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il Neolitico a scuola
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Massimo Tarantini
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I manuali analizzati • I testi analizzati per
questo contributo sono i seguenti: Storia
d’Europa, a cura di F. Delouche, Edizioni
scolastiche Bruno Mondadori, Milano
1992 (il capitolo sul Neolitico è di B.
Bender); E. Baffi, E. Beni, Il nuovo racconto
della Storia, 1, Arnoldo Mondadori Scuola,
Milano 2003; AA. VV., con la
collaborazione di R. Bordone, Noi e la
storia, SEI, Torino 1996; A. Brancati, Fare
storia, 1, La Nuova Italia, Firenze 1995; A.
Caramanica, E. Bartolomeo, I passi
dell’uomo. I. Dalla Preistoria alla metà del
XIV secolo, Loffredo editore, Napoli 1997;
C. Monaco, G. Mazzoni, Giorni anni secoli.
Storia 1, Zanichelli, Bologna 1984; L., L. e
M. Montanari, Storia e civiltà dell’uomo, I,
Calderini, Bologna 1997; G. Poma, Le
civiltà antiche. Dalla preistoria alla storia.
Storia di acque e di deserti, Archimede
edizioni, Milano 1997; E. B. Stumpo, M. T.
Tonelli, Il libro di storia. 1. Dalla preistoria
all’impero carolingio, Le Monnier, Firenze
1993; S. Zavoli, La storia e il suo racconto,
1, Bompiani per la scuola, Milano 2003.
Il Neolitico nei manuali
scolastici di storia
Introduzione
In un recente contributo dedicato alla trattazione della Preistoria nei manuali
scolastici,Antonio Brusa ha opportunamente individuato stereotipi di diversa
natura (“fattuali” e “strutturali”,“quotidiani” e “colti”), i quali si originano e operano in maniera differente.1 L’indicazione ci permette di precisare che la nostra
attenzione sarà rivolta anzitutto agli stereotipi “strutturali”: non ci soffermeremo cioè su singoli aspetti, pur rilevanti, che possono essere considerati come
stereotipi “fattuali” di origine “colta”, quale ad esempio il rilievo costante che
viene dato all’affermarsi di una nuova tecnica di lavorazione della pietra (la levigazione) nel determinare la trasformazione neolitica (si veda la Scheda 1).
Quello che qui interessa tentare è valutare quale sia la concezione (o le concezioni) di fondo che sottendono la trattazione del Neolitico nei manuali di storia
per scuole medie inferiori e superiori presi in esame, sia pure nel quadro di una
notevole varietà qualitativa che non sarebbe giusto sottacere.2 Interessa inoltre
tentare di apprezzare quale sia l’eventuale scarto, tematico e di contenuti, tra
conoscenze scientifiche e loro diffusione scolastica.
1 • Neolitico. Storia di un termine equivoco
La conferma dell’esistenza di una
Preistoria dell’uomo, fino allora ipotizzata
su basi speculative (si pensi alle pagine
di Vico o Rousseau, per esempio), ebbe
luogo nel corso dell’Ottocento dal
concorso delle ricerche naturalistiche ed
antiquarie. Una delle prime esigenze fu
allora cercare di stabilire una griglia di
cronologia relativa su base archeologica,
e il criterio per definire tale griglia fu
l’individuazione di materiali che
presentavano tempi di comparsa
differenti. Dapprima, nel 1836, lo
studioso danese C. J. Thomsen individuò
la successione delle età della Pietra, del
Bronzo e del Ferro (il cosiddetto
“sistema delle tre età”); alcuni decenni
dopo, nel 1865, sir John Lubbock
introdusse, all’interno dell’età della
Pietra, la distinzione tra Paleolitico (“età
della Pietra antica”) e Neolitico (“età
della Pietra nuova”), basandosi
sull’apparizione di un nuovo metodo di
lavorare la pietra, la levigazione.
Oggi sappiamo, a partire almeno dalla
definizione di «rivoluzione neolitica»
formulata da V. G. Childe nel 1925, che la
distinzione tra Paleolitico e Neolitico è
molto più profonda. Il Neolitico, o meglio, il
processo di neolitizzazione, segna infatti la
maggiore trasformazione nella storia delle
società umane: è allora che si afferma un
nuovo sistema di acquisizione alimentare,
basato sulla domesticazione di piante e
animali. Si tratta di un processo graduale
(il termine “rivoluzione” non è da intendere
in senso temporale, almeno per i centri
formativi) che si realizza autonomamente
in diverse regioni del mondo nei primi
millenni dell’Olocene, ovvero a partire da
circa diecimila anni fa; esso è
accompagnato da un nuovo rapporto con
il territorio e prelude a nuovi assetti sociali
e all’introduzione di nuove tecniche, come
la ceramica, la tessitura o la levigazione
(marginalmente già nota in precedenza).
Gli strumenti in pietra levigata hanno
dunque perso l’originaria funzione di
“fossili guida”, pur permettendo ancora
una generica attribuzione al Neolitico, e la
dizione “età della Pietra nuova” ha ormai
una valenza puramente convenzionale.
md
Un blocco cronologico e culturale omogeneo
Il primo dato da rilevare è lo scarso spazio dedicato alla più antica storia dell’uomo in generale, e al Neolitico in particolare. Per un periodo che ha uno sviluppo
grosso modo di tremila anni (considerando la sola Europa), si ha un numero medio di quattro pagine: 750 anni a pagina… I manuali più attenti arrivano a dedicare al Neolitico al massimo una decina di pagine. Per altro, è da segnalare una
certa ambiguità semantica del termine “Neolitico”, che quasi sempre nei manuali include sia il Neolitico propriamente detto che le età dei Metalli.
Certo, la quantità di spazio dedicata al Neolitico è in funzione dei programmi scolastici e dunque riflette anzitutto lo scarso rilievo conferito a questo periodo da quei programmi. È dunque un problema non solo dei manuali e delle
scelte editoriali che ne stanno a monte, quanto anche di strategie didattiche delineate a livello ministeriale.
Il secondo dato comune da rilevare, solo in parte dipendente dal poco spazio dedicatovi, è una sostanziale compressione temporale, che porta a mettere
insieme scoperte, invenzioni e trasformazioni economiche e sociali ben distinguibili tra loro ma quasi sempre presentate come del tutto indistinte da un punto di vista sia cronologico che logico. Si sostiene ad esempio che l’allevamento
degli animali permise – d’emblée – di disporre di carne, di lana, di latte e della loro forza di trazione, mettendo così in relazione il primo domesticamento con fenomeni posteriori, quali l’aratro e il carro a trazione animale e la produzione di
prodotti secondari dell’allevamento (latte, formaggi).Allo stesso modo, l’affermazione di una specializzazione artigianale a tempo pieno (ovvero il totale affrancamento di un individuo dalla partecipazione alle attività di sussistenza,
che su base archeologica siamo in grado di individuare con l’emergere della
metallurgia) o fenomeni più tardi come la divisione delle società in classi
sociali o comunque in base a funzioni
produttive ben distinte, sono fatti rientrare tra gli aspetti propri del Neolitico (ad esempio: «I coltivatori potevano
scambiare la parte del raccolto che eccedeva i loro bisogni con il prodotto di
chi svolgeva attività non agricole: tagliatori di pietra, vasai, tessitori»).3
Importanti processi e cambiamenti socio-economici realizzatisi nel corso di diversi millenni, ovvero durante
il Neolitico, sono dunque posti su uno stesso piano indifferenziato: ne risulta
una contrazione cronologica che toglie storicità alle innovazioni tecniche e alle trasformazioni sociali ed economiche, cancellando qualsiasi dinamica storica
interna al Neolitico, presentato dunque come un blocco cronologico compatto ed indifferenziato.
Non a caso, oltre alla dinamica storica è spesso cancellata anche la variabilità geografica tanto del sorgere del domesticamento di piante e animali (fenomeno che ha avuto diversi ed autonomi epicentri nel mondo, ma il riferimento
esclusivo è quasi sempre al Vicino Oriente) quanto delle stesse culture neolitiche. Secondo alcuni manuali, il Neolitico si presenta dunque anche come un
blocco culturale sostanzialmente indifferenziato: tratti specifici di alcune aree
Fig. 1 Scoperte fin dall’Ottocento, le
palafitte, insieme ai dolmen, entrarono
subito nell’immaginario collettivo relativo al
Neolitico (qui un dipinto del 1867 di
Auguste Bachelin, Village lacustre de l’age
de la pierre, Musée National Suisse).
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1. Antonio Brusa, David e il Neandertal. Gli
stereotipi colti sulla preistoria, in Evoluzione,
preistoria dell’uomo e società contemporanea,a cura di L.Sarti,M.Tarantini,Carocci,Roma
2007, pp. 45-74.
2. L’indagine ha riguardato dieci manuali scolastici: vedi pagina a fianco.
3. Storia D’Europa…, cit., p. 35.
il Neolitico a scuola
1 • Massimo Tarantini • Il Neolitico nei manuali scolastici di storia
geografiche – in particolare le palafitte e i dolmen – sono ad esempio generalizzati come tratti caratteristici del Neolitico, naturalmente del Neolitico europeo,
l’unico di cui in genere si parli. Fino al risultato di prefigurare nei dolmen la testimonianza dell’esistenza, «a partire dall’età della pietra, [di] una comune civiltà europea», come afferma un manuale dedicato programmaticamente alla Storia d’Europa.4
Proprietà privata, famiglia monogamica
e affrancamento dalla natura
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Fig. 2 Una delle celebri illustrazioni
approntate da Emile Bayard per l’opera
divulgativa L’homme primitif di Louis Figuier
(1870), subito tradotta in Italia. Esse
contribuirono non poco a costruire
l’immaginario collettivo della Preistoria, ivi
inclusa l’idea di famiglia nel Neolitico.
Il Neolitico, ad ogni modo, segna senz’altro il passaggio ad un tipo di economia
e di società della quale siamo diretti eredi: la nostra condizione attuale non è
nemmeno immaginabile senza quella straordinaria trasformazione rappresentata dall’affermarsi di una economia produttiva. Eppure si ha la sensazione che alcuni manuali retrodatino al Neolitico aspetti dell’organizzazione sociale ed economica sui quali i dati archeologici non parlano con altrettanta certezza, o arrivano a risultati divergenti.
Il ragionamento ipotetico sovrasta le informazioni realmente disponibili e
ancora più spesso si tende a proiettare su quel periodo la nostra visione del
mondo. È il caso, per fare un esempio, della nascita della proprietà privata. Si
parte dal presupposto che fin dall’origine vi sia stata la necessità di recintare la
terra, fosse per proteggerla dagli animali o dai vicini. Una necessità che sarebbe
connaturata alla stessa agricoltura: «Nel Paleolitico, ogni tribù era costretta a spostarsi continuamente alla ricerca di territori di caccia che poi venivano rapidamente abbandonati. Ora, invece, i campi coltivati e recintati diventarono un bene delle famiglie che li avevano lavorati: era nata la proprietà privata».5 Nella recinzione dei campi è così indicata l’origine della proprietà privata, sul solco apparente della celebre frase con cui Jean Jacques Rousseau aprì la seconda parte del suo Saggio sull’origine dell’ineguaglianza. Ma è forse inutile cercare dotti antecedenti. Il meccanismo che sembra operare in questo caso è piuttosto
quel pensare «il moderno indebitamente fatto antico» verso il quale si rivolgeva
il monito del grande etnologo Ernesto De Martino.6
Lo stesso meccanismo, generatore di anacronismi, si osserva nella trattazione anche di altri aspetti del Neolitico. Si prenda ad esempio l’argomentazione
portata quando si parla di scambi e circolazione di materie prime o prodotti finiti, con l’utilizzo talora di categorie come “mercato” e “commercio”, o persino
“moneta”: «Accanto all’artigiano sorse un altro lavoro divenuto ormai indispensabile, quello del mercante. Era il mercante che si spostava, che portava le merci là dove erano richieste. Perché chi aveva bisogno di qualcosa la potesse trovare più facilmente e senza perdere troppo tempo, si formarono i mercati, luoghi dove si poteva scambiare o comprare di tutto».7
Senza dubbio il problema, o la difficoltà, è che nel trattare del Neolitico le
categorie da utilizzare per descriverne organizzazione sociale e modo di produzione sono diverse da quelle adoperate per i periodi storici successivi e non sono (o lo sono solo in parte) riconducibili alla nostra esperienza quotidiana: il
“mercato”, la “moneta”, la specializzazione produttiva, ma anche, come vedremo tra breve, la famiglia monogamica, sono categorie impropriamente proiettate su periodi nei quali l’organizzazione socio-economica si strutturava su moduli e valori diversi da quelli attuali.
La struttura della famiglia neolitica – o meglio, l’individuazione dell’origine
della famiglia nel Neolitico – sembra confermare le riflessioni precedenti. Si tratta di un punto centrale nella trattazione del Neolitico da parte dei manuali di
md
storia e, in generale, di un argomento che fin dalla scoperta del Nuovo Mondo
(e delle popolazioni che l’abitavano) suscitò grande interesse. L’esistenza di strutture familiari ben diverse dalla nostra era già largamente testimoniata dagli autori classici, ma furono soprattutto le ricerche etnologiche a permettere la definizione, nel corso del Settecento e dell’Ottocento, di uno schema evolutivo
dell’organizzazione familiare che in maniera costante sottese l’opera di etnologi, storici e filosofi. Lo schema era il seguente: promiscuità originaria famiglia
matriarcale famiglia patriarcale famiglia monogamica.8 L’esistenza di una
fase matriarcale nella storia delle società umane, antecedente a quella patriarcale, ebbe poi particolare rilievo e una fortuna autonoma nel secondo Ottocento,
a partire dal libro sul tema di J. J. Bachofen (1861), ed è tornata in auge, impropriamente, con alcune storie femministe.9
Ora, è interessante rilevare come la medesima sequenza evolutiva (o punti
di essa) si trovi ancora delineata, seppur con notevoli oscillazioni, in alcuni manuali analizzati. Si parla ad esempio di un “matriarcato” originario – del tutto ipotetico – e non di strutture familiari a trasmissione matrilineare o la cui residenza è di tipo matrilocale, quali indicate dalle ricerche etnologiche e quali è possibile individuare in casi archeologici fortunati. Sono soprattutto le società di
cacciatori e raccoglitori ad essere considerate di tipo matriarcale («l’uomo infatti è sempre assente, tutto preso dalla sua attività di cacciatore»),10 se non caratterizzate da promiscuità. Ma il matriarcato sarebbe per alcuni manuali una caratteristica anche delle prime società di agricoltori, secondo una fortunata ma
unilaterale interpretazione delle rappresentazioni delle cosiddette “dee madri”
(si veda la Scheda 7 nel contributo di V. Tinè, infra).
In alcuni casi tuttavia si va oltre questo schema di ascendenza colta che individua alle origini una condizione di promiscuità o di tipo matriarcale. Si legga il seguente passaggio: «Anche tra i popoli nomadi esistevano le famiglie allargate patriarcali; tuttavia, mentre i popoli sedentari praticavano in genere la monogamia (ogni uomo aveva una sola moglie), fra i popoli nomadi esisteva spesso la poligamia (più mogli per ciascun uomo). Le donne dei nomadi, inoltre, non
potevano tenere orti né allevare animali domestici o pollame. Presso questi popoli, di conseguenza, alla donna fu dato un ruolo marginale e di scarso rilievo».11
Il passo è denso tanto di stereotipi quanto di anacronismi, e in filigrana si può
leggere l’attuale costante diffidenza verso le società islamiche, associate a loro
volta al nomadismo beduino: è la poligamia ad essere storicamente responsabile della condizione della donna. La condizione originaria presso gli agricoltori
– evidentemente considerati i nostri veri antenati – è invece la monogamia.
Emerge il dubbio che a stereotipi di diversa natura, variamente miscelati su una
struttura di fondo che appare omogenea, si aggiunga un processo (inconsapevole forse, ma senza dubbio ideologico) di ‘naturalizzazione’ (cioè, se esistono
fin dall’origine sono naturali) di categorie fondanti dell’attuale assetto sociale
ed economico: la famiglia monogamica e la proprietà privata. Sospinte agli stessi inizi di quella grande trasformazione che fu il Neolitico, la loro esistenza e la
loro forma peculiare e storicamente determinata, che siamo abituati a considerare come le sole possibili, non hanno più una consistenza storica, ma appaiono come date una volta per tutte nel momento in cui l’uomo è passato dalla natura (la promiscuità originaria, o la successiva fase matriarcale) ad una condizione nella quale iniziamo a poterci rispecchiare.
Per alcuni manuali infatti (ma si badi, anche per importanti studiosi almeno
fino agli anni ’60 del secolo scorso) è proprio a partire dal Neolitico che gli
eventi acquisiscono una dimensione storica. È con il Neolitico, in particolare –
e su questo concordano quasi tutti i manuali –, che si ha l’affrancamento del-
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4. Ivi, p. 37.
5. Poma, Le civiltà antiche…, cit., p. 20.
6. De Martino, Naturalismo e storicismo nell’etnologia,Argo, Lecce 1997, p. 120 (ed. or. Laterza, Bari 1941).
7. Monaco, Mazzoni, Giorni…, cit., p. 13.
8. Sulla definizione di tale schema evolutivo,
si veda W. Stockzowski, Essai sur la matière
première de l’imaginaire anthropologique.
Analyse d’un cas,«Revue de Synthèse»,IV s.,n.
3-4 (1992), pp. 439-457.
9. Su questo punto,rinvio al saggio di Claudine
Cohen, La femme des origines. Images de la
femme dans la préhistoire occidentale, BelinHerscher, s. l., 2003, part. pp. 91-116.
10. Brancati, Fare storia…, cit., p. 39.
11. Stumpo,Tonelli,Il libro di storia…, cit.,p.
18.
il Neolitico a scuola
1 • Massimo Tarantini • Il Neolitico nei manuali scolastici di storia
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Fig. 3 Una vignetta di P. Laurent ironizza sul
progresso segnato dall’affermazione del
Neolitico (P. Laurent, Heureuse Préhistoire,
Éditions Fanlac, Périguex 1965).
l’uomo dalla natura: «invece di dipendere dalla natura, gli uomini ne divennero
i padroni e la modificarono secondo i loro bisogni», scrive per esempio B. Bender.12 E con il predominio della ‘cultura’ sulla ‘natura’ si avrebbe anche l’emergere delle civiltà umane. Seppure avesse senso considerare natura e cultura come entità del tutto distinte, siamo così certi che davvero allora si sia avuto quell’affrancamento? Siamo certi che a partire dal Neolitico finisca la dipendenza
dalla natura e dai suoi ‘capricci’? Non richiamerò qui il fatto che non è possibile considerare l’Uomo fuori dalla natura o indipendente da essa; resterò nell’ambito produttivo, ricordando che è solo con l’affermarsi di un’agricoltura dominata da fertilizzanti e pesticidi e di un allevamento basato su nutrizione artificiale e controllo veterinario (si pensi all’uso sistematico di antibiotici), che la
produzione è divenuta assai poco soggetta alle variabili climatiche e ambientali. È un processo avviato nel XVII secolo e pienamente compiuto solo nel secondo Novecento, all’interno delle società a capitalismo avanzato. Prima di allora,
tanto gli animali quanto i vegetali sono sempre stati soggetti alle variabili citate
e le carestie largamente documentate nel corso della storia ne forniscono una
piena conferma e un’immagine drammatica della vulnerabilità della produzione agricola e pastorale.13
Ad ogni modo, qualsiasi valutazione del Neolitico come tappa fondamentale nel processo evolutivo delle società umane muove dall’idea che si ha del Paleolitico e delle società di caccia/raccolta.Tanto più queste ultime sono viste,
secondo uno stereotipo ben radicato, alla ricerca continua e incerta di cibo,
esposte agli agenti naturali e all’aggressione degli animali (ed è l’immagine dominante),14 tanto più il Neolitico sarà considerato come la tappa d’inizio per il
miglioramento delle condizioni di vita: sarà allora possibile parlare di “invenzione”, come se l’agricoltura e l’allevamento fossero sorte dal nulla.Tuttavia, a partire da lavori come quelli dell’antropologo Marshall Sahlins,15 non è più sostenibile l’immagine delle società paleolitiche (almeno del Paleolitico superiore)
come società di “scarsità”. Non si vuole naturalmente mettere in discussione
l’idea che il Neolitico segni una svolta fondamentale nella storia delle società
umane. Si vuole solo sottolineare che le grandi scoperte e innovazioni del Neolitico si radicano profondamente nelle società di caccia e raccolta, il cui sistema
di vita ha mostrato una straordinaria stabilità (con lentissime trasformazioni, è
durato qualche milione di anni).Tale stabilità sposta la questione di fondo relativa alle origini del Neolitico: dall’idea che la nascita di un’economia produttiva abbia rappresentato la risposta ad una condizione di scarsità congenita alle
società di caccia e raccolta, scarsità che sarebbe stata acuita dai mutamenti climatici connessi con la fine dell’ultima glaciazione, si può passare a sviluppare
l’idea che l’agricoltura e l’allevamento rappresentino un ulteriore sviluppo, dalle conseguenze imprevedibili per i suoi stessi protagonisti, delle profonde conoscenze che i cacciatori e i raccoglitori avevano dell’ambiente naturale in cui
si muovevano.
Anche il Neolitico è storia, possibilmente comparata
La discussione sui temi appena affrontati è comunque ancora aperta. Ma al di là
di questo, è da rilevare una contraddizione di fondo tra la presenza di affermazioni precise su argomenti ben lungi dall’essere assodati e il richiamo, in alcuni
manuali, all’aureola di incertezza che avvolgerebbe i dati relativi alla ricostruzione della Preistoria: «quando parliamo di Preistoria nessuna data è sicura»;16 «quarantamila anni di Preistoria richiederanno poche pagine. È che ne sappiamo
troppo poco».17 Se è vero che alcuni manuali insistono opportunamente pro-
md
prio sui metodi della ricerca archeologica, è anche vero che in altri è ancora assai blando il riconoscimento dell’archeologia preistorica quale scienza capace
di ricostruire dinamiche storiche. Ma qui, probabilmente, pesa ancora un antico pregiudizio, del resto all’origine del termine stesso di “Preistoria”. Si continua cioè a considerare l’insorgere della scrittura come discrimine perché si abbia una vera storicità: i «documenti scritti [sono] gli unici che possono permettere ai popoli di entrare nella Storia»;18 solo a partire dalla comparsa della scrittura «possiamo parlare della Storia dell’uomo e della sua civiltà».19 Si tratta di un
pregiudizio che colloca fuori dalla storia (e quindi fuori dalla civiltà) quei popoli che non hanno mai avuto la scrittura e quei tempi in cui ancora non esisteva un sistema di registrazione degli eventi. È un criterio arbitrario di storicità
che non ha ragione di essere per il passato (quasi che solo l’esistenza della scrittura conferisca dignità storiografica alle vicende dell’uomo, e che solo la presenza di testimonianze scritte permetta di ricostruire le vicende storiche) ed è,
si badi bene, lo stesso criterio che ha contribuito ad alimentare le giustificazioni coloniali, ritenendo i popoli senza scrittura come popoli senza storia e quindi senza civiltà, da civilizzare. Un pregiudizio ancora operante, in maniera più o
meno consapevole, che ha il suo riflesso anche sulla visione del Neolitico quale emerge da diversi manuali scolastici. Non è forse casuale che solo pochi dei
testi analizzati facciano riferimento alle diverse aree nel mondo in cui si è avuto un autonomo processo di domesticazione delle piante e degli animali. Nella
gran parte di essi il solo riferimento è al Vicino Oriente, quasi esso fosse la sola
culla della civiltà: è una storia tendenzialmente “eurocentrica”, ma che deve rivolgersi ad Oriente per la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento, della metallurgia e dello stato. Una storia nella quale la dimensione comparativa è del
tutto assente. E con essa, la possibilità di comprendere e far comprendere come e perché le società umane abbandonarono un regime socio-economico di
straordinaria stabilità, durato molte centinaia di migliaia di anni, per fare un salto dei cui sviluppi – che ci portano fino all’oggi – non poteva esservi consapevolezza. Il Neolitico, tra l’altro, ha portato con sè anche la gran parte delle malattie epidemiche e nutrizionali che affliggono l’uomo contemporaneo.Anche
le carie, le fastidiosissime carie, sembrano essersi originate a partire da quella
grande trasformazione avvenuta diecimila anni fa. Chi l’avrebbe mai detto.
2 • La fine del Neolitico
La fine del Neolitico si suole designare su
base tecnologica e corrisponde all’introduzione della metallurgia. Come sempre,
tuttavia, non si trattò di una frattura netta
ma di un processo diluito sull’arco di svariati secoli e la cui cronologia è assai varia a seconda delle aree considerate (le
prime tecniche di fusione del rame sono
documentate in Mesopotamia ed Anatolia
nel VI millennio a. C.). In effetti, la prima
produzione metallurgica è un fenomeno
essenzialmente tecnico che non introdu-
ce sostanziali novità negli assetti socioeconomici delle comunità neolitiche; la cesura dunque è spesso definita in maniera
convenzionale, come accade per tutte le
periodizzazioni. Del resto per lungo tempo
la produzione litica continuò a coesistere,
all’interno di specifici ambiti funzionali, al
fianco di una produzione metallurgica che
all’inizio riguardò in prevalenza strumenti
che rivestivano anche una importante funzione simbolica ed erano indice di status
sociale.
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12. Storia d’Europa…, cit., p. 35.
13. Riprendo qui alcune considerazioni di U.
Fabietti, Anthropos, in Enciclopedia, Einaudi,
Torino 1982, vol. 15, pp. 5-14.
14. Si veda al proposito W.Stockzowski,La préhistoire dans les manuels scolaires, ou notre
mythe des origines, «L’Homme», 116 (1990),
pp. 111-135.
15. M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra.Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani, Milano 1980 (ed. or. Stone age
economics, Aldine Publishing Co., Chicago
1972).
16. Caramanica, Bartolomeo, I passi dell’uomo…, cit., p. 23.
17. Zavoli, La storia…, cit., p. 14.
18. Caramanica, Bartolomeo, I passi dell’uomo…, cit., p. 23.
19. Monaco, Mazzoni, Giorni…, cit., p. 17.