La crisi e le banche: un po? di chiarezza

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La crisi e le banche: un po? di chiarezza
MARIO CERA (ORDINARIO DI DIRITTO BANCARIO NELL’UNIVERSITÀ DI PAVIA) LA CRISI E LE BANCHE: UN PO’ DI CHIAREZZA (E DI ORDINE) La crisi dei vari sistemi finanziari e dei mercati dell’investimento che ormai pervade l’economia mondiale dall’estate 2007 induce a complesse analisi circa cause, effetti e rimedi, che oggi preoccupano tanti e certo occuperanno nei prossimi mesi autorità, studiosi ed operatori. Tuttavia, taluni punti che riguardano le banche possono fin d’ora evincersi come chiari e fermi, vale a dire: i) la obiettiva peculiarità dell’attività bancaria; ii) la rischiosità delle eccessive dimensioni e della varietà degli attivi delle banche; iii) la speciale valenza dei requisiti personali degli operatori bancari. Vediamoli distintamente, per poi trarne una riflessione d’insieme. Ognuno ha potuto vedere in quest’ultimo anno il dramma, improvviso, che una crisi bancaria può provocare nel pubblico dei risparmiatori: dalla Gran Bretagna, agli Stati Uniti, al Giappone, fra i Paesi economicamente più avanzati e con sistemi finanziari sofisticati, si sono viste immagini di code agli sportelli e di ansia collettiva. Anche in Italia, molti, negli ultimi mesi, si sono posti domande inquietanti e quasi sorprendenti sulla solvibilità delle banche e sulla sicurezza dei depositi. Tutti hanno constatato che l’attività delle banche è comunque rischiosa in sé e al contempo perché parte di un sistema. Una banca può essere ben e prudentemente gestita, ma alla fine non può non risentire della eventuale crisi di altre banche e di quella dei mercati, perché il credito interbancario è elemento essenziale del sistema e perché le banche, tutte e quotidianamente, operano sui mercati, costituendo un circuito integrato dei mezzi di pagamento e degli investimenti. Con la crisi delle banche non si mette, infatti, a repentaglio solo il rimborso dei depositi dei clienti, ma anche la stabilità e il ruolo fondamentale delle banche stesse, in particolare nella erogazione dei finanziamenti e nella intermediazione dei pagamenti e degli investimenti: si pensi, anche per un solo istante, alle conseguenze di un “rientro” generalizzato delle banche dai prestiti effettuati alle imprese e ai privati o ad un congelamento dei mezzi di pagamento o ancora ad un crollo dei valori in garanzia o in proprietà delle banche; non solo si fermerebbe l’economia, ma la vita sociale. 1 È persino intuitivo, quindi, che le banche non possono essere considerate imprese comuni, con gli scopi di economicità e di profitto propri di esse. Esse operano sì sul mercato e in concorrenza fra loro, perché ciò è fattore di efficienza e di democrazia economica, ma rimane, deve rimanere sullo sfondo la funzione sociale e di interesse generale che giustifica, oltre alla disciplina legislativa speciale (come peraltro ha ribadito la nostra Corte Costituzionale in una importante sentenza del novembre 2004 sulla legittimità dell’art. 136 del Testo Unico Bancario), l’attenzione che lo Stato rivolge, attraverso sistemi di vigilanza e strumenti di intervento, all’andamento delle banche e alla loro situazione, proprio al fine di prevenire o fronteggiare quelle crisi. Il pensiero e purtroppo la pratica di un’attività bancaria volta essenzialmente al maggior profitto dell’impresa, dei manager e dei soci e che in tale prospettiva potessero comunque conseguirsi anche gli interessi generali, pensiero e pratica dominanti nell’ultimo decennio negli Stati Uniti e sempre più diffusi anche in Europa, hanno ora mostrato con clamore la loro rischiosa infondatezza. La banca è e deve restare una impresa autonoma che opera verso il pubblico e sui mercati, ma i soci e gli amministratori non possono non essere consapevoli dell’interesse generale, anche oltre quello dei depositanti, che la banca deve pure perseguire (e i banchieri più sensibili alle istanze sociali e prudenti nella visione economica non mancano di avvertire tale consapevolezza, come di recente e pubblicamente ha fatto Giovanni Bazoli). Tale interesse generale giustifica, appunto, la vigilanza pubblica sulle banche e l’ampio apparato regolamentare sulla loro attività. Tuttavia, la crisi in atto sta dimostrando che vigilanza e regole possono non bastare ad evitare situazioni diffuse e sistemiche di difficoltà: appunto, la cattiva gestione di alcune banche, la crisi di un mercato geografico o merceologico, le difficoltà economiche di un segmento di attività rilevante può essere sufficiente a scatenare effetti epidemici e a propagare la crisi. Ora, pare evidente che più le dimensioni della banca in difficoltà sono ampie ovvero rilevanti sono i rischi assunti, quindi più reale è la probabilità di effetti negativi sistemici. Ciò porta a due considerazioni alquanto semplici: da un lato, occorre fare attenzione e porre limiti ad un eccessivo dimensionamento delle banche, perché la vigilanza sulle stesse è molto più complicata e il rischio sistemico cresce quasi esponenzialmente, anche perché diminuiscono i fattori di concorrenza; dall’altro lato, gioverebbe evitare l’intreccio senza limiti o la confusione di attività di investimento e assicurativa con quella bancaria tipica. La tendenza, dunque, alla universalità dell’attività finanziaria in senso lato e alla sua conglomerazione va ripensata, perlomeno imponendo precise ed efficaci muraglie giuridiche tali da costituire un limite alle eventuali perdite dell’uno o dell’altro settore e ai pure epidemici conflitti 2 d’interesse, vero tumore dell’economia di mercato come da anni va predicando, giustamente ma inutilmente a quanto pare, Guido Rossi. Veniamo all’ultimo aspetto. La specialità dell’attività bancaria, gli interessi pubblici coinvolti, la rischiosità per il depositante inconsapevole devono anche imporre la previsione di effettive capacità degli esponenti bancari a garantire una sana e prudente gestione delle banche. Gli ordinamenti dell’Unione Europea già stabiliscono particolari requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza, invero alquanto generici, laschi e sostanzialmente indifferenziati fra banche grandi e piccole (al di là della disciplina molto sommaria delle piccolissime banche di credito cooperativo). Non solo occorrerà irrobustire e meglio specificare tale requisiti (in Italia si è da troppo tempo in attesa di un nuovo regolamento del Ministro dell’Economia ai sensi dell’art. 26 del Testo Unico Bancario), ma s’imporrà una maggiore responsabilizzazione di coloro chiamati a tali importanti incarichi, attraverso forme di trasparenza di profili, attività e situazioni personali. In altri termini, la rilevanza e l’onerosità della gestione delle banche richiede che i componenti gli organi societari siano davvero adeguati per reputazione, professionalità, disponibilità d’impegno, indipendenza. Gli stessi obiettivi dei managers bancari, evitando ancoraggi a risultati nel brevissimo periodo collegati a vantaggi economici personali, dovrebbero essere correlati a prospettive di medio‐lungo periodo, di vera e durevole creazione di valore patrimoniale dell’impresa; e la cattiva gestione di una banca dev’essere prontamente ed efficacemente sanzionata, ad evitare pericolosi ed ingiusti, generalizzati riflussi di responsabilità, nonché indiscriminati, e quindi pure ingiusti, pregiudizi reputazionali del sistema. I tre profili sopra sommariamente tracciati riconducono, tutti, ad una considerazione generale: è necessario ripensare i significati e i modi di una efficiente ed adeguata legislazione sulle banche e sulle attività finanziarie. È indubitabile che la regolazione debba tener conto meglio ovvero in forme più stringenti dei rischi sottesi e degli interessi generali coinvolti. La deregulation nordamericana dell’ultimo decennio ha, infatti e oggettivamente, favorito quello che è successo, ancorché non possa trascurarsi che l’innovazione e la libertà operativa sono fenomeni tipici, tradizionali degli affari, della finanza, delle imprese. Occorre, perciò, evitare che si pervenga ad una pubblicizzazione diffusa o sommaria delle attività finanziarie e ad un intervento invasivo dello Stato e al contempo che si rinunci ai possibili benefici dei nuovi strumenti finanziari, come swap e derivati, soprattutto a scopi di copertura dei rischi contrattuali. Ma! Ma non si può consentire tutto e soprattutto che gli strumenti 3 finanziari siano di mera alea, privi di causa e di interessi degni di tutela, sconnessi da un rapporto reale. Basterebbe, allora, tornare ai principi fondamentali del nostro diritto commerciale, il civil law di derivazione romanistica: non ogni contratto è lecito, ma solo quelli, pur atipici o anomali, con una causa lecita e meritevole di tutela. Così pure le banche: quelle commerciali di deposito abbiano precisi limiti di attività negli investimenti e si separino le attività di raccolta e di credito da quelle di mera finanza e di investimento. Una cosa è la fiducia che il depositante inconsapevole o il normale cliente affidato ripone nella “sua” banca, altra cosa è il rapporto, pure fiduciario ma su altri presupposti, che lega l’investitore, se non proprio speculatore, più o meno avvertito, alla società, anche bancaria, che opera sui mercati. Il tutto condito da efficaci norme, pure penali, che evitino almeno i profitti illeciti e i devastanti conflitti di interesse. In fondo, non ci vuole molto: un po’ di ordine concettuale negli interessi, una iniezione di rigore giuridico, una vigilanza che sia al contempo severa ed essenziale, sulle attività, sui contenuti, più che sulla libertà organizzativa; e che ogni Stato garantisca regole chiare, vigilanza indipendente, concorrenza e se del caso giustizia, restando però fuori, per quanto possibile, dal capitale proprietario delle banche e in particolare dalla loro gestione. In buona sostanza, l’attività bancaria e l’economia vanno “solo” e “bene” regolate, comunque non pubblicizzate, sotto il mantello della politica del momento. 4