n.228: Estate - L`INVITO

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n.228: Estate - L`INVITO
Trimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abb. post. - D.L. 383/2003 convertito in legge 27/02/2004 n. 46, art. 1, comma 2 - DCB Trento
«Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né
i tuoi vicini ricchi; altrimenti anch’essi inviteranno te e tu ne avresti il contraccambio, ma quando
tieni un convito invita i poveri, gli storpi, gli zoppi, i ciechi; e sarai felice, perché non hanno di che
ricompensarti; ma ne avrai ricompensa nella resurrezione dei giusti». (Lc. 14, 12-14)
… è venuto il tempo in cui, nè su questo monte, nè in Gerusalemme, adorerete il Padre… Ma viene
il tempo, anzi è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. (Gv. 4, 21-23)
228
n.
Estate 2012 - Anno XXXV
SOMMARIO • Quale felicità con sei sacramenti? Figlie
di un Dio minore? • A proposito di “valori non negoziabili” •
“Economia Democratica” • Una nuova società o uno tsunami
socio-ecologico? • Appello acqua • Riflessioni sul Battesimo della
Comunità di San Francesco Saverio • Adesso “mi sento sereno” • Il “camino” di Santiago di Compostela • Il digiuno nella
Bibbia • Riflessioni per un cambiamento culturale dell’individuo
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La Cattedra del Confronto
ascoltando Benedetta Selene Zorzi
di Silvano Bert
Quale felicità con sei sacramenti?
Figlie di un Dio minore?
Negli incontri teologici in S. Antonio è stato tutto un raccontare di donne
da parte di donne, impegnate a scuotere le loro chiese. Un cammino di liberazione contrastato e differenziato.
Lidia Maggi è una pastora protestante che cura la comunità battista di Varese, dove al battesimo sono chiamati
adulti consapevoli. L’argomentare delle teologhe cattoliche (C. Santambrogio,
L. Sebastiani, R. Virgili) è più critico e
pessimista, ma privo di livore, perché
tutto il laicato, donne e uomini, in una
chiesa clericale è ancora senza voce, a
cinquant’anni dal Concilio Vaticano II.
A concludere gli incontri è la monaca Benedetta Selene Zorzi. Docente
alla Università Lateranense, nel monastero benedettino di Fabriano fa anche
la parrucchiera delle consorelle, “che
poi però indossano il velo”, commenta sorridendo.
Il suo conversare è di una felicità
scoppiettante, e la devozione tradizio-
nale alla Madonna ne esce ribaltata. Decostruisce il modello di vergine casta e
sottomessa, funzionale alla cultura maschilista, e ci svela in Maria una “profetessa controcorrente”, che nelle scelte di
vita decide in autonomia. Con amore:
dal “fiat” dell’annunciazione alla presenza coraggiosa sotto la croce. Il “magnificat” è il canto contro ogni oppressione. Solo per un momento lo sguardo della giovane monaca si fa pensoso, ma non triste, e il suo sorriso ironico, non sprezzante. È quando sussurra:
“sono sette i sacramenti elencati nel catechismo della Chiesa cattolica, ma sono soltanto sei per noi donne”.
Salvatore Natoli, il filosofo della
“cattedra del confronto”, definirebbe quel sacramento negato un “dolore inflitto” dalla Chiesa alle donne, e
quindi colpevole, indice di fallimento. L’incomprensione della sessualità
è tale che il monaco Michael Davide
Semeraro, in un convegno della “Ro-
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sa Bianca” a Roncegno nel 2009, definì l’enciclica “Humanae vitae” di Paolo VI, per la condanna dei metodi anticoncezionali, il “caso Galileo” dell’età contemporanea.
Sono dolori inflitti dalla Chiesa cattolica, felicità negate, per inadeguatezza culturale. Anche il papa di oggi,
Benedetto XVI, ripete imperturbabile
(l’ultima volta nella recente udienza ai
vescovi statunitensi) che la convivenza delle coppie è un “peccato grave”,
e sempre peccato sono il divorzio, e il
matrimonio di persone dello stesso sesso. È una ferita inflitta a persone che già
soffrono. Aggravata dalla pretesa della
Cei che in Italia nemmeno lo Stato, laico, riconosca le nuove forme d’amore,
perché la famiglia naturale è un “valore non negoziabile”. È un canyon che
ormai separa i vescovi dalla società.
Chi partecipa alla “cattedra del
confronto” conosce coppie che convivono, di giovani e anziani, persone divorziate e risposate, persone omosessuali. Ne conosce la fatica, la ricerca
difficile di un’etica nuova. Ma anche
la felicità, il conforto, il piacere vissuto nella relazione. Chi racconta al papa
anche questo? In una società che cambia sono “segni dei tempi”, (come il sacerdozio femminile e il matrimonio dei
preti), su cui interrogarsi insieme, credenti in più religioni, e non credenti.
Per capirne il senso, anche i rischi. Alla
domanda di una donna, -perché resti
ancora in una chiesa così? - la monaca
benedettina ha risposto: “non so”. E’
come dire: la fede non è un argomento, è una chiamata, un incontro.
Nel manifesto “Non siamo più disposte a tacere”, ai padri del Concilio
Vaticano II (1965) scrisse allora Gertrud Heinzelmann: “Se il battesimo
abilita l’uomo a ricevere sette sacramenti, ma abilita la donna a riceverne
solo sei, allora il battesimo non opera con la stessa efficacia nel rendere
l’uomo e la donna membri della chiesa”. Quella via, che accompagna nella storia le speranze e le angosce degli
uomini e delle donne, sembra oggi interrotta, e la parola “peccato” è usata
come una clava. Eppure, se le donne
e gli uomini riprendono la parola, sul
dolore e sulla felicità, sulla vita e sulla
morte, la storia può riprendere il suo
cammino. Anche nella chiesa cattolica.
La cronista di Vita Trentina dà conto,
con precisione e franchezza, della monaca Benedetta Selene Zorzi che non si
arrende: “sì, per noi donne sono sei”, e
del commento di don Andrea Decarli:
“anche per noi uomini sono sei, o l’ordine sacro o il matrimonio”. Don Andrea è giovane, il clima del Concilio Vaticano II lo ha letto sui libri, anche perché noi anziani, preti e laici, donne e
uomini, non abbiamo saputo tenerne
vivo lo spirito. Per questo sembra non
sapere che l’uomo (quello cattolico ro-
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mano peraltro, perché i preti cattolici di
rito orientale e quegli ortodossi hanno
la possibilità di accedere a tutti e sette
i sacramenti) può scegliere, mentre per
la donna decide a Roma la gerarchia.
Ci sono però ancora segni di speranza. In una chiesa di Trento, alla messa
del giovedì santo, in memoria dell’isti-
tuzione dell’eucaristia, il celebrante e i
partecipanti hanno chiesto perdono anche per questo peccato, il ritardo da cui
la Chiesa non sa ancora emendarsi. A
consolazione di Maria C. Zandonai, e
di tutti coloro che anche su Vita Trentina parlano della ricezione del Concilio come di una via su cui camminare.
DOCUMENTAZIONE
da L’Unità del 10 agosto 2012
“Le quarantenni in fuga dalla fede”
L’allarme “mediatico” lo ha lanciato
don Matteo Armando, il teologo autore dello studio La fuga delle quarantenni
– Nuovi scenari del cattolicesimo italiano
(Rubettino, Soveria Mannelli 2012; pp.
105, euro 10). Il punto è “il progressivo allontanamento delle giovani generazioni femminili dal cattolicesimo”.
Commentando le inchieste sociologiche più recenti don Matteo osserva come “è sulla linea femminile che si registra il mutamento generazionale più
alto: lo scarto rispetto alla frequenza alla messa tra gli uomini nati prima del
1970 e quelli nati dopo il 1970 è di 15
punti, è invece di ben 25 punti lo scarto tra le donne nate prima del 1970 e
quelle nate dopo il 1970”. Non va meglio con “il riferimento alla fede in Dio”
Si passa da “uno scarto maschile di soli 7 punti, tra i nati prima e quelli dopo il 1970, a uno femminile di 12 punti, prendendo in considerazione le nate prima e e quelle dopo il 1970”. Sono le quarantenni nate nel 1970 il punto critico del “progressivo cammino di
omogeneizzazione dei comportamenti tra uomini e donne in relazione alla
pratica della fede” che si compie nelle
giovani nate dopo il 1981. Dopo quella
data i giovani di entrambi i sessi “vanno di meno in chiesa, credono di meno, hanno meno fiducia nella Chiesa, si
definiscono meno cattolici”.
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“Anche la Chiesa ascolta poco le donne”
Intervista di Roberto Monteforte a suor Benedetta Zorzi
Si è rotto qualcosa nell’alleanza tra
le donne e la Chiesa cattolica? La domanda è legittima. Non è in discussione il riconoscimento del ruolo delle donne nella Chiesa e nella società.
Lo attestano numerosi testi ecclesiastici, già a partire dal Concilio Vaticano
II. Giovanni Paolo II vi ha dedicato un
documento memorabile, la Mulieris dignitatem, dove si afferma perfino che
alcuni passi biblici sulla donna non rispecchiano la mentalità evangelica. E’
chiarissima anche la presa di posizione, del 2004, da parte della Congregazione per la Dottrina della fede, che
parlava del ruolo insostituibile delle
donne in tutti gli aspetti della vita e
della necessità di vederle presenti nel
mondo del lavoro, dell’organizzazione sociale, nei posti di responsabilità,
nella politica e nell’economia. Eppure
nella Chiesa vi è ancora una forte tensione tra le dichiarazioni di principio
e la prassi nell’affidare loro ruoli di responsabilità.
“Già il termine ‘genio femminile’,
che stranamente non ha mai visto un
corrispettivo ‘genio maschile’, rischia
di essere facilmente strumentalizzato
per veicolare una precisa idea di don-
na, più che per sostenere il riconoscimento dell’esperienza delle donne” afferma convinta Benedetta Selen Zorzi,
monaca benedettina e teologa. Il tema
lo sente particolarmente.
Nata a Roma nel ’70, fa parte della
generazione delle quarantenni, quella
che qualcuno vorrebbe “tentate dalla
fuga”. Da una ventina d’anni vive in
un monastero di Fabriano, nelle Marche. Una vocazione maturata dopo gli
studi di teologia, una laurea in filosofia e – ci tiene a sottolineare – anni di
pallavolo giocato a livello agonistico.
Fa parte del Coordinamento delle teologhe italiano, di cui gestisce il sito.
“Certo vi sono state donne che hanno
svolto di fatto e svolgono ruoli di leadership nella Chiesa. Ma si fa ancora
fatica ad avere spazi”.
Con quale effetto?
L’abbandono. Recenti statistiche ci
dicono che tra le generazioni nate dal
’46 al ’64 e quelle nate dopo il 1981 vi
sono differenze abissali non solo socio-culturali, ma anche legate al rapporto con la fede e la Chiesa. Le donne nate negli anni ’70 sono le più sensibili a questi cambiamenti. Non sentono più differenze di genere, vivono
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una disaffezione religiosa, sono lontane dai sacramenti e distanti dal sentire ecclesiale sulle tematiche politiche e le questioni etiche. Questa generazione oggi sta pagando il prezzo
di no sentirsi ascoltata anche dentro
la Chiesa”.
È il fenomeno analizzato dal teologo
don Armando Matteo nel suo “la
fuga delle quarantenni”. Quanto è
difficile il rapporto delle donne con
la Chiesa?
“Non ringrazierò mai abbastanza
l’autore di questo studio per averne
parlato. Ancora più apprezzabile perché realizzato da un uomo e prete. La
Chiesa non può perdere il rapporto
con questa generazione, perché ne va
della trasmissione della fede alle future generazioni”.
Forse serve il coraggio di parlare
chiaro. Come ha fatto suor Eugenia
Bonetti, la superiora della Consolata
impegnata contro la “tratta” delle
donne, intervenuta il 13 febbraio
2011 a difesa della dignità della
donna alla manifestazione “Se non
ora quando”.
Quando la Chiesa è profetica non
ha difficoltà a farsi ascoltare. Suor Eugenia ha parlato di cose semplici, di
valori trasversali come la pace e la dignità della donna, che non può essere
considerata oggetto di dominio o strumento di piacere. Ma ha anche detto
che bisogna costruire assieme, uomini
e donne, nel quotidiano, una cultura
del rispetto. Così suor Bonetti ha fatto eco al gesto del Concilio Vaticano
II, quando la Chiesa ha scelto la strada del dialogo con la società. E’ l’unica
strada possibile per lavorare a un futuro di pace, armonico per tutti. Quando
la Chiesa fa ciò che è chiamata a essere sa farsi ascoltare”.
Non sempre è così credibile…
“Forse perché almeno in Italia abbiamo un modello di Chiesa dal volto ufficiale maschile, quando il tessuto vitale ecclesiale è assicurato soprattutto dalle donne: impegnate nella catechesi, nei luoghi di cura, tra i poveri e nelle parrocchie. Malgrado le loro
competenze devono sottostare ancora a una cultura segnata dal maschilismo. Quanto più la Chiesa saprà dare
alle donne la possibilità di dispiegare
sempre meglio tutta la gamma dei loro geni, tanto più realizzerà quell’”umano integrale” definito da papa Benedetto XVI “lo sviluppo di tutto l’essere umano e di tutti gli esseri uani”.
Come religiose abbiamo un compito
particolare: Rispondere alla forte ricerca di spiritualità espressa da donne anche estranee alla Chiesa cattolica, aiutando la Chiesa e le donne a ricucire un’antica alleanza”.
Siamo alla vigilia dell’Anno della
fede proclamato da Benedetto XVI
nel 50° del Concili Vaticano II. È
possibile una “rievangelizzazione”
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senza aver fatto i conti con questi
nodi?
“Non credo al separatismo di un
certo femminismo radicale, che giustamente la Chiesa cattolica condanna. Per questo guardo con preoccupazione a quegli episodi in cui l’autorevolezza femminile viene screditata con un semplice richiamo all’ordine dall’alto. Così c’è il rischio che si
debba dare ragione a chi pensa chela differenza di genere significhi che
gli uomini non debbano pretendere di intervenire sulle donne o sulla
vita interna delle loro congregazioni
religiose. Significherebbe avallare l’esautoramento delle Chiesa gerarchica dalla realtà femminile. Non è questa la strada”.
Quale strada andrebbe percorsa?
“non resta che percorrere quella del reciproco riconoscimento, della comune partecipazione e collaborazione. Le istituzioni ecclesiastiche
dovrebbero riconoscere l’irreversibilità del cammino della nuova autocoscienza femminile. Sembra, invece, che siano ancora alle prese con un
immaginario femminile che non corrisponde più all’autopercezione delle donne di oggi”.
Ma c’è un limite che pare invalicabile: il sacerdozio riservato esclusivamente agli uomini…
“Sono convinta che il problema del
ruolo della donna nella Chiesa vada
lasciato indipendente dalle discussioni sul sacerdozio femminile. Intanto
perché l’ideologia maschilista è ancora presente nelle Chiese che hanno
aperto al sacerdozio femminile. Ma
poi legare la questione femminile al
falso binomio “donna e sacerdozio”,
che non affronteremo mai, significa
relegare al silenzio le tante questioni
connesse alla nuova auto comprensione delle donne, all’identità sessuale e maschile in particolare, al ruolo
del prete, ai modelli di gestione del
potere in vista di una collaborazione
tra uomini e donne per la costruzione di una Chiesa a due voci. L’ideologia del maschio al potere è, appunto, un’ideologia; l’emancipazione delle donne è storia. Come seppe riconoscere la Pacem in terris”.
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La chiesa “riconosca” la voce delle donne
di Emma Fattorini
Due sensazioni si rincorrono leggendo le parole chiare e serene di suor
Benedetta Zorzi del Coordinamento
teologhe italiane su L’Unità. La prima è do grande stanchezza e stupore: quante volte abbiamo sentito, letto, scritto parole così giuste, ragionevoli e soprattutto autentiche sul bisogno-necessità che la Chiesa sappia dare voce e riconoscimento alle donne.
Religiose e non.
La seconda impressione è che ormai siamo davvero oltre qualsiasi piano di richiesta, per non dire di rivendicazione: non sono le donne cattoliche e le suore a chiedere. E’ la Chiesa,
a tutti i suoi livelli, quelli di vertice come nella vita pastorale quotidiana, ad
avere un urgentissimo bisogno di “riconoscerle”. In tutti i sensi. In quello
materiale, di ovvia opportunità, essendo sulle loro spalle il peso non solo della gestione ma ormai della stessa evangelizzazione. E in quello più
profondo e prospettico della qualità e
autenticità della fede nelle trincee più
esposte della contemporaneità. Le sfide vere, quelle nelle quali si gioca sul
serio la capacità d’incarnare il Vangelo
nella vita concreta delle persone, non
limitandosi alla proclamazione delle
verità di fede.
Come sempre la società americana, con le sue ingenuità e le sue semplificazioni radicali, testimonia una
vitalità genuina. E oggi ci dice molto
su come si possa vivere la libertà religiosa quale frutto della società civile.
Un modo più autentico del nostrano
pollaio nel quale si battibecca sul pur
rilevante tema dei diritti civili. Il sommovimento provocato dalle religiose
americane, la Leadership conference of
religious women che raggruppa l’80%
delle 75mila suore americane, più che
agitare bandiere ideologiche testimonia una pratica. Quella della condivisione con le sofferenze e le solitudini.
Che queste siano in primis materiali
e sociali non è una “decisione” socialisteggiante, è piuttosto la risposta a
un dato di fatto. Che questa condivisione non sia abbarbicata alla difesa
senza pietà di comportamenti intimi
tra i sessi, scanditi sulla precettistica
moralistica più estenuata, non è det-
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to proprio sia un cedimento al “femminismo radicale”: potrebbe essere
piuttosto la ricerca di una maggiore
aderenza evangelica. Di una coerenza tra i principi e il vissuto concreto. La Chiesa americana – che non è
ancora uscita dagli effetti devastanti
degli scandali sul coinvolgimento di
suoi illustri membri nell’orrore della
pedofilia – sa quanto, non le parole,
non le dichiarazioni altisonanti, ma
l’esempio concreto sia decisivo per
riconquistare la fiducia dell’opinione pubblica e, cosa più importante,
dei suoi fedeli, delle persone che avvicina nella vita quotidiana.
Il volere (e sapere) stare in mezzo alla gente non vuole dire essere acquiescenti e cedevoli sui principi: vuole dire condivisione dei problemi e vicinanza nel trovare soluzioni comuni
e solidali, anche sui problemi intimi e
relazionali, e non solo in quelli materiali ed economici.
In questo le donne hanno veramente un carisma speciale. E le suore,
quelle che vivono in stretta comunione
con il Vangelo, lo dimostrano in modo
straordinario. Chi ha vissuto, anche se
per brevi periodi, affianco ad alcune
di loro, in Africa o nelle frontiere della prostituzione e dell’emigrazione, lo
sa bene. Non c’è bisogno di tante parole. Proprio no. Eppure siamo anco-
ra qua a ricordarlo. A dire, fino allo sfinimento, che la Chiesa ha già perso se
non rinnova una vera, e non a chiacchiere, alleanza con le donne e in primo luogo con le sue donne, quelle che
sono la sorgente più ricca del suo stare nel mondo.
Non ho ricette, non so come si possa fare. Qualche tempo fa, con Liliana
Cavani proponemmo, non tanto provocatoriamente, addirittura un “Sinodo della Chiesa delle donne”. Ricevemmo riscontri positivi da esponenti delle gerarchie. Credo però che fummo fraintese su un punto essenziale:
non si trattava di chiedere e rivendicare potere, o di aggiungere ennesime
lamentazioni femminee. Ciò che era in
gioco e che ora è sempre più evidente
è che l’allarme riguarda la Chiesa stessa, la sua credibilità e autenticità. Non
si tratta tanto di un “interesse” delle
donne. La loro fuga, la fuga delle donne e dei giovani è, piuttosto, un danno
irreparabile per la Chiesa. Che non riguarda tanto e solo le riforme concrete della Chiesa, per quanto necessarie e urgentissime, ma ancora di più
il “significato” della fede nel mondo
di oggi, una fede capace di interpretare davvero i segni, tra i quali, come
disse profeticamente il Concilio Vaticano II, la donna è, ancora una volta,
il più pregnante.
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A proposito di
“valori non negoziabili”
di Piergiorgio Rauzi
Il mio vuole essere un contributo per sottrarre la politica al pericolo
di arenarsi nelle secche di un dibattito e di una contrapposizione ideologica su temi importanti e delicati che interessano la bioetica e che vanno sotto la denominazione di “valori non negoziabili”. Si tratta, infatti, di una zeppa, questa dei “valori non negoziabili”, usata strumentalmente per impedire o quantomeno ostacolare – per
esempio – quel percorso intrapreso (e
ben lontano finora dagli sviluppi che
molti speravano) di una feconda convergenza politica tra le due tradizioni confluite nel PD: quella del solidarismo della tradizione del cattolicesimo democratico e quella dell’egualitarismo della tradizione del comunismo italiano.
Qual è il posto – a questo proposito – della politica?
Faccio solo un esempio concreto
per stare nei limiti di queste brevi riflessioni sollecitate da recenti episo-
di e veti di varia provenienza, ma su
questi temi gli esempi sarebbero molti e tutti piuttosto significativi. E penso che ci sarà modo di riparlarne approfonditamente anche sulle pagine
de L’INVITO.
Parto da un dato noto: il rapporto enormemente sbilanciato tra domanda e offerta di organi di ricambio: cuori, reni, fegati, polmoni. cornee, ecc…compatibili. E dal momento che la domanda è molto superiore
all’offerta (alla disponibilità) si creano inevitabilmente lunghe e ansiose
liste d’attesa.
Nessuna persona di buon senso
metterebbe in cima alla lista d’attesa un soggetto ultrasettantenne, senza responsabilità familiari né forti legami affettivi, quasi a fine carriera e
comunque facilmente e istituzionalmente sostituibile nel ruolo sociale
che ricopre, prigioniero ormai di un
organismo pesantemente e complessivamente logoro ma che la medicina
a cui si è affidato ipotizza che, forse,
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con un ricambio di fegato potrebbe
anche riprendersi e vedersi così allungata di qualche anno l’esistenza… A
meno che non si tratti di un arcivescovo, il quale, appena da Innsbruck arriva la comunicazione della disponibilità di un fegato compatibile, sorpassa tutti quelli in lista che attendono,
viene trasportato urgentemente, assistito da un chirurgo di fama locale che
lo accompagna, nella clinica tirolese,
gli viene trapiantato il fegato, e dopo
pochi giorni il povero vescovo muore solo in camera asettica, impossibilitato di lasciare ai suoi fedeli le ultime parole come testamento spirituale e privando di un prezioso organo
di ricambio e della relativa speranza
di vita altre persone in lista d’attesa.
Io ritengo che il compito della politica sia quello di assumersi la responsabilità di stabilire regole vincolanti
che mettano in fila secondo criteri condivisi le lunghe liste d’attesa in modo
da evitare in questo e in altri delicati
settori che riguardano le speranze di
vita sorpassi e privilegi che già discriminano pesantemente chi sta sopra e
chi sta sotto in tutti gli ambiti della nostra società.
Ma l’esempio in questione l’ho scelto anche perché mi sembra indicativo
del come a volte proprio i più intransigenti tra coloro che in nome di una fe-
de religiosa si ritengono investiti e detentori del potere di stabilire la “negoziabilità” o “non negoziabilità” dei loro “valori” e di imporla a tutti, credenti e non credenti, quando si trovano a
decidere della propria o dell’altrui vita non si facciano eccessivi problemi a
considerare la propria un “valore” superiore a quella altrui.
Mentre i progressi della scienza
(compresa quella medica) e della tecnologia costringono tutti a rivedere
quello slogan programmatico ripetuto troppo spesso come un mantra
che “la vita va difesa dal concepimento alla morte naturale”. Quanto ci sia
di “naturale” oggi in molte morti e in
molte possibilità di concepimento è un
tema che ritengo vada affrontato tutti
insieme, con una riflessione e una capacità di ascolto e di confronto laicamente intesa, senza pretese egemoniche ma con grande senso di responsabilità e con particolare attenzione alla sofferenza.
Mi auguro che questa breve nota
– che richiama altri approfondimenti
che L’INVITO ha ospitato - sia di stimolo ad altri e alle forze politiche locali e nazionali, come pure a tutti quei
laici credenti che hanno accompagnato anche recentemente altri vescovi
nel loro passaggio dalla vita terrena
a quella celeste senza rinchiuderli in
camere asettiche per affrontare questo argomento.
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I Comitati Dossetti per la Costituzione, l’Associazione per la
Democrazia Costituzionale, Altrapagina, l’Associazione per il
Rinnovamento della Sinistra, il Cenacolo Bonhoeffer di Modica, il
Centro per la Pace di Bolzano, Missione Oggi, il Centro Balducci
di Zugliano del Friuli, l’Associazione San Salvi Pellicanò di Firenze,
Pace e Diritti, Koinonia, il Cipax, la Casa dei Diritti Sociali
INVITANO I CITTADINI AD ASSOCIARSI
PER UN MOVIMENTO DI
“Economia Democratica”
Dopo un confuso periodo di turbolenza dominato dalla figura di Berlusconi, si è reso manifesto in Italia il vero problema che mette a repentaglio il
futuro del Paese e la sicurezza dei cittadini: il sopravvento dell’economia
sulla politica che rende tutti indifesi e
prosciuga gli spazi della democrazia.
Questo processo che in forza della
globalizzazione investe tutto il mondo, in Italia è già molto avanzato. Lo
si vede dalla condizione cui è stato ridotto il lavoro, espropriato alle persone, negato ai giovani e non più messo
a fondamento della Repubblica; lo si
vede dal trasferimento della sovranità dal popolo ai Mercati; nella sottrazione allo Stato di ogni facoltà e stru-
mento di intervento nella vita economica; nello svuotamento del principio di rappresentanza e delle vie per
la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale; nell’abbandono della concertazione con le parti sociali e nella rinunzia
a promuovere la coesione sociale; nella crisi dello Stato di diritto per il venir
meno di uno spazio pubblico capace
di dettare le regole al sistema delle imprese e all’economia privata; nella pretesa oggettività e neutralità delle decisioni tecnocratiche; nello smarrimento e anzi nel rovesciamento degli ideali di solidarietà e giustizia che diedero luogo alla costruzione dell’Europa.
La causa di tutto ciò sta nella rot-
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tura del rapporto vitale tra economia
e democrazia, sul quale si è costruita gran parte della storia moderna
dell’Occidente. Questa storia è risultata infatti dall’incontro di due movimenti: un impetuoso sviluppo dell’economia, nelle sue diverse forme di
economia capitalistica, socialista o
keynesiana, e un impetuoso sviluppo
della democrazia, sia nella sua dimensione procedurale che nei suoi contenuti sostanziali. Il momento di massima convergenza e unità tra lo sviluppo dell’economia e quello della democrazia si è avuto, dopo la vittoria sul
nazifascismo e la tragedia della guerra, nel costituzionalismo interno e internazionale e, in Italia, nella Costituzione del 1948, che prescriveva di fare
della comunità politica il regno dell’eguaglianza, della persona il tempio
della libertà e dignità umana, e della
Repubblica il potere legittimo avente
il compito di rendere effettivi i diritti e di rimuovere gli ostacoli anche di
ordine economico e sociale che ne impediscono di fatto l’esercizio.
Oggi questa integrazione tra economia e democrazia si è rotta, e nello stesso tempo e non per caso si è
arrestato lo sviluppo sia dell’una sia
dell’altra. L’economia non solo si è isolata e affrancata dalla regola democratica ma, a cominciare dall’ordinamento europeo, si è sovraimposta. alla società e alla politica.
È giunto in tal modo a un punto culminante un processo per cui a un capi-
talismo che pretendeva di farsi legge a
se stesso e all’intera società, il legislatore, e perciò la politica, ha risposto attribuendogli ogni potere e permettendogli di stare “nell’ordinamento giuridico solo per servirsene, ma non per
assoggettarvisi” come già denunciava nel 1951 Giuseppe Dossetti in un
ben noto dibattito col prof. Carnelutti.
È sulla scia di questo indirizzo che negli anni 70-80 del Novecento irruppero sulla scena le politiche reaganiane e
tatcheriane, che presero poi piede anche all’Est dopo la rimozione del muro
di Berlino e contagiarono le stesse sinistre dell’Ovest, dal Labour Party di Tony Blair ai partiti ex comunisti europei.
Ne è derivata la rinunzia ad ogni controllo sui movimenti dei capitali, l’immunità fiscale per le grandi ricchezze,
la riduzione dei diritti del lavoro e del
lavoro stesso visti solo come costi e limiti alla competitività e ai profitti d’impresa, il primato attribuito ai mercati
sopra e contro i compiti che la Costituzione attribuisce alla “Repubblica”.
Questa supremazia di un’economia
fine a se stessa e ignara della democrazia rischia di essere la nuova condizione del mondo e anzi viene presentata come l’unica civiltà possibile, l’unico ordine conforme a natura a cui non
sarebbe lecito resistere e la cui ideologia anzi bisognerebbe essere educati ad abbracciare e a professare come
l’unica vera.
Per avere un luogo da cui fare la
propria parte per rispondere a questa
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sfida, i Comitati Dossetti per la Costituzione, l’Associazione per la Democrazia Costituzionale, Altrapagina, l’Associazione Pace e Diritti e altri gruppi e
associazioni che si stanno consultando,
promuovono un’aggregazione di cittadini intesa a rivendicare il criterio della
democrazia costituzionale come vaglio
della legittimità delle diverse espressioni della vita economica e ad animare un movimento organizzato di “Economia democratica”.
Economia Democratica intende
operare per far prevalere un’altra concezione e pratica dell’economia, in un
indissolubile nesso con la democrazia;
e ciò senza ignorare il conflitto, alieno
tuttavia dalla violenza e ordinato alla
giustizia e alla pace; senza nascondere,
nella indistinzione di un generico economicismo, lo scarto tra ricchi e poveri, forti e deboli, liberi e oppressi; senza
liquidare, come “novecentesca”, la lotta operaia, sapendo vedere le angosce
e i volti degli esuberi e degli esclusi e
restituendo alla politica il compito di
difendere la parte debole nei rapporti
economici assegnatole dall’art.3 cpv.
della nostra Costituzione.
In questa direzione il movimento di
“Economia democratica” cercherà di
agire sia promuovendo una comunicazione di saperi, sia attraverso attività di ricerca, di formazione, di studio e
di proposta anche legislativa, sia attraverso confronti e dialoghi con i partiti e le formazioni sociali, sia attraverso
pubblicazioni, assemblee, web e lotte
politiche e sociali, tanto nel raggio nazionale che in quello europeo. Si tratta di riprendere e sviluppare il processo costituzionale italiano, dando nuovo
impulso a una produzione di ricchezza che una Costituzione stabile nei suoi
fondamenti e dinamica nei suoi svolgimenti può regolare in forme sempre più
avanzate, sulla base del primato dei diritti fondamentali dei cittadini rispetto
ai poteri economici e finanziari dei mercati; occorre portare il complesso delle istituzioni, dei trattati e della legislazione europea alla coerenza con i principi e i diritti sanciti dalle Costituzioni
nazionali dei Paesi membri e dalle Carte, dalle Convenzioni e dai grandi Patti internazionali sui diritti che si tratta
oggi non soltanto di attuare ma anche
di arricchire e di sviluppare.
La lotta per un’economia democratica non riguarda solo gli economisti né è ristretta alla sfera economica, ma coinvolge tutte le competenze
e riguarda la figura stessa della società: allo stesso modo in cui, nella fase
creativa della vita della Repubblica, la
chiusura dei manicomi voluta da “Psichiatria democratica”, l’integrazione
dei bambini disabili nelle scuole ottenuta da “Genitori democratici” e “Insegnanti democratici”, l’attuazione
dei principi costituzionali nella giurisdizione perseguita da “Magistratura
democratica” e simili, non riguardavano specialisti e interessi di settore, ma
perseguivano beni e valori comuni e
hanno cambiato la società tutta intera.
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Le novità intervenute in Francia dimostrano che la politica può riprendere il suo altissimo ruolo, e che non sono un destino la povertà, la disoccupazione, la precarietà, la diseguaglianza,
la perdita dei diritti e dei valori della
vita pubblica.
Si può aderire a “Economia democratica” iscrivendosi alla “Associazione
per un Movimento per un’economia democratica e costituzionale”, con sede in
Roma, c/o Centro per la Riforma dello
Stato, via Palestro 12, 00184; il recapito telefonico (c/o Focus-Diritti sociali)
è 064464742, in funzione dalle 9 alle 19
dal lunedì al venerdì. Ci si può iscrivere
versando una quota annua associativa
di euro 50 o una quota di sostegno. Gli
studenti, i disoccupati e i diversamente indigenti potranno versare una quota
minore, o inviare una promessa di pagamento, non esigibile dall’Associazione. L’iscrizione al Movimento è compatibile con qualsiasi attività e l’appartenenza ad associazioni o partiti.
Quando il Movimento avrà raggiunto una prima soglia di 500 iscritti, sarà convocata la prima Assemblea
di Economia Democratica, nella quale
saranno discusse analisi e prospettive
del movimento, sarà discusso e approvato lo Statuto, saranno eletti i destinati alle cariche sociali. Saranno anche
costituiti un Comitato di studiosi comprendente economisti, giuristi e altri
esperti, e un Comitato di collegamento per i rapporti e le iniziative comuni da promuovere con gruppi, asso-
ciazioni, sindacati, partiti e simili. Potrà così partire, speriamo in breve tempo, la vera e propria attività culturale
e politica del movimento.
Per iscriversi basta fornire nome e
recapiti o alla sede del Movimento, o
agli indirizzi e mail [email protected]; economiademocratica@
tiscali.it; i versamenti possono essere fatti usando il c.c. BNL n 10470 intestato all’Associazione Pace e Diritti,
IBAN IT36V0100503373000000010470,
oppure recapitati alla sede del Movimento, e ne sarà responsabile, fino alla costituzione formale dell’Associazione, il Comitato promotore dell’iniziativa, rappresentato dai primi iscritti. Il sito web del Movimento è: www.
economiademocratica.it
Elenco iscritti: Raniero La Valle, prof.
Luigi Ferrajoli, prof. Umberto Romagnoli, prof. Gaetano Azzariti, Rossana
Rossanda, prof. Gianni Ferrara, Franco
Russo, Domenico Gallo, Sandro Baldini, Riccardo Terzi, don Achille Rossi,
Piero Di Siena, don Carmelo Lorefice,
Agata Cancelliere, Concetta Pellicanò,
Luisa Marchini, Rodrigo Rivas, Walter
Tocci, Francesco Comina, Afra Mannocchi, prof. Raul Mordenti, Enrico Peyretti, prof. Francesco Capizzi, Maria Teresa Cacciari, padre Alberto Simoni, don
Luigi Di Piazza, Paolo Lucchesi, Giulio
Russo, Fabrizio Truini…
Roma, 11 maggio 2012
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Una nuova società o uno
tsunami socio-ecologico?
In un precedente articolo ho ventilato l’idea, sostenuta da minoranze, che
staremmo davanti a una crisi sistemica e terminale del capitalismo e non davanti a una crisi ciclica. Detto in altre
parole: sono state distrutte le condizioni della sua riproduzione, sia dalla parte della devastazione della natura e dei
limiti raggiunti dei suoi beni e servizi,
sia da parte della disorganizzazione radicale delle relazioni sociali, dominate
dall’economia di mercato, con il predominio del capitale finanziario.
La tendenza dominante è pensare
che è possibile uscire dalla crisi, tornando a quello che c’era prima, con
piccole correzioni, garantendo la crescita, riscattando impieghi e assicurando guadagni. Pertanto gli affari continueranno as usual, come sempre.
I miliardari interventi degli Stati industriali hanno salvato le banche, hanno evitato uno sfaldamento sistemico,
ma non hanno trasformato il sistema
economico. Peggio ancora, le iniezioni
statali hanno facilitato il trionfo del capitale speculativo sull’economia reale,
Leonardo Boff
quello che è ritenuto il principale elemento scatenante della crisi, comandato da furfanti che mettono il guadagno
in cima al destino dei popoli, come si è
visto adesso con la Grecia. La logica del
lucro massimo sta distruggendo gli individui, le relazioni sociali, penalizzando i poveri, accusati di intralciare l’impianto del capitale. La bomba è stata
mantenuta con lo stoppino. Un qualsiasi problema un po’ più grave potrà accendere lo stoppino. Molti analisti si domandano spaventati: l’ordine mondiale potrebbe sopravvivere a un’altra crisi del tipo di quella che abbiamo avuto?
Il sociologo francese Alain Touraine afferma nel suo recente libro Dopo
la crisi (Vozes, 2011): o la crisi accelera
la formazione di una nuova società o
diventerà uno tsunami che potrà abbattere tutto quello che incontrerà davanti a sé, ponendo in pericolo mortale la nostra stessa esistenza sul pianeta Terra (p. 49.115). Ragione in più per
sostenere la tesi che stiamo davanti a
una situazione terminale di questo tipo di capitale. Si impone l’urgenza di
pensare valori e principi che potran-
16
no fondare un nuovo modo di abitare
la Terra, organizzare la produzione e
la distribuzione dei beni, non solo per
noi (superare l’antropocentrismo) ma
per tutta la comunità vivente. Questo
è stato l’obiettivo della stesura della
Carta della Terra, animata da M. Gorbachev che, come capo di Stato dell’Unione Sovietica, conosceva gli strumenti letali disponibili per la distruzione perfino dell’ultima vita umana, come affermato in varie riunioni.
Approvata dall’Unesco nel 2003, essa contiene, effettivamente, “principi
valori per un modo di vita sostenibile
come criterio comune per gli individui,
organizzazioni, imprese e governi”. È
urgente studiarla e lasciarsi ispirare,
soprattutto dopo l’occasione sostanzialmente persa nella riunione Rio+20.
Nessuno può prevedere quello che
verrà dopo la crisi. Ci sono soltanto
suggerimenti. Stiamo davanti alla fase
della diagnosi delle sue cause profonde. Purtroppo sono più numerosi gli
economisti che fanno l’analisi della crisi e meno sociologi, antropologi, filosofi
e studiosi delle culture. Quello che sta
diventando chiaro è quanto segue: c’è
stato un triplice scollamento: il capitale
finanziario si è staccato dall’economia
reale; l’economia nel suo complesso, si
è scollata dalla società; e la società dalla
natura. Queste separazioni hanno creato un polverone tale che ormai non si
vede qual è il sentiero da seguire.
Gli “indignati” che riempiono le
piazze di alcuni paesi europei e del
mondo arabo, stanno mettendo in
scacco questo sistema che è dannoso per la maggioranza dell’umanità.
Finora le vittime stavano in silenzio.
Adesso gridano forte. Non solo cercano un posto di lavoro ma reclamano i diritti umani fondamentali. Vogliono essere soggetto, vale a dire, attori di un altro tipo di società in cui
l’economia sia al servizio della politica e la politica al servizio del bene
vivere delle persone tra di loro e con
la natura.
Sicuramente non è sufficiente volere. Si impone un’articolazione mondiale, la creazione di organismi che
rendano possibile un altro modo di
convivere e una rappresentazione politica legata alle aspettative generali e
non agli interessi del mercato. Si tratta di rifondare la vita sociale.
Per quanto mi riguarda, vedo gli
indizi, in molte parti, e la nascita di
una società mondiale ecocentrica e
biocentrica. L’asse sarà il sistema-vita, il sistema-Terra e l’umanità. Tutto deve servire per questa nuova centralità. In caso contrario difficilmente
eviteremo uno tsunami ecologico-sociale possibile.
Leonardo Boff è autore di Opzione-Terra. La soluzione per la Terra non cade
dal cielo. Record 2010.
17
Appello acqua
“LA VOCE DEL SIGNORE TUONA SULLE ACQUE …”
Così un’antica preghiera ebraica esaltava la presenza misteriosa
di Dio anche sulle acque! (Salmo 29)
In questa torrida estate speravo
proprio di darvi notizie rinfrescanti
da Napoli sull’acqua.
Il 31 luglio, infatti, c’era stato annunciato che finalmente si sarebbe realizzato il grande sogno napoletano e
cioè che finalmente ARIN spa (la società che gestisce l’acqua di Napoli) si trasformasse in un’Azienda Speciale (Acqua Bene Comune-Napoli). Il Consiglio
Comunale aveva così votato il 26 ottobre 2011. Ma perché quel voto diventasse realtà giuridica bisognava che l’ARIN andasse a firmare il passaggio davanti al notaio. Ma le pressioni, da parte
di potentati economico-finanziari, sono
state talmente forti da impedirlo. Tant‘è
che il 31 luglio c’è stata sì una firma dal
notaio, ma a una “condizione”, e cioè
che entro il 15 novembre si faccia ‘un
piano industriale e finanziario’, piano
che non è stato elaborato dal novembre
scorso! Il comitato dell’Acqua napoletano e campano, che dal 2004 ha lavorato con passione e ostinazione per questa trasformazione, dovrà ancora atten-
dere prima di annunciare la buona notizia che Napoli è diventata la capitale
dell’acqua pubblica. Con ansia attendiamo quel giorno!
Per fortuna che a consolarci è arrivata la decisione della Corte Costituzionale (20 luglio) che dichiarava l’illegittimità dell’articolo 4 della Finanziariabis 2011. Infatti, quell’articolo disponeva la possibilità per gli enti locali di liberalizzare i servizi pubblici. “Non si
esagera dicendo che questa è una sentenza storica - ha scritto Stefano Rodotà - perché in concreto denuncia ed elimina una clamorosa frode del legislatore.” È la prima volta che, con tale nettezza, è stato affermato il diritto dei cittadini a veder rispettato il referendum.
Questa è una straordinaria vittoria per
il popolo dell’Acqua! Per questo è legittima la reazione dei cittadini di ribellarsi ai tentativi di violare la legalità fissata dal Referendum. Per cui sosteniamo
con forza la campagna di ‘Obbedienza
civile’ al Referendum, lanciata dal Forum italiano dei movimenti dell’acqua,
18
che invita i cittadini italiani ad autoridursi del 7% le bollette dell’acqua. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale, questa campagna ne esce rafforzata e
deve estendersi su tutto il territorio nazionale, ove questo è possibile (contattare i comitati provinciale e regionali).
Altrettanto impellente, per me, diventa ora portare in Corte Costituzionale la ventilata multiutility dal Nord
da realizzarsi attraverso la fusione di
tutte le spa multiutility esistenti: A2A,
Iren, Hera- Acegas-Aps…formando
un mostro finanziario che gestirebbe
i servizi pubblici dal Nord Italia. Chi
porterà questo sgorbio in Corte perché
venga dichiarato non cosituzionale?
Altra bella notizia: il Consiglio di
Stato si è pronunciato il 24 luglio sulla
vicenda dell’ACEA, l’azienda che gestisce l’acqua di Roma. Il sindaco di Roma Alemanno è deciso a vendere il 21%
delle quote (il Comune di Roma ne detiene il 51%), il resto è in mano alla multinazionale Suez e a Caltagirone. I giudici del Consiglio di Stato hanno deciso
che il sindaco non può farlo. Questo potrebbe segnare la sconfitta di Alemanno. E Roma potrebbe ottenere un’altra
bella vittoria per ‘Madre Acqua’!
Abbiamo bisogno di tante vittorie
locali per forzare i partiti e il governo
Monti a rispettare seriamente il Referendum. Per questo dobbiamo portare questa spinta propulsiva anche in
Unione Europea. È questo lo scopo del-
la prima iniziativa legislativa dal basso per costringere il Parlamento Europeo a portare le risorse idriche fuori dalle logiche del mercato. L’occasione è offerta dall’“Iniziativa dei cittadini europei” (ICE), uno strumento introdotto dal Trattato di Lisbona che assegna ai cittadini il diritto di proporre alla Commissione Europea atti legislativi sulle politiche di propria competenza. Per formulare la proposta sono necessarie un milione di firme in almeno
sette paesi della UE .Per il momento la
raccolta è aperta solo in forma cartacea.
Per informazioni sull’iniziativa
www.righ2water.eu Per scaricare i moduli di raccolta firme:http://www.acquabenecomune.org/raccoltafirme/
attachments/Modulo_raccolta_firme_ICE.pdf
È una campagna importante questa in Europa perché conosciamo l’enorme pressione delle multinazionali
dell’acqua come Vivendi, Suez, Cocacola o Sepsi…stanno facendo sul Parlamento Europeo.
Tocca a noi italiani che abbiamo
vinto un Referendum sull’acqua dare
una mano forte perché questo impegno dilaghi anche in Europa.
Dobbiamo rimanere uniti! Solo rimanendo uniti possiamo vincere.
E la speranza rinasce dal basso!
Alex Zanotelli
Napoli, 11 agosto 2012
19
Continuiamo anche in questo numero quelle riflessioni
sul battesimo di varia provenienza che abbiamo stimolato nei numeri precedenti de L’INVITO sempre a
proposito di una scelta consapevole e adulta anche di
questo sacramento d’iniziazione.
Riflessioni sul Battesimo della
Comunità di San Francesco Saverio
Battesimo è immersione: dal greco BAPTO (da cui molti nomi italiani: batimetria – batiscafo – batisfera –
batisferio): è immersione nella Trinità,
ossia nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Con il battesimo s’instaurano tre grandi relazioni: paterna, figliale, materna (spirito in ebraico “ruah”
. nome al femminile, ecco la relazione
materna). Noi stiamo bene quando viviamo bene, con equilibrio tali relazioni. Oggi alla relazione è attribuita sempre maggiore importanza e comprendiamo quanto sia determinante viverla, appropriarsene nel momento stesso che ci doniamo che ci mettiamo, appunto, in relazione. Nel nuovo rito del
matrimonio, quando si va a metter in
atto una nuova relazione - la relazione coniugale - facciamo memoria del
battesimo, cioè colleghiamo la nuova
relazione alle tre relazioni fondamentali instaurate con il battesimo. Vivere
la relazione. Riteniamo che la crisi oggi stia proprio in questa difficoltà. Ma
nessuno ce l’ha mai insegnata, fatta vivere quest’importanza e questa logica
relazionale. In passato si viveva l’ubbidienza ossia la sottomissione: della
moglie al marito, dei figli ai genitori,
dei laici al clero. Oggi non accettiamo
più la sottomissione e il battesimo come il matrimonio non sono dati per indicare una sottomissione, ma per stabilire e significare una relazione, un essere alla pari, insieme, riferiti, relazionati gli uni agli altri. Vivere la relazione è
una splendida sfida, impegnativa. Ancora più bella se pensiamo che è questo vivere il battesimo:l’immersione
20
nel Padre, nel Figlio, nello Spirito Santo, un vivere cioè la propria relazione
con il papà, con i figli, con la mamma,
di cui il battesimo e Dio sono segno.
Il segno è rappresentato dall’immersione nell’acqua
Il battesimo viene da Giovanni il
precursore. Lui in un tempo di grande crisi religiosa e politica si reca sul
fiume Giordano e tutti coloro che vengono da lui (e sono tanti, anche Gesù), li immerge nell’acqua del fiume.
Ha tanti significati questa immersione. Ha il significato di purificazione,
perché l’acqua pulisce. Ma il fiume
Giordano è anche il luogo dove il popolo ebreo, sotto la guida di Giosuè
(vedi libro di Giosuè) ha raggiunto la
libertà e la terra promessa dopo i quarant’anni passati a girovagare nel deserto. Quando Giovanni realizza questo segno esso viene subito recepito: è
un richiamo alla libertà: libertà dalla
sottomissione al tempio, dalla sottomissione a Erode, dalla sottomissione ai Romani. Giovanni paga pesantemente tale richiamo alla libertà. Tutto il battesimo è richiamo alla libertà:
il passaggio attraverso l’acqua, dapprima del diluvio, poi, del Mar Rosso,
infine del fiume Giordano è un passaggio dalla schiavitù alla libertà. La
chiesa è quella comunità che galleggia come una barca sull’oceano della
storia, con grande difficoltà, ma è – o
dovrebbe essere - il segno e la garanzia più forte di libertà. Portare un figlio o un membro della comunità alla libertà è “educarlo”: condurlo fuori (e-ducere) dalla schiavitù attraverso un percorso permanente. E il battesimo è uno di questi segni di passaggio di questo inviti splendidi e ricchi di significato. Essere cristiani liberi: adulti, con un proprio impegno e
una propria responsabilità, ecco cos’è
il battesimo!. E questa libertà si trova
nelle tre grandi relazioni, per noi credenti nelle relazioni con Dio: Padre,
con Gesù Figlio, con lo Spirito Santo
(Ruah – come abbiamo visto al femminile -) l’aspetto materno di Dio.
Questo è il segno dell’acqua.
Vi sono però altri segni
S’inizia il rito del battesimo fuori
dalla Chiesa. Sì perché si nasce anzitutto come uomini e donne: è una persona umana che viene immersa e toccata dai tanti segni. E questa persona
umana viene chiamata per “nome”: il
nome stabilisce e riconosce una identità che va sempre rispettata e ricordata. E su questa identità, sulla fronte
dei catecumeni/battezzandi si traccia
un segno di Croce e il celebrante (ricordiamo che questo sacramento, pur
in casi eccezionali, può essere amministrato anche da un laico/a) dice: “Maria, Mario con grande gioia la nostra
comunità cristiana ti accoglie. In suo
21
nome ti segno col segno della croce. E
dopo di me anche voi, genitori e padrini, farete sui vostri figli/figliocci il
segno di Cristo Salvatore”.
Si entra poi in chiesa e si fanno
due letture: è la Parola che ci istruisce su quello che stiamo per fare. Le
letture possono essere scelte a piacere. La comunità di recente ha scelto
dalla Prima lettera di Pietro (3,15 ss)
e dal vangelo di Marco (10,17 ss): la
lettura sulla speranza (“pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è
in voi. Tuttavia questo sia fatto con
dolcezza e rispetto”) e il vangelo del
giovane ricco al quale Gesù indica di
liberarsi dei problemi dei beni terreni per avere la libertà.
Ma per vivere la speranza e la libertà bisogna saper essere forti e combattere: è l’unzione con l’olio dei catecumeni che ricorda l’unzione degli atleti che dovevano affrontare la dura gara olimpica, per i nostri catecumeni
la gara della vita, una gara che richiede forza, sacrifici, capacità di dirsi dei
“no”, di saper combattere (noi nel rito diciamo combattere “l’avversario”
in ebraico “satana”).
Seguono poi, dopo l’immersione
nell’acqua, quattro segni che vanno
sottolineati brevemente:
- l’unzione con il sacro crisma “Dio Padre del nostro Signore Gesù Cristo ti
consacra con il crisma della salvezza
perché, inserito in Cristo sacerdote,
re e profeta, sia sempre membra del
suo corpo”: con questo segno viene impartito il sacerdozio proprio di
chiunque riceve il battesimo. Il Concilio Vaticano II° ha dato bellissime
istruzioni su questo sacerdozio proprio di tutti i battezzati. E’ il sacerdozio comune, purtroppo dimenticato
dalla rimozione postconciliare. E, accanto a questo il dono della profezia
e quello della regalità. Tutti dobbiamo saper guardare avanti con fiducia e con piena consapevolezza della propria validità e importanza e del
proprio impegno profetico.
- La vesta bianca: è il dono della vita
nuova che viene concessa con il dono delle relazioni.
- La luce: una candela che viene accesa al cero pasquale del Cristo risorto,
segno di vita. La vita viene dall’acqua
e dalla luce e sono due segni importanti e fondamentali nel battesimo.
- Il segno dell’effeta: in ebraico è “apriti”. Gesù l’ha usato per un sordo muto. “Apriti” sappi ascoltare e sappi
parlare: sia la Parola di Dio sia la saggezza che si deve sempre apprendere e comunicare. Questo segno apre
le porte della scuola dell’apprendimento, della capacità di usare il linguaggio della fede che abbiamo appreso per farci responsabili attivi sia
nella Chiesa che nella società in cui
siamo chiamati a vivere.
22
Adesso “mi sento sereno”
di Lorenzo Bertizzolo
Ho subito accettato con piacere la
proposta de l’Invito di parlare della
mia esperienza “religiosa” conclusasi
con la decisione di rinunciare al battesimo. Dopo una prima fase di entusiasmo ho però avvertito dentro di me
come una resistenza a condividere con
altri, scrivendone, una scelta così personale come quella di “non credere”.
Altrettanto personale dovrebbe essere quella di “credere”, di far parte di
una comunità di credenti, attraverso
la scelta di un sacramento.
Quello che mi spinge a dare il mio
contributo è la considerazione che il
battesimo è una “cosa pubblica”, una
“festa”, e la scelta di battezzare o non
battezzare i figli diventa, conseguentemente, quasi una scelta “politica”.
Ancor prima che io maturassi un
pensiero pienamente ateo, in me era
già presente un sentimento di “disagio”, non riesco a descriverlo con altri termini, riguardo a una condizione che non avevo scelto, ma di cui
avrei portato le conseguenze per tutta la vita. Non voglio dire che nel mio
percorso di crescita siano state inutili o dannose le ore di catechismo, la
mia presenza come “chierichetto” a
numerosissime celebrazioni, o l’aver
partecipato ad altri momenti di vita
religiosa quali la prima comunione o
la cresima. Tutti questi sono episodi
della mia vita che hanno avuto una
certa importanza, anche solo per il
fatto che erano delle feste, accompagnate da doni e gioia da parte di tutta
la famiglia. La realtà è che questi momenti li ho vissuti passivamente, perchè non ero io ad averli scelti. Ora li
rivedo nella mente come degli eventi “piovuti dall’alto”, quasi inevitabili, come l’iscrizione all’asilo, alle elementari, alle medie.
In sintesi: dopo la cresima mi ritrovai ad essere un ragazzo che aveva partecipato a numerosi riti di vita cristiana senza averli vissuti in
piena coscienza. Anche se in taluni
momenti penso di aver creduto, allo stesso tempo non so distinguere
questo “credere” da tutta una serie
di apparenti verità che sono insegnate nel lungo cammino di formazione
di un bambino.
Finito il liceo ero un giovane adulto sempre più incerto sulla fede, in-
23
certo se il pregare - cosa che ancora talvolta mi capitava di fare - fosse
un riflesso condizionato dovuto solo
all’abitudine del gesto e all’insegnamento ricevuto, o invece una spinta
interiore, un’autentica scelta. In questo periodo di incertezza crebbe però in me il senso di “ingiustizia” nel
sentirmi chiamato, io così dubbioso
sul mio sentimento religioso, un “soldato di cristo”. Ancora più di questa definizione “interna” alla Chiesa,
quello che più mi infastidiva era, ormai maggiorenne, l’essere considerato quasi un “elettore”, un possibile
“voto”, dalla gran parte della gerarchia ecclesiastica che vive la politica
e il culto come un’unica cosa.
Negli anni di università, mentre formavo la mia personalità sperimentandomi in un “universo” nuovo e meno schermato rispetto a quello della famiglia e della città in cui ero
cresciuto, ho infatti assistito a numerossisime prese di posizione di ecclesiastici in materie non di loro competenza. È facile immaginare quanto mi
indignasse il loro dichiarato parlare
anche a nome mio, disponendo di un
contratto non stipulato da me, come
se dal sacramento del battesimo tutte
le scelte sulla vita, sulla politica, sul
sociale dovessero seguire in blocco,
di conseguenza. La decisione di non
fare più parte della comunità cristiana è dovuta quindi a ragioni più so-
ciali che personali: non potevo accettare che le mie idee su tematiche importanti, come la vita e la morte, dipendessero da una imposizione passata, perchè ero nato in uno Stato in
cui era battezzato molto più del 90%
della popolazione.
Il mio percorso verso l’ateismo invece è stato più lento e frutto di una
maturazione più profonda, di una riflessione motivata a più livelli. L’ateismo è stato finalmente una scelta, sostenuta da letture scelte da me, vissuta nell’indipendenza, senza quella “vergogna” che sicuramente avrei
provato se avessi rinunciato alla fede
durante l’adolescenza. L’accorgermi
di non credere in nessun dio, di non
notare la sua presenza in quello che
mi circonda, mi ha portato a staccarmi completamente dal cristianesimo e
a rinunciare al battesimo. Fino a quel
momento, avvenuto ormai 4 o 5 anni orsono, pur non volendo lasciarmi classificare come “cristiano cattolico”, non avevo trovato l’occasione per formalizzare questa decisione. Sono venuto a conoscenza della
possibilità di “sbattezzarmi” e delle
modalità per farlo grazie alla Unione
Atei e Agnostici Razionalisti (UAAR),
quando ero già entrato pienamente
nel mondo ateo. Due mesi dopo feci
la scelta più coerente con la mia coscienza. Da allora non mi sono pentito e mi sento sereno.
24
Il viaggio di Biblia in Spagna
Il “camino” di Santiago
di Compostela
di Silvano Bert
1° giorno – Bilbao
Atterriamo a Bilbao con l’aereo,
da dove in pullman faremo il “cammino” su strada asfaltata. Nel Medioevo i pellegrini si muovevano a piedi
o a cavallo da Parigi e da Londra, da
Amburgo e da Roma, dormendo in
ospizi di fortuna lungo la strada nei
boschi. Tornavano purificati nell’anima, ma estenuati nel corpo, e qualcuno ci lasciava la pelle se incappava
nei predoni. Mentre in albergo saliamo nella stanza con l’ascensore per la
prima doccia, non so se noi siamo già
più o meno affaticati dei nostri antenati. Per dieci giorni, programmati
da un’agenzia di turismo romana, di
Adriano a cui nulla sfugge e che ci diverte scherzando, ci inoltreremo alla
scoperta accompagnati da Josef e Manuel, due guide spagnole che parlano
un buon italiano.
Dovremo allora, sorpassandoli, salutare vergognosi dal pullman quei
pellegrini che anche oggi avanzano a
piedi, lenti, con lo zaino in spalla, sui
sentieri segnati dalla conchiglia blu e
gialla, curvi sotto il sole e la pioggia,
dotati di bordone e bisaccia?
Un osservatore ci mette in guardia.
“Alcuni si recano nei luoghi sacri per
soddisfare la loro curiosità e vedono
posti molto piacevoli e begli edifici.
Altri vi si recano per ottenere l’approvazione degli uomini, altri ancora per
spendere molto denaro, altri per imbrogliare e rubare. Tutti costoro saranno accolti da Dio come chi immola il figlio in presenza del padre e si accosta
a lui con le mani coperte di sangue”.1
Parrebbe l’analisi di un sociologo delle religioni contemporaneo, e invece a
scrivere è Onorato di Augusta, un teologo del XII secolo. Nihil novi sub sole (nulla di nuovo sotto il sole): bando ai sensi di colpa dunque, per esserci iscritti a questa avventura secondo
i crismi del pacchetto tutto compreso.
Per capire, senza bastone e bisaccia, ci
1
Denise Pericard-Méa, Compostela, 2004.
25
sforzeremo di pensare a ogni curva.
A forgiarci saranno con noi lo storico
Franco Cardini, e Laura Novati esperta di arte, cinema e letteratura.
Innanzi tutto, quale parola traduce meglio “camino”: viaggio o pellegrinaggio? Biblia, sul suo sito (www.
biblia.org), nel convocarci in ottanta
da tutta Italia, parla di “viaggio”. È il
desiderio di noi sedentari di muoverci, anche dopo aver lasciato il nomadismo, praticato per due milioni di anni. Forse abbiamo nostalgia del tempo
in cui, parassiti della natura, esauriti i
raccolti spontanei in un territorio, facevamo le valigie per spostarci a dissodarne uno nuovo. O forse, a farci
rimpiangere la vita precaria dei paleolitici, è la fatica del produrre e dello
scambiare che a noi neolitici garantisce autarchia, ma pretende che ci organizziamo per risparmiare i chicchi di
grano da destinare alla semina. È cioè
la fatica dell’economia e della politica
a domicilio che ci spinge a scioglierci,
per qualche giorno, dai legami quotidiani che usurano? Forse “viaggio”,
che coinvolge tutti, credenti e non credenti, è parola che si addice a un’associazione laica di cultura biblica.
Ma a Santiago, fra storia e leggenda, è collocata la tomba di un martire, l’apostolo Giacomo, autore di una
lettera canonica e di un vangelo apocrifo. “Pellegrinaggio” è parola del sacro, biblica addirittura: “Esci dalla tua
terra e va’”, disse il Signore ad Abramo, e prima ancora, è nell’incammi-
narsi che Adamo ed Eva “si accorsero
di essere nudi”. La strada verso la città-santuario è metafora della vita terrena, effimera, che conduce al cielo, la
vera patria. Vale per Gerusalemme (religioni abramitiche) e Roma (Cristianesimo), per La Mecca (Islam) e Benares
(Indù), per Ise (Scintoismo) e Saikoku
(Buddismo).
Ma allora si dice “viaggio” per non
immischiarsi nel sacro, perché pellegrinaggio, in tempi di secolarizzazione, sa di reincantamento arcaico e sospetto? O è il tentativo di integrare il
sacro, laicamente, nell’umano? “Nihil
humani a me alienum puto” (niente di
ciò che è umano considero estraneo)
scriveva Terenzio, l’antico poeta romano. Anche la Bibbia è la storia di un
viaggio, del cammino spirituale di un
popolo. Secondo Sergio Manghi il senso del sacro non coincide con il credere
in Dio, è la coesione data da un simbolico che accomuna i tanti io in un noi.2
Si può dire “pellegrinaggio” per alzare muri identitari, con spirito di crociata persino violenta, o per la consapevolezza di essere tutti pellegrini in ricerca (stranieri, da per-ager: fuori dal
territorio della comunità).
Bilbao, nei Paesi Baschi, è una via
secondaria verso Compostela (campus stellae: la stella che secondo la leggenda indicò il luogo della tomba di
2
B. Manghi, Sacro, pietra dello scandalo del
nostro tempo. L’Invito n.227.
26
S. Giacomo). Fu porto e centro minerario e industriale importante. La crisi lo ha trasformato in “città-museo”,
di cui il Guggenheim dell’architetto canadese Frank Gehry è simbolo, attrazione, e fonte di reddito. La cattedrale gotica dedicata a Santiago ha perso
importanza. Il museo sembra un fiore, ma anche una nave, con un ragno
all’ingresso, e un cane fatto di fiori. Per
Giancarla Codrignani ha rivitalizzato
la città, ne va dato merito a un’amministrazione che sa guardare al futuro.
La stessa città a un altro intellettuale
del gruppo, Renato Oliva, pare invece
senz’anima, succube di un monumento inutilmente mastodontico.
2° giorno – Pamplona
Gli 865 chilometri del cammino attraversano regioni che hanno fatto la
storia della Spagna, formatasi ad opera di re e regine “cattolici ”in un groviglio di diplomazia, di matrimoni, di
guerre. Nella storia hanno operato anche le passioni dei popoli, anche quelle della democrazia da cui, se vogliamo, potremmo trarre alimento.
Franco Cardini non ha reticenze
sugli argomenti spinosi, il terrorismo
dell’Eta, e prima, la guerra civile fra i
repubblicani e Francisco Franco (“alzamiento” chiamò il generale la ribellione). In pullman lo storico si esibisce
nel canto di “Los cuatro generales” e,
per par condicio, di “Fischia il vento”,
canzone russa all’origine. La storia d’Italia, e del suo costume, ci accompa-
gna con il sorriso dei sonetti di Gioachino Belli, che Stefano di Roma recita a memoria, incredibilmente pertinenti ad ogni alzar del sole.
Il due giugno a cena cantiamo “Fratelli d’Italia”, e facciamo un minuto di
silenzio a sostegno degli amici emiliani, di una regione squassata ogni
giorno dal terremoto di una primavera ostile. In Italia ci sentivamo emotivamente coinvolti nella tragedia dalle
immagini delle distruzioni e dei morti. Qui, liberati dalla televisione e dai
giornali, rischieremmo di rimuoverla,
se non avessimo davanti ogni giorno
i volti tirati di Ferruccio e Fabrizio di
Novellara.
La Navarra, i Paesi Baschi, le Asturie, il Leon, la Galizia sono stati territori celti, romani, visigoti, musulmani, regni indipendenti, province di un
impero su cui non tramontava mai il
sole, poi napoleonici, liberali, e franchisti, infine regioni ad “autonomia
speciale” nel regno di Spagna membro dell’Unione Europea.
Anche il pellegrino che partiva dal
Trentino / Alto Adige è arrivato a Santiago prima dai Principati vescovili di
Trento e Bressanone, poi come tirolese
di un Land dell’Impero d’Austria, poi
da suddito del Regno dell’Italia fascista. Infine da cittadino della Repubblica, membro della UE. Da una regione
ad “autonomia speciale”, ma a sovranità limitata perché, in forza dell’accordo fra De Gasperi e Gruber, l’Onu ha chiesto all’Austria di vegliare
27
sul Sudtirolo, attraverso il diritto alla
“quietanza liberatoria” sullo statuto.
Tanti confini diversi hanno attraversato nei secoli i pellegrini usufruendo del sistema viario (fatto di strade,
di ponti, di ospizi, di pozzi, di chiese,
di monasteri e di conventi, di villaggi
e di città) in lenta ricostruzione dopo
la caduta dell’impero romano. Tante
esperienze diverse hanno riportato al
paese di origine quei nostri antenati,
legate dal filo del cristianesimo che fa
dire a Laura Novati: “vecchia Europa,
patria nostra”.
Con il pullman ci spostiamo in
avanti, ma nella storia stiamo andando
a ritroso. Dopo il post-moderno di Bilbao, a Pamplona regrediamo ai secoli
della prima modernità. Il Santuario di
Sant’Ignazio di Loyola, con l’immensa
cupola in stile barocco, rappresenta la
teologia trionfante della Chiesa cattolica della Controriforma. Le perdite subite ad opera della Riforma protestante furono compensate dall’espansione
in America latina, in Asia e in Africa.
Il pluralismo politico e religioso
della nuova Europa si affermò nel fuoco delle guerre di religione, superando l’anacronistico universalismo del
Sacro romano impero germanico. Con
i trattati di Augusta (1555) e di Westfalia (1648) i principi secolari si accordarono che sulle vie di salvezza (cioè
sull’interpretazione della Bibbia) non
era possibile trovare un accordo: con il
principio “cuius regio eius et religio”
(ad ogni Stato la sua religione) il va-
lore della pace prevale sulla verità. In
questi mutamenti drammatici la Spagna fu protagonista. Carlo V, l’imperatore, simpatizzava per Erasmo da Rotterdam: con Lutero cercò un compromesso, e chiamò a confronto Las Casas e Sepulveda, per capire se gli indios erano uomini.
Ma il fascino splendente dell’oro
e dell’argento, dei marmi e dei colori
degli altari e dei retablo barocchi, non
possono coprire la violenza del colonialismo, del genocidio, della schiavitù, dei processi alle streghe e agli eretici ad opera dell’Inquisizione. È il volto tremendo del sacro.
I Gesuiti elaborarono per l’Europa
di allora l’ordinamento classico degli studi, e la devozione moderna degli esercizi spirituali ignaziani attenta
all’interiorità. Nel rapporto con il potere politico fu il cardinale Roberto Bellarmino ad avviare la Chiesa dalla teocrazia alla potestas indirecta in temporalibus. (da un potere diretto nell’ambito politico a uno indiretto). In Paraguay l’esperimento delle “riduzioni” in difesa dei contadini fu stroncato come eversivo dell’ordine costituito. Un manifesto sulla porta del santuario annuncia un convegno dedicato a Diego Lainez, terzo generale della Compagnia di Gesù, teologo umanista presente al Concilio di Trento, e
del quale si fa memoria in una piccola piazza della città.
Nel ‘600 e ‘700 il Cammino di
Santiago subisce una riduzione per
28
le guerre che sconvolgono l’Europa.
Inoltre la critica protestante alle reliquie e alle indulgenze provoca una
stretta anche nella Chiesa cattolica,
che con Cesare Baronio nega autenticità storica alla tomba di S. Giacomo (e così indebolisce la Spagna). Secondo Calvino la Vergine Maria non
avrebbe potuto riempire tutte le fiale
di latte venerate nei santuari nemmeno se fosse stata una mucca. Il governo “illuminista” di Carlo III di Borbone aggrava ancora di più la crisi del
“cammino”, che conoscerà una ripresa solo nel ‘900.
A Pamplona e a Roncisvalle, a ragionare sul volto ambiguo dell’Occidente cristiano è con noi per due giorni Francesco, un giovane “europeo”
che ne trae ulteriori conoscenze e motivazioni per l’impegno che lo attende
in Africa, nell’Agenzia dell’Onu per i
rifugiati. La vecchia Europa non potrà mai risarcire pienamente le colonie
che ha sfruttato, ma può cambiare politica nei confronti del Terzo Mondo.
Le Nazioni Unite sono il primo “vagito” (la parola è di Ernesto Balducci) di una nuova politica, che (auto)limita la sovranità degli Stati per fronteggiare i problemi posti dalla globalizzazione.
3° giorno – Roncisvalle
Michele Serra e Giovanna Zucconi
nel loro “cammino” non trovarono a
Roncisvalle la profonda gola nella foresta che si aspettavano, ma un alto-
piano simile a quello di Asiago.3 Il miscredente, come Serra si autodefinisce,
assiste alla messa dei pellegrini, e per
rispetto spegne il telefonino, cosa che
invece non sente il dovere di fare, suscitando in lui sorpresa e irritazione,
una giovane fedele cattolica spagnola.
Sappiamo bene che lì, nel 776, (nella storia andiamo ancora a ritroso),
Carlo Magno fu sconfitto non dai musulmani, bensì dai montanari baschi
cristiani ostili alla marcia di un esercito
straniero sulle loro terre. Ma fu l’episodio leggendario a ispirare nell’XI secolo l’epica della Chançon de Roland,
un poema fondamentale dell’immaginario medievale dell’Europa.
Il verso 1015 recita: “paien unt tort
et chestiens unt dreit”. La struttura paratattica ha la solennità inconfutabile
dello stile biblico, analoga al “Fiat lux,
et lux facta est” della Genesi. Gli europei lo tradussero in tutte le lingue:
“i pagani sono nel torto e i cristiani
sono nel giusto”, ”Pagans are wrong
and Christians in the right”, “Los paganos estan equivocados, los cristianos en el derecho”.
Il grido “Dio lo vuole” di Urbano
II nel 1095 è a fondamento dello spirito di crociata, che in Spagna divenne epopea della “reconquista”. Così
si diffuse la teologia dell’”extra ecclesiam nulla salus” (“fuori della chiesa non c’è salvezza”) che dominò fino
3
Www. Radio Tre Rai, La via Lattea, 2004.
29
al Concilio Vaticano II).4 Fra lo sbarco
di Tariq nel 711 alle colonne d’Ercole
e l’espulsione dei musulmani da Granada nel 1492 sono quasi 800 anni di
El-Andalus, come gli arabi chiamarono i loro emirati spagnoli. Franco Cardini, documenti alla mano, dimostra
che la storia non è tragica, che gli anni di guerra furono soltanto trenta, gli
altri furono secoli di scambi culturali,
di convivenza e collaborazione fra musulmani e cristiani (ed ebrei). Lo prova
nell’arte lo stile mozarabico che orna
di trine molte chiese cristiane.
E tuttavia nella mentalità collettiva, a confronto con la verità di Dio integralmente posseduta, l’altro, il musulmano, divenne per il cristiano un
“inimicus”. Nella guerra santa è un
atto d’amore morire ed uccidere. Sui
rapporti con l’ebraismo fin dall’antichità S. Basilio scriveva che “è ridicolo
girare con una lampada accesa quando è giorno”, e Carlo Magno costrinse i Sassoni al battesimo pena la morte. Dante collocò Maometto all’inferno fra gli scismatici.
Nel “cammino” la sinagoga è scolpita come una donna con gli occhi velati, a rappresentare l’ostinata cecità
degli ebrei, e San Giacomo è scolpito nella foggia del pellegrino, ma più
spesso a cavallo con la spada sguainata
del Matamoros (uccisore dei saraceni).
4
Erich Auerbach, Mimesis, Il realismo nella
cultura occidentale. 1964.
4° giorno – Logrogno
Durante il “cammino” per alcuni tratti camminiamo a piedi. È l’occasione per conoscere e parlare con
i pellegrini di tante nazioni diverse.
Nelle pause li vediamo accalorati e affaticati, ma decisi a riavviarsi verso la
tappa successiva. Attraversiamo campagne, prati, boschi che sono una risorsa per l’agricoltura e l’allevamento di queste regioni. Vediamo anche
campi abbandonati e case chiuse, perché gli abitanti sono emigrati, e chissà
quale sarà il loro destino. Qua e là sono ormeggiate le barche e su qualche
piazzetta è aperto il mercato del pesce. Ma Josef in un momento di confidenza di dice: “Ormai siete voi, turisti, la salvezza di queste regioni”.
E Manuel aggiunge che i turisti sono
in calo, anche gli italiani da sempre i
più numerosi, e diminuiscono persino i tedeschi.
Il Puente la Reina, sul fiume Arga,
è un poderoso ponte romanico che
disponeva di tre torri difensive, dove convergevano i principali itinerari europei fin lì separati.
Logrono fu sede di un tribunale
dell’Inquisizione, dove numerose persone furono torturate ed uccise accusate di eresia o di stregoneria. Giorgio
Chiaffarino ci informa che Bruno Segre
gli ha segnalato una notizia dell’Ansa:
nel villaggio israeliano di Nevè Shalom (Oasi di pace), in cui vivono insieme ebrei, musulmani, e cristiani, sui
muri sono comparse le scritte “morte
30
agli arabi” ad opera di associazioni di
estrema destra.
5° giorno – Burgos
A ricordarci i pellegrini trentini sono
le figure dipinte sulle case a Fondo, nel
Tesino, in Val Rendena. A San Domingo della Calzada si ricorda, nella cattedrale gotica, il miracolo affrescato sulla
facciata della chiesetta di Sant’Antonio
a Romeno, in Val di Non, nel XV secolo.
La leggenda racconta che un giovane fu impiccato ingiustamente, ma che
San Giacomo lo salvò con un miracolo. In una gabbia dorata della cattedrale
sgambettano ancora oggi a ricordo un
gallo e una gallina anch’essi resuscitati
dal santo. I trentini allora, devoti e penitenti, partivano come ringraziamento per aver scampata la peste, o per invocare protezione per il futuro.
Anche oggi, alla partenza, e la ritroviamo intatta sui giornali al ritorno,
“contagio” è la parola che ci minaccia.
Per salvarci dal rischio di oggi, in cui i
mercati finanziari ci coinvolgono insieme, italiani e spagnoli, non sappiamo
a che santo votarci. Per quando l’Invito con le impressioni sul viaggio sarà
in mano al lettore, Dio solo sa se saremo precipitati nel baratro, o se dal mare dell’eurozona in tempesta emergeremo ancora tenaci. Devoti e penitenti non siamo più. Il disincanto, anzi,
coinvolge anche la politica, il nostro
stare insieme, che è la storia di oggi.
La Cattedrale di Burgos è gotica,
ma inizia romanica, e la volta è in sti-
le mozarabico. Una costruzione che
si prolunga dal 1221 al 1765 è la prova del senso storico su cui fondavano
la propria identità quei nostri progenitori: esiste un tempo prima di noi e ne
esisterà uno dopo, a trascendere la nostra vita individuale e di gruppo. Per
questo l’Unesco ha dichiarato la cattedrale Patrimonio dell’Umanità e il
“camino” Itinerario culturale europeo.
6° giorno – Sahagun
L’abbondanza ha un rovescio della
medaglia: le tre chiese visitate al mattino e le tre al pomeriggio, (cattedrali di città, parrocchie di paese, cappelle di monasteri scavati in una roccia
o di conventi immersi nel verde) alla
sera si accavallano confusamente nella memoria. Saranno le fotografie a
permetterci di rivederle con calma. Il
“cammino”, mi dico, è stato inventato per percorrerlo a piedi, quando anche i pellegrini più bravi non superano i 40 km. al giorno. L’arte ha bisogno di pause, di uno scambio di pareri fra amici. E di silenzio.
A soffrire sono soprattutto i capitelli. Nella chiesa romanica di s. Martino a Fromista sono 100 quelli scolpiti all’interno e più di 300 i medaglioni
all’esterno. Quelle immagini insegnavano la Bibbia agli analfabeti: io, per
confrontarle, vorrei avere su un unico foglio, una accanto all’altra, almeno quelle, eguali e diverse, di Adamo
ed Eva che se ne vanno nudi dall’Eden, e di Gesù attorniato dai discepo-
31
li nell’ultima cena. O quella di Orlando, con lo scudo crociato, che abbatte
il mostro, il demonio dell’Islam.
Compaiono anche le immagini profane. Le più antiche sono appena abbozzate. Ma piano piano, accanto alle bestie e ai mostri leggendari, nel XII
secolo le foglie della quercia e il ramoscello del biancospino sono scolpiti con precisione e delicatezza. È il
lavoro dell’artigiano che si emancipa,
dell’uomo che dando consistenza alla
natura si rivela a se stesso. La nuova
civiltà borghese erode il feudalesimo
e le sue gerarchie attraverso il mercato, la tecnica, l’arte. Nella tradizionale spiritualità agostiniana le cause naturali, seconde, erano svalutate perché
in tutto dominava la causa prima, l’onnipotenza di Dio. Alla realtà che cambia, all’uomo che diventa protagonista, aperto all’iniziativa e alla gioia, si
ispira invece la teologia nuova. Essa
sostituisce all’allegorismo l’uso della
ragione, e sfocerà nella grande sintesi
di Tommaso d’Aquino. È il rinascere
delle città, e in esse dei conventi degli
ordini mendicanti, a incrinare l’identità fra cristianità e sacralità dell’Impero.5 I monasteri dei monaci benedettini
sono tutt’altra cosa rispetto ai conventi “moderni” dei francescani e dei domenicani. Monastero e convento non
sono sinonimi, insite Laura Novati.
5
M. D. Chenu, La teologia nel XII secolo. 1998.
7° giorno – Leòn
A Leòn la cattedrale, iniziata nel
1255 su commissione di chissà quale
re, è in stile gotico fiammeggiante. A
fianco sorge la Casa de Botines commissionata nel 1892 dai commercianti di tessuti all’architetto catalano modernista Antoni Gaudì, progettista della Sagrada Familia a Barcellona. La vicinanza dei due stili suscita nei pellegrini italiani i commenti più accesi.
Nella Basilica romanica le reliquie
di Sant’Isidoro furono trasferite da
Siviglia grazie all’accordo fra il re di
Leòn Ferdinando I e l’emiro musulmano di Siviglia nel 1063. Nel Pantheon reale sono conservati i sarcofaghi di re e regine. Nel portico gli affreschi romanici raffigurano scene bibliche: la cappella è di un tale splendore che gli spagnoli la chiamano “Cappella Sistina”. La guida, una signora
spassosa, ci racconta che alla sua prima esperienza rischiò il licenziamento. A un gruppo di ignari giapponesi
infatti, nel presentare l’Annunciazione, spiegò serenamente che la Vergine
era rimasta incinta ad opera dello Spirito Santo, e alla domanda dei turisti
su chi fosse lo Spirito Santo, aggiunse serenamente che era una colomba!
8° giorno – Lugo
Gli insegnanti sanno che a scuola
l’”imprevisto” mette a disagio, ma è
un momento forte di apprendimento.
Sull’autostrada anche noi vi incappiamo. Ad Astorga accanto alla cattedrale
32
intravediamo in un sotterraneo l’ergastulum, il grande carcere per schiavi. Lì
nel medioevo i pellegrini potevano imbattersi in predoni che rubavano i cavalli, o nei contadini di un villaggio in
rivolta contro il signore. Oggi ci imbattiamo in una protesta di minatori, uniti
in difesa della loro miniera di carbone.
Sulla strada di origine romana si
forma una lunga colonna di auto, e
gli autisti, scesi dai loro cavalli d’acciaio, sconosciuti fra loro, parlottano
disorientati. Da lontano si alza il fumo dei copertoni bruciati. I più spazientiti rompono il guard-rail e tornano indietro sulla corsia opposta. Altri
aspettano che sia la “guardia civil” a
risolvere il problema. La direzione di
Biblia modifica il programma e l’orario: intanto tagliamo Villafranca del
Bierzo... e poi vedremo.
Sul pullman Giuseppe Florida improvvisa, ascoltato con attenzione,
una lezione sulle energie alternative.
Qualcuno si sorprende per l’iniziativa dell’ingegnere chimico milanese,
che ad altri non pare verde abbastanza. Uno si azzarda a proporre l’invio di
una delegazione per esprimere “attenzione” agli sconosciuti “mineros” spagnoli. Non se ne fa nulla: ad ognuno
il suo compito -si replica- non spetta
a Biblia risolvere le vertenze sindacali.
Finalmente la polizia libera la strada
senza incidenti. Al monte O Cebreiro
arriviamo con due ore di ritardo, ma
in compenso la cucina locale è la più
gustosa di tutto il cammino.
In serata il discorso riprende a tavola con la presidente Agnese Cini. Biblia ha una ragione sociale che è quella
nota e associa persone diverse fra loro. Per qualcuno la crisi che sta squassando il mondo è “tecnica”, per altri
è “politica”. Per qualcuno Grillo è “la
soluzione”, per altri è “un problema”.
La “crescita” (di cosa?) pare un miraggio. Alla “decrescita” qualcuno guarda
con interesse, altri con perplessità. Parteggiare per i minatori spagnoli richiede conoscenze che non abbiamo, ma
una solidarietà di attenzione avrebbe
espresso la consapevolezza che la crisi è comune, e colpisce i più deboli.
Che in un’”associazione laica di cultura biblica” il pluralismo si esprima,
è però la condizione per vivere nella
crisi con speranza.
Ma, dal punto di vista di Biblia, che
sarebbe successo se i minatori avessero parlato non solo con la guardia civil, ma anche con una nostra delegazione? Cos’è questa Biblia di italiani
che non aspettano mugugnando chiusi nel pullman, ma vengono ad ascoltarci, e a dirci anche il loro disagio di
turisti? E se poi un giornalista attento ne avesse scritto? Infine: può essere “il conflitto sociale e politico nella
Bibbia” oggetto di un convegno di studio di Biblia?
Intermezzo 1 / Franco Cardini
Ascolto Franco Cardini nelle conferenze, e gli chiedo, in privato, un parere sui silenzi di Pio XII sulla Shoah.
33
“Probabilmente sapeva -risponde- ma
cosa poteva fare? Dubito invece che
Mussolini sapesse. Più di lui sapeva
Franco, che con papa Pacelli ha avuto
una lunga luna di miele. È con la guerra civile che il “camino” di Compostela, dopo la lunga crisi, ha ripreso vigore nel segno del nazionalismo”.
Lo storico suscita anche polemiche.
L’ultima sera Francesco Pozzi gli dedica una bonaria imitazione satirica.
Come tutti gli storici bravi è un “guastafeste”. Gli eventi, collocati nei loro
contesti e processi, dimostrano che “la
storia fa l’uomo”, lo costringe. In buona fede perciò Carlo Magno obbligava
i Sassoni al battesimo pena la morte;
l’Inquisizione perseguitava gli eretici e
le streghe (ma nel garantismo); l’ordine religioso-cavalleresco dei Templari fu sciolto (ed era innocente). La tesi
di Franco Cardini è che l’analisi storica non è mai “giustiziera”, è piuttosto
“giustificatrice”.
I grandi problemi -a me pare- con
cui il “cammino di Santiago” lungo
i secoli ha dovuto misurarsi sono il
rapporto fra la religione e la politica,
e il rapporto fra le religioni. Solo oggi consideriamo valori la laicità (della politica e della chiesa), e la libertà
religiosa (premessa al dialogo fra le
religioni). Le pagine buie della storia
non possono essere riscritte in nome
di una consapevolezza guadagnata
secoli dopo, ma devono essere rilette insieme da chi ha ferito e da chi è
stato ferito.
Cardini, uno storico classificato di destra, su una rivista di sinistra
ha scritto: “È arduo essere convinti di
possedere la verità che salva il mondo
e al tempo stesso essere persuasi che
per affermarla, nell’interesse di tutto
il genere umano, non sia lecito ricorrere alla forza, e che quella ‘santa violenza’ non sarebbe, nella sostanza più
intima, che un atto d’amore”.6 “Dio lo
vuole”, proclamò Urbano II, in assoluta “buona fede”, nel convocare i cristiani al “bonum certamen” (il conflitto buono e santo) della prima crociata
(e della “riconquista”) contro musulmani ed ebrei. Non pensa a una guerra, ma “Caritas in veritate” titola anche
Benedetto XVI la sua enciclica.
Anche il giovane Franco Cardini,
militante cattolico nel M.S.I., si sente obbligato, “in buona fede”, a vedere in Ernesto Balducci un avversario, una bestia nera. Fino al giorno
dell’omelia alla Badia Fiesolana, (oltre la necessità, anche il caso ha un
qualche ruolo nella storia) in cui, a
commento di Mt 21 il prete cattocomunista gli fa scoprire nel Cristianesimo la coincidenza fra amore di Dio
e amore del prossimo. Allora lo storico scrive: “Il solo bonum certamen
oggi possibile, la sola guerra santa a
cui il cristiano è chiamato” è “la radicale redistribuzione della ricchez-
6
F. Cardini, Cristiani perseguitati e persecutori.
Confronti n.11 / 2011.
34
za e delle risorse mondiali”.7 “Veritas in caritate”, ha scritto Paolo (Ef
4,15). Con Marc Bloch potremmo allora dire, in tensione, che se “la storia
fa l’uomo”, anche “l’uomo fa la storia”. A Firenze Franco Cardini fa oggi
parte del gruppo dei garanti per dare
soluzione al problema spinoso della
nuova moschea.
Intermezzo 2 / Laura Novati
Talvolta, all’inizio, non mi sento
in sintonia con alcuni giudizi di Laura Novati, troppo apodittici. Ma poi
emerge la sua passione, che è l’Europa,
quella costruita e quella da costruire.
Il viaggio, quello nostro di oggi, quello dei pellegrini nei secoli, ma anche
quello attraverso la letteratura, l’arte,
il cinema, è riconoscimento dell’altro e
rispecchiamento nell’altro di sé. A essere protagonista è la libertà (non cioè
il caso o la necessità).
Il Cid Campeador combatteva da
mercenario, ora per i cristiani, ora per
i mori, disposto a tutto pur di raggiungere la gloria. Ci legge lei il “Madrigale alla città di Santiago” di Garcia Lorca, ma poi ce lo fa ascoltare anche da Josef, perché l’acqua del mattino che “trema nel mio cuore” suona come un violino soltanto se “trema no meu corazòn”.
Come si distinguono le pale d’al
7
F. Cardini, Il bonum certamen. Testimonianze
n. 481-482 / 2012.
tare? Nel polittico il dipinto, scansito in tavole, prevale sulla struttura
architettonica che si limita a fare da
cornice. Il retablo è invece una sinergia fra scultura e architettura, ma a
quest’ultima si affidano la grandiosità e l’imponenza. È la differenza fra
l’arte italiana (e fiamminga) e l’arte
spagnola.
L’altro nella storia della Spagna
cristiana emerge però drammaticamente come inimicus nel volto del
musulmano, dell’ebreo, dell’eretico. Anzi ne “La Via Lattea” Luis Bunuel ci mostra il cristianesimo, nei
suoi dogmi e nelle sue eresie, come
“altro” rispetto all’umanità. L’amore allora non può che nascere “dalla
considerazione della persona umana
-che mi sta vicina, che mi sta lontana- che condivide la mia condizione
di vita tra nascita e morte”.8 E a Milano, all’arrivo, Laura Novati fa correre il taxi come una freccia perché io
e Laura (mia moglie) non perdiamo il
treno per Trento.
9° giorno – Santiago di Compostela
Ognuno fa il suo cammino. E per
Compostela, la terza delle tre peregrinazioni maggiori (dopo Gerusalemme
e Roma), il cammino conta più della
meta. La Cattedrale è un assemblaggio di stili diversi: romanico, gotico,
8
L. Novati, Amore del prossimo, (prefazione).
2008.
35
plateresco, barocco, neoclassico. Costretti a percorrere in un lampo, nel
tempo, un cammino di secoli, ci sentiamo disorientati quanto nel calpestare lo spazio immenso e intricato delle
navate. È di disorientamento il clima
in cui oggi viviamo, italiani, spagnoli, europei, cittadini del mondo. Credenti e non credenti.
Che senso ha oggi questo “camino”? A messa, prima della comunione, stringo la mano in segno di pace
ai due giovani che mi stanno vicini nel
banco, uno di Pamplona, l’altro della
Germania, entrambi con la tessera che
attesta la regolarità delle tappe toccate. E’ la solennità del Corpus Domini
e quindi abbiamo la fortuna di assistere al rito del botafumeiro: un enorme turibolo d’argento che pende dalla cupola viene fatto oscillare come un
pendolo da otto uomini forzuti in cappa amaranto alla velocità di 68 km/h.
In passato il profumo dell’incenso serviva per attenuare il cattivo odore dei
pellegrini sporchi e sudati. Anche Piergiorgio Odifreddi, “ateo impenitente”,
fu fortunato, ma prima di assistere allo spettacolo del botafumeiro, -scrivegli toccò sorbirsi “la solita, invariabile messa”.9
La leggenda racconta che l’emiro
Almanzor nel 997, dopo la conquista
e la distruzione della città, costrinse
i prigionieri cristiani a portare a spal-
9
P. Odifreddi e S.Vanzina, La via Lattea, 2008.
la le porte e le campane della chiesa fino a Cordoba per abbellire quella moschea. Dopo 250 anni, a riconquista avvenuta, furono i musulmani costretti al percorso inverso, per ripagare la città del torto subito. “I pagani sono nel torto, i cristiani sono
nel giusto”?
Ogni crociata venne combattuta nella convinzione che quella fosse
l’ultima guerra, perché avrebbe portato il mondo all’unità e alla pace. Con
gli stessi obbiettivi, e in più la fiducia
nella democrazia, anche John Dewey,
il grande filosofo e pedagogista americano, sostenne nel 1917 le ragioni del
presidente Wilson a favore dell’intervento in guerra contro l’autocrazia
germanica. La sua delusione successiva fu tale che nel 1941 si oppose a che
gli Usa con Roosvelt partecipassero alla seconda guerra mondiale per sconfiggere il nazifascismo.
10° giorno – Santiago di Compostela
L’ultimo giorno ci spingiamo fino a
Capo Finisterre, il promontorio ritenuto a lungo il punto estremo d’ Europa.
E’ una giornata di nebbia e di pioggia,
e le onde dell’Oceano Atlantico flagellano la Costa de la Muerte, così detta
perché spesso le navi vi finivano sfracellate sulle rocce. Un folto gruppo di
bambini e bambine riceve in parrocchia
la prima comunione, e i parenti affollano la chiesetta armati di cineprese, dopo aver vestito, in una gara di bellezza,
i loro piccoli di bianco e di blu, perché
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ricordino così il più bel giorno della vita! È un rito che si trascina, l’ennesimo,
come quello sorto durante la Controriforma, della devozione al SS. Sacramento, ancora oggi esposto in ostensori dorati nelle chiese vuote, e che ci impone un silenzio assoluto.
Noi (uomini, alcuni) torniamo in
fretta in albergo per assistere alla partita di calcio fra la Spagna e l’Italia.
Adesso che dei campionati europei conosciamo l’esito, sappiamo che quella
partita, inaugurale, è stata la più bella
di tutte. Combattuta, pareggiata, corretta. Ma davanti alla Tv non c’è passione: italiani e spagnoli sembrano
pensare ad altro. Siamo forse lì, come
sapeva Pier Paolo Pasolini, perché “il
calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”?
Conclusione
Il “cammino di Santiago” è anche
oggi, per tutti, un’esperienza di immersione nella lunga storia dell’Europa: nella stessa cornice della “cristianità” il quadro della società e del
cristianesimo però si trasforma, fino a
fuoriuscire dalla stessa cornice. All’aria aperta, e ai suoi rischi.
All’origine, nel 1295, Dante racconta che a Firenze la casa di Beatrice si affaccia sull’Arno, proprio sulla via percorsa dai pellegrini di Compostela. È l’unica notazione topografica della Vita Nova, e Dante vi ricorre per dare credibilità alla sua tesi.
Che è l’innovazione sociale e lingui-
stica operata dal miracolo attribuito
a quella donna-angelo: l’amore non è
un sentimento riservato alla nobiltà
di sangue, ma è di ogni “cuore gentile”, e la lingua volgare, non il latino,
è pertanto promossa a raccontarlo.
Quasi alla fine, nel 1968, ne La Via Lattea Luis Bunuel al cristianesimo toglie
invece ogni credibilità. Con entrambi gli autori è chiamato a confrontarsi il pellegrino di oggi, dotato di senso storico che, anzi, gli cresce dentro
durante il cammino.
A un cristiano, negli anni della lunga e difficile ricezione del Concilio Vaticano II, si pone una domanda ulteriore. Il “cammino” è un’esperienza
nata, sviluppata, decaduta, e ripresa,
all’interno della “cristianità” inaugurata dalla svolta costantiniana. Il medioevo è immaginato come esemplare realizzazione di una civiltà conforme alla dottrina cattolica, da difendere, e poi da restaurare quando l’apostasia della modernità la aggredisce.
Non è un caso che, quando la Chiesa
avvia il suo ”aggiornamento” in direzione della laicità e della libertà religiosa, nel Concilio Vaticano II i vescovi spagnoli si oppongano, paladini di
uno Stato confessionale cattolico e autoritario come quello franchista (che
cadrà solo nel 1975).
Qua e là sopravvive ancora qualche lapide a ricordare con orgoglio il
passaggio del generale ribelle. Noi ci
fermiamo davanti a quella del monastero di Samos, in cui il “caudillo de
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Espana” è celebrato nel 1953 come “el
vencedor nela cruzada contra el comunismo”. Ha ragione Cardini a deprecare la damnatio memoriae (la condanna
della memoria) che ha cancellato con
uno scalpello gran parte di quelle scritte. Sarebbe come espungere dalla Bibbia i testi violenti o teocratici, invece
che impegnarsi a rileggerli con un’ermeneutica nuova, che ripensa noi stessi, l’altro, la comunità di appartenenza, Dio stesso. Cardini aggiunge, da
“guastafeste”, che nella guerra civile
i cattolici erano schierati con Franco
ma anche con i repubblicani.
Il “cammino di Santiago” ci insegna anche altro, in profondità.
Nell’ampia cornice della “cristianità” non tutto è rimasto immutato. Alcuni paradigmi in quel retablo hanno avuto un’evoluzione vitale: l’antropologia e la spiritualità di Agostino d’Ippona non sono quelle di Tommaso d’Aquino e poi di Ignazio di Loyola, di Giovanni della Croce e di Teresa d’Avila. Ne fanno fede nell’arte
le cappelle e i capitelli, le cupole e le
pale d’altare. Nei primi anni della ricezione del Concilio, con il franchismo ancora imperante, abbiamo letto anche in Italia teologi spagnoli come J.M.Gonzalez-Ruiz e J.M.DiezAlegria. E oggi quella Chiesa non si
riduce ai movimenti dell’Opus Dei e
dei Neocatecumenali. Di Josè A. Pagola possiamo leggere “Gesù. Un approccio storico”, di Josè. M. Vigil, “Teologia del pluralismo religioso”, e a San-
tiago de Compostela insegna Andrés
Torres Queiruga, membro della direzione della rivista Concilium.
Oggi, coinvolti nella globalizzazione, le sfide sono più difficili. La risposta, io penso, non sta nel rimpiangere il passato, quale mitica età dell’oro,
nemmeno quando assume il volto di
un “ritorno alle origini” del cristianesimo. La storia non ci propone parentesi da chiudere, ma un cammino da
proseguire. Il vangelo è incarnazione
di un annuncio nella storia, che nelle
sue contraddizioni è (ed è stata) storia
della salvezza umana. Ad ogni generazione spetta misurarsi con il tempo
particolare che le è dato, anche a noi,
a qualunque popolo apparteniamo.
Consapevoli che del cammino percorreremo solo un tratto, e che l’abbracciarsi della verità e della pace, il baciarsi della giustizia e dell’amore, come canta il Salmo 85, si realizzeranno
con pienezza oltre la storia.
Al ritorno da Compostela ascoltiamo a “Uomini e Profeti” il Discorso delle Beatitudini. Quando Gabriella Caramore chiede: “Ma quei discepoli, e quella folla, erano pronti ad ascoltare un annuncio così nuovo?”, Paolo Ricca risponde: “Non erano pronti, e nemmeno noi siamo pronti”. Però continuiamo ad ascoltare, e a camminare. Il nostro sforzo acquista fiducia se, come suggerisce Paul Ricoeur,
al passato guardiamo non con spirito
di colpevolizzazione, ma di vicinanza
emotiva, di compassione.
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DOCUMENTAZIONE
Dal materiale proposto da Biblia, (www.Biblia.org) in “Dai Paesi Baschi
a Finisterre” pubblichiamo:
• Franco Cardini, Il viaggio e il pellegrinaggio. Il senso di un’esperienza.
• Laura Novati, I simboli del pellegrinaggio.
• In aggiunta proponiamo il capitolo conclusivo, La Magia del
Cammino, del volume Compostela e il culto di San Giacomo
nel Medioevo, di Denise Pericard-Mèa, Il Mulino 2004.
In ALLEGATO come DOCUMENTAZIONE
Il cammino de Santiago. Un profilo storico
di Franco Cardini
Fra 820 e 830 in Galizia, in un luogo detto campus stellae (in realtà, piuttosto, compostum tellus, “necropoli”), sede di un antico cimitero visigoto, una
serie di apparizioni segnalarono al vescovo Teodomiro di Iria la presenza
di una tomba e di una reliquia: quelle
dell’apostolo Giacomo “fratello del Signore”, secondo la leggenda miracolosamente giunte via mare, si disse, dalla
Terrasanta. I re cristiani delle Asturie,
allora impegnati a difendere il nordovest della penisola iberica sia dalle in-
cursioni dei pirati normanni, sia dagli
attacchi degli emiri musulmani che allora signoreggiavano la Spagna, costruirono attorno al santuario, ormai detto
Compostella, un’intera città che seppe
risorgere dopo il saccheggio inflittole
dal cordobano Almanzor nel 997 e diventare il centro del più prestigioso pellegrinaggio d’Occidente.
La Spagna musulmana, dopo la liquidazione nel 1031 del califfato di Cordoba, era divisa tra vari emirati in lotta tra loro (reinos de taifas) e dilaniata
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dai conflitti tra famiglie arabe e famiglie berbere. La situazione rimase comunque in uno stato d’instabile equilibrio perché anche i regni cristiani, a
nord, erano percorsi da rivalità e da
inimicizie. Le cose cambiarono comunque verso il 1055, quando Ferdinando
I – dal 1037 acclamato re di Castiglia e
di Leòn – si sentì in gradi di scatenare
un’offensiva che mise in suo potere la
bassa valle del Duero. Coimbra fu conquistata nel 1064, dopo che il sovrano
aveva compiuto un pellegrinaggio a
Compostela per chiedere l’aiuto all’Apostolo Giacomo nell’impresa: e in tale
occasione cominciò ad affermarsi la fama dell’apparizione di Santiago Matamoros durante la battaglia di Clavijo il
23 marzo 844. La battaglia di Clavijo è
tuttavia un’invenzione tardiva: la prima
menzione scritta che ci è giunta data infatti 1243, anno in cui appare la Historia
gothica o Crònica del toledano del vescovo Rodrigo Jiménez. E’ probabile che,
oltre ad accrescere il culto per il santo,
servisse anche a giustificare il cosiddetto “Voto di Santiago”, una tassa che
gli abitanti della zona erano costretti a
versare al vescovo. Si giustificava infatti la tassazione con la leggenda che tali
soldi erano prima un tributo versato ai
musulmani in cambio della pace; dopo
la battaglia vinta miracolosamente grazie all’intervento di Santiago, sarebbero stati invece giustificatamente donati al santuario. L’iconografia di Santia-
go matamoroso è in effetti più tarda rispetto a quella di Santiago pellegrino.
Santiago, là dove sorgeva dall’XI
secolo un prestigioso santuario romanico destinato a ingrandirsi nei secoli,
era il centro propulsore di un universo
di viaggiatori, di mercanti, di poeti girovaghi. Innumerevoli leggende nacquero lungo il tracciato delle strade che
portavano in Galizia, la “Via lattea”, come a volte viene definita. Il culto dell’Apostolo Santiago (“San Giacomo”) è il
segno prestigioso della rinascita europea commerciale, urbana e agricola: essa è strettamente connessa alla rinascita religiosa che, con la riforma cluniacense, stava mutando appunto in quegli anni il volto spirituale della cristianità. I monaci di Cluny hanno un’estrema importanza nella storia della viabilità, del popolamento urbano, dell’edilizia sacra, dei mercati. Difatti essi, incoraggiando i pellegrinaggi, proteggevano autorevolmente tutti i pellegrini
che in gruppi sempre più frequenti e
più numerosi viaggiavano verso i principali luoghi di culto della Cristianità.
Il monastero di Cluny era stato fondato nel 910 da Guglielmo duca di
Aquitania e affidato all’abate Bernone,
il cui programma era originale. Questi
intendeva difatti seguire la regola benedettina, ma dei due elementi di fondo
dai quali la vocazione di san Benedetto è costituita – ora et labora – esaltava il
primo, attribuendo un rilievo quasi to-
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tale alla preghiera e al servizio liturgico; il lavoro veniva invece prevalentemente espletato dai laici. La ricca abbazia intendeva inoltre costituirsi a modello d’indipendenza dai poteri laici. Per
questo il duce Guglielmo rinunziò al
patronato su di essa: ma – per impedire che qualche vescovo delle varie diocesi pretendesse comunque di esercitarvi una qualunque forma di controllo –
si ricorse all’espediente di affidarla al
patronato diretto della sede pontificia.
Sul suo modello sorsero in tutta
Europa monasteri che rifiutarono a loro volta qualsiasi forma di patronato
e si affidarono a quello pontificio, attraverso la mediazione di Cluny, che
si trovò così a capo di una vera e propria congregazione.
La formula dell’indipendenza diretta fu la fortuna di Cluny, ma le procurò anche parecchi avversari fra i sovrani e i vescovi secolari. Lo stesso imperatore Enrico II, che pur tanto aveva
fatto per la moralizzazione della Chiesa, diffidava dell’esperimento cluniacense e gli preferiva quello dell’abbazia di Gorze, in Lorena, che sosteneva
un monachesimo rinnovato ma nondimeno collegato ai vescovi delle varie
diocesi e allo stesso imperatore.
I monaci cluniacensi non tardarono a
dare impulso anche a movimenti laicali
di largo respiro, che mostrarono come il
mondo laico potesse addirittura venire
egemonizzato dalla Chiesa.. Tali furono
ad esempio il pellegrinaggio al santuario di Santiago di Compostella in Galiza (Spagna), che costituì il fine devozionale di vere e proprie spedizioni militari volte a combattere i mori di Spagna.
I “cammini di san Giacomo”, cioè le
strade che conducevano al celebre santuario galiziani di Santiago di Compostela, coprivano la Francia d’una rete per
quei tempi assai fitta. Fra XI e XII secolo
il bacino della Garonna, passaggio obbligato di tutte queste strade, fu popolato
di coloni che avevano il compito di renderlo più fertile e più sicuro per il transito dei pellegrini diretti in Spagna; anche in Alvernia, parimenti interessata al
“cammino di san Giacomo”, avvenne la
stessa cosa. Nelle “ville nove” così create, il cui sviluppo era tutelato da particolari privilegi, presero a giungere ben
presto contadini emigrati da quei villaggi sovrappopolati caratteristici delle età
precedenti, soprattutto di quella carolingia; e lungo i principali vettori del pellegrinaggio si crearono così nuovi centri, che erano nello stesso tempo stazioni minori di culto dove il devoto poteva prepararsi all’eccezionale esperienza religiosa che lo aspettava al termine
del viaggio e centri economici nei quali gli era possibile sostare e darsi a più o
meno elementari operazioni di traffico.
La prima attestazione sicura di un
pellegrinaggio a Santiago compiuto da
un non spagnolo è quella del vescovo
di Le Puy en Velay Godescalco, che
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viaggiò nel 950-951. Il viaggio è registrato dai monaci del convento di San
Martino d’Albelda, nella Roja, vicino
a Logrono; qui nel 950 egli domandò
al monaco Gomez una copia del libro
De Virginitate scritto da sant’Idelfonso
di Toledo contro gli avversari del dog-
ma della Verginità di Maria. Ritirò una
copia del libro quando era di ritorno,
nel 951, e lo portò alla cattedrale dei Le
Puy, in seguito trasferito alla Biblioteca
regia. Una replica del libro con miniature si trova presso la Biblioteca Palatina di Parma (ms. Parm 1650).
I simboli del pellegrinaggio
Laura Novati
Quello del pellegrino è uno status
che iniziava, e inizia, con il rito dell’investitura e con la benedizione dei Signum Peregrinationis. Il primo era la
“Bisaccia” di piccole dimensioni in
quanto il pellegrino doveva confidare in Dio e non nelle proprie risorse
ed era priva di chiusura perché doveva in ogni momento essere pronto a ricevere e a dare. Il secondo era il bordone o bastone, necessario e utile come appoggio durante il cammino, serviva per difendersi dai cani, dai lupi
ma anche dal “Diavolo”. Venivano poi
il cappello a larghe falde, a protezione dal sole e dalla pioggia, e una corta cappa che copriva le spalle. Questi
simboli, oltre all’immancabile conchiglia, servivano per essere riconosciuti
come pellegrini, per ottenere ospitalità e ricevere offerte.
Il pellegrino, inoltre, alla partenza
si spogliava degli averi e spesso doveva vendere o ipotecare i beni per potersi finanziare il viaggio. Faceva testamento e dava disposizioni per il
governo del patrimonio in sua assenza. Spesso la Chiesa interveniva attivamente in questa funzione di tutela. Questo stato particolare conferiva
al pellegrino un particolare prestigio.
Noi (si riferisce a coloro che il percorso lo hanno fatto in pullman ndr.)
non avremo diritto a richiedere la Credencial, cioè il famoso documento che
attesta che si sia fatto il Cammino (a
piedi, in bicicletta o a cavallo) almeno
gli ultimi 100 km o 200 in bicicletta. Ma
possiamo tornare a casa con la gioia di
aver comunque compiuto il Camino,
visto tante belle cose e con tanti ricordi indimenticabili.
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La magia del cammino
Capitolo conclusivo di, “Compostela e il culto
di San Giacomo nel Medioevo”
di Denise Peridard-Méa
Il Mulino 2004
Nel Medioevo l’apostolo Giacomo, più di ogni altro santo, accompagna gli uomini nel “pellegrinaggio della vita umana”, è loro vicino
nell’ora della morte e li guida verso l’aldilà. All’origine della sua universalità vi sono i tre testi attribuitigli, La Lettera, gli Atti e il Vangelo,
solo il primo dei quali è sopravvissuto alla Controriforma come parte
della Bibbia. La Lettera soprattutto,
ebbe grande importanza, perché affronta tutti i problemi con cui il fedele si confronta: la morte, la malattia,
la povertà,oltre che i rapporti con gli
altri. San Giacomo veniva dunque invocato ogni giorno in numerosi santuari locali, chiese, cappelle e ospedali; la prospettiva in cui si inseriva
Compostela, d’altro lato, era completamente diversa, e in effetti il suo
successo si deve in gran parte al Turpin: a volte si andava in Galizia per
pura devozione, ma ci si metteva in
cammino anche per ragioni diplomatiche o belliche, per praticare il commercio, per il gusto del viaggio, per
la necessità di guadagnarsi da vivere, per il desiderio di rompere con il
quotidiano.
La nostra ricerca si prefiggeva di
permettere al pellegrino odierno di
conoscere e comprendere meglio color di cui si accinge a calcare le orme.
Anche se la memoria collettiva ha rimosso la Lettera di Giacomo, le domande degli uomini restano le stesse. Come ieri, le motivazioni che spingono
a mettersi sulla strada rimangono segrete e non si spiegano con i questionari e le inchieste. Gli ordini ospedalieri le intuiscono, tanto è vero che le
confidenze sono più spontanee quando sono ascoltate da qualcuno che no
si vedrà più ma è presente in un momento in cui si ha bisogno di essere accolti o ascoltati. Tuttavia non ne
filtra praticamente nulla. È questa la
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magia del cammino. Anche oggi alcuni pellegrini si mettono in cammino
perché nutrono una particolare devozione per san Giacomo, ma è difficile capire da dove essa derivi. La devozione di una nonna moribonda il
cui nipote realizza il voto, della madre di un giovane adulto scomparso
all’improvviso, dei genitori di una ragazza autistica o, come essi dicono,
“posseduta”. Alcuni partono per delle vacanze a buon mercato, altri per
incontrare degli sconosciuti, altri ancora non si esprimono o si rifugiano
dietro il mito delle folle del passato
per giustificare la loro presenza, come se fosse necessario dare una spiegazione all’incontro con se stessi. Tutte queste ragioni inducono a mettersi in marcia, a lasciare la propria casa per giungere a Compostela, senza assistenza tecnica di sorta. Quale
che sia il motivo della partenza, arriviamo tutti pellegrini. Della trasformazione vissuta lungo il cammino i
pellegrini conservano un linguaggio
comune, una profonda comprensione per l’altro, anche se diverso da loro. Ognuno ha sperimentato che cosa
vuol dire essere straniero, ha provato
che cosa vuol dire la separazione dal
mondo familiare, la perdita dello status sociale e dei punti di riferimento
gerarchici, e in tal modo ha preso co-
scienza dei propri limiti e imparato,
qualche volta, a superarli.
Oggi esistono altre modalità di pellegrinaggio. Sono più brevi, più varie
e più confortevoli; adatte a un mondo
moderno che non sa più reimpadronirsi del tempo, esse non hanno alcun
punto in comune con la lunga marcia.
Sono tutte apprezzabili, anche se non
comunicano l’esperienza della grande partenza Uno degli scopi delle associazioni di pellegrinaggio è permettere l’incontro fra tutti questi pellegrini, cioè invogliare color che ancora non
lo hanno fatto a mettersi, appena possibile, in cammino. Un altro scopo è
alimentare l’immaginario, mettendo
a disposizioni i risultati di una ricerca storica che è ancora lungi dall’essere conclusa: se i pellegrini fittizi usciti dalle pagine della letteratura medioevale sono ben conosciuti, non si
può dire altrettanto di tutti i pellegrini storici, perché mentre sembra assodato che non sono mai stati legioni, è
anche vero che non sono stati ancora
censiti. Ogni nuovo articolo, ogni indagine, ogni ricerca specifica ne fa scoprire sempre di nuovi. Il loro esempio
resta valido per gli uomini di oggi, attori di un nuovo mondo da edificare
nel quale l’accoglienza fraterna dello
straniero, propria dei pellegrini, deve
ritrovare il posto che le spetta.
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Durante l’estate a più d’uno è capitato di essere avvicinato in spiaggia da
venditori ambulanti che offrivano a tutti la loro merce di cui erano carichi
e spesso sovraccarichi. Conversando con uno di questi, un giovane senegalese che aveva già una buona dimestichezza con la lingua italiana, scoprimmo
che dal 18 luglio al 18 agosto di quest’anno per gli islamici era il mese del Ramadam. E questo per lui, islamico, comportava un rigoroso digiuno dall’alba al tramonto, senza nemmeno la possibilità di bere un goccio d’acqua. Lui
quel suo lavoro ci diceva di riuscire a farlo solo fino mezzogiorno, poi, sfinito, aspettava il tramonto per rifocillarsi e riprendere le forze. Raccontava
queste sue difficoltà con un simpatico sorriso sulle lebbra. Un’osservanza religiosa, la sua, di pura convinzione, senza nessun controllo sociale o costrizione esterna. Nessuno si sarebbe accorto se lui avesse bevuto un goccio d’acqua. Abbiamo voluto mettere questo breve racconto di un’esperienza estiva a
premessa di un breve estratto di un lungo saggio che ci è pervenuto sul digiuno nel mondo cristiano. E non è che tra di noi non ci sia la forza di sacrificio
per imporsi delle limitazioni dietetiche, ma non sono più di carattere religioso. Ci è venuto di pensare ai sacrifici per entrare in una taglia del vestito più
confacente ai nostri desideri, per alzare di qualche centimetro la nostra statura, per impiantare qualche capello su qualche zucca rapata. Ma tant’è così
va il mondo. Ma qualche confronto con altre culture, altre fedi religiose e altri stili di vita ci sembra portatore di arricchimento e degno di attenzione anche per non limitarsi a difendere l’immagine del crocifisso sui muri delle aule
scolastiche, dei tribunali e di altre istituzioni pubbliche.
Il digiuno nella Bibbia
Fra gli israeliti, occasione principale per un digiuno pubblico era la festa
annuale dell’espiazione o del Kippur.
Nell’Antico Testamento troviamo diversi digiuni speciali, sia individuali che pubblici. Il digiuno si accompagna spesso con la preghiera per espri-
mere il proprio ‘cordoglio’ e come segno di rimorso e di ravvedimento, o
per dimostrare la serietà degli impegni presi verso Dio. Un digiuno, però,
che non fosse accompagnato da autentico ravvedimento e dalle opere di giustizia, era denunciato dai profeti come
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una vuota osservanza legale.
Dai Vangeli risulta che Gesù Cristo
pratica un digiuno prolungato subito dopo il suo Battesimo, prima di dare avvio al suo ministero pubblico. Egli
è venuto ad “annunciare ai poveri un
lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi” (Lc, 4,18) Si tratta di un nuovo Esodo che richiama l’Esodo dall’Egitto per
mano di Mosè, quando il popolo ebraico rimase per quarant’anni nel Sinai prima dell’entrata nella Terra Promessa.
Gesù non sembra avere espresso alcuna approvazione o disapprovazione
nei confronti del digiuno in quanto tale. Egli piuttosto mette in evidenza come, se si vuole praticare il digiuno, questo debba essere fatto per la sola gloria
di Dio, non per mettersi in mostra ed
esserne lodati come fanno gli ipocriti.
Egli viene accusato di sedere a
tavola con pubblicani e prostitute e
di non seguire le orme di Giovanni
il Battista che, quale nuovo Elia, digiunava nel deserto cibandosi di locuste e miele selvatico. Quando gli
chiedono espressamente un’opinione sul digiuno religioso, egli risponde che il digiuno sarà appropriato
solo dopo che egli se ne sarà andato, non finché egli è presente Sarebbe come proporre il digiuno durante
un pranzo di nozze.
Vi sono naturalmente delle eviden-
ze circa la pratica del digiuno nella
Chiesa antica. Pare che i cristiani d’origine israelita continuassero a osservare le loro antiche usanze di digiunare e
pregare il lunedì e il giovedì, non oltre,
però, la fine del primo secolo quando,
forse per reazione ai cristiani ‘giudaizzanti’ i giorni di digiuno vennero spostati al mercoledì e al venerdì.
In ogni caso i digiuni dei primi cristiani terminavano nel primo pomeriggio e non erano obbligatori. È tuttavia rimasto nella tradizione ecclesiastica il digiuno del Mercoledì delle Ceneri, all’inizio della Quaresima, e quello del Venerdì Santo, all’inizio del ciclo pasquale,
quale segno di dolore della Chiesa per
la dipartita di Cristo suo sposo.
Il digiuno nella storia della Chiesa A partire dal II secolo i giorni di digiuno erano osservati in preparazione
della Pasqua. Nel IV secolo, quando il
Cristianesimo si impone come religione dell’Impero Romano e viene istituzionalizzato, la Chiesa mette un particolare accento sull’aspetto formale e
cerimoniale della pratica religiosa. La
pratica del digiuno diventa sempre di
più legata a una teologia legalistica e al
concetto di ‘opere meritorie’. Verso il X
secolo, in Occidente, diventa obbligatorio il digiuno in tempo d i Quaresima.
Il digiuno, inoltre, diventa elemento comune della disciplina del movimento monastico.
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L’austero stile di vita dei monaci,
che praticavano la preghiera e il digiuno, sostituisce il martirio. Il digiuno, come atto di devozione cristiana,
è particolarmente valutato.
Durante il Medioevo la Chiesa Cattolica aggiunge al calendario ecclesiastico un certo numero di giorni obbligatori di digiuno. In Italia e anche altrove li collega ai momenti più importanti della vita degli agricoltori e istituisce le ‘Quattro Tempora’.
Erano giorni di digiuno il mercoledì, il venerdì e il sabato che precedeva la prima domenica di Quaresima,
di Pentecoste e dell’Esaltazione della
Croce (14 Settembre). Una quarta stagione di digiuno decorreva dal 13 di
dicembre fino a Natele.
Sempre durante il Medioevo la Chiesa Ortodossa Orientale aggiunge come
giorni di digiuno obbligatorio a cominciare dal 15 di novembre, tutto il periodo dell’Avvento, inoltre dalla domenica della SS. Trinità fino al 29 giugno, e
due settimane prima del 15 di agosto.
I riformatori protestanti del XVI
secolo, con l’eccezione degli Anglicani, respingono l’obbligatorietà dei
giorni di digiuno, insieme a gran parte dei riti e delle cerimonie della Chiesa Cattolica Romana. Gli anabattisti,
più di qualsiasi altro movimento riformatore di questo periodo, relegano ancora una volta il digiuno alla
sfera privata, lasciando al singolo cre-
dente di determinare se è appropriato per promuovere l’autodisciplina e
la preghiera.
La Chiesa Cattolica conserva i suoi
giorni di digiuno obbligatori fino al XX
secolo, quando essi vengono modificati
da diversi atti del magistero che fanno
seguito al Concilio Vaticano II, in particolare alla Costituzione Apostolica
‘Paenitemini’ di Paolo VI del 17 Febbraio 1966 che introduce una nuova normativa del digiuno ecclesiastico, limitandolo a due giorni dell’anno, il Mercoledì delle Ceneri e il Venerdì Santo.
Inoltre, l’approccio cattolico moderno associa la pratica del digiuno
alla vocazione d’amare il prossimo e a
considerarlo come simbolo dell’identificazione del cristiano con i poveri e
gli affamati del mondo. In alcuni circoli cristiani (cattolici e non) vi è l’usanza crescente di incontrarsi con un
pasto frugale dando poi il denaro corrispondente al costo di un intero pranzo per combattere la fame nel mondo
(“cena di condivisione”).
I Pentecostali o Carismatici del XX
secolo, come pure i Mormoni, hanno
una vasta letteratura sui benefici del
digiuno, collegandolo alla preghiera
come mezzo per approfondire la vita
spirituale e/o per ottenere favori da
Dio. Alcuni leader carismatici affermano persino che la pratica sistematica del digiuno e della preghiera possa
cambiare il corso della storia.
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Ospitiamo volentieri questo contributo che riceviamo da un nostro
abbonato per gli stimoli che contiene anche se siamo più affezionati non solo al concetto ma alla realtà della “persona” piuttosto
che al concetto e alla realtà dell’”individuo” con tutto quello che
questa distinzione comporta anche nella ricerca della felicità.
Riflessioni per un cambiamento
culturale dell’individuo
La crisi e gli stimoli di alcuni intellettuali,
alla ricerca della felicità
di Alfeo Bolognani
Ci sono due modi per affrontare una
crisi come quella attuale dell’occidente
e, in particolare della vecchia Europa e
dell’Italia: quello tecnico e quello culturale. Il primo si preoccupa soprattutto
delle soluzioni, il secondo delle cause.
Il primo è pragmatico, tipico dell’azione di un governo che, per quanto sia
devoto alla progettazione lungimirante
del futuro, deve comunque rispondere a un elettorato che lo può promuovere o rimuovere in base a valutazioni
che di solito ignorano i complessi termini reali della questione individuandone solo quelli prossimi a specifici e
spesso contrapposti interessi.
Il secondo è utilizzato dagli studiosi e dagli intellettuali che cercano di filtrare della crisi quelle componenti che
si ricollegano ai comportamenti umani, alla natura, alle pulsioni e alle azioni dell’essere umano, singolo o associato: perché una cosa è che si esauriscano i giacimenti di una determinata
materia prima o di una fonte energetica o che un terremoto sconvolga un’area del pianeta, un’altra cosa è che ci
si indebiti per pagarsi una vacanza o
si scambi la riduzione dei livelli di assistenza sociale con la riduzione delle
imposte per una maggior disponibilità di reddito individuale.
Ma vi è una sostanziale differenza
tra i due metodi: perché se quello tecnico può essere imposto secondo i poteri dell’autorità pubblica e il potere ancora più pressante della paura del peggio che impone scelte, non necessaria-
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mente obbligate ma vissute come tali,
il secondo invece non produce assolutamente niente se non viene interiorizzato dai singoli individui e tradotto in
principi e stili di vita che vadano a modificare quelli passati. E tutti sappiamo
quanto sia arduo questo processo, la cui
bontà non viene verificata nell’immediato, che può essere scoraggiato da resistenze localizzate e che talvolta risulta
disincentivato proprio da certe soluzioni (soprattutto se emergenziali) adottate in base al metodo tecnico.
La premessa aveva lo scopo di
sgombrare dal campo delle riflessioni
quelle connesse alle soluzioni politiche
in esame per togliere alcuni paesi occidentali dai pasticci in cui, con diverse
responsabilità, si sono messi coinvolgendone altri. E dunque per spostare
l’attenzione sulle responsabilità degli
individui che, nella libertà di cui dispongono, spesso se ne dimenticano.
Ci inducono a ciò alcuni intellettuali,
filosofi, psicologi, sociologi, antropologi con un orizzonte della visione che
va oltre i cicli economici che ci allietano o ci deprimono.
Zygmund Bauman (filosofo e sociologo polacco, Poznan 1925), per cominciare. Il quale, in una conferenza a Trento nell’ambito del Festival dell’Economia del giugno 2011, ci ha detto che le
diseguaglianze tra gli uomini sono aumentate negli ultimi decenni nonostante il continuo aumento della produzione. Dunque, la ragione delle diseguaglianze non sembra essere di tipo produttivo ma distributivo della ricchezza.
Quasi tautologico si direbbe, ma ce ne
dimentichiamo spesso e c’è chi si ostina
a farcelo dimenticare. Che, se poi non
bastasse, è ancora Bauman a ricordarci la teoria del limite, quello delle disponibilità di materie e di energia, che
inevitabilmente finisce con l’impattare
sulla produzione, ma anche quello dei
consumi che, in ricaduta, significa limite al deterioramento dell’ambiente.
E – si potrebbe aggiungere – se introduciamo il concetto di consumi sostenibili, non diventa lecito porsi l’interrogativo di quanto debba essere conseguente
anche un concetto di produzione sostenibile e se la sostenibilità di queste due
funzioni, alfa e omega dell’economia,
non sia anche una variabile dipendente
dalla funzione distributiva?
Bauman analizzava poi la motivazione del produrre, contrapponendo
l’avidità del produttore di Adam Smith,
alla felicità del produttore che genera
relazioni e dunque diventa artefice e
beneficiario di “comunità”. Mi chiedo:
è così ostico alle nostre menti supporre che possa esistere “perfino” un produttore che cerca la felicità in qualcosa di diverso dal risultato economico
della sua iniziativa? Dipende dal punto di vista, ovviamente: se ragioniamo
secondo teoria, storia e statistica economica, quindi partendo da macro-aggregati, dovremmo concludere che prima ancora che ostica è utopica una tale congettura. Ma se per un attimo vediamo il produttore come persona razionale che cerca e sa dare risposte ai
propri intimi desideri esistenziali, alle
proprie pulsioni relazionali e che in ba-
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se ad esse sa organizzare la propria vita così come organizza la propria impresa, allora scopriremo che è possibile anche la mutazione del produttore
smithiano: è provato dalla ricerca antropologica, secondo Bauman.
Ma com’è possibile sopportare una
vita orientata al risultato economico
(secondo comportamenti diffusi ormai
anche tra chi non è produttore in senso stretto) e che rinuncia a realizzare
la vocazione relazionale della persona
quando ciò equivale a negarsi il raggiungimento di un’autentica felicità;
com’è possibile continuare a convivere con la cattiva coscienza di uno stile di vita che comprime o sopprime i
sentimenti e le affettività? La risposta
di Bauman è semplice: si fa shopping,
e attraverso lo shopping si anestetizzano affetti e sentimenti, si tacita la coscienza, “si commercializza la moralità”.
Per secoli l’uomo ha dovuto fare i
conti con bisogni che aveva ma che non
potevano trovare beni o servizi che li
soddisfacessero (per immaturità della scienza, quantità di produzione, costo d’acquisto); ora gli sono proposti, e
compera beni e servizi che non servono
a soddisfare bisogni, che non ha, ma che
diventano tali solo per artificiosa suggestione. Quanto può durare e quanto
danno può fare questa bulimia che serve a rimuovere il malessere di relazioni
umane deficitarie, quindi di solitudini,
incomprensioni, sensi di colpa per aver
tradito la propria natura umana che solo
nella relazione e interazione delle persone trova la fecondità per generare progresso umano e sociale?
Progresso sociale - e felicità dell’individuo -, ben oltre lo sviluppo economico e tecnologico troppo spesso confusi con il primo. Secondo Umberto Galimberti (filosofo e psicoanalista, Monza 1942), intervistato per una rubrica televisiva qualche mese dopo la conferenza di Bauman, pare proprio che siano
economia e tecnologia a definire la leadership del mondo odierno. Provocatoriamente Galimberti dichiara di riuscire a comprendere il mondo di oggi
anche immaginandolo senza Dio (un
Dio accantonato dall’uomo ben prima
dell’avvento tecnologico), ma che gli
sarebbe impossibile decifrare e spiegare l’umanità di oggi negando o prescindendo dall’economia o dalla tecnologia, determinanti ineludibili per qualsiasi osservazione e conclusione critica.
E l’uomo? cos’è in un siffatto mondo. “Un funzionario d’apparato”, questa
la fulminante definizione che intende
certificare una subalternità acquisita
dell’essere umano a delle entità che
lui stesso ha creato ma che gli sono
sfuggite di mano e che di lui si servono quando non lo divorano.
Se pensiamo che dalla centralità
dell’uomo nell’universo pre/copernicano eravamo stati ridimensionati nel
sedicesimo secolo ad abitanti e dominatori di un periferico pianeta, casualmente fornito di giusta luce, acqua e
aria, per scivolare poi con Darwin a
casuale prodotto dell’evoluzione delle specie - ma perlomeno ancora evoluto - ,…beh, scoprire che ora siamo
dei subordinati a prodotti dell’uomo,
non certo casuali, vittime di processi
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da noi attivati con eccesso di fede nelle
nostre capacità di controllo, questo veramente appare come una retrocessione dalla serie A al girone dei dilettanti,
con l’aggiunta di una penalizzazione
che peserà per la risalita in classifica.
Resta da chiedersi – è il pensiero
di Galimberti – quale sia il senso della storia in un mondo retto da una tale diarchia che subordina l’uomo; senso della storia che diventa, introiettato individualmente, il senso della propria vita, che si vorrebbe fosse, in ultima istanza, la ricerca di una felicità terrena.
In effetti c’è da credere che proprio l’essere, più o meno coscientemente, funzionari d’apparato implichi che la felicità venga riconosciuta
come un bene dato, elargito o venduto proprio dall’apparato, non conquistato da se stessi, anche perché nel momento in cui si accetta di servire e di
affidarsi a un tale apparato, si restringono rapidamente i propri territori di
azione (e di libero pensiero), mentre si
amplia l’immanenza di quello con relativi conformismi e parole d’ordine.
La felicità allora diventa residuale, rituale e standardizzata, un prodotto da
consumare, usa e getta, per essere sostituito da un altro con lo stesso marchio e qualche aggettivazione “plus”,
“extra” “ultra” “super”, alla ricerca
spasmodica di quella felicità definitiva che non si intravvede, perché nessuno te la fa intravvedere e tu non la
cerchi dove risiede: compressa dentro
di te che aspetta di essere liberata da
un tuo atto di libera scelta.
Nel 1976, in un periodo culturalmente vivace caratterizzato da una
pubblicistica che, sia recuperando testi
classici del passato che dando spazio a
una nuova rampante saggistica sociologica, intendeva sottoporre a revisione critica il modello sociale occidentale delineando il progetto di una società
rinnovata dopo i fermenti sessantottini,
usciva un libro che avrebbe lasciato il
segno, intrigante già nel titolo, “To have or to be”, tradotto letteralmente “Avere o essere” (Editore Mondadori, Milano
1977). Ne era l’autore Erich Fromm (sociologo e psicoanalista tedesco, Francoforte 1900-Locarno 1980).
Questo libro rappresentò negli anni ’70 una specie di bibbia per quella
generazione che si affacciava alle responsabilità dell’età adulta con una
netta frattura rispetto alla generazione che l’aveva preceduta e che era reduce dalle esperienze di un pesante
conflitto mondiale e di un impegnativo periodo postbellico di ricostruzione
materiale. Una generazione di giovani
che rimetteva in discussione non solo
la sua collocazione nell’organigramma
sociale, ma anche intendeva sottoporre
a confronto critico i propri ideali (ideali utopici per lo più, non le ideologie
consolidate ma già decadenti che connotarono talune frange estremistiche)
e gli opposti obiettivi ai quali il potere economico stava indirizzando, con
crescente consenso e partecipazione,
le masse affluenti.
Di quel libro, sempre attuale (se ne
può trovare una sintesi per chi non volesse affrontare l’integrale lettura anche
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sul web: vedi, ad esempio, “digilander.
libero.it/filosofiapolitica/wef5.htm”),
lo stimolo e la provocazione sono già
nel titolo: conta di più “avere” o “essere”?
Mi esprimo banalizzando la questione, senza alcuna pretesa di farne
una sintesi esaustiva. Secondo la convenzione sociale corrente “si è quel che
si ha”, con ciò identificandosi con il potere o lo status symbol che l’avere procura. Non solo l’avere di beni materiali, denaro, case, automobili, ecc., ma
anche conoscenza, competenza, abilità, prestigio e successo e, soprattutto,
capacità di condizionamento e di leadership dei propri simili.
Poiché non tutti possono avere in
modo reale e adeguato quello che può
assicurare una tale identità e non potendo comunque rinunciare a una propria
identità fondata sul riconoscimento sociale, questa viene ricercata, con evidente ma credibile bluff, tramite l’apparenza: “si è quel che si sembra”. Pensiamo alle illusioni che crea la pubblicità,
alla televisione e alla sua realtà da Truman show, una fiction nella quale piace immedesimarsi e partecipare anche
come semplici comparse perché in essa
c’è la propria realizzazione (nel significato etimologico del termine), una fiction anche quando narra la vera realtà,
perché i margini tra l’una e l’altra (e tralascio l’aspetto della voluta disinformazione e contraffazione dei fatti) sono così indefiniti che discriminarle è arduo.
L’essere umano è “ciò che possiede” dunque, la sua relazione con il
prossimo è mediata da ciò che ha, e,
per ciò che non ha, dalla sua abilità
comunicativa di autopromozione che
può ovviare alle deficienze di possesso. Ma è un essere umano che esprime la sua vera identità costui e con
ciò trova la sua felicità? Quella cioè di
un essere umano che mette in relazione con gli altri il vero se stesso, superando lo stato di solitudine interiore
nel quale la recita di un “altro”se stesso, non autentico, lo relega? Si potrebbe rispondere a tale domanda (come
del resto a tante domande del genere
sui più svariati temi) con la considerazione che basta essere inconsapevoli del problema e si è comunque felici:
come il bambino che crede nelle favole e si sente immerso in esse. Il bambino, appunto, che è in fase di scoperta
e costruzione della propria identità e
che, passati i primi anni di vita, smette
di credere alle favole, a quelle infantili
naturalmente, e prima o dopo viene a
trovarsi davanti al bivio: credere alle
nuove favole per adolescenti e poi per
adulti o cominciare a guardare dentro
se stesso e da lì partire per cercare la
sua identità e la felicità di realizzarla
nella relazione sociale.
Il dilemma è questo: attendersi la
felicità da ciò che ti viene “da fuori”,
le cose che si possono avere, i ruoli di
apparenza che qualche regista, a volte non tanto occulto, ti suggerisce e ti
assegna per una vita-fiction che compensi la mancanza di una vita-realtà? o
trovare le ragioni della felicità “dentro”
se stessi? Interrogativo retorico, ovviamente: ciò che ci aspettiamo dall’esterno può non venire secondo le nostre
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attese, può mancare, può essere insufficiente, può deluderci, può essere
condizionante (un “do ut des”). Dobbiamo viceversa credere in noi stessi,
perché è su ciò che è dentro di noi che
possiamo contare, sapendo che dipende solo da noi mettere questo patrimonio inalienabile che è la nostra identità
in relazione con le altre persone.
Come? Semplicemente con il “dare”. Uno sviluppo consequenziale al titolo del libro di Fromm: da “Avere o essere” a “Dare ed essere”. Siamo quel che
riusciamo a dare di noi stessi, dare non
solo materialmente, ma intellettualmente, creativamente, affettivamente.
Il riconoscimento sociale fondato sul
generoso riversamento nelle relazioni
della nostra identità, che si esprime in
modi diversi secondo DNA, attitudini, carattere, educazione, esperienze.
Proviamo a chiederci se siamo stati più contenti e soddisfatti di noi (e se
ci sentiamo di rivivere ancora questo
sentimento) quando abbiamo acquistato l’ultimo modello di uno strumento tecnologico o quando abbiamo convertito in sorriso il pianto di un bambino con un abbraccio; se ci siamo sentiti
meglio quando abbiamo ricevuto una
ricompensa per un lavoro fatto bene
o quando con questo lavoro abbiamo
dato la nostra soluzione a un problema o concretezza a una nostra idea; se
ci siamo sentiti realizzati al ritorno da
una vacanza in un centro di benessere più di quando abbiamo composto
una poesia che ha gratificato gli estimatori di questa arte.
Sono la capacità, la volontà e la pos-
sibilità di esprimere e di dare qualcosa di noi stessi che ci possono rendere felici, rendendo compartecipi di felicità anche altri essere umani, contribuendo quindi a migliorare, per quanto ciascuno in misura infinitesimale, il
mondo che attraversiamo nella nostra
vita. Perché nella vita è sprecato quello che, potendo, non abbiamo dato.
Si è provato qui a delineare le motivazioni di un percorso che ciascuno,
per lo più inconsapevolmente, di sicuro intimamente, si trova ad affrontare
nella vita: ricorrendo agli stimoli di un
mostro sacro come Fromm, di un profeta moderno come Bauman e di un
esperto divulgatore come Galimberti.
Appartengono ai campi della filosofia,
della sociologia e della psicoanalisi,
come dire che aggrediscono il problema della felicità individuale da fronti diversi ma convergenti sull’uomo.
Valeva la pena affrontarlo anche
con questo scritto? Nessuna presunzione, ma il tempo di crisi economica che stiamo vivendo e le insicurezze del futuro che si stanno insinuando
in noi - che all’economia, alla tecnologia e alla società organizzata (lo stato)
avevamo delegato la produzione e la
garanzia della nostra felicità - costituiscono forse il contesto più fertile per
riflettere sulla necessità di avviare un
processo di cambiamento che, prima
ancora di interessare i comportamenti economici, soggetti a ciclicità, deve
investire in modo ben più serio, convinto e durevole la nostra cultura individuale.
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Jallad ad Din Rumi (detto Mevlana: 1207-1273)
il san Francesco dell’Islam, sepolto nel suo monastero
di Konya in Turchia
“Come il soffio di Dio alitato in Maria le ha fatto concepire Gesù, così quando la Parola di Dio penetra nel nostro cuore e l’ispirazione divina ci riempie cuore e anima, si produce in noi un figlio
spirituale che ha il soffio di Gesù, risuscitatore dei morti.
La chiamata di Dio, velata o no, concede ciò che ha concesso a
Maria. O voi che siete corrotti dalla morte all’interno del vostro
corpo, tornate dalla non esistenza alla voce dell’Amico! In verità
è una voce che proviene da Dio!
Epitaffio per Jalal Aldin Rumi
“Quando saremo morti non cercate le nostre tombe sotto terra, le troverete nel
cuore degli uomini”
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