Testi per il primo incontro. Gusto e tatto

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Testi per il primo incontro. Gusto e tatto
SCRITTURA CREATIVA 2012/2013
1. Martedì 16 ottobre 2012 – 14.30-16.30 - Introduzione alla scrittura creativa e al tema del corso
TATTO E GUSTO
«Dissi in Dorian Gray che i grandi peccati vengono consumati nel cervello. Noi sappiamo, ora, che
non vediamo con gli occhi, né udiamo con le orecchie. Questi sono veicoli, più o meno adeguati,
che trasmettono le impressioni dei sensi. È nel cervello che il papavero è rosso, che la mela ha
profumo, che l’allodola canta.» (Oscar Wilde)
Rimbaud, Vocali
A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
Io dirò un giorno le vostre nascite latenti:
A, nero corsetto villoso di mosche splendenti
Che ronzano intorno a crudeli fetori,
U, cicli, vibrazioni divine dei verdi mari,
Pace di pascoli seminati d'animali, pace di rughe
Che l'alchimia imprime nelle ampie fronti studiose;
Golfi d'ombra; E, candori di vapori e tende,
Lance di fieri ghiacciai, bianchi re, brividi d'umbelle;
I, porpora, sangue sputato, risata di belle labbra
Nella collera o nelle ubriachezze penitenti;
O, suprema Tromba piena di strani stridori,
Silenzi attraversati da Angeli e Mondi:
- O l'Omega, raggio viola dei suoi Occhi!
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto
"Ma che un rumore, che un odore, già sentito o respirato un tempo lo sia nuovamente, insieme nel
presente e nel passato reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, immediatamente l'essenza
permanente e abitualmente nascosta delle cose si trova liberata, e il nostro vero io che, talvolta da molto
tempo, sembrava morto, ma che non lo era interamente, si sveglia, si anima ricevendo il cibo che gli viene
dato"
Gusto
Joris-Karl Huysmans, À rebours
Passò in sala da pranzo e andò a un armadietto che s'apriva nella parete. Posando su travicelli di sandalo,
vi si allineavano in bell'ordine tante botticelle, munite ciascuna d'un rubinetto d'argento. Des Esseintes
chiamava quell'assortimento di liquori il suo organo a bocca. Un dispositivo permetteva d'aprire tutti i
rubinetti insieme; bastava premere un bottone dissimulato nell'assito perché tutte le spine, voltate a tempo,
riempissero i sottoposti bicchierini. L'organo si trovava adesso aperto; i tiranti sui quali si leggeva: “flauto”
“corno” “voce celeste” sporgevano, pronti all'uso.
Des Esseintes assaggiava qui una goccia, un'altra là; orchestrando entro di sé delle sinfonie, arrivava a
procurarsi in gola sensazioni non diverse da quelle che all'orecchio dà la musica.
Non per niente egli stimava che ogni liquore corrisponde pel gusto al suono d'uno strumento. Il currasò
secco, ad esempio, al clarinetto, dal canto acerbo e vellutato; il kummel, all'oboe sonoro e nasale; la menta
e l'anisetta, al flauto, zuccherino insieme e pepato, piagnucoloso e carezzevole; mentre - e si completa così
l'orchestra - il kirsch strombetta a perdifiato; gin e whisky portan via il palato coi loro stridenti squilli di
pistoni e di tromboni; la grappa fulmina con l'assordante strepito delle tube, ed il tonar dei piatti e della
grancassa suonati a braccio teso rintronano il palato quando assaggia il rachi di Chio e le mastiche.
Né, a sentirlo, l'analogia finiva qui: sotto la volta palatina si potevano anche sonare quartetti per istrumenti
ad arco.
Rappresenterebbe il violino, la vecchia acquavite, fumosa e delicata, acuta e fragile; la viola, il rumme, più
robusto, più rombante, più sordo; il violoncello, il vespetro: straziante e prolungato, malinconico e
blandente; il contrabbasso, un vecchio bitter schietto, solido e nero.
E non era tutto: neanche le scale tonali mancavano nella musica dei liquori. Così, per non citare che una
nota, il benedettino rappresentava, si può dire, il tono minore di quel tono maggiore degli alcoli che gli
spartiti commerciali designano col nome di certosino verde.
Partendo di qui, Des Esseintes era riuscito, grazie a dotti esperimenti, a sonare sulla propria lingua
silenziose melodie, mute marce funebri a piena orchestra; ad ascoltarsi in bocca degli a solo di menta, dei
duetti di vespetro e di rum.
Arrivava sinanco ad eseguire in bocca veri e propri brani di musica, attenendosi passo passo alla
composizione; interpretandoli nel pensiero, negli effetti, nelle sfumature, grazie ad accordi o contrasti di
liquori, grazie a sapienti miscele.
Altre volte componeva lui melodie proprie; eseguiva pastorali coll'anodino cassì, che gli gorgheggiava in
gola canti perlati di rosignolo; col tenero cacao-chouva che canticchiava sciropposi idilli, quali le romanze di
Estelle ed i “Ah ti dirò, mamma...” del tempo che fu.
Ma quella sera Des Esseintes non aveva alcuna voglia d'ascoltare la musica del palato. Si contentò di
cavare dalla tastiera del suo organo una sola nota, portandosi di là un bicchierino colmo d'autentico whisky
d'Irlanda.
Si riaffondò nella poltrona e religiosamente si sorseggiò quel succo fermentato di orzo e d'avena: un acuto
aroma di creosoto gli appestò la bocca.
Sulla traccia di quel sapore che irresistibilmente ne evocava un altro, il pensiero, facendo da battistrada,
resuscitò ricordi cancellati da anni. Quel gusto acre, fenicato, gli richiamò imperioso alla memoria l'identico
sapore che gli riempiva la bocca quando il dentista gli lavorava le gengive.
PORTRAITS
Ouralphe è piccolo, rotondo, con testa piriforme. Occhi da sorcetto. Rughe sulla fronte. Due bei baffi
circonflessi neri e lustri, come dipinti col pennello. Corta barbetta anfisbena. Capelli imbrillantinati color
caviale. Gote rosee, sorriso cordiale con piccoli denti bianchi e aguzzi, da bambino, naso da passero, un
bel neo galante sulla guancia destra, mani piccole e curatissime. All’anulare destro, un anello con un
fagiano d’oro. In testa un gran cappello da chef inclinato a sinistra, un po’ floscio. Tutto vestito di bianco ad
eccezione di una grande sciarpa di seta gialla a disegni di coturnice. Scarpe da ballerino. Odore: un po’
muschiato. Voce: clarinetto.
Ascalaphe è alto, ossuto, con una spalla più alta dell’altra e fronte acromegalica. Sopracciglia boscose.
Colorito sauce béarnaise, grande naso porcinesco. Occhi da buono. Bocca larga e sdentata, grandi
orecchie rotonde, capelli bianchi, pochi. Mani da strangolatore. Tutto vestito di bianco ad eccezione di due
calzettoni rossi che brillano come fiamme dal suolo. Sandali. Odore: erbe varie. Voce: oboe.
― Maestro ― dice il buon Ascalaphe ― la mousse è quasi riuscita, ma c’è qualcosa che mi sfugge. Il vino
saùternes corteggia l’oca, ma quella non cede. Il sapore resta sospeso a metà. E così non posso
aggiungere le erbe...
Ouralphe ritaglia tre filetti di trota e li sistema a stella su un piatto di Braquemond. Prende la testa della
bella savoiarda e le fa un orecchino di limone. Guarda il piatto da lontano. Trova che il verde del
prezzemolo è troppo aggressivo. Pota. Benedice con sei gocce di olio siciliano.
― Caro Ascalaphe ― dice alla fine ― è probabile che tu sia stato troppo timido col saùternes e che l’oca
sia di fegato un po’ grasso, allevata in fretta. Metti altre dieci gocce di vino e il matrimonio si farà.
Ascalaphe versa le gocce prescritte e la mousse diventa perfetta. Non sbaglia mai il Maestro.
Sospira Ouralphe, e guarda verso il tavolo in ombra, dove dal piatto freddo di pesce “Le grand océan”
quattro astici alzano le chele in invocazione. Più in là nel piatto di carne “Massacre de Saint Julien
l’Hospitalier” le teste di porchetto sonnecchiano. Il monte dei Dodici Dolci brilla in lontananza, riflettendo le
rotondità del castello di frutta “Jardin de Salomé’’.
― Tutto questo lavoro, per quei mercanti ― dice Ouralphe con voce afflitta ad Ascalaphe che si alza e si
stira, dimenando le ossa storte.
― Maestro, forse è ora che andiamo a riposare.
― Non andrò a letto stanotte ― dice Ouralphe ― sono già le tre e non ho voglia di tornare a casa con
questo tempaccio. Tanto alle otto dovremo già essere qui per i preparativi. Dormirò vicino al camino.
― Anche ieri notte ha dormito qui ― dice Ascalaphe, mammona sgorbia ― e anche l’altro ieri.
― Il generale dorme sempre sul campo di battaglia. E poi non dormirò solo.
Da un momento è entrato il cane nero, umile e scodinzolante. Si è accucciato ai piedi di Ouralphe e lo
guarda come una divinità.
― Vedi? ― dice il cuoco ― c’è ancora qualcuno che mi adora.
― Non dica così ― fa il buon Ascalaphe ― tutta la Francia si inchina alla cucina del maestro Ouralphe.
― Una volta forse. Ora non si apprezza più né l’invenzione né la sorpresa. Piccole porzioni per stomachini
indifferenti o ircocervi proteinici per esibizionismo festaiolo. Ecco cosa vuole la gente: raccontare agli altri
cosa ha mangiato. Oh, rien à faire sur la terre... vai, mio buon Ascalaphe. Preparerò un osso à le Grand
Squelette per questo ultimo gourmet. ― E accarezza il cane.
Se ne va Ascalaphe nella notte.
La neve continua a cadere.
La campana di Nótre Dame batte le quattro.
Parigi dorme.
Al riverbero del camino, nel caldo crepuscolo di una pentola di brodo che bolle, Ouralphe sonnecchia e si
abbandona ai ricordi. La sua casa di campagna. Oche sane e cordiali. La moglie, madame Camèlie
Ouralphe, né sana né cordiale recentemente defunta. Certe fragole flosce viste oggi al mercato, a un
prezzo indecente. Rimette il disco, sempre la Callas, sempre “Ombra leggera”.
Oh che grande soprano! Non è mai nata una voce così (e infatti non è ancora nata). Ouralphe si sente un
po’ fiacco e si versa due dita di Chateau Grillon con retrogusto di violetta. Vino da sogni: al calore del
camino, dentro a quel bicchiere vede danzare cavalli, cammelli e baiadere. La testa gli gira: gli sembra che
tutto ondeggi un po’, i muri si stringano, la neve fuori cada sghemba. Cosa succede? Anche il cane è
cambiato. Ha uno sguardo strano. Sembra che rida... rida, sì, come i porcelletti in cima al Massacre di
Saint Julien.
Ora il cane si alza e si stira. Si stira fino ad allungarsi e restare in piedi sulle zampe posteriori. Al fuoco del
camino Ouralphe vede che nevica nel suo bicchiere! E il muso del cane bipede si deforma. Il naso rientra,
le orecchie si rimpiccioliscono. In fondo alle zampe posteriori appaiono due scarpe di vernice nera. Poi
pantaloni di velluto rosso. Il fuoco del camino manda una vampata. Le zampe anteriori del cane diventano
mani, all’anulare c’è un anello con rubino. Ecco gli occhi e i capelli, neri e ricci, baffi e barba. Per ultimo
scompare il tartufo e appare un naso umanissimo e grifagno. Solo la coda resta al suo posto. Il risultato è
un gentiluomo alto, distinto e con lo sguardo esotico. Potrebbe essere un meticcio, di qualche isola molto
calda e lontana. Si siede e sorride: che denti!
― Diavolo! ― dice Ouralphe stordito.
― Per l’appunto ― risponde quello ― e lei è il famoso Ouralphe.
― Pia.. . pia... piacere ― dice Ouralphe porgendo la mano. La mano dell’altro brucia. Ouralphe lancia un
grido.
― Avrei dovuto avvertirla ― sorride il diavolo ― beh, bel posticino, qui. Ho dovuto girare tutti i quais. Giù
mi avevano dato un indirizzo sbagliato.
― Giù?
― Giù.
― Lei... lei va sempre in giro così? Voglio dire a quattro zampe?
― Oh no, detesto tutte le trasformazioni. Gatto nero, donna fatale, papa, pipistrello, caprone e così via...
ma come lei immagina, alle quattro di notte a Parigi, un cane passa più inosservato di un signore elegante
dalla pelle scura...
― Capisco ― dice Ouralphe ― un po’ di vino?
― Volentieri ― dice il diavolo ― però dovrebbe versarmelo in bocca... lei sa che il Chateau Grillon non va
bevuto caldo.
E così Ouralphe versa un bel bicchiere di rosso nella gola del diavolo. Ha le tonsille e il velo pendulo, come
ogni gola che si rispetti.
― Ora ― dice il diavolo leccandosi le labbra con una lingua strana e puntuta ― immagino che lei si chieda
perché sono qua.
― Credo (Ouralphe sospirando) per invitarmi a seguirla.
― Lei è davvero (il diavolo inchinandosi) un uomo intelligente.
― E perché proprio me, se non sono indiscreto?
― La sua domanda, monsieur, è rivelatrice ― sogghigna l’ex-cane. ― Orgoglio, vanità, supponenza. Moi?
Io, Ouralphe, somma di tutte le virtù!
― Oh, non intendevo questo ― dice Ouralphe rimestando piano piano nel brodo fumante ― voglio dire,
perché l’onore di una visita diretta?
― Perché lei è un fuoriclasse, monsieur Ouralphe. Ho con me una lista di peccati che sembra uno dei suoi
menù ― dice il diavolo levando dal mantello un foglio scritto in rosso. ― Leggo qui: eccesso di estetismo...
orgoglio smisurato nella professione... megalomania artistica... invidia, ira, lussuria e poi bestemmie,
crudeltà su uomini e animali... devo continuare?
― Orgoglio smisurato ― mormora Ouralphe tra sé e sé. Si alza, e accende uno dopo l’altro tre candelieri
sul tavolo imbandito. Ognuno illumina una nuova meraviglia. Il diavolo, che pure di banchetti ne ha
frequentati tanti, resta senza fiato.
― Visto che questo è il motivo della mia condanna ― dice Ouralphe ― voglio almeno che lei lo conosca a
fondo... la invito a cena.
Il diavolo sogghigna. Che denti!
― Se lei crede di blandirmi sappia che ogni racconto su miei eventuali pentimenti o corruzioni è falso e
frutto d’immaginazione letteraria.
Ouralphe non lo ascolta e gli mette davanti quindici posate diverse. Il diavolo le guarda senza tremare. È
uomo di mondo e sa usare ben altro che il forcone. E poi ha alle spalle molte ore da cane affamato.
― Ecco i miei capolavori ― dice Ouralphe ― secondo un’antica ricetta siciliana.
Le grand océan
Tre cerchi corrono attorno al centro del piatto.
Il primo è di gambari fritti imbeverati in latte e code di gambari con colì di presciutto e formelle di butirro di
gambari passato per panno lino e anche alcuni gambari vivi stropicciati fino a divenir rossi come fossero
cotti, che mescolati con quelli bolliti si metteranno a camminare con grande scherzo per i convitati.
Il secondo cerchio inizia con una ragosta al ragù d’olio, funghi tartufi e piselli bagnata con brodo di pesce.
La ragosta afferra con la chela la coda di un’anguilla condita con salsa di mandorla all’amberlina, la quale
anguilla morde la coda di un capitone scorticato cotto in malvasia e salsa d’acciughe, il quale capitone
appoggia la testa su un luccio alle braci che insegue famelico quattro trote all’acetosa, ai ginepri, al ragù di
prugnoli e alla carbonata. L’ultima trota si riunisce alla prima ragosta.
Il terzo cerchio è composto da un carrousel stile Bayol di trecento ostriche alla salsa reale, ognuna recante
a mo’ di perla una polpetta di rana o di fegato di testuggine, e altrettante patelle e cannolicchi.
Dentro i tre cerchi quattro polpi reggono una grande conchiglia incoronata di astici in salsa barcellonese,
ognuno offerente nella chela un canestrino di linguattole. Al centro della conchiglia sta, in posizione di
Naissance de Venus, un grande storione infilzato di lardelli e cotto in brodo di cappone.
Massacre de Saint Julien l’Hospitalier
Due cinghiali atteggiati a sfingi stile Fremiet reggono sulla testa un grande vassoio, su cui stanno sei
porchetti ripieni di maccheroni e conciati di formaggio, pepe, cervellaccie e midollo di manzo. Ogni porcetto
porta un cappello ricoperto di frittata su cui giacciono lepri alla moresca con corteccia di limon verde, le
quali tengono tra i denti rametti d’albero su cui sono infilzate quaglie alla bolognese, piccioni in bisca,
fagiani alla crema di pistacchi, pernici al colì di ceci, beccacce all’oritana e tortore in freddo all’arancio.
Monte dei dodici dolci
Il monte è così costruito:
Pendici: bignè alle pere moscadelle, torta alla turca, cannelloni di ricotta.
Primo strato: spuma di riso dolce, uova alla salsa di castagna, imborrabbiata di mandorle;
Secondo strato: torta di fragole, gatto di mille fogli, crema al caffè;
Terzo strato: spume bianche al cedrato, budin misto alla panna di latte.
Sulla cima: gran torre di bignè ai fiori di viola Ascalaphe.
Il giardino di Salomè
Una statua della fatale danzatrice regge una cornucopia di meloni papayas guayabas araucabas poponi e
percoche. Al collo diademi di visciole, alla vita aranci del Portogallo, in testa una corona di ananassi. Ai
suoi piedi un tappeto di uva e noci di cocco. Intorno al piedistallo stanno quaranta teste di Battista decollato
in crema pasticcera, ognuna sanguinante di una diversa gelatina di frutta.
― Straordinario ― dice il diavolo.
― Lei crede?
― Assolutamente straordinario.
― Sì, non c’è male ― concede Ouralphe ― per oltremaristi che dovranno parlarne tutto l’anno. Ma a lei
farò assaggiare qualcosa di speciale.
Il diavolo batte le mani, che essendo alquanto unghiute risuonano come forchette.
― Da dove cominciamo?
Ouralphe gli porge un brodo scuro e oleoso su cui galleggia una zattera in crostino.
― Zuppa di tartaruga malgascia à la manière de Ouralphe.
Il cucchiaio del diavolo lampeggia su e giù al lume di candela.
― Squisita!
― Lei crede?
― Assolutamente squisita. E il primo piatto già l’accusa. Lei si fa bello col cadavere di una povera
tartaruga, forse madre, forse vedova di tartarugo morto per brodo analogo. Lei vive di delitti.
― Non mi sento più crudele della natura ― risponde Ouralphe. ― Lei conosce la vita della tartaruga
malgascia? Vive cento anni e ogni dieci fa le uova. Per depositarle attraversa l’oceano fino a un’isola che si
chiama Malchancha. Lì i gabbiani gliele mangiano, gli indigeni gliele rubano, la pioggia le fa marcire. Tutte
periscono: forse una su mille si schiude. E la povera tartaruga riattraversa l’oceano sognando i suoi
tartarughini perduti, e così vita natural durante finché morte non la coglie nella sua naturale bara d’osso.
Sta piangendo?
― Oh no... è per la zuppa piccante. Le sembra che Belzebù possa piangere per un tartarughino?
― No, e non solo lui, ma neanche il signore Iddio, Primo Chef del cosmo. Vede, io ho un proponimento per
il Giudizio Universale. Quando verrà Pangelone con sciabola e berretto di ordinanza tuonando: Ouralphe, il
Signore ha qualcosa da dirti, io risponderò: no, ho io qualcosa da dirgli! Io Gaspar Benedict Ouralphe
chiedo al tuo Datore di lavoro dove era in tutti questi anni di peste e terremoti e guerre insensate, mentre
noi nel bene e nel male c’eravamo e tiravamo avanti. È vero, il conto lo paga chi mangia, ma un cattivo
chef va licenziato. Invece lui giudica da lassù, dove da milleottocento anni si vendica di noi per non essere
morto su un sofà.
Il diavolo manda per traverso zuppa e crostini.
― Monsieur Ouralphe, lei bestemmia in modo inaudito!
― Lei crede?
― Lei aggrava la sua situazione!
― Dico solo la verità. Noi chef siamo sempre sinceri. E sa cosa l’aspetta?
― No.
― Quaglie! Quaglie alla negresca: Disossate e riempite di midollo, parmegiano, giallo d’uovo e panna e poi
tuffate in salsa di tartufo nero.
Ouralphe infila sette quagliette già brasate in uno spiedo e le mette sul fuoco. Soffia sulla fiamma e dice
con mestizia:
― Stamane verranno qui i peggiori mercanti di Francia, commercianti di schiavi, affamatori di popoli,
saccheggiatori di piantagioni. Quasi tutti cattolici ferventi; e perché hanno agito così? Per il Progresso della
Civiltà e la maggior Gloria di Dio!
― Conosco il genere. Che vino consiglia con le quaglie?
― Moncet-Deprenelle anno 1872.
― Morte di Theophile Gautier.
― Suo cliente? Apra la bocca.
― Grazie, lei ha centrato la questione. Il Primo Chef, come lei lo chiama, da un po’ di tempo ha preso
l’abitudine di mandare me...
― Sempre?
― Non sempre. Ogni tanto scende Lui in persona a ritirare quel tot di santi e pastorelle sessuofobe che gli
servono per tenere il Paradiso abitato. È così vuoto lassù, vedesse... come... un grande albergo in bassa
stagione. Rendo l’idea?
Le quaglie annuiscono tutte insieme, facendo cadere all’ingiù la testolina al giro di spiedo.
― Lui sa che quando mi presento io, nessuno protesta. Tutti avete qualche conto in sospeso...
― E lei incassa... e mi dica, l’inferno com’è?
― Lei come se lo immagina?
― Anzitutto secondo me nessun uomo merita l’inferno. Comunque lo vedo più o meno come un posto dove
tutti i giorni c’è un banchetto di oltremaristi che mettono il parmigiano sulle triglie e la cenere del sigaro nei
sorbetti...
― Più o meno è così ― dice il diavolo, a bocca aperta come un passerotto. ― Mi versa ancora un po’ di
vino?
Ouralphe prende le quagliette arrostite e le butta una a una pluf in una vaschetta. Escono glassate di
cioccolato. Il diavolo ne assaggia una e dice:
― Squisita.
― Lei crede?
― Assolutamente squisita.
Il diavolo batte le mani e una quaglietta si rianima, si scrolla la mousse di dosso e si mette a volare nella
stanza. Ouralphe applaude.
― Bravo!
― Tra artisti... ― si schermisce il diavolo.
― Dice bene signor diavolo. Tra artisti. E lei, proprio lei mi accusa del peccato di superbia! Ma esiste arte
senza eccesso? Ciò che chiamiamo misura non è forse la pantofola che infiliamo dopo un lungo viaggio di
visioni? Esiste una lingua senza metafora, un pranzo senza relever, un diavolo senza le zanne?
― Piano, piano... arte è anche semplicità.
― La semplicità è l’affettazione del secolo ― dice Ouralphe. ― E ora la mia aragosta à la Mérimée:
aragosta corsa, fiera come Colomba, bollita viva e poi condita col suo stesso sugo: uova, liquami e sudore.
Il mare che era dentro e fuori di lei. Perfezione senza pari.
― Squisita ― dice il diavolo.
― Lei crede?
― Assolutamente squisita.
― Ebbene, lei crede che di questi tempi qualcuno la apprezzi? Che gli oltremaristi sappiano la differenza
tra un’aragosta e un astice, tra maschio e femmina, tra regius e vulgaris? No! Il loro profeta è Versier.
― Ahi ― dice il diavolo buttando giù un brandello di chela e invocando un sorso di Vermentino ― ecco
l’invidia.
― Sì, Versier! Quell’ex-macellaio. La “cuisine nababe”, come amano chiamarla. È per colpa sua che devo
costruire questi baldacchini di trippe, queste partouzes di gusti, queste ammucchiate senza eros. Non
importa la qualità, l’importante è che sia troppo. Gran bazar senza pane! L’Occidente mangia sulla terrazza
e da basso il resto del mondo attende gli avanzi. “Il miglior condimento di un pranzo è la fame degli altri.” È
una frase di Versier, testuale. Cucina per pescecani!
Il diavolo ride e finisce la bottiglia di vino ormai brulé. Ne stappa un’altra con l’unghia del mignolo.
― Vada a vedere una cena di Versier ― dice Ouralphe arrabbiandosi e assumendo il colore dell’aragosta.
― Paludi di majonese per mascherare i sapori. Maialetti vestiti da cherubini. Divinità egizie con teste di
vitello. Cannoni che sparano anatre farcite. Cinghiali ripieni di feti di fagiano e metastasi di castagne. Pàté
con lo stemma e le iniziali del commensale. Asparagi tricolori. Cervello di scimmia, pulcini di fenicottero.
Orrore e poi orrore e orrore senza fine!
― Ai ricchi di questi e altri tempi piace così ― dice il diavolo roteando la forchetta ― e le porte dell’inferno
sono larghe abbastanza per qualsiasi pancia. Cosa c’è dopo?
― Un’oasi di frutta ― disse Ouralphe ― prima del congedo. Ananasso in gelatina imperiale ai fiori di
Awankatata e salsa di cocco con Fiore della Passione candito.
― Esotico ― dice il diavolo, addentando.
― Esotico sì, ma calma! Basta che qualcosa venga dall’Antilla o dal Guadalupo ed eccovi lì tutti a sbavare.
― E di Pétique cosa ne pensa?
― Quell’orafo fallito ― grugnisce Ouralphe ― lui e la sua nouvelle cuisine. Piccoli particolari. Porzioni da
convento di suore nane.
― Insomma non le piace.
― Lo detesto! Lui sì che è frollato nell’estetismo. Quei suoi piatti tombali. Un’aringa morta con due cetrioli
becchini. Risotti con emorragie di fragole. Riassunti di anatra, sineddoche di pollo, il chicco di mais come
logos. E poi quegli accostamenti amaro e melenso, acido e salso. Quelle cipolline insignificanti elevate a
Verbo! Allontana da me questo calice! Su, assaggi questa melagrana.
― Squisita.
― Lei crede?
― Assolutamente squisita.
― Bene. Vede quel forellino lì in alto? È un’iniezione di miele. Cinque gocce. Così l’asprigno è diventato
profumo. Sorpreso? E la sua zuppa di tartaruga...
― Sì?
― Non era tartaruga. Era lardo e cavolo di Auvergne... ancora sorpreso? Le quaglie erano quaglie e
l’aragosta aragosta, ma le salse le ho inventate io! E questo dolce è una ricetta che ho trovato in Balzac ed
è solo la millesima parte dei modi in cui potrei stupirla... e senza fumo e zoccoli!
― Sì va bene ma... ― dice il diavolo barcollando sotto il ventesimo calice di vino rosso.
― Assaggi questo sorbetto al limone. E si ricordi che nella mia cucina c’è cultura. I grandi cuochi del
passato, il sapore della terra di Francia, i suoi poeti e i loro sogni. Le mie quaglie non smettono di volare né
le mie trote di nuotare. Tutto resta vivo, poiché nell’invenzione nulla muore, mentre ricchezza e indifferenza
spengono tutto, perdio!
Ouralphe crolla su una sedia, mezzo sbronzo anche lui.
― Vorrei dire che... ― farfuglia il diavolo.
― Si prenda prima questi biscotti nocciolati dei padri di Saint-Verres con crema d’uovo d’oca all’Armagnac.
E sappia che in questi Grand Océan e verziere di Salomè non c’è che un decimo della mia arte. Ma se lei
venisse un giorno qualsiasi nella mia cucina, vedrebbe! Vedrebbe le triglie di Manet infuocarsi in un’onda di
pomodoro mediterraneo. E le mie ostriche sfidare l’eternità imbalsamate nella gelatina come in un acquario
di Laforgue. E le mie insalate fiamminghe e le mele di Cézanne. E io so fare pesci naturalisti alla Bonvin,
ma anche razze e mante surrealiste e l’harengsaur e il merluzzo elettrico e il trompe l’oeil di balena.
Capisce?
― Lei è ubriaco ― dice il diavolo, sudando come se fosse a casa sua ― cosa mi sta mettendo nel piatto?
Tartufi alle braci con limoni e fagioletti erbalati all’acciughe.
― Sì, io ho creduto in tutto questo ― dice Ouralphe montando in piedi sul tavolo ― e per questo vengo
condannato. Lo so: non è la mia arte che è scandalosa, ma la mia vita. Non le opere, solo le vite degli
artisti potranno d’ora in avanti essere scandalose. Non si rovesci i tartufi sul mantello! Beva!
― Squisito ― dice il diavolo con un fil di voce, investito da un fiotto di porto. Un bottone delle braghe gli
esplode come un colpo di colubrina.
― E lei ora viene a prendermi... non la scandalizzano Versier e Pétique... lei vuole me perché io non sono
ipocrita... perché ho ancora delle idee, non delle ciliegine. Mi sente? Assaggi!
Spuma ai pistacchi. Sorbetto all’anice. Mele cotte con rhum bianco.
Niente spuma né mele né sorbetto. Il diavolo aveva reclinato la testa. La coda gli sporgeva
indecorosamente dal calzone. Di lì a poco incominciò a russare. E non un russare qualunque. Era come se
la terra stesse per scoppiare e poi trattenesse il fiato e succhiasse al suo centro l’oceano e poi lo rigettasse
fuori. Tutto il ristorante tremava. Le testine di maiale crollarono e rimbalzarono giù, la frutta rotolò ovunque,
la gelatina tremolò e precipitò in slavine. E quando espirava il diavolo mandava fuori una zaffata rovente di
aglio e anime prave tale da bruciare tutto quello che incontrava nel cammino. E carbonizzò metà tovaglia di
Fiandra, le tende e il tappeto.
Dormì fino alle dodici, sempre con quel frastuono di locomotiva. Quando si svegliò vide Ouralphe che
sbatteva tuorli fischiettando.
― Ho dormito ― disse il diavolo con voce lamentosa.
― Lei crede?
― Assolutamente e saporitamente. Che ore sono?
― Mezzogiorno in punto.
― Siamo in ritardo, andiamo...
― Lei sa che non verrò ― disse Ouralphe sorridendo.
Il diavolo si rimboccò la coda nei calzoni ed emise un gemito.
― Ho fatto parte dei Licanthropes, setta diabolica che si riunisce ogni venerdì notte al Pére Lachaise,
tomba di Delacroix ― dice Ouralphe. ― E so che c’è una regola che dice:
Se il diavolo viene e si addormenta
Per dieci anni poi non ti tormenta
― Ha ragione, diabolico individuo ― dice il diavolo alzandosi a fatica ― lei mi ha sedotto, stregato, farcito
di proteine e zuccheri. Tornerò tra dieci anni.
― Allora ho ingannato il diavolo? ― chiede Ouralphe.
― Forse ― ghigna quello ― oppure il diavolo si è fatto una mangiata gratis nel più bel ristorante di Francia.
― Non era ancora la mia ora?
― Chi lo sa ― dice il diavolo ― nessuno ha un orologio così grande.
Poco dopo i primi pasciuti oltremaristi varcarono la soglia del Bon-Bon. Tra le loro gambe sgusciò veloce
un cane nero. Mentre si accomodavano a sedere, uno di loro notò che il cane, fermatosi in cima alle scale,
li guardava con uno strano sguardo. Vorace, avresti detto.
Entrò Ouralphe. Il cappello da chef gli stava sul capo come una corona. Al suo fianco era il fido Ascalaphe,
brandendo il tirabouchon. Dietro di loro un plotone di venti impeccabili camerieri.
― Signori ― disse Ouralphe consultando l’orologio ― tra dieci minuti cominceremo a servire l’aperitivo.
Chi c’è c’è, chi non c’è vada al diavolo (Stefano Benni, Il bar sotto il mare, 1987)
Tatto
Marcel Proust – Il tempo ritrovato
Rimuginando i tristi pensieri cui accennavo poco fa, ero entrato nel cortile del palazzo Guermantes, e nella
mia distrazione non avevo notato una vettura che procedeva; al grido del conducente ebbi appena il tempo
di scansarmi bruscamente, e indietreggiai abbastanza da inciampare, mio malgrado, sul selciato assai mal
squadrato, oltre il quale era situata una rimessa. Ma nell'attimo in cui, rimettendomi in equilibrio, posai il
piede su una pietra un po' meno sporgente della precedente, tutto il mio scoramento svanì dinanzi a quella
stessa felicità che, in epoche diverse della mia vita, mi avevano dato la vista di certi alberi che avevo
creduto di riconoscere in una passeggiata in carrozza nei dintorni di Balbec, la veduta dei campanili di
Martinville, il sapore di una "madeleine" inzuppata in un infuso, tante altre sensazioni di cui ho parlato e che
le ultime opere di Vinteuil mi erano parse sintetizzare. Come nell'istante in cui assaporavo la "madeleine",
ogni inquietudine sull'avvenire, ogni dubbio intellettuale erano dissipati. E quelli che mi avevano assalito
poco prima sulla realtà del mio talento letterario, e sulla realtà della stessa letteratura, erano stati rimossi
come per incanto.
Senza che avessi fatto alcun ragionamento nuovo, trovato alcun argomento decisivo, le difficoltà, insolubili
poco prima, avevano perduto ogni importanza. Ma questa volta ero ben deciso a non rassegnarmi a
ignorarne il perché, come avevo fatto il giorno in cui avevo assaporato una "madeleine" inzuppata in un
infuso. La felicità appena provata era difatti proprio la stessa che avevo provato mangiando la "madeleine",
e di cui allora avevo rinviato la ricerca delle cause profonde. La differenza, puramente materiale, era nelle
immagini evocate; un azzurro profondo mi inebriava la vista, impressioni di freschezza, di luce abbagliante
mi volteggiavano intorno e, nel mio desiderio di afferrarle, senza che osassi muovermi più di quando
gustavo il sapore della "madeleine", tentando di far giungere fino a me ciò che mi ricordava, restavo, a
rischio di far ridere la folla innumerevole di autisti, a vacillare, come avevo fatto poco prima, un piede sul
sasso più alto, l'altro sul sasso più basso. Ogniqualvolta rifacevo solo materialmente quel medesimo passo,
esso restava inutile per me; ma se, dimenticando la "matinée" Guermantes, riuscivo a ritrovare ciò che
avevo avvertito posando i piedi in quel modo, di nuovo la visione abbagliante e indistinta mi sfiorava come
per dirmi: «Còglimi al volo se ne hai la forza, e tenta di risolvere l'enigma di felicità che ti propongo». E,
quasi subito, la riconobbi, era Venezia, di cui nulla mi avevano suggerito i miei sforzi volti a descriverla e le
presunte «istantanee» raccolte dalla mia memoria, e che la sensazione, avvertita un tempo su due lastre
ineguali del battistero di San Marco, mi aveva restituito con tutte le altre sensazioni quel giorno ad essa
collegate, e che erano rimaste in attesa, serbando l'ordine da cui una brusca evenienza le aveva tratte
imperiosamente, nella successione dei giorni dimenticati. Allo stesso modo il sapore della piccola
"madeleine" mi aveva rammentato Combray. Ma perché le immagini di Combray e di Venezia mi avevano
dato, nell'uno e nell'altro istante, una gioia simile a una certezza e sufficiente senza ulteriori prove a
rendermi la morte indifferente ?
[...]
Soltanto un momento del passato? Molto di più, forse; qualcosa che, comune sia al passato sia al
presente, è ben più essenziale di ambedue. Quante volte, nel corso della mia vita, la realtà mi aveva
deluso perché, nell'istante in cui la percepivo, l'immaginazione, che era l'unico organo di cui disponevo per
godere della bellezza, non poteva applicarsi ad essa, in virtù della legge inevitabile la quale prescrive che
si possa immaginare solo ciò che è assente! Ed ecco che d'improvviso l'effetto di questa dura legge era
stato neutralizzato, sospeso, da un meraviglioso espediente della natura, che aveva fatto balenare una
sensazione - rumore della forchetta e del martello, stesso titolo di libro, ecc. - sia nel passato, cosa che
permetteva alla mia immaginazione di gustarla, sia nel presente, dove l'effettiva vibrazione dei miei sensi a
causa del rumore, del contatto col tessuto, ecc, aveva aggiunto, alle fantasie dell'immaginazione, ciò di cui
sono di solito sprovviste, l'idea di esistenza - e grazie a quel sotterfugio aveva permesso al mio essere di
ottenere, di isolare, di immobilizzare - per la durata di un lampo - ciò che non può mai afferrare: uno
sprazzo di tempo allo stato puro. L'essere che era rinato in me quando, con un tal fremito di felicità, avevo
udito il rumore comune sia al cucchiaio che tocca il piatto sia al martello che batte sulla ruota, o il lastricato
diseguale sotto i miei passi, tanto nel cortile dei Guermantes quanto nel battistero di San Marco, ecc,
questo essere si nutre solo dell'essenza delle cose, soltanto in essa trova sostentamento e delizia.
Langue nell'osservazione del presente, dove i sensi non possono procurargliela, nella considerazione d'un
passato che l'intelligenza gli inaridisce, nell'attesa d'un futuro che la volontà costruisce con frammenti del
presente e del passato cui sottrae ancora un po' di realtà conservando di essi solo ciò che si confa al fine
utilitario, strettamente umano, che assegna loro. Ma basta che un rumore, un odore, già uditi o respirati un
tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali senza
essere astratti, perché subito l'essenza permanente, e solitamente nascosta, delle cose sia liberata, e il
nostro vero io che, talvolta da molto tempo, sembrava morto, anche se non lo era ancora del tutto, si svegli,
si animi ricevendo il celeste nutrimento che gli è così recato. Un istante affrancato dall'ordine del tempo ha
ricreato in noi, perché lo si avverta, l'uomo affrancato dall'ordine del tempo. Ed è comprensibile che costui
confidi nella propria gioia, sebbene il semplice sapore di una "madeleine" in apparenza non contenga
logicamente le ragioni di questa gioia, è comprensibile che la parola «morte» non abbia senso per lui;
situato com'è fuori del tempo, che cosa potrebbe mai temere dell'avvenire?
Il Tattilismo
(Manifesto futurista, Milano, 11 gennaio 1921)
Letto al Théâtre de l'Oeuvre (Parigi), all'Esposizione mondiale d'Arte Moderna (Ginevra), e pubblicato da
"Comoedia" in Gennaio 1921.
Punto e a capo.
Il Futurismo, da noi fondato a Milano nel 1909, diede al mondo l'odio del Museo, delle Accademie e del
Sentimentalismo, l'Arte-azione, la difesa della gioventù contro tutti i senilismi, la glorificazione del genio
novatore, illogico e pazzo, la sensibilità artistica del meccanicismo, della velocità, del Teatro di Varietà e
delle compenetrazioni simultanee della vita moderna, le parole in libertà, il dinamismo plastico,
gl'intonarumori, il teatro sintetico. Il Futurismo raddoppia oggi il suo sforzo creatore.
Nell'estate scorsa, ad Antignano, là dove la via Amerigo Vespucci, scopritore d'Americhe, s'incurva
costeggiando il mare, inventai il Tattilismo. Sulle officine occupate dagli operai garrivano bandiere rosse.
Ero nudo nell'acqua di seta, lacerata dagli scogli, forbici coltelli rasoi schiumosi, fra i materassi d'alghe
impregnate di iodio. Ero nudo nel mare di flessibile acciaio, che aveva una respirazione virile e feconda.
Bevevo alla coppa del mare piena di genio fino all'orlo. Il sole con le sue lunghe fiamme torrefacenti
vulcanizzava il mio corpo e bullonava la chiglia della mia fronte ricca di vele. Una ragazza del popolo, che
aveva odore di sale e di pietra calda, guardò sorridendo la mia prima tavola tattile: - Si diverte a fare delle
barchette!
Io le risposi:
- Sì, costruisco un'imbarcazione che porterà lo spirito umano verso paraggi sconosciuti.
Ecco le mie riflessioni di nuotatore:
La maggioranza più rozza e più elementare degli uomini è uscita dalla grande guerra coll'unica
preoccupazione di conquistare un maggior benessere materiale.
La minoranza composta di artisti e di pensatori, sensibili e raffinati, manifesta invece i sintomi di un male
profondo e misterioso che è probabilmente una conseguenza del grande sforzo tragico che la guerra
impose all'umanità.
Questo male ha per sintomi una svogliatezza triste, una nevrastenia troppo femminile, un pessimismo
senza speranza, una indecisione febbrile d'istinti smarriti e una mancanza assoluta di volontà. La
maggioranza più rozza e più elementare degli uomini si slancia tumultuosamente alla conquista
rivoluzionaria del paradiso comunista e dà l'assalto finale al problema della felicità, con la convinzione di
risolverlo soddisfacendo tutti i bisogni e tutti gli appetiti materiali. La minoranza intellettuale disprezza
ironicamente questo tentativo affannoso, e non gustando più le gioie antiche della Religione, dell'Arte e
dell'Amore, che costituivano i suoi privilegi e i suoi rifugi, intenta un crudele processo alla Vita, di cui non sa
più godere, e si abbandona ai pessimismi rari, alle inversioni sessuali e ai paradisi artificiali della cocaina,
dell'oppio, dell'etere, ecc.
Quella maggioranza e questa minoranza, denunciano il Progresso, la Civiltà, le Forze meccaniche della
Velocità della Comodità dell'Igiene, il Futurismo, insomma, come responsabili delle loro sventure passate,
presenti e future.
Quasi tutti propongono un ritorno alla vita selvaggia, contemplativa, lenta, solitaria, lungi dalle città aborrite.
Quanto a noi Futuristi, che affrontiamo coraggiosamente il dramma spasimoso del dopo-guerra, siamo
favorevoli a tutti gli assalti rivoluzionari che la maggioranza tenterà. Ma alla minoranza degli artisti e dei
pensatori, gridiamo a gran voce:
- La Vita ha sempre ragione! I paradisi artificiali coi quali pretendete di assassinarla sono vani. Cessate di
sognare un ritorno assurdo alla vita selvaggia. Guardatevi dal condannare le forze superiori della Società e
le meraviglie della velocità. Guarite piuttosto la malattia del dopo-guerra, dando all'umanità nuove gioie
nutrienti. Invece di distruggere le agglomerazioni umane, bisogna perfezionarle. Intensificate le
comunicazioni e le fusioni degli esseri umani. Distruggete le distanze e le barriere che li separano
nell'amore e nell'amicizia. Date la pienezza ela bellezza totale a queste due manifestazioni essenziali della
vita: l'Amore e l'Amicizia.
Nelle mie osservazioni attente e antitradizionali di tutti i fenomeni erotici e sentimentali che uniscono i due
sessi, e dei fenomeni non meno complessi dell'amicizia, ho compreso che gli esseri umani si parlano colla
bocca e cogli occhi, ma non giungono ad una vera sincerità, data l'insensibilità della pelle, che è tuttora una
mediocre conduttrice del pensiero.
Mentre gli occhi e le voci si comunicano le loro essenze, i tatti di due individui non si comunicano quasi
nulla nei loro urti, intrecci o sfregamenti.
Da ciò, la necessità di trasformare la stretta di mano, il bacio e l'accoppiamento in trasmissioni continue del
pensiero.
Ho cominciato col sottoporre il mio tatto ad una cura intensiva, localizzando i fenomeni confusi della
volontà e del pensiero su diversi punti del mio corpo e particolarmente sul palmo delle mani. Questa
educazione è lenta, ma facile, e tutti i corpi sani possono dare, mediante questa educazione, risultati
sorprendenti e precisi.
Invece, le sensibilità malate, che traggono la loro eccitabilità e la loro perfezione apparente dalla debolezza
stessa del corpo, giungeranno alla grande virtù tattile meno facilmente, senza continuità e senza sicurezza.
Ho creato una prima scala educativa del tatto, che è nello stesso tempo una scala di valori tattili pel
Tattilismo, o Arte del tatto.
[…]
1. - Le tavole tattili semplici che presenterò al pubblico nelle nostre contattilazioni o conferenze sull'Arte del
tatto.
Ho disposto in sapienti combinazioni armoniche o antitetiche i diversi valori tattili catalogati
precedentemente.
2. - Tavole tattili astratte o suggestive (Viaggi di mani).
Queste tavole tattili hanno delle disposizioni di valori tattili che permettono alle mani di vagare su di esse
seguendo tracce colorate e realizzando così uno svolgersi di sensazioni suggestive, il cui ritmo a volta a
volta languido, cadenzato o tumultuoso, è regolato da indicazioni precise. Una di queste tavole tattili
astratte realizzate da me e che ha per titolo: Sudan-Parigi, contiene nella parte Sudan dei valori tattili rozzi,
untuosi, ruvidi, pungenti, brucianti (stoffa spugnosa, spugna, carta vetrata, lana, spazzola, spazzola di
ferro); nella parte Mare, valori tattili sdrucciolevoli, metallici, freschi (carta argentata); nella parte Parigi,
valori tattili morbidi, delicatissimi, carezzevoli, caldi e freddi ad un tempo (seta, velluto, piume, piumini).
3. - Tavole tattili per sessi diversi.
In queste tavole tattili, la disposizione dei valori tattili permette alle mani di un uomo e di una donna,
accordate fra loro, di seguire e valutare insieme il loro viaggio tattile. Queste tavole tattili sono
svariatissime, e il piacere che danno si arricchisce d'inatteso, nell'emulazione di due sensibilità rivali, che si
sforzeranno di sentir meglio e di spiegar meglio le loro sensazioni concorrenti. Questa tavole tattili sono
destinate a sostituire l'abbrutente gioco degli scacchi.
4. - Cuscini tattili.
5. - Divani tattili.
6. - Letti tattili.
7. - Camicie e vestiti tattili.
8. - Camere tattili.
In queste camere tattili avremo pavimenti e muri formati da grandi tavole tattili. Valori tattili di specchi,
acque, correnti, pietre, metalli, spazzole, fili leggermente elettrizzati, marmi, velluti, tappeti che daranno ai
piedi nudi dei danzatori e delle danzatrici un piacere variato.
9. - Vie tattili.
10. - Teatri tattili.
Avremo dei teatri predisposti pel Tattilismo. Gli spettatori seduti appoggeranno le mani su dei lunghi nastri
tattili che scorreranno, producendo delle sensazioni tattili con ritmi differenti. Questi nastri tattili potranno
anche essere disposti su piccole ruote giranti, con accompagnamenti di musica e di luci.
11. - Tavole tattili per improvvisazioni parolibere.
Il tattilista esprimerà ad alta voce le diverse sensazioni tattili che gli saranno date dal viaggio delle sue
mani. La sua improvvisazione sarà parolibera, ossia liberata da ogni ritmo, prosodia e sintassi,
improvvisazione essenziale e sintetica e quanto meno umana possibile. Il tattilista improvvisatore potrà
aver bendati gli occhi, ma è preferibile avvolgerlo nel fascio di raggi d'un proiettore. Si benderanno gli occhi
ai nuovi iniziati che non hanno ancora educato la loro sensibilità tattile. Quanto ai veri tattilisti, la piena luce
d'un proiettore è preferibile, poiché l'oscurità produce l'inconveniente di concentrare troppo la sensibilità in
una astrazione eccessiva.
Educazione del tatto.
1. - Bisognerà tenere inguantate le mani per moti giorni, durante i quali il cervello si sforzerà di condensare
in esse i desideri di sensazioni tattili diverse.
2. - Nuotare sott'acqua, nel mare, cercando di distinguere tattilisticamente le correnti intrecciate e le
diverse temperature.
3. - Enumerare e riconoscere ogni sera, in un'oscurità assoluta, tutti gli oggetti che sono nella camera da
letto. Appunto col dedicarmi a questo esercizio nel sotterraneo buio di una trincea di Gorizia, nel 1917, io
feci i miei primi esperimenti tattili. Non ebbi mai la pretesa d'inventare la sensibilità tattile, che già si
manifestò in forme geniali nella Jongleuse e negli Hors-nature di Rachilde. Altri scrittori ed artisti ebbero il
presentimento del tattilismo. […] F.T.Marinetti
D’annunzio, notturno
http://online.scuola.zanichelli.it/letterautori-files/volume-3/pdf-online/23-dannunzio.pdf