso di Elettra - sta
nel fatto che la prima donna amata da un bambino è la madre, il primo uomo
amato da una bambina è il padre. Questo sentimento si inserisce sì nel contesto
dell’amore filiale con l’atteggiamento di dipendenza che ne deriva, ma non si
confonde con esso, dal momento che si tratta di un amore tra persone di sesso
diverso.
Al contrario dell’amore filiale, che instaura relazioni verticali attraverso le quali
si esprime la gratitudine verso l’origine, quest’altro amore sviluppa con i
genitori dei rapporti orizzontali attraverso i quali si manifesta una ricerca di
coniugalità. Ma la coniugalità del bambino non è quella dell’adulto: può essere
tirannica, captatrice, esclusiva senza per questo mirare, anche solo in modo
implicito, a diventare copulativa.
Non è quanto avviene in alcuni genitori: a questo punto si insinua lo
scompiglio. Non c’è dubbio che alcuni padri e madri frustrati vivono con i loro
figli una sessualità nevrotica, ma questa non è una ragione per imputare ai
secondi i disordini dei primi. Invece di addossare tutto prematuramente su
Elettra o Edipo, perché non si parla di un complesso di Agamennone o di
Giocasta?
UNA PIENEZZA VERGINE
Pur senza essere angelica, l’infanzia non è procreante e risulta perciò estranea
alle funzioni genitali. In questo consiste la sua innocenza: non nel fatto che non
è sessuata, bensì nel fatto che la sua sessualità non è atta alla riproduzione
carnale.
Non si tratta di un rifiuto ma di un’immaturità, di un’ignoranza. L’erotismo
infantile non è inferiore all’erotismo adulto, gli è antecedente, come il
germoglio precede il frutto.
In questo caso si verifica un paradosso troppo spesso misconosciuto: la storia
porta a compimento, ma inaridisce anche. La progressione temporale fa
emergere delle latenze, ma le esaurisce anche. Affermare la priorità della
sorgente non significa negare l’ampiezza dell’estuario.
Nell’erotismo, come in tutto il resto, “il bambino è il padre dell’uomo”, secondo
l’espressione di Wordsworth. La sessualità puerile, non genitale, è maestra della
sessualità adulta, copulativa. Non solo il bambino non è sminuito dal trovarsi al
di qua di una funzione futura, ma è ricco del fatto che questa non è ancora
impiegata. La sua debolezza è una possibilità inscritta, uno slancio
programmato; la sua incapacità è carica di potenza.
Questo è indubbiamente il motivo per cui l’idea di integrità è sempre stata
associata all’idea d’infanzia, come se l’età puerile fosse qualcosa d’intatto,
d’incontaminato, d’incorrotto. Qui risiede il mistero della verginità, stoltamente
definito come un vuoto, una mancanza, un’assenza, mentre invece l’essere
vergine è colui che può tutto.
Questo è il sentimento del bambino. Normalmente si attribuisce la sua
intrepidezza, i suoi sogni insensati, al fatto che non è cosciente di nessuno degli
ostacoli che lo attendono. Non sospetta nulla e nei suoi programmi non prende
in considerazione lo scacco. Ma questa temerarietà non è gratuita: si basa su
un’intima certezza - che la vita intera si ingegnerà a far crollare secondo la quale
l’intero ventaglio delle possibilità è aperto. Non esiste nulla che non possa
accadere, non nel senso della disgrazia che non è conosciuta e rimane
imprevista, ma nel senso delle migliaia di eventualità che si presentano e tra le
quali il bambino si sente libero di scegliere.
La verginità incarna questa sovrabbondanza di potenzialità propria delle
origini: ha la freschezza e la carica di un’alba in cui è racchiusa la totalità degli
sviluppi del giorno.
Non deve essere confusa con uno stato rattrappito, con una cupa contenzione,
con una segregazione rancida, cioè con una situazione marginale da cui il
bambino avrebbe fretta di uscire. La creatura vergine è sì impaziente, ma di
compiere la propria verginità, non di tradirla. Lungi dal cercare di
sbarazzarsene come di un carico ingombrante, si augura di metterla in opera
come un tesoro da scoprire.
Al contrario di una ritenzione avara, l’essere vergine è pura generosità,
espansione infinita, esplosione intensa. Non si accontenta di donarsi senza
risparmio: si dilapida. Così si esprime la grande fecondità panica e cristica che
percorre il cosmo, il soffio creatore e resurrezionale che solleva l’universo, come
il lievito fa fermentare la pasta.
Un abuso linguistico fa sì che si continui a parlare di verginità per gli adulti,
come se il candore resistesse allo scorrere del tempo e all’usura dell’età. Solo il
bambino è vergine, poiché solo lui si colloca al limitare dell’esistenza.
Bisogna inoltre fare attenzione, ancora una volta, a non trasformare il suo
catecumenato in un periodo astratto, sgombro di prove. Alla sua maniera
puerile, il bambino comincia a vivere e quindi a disgregarsi. Anche se il danno è
piccolo, date le immense riserve, tuttavia l’energia è intaccata fin dal primo
soffio.
In questo senso, la verginità esiste solo in Dio: non appena entra nella storia, è
sottomessa non solo al normale processo di compimento entropico, ma alla
contestazione malefica delle forze distruttrici. Così solo Dio può comunicarla: a
livello carnale, è ciò che compie a ogni nuova primavera, a ogni nuova nascita.
È quello che chiamiamo creazione.
Dio compie questo anche sul piano spirituale a ogni conversione, ogni volta che
l’anima, mediante un’intima svolta, oltrepassa il muro del tempo. È quello che
chiamiamo resurrezione: Pasqua non è assolutamente il rilancio di un ciclo
terrestre ma l’apparizione dell’oggi vergine e bello dell’eternità.
Di fronte ai pericoli che corre l’innocenza di Dio presente nel bambino c’è una
forte tentazione di ricorrere al protezionismo, con il suo seguito di inibizioni e
di paure e il suo richiamo a un falso pudore.
Il problema non consiste nel proibire il confronto, ma nell’insegnare a
servirsene. Gli educatori hanno il compito di vigilare sul buon uso della
pienezza. Sono gli amministratori della speranza, coloro ai quali sarà chiesto
conto delle misure prese affinché non vengano sprecate le potenzialità del
bambino né gli venga chiuso l’orizzonte.
Questo capitale che ogni essere possiede ha un dinamismo incontenibile. Spetta
a ciascuno farlo fruttare, cioè renderlo creatore. Gli educatori non devono
impedire il morso dell’evento, bensì agire in modo che questo accada al
momento opportuno, secondo il ritmo delle stagioni e senza pesare sui futuro.
Nulla va nascosto, né tanto meno disonorato. Niente astensioni gravide di
allusioni, niente silenzi ronzanti di rumori. Il cantico delle creature non ha
bisogno di essere purgato: tutto ciò che la natura genera è bello e tutto
testimonia la gloria del Creatore.
Solo il nostro sguardo è cattivo: svaluta le meraviglie di Dio, imbruttisce e
sporca ciò che lo circonda. Con viltà estrema, rimproveriamo alla carne i
cedimenti dello spirito: accusiamo del nostro peccato gli strumenti che noi
usiamo per compierlo.
C’è forse una parte del nostro corpo che non è santa? Cosa abbiamo che non
l’abbiamo ricevuto dall’Amore che muove il sole e le stelle? La purezza non si
protegge con il sospetto e il rigetto, ma con la fiducia e la riconoscenza. Come
ogni dono, la sessualità è una grazia. Con le sue manifestazioni presenti e le sue
implicazioni future, non dovrebbe destare nel bambino altro che una
gratitudine affascinata.
In questo campo come in altri, l’informazione deve rispondere all’attesa
presente nell’adolescente. Non bisogna turbare e avvilire bensì istruire. Più che
di fornire informazioni, si tratta di proporre un atteggiamento che, lungi
dall’escludere la sessualità, l’includa nel regno di Dio.
La scoperta del corpo, l’esplorazione della carne - la sua come quella degli altri è un’avventura che va vissuta senz’altra emozione che un tremore di felicità.
Uno stesso senso del mistero luminoso, una stessa ricerca entusiasta e ingenua
devono accompagnare l’adolescente ovunque proceda, sulle strade del mondo
come sui sentieri della propria persona.
Bisogna incoraggiarlo - ovunque indirizzi lo sguardo - ad avere un occhio
schietto, onesto, libero da paure: lo sguardo istintivo che è attirato dall’ignoto.
La stima e il credito che fanno dell’erotismo un compito limpido sono più forti
delle ossessioni e delle prevenzioni che debilitano.
La società contemporanea offre una sinistra parodia di questa disponibilità: con
il pretesto della liberazione sessuale, alimenta un temibile teatro di ombre che
traumatizza invece di illuminare. I danni nell’adulto sono enormi, ma questi
non fa che raccogliere ciò che ha seminato; il bambino invece non ha colpe in
una situazione che l’aggredisce da ogni parte.
Il suo diritto all’ignoranza è violato, l’attenzione a camminare al suo passo, a
non bruciare le tappe, ad adeguarsi al suo ritmo di crescita è calpestata. La
scoperta amichevole avviene nella brutalità, l’informazione necessaria è
accompagnata da violenza e sorpresa, l’iniziazione progressiva diventa uno
stupro.
La rimozione dei divieti attenua indubbiamente lo choc: non c’è più il contrasto
nato dall’infrazione, l’opposizione tra le tenebre e la luce che alimentava la
società puritana. Eppure rimane un altro squilibrio, legato al miscuglio delle
generazioni. Non c’è nulla da guadagnare a trasmettere ai ragazzi le febbri
dell’esistenza adulta.
Non meno penosa è la banalizzazione provocata dall’ossessione, la nausea
creata dalla congestione, il nonsenso generato dalla sovrabbondanza. I ragazzi
del sex-shop sono tristi perché il futuro non ha più segreti per loro: il sogno si è
crudelmente oggettivato e volgarmente pervertito.
Il meraviglioso incontro tra un uomo e una donna, anche se non è ancora
vissuto dai ragazzi nella sua pienezza carnale, è da loro già conosciuto come
un’impresa volgare: è la fine della distanza così propizia all’incanto, della
novità così generosa in ricchezza, della freschezza così pronta al dono.
L’avventura diventa una storia di natiche, il cuore batte al di sotto
dell’ombelico. Il sesso è appassito prima di giungere al compimento, resta
capace di destare un interesse intenso ma passeggero: è uno specchio per
allodole dove si ritorna costantemente a inabissarsi.
Chi potrà dire fino a che punto l’immaginario di un bambino può essere
deturpato dall’arido spettacolo di una società permissiva? Preso da frenesia,
ognuno vola subito al fine, mentre l’essenziale risiede nel cammino. Si produce
una sorta di appiattimento sul bersaglio che priva il desiderio della sua
profondità.
La sensualità è povera cosa quando separa l’uomo dalle sorgenti della carne.
L’erotismo epidermico, anche se raffinato, si esaurisce in infime voluttà. La
grande felicità nasce dall’anima e dagli spazi interiori che questa percorre. Lo
spirito deve avere un vasto territorio affinché il corpo si illumini.
Un mondo di nudità profanate quale orizzonte può dischiudere al bambino?
Che attrattiva può esercitare su di lui un godimento senza trasparenza, un
innalzamento senza prospettiva? Siamo di fronte a una nuova miseria sessuale:
uno scompiglio che, come una brinata d’aprile, brucia l’adolescenza nel cuore
della fioritura interiore.
L’INIZIAZIONE MANCATA
Se bisogna prestar fede a un folklore inesauribile, la crisi adolescenziale si può
ridurre a una sola domanda: come non essere più vergine? Una volta per gli
uomini l’handicap era superato tramite l’effetto liberatore dell’istituzione
militare: la caserma allargava sotto questo aspetto l’azione più precoce dei
collegi e dei licei.
In un bell’esempio di dinamica di gruppo, una buona fetta della gioventù
maschile veniva resa scaltra dalle cure delle prostitute. Quelli che sfuggivano a
questi accessori del servizio militare erano caldamente incitati dalla pressione
dell’ambiente a compiere il passo in un’altra occasione.
Non si era uomini se non si era adempiuta questa formalità - tenebrosa e ludica
insieme - la cui evocazione destava un fremito salace. Si attestava la propria
virilità solo se, almeno con dei sottintesi, ci si poteva vantare di possedere
questo certificato di cattiva condotta.
Con perfetta illogicità, l’opposto era la regola per le ragazze. Anziché essere
lodata, la perdita della verginità di una ragazza equivaleva a un drammatico
deprezzamento: la donna trovava la sua vergogna proprio dove l’uomo
attingeva la sua fierezza. Quello che veniva raccomandato all’uno era proibito
all’altra, certamente per paura di gravidanze.
La contraccezione chimica ha eliminato questa disparità: ormai la pressione
dell’ambiente si esercita nello stesso senso e incita entrambi i sessi a un identico
affrancamento. Le donne accelerano i tempi, se così si può dire, talmente hanno
fretta di recuperare il ritardo in questo processo di emancipazione: finalmente
possono essere irresponsabili come gli uomini, come loro indifferenti alle
finalità profonde della sessualità, come loro ignoranti delle implicazioni della
dialettica erotica. Il progresso avviene in un analogo equivoco sul senso da dare
alla pubertà: non rigetto di uno stato che mutila, ma accesso a una situazione
che esige uno sguardo nuovo.
Non si potrebbe fare esempio migliore del fenomeno di desacralizzazione di cui
soffre il mondo moderno. In ogni tempo, l’inaugurazione delle funzioni genitali
è stata considerata come un momento privilegiato dell’esistenza umana, il
passaggio a un’altra sponda.
Si compiva un mistero che era importante rendere cosciente: a questo
provvedevano riti severi, a volte terribili. Si trattava di imprimere un marchio
indelebile nello spirito dei giovani, perciò si arrivava fino a imprimerlo nella
loro carne mediante l’isolamento e il digiuno, quando non si faceva ricorso a
dolori fisici.
Veniva effettuata un’autentica iniziazione per sottolineare il carattere
determinante dell’evento: l’adolescente assumeva ormai una nuova funzione
del sacro, ma quest’ultimo in cambio rinnovava il proprio influsso. In un
contesto simile, una profanazione era inconcepibile perché avrebbe condotto il
ribelle a recidersi dalle fonti della vita. Nessuno era candidato al suicidio.
Ebbene, è proprio in uno spirito di profanazione che oggi si verifica la pubertà:
si tratta di rovesciare un tabù, anziché accoglierlo e assumerlo in una
comprensione più profonda, per poterne vivere. Il sacro non è più percepito
come fecondatore e nutritivo, bensì come alienante e castrante. Tiranno geloso,
trattiene invece di dare. In un completo ribaltamento del proprio ruolo,
abortisce anziché sviluppare.
Anche qui si coglie l’effetto di un divino diventato opprimente, non solo
incomprensibile ma ostile. La vita si conquista contro di lui ma, nel contempo,
non si sa più cosa sia vivere. L’iniziazione si fa in modo selvaggio, in rottura
con condizioni aberranti che la rimandavano indefinitamente o che le
impedivano di aver luogo. Una sessualità sottratta è recuperata, la
reintegrazione di una parte nascosta dell’essere è ottenuta mediante il ratto.
Si strappa dalle mani del padrone un bene che teneva sottochiave, gli si estorce
l’uso di una funzione cui vietava di avvicinarsi. Ciononostante non si accede a
un autentico sapere: l’esperienza alla quale si giunge si rivela irrisoria.
Non esiste iniziazione senza iniziatore: mai una scienza o una pratica è stata
comunicata al di fuori di un linguaggio e di un’ascesi. Al mutismo esasperato
degli educatori dimissionari fa eco la fuga in avanti della gioventù, incapace di
assumere la metamorfosi di cui è sede.
Con il miscuglio di intellettualismo e di materialismo che la caratterizza, la
nostra epoca crede di supplire a questa mancanza di iniziazione spirituale con
uno sviluppo dell’iniziazione tecnica. Si associano i trattati teorici agli esercizi
sul campo, in uno sforzo ingenuo dove cogitazione e fornicazione sono le due
mammelle della felicità erotica.
Una sessuologia preventiva insegna i mille e un meandro della libido e ne
individua gli intoppi: itinerario segnalato con frecce per uscire dal labirinto.
L’espandersi dei rapporti prematrimoniali e dei matrimoni di prova offre un
campo di esperienza in cui i brancolamenti non hanno conseguenze e gli
insuccessi possono non essere presi in considerazione.
Nessuna intenzione di prendersi gioco dei professori, se sono disposti a essere
modesti, né di drammatizzare quelle scappatoie che sono le copulazioni
precoci, ma è lecito dubitare che una tecnica di pensiero e di azione possa
rimpiazzare una disposizione d’animo. È a questo livello che il silenzio si
perpetua. Così gli adolescenti rimangono defraudati di ciò che darebbe senso e
coscienza al loro ingresso in una sessualità adulta.
Non potremo ritrovare la comprensione smarrita ritornando alle antiche
iniziazioni: le società contemporanee non sono società primitive. L’importante è
che il mistero ritrovi la propria luminosità, che lo si avverta come complice, che
non lo si viva più come un ostacolo ma come una realtà mediatrice.
Il mutamento che conosce in noi l’energia creatrice nel momento della pubertà
supera oltremisura il quadro della nostra individualità. Si inserisce in una
grande missione feconda e partecipa a un giubilo cosmico il cui fine è
l’incessante genesi dell’Amore.
Attraverso il germogliare dei corpi avviene il germogliare del Paraclito,
all’opera nell’unione degli amanti e nella fioritura seminale. La genitalità
genera la carne, il che significa che è lo strumento dello Spirito: portata da lui, lo
porta, trasformando in pneumatofori l’uomo e la donna uniti nell’amplesso.
Come è necessario far uscire il sacro dalle tenebre e restituirgli il suo chiarore,
così una moralizzazione castrante deve cedere il passo a un’ascesi positiva.
Bisogna che l’enorme forza procreatrice deposta nel sesso non sommerga i suoi
detentori: avendone riconosciuta la natura e misurata la grandezza, devono
diventarne i lucidi servitori.
La differenza tra il servitore e lo schiavo è che il primo acconsente là dove il
secondo subisce: l’uno delibera e sceglie, l’altro abdica. Proporre a qualcuno
una disciplina, incitarlo a farsi carico di se stesso non significa rinchiuderlo a
tradimento in una prigione ancor più tetra perché volontaria. L’ascesi è un’arte
e non una polizia: lungi dall’aver a che fare con il codice civile, instaura regole
identiche a quelle da cui sgorga la bellezza. Non esiste opera senza rigori intimi:
la difficoltà è solo di accettare unicamente gli obblighi che aumentano la vita
anziché distruggerla.
In questa prospettiva è possibile che la nostra epoca lasci il certo per l’incerto
quando insegna ai giovani la licenza piuttosto che la continenza. Non è sicuro
che la miglior propedeutica genitale sia la spudoratezza, anche innocente:
quella cui ci si dedica diligentemente per obbedire all’ideologia in voga.
Le scappatelle dell’istinto in libera uscita sono meno preoccupanti di questa
docilità perché originate da un’imprudenza o da un’esuberanza che richiede il
morso. Ma con cosa si frenerà se il morso è sostituito dallo sperone? Come si
svilupperà l’attenzione e lo stupore se lo spreco è la regola?
L’idea più oscena che ci si possa fare dell’erotismo è quella che lo assimila a
un’igiene. Non copulate sarebbe come non lavarsi. In realtà, l’esercizio genitale
non si riduce al buon funzionamento di un sistema d’escrezione: è un rapporto
umano che mobilita tutte le potenzialità dell’anima.
Quando un uomo e una donna si avvicinano l’uno all’altra e il desiderio
dell’amplesso si fa strada in loro, bisogna che lo trattengano, come si trattiene il
respiro di fronte a un miracolo. Non per rifiutarsi, per barricarsi o per tagliar
corto con la tentazione fuggendo, ma per valutare se ne sono degni. Non è
chiesto loro di voltare le spalle, ma di guardare in faccia l’evento che si prepara,
di tendere l’orecchio alla chiamata che prende forma.
Come risponderanno a questa sollecitazione nascente? Con una frettolosa
menzogna, una falsa parvenza brutale che li farà abbracciare senza cogliere
nulla? Oppure seguiranno tutte le implicazioni del loro turbamento?
Impareranno a osservare questo lento emergere delle radici? Balbetteranno
tutte le lettere di questo alfabeto dell’abisso?
Questa è la sola iniziazione sessuale che meriti di essere vissuta: richiede attori
casti e retti, che resistano alla vertigine dei pedanti. Le circostanze possono fare
in modo che avvenga al di fuori delle benedizioni religiose e civili, ma sarà solo
un’impostura se non ambisce a questa pienezza.
NASCITA DELLA MERAVIGLIA
Troppi sessuologi non percepiscono che la pubertà fisica è il segno di una
pubertà spirituale. Quando se ne accorgono è troppo spesso per trattare lo
psichismo e lo spirito come epifenomeni della trasformazione fisiologica.
Anche qui, bisogna rovesciare l’interpretazione e, riconoscendo valida la
filosofia dello sguardo che posiamo sulle cose, non più considerare come
scontata una visione materialista. La pubertà allora diventa non più un processo
ormonale che ha ripercussioni psicosomatiche, ma un evento ontologico di cui
lo sconvolgimento genitale è l’espressione evidente anche se non fondante.
Proveniente dalle profondità dell’essere, il cambiamento avviene a tutti i livelli,
dalla sorgente originale fino alle manifestazioni più sensibili. Ognuno fa eco
all’altro, come un simbolo, e il genitale si presenta così come la cifra dello
spirito.
L’adolescenza è il tempo della presa di coscienza del sesso, e questo in un senso
molto più ampio di quanto normalmente si creda. Non si tratta soltanto, né
innanzitutto, di un destarsi della funzione riproduttrice e degli organi ad essa
collegati, come se una parte del corpo, fino a quel momento inerte, si mettesse a
vivere.
Ciò che esce dall’ombra è l’insieme della condizione erotica. La bipolarità
sessuale non è più semplicemente vissuta: è afferrata. Tutto un mondo di slanci
oscuri, di legami spontanei, di simpatie confuse che si avvertivano senza capirli,
assume un significato.
Un immenso campo affettivo, in cui l’intelligenza può essere esercitata e la
fantasia e la riflessione hanno libero corso, diventa percettibile. Quelli che erano
bambini assumono ora la loro differenziazione. Invece di essere condotti da un
sesso sconosciuto, lo sperimentano alla luce del sole.
Sotto i loro occhi si dispiega l’incanto dell’animus e dell’anima cari a Jung, così
come il turbamento, l’incertezza. Ognuno contempla nello sguardo dell’altro un
paesaggio inaudito, che lo colma. Si viene a produrre un esaudimento inatteso,
di cui però stava maturando la ricerca.
Com’era possibile ignorare una cosa così desiderata? Quale adeguamento
segreto preparava l’avvento di un’attesa così forte? Si ignorava che per vivere
c’era bisogno di questo compimento. Non si era al corrente dell’esistenza di una
simile offerta di terre vergini.
Da ciò deriva per gli adolescenti uno scontro tra la sorpresa e il consenso, lo
smarrimento e la beatitudine. Minacciati da ciò che li incanta, affrontano una
gioia che li distrugge per rifonderli in gloria.
A volte l’evento si realizza con una tale intensità, con una tale perfezione
immediata da suscitare l’impressione di una particolare elezione: “Eravamo
fatti l’uno per l’altra”, pensano nel loro stupore. Una beata fatalità pesa su di
loro: il colpo di fulmine li sbalordisce di felicità.
Ma la violenza della deflagrazione in alcuni non deve dissimulare lo
sconvolgimento in tutti: l’illuminazione non è un privilegio, anche se molti non
l’ammettono. Uno strano silenzio si somma qui al pudore fisico e lo esalta,
conferendogli tutto il suo spessore.
L’anima tace come il corpo e per la stessa ragione, che non è riducibile a una
pressione sociale. La verecondia affettata nasconde ciò che si è incapaci di
assumere e di cui si ha paura, mentre il pudore vela ciò che riguarda i rapporti
con Dio, nel mistero dell’amore creatore.
Lungi dall’essere ispirati dalla vergogna, il mutismo e l’imbarazzo lo sono
dall’adorazione. Il miracolo richiede uno spazio intimo: se i due adolescenti si
ritirano in disparte, se gli capita addirittura di isolarsi l’uno dall’altra, è perché
sono soggiogati l’uno dall’altra.
La scena del giardino dell’Eden si ripete, con lo stupore e la riconoscenza della
creatura di fronte a questa “carne dalla mia carne” che gli è stata data per un
accrescimento di bellezza. Si instaura una conversazione in cui le parole
salgono alle labbra senza essere articolate, talmente sono impronunciabili, e
inutili, d’altronde, dato che l’altro ha capito.
Si intreccia uno scambio in cui i giovani si parlano come se non ci fossero: sono
assenti dalla propria presenza. E se anche uno è là, parla all’altro in questa
assenza: tutto si svolge al di fuori di loro, passando attraverso loro. È una
questione che non li riguarda, nonostante li trasfiguri.
Si tratta di rendere grazie in due, cioè di diventare una cosa sola affinché nasca
una lode, terzo termine della coppia, nell’abbandono reciproco.
Lo scopo non è la ricostituzione dell’androgino originale nel senso di due metà
che si incastrano per formare nuovamente un tutto, unità chiusa in se stessa.
L’androgino cui tendono è un organismo duplice, a due cuori, la cui finalità
dialettica è di manifestare lo Spirito, in una struttura aperta in cui l’amore non
cessa di avere nuovi sviluppi.
La creatura umana, così com’è determinata dalla sua sessualità, non è costituita
da due parti che si sommano, ma da due poli che si dinamizzano. Non c’è uomo
o donna preso separatamente: virilità e femminilità non esistono in sé, ma in
rapporto con l’altro.
Realtà duale che si ritrova all’interno dell’individuo, uomo-donna o
donna-uomo secondo la nascita: l’unisex sarebbe una mostruosità. Ogni
persona è intimamente una coppia che si esprime nella coppia sociale che le
consente di vivere.
A questo punto non compare nulla di genitale: siamo ben a monte della
copulazione, anche se nulla la contraddice per il futuro. Siamo in piena genesi:
si produce una vasta ondata d’energia, un fantastico ringiovanimento
dell’essere.
È come se avvenisse una nuova partenza: l’essere di prima non è soppresso,
nasce una seconda volta, riparte con una gloria rinnovata. Sgorgato da non si sa
dove, un enorme flusso di sostanza investe i giovani, li riplasma da cima a
fondo.
Si sentono totalmente ricreati, ma sono anche totalmente ricreatori, dispensatori
non meno che beneficiari di questa grazia sovrana. Il potere onnipotente che li
assale conferisce loro ogni potere di assalire, e questo in un clima
indimenticabile di dolcezza, di tenerezza e di umiltà.
La sessualità è un’invenzione divina per incarnare l’amore, per suscitare nel più
profondo della creatura le condizioni per il dono creatore.
Per amare bisogna essere due e non più di due: ci si presta a molti, ci si dona
solo a un altro. Da questi due sorge non un terzo, ma l’autentico uno: quello che
non fa numero perché è l’altro assoluto.
L’altro relativo, il compagno, estrae ogni essere da lui stesso: provocando
l’uscita dall’io, realizza la disapprovazione della persona. Ci si dimentica
nell’altro e ci si dimentica insieme, il che evita l’incrociarsi di due egoismi nella
scorciatoia di un falso spossessamento.
Viene a instaurarsi una nuova condizione in cui si vive nell’altro e grazie
all’altro, senza essergli asservito perché l’altro, a sua volta, rifiuta di vivere in sé
e per sé e, quindi, di asservire. Utilizza il dono non per rafforzarsi, bensì per
donarsi ancor di più. L’offerta nutre l’offerta in una crescente apertura.
Tra i due poli si sviluppa una tensione oblativa, una circolazione di
abbondanza, una corrente di dedizione. I due giovani si insegnano
reciprocamente che non sono nulla e che, confessando questo nulla, accedono
all’essere.
“La vita autentica è altrove - confessa ciascuno dei due - e tu sei questo altrove
in cui trovo la mia origine. Tu sei la mia anima, tu mi fai vivere”. Conosciamo il
linguaggio degli amanti che ogni adolescente balbetta al mattino del mondo,
quando uno sguardo lo affascina.
Si desta in lui la tentazione di gettarsi sulla meraviglia, di impadronirsi della
fonte: a tal punto teme di essere privato di un bene improvvisamente rivelatasi
fondamentale.
Ma sa già - e lo imparerà meglio a proprie spese - che l’incanto non può essere
afferrato, che esiste solamente libero. Il vero possesso, anche e soprattutto
carnale, si realizza solo nell’abbandono. Si posseggono solo i regali, non le
prede.
L’erotismo è il contrario dell’erotismo: ci si sbaglia a opporlo all’agape, quando
invece i due termini sono inscritti l’uno nell’altro. Lungi dall’essere brama e
appagamento, è rinuncia e vuoto o, meglio, è brama della rinuncia e
appagamento nel vuoto.
È un’aspirazione che cresce nella misura in cui si nega, un guadagno che
aumenta man mano che si perde. Desiderio del non-desiderio, lotta per liberarsi
dalla propria tutela: non cerca di dilatare la prigione dell’io, bensì di
distruggerla.
Vi riesce mediante un’inversione di rotta, un decentramento della persona
grazie al quale una coppia di oranti nutrita dallo Spirito si sostituisce alla
coppia di preda che si divora da sola. Si instaura una libertà divina in cui
nessuno dipende più da sé o da chicchessia perché l’unico padrone è il non-sé
dell’Amore.
UNA FIORITURA CREATRICE
Tra i falsi problemi, uno dei più temibili è quello dei fini del matrimonio. Come
tutti sanno, sono due: la procreazione e la fioritura, la piena realizzazione
reciproca. Miriadi di sposi, al seguito di moralisti timidi o perversi, si sono
sforzati di vivere quest’impossibile dicotomia che li lacerava al cuore della loro
essenza.
Si è opposto, subordinato, privilegiato all’infinito, senza rendersi conto che si
separavano due aspetti di uno stesso fenomeno, per poi estenuarsi nel
ricollegarli tra loro. Dove bisognava operare una distinzione e precisare delle
modalità, si è introdotta una frattura che consacrava la difficoltà anziché
ridurla.
Si è spezzata un’esperienza concreta, essenzialmente omogenea, in due entità
astratte che permettevano le sagre più deliranti. Fautori della natalità ed
edonisti si sono dati battaglia, mettendo l’accento ora sulla necessità del
bambino, ora sulla fondatezza del godimento, senza mai arrivare a un’intesa.
Poiché l’unità del fenomeno resisteva a tutte le frammentazioni, era inevitabile
che nessun compromesso avesse reale consistenza e che quindi si oscillasse,
secondo i momenti, da una parte o dall’altra. I fautori della natalità hanno
avuto a lungo la meglio, imponendo il primato, se non addirittura l’esclusiva,
della procreazione sul piacere.
Per costoro, l’attività genitale non aveva altro scopo che assicurare la
trasmissione della vita e il rinnovamento della specie. Qualunque deroga a
questa esigenza poteva essere solo un attentato alla legge naturale e divina,
divagazione fuori delle normali regole, stravolgimento a fini egoisti.
Una volta pienamente rispettato il fine procreativo, alcuni accordavano, per
rispetto della debolezza umana, l’aggiunta del piacere, come un po’ di burro su
una tartina. Ma era scontato che la via regale consisteva nel respingere queste
piccole compensazioni e, attraverso un’ascesi meritoria, nel copulare senza
godere.
Oggi sono gli edonisti ad avere il sopravvento e propongono un discorso
antagonista. Tradendo un passato di cupe ritenzioni e di slanci vessati, hanno
come parola chiave la necessità di realizzarsi. E, in coppia, ci si realizza solo in
gruppi, in tutti i modi possibili, avendo come postulato che la peggior
alienazione è quella di non procurar(si) piacere.
L’attività genitale non ha più altro fine che un godimento a due,
un’incandescenza reciproca, un’irradiazione l’uno tramite l’altra. Può costituire
l’occasione di un concepimento, se succede che una scintilla sprizzi da questo
braciere e, facendosi carne, diventi individualità vivente. Ma questo è solo un
effetto secondario, quello primario resta un mutuo godimento dell’essere.
I fautori della natalità volevano vedere nella coppia unicamente un meccanismo
di riproduzione sociale. Per loro si trattava di moltiplicare gli esseri umani
diffondendo attorno a sé il dono che precede tutti gli altri: quello di nascere.
Nobile funzione, che si identificava all’estremo dovere e faceva degli sposi i
collaboratori di Dio nella realizzazione dell’opera creatrice.
Ma questa concezione non riduceva forse l’atto genitale alla sua più fugace
espressione, che la fecondazione in laboratorio è oggi in grado di assumere? È
quanto pensano gli edonisti che insorgono contro una condotta così
meschinamente utilitarista, in cui l’amore è ridotto a un figliare.
Ai loro occhi non è possibile che gli sposi siano dei semplici strumenti
attraverso i quali passa una corrente da cui non traggono alcun beneficio.
L’amplesso li riguarda in sommo grado: cerca di modellare proprio loro; il
crogiolo che instaura ha per oggetto la loro pienezza.
Se si considera più da vicino l’impresa amorosa, emerge un primo punto
indiscutibile: il suo carattere creatore. È il fondamento della posizione dei
fautori della natalità. Un uomo e una donna che si incontrano hanno qualcosa
da fare insieme, la loro diversità non è vana: li invita a una genesi.
Quale che sia la natura dei loro rapporti e che li estendano o meno all’attività
genitale, questi non possono essere sterili. Un erotismo che non inventa, che
non provoca alcuna germinazione, alcuna infiorescenza, si autodistrugge. Perde
il proprio significato, non suscita più corrente, tranne un fluido spossato che
allaccia amplessi cagionevoli. L’ozio uccide per consunzione, soffocamento,
entropia: è il padre non solo dei vizi, ma del vuoto.
Ecco perché un godimento concepito come pura passività, nuda ripetizione,
totale afflosciamento è aberrante. Fare del piacere un prodotto di consumo
innesca una crescente carestia e un’agonia comune: è autofagia a due. Si
mangiano le proprie forze vive come l’altro le desta e le mette in moto; si
commette il grande peccato: un’oscena copulazione con se stesso al termine
della quale non resta che il disgusto.
Non che il piacere sia da biasimare: lungi dall’essere nefasto, è una grazia
benedetta che, ovunque si manifesta, è il segno della presenza divina. Ma, come
ogni grazia, non appartiene a nessuno e muore quando è imprigionata,
lasciando solo un’illusione.
Nonostante le apparenze, i fautori della natalità acconsentono a un’altra
abdicazione, più sottile, quando nell’amplesso vedono solo la produzione di un
nuovo individuo a partire da due individui precedenti. Visione completamente
esterna e meccanica, dal momento che fa intervenire come agenti solo degli
oggetti.
La creazione non è una fabbricazione in cui si assemblano elementi separati,
estranei l’uno all’altro e che reagiscono passivamente l’uno rispetto all’altro.
Ogni fabbricazione, d’altronde, dipende dall’operazione di un’intelligenza
superiore che, stabilendo dei rapporti, introduce dell’inedito nel déjà-vu.
Il Dio dei fautori della natalità è questa intelligenza che presiede alla
concatenazione genitale in modo da produrre una nuova creatura. Ma non
lascia alcun ruolo ai coniugi, se non quello di essere docili strumenti, schiavi e
non immagini del suo potere genesico.
Se due si incontrano, è per essere tre, ma realizzandosi in questo terzo. Il frutto
immediato dell’amore è di far uscire da sé per vivere nell’altro, e siccome questi
restituisce il dono, nessuno resta semplicemente l’altro, ma l’altro dell’altro.
Nasce così un essere misterioso, totalmente diverso dai partner iniziali eppure
della loro sostanza. Senza di lui ci sarebbe solo un gioco di specchi, una dualità
girevole dai continui riflessi, un lampeggiare sterile. Con lui avviene un balzo
nell’assoluto che, strappando gli amanti alla loro condizione di creature, li
identifica con il Creatore.
Il bambino non è un prodotto d’allevamento, ma la realizzazione letterale
dell’amore dei genitori: è l’incarnazione dello spirito che li ha uniti in una
reciproca uscita da se stessi; il terzo che è sorto dal loro mutuo esodo; il segno
concreto, tangibile, che la promessa è stata mantenuta e che, in risposta alla loro
offerta, l’amore è venuto ad abitare in mezzo a loro.
Hanno talmente preferito l’altro che un altro è nato in una persona che
assomiglia a loro ma che pur tuttavia è altra da loro. Durante tutti gli anni che
saranno loro necessari per condurre il bambino all’età adulta, continueranno in
lui a realizzare l’amore.
Nella scia del concepimento iniziale, il bambino sarà il testimone esigente della
fecondità delle nozze, l’emblema vivificante dello spossessamento coniugale:
misurerà la qualità degli scambi, il perdurare dell’intesa, richiamando
continuamente all’autenticità del dono.
Ma l’amore non genera solo il bambino, genera anche i genitori. Possiamo
addirittura affermare che innanzitutto genera loro: il bambino viene solo in
seguito, come un sigillo indissolubile impresso all’evento.
Con lui emerge un processo inaugurato prima di lui, anche se questo processo
lo implica e sfocia normalmente nella sua esistenza. È il motivo per cui ci
possono essere unioni in cui il bambino non compare e che ciononostante sono
feconde: a loro basta essere unioni d’amore.
La logica dell’amore, come la manifesta la coppia, è quella di operare un
rivolgimento dell’individuo, di suscitare una conversione della persona. Non
appena questo movimento si delinea, l’amore è là e gli amanti, nel crogiolo
dell’oblazione, hanno accesso a una nuova nascita.
Qui sta il vero senso di quella che si chiama la pienezza della realizzazione
degli sposi. Siamo ben lontani sia dal premio alla riproduzione, osso gettato ai
copulatori generosi, che dall’eretismo sensuale coltivato dai sessuologi.
Il godimento non è più una consumazione ma un giubilo, non si tratta più di un
ristagno ma di un trasporto, di un’estasi. Si produce un innalzamento, legato
alla dinamizzazione dell’essere; si fa strada una pienezza che scioglie tutti i
crampi.
Una volta che la creatura si è aperta, donata e, per ciò stesso, è stata investita
della capacità di creare, il resto è contingente, lasciato alla libera scelta della
coppia: avere o meno dei figli non è più discriminante perché l’amore è sempre
prolifico.
IL CANTO NUZIALE
Come la procreazione prosegue nella crescita e nell’educazione dei figli, così la
realizzazione reciproca degli sposi continua altrove che a letto, nelle mille
circostanze della vita quotidiana.
Demistificando ancora una volta l’ossessione genitale della nostra epoca,
bisogna arrivare a dire quanto la copulazione rappresenti un momento
indubbiamente intenso, ma fugace, della sessualità della coppia. L’essenziale
non sta in quel breve istante di congiunzione unificante, per quanto assortito
delle più esperte carezze, ma nella pratica altrimenti onerosa dell’esistenza a
due.
Qui ha luogo l’amplesso più temibile, l’abbraccio più tenero e più ribelle.
Impossibile evitarlo o scegliere tra i suoi incanti e le sue miserie: bisogna
prendere tutto e accettare di essere presi interamente, in un confronto ancor più
radicale perché insidioso e incessante.
L’aspetto cruciale del matrimonio consiste in questo adeguamento della virilità
alla femminilità per ottenere che tra i due passi la corrente creatrice. Non sono
solo dei caratteri che entrano in contatto, come quando due individui decidono
di associare le proprie vite: sono le due specie che formano l’umanità, i due
partner la cui unione costituisce la nostra razza.
Due modi di essere si richiamano e si contrappongono, si coniugano e si
sfidano, irriducibili l’uno quanto l’altro, anche se completamente dipendenti
l’uno dall’altro. Si viene a creare un dialogo conflittuale in cui l’uomo e la
donna cercano la comunione nella differenza, l’accordo nella lotta. Battaglia
d’amore in cui l’esperienza del sesso contrapposto porta a trascendere il proprio
sesso e a scoprire la novità assoluta.
È quindi ingenuo credere che sia sufficiente andare d’accordo nell’orgasmo per
andare d’accordo come coppia. Le due cose sono evidentemente legate, ma non
nel senso che ci immaginiamo normalmente, come se un accostamento
occasionale potesse determinare l’unione di due esistenze.
L’intesa genitale manifesta sì un’intesa più profonda, ma perché ne è il riflesso,
la conseguenza, non la causa: se c’è matrimonio tra i corpi, significa che c’è
complicità tra i cuori, connivenza tra le intime sessualità.
La chiave dell’armonia non sta nella riuscita della copulazione, bensì nella
fioritura della nuzialità delle anime. Quando la tensione tra l’uomo e la donna
trova la propria via di uscita e quindi il proprio equilibrio, è allora che
l’orgasmo è un successo, non viceversa.
L’erotismo si rivela allora come un compito infinitamente più vasto e diffuso
della messa in opera periodica di rapporti genitali. Non interviene solo, come
un temporale che si gonfia, nella calma piatta di un paesaggio in cui il desiderio
sarebbe assente. Non è una febbre che si infiamma, senza tardare a localizzarsi,
per poi esplodere in una pioggia torrenziale da cui si esce estenuati ed estasiati.
Non è neanche una sete in agguato, un tumulto che cova, un’attesa che si
esaspera senza potersi saziare.
L’erotismo non è un fenomeno particolare, orientato verso un’intenzione
precisa al di fuori della quale non avrebbe più ragione di esistere. È costitutivo
della coppia: la anima a ogni istante, determinando il suo più o meno elevato
grado d’esistenza.
Chi potrà descrivere l’emozione segreta dei mille e un gioco dell’animus e
dell’anima nel succedersi dei giorni? Questi giochi non sono sempre gratificanti:
possono essere crudeli, quando mettono in causa l’autonomia di ciascuno o il
suo sentimento di superiorità. Sono devastanti, quando virilità e femminilità
pretendono di soggiogarsi reciprocamente, come se ci fosse posto solo per un
sesso. Provocano l’odio dell’altro, il rigetto di chi incrina l’uguale e resiste al
simile; spezzano la coppia in due entità chiuse, inconciliabili, che credono di
essere autosufficienti mentre invece si autodistruggono. I partner diventano
nemici in un rifiuto congiunto di morire che li uccide, incapaci come sono di
offrirsi. Ma le due metà si richiamano: non possono fare a meno l’una dell’altra.
Nel giro di poco tempo riannodano la loro alleanza o, se erano giunte fino alla
rottura, ricreano con un nuovo partner le condizioni per una dialettica analoga.
Infatti, non è bene che l’essere umano sia solo, dice la Bibbia: è una creatura
duale, che respira unicamente nella risposta, per scambio di respiri.
Fin dai primi capitoli della Genesi si costituisce una società formalmente
erotica, in cui i sessi non sono neutri. Eppure non si tratta di fini procreatori:
questi sono inclusi, ma verranno solo in seguito.
Quando Dio crea l’uomo e la donna, non è semplicemente per rompere una
solitudine o promuovere la moltiplicazione della specie. E innanzitutto perché
siano due e perché così venga spezzato all’origine un autentico autismo
ontologico.
Per amare ed essere amati bisogna essere in due. Nasce allora il prodigioso
epitalamio tra l’animus e l’anima. Umile canto, sovente mormorato a voce così
bassa che non gli si presta attenzione o non lo si sente. Ma c’è, e nutre il silenzio.
Fatto di attenzioni spontanee, di sguardi inavvertiti, di mute oblazioni, tesse tra
i membri della coppia una rete di grazie; appronta una china su cui si effettua il
lento passaggio - la Pasqua - dell’uno verso l’altro e dell’uno tramite l’altro
verso Dio.
Ciascuno si trova dimenticandosi, si libera donandosi: mediante un esodo
definitivo, ognuno accede all’interiorità ultima. L’uomo non diventa donna, né
la donna uomo, ma entrambi diventano, grazie al ministero di ciascuno, altro
da ciò che sono: diventano Dio.
Così, l’uno agli occhi dell’altra assume una straordinaria bellezza: è la faccia
nascosta del mistero erotico, l’incandescenza segreta che sale al loro volto e li
incendia di limpidezza perfetta.
Nessuno scorge questa chiarezza, tranne gli amanti: è già tanto se quelli che
partecipano alla loro gioia la intuiscono. Dalla banalità quotidiana nasce uno
splendore estremo, folgorante e dolce, che lo sguardo riesce a esprimere.
La carne non conosce unione più alta: in un certo senso va al di là dell’unione
genitale. Al contrario di quest’ultima, non abbatte nulla, non paralizza, non
esaurisce: fulmina nella pace.
Alcuni matrimoni non sono genitali senza per questo essere illusori o mistici:
basta ricordare quelle coppie molto reali che vedono uniti sotto lo stesso tetto o
in case vicine padre e figlia, madre e figlio, fratello e sorella, amico e amica. Una
parte di queste rappresenta indubbiamente delle convivenze aberranti, nate da
una rimozione comune o da un’oppressione unilaterale. Ma non dobbiamo
classificarle tutte come nevrotiche, affibbiando loro automaticamente oscuri
retroscena. Ne esistono di innocenti e di sane, sovente nate da un intrecciarsi di
circostanze fortuite, ma in cui l’uomo e la donna esprimono una scelta e in cui
le sessualità si armonizzano per un maggior benessere reciproco.
Quante coppie percorrono così l’esistenza senza mai conoscere altro legame che
quello affettivo! Sono forse meno unite degli sposi ordinari? Solo un giudizio
grossolano può pensarlo: queste nozze singolari non sono le meno feconde.
IL SESSO IN SOLITUDINE
La situazione del monaco è analoga e nel contempo più ardua: neanche lui ha
rapporti genitali, ma oltre a questo deve vivere al di fuori della coppia.
Come indica l’etimologia (mónos), il monaco è solo, non si sdoppia, non ha
secondo. Non che la società gli ripugni: nell’abitazione come nel lavoro, gli
capita spesso di essere in gruppo. Ma sul piano dell’esistenza profonda non
soffre alcuna condivisione: è fondamentalmente uno.
Isolato o meno, basta a se stesso. Senza legami, dipende umanamente solo da se
stesso. A immagine del Dio unico, trionfa su questo politeismo intimo che
smembra la persona e in cui l’anima rischia di perdersi.
Non per questo è asessuato. Alcuni ritengono tuttavia che potrebbe aggirare
questa sessualità al punto di esserne esente. Ritroviamo qui lo stesso sogno
manicheo nutrito per il bambino, lo stesso rifiuto della carne e dell’eros di cui si
accredita abusivamente l’infanzia.
Questo equivoco si esprime d’altronde in una formula il cui uso plurisecolare
impedisce di coglierne l’ambiguità: quella della verginità consacrata. Secondo
alcuni, ci sarebbe all’inizio dell’esistenza uno stato non sessuato che sarebbe
possibile conservare.
I monaci si distinguerebbero in questo compito di salvaguardia, stabilendo un
ponte tra il bambino e l’angelo e trovandovi addirittura la propria salvezza.
Come se la sacralizzazione avesse lo stesso effetto del ghiaccio e permettesse di
conservare al riparo dal secolo, in un frigorifero ascetico, un’innocenza
altrimenti votata alla corruzione!
Sono fantasmi pericolosi: basati sull’astensione e non sull’assunzione, lasciano
intatto il problema anziché risolverlo. Abbiamo visto che il bambino, pur non
avendo una vita genitale, ha tuttavia una sessualità attiva e feconda,
assolutamente innocente. Anche il monaco ha un sesso: un sesso adulto, atto a
procreare, il che lo rende già molto diverso dal sesso puerile.
Non solo il monaco non è vergine nel senso di antegenitale, di immaturo, di
individuo dalla sessualità non compiuta. Ma non lo è neanche nel senso
ontologico. Che abbia copulato o meno, ha vissuto, si è consumato, ha
conosciuto le dispersioni e gli avvizzimenti. Non è più intatto: il suo vaso si
svuota e i tre voti che emette non sono in grado di arrestarne le perdite.
Il problema per lui non è di avere o meno un sesso, bensì di accettare o non
accettare di viverlo. In ogni modo lo vivrà, dal momento che ce l’ha. È meglio
che questo avvenga in piena e umile coscienza piuttosto che controvoglia o a
controsenso: se Dio l’ha voluto uomo o donna, non è a mo’ di castigo ma di
grazia.
In seno alla sua unicità, come esperimenterà la dualità erotica mediante la quale
si opera il superamento di sé nell’altro? In che modo la sua virilità incontrerà
una femminilità - o la sua femminilità una virilità - che gli permetta di
espandersi senza esporsi a trasgressioni catastrofiche?
Si dice che Dio non ha sesso. Sarebbe più giusto dire che li ha entrambi e li
trascende. Nel corso dei secoli, diversi culti hanno cercato di tradurre questa
situazione nella forma di una coppia divina spesso incestuosa: modo di
esprimere l’unità di natura tra i membri. In altri tempi l’elemento femminile ha
avuto la meglio: pare sia stato il caso nella preistoria, tanto la donna appariva
allora come l’unica genitrice.
Grazie al principio mascolino, la trascendenza divina si è in seguito liberata
dalla morsa delle dee-madri che si identificavano troppo facilmente con la
natura: JHWH ha trionfato su Astarte, Dio è entrato nell’ordine del maschile. La
sua virilità ha fatto indietreggiare le mistiche di annientamento e di fusione. Ma
è sorto il pericolo di una riduzione dell’ Increato ad altre categorie immanenti,
questa volta ostili alla donna.
Dobbiamo tener presente questa storia sessuale di Dio se vogliamo capire
pienamente il mistero di Gesù. Perché l’Onniamante ha scelto di incarnarsi in
un uomo anziché in una donna? Evidentemente non per sottolineare una
qualsivoglia superiorità: l’uomo e la donna si equivalgono, ma non hanno lo
stesso senso.
Se l’Amore si fosse manifestato attraverso una donna, avremmo assistito a un
ritorno in forze dei culti primitivi. Si sarebbe verificata una confusione più forte
che mai tra un amore di assorbimento e un amore di oblazione, la trascendenza
divina avrebbe regredito fino a trovarsi inghiottita nel seno delle dee-madri.
Bisognava che Gesù fosse uomo e non donna perché Dio fosse Dio e non
l’insieme del cosmo.
In questa situazione, la monaca ha un vantaggio sul monaco: una via diretta la
conduce alle nozze mistiche con Cristo. Di fronte a un Dio-uomo, le è sufficiente
essere docile al proprio sesso per prendere spontaneamente Gesù come sposo.
Le anime buone dei freudiani sbaglierebbero a rallegrarsene, così come le anime
buone dei giansenisti a spaventarsene. Non si tratta di una genitalità velata se,
nei casi morbosi, può trattarsi di una sessualità deviata. L’amante di Dio lo è
con tutto il proprio essere, quindi con tutta la propria carne, ma non nel modo
ordinario.
Non si osserva in lei, devoto alambicco, una dubbia trasformazione di desideri
prosaici, rivincita della libido o astuzia infernale. È invece l’espressione ultima
dell’eros che emerge, la manifestazione più chiara di questa genesi ontologica
di cui la procreazione fisica è solo il segno.
Il monaco effettua una deviazione: per raggiungere Gesù, passa tramite Maria.
La Madre lo dona al Figlio: non è fondamentalmente mediatrice? In lei il
femminile non arresta lo slancio religioso per riassorbirlo nella matrice: gli dà il
cambio e lo istrada.
Unita alla maternità, la verginità toglie a Maria ogni carattere genitale senza per
questo farne una creatura asessuata. Anche qui sono possibili sregolatezze, ma
non sono il fondamento di un’erotica mariale che restituisce al monaco la sua
bipolarità.
Non è un caso che il monachesimo e la mariologia si siano sviluppati presso i
cattolici e gli ortodossi, mentre i protestanti li trascurano: il monaco e Maria
sono legati. Paradossalmente, l’abbandono del mónos da parte della Riforma ha
provocato un indebolimento del femminile.
Nei confronti della chiesa, il privilegio erotico si rovescia ed è il monaco che,
grazie al suo sesso, beneficia di un accesso facilitato. La chiesa è donna e,
d’altronde, la tradizione l’assimila a Maria. Come lei, non è forse la sposa
perfetta che, mediante lo Spirito, genera Cristo?
Sono senza numero i monaci che, nello stile dell’amor cortese, si sono fatti suoi
servitori. Il culto della Madonna e delle chiese che le sono dedicate conserva la
traccia di questo modo di procedere che assimila a una creatura carnale
l’edificio di pietra in cui ha luogo l’assemblea dei credenti.
Simili ai monaci per il celibato, i presbiteri cattolici hanno portato all’estremo
questa esaltazione della chiesa, con la quale consumano delle autentiche nozze.
Poiché i loro ministri sono sposati, ortodossi e protestanti offrono
un’ecclesiologia di minor rilievo in quanto meno sessuata.
Sarebbe opportuno non dimenticare questo aspettò quando si affronta il
problema del celibato dei presbiteri. Si potrebbero forse valutare meglio le
conseguenze di un’identificazione troppo spinta del sacerdozio con la vita
monastica nella regolazione interna della comunità cristiana.
Ma questo non significa che la chiesa possa essere oggetto di amore solo da
parte di un uomo. Anche le donne le manifestano una grande dilezione: non è
forse il corpo di Cristo? Il Salvatore non ha forse costituito ciascuno dei suoi
membri come un sacramento della sua presenza, in modo tale che quello che si
fa a uno di loro è a Lui che lo si fa?
Quelle che amano Gesù vedono così il volto dell’Amato nel più piccolo dei
fedeli, soprattutto se si tratta di una persona povera o malata, ignorante o
abbandonata. Ospedaliere o educatrici, esse hanno a cuore di essere per
ciascuno una sposa premurosa. Le claustrali sono le più missionarie perché dal
fondo della loro cella al
largano al mondo intero l’amplesso delle loro braccia crocifisse. Attive o
contemplative, attingono nel loro rapporto coniugale con Cristo la forza di
ridursi a nulla per risorgere in Lui.
IL VOLTO INTERIORE DELL’EROTISMO
La rappresentazione di Dio al maschile e la sua incarnazione nell’uomo Gesù
hanno una conseguenza più radicale che finisce per collocare monaci e
monache sullo stesso piano: allinea su di loro l’insieme degli esseri umani di cui
il mónos, creatura una e senza divisioni, diventa allora l’immagine.
Se la virilità è segno di trascendenza e la femminilità simbolo di immanenza, chi
può negare che agli occhi di Dio ogni essere umano è femminile? Sul piano
mistico si viene a formare un’altra coppia: Dio e la sua creatura.
Il maschile vi rappresenta l’origine, l’iniziativa, la chiamata, mentre il femminile
vi manifesta l’attesa, l’accoglienza, la risposta. L’uno è interamente offerto,
l’altro è interamente restituito, senza riserva alcuna nello scambio.
Siamo talmente abituati a rapporti di potere che traduciamo immediatamente
tutto questo in termini di alienazione. Dimentichiamo che, nel senso
etimologico, l’autorità divina esprime semplicemente il fatto che Dio è il nostro
autore, che ci genera e ci offre a noi stessi.
L’autorità della trascendenza è questa fecondità eterna e gratuita mediante la
quale l’immanenza è creata. Dio non grava affatto sulla sua creazione: lungi dal
costringerla o dal privarla, la introduce e la sostiene nell’essere. Fa ancor di più
nei confronti degli umani quando, gratificandoli della libertà, per così dire, si
demoltiplica in essi. Non solo li fa esistere ma, accordando loro il potere del
rifiuto, conferisce loro la sua capacità di offerta.
La storia del mondo si risolve allora in una prodigiosa avventura in cui si
assiste ai tormenti e alle riconciliazioni di due amanti: Dio e il suo popolo. È il
grido dei profeti che, da Osea a Isaia, proclamano l’infedeltà della creatura
adultera e il desiderio che ha Dio di rifarne una sposa senza macchia. È l’inno
del Cantico dei Cantici in cui l’amante cerca l’Amato ovunque, in un gioco in
cui l’assenza conduce all’amplesso. È l’evangelo di Gesù che paragona il Regno
a delle nozze, mentre san Paolo vede nell’unione degli sposi quella tra Cristo e
la chiesa.
Grazie ai sufi, nemmeno la rigorosa trascendenza dell’Islam ignora il
matrimonio mistico. La stessa India esprime superbamente l’amore di Krishna
per le gopi, mitiche pastorelle che egli seduce.
Al contrario, coniugare Dio al femminile fa correre un doppio rischio di cui
abbiamo numerosi esempi, in occidente come in oriente, nelle religioni
misteriche come nell’induismo. Il pericolo più immediato è quello del
matrimonio con se stessi: il microcosmo sposa il macrocosmo, ma non si esce
dall’immanenza. La natura umana, incontrando la natura cosmica, produce
un’unione di simili per sua essenza infeconda in quanto incapace di generare
l’altro.
Il secondo pericolo esprime una deviazione più sottile: di fronte all’immanenza
incarnata nel femminile, la creatura umana si assimila al maschile e quindi alla
trascendenza. Questa volta c’è autentico matrimonio, dato che i sessi sono
diversi, ma i ruoli sono invertiti, originando così un immenso orgoglio.
Considerando Dio come donna, il mistico - uomo o donna - si considera allora
come Dio.
Questa perversione contiene tuttavia una verità: come sempre, il male è
un’alterazione del bene, l’errore una deviazione dell’amore. Il diavolo non crea
ma corrompe. Se in rapporto alla trascendenza l’essere umano è immanenza
femminile, in rapporto all’immanenza è trascendenza virile. La sua duplice
natura è qui, in questa condizione di creatura e di creatore, raffigurata dalla sua
dualità erotica.
Di fronte a Dio non è nulla e riceve tutto: la vita, il movimento e l’essere. Ma
riceve anche di essere figlio di Dio, e questo, di fronte alla creazione, lo
provvede di una trascendenza adottiva. È quello che giustifica il suo ruolo di
demiurgo e fonda la sua dignità di vicario cosmico. In questo senso - uomo o
donna - è uomo e non donna: nei suoi rapporti con l’universo attinge alla
mascolinità divina.
Ogni compito riveste immediatamente un carattere nuziale: non è più il luogo
della separazione e dell’esilio, bensì quello dell’incontro. Il lavoro consuma
l’unione dell’essere umano con la natura e, nei suoi momenti migliori, procura
anche una gioia genesica.
Anche la scienza non ha altro oggetto che questo imene: lungi dall’essere brama
e curiosità, è umiltà creatrice. Con essa, la conoscenza ritrova il suo antico
significato biblico, di un erotismo così forte da essere genitale.
Così sboccia il volto interiore dell’erotismo. L’integrità del mónos si compie in
un’intima dualità che, riunendo l’animus e l’anima, ricostituisce l’androgino.
L’essere umano non ha più bisogno di un partner per realizzare, in
partecipazione con il proprio sesso, il sesso antagonista: è di volta in volta
virilità e femminilità, senza dominazione né subordinazione, in un’alternanza
che stabilisce una perfetta uguaglianza.
Orientato verso la procreazione fisica, l’erotismo genitale non ha più senso e
cade in disuso. Altre modalità intervengono affinché siano svolte altre funzioni,
dal momento che la sessualità ha sempre come scopo di promuovere una
genesi.
Ci si può spingere oltre e vedere in questa dualità dell’anima il segreto del suo
sviluppo, il motore della sua esistenza. Dio la crea per mezzo di questo
connubio: è grazie a questa disposizione che funziona, è in virtù del fatto di
essere coppia che respira.
L’animus e l’anima sono gli sposi che si annullano nell’unione affinché dal loro
abbandono reciproco nasca una vita nuova. L’anima sorge da questa alterità in
virtù della quale essa si ama non nel senso che l’uno ama ciò che è identico,
bensì che l’uno ama l’altro. Rovesciando l’assioma, si tratta allora di amarsi
come si ama il prossimo, senza interesse proprio.
L’animus e l’anima non hanno tra loro rapporti di fusione, bensì di
abnegazione. Questo reciproco spossessamento di sé grazie al ministero
dell’altro produce lo spirito, a immagine e somiglianza dello Spirito santo.
Simili balbettii non possono esprimere il nocciolo autentico del mistero, tuttavia
permettono di intravedere, anche se in modo oscuro, ciò che sarà una sessualità
escatologica di cui il monaco è la figura.
I cristiani che confondono sessualità e genitalità sono alquanto imbarazzati
quando si immaginano la fine dei tempi: sanno che risusciteremo come siamo
stati creati, in una carne gloriosa che assumerà la nostra carne attuale, liberata
dal peccato. Ma che ne faremo di una dualità erotica che non avrà più ragione
di esistere se il suo unico ruolo era quello di assicurare la propagazione della
specie? Resteremo sessuati come se non lo fossimo più, conservando le tracce di
una condizione temporale scomparsa per sempre? Oppure, al contrario, la
parusia sarà un orgasmo eterno, dilatante all’infinito la piena realizzazione
coniugale?
Queste fantasie svaniscono o, meglio, si dissipa quanto avevano di aberrante, se
la sessualità non è più ridotta alle sue manifestazioni genitali. Il carnale ritrova
la propria funzione di sacramento dello spirituale, di linguaggio percepibile che
esprime le realtà divine.
Gli amplessi terreni non sono un inganno, ma hanno solo un lontano rapporto
con gli abbracci del cielo da cui traggono il loro splendore. La gioia di essere e
di creare l’essere, gioia paradisiaca, supera in tutte le direzioni la brevità dei
nostri amori terreni. È di un altro ordine, il che non significa che sia estranea od
ostile, ma che si situa alla radice. Noi vi abbiamo accesso fin d’ora e l’erotismo
ne è il servitore profondo, se lo sappiamo liberare dalle sue ossessioni.
ANTOLOGIA
Per quanti giudicano sorprendente o indecente, più ancora che l’espressione, il pensiero formulato nel saggio appena
letto, ci è parso interessante aggiungere alcuni testi provenienti dalla grande tradizione cristiana, sia orientale che
occidentale, dai primi secoli ai nostri giorni: parole autoritative come quelle di padri della chiesa, papi, vescovi, o
parole di asceti, mistici, semplici cristiani nate dalla loro profonda esperienza di Dio e dell’uomo e mai sconfessate
dalla chiesa.
GREGORIO DI NISSA
(vescovo, IV secolo)
La natura umana non può esprimere la sovrabbondanza dell’amore divino. Perciò come suo
simbolo si prende ciò che c’è di più violento nelle passioni che agiscono in noi, voglio dire la
passione d’amore, affinché impariamo così che chi fissa lo sguardo sulla bellezza della natura
divina deve esserne tanto innamorato quanto lo è il corpo di ciò che gli è affine, tramutando la
passione in libera gioia, di modo che la nostra anima arda eroticamente in noi della sola fiamma
dello Spirito.
(Omelie sul Cantico dei Cantici 1, PG 44,777)
FILOSSENO DI MABBUG
(vescovo siriaco, VI secolo)
Non far partecipe del tuo corpo il tuo desiderio; non lasciare che il tuo piacere naturale lo
dissolva e che la gioia e il diletto che sono in te scompaiano, ma trasportali dal corpo all’anima,
come da una casa all’altra. Come si tirano fuori gli oggetti di gran valore da una casa che si sa
sul punto di crollare, e li si porta in un’altra, nuova e solida, nella quale si ha fiducia perché non
cadrà né verrà saccheggiata, così prendi tutte le passioni, che stanno presso il corpo e che sono
note essere un’occasione di bene, e falle entrare e collocale nella dimora della tua anima, in
quella casa che non cadrà, non si dissolverà e non andrà in corruzione; togli il calore dal corpo e
trasponilo nell’anima, prendi la sua forza e uniscila alla forza dell’anima, cambia tutto quanto
gli appartiene in bene dell’anima.
Dedicati a questo soprattutto nel tempo della giovinezza, quando le passioni cominciano a
emergere: tu infatti non le hai né nell’infanzia né nella vecchiaia, e ciò che non esiste, come ti
può essere facile prenderlo e darlo agli altri? Il tempo delle passioni è il tempo della giovinezza,
cioè anche il tempo della forza; a ragione la forza si manifesta con le passioni, affinché tu
combatta per mezzo di essa, liberi il tuo bene dal tuo corpo e trasporti e conduca la tua
ricchezza da un posto all’altro. Colui che combatte e vince le sue brame fin dalla giovinezza è
capace di diventare forte nell’anima, e solo questi può diventare migliore con tutta la crescita
del bene, perché può donare e ricevere. La vecchiaia è svuotata di entrambe e l’infanzia non è
ancora giunta ad alcuna di esse.
Come il desiderio è collocato naturalmente nel corpo, così il desiderio delle cose eccellenti è
posto naturalmente nell’anima: quando l’anima desidera secondo la sua natura, il suo desiderio
è nelle cose spirituali; quando ha un commercio legittimo, commercia con lo Spirito e mediante
questo commercio genera figli sani e puri. E come il commercio del corpo produce piacere nelle
membra e mette in moto nel corpo un calore corruttibile, parimenti quando l’anima ha
commercio con lo Spirito riceve un piacere spirituale, acquisisce il calore a fiotti e a torrenti per
combattere il male che è l’avversario del suo piacere; e quando l’anima ha gustato la dolcezza
che le deriva dal commercio con lo Spirito, il desiderio del matrimonio è completamente morto
in lei.
Ciò che è stato stabilito naturalmente dentro di noi, sia nell’anima che nel corpo, è stato messo
in noi per il servizio del bene; e poiché l’anima può desiderare Dio e il corpo essere mosso dal
desiderio della sua natura, è con ragione che il desiderio dell’anima è stato messo accanto al
desiderio del corpo affinché, mescolati l’uno nell’altro, producano un’unica azione di desiderio
puro e santo. Le cause che muovono il desiderio dell’anima provengono dall’alto, quelle del
corpo dal basso, da dove è anche la natura del corpo; tuttavia quest’ultimo non è stato creato
per desiderare le cose del basso, bensì per desiderare le cose spirituali in unione con l’anima.
Infatti, nonostante sia stato formato di terra e costituito di mescolanze varie, non è per la terra
che è stato formato - cioè per essere denominato o chiamato il corpo della terra - ma per
obbedire all’anima che è stata creata dal Creatore, cioè per compiere le sue volontà in ogni cosa
e per esserle associato in tutti i beni. Perciò siamo tenuti a pensare che le azioni del nostro corpo
non provengono da dove proviene lui, e a considerare che lo scopo delle sue opere si trova nella
finalità per la quale è fatto: è creato per lo Spirito e non per la terra, è ordinato a essere spirituale
e non corruttibile.
(Omelia XIII, in Homélies, a cura di E. Lemoine, Paris 1956, pp. 495-496, 497, 503)
GIOVANNI CLIMACO
(monaco del Sinai, VII secolo)
Vidi persone pazzamente travolte da impuri amori da essi trar motivo di penitenza, cioè
passare dall’esperienza erotica a quella dell’amore del Signore che trascende ogni timore, da
quello spronate a un insaziabile ardore di divina carità. Per questo il Signore disse della
peccatrice tornata a saggezza non che aveva molto temuto ma che aveva molto amato, e perciò
era riuscita a scacciare un amore con un altro amore.
Se la presenza di una persona che ci è cara opera un cambiamento sensibile nel nostro spirito e
nel nostro corpo e ci riempie di una gioia e di un’allegrezza che sovente appaiono anche sul
nostro volto, quale cambiamento non opererà la presenza del Signore in un’anima pura quando
le appare in maniera invisibile?
Beato chi ha per Dio una passione non meno violenta di quella dell’amante per l’amata.
Colui che davvero ama si raffigura continuamente il volto della persona amata e lo guarda con
tale gioia nel pensiero che neppure il sonno è capace di distoglierlo da quell’oggetto e il suo
affetto glielo fa vedere in sogno. Nelle realtà corporali avviene lo stesso che in quelle
incorporee.
(La scala del Paradiso V, 54, tr. it. a cura di C. Riggi, Roma 1989, pp. 129)
UFFING DI WERDEN
(monaco benedettino, fine X secolo)
Nel momento in cui sono due in una carne sola, c’è negli sposi una sola e identica operazione
dello Spirito santo: mentre sono allacciati dai legami della loro unione esteriore, cioè sensibile,
questa azione invisibile dello Spirito santo li infiamma di un più grande amore interiore per le
realtà celesti.
(Vita di santa Ida di Henfeld, citata da J.Leclercq, Le manage vu par les moines an XII, siècle, Paris
1983, p. 76)
SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO
(monaco bizantino, 949-1022)
Non accusarmi di bestemmiare, ma accogli questa verità, e adora Cristo che ti rende tale,
poiché, se lo vuoi, diventerai membro di Cristo e parimenti tutte le membra di ciascuno di noi
diventeranno membra di Cristo, e Cristo nostre membra, e tutto ciò che in noi è privo di onore
lo renderà onorevole rivestendolo della sua bellezza e della sua gloria divine, poiché in pari
tempo, vivendo con Dio, diventeremo dèi senza assolutamente vedere più la vergogna del
nostro corpo, ma resi pienamente simili a Cristo in tutto il nostro corpo, ogni membro del
nostro corpo sarà il Cristo intero: infatti, pur diventando molte membra, egli rimane unico e
indivisibile, e ogni parte è lui, il Cristo totale. Ebbene sì, ora hai riconosciuto nel mio dito Cristo,
e in quest’organo... - non sei forse rabbrividito o arrossito? Ma Dio non si è vergognato di
divenire simile a te e tu, tu hai vergogna di essere simile a lui?
- No, non mi vergogno di essergli simile, ma quando dici che lui è simile a un membro
vergognoso, temo che tu pronunci una bestemmia.
Ebbene, hai torto di temere; non vi è nulla di vergognoso, ma si tratta delle membra nascoste di
Cristo, dato che le si copre, e in questo sono più degne di onore delle altre, come membra
nascoste, a tutti invisibili, di Colui che è nascosto, di Colui che dona il seme nell’unione divina,
seme divino, formato - oh temibile mistero! secondo la forma di Dio, uscito dalla divinità stessa,
interamente - poiché è interamente Dio Colui che si unisce a noi, oh mistero di terrore! È
davvero un matrimonio che si consuma, ineffabile e divino: Dio si unisce a ciascuno - sì, lo
ripeto, è la mia voluttà e ciascuno diventa uno con il Signore.
(Inno XV, in Hymnes, a cura di J. Paramelle, Paris 1969, t. I, pp. 289-293)
GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY
(monaco cistercense, XII secolo)
Lo Spirito santo, alfine di consegnare agli uomini il cantico dell’amore spirituale, ha rivestito
all’esterno tutto il suo interiore commercio spirituale e divino con le immagini dell’amore
carnale; in modo che, poiché nulla se non l’amore può cogliere pienamente le cose divine,
l’amore della carne, dovendo giungere e trasformarsi in amore dello spirito, potesse
rapidamente afferrare ciò che gli è simile; e, poiché sarebbe impossibile che il vero amore avido
di verità aderisse e riposasse a lungo sulle immagini, esso potesse assai rapidamente estendersi
per la via a lui nota fino a ciò che è immaginato; e, benché uomo spirituale, potesse tuttavia
abbracciare, una volta afferrate dallo Spirito santo, le sue stesse dolcezze dell’amore carnale,
naturali per la partecipazione della carne, in obbedienza all’amore spirituale.
Il letto fiorito è una coscienza amena e in essa la gioia dello Spirito santo e, alla sua stessa fonte,
l’incessante fruizione della verità. (...) Giacché in questo avviene quella mirabile unione e quella
mutua fruizione di soavità, e di gioia incomprensibile, impensabile anche per quelli stessi in cui
avviene, dell’uomo verso Dio, dello spirito creato verso quello increato; essi sono detti Sposa e
Sposo, mentre la lingua dell’uomo cerca le parole con cui poter in qualche modo esprimere la
dolcezza e la soavità di tale unione che altro non è se non l’unità del Padre e del Figlio di Dio, il
loro stesso bacio, lo stesso abbraccio, lo stesso amore, la stessa bontà e tutto ciò che in quella
semplicissima unità è comune a entrambi; tutto questo è lo Spirito santo, Dio, carità, lui stesso
donatore e lui stesso dono. E qui, infatti, si realizza quel vicendevole abbraccio e quel bacio in
cui la Sposa comincia a conoscere come anche lei è conosciuta; e, come avviene nei baci degli
amanti, che per un certo qual mutuo contatto si trasfondono i loro respiri, lo spirito creato
effonde tutto se stesso nello Spirito che a tal fine lo ha creato; e in lui, a sua volta, lo Spirito
Creatore s’infonde - secondo quanto vuole - e l’uomo diventa un solo spirito con Dio.
Ma quando con la scena di questo mondo sarà passata ogni iniquità, allora passerà anche tutta
questa necessità; e allora il congiungersi dello Sposo e della Sposa diverrà pieno ed eterno, nella
pienezza della somiglianza, quando non solo lo Sposo sarà visto così com’è, ma anche chiunque
avrà meritato di essere Sposa sarà così come lui stesso è; e avverrà il bacio pieno quando, bacio
a bacio, abbraccio ad abbraccio, sarà piena e perpetua fruizione.
Questo abbraccio riguarda l’uomo, ma è al di sopra dell’uomo. Questo abbraccio, difatti, è lo
Spirito santo. Che infatti è la comunione del Padre e del Figlio di Dio, che è carità, che è
amicizia, che è abbraccio; lui, nell’amore dello Sposo e della Sposa, è tutte queste cose. Ma là è la
maestà della natura consustanziale, qui invece il dono della grazia; là la dignità, qui invece la
degnazione; è lo stesso, tuttavia, lo stesso identico Spirito. Questo abbraccio, poi, qui viene
iniziato, altrove va portato a perfezione. Questo abisso invoca un altro abisso; questa estasi
sogna, lontano, altro da ciò che vede; questo segreto aspira a un altro segreto; questa gioia
immagina un’altra gioia; questa soavità prepara un’altra soavità. E sia di questo, in verità, sia di
quel bene, unica è la materia, ma dissimile l’aspetto; unica la natura, ma altra la dignità; simile il
sentire, ma diversa la maestà.
Questa, difatti, è propria dell’umana mortalità, quella dell’eternità; questa del cammino, quella
della sosta; questa di un santo progresso, quella della compiuta perfezione e della perfetta
beatitudine. Quando, infatti, pienamente si rivelerà faccia a faccia e giungerà a compimento il
mutuo conoscersi e la Sposa conoscerà così com’è conosciuta, allora pieno sarà il bacio, e pieno
l’abbraccio, quando non avrà bisogno che la sinistra la sostenga, ma tutta intera la Sposa
abbracceranno le dolcezze della destra dello Sposo fino alla fine dell’eternità infinita.
(Sul Cantico dei Cantici, tr. it. a cura di C. Falchini, Bose 1991)
RICHARD ROLLE
(eremita inglese, XIV secolo)
Così il desiderio e lo slancio dell’amore conquisteranno l’amante, lo riempiranno d’ardore e lo
trasformeranno. L’ebollizione dell’istinto carnale si cambierà in santa voluttà.
(...)
Ascoltatemi, tutti voi che aspirate alla corona e calpestate la bellezza corruttibile: io sarei
fondamentalmente incapace di osservare la continenza, di castigare la mia carne perché si
astenga dal male, incapace anche dell’umile sottomissione che mi procura la salvezza, se
l’Onnipotente non me ne facesse il dono avvolgendomi con l’ombra del suo bacio d’amore.
Non appena ho iniziato ad ardere dell’amore eterno, a essere infiammato dal desiderio della
felicità futura e a percepire il cantico dei cantici dell’amore, subito ogni desiderio carnale si è
placato in me, e la desolazione della mia anima si è mutata in melodia. D’altronde, in seguito
non ho più assaporato la dolcezza della detestabile dilezione, ma sono stato liberato dalla
tristezza e la calma Trinità mi ha preso, come un bambino, sotto la sua protezione.
(Il canto d’amore, cc. 14, 23, 28, a cura delle monache di Wisques, Paris 1971, t. 1, pp. 207, 277,
321)
JEAN DE SAINT-SAMSON
(monaco carmelitano, 1571-1636)
Tu sei mio e io sono tua, tu mi possiedi e io ti possiedo, interamente e totalmente, formiamo una
sola cosa nell’unica unità di noi due, ugualmente incantati dall’amore e dalla bellezza l’uno
dell’altra, l’uno nell’altra, incantati dai reciproci e ineffabili abbracci l’uno dell’altra, l’uno
nell’altra, avendovi parte uguale di delizie, di semplicità, nell’amore semplice, nella nostra
semplice e semplicemente unica essenza, al di sopra dell’azione, al di sopra della passione, al di
sopra dell’inondazione, al di sopra dello stesso amore, nell’amore, nell’amore stesso senza
amore.
Ah! Vita mia e mio Tutto, tu mi stringi troppo intensamente, mi abbracci troppo dolcemente, mi
colmi e mi stracolmi troppo soavemente, mi incanti troppo deliziosamente! Sì, al colmo della
mia felicità totale che sei tu, e nel godimento di te, io sono eterna, senza tempo mi eternità, e
addirittura senza istante.
Ah! vengo completamente meno! Ah! non ne posso più, spiro e muoio d’amore e di felicità nel
tuo seno sovraessenziale la cui squisita e deliziosa bellezza mi toglie potentemente la vita tanta
è la felicità e l’amore, in un amore al di sopra dell’amore, nel riposo e nella fruizione, al di sopra
del riposo e della fruizione, nella semplicità, al di sopra della semplicità ineffabilmente
ineffabile, nell’ineffabile al di sopra dell’ineffabile.
O figlia mia, e mia sposa, io ti abbraccio come tu mi abbracci; e lo stesso amore che dolcemente
mi forza a stringerti strettamente e sovranamente contro di me e in me, questo amore, dunque,
ti obbliga vivamente con la sua dolce forza impulsiva a stringermi strettamente contro di te; e
godendo di noi due in noi due al di sopra dell’amore l’uno dell’altra, nella forza deliziosa del
nostro amore reciproco e congiunto, tu resterai immobile e aderente a me, senza perdita mi
privazione della tua essenza creata resa simile a me, possedendo me stesso in me stesso e tutto
quello che io sono, che sia nell’amorosa azione o nell’amorosa passione e sovrapassione di noi
due in noi due.
Infatti, quello che tu non hai e che tu non sei, e quello che tu non devi essere per natura, cioè me
stesso in me stesso e di me stesso, tu lo sei e lo possiedi nell’amore di noi due che agisce.
(Epitalamio dello Sposo divino e incarnato e della Sposa divina, in Oeuvres mystiques, a cura di S.
Bouchereaux, Michel, Paris 1984, pp. 143, 146-148)
JACQUES-BENIGNE BOSSUET
(vescovo, 1627-1704)
Venga, e un bacio della sua bocca divina
Plachi i miei desideri!
I suoi casti amori nel suo talamo regale
Mi colmino di piacere!
Di celeste balsamo mi sento profumata
All’avvicinarsi del Re.
Imprimi le tue forme nella mia anima infiammata!
Corriamo dietro a te.
Com’è attraente la grazia dei tuoi santi discorsi!
Nulla può eguagliarla,
E nemmeno dissipare l’odoroso vapore
Che emana.
Il tuo nome venuto dal cielo è una dolce mistura
Dei più intensi profumi.
I cuori retti sono invaghiti della tua santa verità
Con immortali ardori.
La pudica giovinezza delle figlie di Sion
Sensibile ai tuoi richiami,
Dei tuoi abbracci fa il soggetto unico
Dei suoi casti sogni.
Rinchiusa dallo sposo nella cantina regale, Le sue delizie onnipotenti
Si sono fatte sentire alla mia anima languente Più dei suoi inebrianti vini.
Spiro sotto i colpi dell’amore che mi ferisce, Portatemi fiori!
Datemi arance, limoni, sostenete la mia debolezza, Accorrete, io muoio!
Con una mano sostiene la mia testa che viene meno. Lui solo è il mio sostegno.
Con l’altra mi abbraccia, e la sua fiamma innocente Non si rifiuta affatto.
(Il Santo Amore, o passi scelti del cantico dei Cantici, in Oeuvres complètes, a cura di J.P. Migne, Paris
1857, t. XI, pp. 498-499)
PAOLO VI
(papa, 1897-1978)
Non esiste amore coniugale che non sia, nella sua esultanza, slancio verso l’infinito e che non
voglia essere, nel suo slancio, totale, fedele, esclusivo e fecondo. È in questa prospettiva che il
desiderio trova il suo pieno significato. Mezzo di espressione come di conoscenza e di
comunione, l’atto coniugale mantiene e fortifica l’amore, la sua fecondità porta la coppia alla
piena realizzazione: diventare, a immagine di Dio, sorgente di vita. Il cristiano sa che l’amore
umano è buono nella sua origine e se, come tutto ciò che è nell’uomo, viene ferito e deformato
dal peccato, trova tuttavia in Cristo la propria salvezza e la propria redenzione.
(Discorso alle Equipes Notre-Dame, Roma 1970)
LOUIS GIROUD
(medico, sessuologo)
Esiste un erotismo cristiano? La domanda non dovrebbe forse essere: “Che senso può dare un
cristiano all’uso dell’erotismo nella relazione amorosa?”. La nostra fede è quella
dell’Incarnazione, non può disprezzare il corpo: il nostro Dio si è fatto carne lui stesso. La
nostra fede è quella di Pasqua: morte e resurrezione. Al di là della rinuncia, delle delusioni,
delle sofferenze, l’amore ci invita alla gioia, alla fioritura nella piena realizzazione. La buona
novella ci riguarda interamente: non c’è motivo di pensare che la sessualità ne sia esclusa. Di
fronte a quanti propongono una sessualità banalizzata, è urgente che i cristiani cerchino di
vivere un amore di qualità, anche nelle sue manifestazioni più carnali, e dimostrino di esserne
felici.
(Il y a érotisme et érotisme, in Alliance 71, sept.-oct. 1990)
OLIVIER CLEMENT
(teologo ortodosso)
Nel monaco l’eros tutto intero è attirato da quella bellezza fatta di amore e di luce, tanto più
sconvolgente in quanto irradia attraverso lo sfiguramento della passione della croce. Non c’è
posto per un’altra espressione dell’eros perché il monaco ha capito che la distanza e l’identità
tra lo sfigurato e il trasfigurato dà la misura dell’amore folle di Dio per lui, per tutti: di quale
altro amore potrebbe avere bisogno? È necessario amare Dio con tutta la forza dell’eros (...); il
monaco così infiammato diviene un uomo apostolico: ha il diritto di parlare di Dio perché lo
conosce con tutte le fibre del proprio essere.
L’uomo e la donna sono complementari non come due funzioni, ma nella complessa totalità
della loro esistenza personale. A questo punto l’eros non è più fascino personale della carne, o
uso - platonico o tantrico - dell’altro come di un mezzo di estasi, ma attesa di un altro per una
comunione di corpo e di anima. Nel difficile dialogo del vero amore, tanto difficile che ha
bisogno, per sistemarsi e approfondirsi, di tutta la durata di una fedeltà, in questo dialogo in cui
l’anima avvolge il corpo, vi sono due persone che a poco a poco si riconoscono. Allora la donna
non è più la donna in generale, femminilità cosmica o eterno femminino, ma è quel tu che la
modalità diversa della sua umanità mi aiuta a definire. E lo stesso fa l’uomo per lei. Ogni
subordinazione è reciproca, in modo che una libertà fa dono di sé a un’altra. Ciascuno trascende
l’istinto di possesso che lo rinchiude nella solitudine e nella morte. L’essere umano, in questa
esistenza che non è più dominatrice o disprezzata ma comunicante, appare doppio e uno,
secondo la reciprocità dei rispetto, della celebrazione e della tenerezza. “Portiamo questo tesoro
in vasi di argilla”, ma i nostri lunghi cammini nella notte non ci faranno mai dimenticare questo
chiarore d’alba, questa scintilla pasquale di un vero amore.
(Riflessioni sull’uomo, Milano 1973, pp. 84-85, 101)
Nella fecondità spirituale della coppia si inscrive il volto del bambino. La procreazione non
costituisce né la giustificazione dell’eros né il suo fallimento: i cristiani non sono né degli
allevatori né degli gnostici. Non la sua giustificazione perché la persona - e l’incontro tra le
persone - va oltre la continuità della specie: una coppia biologicamente sterile può essere
spiritualmente feconda; non il suo fallimento perché l’eros, in una prospettiva cristiana, non è la
ricerca di una pienezza originale perduta con la separazione dei sessi. Può offrirsi all’Altro
assoluto, il Dio vivente, perché appaia un altro assoluto, il bambino, quest’ospite misterioso
della coppia.
(La révolte de l’Esprie, Paris 1979, p. 386)
JACQUES JULLIEN
(arcivescovo di Rennes)
La luce della rivelazione conferma le intuizioni di ieri e le ricerche scientifiche odierne. La
sessualità, come tutte le realtà umane, è bella e buona. Ma, a causa dell’ambiguità del desiderio
e del piacere, se abbandonata a se stessa può perdere di significato, smarrire il proprio senso e
diventare il luogo della rottura e dell’opacità, della non comunicazione: rigurgitante, anarchica,
non è umanizzata in partenza. Per diventare pienamente umana, per servire il linguaggio
dell’amore umano, deve essere regolata. In termini cristiani si dirà che, ferita dal peccato, ha
bisogno di essere redenta, liberata.
(L’homme debout, Paris 1989)
GIOVANNI PAOLO II
Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza: chiamandolo all’esistenza per amore, l’ha
chiamato nello stesso tempo all’amore. Dio è amore e vive in se stesso un mistero di comunione
personale di amore. Creandola a sua immagine e continuamente conservandola nell’essere, Dio
inscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la
responsabilità dell’amore e della comunione. L’amore è, pertanto, la fondamentale e nativa
vocazione di ogni essere umano. In quanto spirito incarnato, ossia anima che si esprime nel
corpo e corpo informato da uno spirito immortale, l’uomo è chiamato all’amore in questa
totalità unificata. L’amore abbraccia anche il corpo umano e il corpo è reso partecipe dell’amore
spirituale. La rivelazione cristiana conosce due modi specifici di realizzare la vocazione della
persona umana, nella sua interezza, all’amore: il matrimonio e la verginità. Sia l’uno che l’altra,
nella forma loro propria, sono una concretizzazione della verità più profonda dell’uomo, del
suo essere a immagine di Dio.
(Familiaris consortio 11)
Nelle parole di Cristo sulla continenza per il regno dei cieli non c’è alcun cenno circa
l’inferiorità del matrimonio riguardo al corpo, ossia riguardo all’essenza del matrimonio,
consistente nel fatto che l’uomo e la donna in esso si uniscono così da diventare una sola carne.
Le parole di Cristo riportate da Mt 19,11-12 (come anche le parole di Paolo in 1Cor 7) non
forniscono motivo per sostenere né l’inferiorità del matrimonio, né la superiorità della verginità
o del celibato.
(Tobia e Sara così pregano:) “Tu hai creato Adamo e hai creato Eva sua moglie, perché gli fosse
di aiuto e di sostegno” (Tb 8,6). Si può dedurre che la verità espressa (nei primi capitoli della
Genesi) occupa il posto centrale nella coscienza religiosa di Tobia e Sara, come il midollo stesso
del loro credo coniugale, e che al medesimo tempo questa verità è loro particolarmente vicina.
Per mezzo di essa si rivolgono a Dio-JHWH non soltanto con le parole della Bibbia, ma
esprimono inoltre pienamente ciò che riempie i loro cuori. Desiderano infatti divenire un nuovo
anello della catena che risale agli inizi stessi dell’uomo. In quel momento in cui, sposati l’uno
con l’altra, come marito e moglie, debbono essere “una sola carne”, si impegnano comunemente
a rileggere il linguaggio del corpo proprio del loro stato, nella sua sorgente divina. In tal modo,
il linguaggio del corpo diventa linguaggio della liturgia: viene fissato il più profondamente
possibile, collocato cioè nel mistero del “principio”.
Gli sposi del Cantico dei Cantici dichiarano vicendevolmente, con parole ardenti, il loro amore
umano. Gli sposi novelli del Libro di Tobia chiedono a Dio di saper rispondere all’amore. L’uno
e l’altro trovano il loro posto in ciò che costituisce il segno sacramentale del matrimonio. L’uno
e l’altro partecipano alla formazione di questo segno. Si può dire che attraverso l’uno e l’altro il
linguaggio del corpo, riletto sia nella dimensione soggettiva della verità dei cuori umani, sia
nella dimensione oggettiva della verità di vivere nella comunione, diviene la lingua della
liturgia.
(...)
(Con un commento personalistico della Lettera agli Efesini) il linguaggio del corpo diviene
lingua della liturgia, perché in base ad esso, sul suo fondamento, viene costruito il segno
sacramentale del matrimonio. La liturgia rivela innanzitutto come in quel segno si realizzi la
dimensione dell’Alleanza e della grazia. Ciò è evidenziato dalla preghiera di Tobia e di Sara nel
linguaggio dell’Antica Alleanza. Ciò è evidenziato in seguito dal rito del sacramento del
matrimonio nella sua molteplice ricchezza e differenziazione, proprie della liturgia della chiesa.
(Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Roma 1987, pp. 308, 440, 441, 444)