LE IRANIANE

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LE IRANIANE
LE IRANIANE
Partecipano all’incontro (16 marzo 2006):
Alessandra Peretti, Centro per la didattica della Storia
Tatiana Boutourline, giornalista del Foglio
Virginia Del Re, Associazione Casa della donna di Pisa
Fariba Ferdosi, pittrice
Debora Mattiello, attrice
Alessandra Peretti
Questo è il nostro ultimo incontro e un po’ mi dispiace, perché i pomeriggi mi sono sembrati
interessanti e hanno avuto anche un’alta intensità emotiva, cosa che non guasta. Oggi concludiamo
parlando della resistenza delle donne iraniane.
Volevo cominciare con una citazione che rimanda al primo dei nostri incontri, che è stato
dedicato alla resistenza delle donne italiane. Chi c’era sa che è venuta a parlarne Anna Bravo, una
storica di Torino, che nell’introduzione di un famoso libro sulla Resistenza al femminile, La
Resistenza taciuta, fa questa affermazione: “Le donne sono visibili in ogni punto della storia,
purché si abbiano gli strumenti per vederle”.
Perché ho richiamato questa citazione? Perché vorrei applicarla, parlando oggi dell’Iran, alla
geografia invece che alla storia, e dire: “le donne sono visibili in ogni punto della geografia, purché
si abbiano gli strumenti per vederle”. Anche se noi sappiamo che le donne iraniane sono impegnate
a difendere o a riconquistare gli spazi di libertà e di autonomia che prima erano loro riconosciuti e
che l’affermarsi del fondamentalismo islamico nel loro Paese rende sempre più difficili e precari,
registriamo anche che nella nostra informazione quotidiana le donne iraniane sono per lo più
assenti. E tuttavia, quando ho cominciato a preparare questo incontro di oggi e ho fatto quello che
comunemente ormai si fa, se c’è da parlare di qualcosa, cioè sono andata su Google, mi sono
venute sotto gli occhi una quantità di immagini che smentivano quell’assenza, confermando
piuttosto l’affermazione di Anna Bravo: in genere mancano gli strumenti, ma per vederle basta
avere quelli adatti.
In effetti sul web c’è una quantità di immagini di manifestazioni di donne iraniane
veramente straordinaria, alcune le state vedendo passare alle mie spalle.
Manifestazioni di
studentesse nel giugno dello scorso anno a Teheran, manifestazioni per l’8 marzo, una settimana fa;
tra l’altro la notizia - assolutamente ignorata dalla nostra stampa - che quest’anno le manifestazioni
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per l’8 marzo sono state proibite dal governo. Invece, una volta di più, alcune donne iraniane hanno
voluto festeggiare l’8 marzo e la manifestazione è stata sciolta violentemente a bastonate.
Che cosa mi dicono queste immagini, che cosa ci dicono? Io ho ricordato durante il nostro
primo incontro che, di questo mondo e della condizione delle donne iraniane, in Italia si è venuto a
sapere soprattutto attraverso il cinema. In particolare pensavo a quel film terribile, claustrofobico,
che era Il cerchio di Panaj.
Senza voler dare nessun valore simbolico a queste immagini - altrimenti Tatiana mi
riprende, e vi spiegherà dopo perché - in realtà quello che mi ha colpito è che esse ci dicono che la
resistenza delle donne iraniane è in gran parte, in un Paese giovane e istruito, resistenza delle
studentesse, che sono oggi più del 63% della popolazione studentesca iraniana. Chi guardi queste
foto non credo possa non essere colpito dalla vivacità dei loro atteggiamenti e anche dall’eleganza
con cui alcune di loro fanno scivolare sui capelli quei foulard colorati che portano molte volte al
posto del velo a cui sono obbligate. Io ne sono rimasta colpita anche e soprattutto pensando che
molte di loro poi vengono punite con le 70 frustate regolamentari, che le loro manifestazioni
appunto vengono sciolte violentemente, che a centinaia sono state arrestate negli ultimi anni per
aver trasgredito ai canoni dell’abbigliamento islamico. Quindi evidentemente non è soltanto una
questione estetica o di folklore.
Riprendendo quel tragico gioco del “così vicino, così lontano” che abbiamo usato le volte
scorse parlando dell’Argentina e della Bosnia - così vicine per certi aspetti, ma lontane per altri - mi
vien fatto di pensare che lo stesso si può dire dell’Iran. Così lontano, eppure così vicino. In qualche
modo le studentesse iraniane siamo anche noi, che quest’anno celebriamo il 60° anniversario del
voto alle donne in Italia, e le donne iraniane il voto l’hanno avuto poco dopo, nel 1963, mentre il
diritto al divorzio l’hanno conquistato addirittura nel 1913. Come vedete, siamo abbastanza vicine
nonostante tutto.
Io su questo non ho molto altro da dire perché ne so troppo poco e desidero ascoltare le
nostre relatrici: volevo porre più che altro una questione sollevata dalla situazione dell’Iran. Da un
lato si ha la sensazione di un mondo in perenne e drammatica contraddizione, perché come in tanti
altri Paesi, anche in Italia per certi aspetti, ci sono tanti Iran diversi: c’è una Teheran colta, ricca,
occidentalizzata, c’è una Teheran dei quartieri popolari, c’è un Iran arcaico e profondo dei villaggi,
in cui molte volte la popolazione e i mullah si trovano di fatto a rispecchiarsi l’uno nell’altro, perché
condividono un’idea del mondo che si potrebbe definire premoderna. Quindi tante situazioni
diverse. Dall’altro, come appunto vi dirà meglio Tatiana, un regime religioso che ha trionfato con la
rivoluzione del ’79 e che ha imposto un suo diritto di famiglia, in particolare, ma anche una quantità
di disparità sul piano giuridico che offendono le donne iraniane. Ci sono cose magari un po’ più
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folkloristiche, come la poligamia o il diritto al ripudio della moglie... Ma soprattutto ci sono le
disparità relative all’affidamento dei figli, al valore della testimonianza giudiziaria e dell’eredità,
l´imposizione del velo e la segregazione dei sessi in molte sfere della vita. L’età minima per essere
giudicati per un reato è di 9 anni per le bambine e invece di 15 per i ragazzi.
Siccome le donne patiscono naturalmente di più per questo stato di cose, esse rappresentano
anche spesso una spina nel fianco del regime. Di fatto sono le ragazze le più ostinate oppositrici di
questa stretta repressiva. Sono loro a rappresentare la maggioranza dei laureati iraniani; dunque il
motore principale e – lo spero - inarrestabile del cambiamento. Tra le donne che hanno fatto parlare
delle iraniane c’è naturalmente Shirin Ebadi, Premio Nobel 2003, che nel corso di una intervista
dice una cosa che mi sembra interessante e problematica: che le donne iraniane sono vittime e
insieme portatrici, in quanto madri, di una cultura patriarcale tribale che non accetta la parità.
“Dobbiamo fare autocritica, dice, perché ogni uomo prepotente è stato cresciuto da una donna. La
cultura patriarcale è come l’emofilia: alcune donne ne sono portatrici sane e la trasmettono ai figli”.
Io ho posto quindi alcuni problemi. Ci parleranno di questa difficile realtà le nostre
interlocutrici di oggi. Una è Tatiana Boutourline, una giornalista che abita a Roma, che ha questo
nome e questo cognome favolosi, che le vengono da una serie di incroci, se mi è permesso, nel
senso che è di padre russo, la cui famiglia ha lasciato la Russia dopo la rivoluzione, e di madre
iraniana, che ha lasciato l’Iran dopo la rivoluzione. Come mi ha detto lei stessa poco fa, di questa
sua complessa identità la parte che le pesa di più, nel senso che è più sostanziosa per lei, è proprio
quella iraniana.
L’altra relatrice, Virginia Del Re, che è una cara amica di tutte noi, la conoscete benissimo
per la sua attività di insegnante e studiosa di lingua e letteratura inglese, per il suo impegno a favore
delle donne e anche per le sue doti di scrittrice, in quanto ha curato quel libro sui Poeti sufi dell’età
classica, attraverso cui ha rivelato anche alle sue amiche che l’ignoravano la passione per il
sufismo, la grande tradizione mistica islamica che ha trovato espressione nella poesia persiana
dall’XI al XV secolo. Il motivo per cui l’ho sollecitata a questo intervento, al di là di questo suo
interesse specifico, è che, durante una lettura comune del bel libro di Azar Nafisi Leggere Lolita a
Teheran, sono venute fuori una serie di notizie e di passioni biografiche che la legano ad un Iran
lontano. Mi faceva piacere che ci parlasse anche di questo, oltre che di quella forma di resistenza
culturale che è bene espressa nel libro in questione.
All’estrema sinistra di chi vi parla ci sono un’amica di Virginia, Fariba Ferdosi, che è una
pittrice iraniana anche lei trapiantata in Italia e che di questa resistenza culturale è appunto
un’interprete; e poi l’attrice Debora Mattiello, che ci leggerà alcuni passi del libro di Azar Nafisi.
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Tatiana Boutourline
Prima vorrei presentarmi. Sono una giornalista, mi occupo principalmente di Medio Oriente,
Caucaso, India, Pakistan, ma soprattutto di Iran e, siccome questo incontro è dedicato alle iraniane,
devo assolutamente premettere che sono per metà iraniana e quindi in un certo senso in questo
discorso sono parte in causa. Non cerco e non pretendo di avere una distacco che non ho, vorrei solo
raccontarvi un po’ la realtà del mio Paese, per come la vivo come osservatrice molto coinvolta.
Prima di tutto vorrei cercare di darvi la sensazione di cosa voglia dire vivere in una
teocrazia. Il mio Paese si definisce una repubblica islamica, ma è tutt’altro che una repubblica. In
questo strano sistema ibrido, che ambisce ad essere una democrazia islamica, gli aspetti
repubblicani sono una farsa, mentre invece l’aspetto islamico informa tutta quella che è la vita, sia
pubblica che privata, dei cittadini. Per cui c’è un occhio pervasivo, una specie di Grande Fratello,
che non solo limita la vita pubblica, la politica, l’accesso alla politica per tutti i cittadini, ma limita
anche la vita privata, lo stesso immaginario delle persone.
In questo Iran in cui un po’ tutti i cittadini sono cittadini di serie B, le donne non sono
cittadine di serie B, ma di serie C, D o anche Z, a seconda delle condizioni familiari e anche dei
luoghi in cui vivono, perché naturalmente una realtà urbana è molto diversa da una realtà rurale. Mi
preme sottolineare questo aspetto della teocrazia, perché molto spesso viene data del mio Paese
un’immagine un po’ troppo rosea, per cui anche nei servizi sui giornali si sottolinea spesso come ci
sia una lenta emancipazione, come da noi ci siano donne-pilota o le Olimpiadi femminili. Questi
sono elementi che possono colpire la fantasia di chi si crea tutta una serie di aspettative sul mondo
islamico, ma che non ritraggono per niente quella che è la realtà iraniana, in cui le donne sono
vittime ogni giorno e, anche se si ritagliano degli spazi di libertà e lottano per questa libertà, sono
comunque vittime. E questo bisogna sottolinearlo, al di là degli aspetti che possono colpire la
fantasia.
Prima di passare a descrivere le limitazioni a cui sono soggette le donne, vorrei partire dalla
mia esperienza personale e raccontarvi come sono tornata nel mio Paese, perché la mia famiglia è
lontana dall’Iran dal 1979, dalla rivoluzione, e per lunghi anni io non vi ho messo piede, un po’
anch’io vittima di quella che è una sensazione, un vizio degli iraniani in esilio, cioè di ritenere una
forma di resistenza anche lo stare lontani dal proprio Paese. Siccome ormai sentiamo che questo
Paese non ci rappresenta come cittadine e come donne, allora andarci è in un certo senso piegarsi ad
un sopruso. Poi, però, per tutta una serie di questioni di lavoro, sono tornata ed ho trovato un Paese
pieno di contraddizioni, dove ci sono molte donne che resistono, e resistono in maniera egregia. Ho
conosciuto anche donne che vivono questa loro condizione in Iran in una specie di esilio autoimposto, per cui accade che escano a fare spese, giochino a carte, stiano tra di loro, aspettino con
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impazienza che arrivino le riviste straniere. Ma poi si sentono talmente emarginate dalla realtà che
vivono in un mondo un po’ tutto loro, non vivono la vita del Paese, vivono in una specie di bolla.
Queste donne hanno figlie che invece lavorano, si innamorano, sono cresciute nell’Iran
rivoluzionario e sono magari le ragazze che vedete con questi veli colorati, con questi soprabiti
attillati e impalpabili, donne che molto coraggiosamente sfidano le convenzioni, anche estetiche, del
regime. Sono ragazze che provano a misurarsi, a spingere un po’ più in là i limiti e spesso pagano,
anche. C’è una distanza tra queste madri e queste figlie, una cosa che si verifica spesso perché, in
effetti, chi resta e chi cerca di adattarsi alla realtà ha anche difficoltà a mettere il dito nella piaga e
dire qual è il problema. Uno dei nostri difetti è che siamo anche un popolo molto molto orgoglioso,
per cui ci dà fastidio a volte ammettere quella che è la nostra condizione. Molto spesso si tende a
presentare agli altri un aspetto di forza che in realtà non sempre ci appartiene.
Vorrei portarvi in questi caffè alla moda dove ci sono le ragazze vestite e truccate, che
pensano al futuro, che pensano magari di poter scappare e andare in Occidente, studiare in una
buona università, o pensano di poter incontrare un ragazzo e di potersi innamorare. Dovete
considerare che in Iran i rapporti tra uomo e donna sono molto difficili; sono difficili innanzitutto
perché i contatti sono molto limitati, c’è la polizia morale ovunque, in qualunque momento come
donna puoi essere fermata, aggredita, redarguita, non solo perché ti sfugge un ciuffo di capelli, ma
perché magari stringi la mano a un ragazzo, o perché il tono della tua voce è troppo alto, o perché
stai ascoltando musica occidentale.... E’ tutto un reticolo continuo di cose che non devi fare, per cui
a tutti gli effetti sei una cittadina a metà.
Queste ragazze, come le ragazze di tutto il mondo, hanno grandi sogni e grandi ambizioni.
Allora, quando si scontrano con la realtà di questo Paese e vogliono cominciare a lavorare, ad
entrare in questa società, si accorgono anche loro, nonostante tutto, che non sono cittadine e soggetti
in quanto tali, ma hanno dei diritti residuali, cioè hanno i diritti e solo quelli che, in questa specie di
eguaglianza, la sharia non si porta via. L’articolo 20 della Costituzione sancisce che uomini e
donne sono uguali, però poi consente che tutti i diritti possano essere calpestati da disposizioni
opposte della legge islamica. Questo è un punto che spesso non viene enfatizzato, perché poi ai
livelli pratici le donne sono nella società, lavorano e hanno molte opportunità: però, quando ci sono
in gioco i loro diritti, questi vengono continuamente calpestati proprio grazie a disposizioni
legislative.
Per cui dimenticate un po’ questo folklore dei veli, dei colori... Certo, ci sono stati periodi
in cui in Iran siamo stati peggio, come donne. C’è stato il primo periodo rivoluzionario che, se uno
pensa alla rivoluzione francese, è equiparabile al periodo del Terrore, dove non potevi camminare
per strada senza aver paura di essere presa, picchiata, dove c’erano continuamente notizie di
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dissidenti in prigione, ecc. Perciò da questo punto di vista c’è un lieve miglioramento. Però la vita è
dura perché spesso c’è non solo la censura esterna dei comportamenti, ma anche una censura
interna; per cui alla fine non solo il regime si aspetta che tu abbia un’identità “islamicamente
corretta”, ma tu stessa, per sopravvivere, ne cerchi una. C’è un continuo gioco di specchi, per cui,
rispetto alla società, sei una cittadina che si maschera quotidianamente, cercando di preservare
un’immagine di osservanza di quelli che sono i dettami della repubblica islamica; e poi,
internamente, hai una vita completamente diversa, una vita in cui comunque ti mascheri per cercare
di sopravvivere. Inoltre, in questo meccanismo, si sommano tutti i retaggi di quella che è comunque
una cultura patriarcale, anche se ci sono stati grandi cambiamenti. Pensate che ormai Teheran è una
città di più di 12 milioni di abitanti, una città enorme, massiccia; e non solo a Teheran, ma anche nei
piccoli centri la vita non è più quella di un tempo. Però i retaggi della cultura patriarcale rimangono
e c’è questo strano innesto di modernità e di tradizione, a cui comunque la repubblica islamica
pensa di uniformare tutto - negando tutte le differenze e tutte le evoluzioni - perché poi l’unica
identità che viene concepita come identità forte e fondante è quella islamica. E’ come se uno si
sentisse italiano, ma anche europeo, ma anche cattolico, ma anche ingegnere, e gli venisse detto:
“No, tu sei solo cattolico, credente e tutta la tua vita e la tua identità si ferma lì.” Quindi niente di te
importa, niente di te è significativo, a parte quell’unico carattere. Questo è quello che vuol dire
vivere lì.
La situazione negli anni è migliorata. Abbiamo avuto questo presidente Khatami che è stato
descritto come il presidente filosofo e che è stato molto amato dalle donne perché aveva promesso
di cambiare, più che altro di creare un clima culturale meno avverso. Ha parlato tanto di dialogo tra
le civiltà e di rivoluzione culturale, e sono state le donne la sua fortuna perché in Iran votano dal
1963. Non che ci siano elezioni regolari, ci sono brogli massicci di cui, purtroppo, spesso la stampa
internazionale non parla: ma le donne votano e possono essere votate, possono entrare in
Parlamento. Però non possono ambire a grandi incarichi, non possono ambire, ad esempio, ad essere
presidente, ad essere dirigenti politici, devono accontentarsi, devono limitarsi, sempre. A meno che
non appartengano ad una ristretta cerchia di donne del regime: le mogli, le nipoti, le cugine, le
figlie. Le famiglie iraniane sono sempre famiglie molto allargate e queste grandi famiglie di
ayatollah, che sono la nuova casta al potere, sono piene di donne: e loro un piccolo posto al sole se
lo ritagliano, però mai al vertice.
Questo vuol dire che, sebbene ci siano degli spazi e a dispetto dei progressi di questa
liberalizzazione estetica, di questi colori - è vero: è meglio e più facile vivere in un Paese in cui non
c’è quel nero opprimente e dove comunque c’è qualche colore, ma non è il colore che ti dà la
libertà, la libertà è un’altra cosa - la realtà è che, in Iran, le cose cambiano costantemente da un
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giorno all’altro. Nell’ultimo periodo è uscita addirittura la notizia che il nuovo presidente
Ahmadinejad vorrebbe marciapiedi separati per uomini e per donne, per limitare il più possibile gli
incontri: e quindi non si può mai sapere come va a finire, da un momento all’altro le cose rischiano
sempre di precipitare. Però, pensando alla condizione della donna, bisogna partire dal fatto che in
Iran una donna vale la metà di un uomo. Questo vuol dire che in tribunale la sua testimonianza vale
la metà di quella di un uomo, e questo principio è difeso a spada tratta sulla base della sharia, che
sancisce che le donne non potrebbero valere quanto un uomo in un tribunale perché sono troppo
emotive, sono irrazionali e dunque non affidabili.
A me è capitato di intervistare decine di ayatollah, di direttori di giornali, di uomini con le
più diverse cariche istituzionali, che viaggiano, leggono, possono parlare di filosofia per ore; e in
tutti questi incontri, alla fine delle interviste, chiedevo: “Ma davvero io sono così inferiore?
Davvero sono così irrazionale? Perché in Europa le donne non sono considerate altrettanto
irrazionali e possono avere e vivere una condizione diversa?”. Interrogati su questi punti, anche sui
principi che loro stessi propugnavano, non avevano risposte: erano sempre gli stessi ritornelli,
risposte imparate a memoria, per cui è come sbattere contro un muro di gomma. Anche coloro che
vengono definiti “riformisti”, che si autocelebrano e dicono di credere nella democrazia, poi, agli
effetti pratici, non oseranno mai contestare i diktat di quella che è l’oppressione femminile, perché
questa oppressione - di cui il velo è un po’ l’emblema - è proprio uno dei caratteri fondamentali, dei
cardini di questo sistema.
Quindi, se voi siete una donna iraniana e volete divorziare, dovrete dimostrare che vostro
marito vi picchia, che è un pericoloso delinquente, che ha problemi di droga, che ha debiti; oppure
ve lo potrete scordare. Potrete stare nei tribunali e cercare di perorare la vostra causa, ma il giudice
vi dirà che dovrete fare pace. E se avrete dei figli piccoli, dovrete rassegnarvi al fatto che, una volta
che avranno compiuto il settimo anno d’età, dovrete lasciarli ai vostri mariti. Prima la situazione era
ancora peggiore: quando avevano due anni, i bambini maschi venivano separati dalle madri. Ora,
alla fine di una lunga battaglia, i figli maschi vengono tolti alle madri a sette anni e questa è stata
considerata, negli ultimi tempi, una delle grandi conquiste delle donne, soprattutto di quelle del
partito riformista. Quando dico “riformista” e “conservatore” prendete queste categorie molto in
generale, perché in realtà queste distinzioni noi le applichiamo per descrivere una situazione che
non corrisponde al vero: sono tutte categorie un po’ prive di significato, per quella che è la realtà
politica interna iraniana. Dovete pensare che è un sistema in cui c’è una dialettica un po’ fasulla,
come vi dicevo prima, dove ci sono dei gruppi di potere, degli interessi, una cricca di religiosi, in
questo momento anche dei militari che si spartiscono il potere: ma rimane sempre un sistema chiuso
e avvitato in se stesso.
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Il fatto che ci sia stata in alcune leggi una parziale apertura è anche merito dell’alleanza che
si è creata tra alcune donne. C’è sempre stata una forte dicotomia nel movimento femminile
iraniano fra quelle che si considerano donne laiche e urbanizzate, della classe media, che magari
hanno fatto la rivoluzione e poi hanno combattuto anche per rovesciarla, perché non si riconoscono
in questo regime, e le donne invece più tradizionaliste, che vivono in realtà rurali e non solo
cittadine, legate a tutto un sistema di solidarietà islamica tradizionale. Invece si registra negli ultimi
anni un’alleanza nel movimento, che un tempo era spaccato da questa divisione che, purtroppo, in
Iran c’è molto spesso, tra i cosiddetti “noi e loro”: noi – che non ci riconosciamo nella rivoluzione,
nel suo sistema di valori - e loro – gli altri, quelli che ne fanno parte, quelli che sono al vertice, che
si spartiscono le poltrone, i soldi, le fondazioni religiose. Le donne sono le principali artefici di
questo avvicinamento, per cui, nonostante la diversa provenienza ideologica, religiosa, il diverso
credo, quando si confrontano con la realtà di quello che vuol dire pensare ai figli, per esempio dover
abbandonare un figlio piccolo, queste donne hanno cominciato a cercare le cose che le uniscono e
non solo ciò che le separa. E’ un movimento che si sta rafforzando e, come è stato detto prima, che
ha futuro, perché il 63% nelle università sono donne. Le donne rappresentano solo il 30% della
forza-lavoro, ma è un dato in crescita perché finiscono di studiare prima, entrano nel mondo del
lavoro prima e spesso sono più qualificate degli uomini. Inoltre hanno la capacità di smussare, di
pensare, di cercare di costruire un Iran diverso, dimenticando anche il passato, cercando di guardare
più al futuro.
Tuttavia la situazione è molto dolorosa per la donna iraniana perché spesso la sua
condizione viene descritta dai commentatori stranieri, che ricalcano i vecchi stereotipi degli
orientalisti, come un dato culturale immutabile, come un costume, una cosa esotica e straniera. Non
è così. In Iran non solo le donne hanno cominciato a votare nel 1963, come ho detto prima, ma il
movimento per l’emancipazione femminile è cominciato all’inizio del ‘900 e ci sono state
importantissime riviste e associazioni femminili. La prima donna-ambasciatrice, nel 1951, è stata
una di quelle che ha lottato di più per costruire un Iran in cui le donne potessero avere diritto di
parola. Nel 1968 il nuovo diritto di famiglia ha rivoluzionato completamente i costumi secolari,
dando alla donna un peso diverso nella società e aprendole tantissime porte. Negli anni ‘70 c’erano
donne-giudice, c’erano donne-avvocato, c’erano donne che cercavano di farsi strada in tutti gli
ambiti all’interno di una cultura comunque patriarcale, dove per una donna, adesso come 30 anni fa,
quando tu vai lì si stupiscono che lavori. Sembra che lavori solo per passatempo, perché sei una
donna e il tuo primo ruolo deve essere quello di moglie e di madre. Invece, fin dagli inizi del ‘900 ed è una cosa che grazie al cielo continua ancora oggi - le donne hanno lottato per cercare di
affermare un’identità che non sia solo quella legata a tuo padre, o a tuo marito, o alla tua famiglia:
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una tua identità in quanto soggetto. Infatti molte donne che militano oggi nel movimento
femminista rivendicano in Iran le esperienze degli inizi del ‘900, che è un paragone e un
accostamento che viene vissuto molto male dalle cariche istituzionali dello Stato, perché riporta il
discorso ad un passato che la repubblica islamica non riconosce. In Iran per le istituzioni attuali
tutto quello che si richiama all’esperienza monarchica è considerato qualcosa di impossibile e di
scandaloso.
Eppure le donne osano. Nella rivista femminile Zan, che vuol dire “donna”, fu una volta
pubblicato un messaggio dell’ex imperatrice Farah Pahlavi e questa rivista fu chiusa. La giornalista
che aveva pubblicato questo messaggio - che era uno scritto di augurio perché il 21 marzo si
festeggia in Iran l’anno nuovo e per noi è il momento più importante dell’anno - l’aveva fatto
scrivere per sottolineare il fatto che nella storia c’è un processo di continuità: quindi dobbiamo
acquisire e riconoscere anche le esperienze di chi ci ha preceduto e non buttare via niente, anche se
questo sistema nega la monarchia e tutto quello che è avvenuto prima. Naturalmente il giornale è
stato chiuso e la giornalista è stata arrestata. E questo accade quotidianamente a moltissime
giornaliste iraniane, che sono numerosissime e sono anche tra le più abili e coraggiose: sono loro
quelle più spesso colpite dalla censura, quelle più spesso arrestate, quelle più spesso fermate, offese,
perché sono più deboli ed è molto facile per un uomo fermarle, aggredirle e ridurle al silenzio.
Quando l’ayatollah Khomeini arrivò al potere, si rivolse alle donne: aveva bisogno delle
donne e le donne cavalcarono la rivoluzione e ne furono purtroppo anche cavalcate. Nel senso che
non sembrava all’inizio che la repubblica islamica - proprio per questa definizione di “repubblica” sarebbe stata una teocrazia; sembrava che in questa repubblica le donne avrebbero avuto più spazio,
che questa repubblica le avrebbe aiutate a liberarsi del retaggio patriarcale familiare. Non andò così,
naturalmente, anche se delle donne non poterono disfarsi: per cui fu imposto il velo, fu abrogato il
codice di famiglia, ritornarono le leggi islamiche. In realtà è sbagliato dire “ritornarono” perché,
sebbene in Iran ci fossero già state leggi islamiche che venivano applicate nei villaggi - molto
spesso dai mullah che fungevano da figura centrale del villaggio -, tuttavia non era un sistema
codificato. Ebbene, tutte le conquiste furono buttate al vento e si arrivò a un sistema che poneva la
legge islamica al centro della vita: quindi si chiudeva con tutto.
L’altra cosa interessante da notare è che però con la guerra ci fu bisogno di donne, perché gli
uomini erano al fronte; per cui le donne arrivarono massicciamente, occuparono posti e si resero
anche un po’ indispensabili. E’ per questo che adesso le donne in Iran sono così visibili. Spesso la
repubblica islamica si vanta del fatto che le donne in Iran siano ovunque; ma le donne sono
ovunque perché il regime ne ha avuto bisogno e adesso continuano ad occupare i posti che si
liberarono allora, in posizioni comunque abbastanza di frontiera, difficili. Infatti rimangono sempre
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lì nel loro posto, tutti gli uomini fanno carriera e loro rimangono sempre lì: una sorta di riserva
indiana permanente.
Un altro cambiamento che vorrei sottolineare riguarda l’esperienza delle donne iraniane in
Parlamento. Quando agli inizi degli anni ’80 le donne entrarono in Parlamento, entrarono solo
donne che si riconoscevano nell’esperienza rivoluzionaria e quindi non contestavano minimamente
le leggi dello Stato. Anzi accettarono supinamente il fatto che l’art. 20 della Costituzione dicesse
che solo in maniera residuale, come dicevo prima, le donne erano uguali agli uomini. Quando fu
scritta la Costituzione le donne non fiatarono. Adesso le cose sono cambiate e le donne parlamentari
organizzano manifestazioni, parlano con le altre donne di movimenti considerati illegittimi, illegali,
con le donne dissidenti. Quindi c’è un vero fermento e proprio le donne spesso sono in prima fila, a
seconda dei diversi campi dai quali provengono. Ci sono giornaliste che parlano delle donne che
fanno le manifestazioni e c’è una sorta di circolo virtuoso di persone che cercano di portare alla luce
i problemi più gravi del regime.
Si parlava prima della manifestazione che c’è stata l’8 marzo. E’ stata una manifestazione
attesa con grande emozione, perché date che qui da noi forse non assumono un significato profondo
in Iran sono un momento di grande risveglio, in cui si sente di dover dimostrare qualcosa. Più di
duemila donne si sono radunate, hanno cercato di raggiungere un parco, sono state inseguite, sono
state picchiate con manganelli e con delle specie di bastoni elettrici importati per l’occasione dalla
Cina. Molte sono finite all’ospedale, molte altre ancora sono state arrestate. Tra loro c’era una
famosissima poetessa iraniana che si chiama Simin Behbahani, che da molti anni racconta la
condizione della donna in Iran, senza parlare direttamente del problema, cercando di creare una
suggestione per far sentire le cose, più che descriverle facendole vedere. Nessuno ha avuto rispetto
neppure per lei, che è una signora abbastanza in là con gli anni.
Questi sono momenti in cui il regime manifesta proprio la sua fragilità, perché non accetta
neppure un gruppo di duemila donne che alzano cartelli, chiedendo solo più libertà, più diritti:
rivendicazioni neanche tanto scandalose in Iran, nel senso che sono cose che si sono già viste. Ci
sono regolarmente manifestazioni femminili in Iran. Purtroppo la stampa se ne accorge poco, spesso
fanno più rumore le altre manifestazioni, quelle organizzate dal regime, dove vedete donne
completamente vestite con il chador nero di ordinanza. Ma tra le donne iraniane queste distinzioni
nell’abbigliamento non sono poi così importanti. Non voglio dirvi che il velo non sia importante,
ma oggi le cose sono cambiate anche in questo. Ossia, mentre un tempo mettere il chador nero
integrale voleva dire appartenere comunque a famiglie importanti, clericali, quindi essere negli
organigrammi del regime, adesso gli organigrammi del regime si sono evoluti, vivono nella parte
più ricca di Teheran, quella delle ambasciate, dei caffè alla moda, e molto spesso le mogli e le figlie
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di mullah vanno a giro con una specie di piccolo soprabito, si coprono con un velo e magari sotto
hanno i jeans leopardati, i tacchi, ecc. Per cui queste distinzioni non hanno più senso. Anche
ragazze considerate molto religiose, perché magari le vedete vestite tutte con un chador nero, sono
invece legate a un discorso di rivendicazione dei loro diritti, di emancipazione; molto più delle
ragazze truccate di tutto punto che pensano solo ad avere ciò che a loro manca, gli status symbol
occidentali: per cui non bisogna troppo fossilizzarsi su queste categorie. Il velo è un dramma per le
donne iraniane perché è un’imposizione, come è un’imposizione il divieto alla propria libertà di
espressione. Però per le donne iraniane è altrettante grave essere considerate la metà di un uomo:
questa è una cosa che incide molto di più sulla vita personale perché, alla fine, al velo ci si abitua, al
fatto di essere considerate niente o nulla, o la metà di qualcun altro, non ci si abitua.
Per concludere, volevo dirvi di cercare a volte di guardare oltre, di pensare che, quando la
televisione vi fa vedere queste immagini di donne come corvi neri, molto spesso non è quella la
realtà e, se la telecamera allargasse un pochino la sua inquadratura, vedreste altre donne. Se voi
poteste vedere sotto i chador, vedreste tutt’altro, vedreste un Paese pieno di contraddizioni, dove le
donne sono proprio la punta di diamante di questa parte di mondo, di questa parte di Iran che
insegue la libertà e la rivendica.
Alessandra Peretti
Ringraziamo Tatiana perché credo che questo invito a guardare oltre le apparenze sia
sempre importante, in particolare quando ci troviamo a confrontarci con un mondo che comunque,
per certi aspetti, sentiamo diverso dal nostro.
Dopo il suo discorso, che mi sembra abbia ampiamente risposto alle domande relative alle
contraddizioni presenti nell’Iran di oggi, che avevo sollevato all’inizio, passo la parola a Virginia,
che ci parlerà della resistenza delle donne iraniane così come l’ha voluta affrontare lei.
Virginia Del Re
Sono un po’ emozionata perché Tatiana mi ha riportato a vecchi ricordi. Il quadro da lei
fatto della situazione delle donne iraniane sconvolge e poco, forse, ne traspare di resistenza in senso
tipico. Però nei tre seminari precedenti di questo interessante ciclo abbiamo visto come le resistenze
delle donne siano in gran parte anomale, rispetto all’uso più convenzionale del termine resistenza,
nel senso che le loro forme di resistenza o di opposizione si adattano alle forme stesse della loro
vita: le donne per lo più lottano a mani non armate, come recitava il titolo di una mostra della Casa
della Donna, l’associazione che qui rappresento. Dunque come madri, come mogli, come
studentesse.
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Neppure le resistenti iraniane di cui parlerò stasera sono combattenti regolari: si tratta di
scrittrici famose, come Azar Nafisi, di vignettiste note come Marjane Satrapi, di pittrici,
disegnatrici, giornaliste, semplici lettrici. Le loro armi sono le forme d’arte in cui esprimono la
libertà dell’immaginazione e il coraggio di raccontare, l’ironia, il dolore e la rabbia di fronte alla
delusione bruciante di una rivoluzione cui molte avevano aderito con entusiasmo e che si è rivelata
un’oppressione crudele, di fronte alla censura burocratica e cieca e alla coltre mortifera di regole e
divieti cosiddetti religiosi, imposti su ogni minimo aspetto della vita delle persone, e soprattutto
delle donne. Del resto, lo sappiamo bene, è tipico degli integralismi religiosi l’essere morbosamente
ossessionati dal bisogno - tutto maschile - di controllare il corpo femminile.
Stasera è qui con noi anche Fariba Ferdosi Milani, un’amica artista iraniana che ci mostrerà
qualcosa del suo lavoro e ci parlerà della sua esperienza di giovane migrante dalla Persia all’Italia.
Desidero però spiegare prima la mia presenza qui. Il nostro gruppo di lettura pisano, La
luna, decise qualche tempo fa di leggere opere di scrittrici dei paesi del medio e del vicino oriente; e
dopo qualche esperimento deludente ci imbattemmo nei lavori, ormai notissimi in occidente, di due
iraniane: Persepolis, l’autobiografia in fumetti di Marjane Satrapi, e Leggere Lolita a Teheran di
Azar Nafizi. E’ il racconto, a metà tra finzione e realtà, del percorso di un gruppo di lettura a
Teheran, tra il 1995 e il ’97, la cui stessa esistenza rappresenta un vero e proprio esperimento
eversivo.
Alessandra ha proposto a me di parlare del nostro incontro con queste resistenti anche per
via di un mio legame biografico e affettivo con l’Iran, legame che si costituì molti anni fa, quando
ero studentessa e ottenni dal governo dello Scià una borsa di studio per due anni all’università di
Teheran. Perdonatemi un breve tuffo nella “mia” Persia degli anni sessanta e guardate queste due
fotografie, scattate allora. Guardate questi vestitini: qualcuna di voi forse ricorderà vestitini simili,
sopra le ginocchia, e le scarpe a punta. C’era già la moda geometrica. Questa era la mia Persia, un
Paese dove noi europee stavamo magnificamente.
Le immagini dovrebbero essere eloquenti da sole. Azar Nafisi ne parla con collera e
nostalgia quando pensa alle sue ragazze, come le chiama nel libro, e guarda le loro fotografie. In
proposito scrive:
“Qualcuno di voi magari si starà chiedendo a cosa pensa Sanaz - è una delle studentesse di
Azar, che è stata imprigionata, frustata e umiliata in tutti i modi - mentre cammina per le strade di
Teheran, e fino a che punto quell’esperienza la condiziona. Con ogni probabilità, tenta di estraniarsi
il più possibile da quanto la circonda. Chissà, forse pensa al fratello, o al fidanzato lontano e a
quando lo incontrerà in Turchia. Oppure paragona la sua situazione a quella della madre alla sua
età, e si domanda con rabbia perché le donne della sua generazione potessero passeggiare
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liberamente, godere della compagnia dell'altro sesso, arruolarsi in polizia, diventare piloti, vivere
insomma in un sistema tra i più avanzati al mondo riguardo alla condizione femminile. Forse si
sente umiliata dalle nuove leggi, dal fatto che dopo la rivoluzione l' età minima per sposarsi sia stata
abbassata da diciotto a nove anni, e che si sia reintrodotta la lapidazione per le adultere e le
prostitute”.
Nell’Iran di prima, sotto il regime Pahlavi, le donne parteciparono alla forma di resistenza di
ordine, diciamo così, più tradizionale, che le vide unirsi in maniera paritaria agli uomini nella lotta
contro l’oppressione e la feroce repressione delle libertà civili, dove non era la libertà femminile ad
essere in gioco, ma il sistema di governo, la libertà delle scelte politiche e sociali, i diritti dei poveri,
l’uso e la distribuzione delle risorse del paese. Molte iraniane adulte che vivono oggi in Europa o in
America sono testimoni dirette e indirette di quella prima resistenza: studentesse che avevano
studiato all’estero, figlie di famiglie più che benestanti o di intellettuali; donne le cui madri si erano
viste liberate, emancipate dall’occidentalizzazione – decisamente frettolosa -- del Paese sotto il
primo e sotto il secondo Scià, e che avevano assaporato il frutto della politica. Il mio Iran appartiene
a quell’epoca e i miei ricordi sono in realtà legati a una situazione di doppio privilegio: l’essere
giovanissima e l’appartenere alla comunità europea ospite dell’Iran. Infatti, negli anni sessanta, ero
molto giovane, vivevo e studiavo con entusiasmo, e capivo pochissimo del mondo e di politica: sì,
sentivo allusioni e cauti discorsi, ma solo dopo ho saputo della crudele Savak, la polizia segreta
dello Scià, strumento della repressione da parte del regime di tutto quanto era in odore di
comunismo (o di opposizione tout court). Quello che la vita “normale” ci mostrava, nelle grandi
città, era libertà delle donne, mode europee, ricchezza e lusso, grande cordialità e speciale simpatia
per gli italiani, voglia di costruire e innovare; insieme a modi di vita tradizionali, a molta povertà, a
un traffico infernale creato da automobili enormi e scassatissime, soprattutto quelle dismesse dal
mercato americano, rumorose e piene di lustrini, lumini e fiori di plastica colorati. Ma l’atmosfera
appariva in generale tutt’altro che cupa e, in quanto alla religione, si visitavano tranquillamente le
moschee (quasi tutte), le chiese armene e cattoliche, i luoghi dei Parsi e naturalmente le spettacolari
testimonianze del grande passato remoto persiano.
All’università i pochi studenti stranieri come me (nel mio corso eravamo tre donne, una
francese e due italiane, e una decina di studenti dai quattro angoli del mondo) andavano senza alcun
problema; e per le strade, giovane e vestita all’europea com’ero, il pericolo e il fastidio reale e
costante erano le palpatine fugaci – cosa che accadeva ahimè anche nel nostro sud - e qualche frase
borbottata e del resto incomprensibile: un po’ di buonsenso e la compagnia di un’amica o di un
uomo erano protezione sufficienti. Se ripenso agli abiti estivi che indossavo allora, a Teheran, a
Isfahan, a Shiraz, e li confronto con quanto succede oggi, mi vengono brividi di terrore
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retrospettivo. Ricordo peraltro molto chiaramente la sensazione di ostilità che veniva invece dalla
gente anziana del bazaar, specialmente dagli occhi neri brucianti delle vecchie donne avvolte nel
chador; in città le giovani iraniane meno europeizzate usavano chador chiari, leggeri, e i volti erano
ben visibili e di solito sorridenti, ma era noto che bazaar, moschee e campagne erano luoghi
terribilmente conservatori.. Di integralismo all’epoca mi pare non si parlasse, sebbene ci fossero
ricorrenti episodi di fanatismo: qualcuno in bicicletta gettava acido cloridrico in faccia a qualche
donna europea. Era un pericolo reale, ma di solito molto circoscritto e subito represso.
L’integralismo religioso di stato sembrava lontano dall’apparire all’orizzonte. Ma quando
arrivò, nel 1979, le donne furono oggetto privilegiato delle sue attenzioni, della sua ansia di
regolare, controllare e ingabbiare tutto, non solo i diritti elementari universali alla libertà di
espressione, di culto o di non culto, ma in particolare i diritti delle donne in quanto tali, il loro status
sociale e politico, e soprattutto, l’abbiamo detto, il loro corpo. Per paradossale che possa apparire,
forse opporsi a questo soffocamento è una lotta più difficile e oscura, che, proprio perché non segue
i modelli tradizionali - quasi sempre tracciati dai maschi - è fatta di piccole invenzioni quotidiane,
di sfide individuali o di piccoli gruppi, perfino di minime cose, come un colore proibito, un rossetto,
una sigaretta in luogo vietato. Cose minime che possono costare un prezzo spropositato, la prigione,
la fustigazione e altri orrori. Oppure la rivolta, la resistenza prendono la forma di difesa
dell’immaginazione, della fantasia creativa, attraverso la scrittura, la lettura, il disegno, il canto.
Ricordo vividamente il viaggio che feci con due amiche italiane – tre donne sole! – da
Isfahan a Shiraz a Persepolis, viaggio meraviglioso, da cui tornammo perfettamente indenni e piene
di immagini indimenticabili e di allegria.
A questo Iran appartenevano i genitori illuminati e affettuosi di Marjane Satrapi, che
decisero di mandarla in Francia ancora ragazzina pur di sottrarla all’oppressione, e la stessa Azar
Nafisi, che dice con struggimento:
“La principale differenza tra queste ragazze e quelle della mia generazione era che noi
sentivamo di aver perduto qualcosa, e ci lamentavamo del vuoto che si era creato nella nostra vita
quando ci avevano rubato il passato, trasformandoci in esuli nel nostro paese. Ma se non altro
avevamo un passato da paragonare al presente; avevamo ricordi e immagini di ciò che ci era stato
portato via. Le mie ragazze invece parlavano sempre di baci rubati, di film che non avevano mai
visto e del vento che non avevano mai sentito sulla pelle. I loro ricordi erano fatti di desideri
irrealizzati, di cose che non avevano mai avuto. E questa mancanza, questo struggimento per le cose
più normali, conferiva alle loro parole una luce malinconica, vicina alla poesia.”
Marjane Satrapi, la più giovane delle due artiste di cui ci siamo occupate, racconta nel suo
volume Persepolis, in splendide vignette, irriverenti e ironiche, dal segno rigorosamente in bianco e
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nero e straordinariamente efficace, la sua infanzia e la sua storia di giovane esule iraniana. L’esilio è
sempre presente in queste scrittrici e artiste: l’Iran perduto, la casa in cui non si può più stare sono
la radice perenne e dolorosa della loro esistenza altrove.
Azar Nafisi lo spiega benissimo anche in un articolo apparso sabato 11 marzo su
Repubblica:
“Che fossi in Inghilterra o in America, comunque al centro della mia esistenza c’era sempre
l’idea del ritorno... Il mio Iran perduto s’imponeva in tutti momenti della mia vita e arrivai perfino a
trasferirmi per un semestre nel New Mexico solo perché laggiù le montagne e le notti stellate mi
ricordavano quelle della mia infanzia.”
Ma torniamo alla Luna e alla nostra lettura di Azar Nafisi.
La trama di Leggere Lolita a Teheran è semplice: qualche anno dopo la rivoluzione di
Khomeini, l’autrice dà finalmente le dimissioni dall’università di Teheran, dove insegnava
letteratura anglo–americana, e decide di realizzare la sua fantasia ricorrente, “i colori dei suoi
sogni”: raccogliere un piccolo numero selezionato di studenti e leggere con loro opere di letteratura.
Si costituisce così un gruppo di lettura molto speciale. Io vorrei farvi sentire attraverso la lettura di
Debora il racconto di questo mettersi insieme del gruppo, che è molto importante perché
rappresenta di per sé, con la sua esistenza, una forma di attività clandestina, eversiva, dove si coltiva
niente di meno che l’uso della critica libera, l’uso dell’immaginazione. Il delitto più grande del
regime, dice Nafisi, è quello di aver ucciso l’immaginazione, il crimine più orrendo che questi
regimi fanno è di schiacciare l’individuo e la sua fantasia. Ed è esercitando la fantasia e
l’immaginazione che queste donne fanno resistenza.
Debora Mattiello
“Nell’autunno del 1995, dopo aver dato le dimissioni dal mio ultimo incarico accademico,
decisi di farmi un regalo e realizzare un sogno. Chiesi alle sette migliori studentesse che avevo di
venire a casa mia il giovedì mattina per parlare di letteratura. Erano tutte ragazze, dato che, per
quanto si trattasse di innocui romanzi, insegnare ad una classe mista in casa propria sarebbe stato
troppo rischioso. Fra gli studenti maschi, Nima fu l’unico a rivendicare con ostinazione i propri
diritti, così acconsentii a passargli il materiale che assegnavo e, di tanto in tanto, a vederci da me
per parlare dei libri che stavamo leggendo.
Spesso mi divertivo a punzecchiare le mie studentesse e, citando Gli anni fulgenti di Miss
Brodie di Muriel Spark, domandavo: “Chi di voi mi tradirà?”. Essendo pessimista per natura, ero
certa che almeno una mi si sarebbe rivoltata contro. Nassrin una volta mi rispose con malizia: “Ma
se è stata proprio lei a dirci che alla fine siamo sempre noi a tradire noi stessi, a diventare il Giuda
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del nostro stesso Cristo!”. Manna invece mi fece notare che io non ero affatto Miss Brodie e loro,
be’, loro erano quello che erano. Mi rammentò inoltre una delle mie raccomandazioni: non sminuire
mai, in nessuna circostanza, un’opera letteraria cercando di trasformarla in una copia della vita
reale; ciò che cerchiamo nella letteratura non è la realtà, ma un’epifania della verità. Eppure, credo
che se dovessi disobbedire ai miei stessi ammonimenti e indicare il romanzo che meglio di ogni
altro riflette la nostra vita nella Repubblica islamica dell’Iran, non sceglierei Gli anni fulgenti di
Miss Brodie, e nemmeno 1984; semmai Invito a una decapitazione di Nabokov oppure, meglio
ancora, Lolita.
Due anni dopo l’inizio del nostro seminario, l’ultima sera che ho trascorso a Teheran, alcuni
amici e studenti sono venuti a salutarmi e a darmi una mano con i bagagli. Dopo aver sottratto alla
casa i suoi oggetti e i suoi colori, risucchiati da otto valigie grigie come geni vagabondi dalle loro
lampade, io e le mie studentesse ci siamo messe in posa davanti alle pareti bianche e spoglie della
sala da pranzo, per scattare un paio di foto.
Le ho davanti a me, adesso. Nella prima si vedono sette donne su uno sfondo bianco. In
conformità alle leggi del loro paese, indossano ampie vesti nere e veli, neri anch’essi, legati stretti
intorno alla testa, che lasciano scoperti soltanto il volto e le mani. La seconda foto ritrae lo stesso
gruppo di donne, nella stessa posizione, contro la stessa parete bianca. Stavolta, però, senza quei
drappi scuri. Sprazzi di colore le distinguono l’una dall’altra. Ognuna è diversa per il colore e lo
stile degli abiti, per il colore e la lunghezza dei capelli; e nemmeno le due che portano ancora il velo
si confondono più.
[...]
Per circa due anni, quasi tutti i giovedì mattina, con il sole e con la pioggia, sono venute a
casa mia, e quasi ogni volta era difficile superare lo choc di vederle togliersi il velo e la veste per
diventare di botto a colori. Eppure, quando le mie studentesse entravano in quella stanza, si
levavano di dosso molto di più. Lentamente, ognuna di loro acquisiva una forma, un profilo,
diventava il suo proprio, inimitabile sé. Quel piccolo mondo, quel soggiorno con la finestra che
incorniciava i miei amati monti Elburz, diventò il nostro rifugio, il nostro universo autonomo, una
sorta di sberleffo alla realtà di volti impauriti e nascosti nei veli della città sotto di noi.
Tema del seminario era il rapporto tra realtà e finzione letteraria. Leggevamo i classici della
letteratura persiana, per esempio alcuni racconti della nostra “signora delle storie”, Shahrazad, tratti
dalle Mille e una notte, insieme ai classici dell’Occidente - Orgoglio e pregiudizio, Madame
Bovary, Daisy Miller, Il dicembre del professor Corde e, appunto, Lolita. A ogni titolo che scrivo,
un nuovo vortice di ricordi arriva a turbare la pace di questo giorno d’autunno, in un’altra stanza, in
un altro paese.
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Qui e ora, nell’altro mondo che tanto spesso veniva evocato dalle nostre discussioni, siedo e
ripenso a me e alle mie studentesse, le mie ragazze, come le chiamavo, mentre leggevamo Lolita in
una stanza piena di un sole fasullo, a Teheran. E tuttavia, per rubare le parole a Humbert, il poetacriminale di Lolita, ho bisogno che anche tu, lettore, cerchi di pensare a noi, perché altrimenti non
potremmo esistere davvero. Contro la tirannia del tempo e della politica, cerca di immaginarci come
a volte neppure noi osavamo fare: nei momenti più riservati e intimi, nelle più straordinariamente
normali circostanze della vita, mentre ascoltiamo un po’ di musica, ci innamoriamo, camminiamo
per strade ombrose, o leggiamo Lolita a Teheran. E prova a ripensare a noi dopo che quelle cose ci
sono state confiscate diventando una volta per tutte un piacere proibito.
Se oggi voglio scrivere di Nabokov, è per celebrare la nostra lettura di Nabokov a Teheran,
contro tutto e contro tutti. Dei suoi romanzi scelgo quello che ho insegnato per ultimo, e che è
legato a così tanti ricordi. E’ di Lolita che voglio scrivere, ma ormai mi riesce impossibile farlo
senza raccontare anche di Teheran”.
Virginia Del Re
Il fatto che noi della Luna, a distanza di anni e di cultura, ci trovassimo di fronte a un gruppo
di lettura di sole donne, che la lettura come rifugio, come esercizio di libertà e di critica, che il
diritto al piacere della lettura fosse la chiave di volta del libro di Nafisi, naturalmente richiamava
assonanze e differenze, suscitava ricordi, riportava noi del gruppo a riflettere su noi stesse come
lettrici, su ciò che la lettura aveva rappresentato per ciascuna di noi, con un senso di affinità e di
solidarietà tutto speciale. Anche per molte di noi la lettura aveva rappresentato nel corso degli anni
un luogo mentale “tutto per noi”, una forma di evasione da realtà meno drammatiche, ma che non
potevamo sopportare.
Tuttavia è chiaro che il senso del gruppo di Azar Nafisi va molto oltre questo: è un gruppo
di resistenti dal primo istante in cui le ragazze arrivano nel soggiorno di Azar. Non è solo il
contenuto – la letteratura occidentale, immorale – ad essere eversivo, è soprattutto il trovarsi
insieme, il gruppo che si affiata e si incanta nella lettura, nell’isola inventata dalle storie narrate.
Quell’intimità, quello svelarsi in senso letterale e metaforico, quello stare insieme e parlare di sé e
leggere e discutere opere letterarie è una sfida al regime, un’attività clandestina, una vera azione
sovversiva contro la disperazione: Quando sento dei regimi totalitari, di ogni credo e colore, oltre al
senso di ribellione per la violenza e gli abusi, mi assale un senso di noia profonda, di fastidio per la
monotona ripetitività di certi tratti comuni: il timore paranoico delle persone che si riuniscono,
l’odio per il sapere e il pensare, per il piacere, per l’immaginazione (che per Azar Nafisi è il
grimaldello, la forma di insubordinazione più potente per rompere la gabbia). I censori fanno
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fortuna con questi regimi: i roghi di libri sono emblematici, così come gli indici dei testi proibiti e le
scomuniche medievali, o le fatwa attuali, che hanno esattamente lo stesso effetto, o le condanne di
forme d’arte, perché “degenerata”, corrotta e disfattista. Tutte cose ben note in occidente, e che
anche la repubblica islamica dell’Iran regolarmente ripete. Non se ne parla mai, ma la rivoluzione
puritana nell’Inghilterra del ‘600 ebbe molti caratteri in comune con i regimi islamisti attuali, nella
tetra ossessione di voler controllare attraverso regole e divieti le menti e i corpi delle persone, e in
primis delle donne, naturalmente. Furono chiusi i teatri, furono banditi, proibiti ogni forma d’arte
non religiosa, il divertimento e semplicemente il piacere. L’allegria, la levità, il riso sono
sovversivi, lo sanno tutti.
Così si arrivava, e si arriva, al ridicolo e al grottesco, naturalmente; scrive Azar Nafisi
nell’articolo apparso sabato scorso su Repubblica:
“In un adattamento russo dell'Amleto distribuito in Iran, Ofelia fu eliminata dalla
maggioranza delle scene; nell'Otello di Sir Lawrence Olivier, la parte di Desdemona fu tagliata
nella maggior parte del film, e anche il suicidio di Otello fu espunto perché, secondo i censori,
avrebbe rattristato e demoralizzato le masse! In Iran le masse erano una strana categoria, perché
parevano soffrire di più assistendo alla morte di un personaggio immaginario sullo schermo che non
subendo fustigazioni e lapidazioni di persona. E, mentre a scuola le studentesse venivano
rimproverate se ridevano apertamente o se correvano in cortile, se avevano le stringhe delle scarpe
colorate o se portavano braccialetti variopinti, nei cartoni animati dl Braccio di Ferro fu eliminata
Olivia da quasi tutte le scene perché la relazione fra i due personaggi era illecita”.
Anche nel libro Nafisi ha dei momenti di un’ironia feroce, quando racconta per esempio la
storia del censore cieco. Vuoi leggerla, Debora? E’ breve, ma dà un’idea delle cose contro cui
combattono queste donne: oltre alle frustate, oltre alle continue persecuzione del Grande Fratello,
oltre ai guardiani della moralità, oltre alla prigione per aver riso troppo forte, c’è anche proprio tutto
un mondo....
Debora Mattiello
“Il modo migliore per spiegare questo paradosso infernale è quello di ricorrere a un
aneddoto che dimostra come, a volte, la realtà superi anche la finzione più grottesca.
Fino al 1994, il responsabile della censura cinematografica in Iran era un cieco. O meglio,
quasi cieco. Prima di quell’incarico si era occupato di censura teatrale. Una volta uno dei miei amici
drammaturghi lo aveva visto seduto in platea, con un paio di lenti talmente spesse che gli occhi non
si vedevano quasi: un assistente gli spiegava quanto succedeva sul palcoscenico e prendeva nota
delle parti che andavano tagliate.
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Dopo il 1994, il censore passò ad occuparsi del nuovo canale televisivo. Là perfezionò i suoi
metodi e ordinò che gli autori gli fornissero i copioni registrandoli su una audio-cassetta; non
dovevano animarli in nessun modo. Il censore li giudicava basandosi su quei nastri. Ancora più
interessante, comunque, è il fatto che il suo successore, che non era cieco - non fisicamente, almeno
-, decise di adottare lo stesso sistema”.
Virginia Del Re
Penso che basti per darvi un’idea della insensatezza e del grottesco a cui si può arrivare con
l’obbiettivo di controllare ad ogni costo tutto e tutti.
In Leggere Lolita a Teheran, il soggiorno della casa della professoressa si trasforma insieme
nel rifugio segreto delle lettrici, che possono mostrare la loro vita reale per quello che essa è, e nel
rifugio incantato della fantasia; e i testi scelti dal gruppo sono espressioni, metafore di ciò che è e di
ciò che dovrebbe essere.
Ma quel soggiorno è anche il luogo in cui la lettura assume il valore di ripensamento del
mondo, della realtà e dei testi stessi. Le donne sono protagoniste: Nafisi non fa mai proclami
femministi (e parla del femminismo islamico come di un mito, cioè una bugia), ma dice molto
chiaramente: “Esposi loro i temi che avremmo trattato; il più importante era come questi capolavori
dell'immaginazione potessero aiutare noi donne a sopravvivere in un contesto così opprimente. Non
cercavamo formule, o risposte facili; speravamo invece di trovare un collegamento tra gli spazi
aperti dei romanzi e quelli chiusi in cui eravamo confinate. Ricordo di aver letto alle ragazze
l'affermazione di Nabokov secondo cui ‘i lettori nascono liberi e liberi devono rimanere’.
Ci sono alcune metafore chiave in Leggere Lolita a Teheran: non a caso il primo testo che
viene letto è Le mille e una notte. Immagino che tutte sappiate la storia della meravigliosa narratrice
Shahrazad, che è rimasta l’esempio straordinario della donna che riesce ad incantare e a mani non
armate riesce a fermare la violenza.
Dice Nafisi: “Ad affascinarmi più di ogni altra cosa nella cornice delle Mille e una notte
erano i tre diversi tipi di donna che vi si trovavano descritti - tutte vittime del potere assoluto e
irragionevole di un re. Prima che entri in scena Shahrazad le donne si dividono in due categorie:
quelle che tradiscono e poi vengono uccise (la regina), e quelle che vengono uccise prima che sia
loro concessa la possibilità di tradire (le vergini). A differenza di Shahrazad, queste ultime non
hanno voce in capitolo, e sono per lo più ignorate dai critici. Il loro silenzio, comunque, è
significativo. Rinunciano alla verginità e alla vita senza resistere né protestare. Non esistono
veramente, perché le loro morti anonime non lasciano traccia. L’infedeltà della regina non priva il
re del suo potere assoluto; lo sbilancia soltanto. Tutti e due i tipi di donne - la regina e le vergini 97
subiscono in silenzio l’autorità del sovrano, agiscono all’interno dei suoi confini di potere e ne
accettano i soprusi. Shahrazad interrompe il ciclo di violenze, scegliendo di seguire regole diverse.
Incentra il proprio mondo non sulla forza fisica, come il re, ma sulla fantasia e sulla riflessione.
Questo le dà il coraggio di rischiare la vita, e la distingue dagli altri personaggi della storia”.
Questa metafora è tanto trasparente quanto fondante per una scrittrice, mi sembra:
Shahrazad come simbolo, come archetipo della narratrice, della resistenza delle donne attraverso
l’incantesimo della parola. Le ragazze di Nafisi, come le lettrici della Luna, non narrano, ma
leggono, e leggendo reinventano le storie narrate.
La seconda metafora è la storia stessa di Lolita, la ragazzina “seduttrice”, col suo amante
Humbert, il professore maturo che ha fatto di lei un’ossessione erotica. La lettura che Azar Nafisi
propone del romanzo di Nabokov non è la storia della “mania amorosa” di un uomo che si illude –
quasi moderno e alquanto squallido Pigmalione - di ricreare in un essere giovane e del tutto banale
il fantasma di un amore perduto; bensì la storia dello stupro di una bambina dodicenne e della sua
riduzione in schiavitù per due lunghi anni. Questa ragazzina, da come la descrive Nabokov, è
quanto di più banale, quanto di meno “Shahrazad” possiamo immaginare, quanto di più indifeso
anche. Lolita non è colta, è sciocchina, è un po’ volgare, è seducente come lo può essere
un’adolescente che non si rende veramente conto del mondo circostante: e, nonostante questo,
Humbert inseguendo suoi propri fantasmi ne fa un’ossessione d’amore.
Questa lettura del romanzo di Nabokov ci sorprese e lasciò perplesse alcune di noi lettrici
pisane, se ricordo bene; ma io personalmente - con la consapevolezza del “dominio maschile” e
della violenza in generale che ho oggi, e che non avevo affatto quando lessi la prima volta il
romanzo - la trovo molto convincente. Leggere Lolita in questa chiave non è solo una modalità più
“femminista”, in realtà rappresenta di per sé anche la resistenza come esercizio di immaginazione e
di libertà, come capacità di denunciare ed esporre al mondo il corpo nudo del tiranno, la sua
stupidità crudele. La storia di Lolita è di nuovo la storia della “verità disperata che si cela dietro la
confisca di una vita di un individuo da parte di un altro”, cioè da parte di un tiranno onnipotente,
ingiusto e spietato. Anche qui mi pare trasparente la metafora di un regime che rende schiave e
sottomette le donne, anzi che sottomette un’intera nazione: non sono solo le donne dell’Iran, è una
nazione, un intero popolo che viene chiamato a realizzare “il sogno di un altro”. Questa è un’altra
immagine che usa Nafisi. Le donne di questo Iran, ma anche gli uomini, improvvisamente
diventano gli schiavi di un sogno altrui, di qualcuno che li pensa in un altro universo, cui essi non
appartengono e che si trovano improvvisamente a dover realizzare, avendo avuto confiscata la vita,
e confiscata l’immaginazione.
98
Azar Nafisi collega spesso tutta questa situazione alla letteratura anche attraverso un’altra
opera di Nabokov di cui parla spesso, Invito a una decapitazione. Io ne ho ripreso qualche riga
perché contiene un altro sommesso invito alla resistenza, alla libertà. Un invito, cioè, alle donne a
capire che cosa sta succedendo. Vi è descritta la scena spaventosa in cui il carceriere invita
Cincinnatus, il condannato a morte che dovrebbe essere decapitato, a ballare: “I due escono
danzando dalla cella e avanzano lungo il corridoio. Girato un angolo, incontrano una guardia:
‘Descrissero un cerchio intorno a lui [alla guardia] per poi rientrare volteggiando nella cella’. [...] Il
peggior crimine di un regime totalitario è costringere i cittadini, incluse le vittime, a diventare suoi
complici. Farti ballare con il tuo carceriere, così come farti partecipare alla tua esecuzione, è un atto
di estrema brutalità. Le mie studentesse lo vedevano succedere nei processi in televisione e lo
sperimentavano in prima persona ogni volta che uscivano in strada vestite come altri dicevano loro
di vestire. Non facevano parte della folla che assisteva alle esecuzioni, ma non avevano nemmeno la
possibilità di protestare. L’unico modo per spezzare il cerchio e smettere di ballare con il carceriere
è tentare di conservare la propria individualità, ciò che sfugge ad ogni possibile descrizione eppure
distingue ciascun essere umano dai suoi simili. E’ per questo che nel mondo dei carcerieri i rituali per quanto privi di senso - diventano così importanti”.
Vorrei concludere con le parole finali del libro:
“La mia fantasia ricorrente è che alla Carta dei Diritti dell’Uomo venga aggiunta la voce:
diritto all’immaginazione. Ormai mi sono convinta che la vera democrazia non può esistere senza
la libertà di immaginazione e il diritto di usufruire liberamente delle opere di fantasia. Per vivere
una vita vera, completa, bisogna avere la possibilità di dar forma ed espressione ai propri mondi
privati, ai propri sogni, pensieri e desideri; bisogna che il tuo mondo privato possa sempre
comunicare col mondo di tutti. Altrimenti, come facciamo a sapere che siamo esistiti?”.
Per finire, Debora ci legge un altro breve brano, la parte sul corpo evanescente che si
riferisce proprio alle donne.
Debora Mattiello
“Di lì a poco il governo approvò nuove norme che disciplinavano l’abbigliamento delle
donne nei luoghi pubblici, costringendole a portare o il chador o la veste lunga e il velo.
L’esperienza aveva già insegnato che l’unica maniera per far osservare quelle regole era imporle
con la forza. Così, malgrado le proteste che si levarono da più parti, le nuove disposizioni entrarono
in vigore prima nei luoghi di lavoro e più tardi nei negozi, e i proprietari furono diffidati dal servire
clienti a capo scoperto. Le pene previste per le infrazioni andavano da una semplice multa fino ad
un massimo di settantasei frustate e a un periodo di detenzione.
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Mentre provo a colmare le lacune della memoria, mi accorgo di come la sensazione che
avvertivo allora sempre più forte, di precipitare nel vuoto o in un abisso, fosse legata a due fatti
pressoché concomitanti, la guerra e la perdita del mio lavoro. All’epoca non me ne capacitavo,
perché la routine quotidiana contribuiva a creare un’illusione di stabilità. Adesso che non potevo
più pensare a me come a un’insegnante, una scrittrice, che non potevo più indossare quello che
volevo, né camminare per strada al mio passo, gridare se mi andava di farlo o dare una pacca sulla
spalla a un collega maschio, adesso che tutto ciò era diventato illegale, mi sentivo evanescente,
artificiale, un personaggio immaginario, scaturito dalla matita di un disegnatore che una gomma
qualsiasi sarebbe bastata a cancellare.
Quella sensazione di irrealtà mi portò a inventare nuovi giochi, che a ripensarci ora mi
sembrano più che altro tecniche di sopravvivenza. L’ossessione per il velo mi aveva indotto a
comprare un’ampia veste nera che mi copriva fino alle caviglie, con lunghe maniche a kimono. Mi
ero abituata a nascondere le mani nelle maniche, come se non le avessi più. A poco a poco, arrivai a
fingere che quando portavo la veste tutto il mio corpo si dissolvesse: restava solo la stoffa con la
mia forma, che andava in giro guidata da una forza invisibile.
Sono in grado di risalire con una certa precisione al momento esatto in cui cominciai a
sentirmi così: avvenne il giorno in cui accompagnai al ministero dell’Istruzione superiore un’amica
che voleva convalidare il suo diploma. Fummo perquisite dalla testa ai piedi; fra le molestie sessuali
che ho subito in vita mia, quella è stata una delle peggiori. Una donna mi ordinò di alzare le mani,
su e ancora più su, mentre cominciava a tastarmi scrupolosamente ogni parte del corpo. Mi fece
notare che sembrava non portassi niente sotto la veste. Le risposi che ciò che portavo sotto la veste
non era affar suo. Mi porse un fazzoletto di carta e mi intimò di strofinarmelo sulle guance per
togliermi quella schifezza che mi ero messa in faccia. Le dissi che la mia faccia era pulita. Allora
prese il fazzoletto e me lo passò sulle guance, e siccome non ottenne i risultati sperati, perché come
le avevo detto che non ero truccata, sfregò ancora più forte, tanto che sembrava volesse strapparmi
via la pelle.
Il viso mi bruciava, e mi sentivo sporca; il mio corpo era come una maglietta sudata e lercia,
da buttar via. In quel momento mi venne l’idea del gioco, di far sparire il mio corpo. Immaginai che
le mani ruvide di quelle donna fossero uno strano tipo di raggi X, che lasciavano intatta la superficie
e rendevano invisibile l’interno. Quando finì di perquisirmi mi sentivo leggera come l’aria, senza
pelle, senza ossa. Per non rompere l’incantesimo avrei dovuto astenermi da qualsiasi contatto con
una superficie solida, e soprattutto con gli essere umani: il trucco avrebbe funzionato soltanto finché
fossi riuscita a non farmi notare dagli altri. Di quando in quando, ovviamente, avrei fatto riapparire
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una parte di me, magari per sfidare i rappresentanti dell’autorità lasciando intravedere una ciocca di
capelli, oppure spalancando gli occhi per fissarli e metterli a disagio.
A volte, quasi senza accorgermene, ritiravo le mani nelle maniche e cominciavo a toccarmi
le gambe e lo stomaco. Esistono? Esisto, io? Questa pancia, questa gamba, queste mani? Purtroppo i
guardiani della rivoluzione e gli altri garanti della nostra moralità non guardavano il mondo con i
miei stessi occhi. Loro vedevano mani, volti e rossetti; dove io vedevo una specie di fantasma che
fluttuava etereo e silenzioso lungo la strada loro individuavano ciuffi ribelli e calzette sovversive.
Nel frattempo continuavo a ripetere a me stessa e a tutti quelli che volevano starmi a sentire
che le persone come me, ormai, avevano smesso di esistere. E questa sensazione, che sconfinava nel
patologico, non era soltanto mia; tanti altri sentivano di aver perso il loro posto nel mondo.
Esagerando un po’, scrissi a un amico americano: ‘Vuoi sapere che cosa si prova a scoprirsi
inesistenti? E’ come se tornassi in casa tua nelle vesti di un fantasma che abbia un conto in sospeso.
Pensaci: riconosci la struttura, ma adesso la porta è di metallo invece che di legno, le pareti sono
state dipinte di un rosa pacchiano, e la tua poltrona preferita non c’è più. Il tuo studio è diventato il
soggiorno, e al posto dei tuoi adorati scaffali pieni di libri c’è un televisore nuovo. E’ sempre casa
tua, ma al tempo stesso non lo è più. Non conti più nulla per lei, per le pareti, le porte e i pavimenti;
e nessuno ti vede’.
Che cosa fa chi si scopre inesistente? A volte scappa, voglio dire fisicamente, e se ciò non è
possibile cerca di reagire, accetta le regole del gioco, cerca di mimetizzarsi con i carcerieri. Oppure
si rifugia nel proprio mondo interiore e, come Claire nell’Americano, trasforma quell’angolino in un
santuario: in sostanza, entra in clandestinità”.
Virginia Del Re
Adesso volevo presentarvi per un breve intervento Fariba Ferdosi, una pittrice iraniana che
ha uno studio e vive a Firenze, di cui io ho visto una mostra che mi ha colpito molto perché
sembrava che mi riportasse a questi temi, a un modo diverso di fare resistenza, di opporsi alla
violenza, di protestare contro la prepotenza. Fariba Ferdosi è venuta in Italia solo da qualche anno,
ma parla l’italiano meravigliosamente e io sono piena di invidia per questa sua capacità linguistica.
Ha portato anche qualche foto della sua attività.
Fariba Ferdosi
Io comincerei dicendo che mi sento un po’ emozionata perché, dopo tanto tempo, finalmente
riesco a sentire tante cose che avrei voluto sempre dire; però, anche se Virginia mi fa i complimenti
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per la mia lingua, mi mancano ancora tante parole per poter dire le cose che ha detto, ad esempio,
Tatiana. E confermo che è assolutamente così, purtroppo è proprio così.
Da cinque anni sono qua e tante cose sono cambiate per me, anche perché finalmente ho un
punto di vista esterno che mi permette di fare un paragone. Questo non era possibile quando ero in
Iran: allora cominciava ad esserci Internet, ma con delle difficoltà, e non avevamo ancora i
satelliti... Comunque penso che in futuro ci saranno due cose che metteranno in crisi questo
governo: la prima saranno le donne, come vi è stato spiegato, perché a un certo punto non si riesce a
tenerle, ribellarsi fa parte anche della loro natura. Così io penso. La seconda è la tecnologia stessa
perché, se uno riesce a uscire da un Paese così chiuso attraverso Internet, che pure è già
controllatissimo, o i satelliti, qualcosa riesce a vedere. E non è che la prima cosa che ti mette in crisi
è il modo diverso di vestirsi: sono tante le cose che ti danno un punto di vista per farti capire che il
mondo non è solo quello.
Io ho vissuto in Iran gran parte degli otto anni di guerra fino alla fine, quando sono arrivate
le bombe sopra Teheran; e c’era già questa grande crisi che poi è andata avanti anche dopo la
guerra. Una cosa un po’ diversa per me è che io ho vissuto sempre lì e solo dopo ho potuto vedere
come stanno le cose fuori. Invece Tatiana penso che abbia visto prima come stanno le cose e poi ha
visto l’interno del Paese. Una cosa che ho scoperto qui, che ho visto qui è questa: ci sono tante
Faribe dentro di me. Prima non lo vedevo. Noi quando facevamo le elementari sapevamo che
c’erano delle spie fra noi bambine: e che cosa ascoltavano? Ascoltavano se mia mamma, quando
viene un ospite, porta il velo o no, se mio babbo beve alcool o no. Dopo, crescendo, dovevano
andare a dire se io ho un ragazzo, e dopo ancora se io mi occupo di politica, e così via. Alla fine
tutto questo ti fa avere tante identità. Per comportarti in un posto pubblico hai una maschera diversa
da quella che hai con degli amici. Con i tuoi amici non è che ti fidi subito, passa del tempo, tanti
esami, per capire se questa potrebbe essere un’amica a cui posso dire ciò che penso, o no. Però la
consapevolezza di queste differenze, di queste diverse identità che convivono in te, per noi che
facciamo parte della generazione dopo la guerra non è facile averla: o vieni fuori dal Paese e ti
guardi con uno specchio diverso, o altrimenti ce l’hanno solo gli adulti, come mia mamma, come le
mie zie, che possono fare un paragone. Voglio dire che io sono uscita dall’Iran quando avevo 24
anni, ora ne ho 29: ho fatto Teheran-Firenze e non avevo visto prima nessun altro Paese, anche
perché ti impediscono di uscire. Pensano che è meglio che tu che rimanga là; altrimenti, se appena
hai una possibilità e vai via, è meglio che non torni perché comunque chi pensa è meglio che non ci
stia in Iran. Purtroppo io devo leggere Lolita a Teheran in italiano, devo leggere Persepolis in
italiano perché sono libri che non esistono nella mia lingua. Questi sono i problemi che io devo
continuamente affrontare per capire di più, della mia storia e della storia del mio Paese. Da noi i
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libri cominciano col nome di Dio, poi c’è la foto di Khomeini, poi la foto di Khamenei, poi
comincia il testo ben censurato: ecco quello che ci danno.
Qui ho potuto vedere la situazione diversa del mondo occidentale e anche la responsabilità
che ha l’Occidente, con i suoi strumenti tanto migliori dei nostri per poter pensare meglio, per poter
decidere meglio. E qui io posso fare le mie critiche, per esempio alla guerra in Iraq che è
assolutamente sbagliata: ovviamente l’Iraq è stato in guerra con l’Iran per otto anni, non è che io ne
vada fiera. Non penso mai che la guerra sia una soluzione, ho visto quanti giovani sono diventati
nazionalisti con la guerra, e alla fine abbiamo avuto un Paese distrutto, a favore di questi
fondamentalisti. Invece di fare queste guerre sarebbe meglio mandare là un paio di milioni di turisti,
così vedreste che le cose cambierebbero: perché sempre con gli scambi le cose cambiano, non esiste
altro modo.
Per fare l’artista non è che si decide: “Bene, domani comincio” e si diventa artista. Secondo
me tutto nasce da un’esigenza talmente forte di dire, di presentare delle cose, che poi da lì si
sviluppa un pensiero e anche il desiderio di approfondire. Io ho cominciato facendo qualcosa che
ora cerco di farvi vedere. Sono nati per primi dei lavori con donne che avevano diverse facce o
diversi corpi, semplicemente sdoppiati, che però diventavano mostruosi. Richiamavano quella
doppia identità di cui vi parlavo. Però dopo è successo che, siccome i media non hanno mai tempo
di approfondire le cose e arrivano delle immagini che, quando le vedete, voi dite: “Ah! poverini,
hanno il velo” - quello che dice Tatiana: “Non guardate solo il velo” -, allora ho cominciato a
mettere in crisi questi lavori perché non volevo dire questo. Per me, che da quando sono nata
dovevo portare il velo, il velo faceva parte di me, non è stato mai il velo il vero problema. Il
problema era il pensiero che mi costringeva a portare il velo.
Così ho cominciato a fare delle metafore per poter parlare con una lingua un po’ simbolica.
E’ una cosa che fa parte di noi: da noi si dice “parli della finestra per poter dire qualcosa alla porta”,
una metafora che si usa perché è sempre stato talmente censurato il modo di parlare che tu
comunque devi utilizzare delle metafore per poter dire tante cose. Io però non vorrei fare un lavoro
che presento solo a voi, che lo capite perché comincio ad utilizzare un linguaggio un po’
occidentalizzato e che vi dice qualcosa. Vorrei parlare anche al mio popolo, vorrei entrare anche lì;
non voglio vivere solo in Occidente, perché che alla fine diventa troppo facile criticare e criticare e
non portare niente. Vorrei presentare questi lavori anche lì, perché anche così qualcosa cambia.
Da questo nasce il lavoro che ho chiamato Pecorato, la metafora della pecora armata che ha
un doppio significato. La pecora, che è un’immagine domestica, tutta buona e pacifica, diventa
feroce e prende le armi: però sempre col dubbio che forse altri l’hanno armata. Da noi la pecora è
un animale sacro ed è ancora in uso che, quando uno compra una macchina o una casa, porta
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fortuna fare un bel sacrificio di pecora. D’altra parte quando io dico: “Ah, vedi: quello lì si
comporta come una pecora”, tutti capiamo cosa vuol dire: è uno che va col gregge, che non ha un
suo pensiero, che non è individualista. Io penso che faccia parte dell’essere umano aver sempre
paura di pensare da sé. Quindi io faccio una critica generale per dire che bisogna pensare, che non
bisogna andare col gregge: insomma abbiamo tutti la possibilità di non essere pecora.
(Fariba illustra alcune sue composizioni)
Anche queste fanno parte del progetto Pecorato: le pecore formano immagini
felici,
decorative, però poi il male si scopre sempre, alla fine. E’ un lavoro per dire che pecore non si
nasce, lo si diventa.
Questi sono dei tappeti, che sembrano veramente tappeti veri, perché li ho stampati su una
superficie che ha una finta trama: infatti il titolo è Trama. Ma all’interno c’è scritto “Allah” con le
pallottole. Potrebbe avere tanti significati, ma volevo dire di non utilizzare la religione per la
violenza; e poi il tappeto, il nodo, i tappeti persiani, come sappiamo....
Alessandra Peretti
Ringraziamo Fariba che ci ha fatto vedere cose così interessanti e sentire un’altra voce. Ora
aprirei il dibattito.
Intervento non identificato
Non avevo mai visto una pecora armata: molto originale. Lei si riferisce universalmente alle
persone che diventano pecore o pensa specificamente al suo paese? Perché dev’essere molto più
difficile per voi, perché vi obbligano ad esserlo.
Fariba Ferdosi
Io volevo fare proprio questo: non riferirmi solo all’Iran, riferirmi a tutto il mondo. Perché si
può diventare sempre pecore, si può sempre perdere il senso individuale del pensiero, dovunque. E’
vero però che è molto più difficile non esserlo da noi. In facciata devi essere pecora, ovviamente.
Del resto, quando volevo usare le pecore vere, con le armi, e ne parlavo con il pastore, il
pastore la vedeva ovviamente a suo modo ed era tutto contento di avere finalmente le pecore
armate, così che potevano difendersi dai lupi. Era contentissimo. Infatti ognuno ha il suo modo di
leggere le cose.
Alessandra Peretti
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Un aspetto che a me interesserebbe capire un po’ di più, rispetto alla situazione iraniana,
riguarda la resistenza interna, che ha da un lato le caratteristiche che illustrava Virginia, dall’altro
ha a che fare con la quotidianità, e col modo in cui le donne fanno i conti con la quotidianità. Io
leggevo stamattina in un articolo una cosa che non sapevo, anche questa forse un po’ folkloristica,
cioè che nei ristoranti di Teheran spesso la tavola è imbandita con tre bicchieri, per l’acqua, per la
Coca-Cola e per la fanta; e una delle donne intervistate diceva però che in situazioni in cui il
controllo è minore lei si porta una bottiglia di vino da casa. Anche questa è una forma di resistenza
spicciola.
Però mi sembra che ci sia anche una relazione con la resistenza esterna: ci sono tantissimi
iraniani che vivono fuori dal loro Paese, che esprimono anche loro nei modi che gli sono più
congeniali una forma di resistenza. Mi interessava capire che rapporto c’è tra queste varie forme,
perché il problema del rapporto tra chi rimane e chi va fuori molto spesso è stato riscontrato in tante
altre situazioni analoghe. Mi colpiva stamattina, in questa sommaria documentazione, vedere
l’atteggiamento, per esempio, che Shirin Ebadi aveva nei confronti di Azar Nafisi, un atteggiamento
critico. “Lei in realtà se n’è andata” diceva. Questo problema delle divisioni che si creano tra gli
oppositori a un regime, soprattutto in situazioni difficili, mi piacerebbe capirlo di più.
(intervento senza microfono che chiede a Fariba se possa o voglia tornare a Teheran)
Fariba Ferdosi
A livello di legalità per fortuna sì, posso tornare: e infatti sono tornata sempre, perché io
sono venuta in Italia non come asilo politico, ma con una domanda che ho fatto per studiare, anche
perché era l’unico modo di venire legalmente. Quanto al voler tornare o no, con questa situazione
ovviamente no. E’ vero che ci sono tutti i problemi di nostalgia, la famiglia e tutto il resto: non
avevo 14 anni quando sono venuta via, ne avevo 24 e a quell’età sei matura, hai fatto la tua prima
esperienza d’amore, hai tante cose che lasci. Però, con la situazione di ora, c’è una lama tagliente
che taglia tutta questa nostalgia, perché o decidi di non vivere, di andare lì ed essere un essere
vivente non-vivente, oppure rimani qua con tutti questi problemi. Io penso che in questo momento
forse posso fare qualcosa di più fuori che dentro, perché dentro dovrei diventare un fantasma, avere
sempre paura: “ Oddio, quando mi scoprono?”, e poi non si sa dove finirei.
Virginia Del Re
Posso dire una cosa? Non da iraniana, non voglio essere presuntuosa, come straniera. Stavo
pensando a Nafisi, che se n’è andata. C’è un discorso da fare sulla lingua, per quello che riguarda la
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denuncia, la conoscenza e la comunicazione delle cose. Scrivere in lingua farsi vuol dire essere letti
da poche persone: è il vecchio discorso che si fa per altri contesti letterari. Scrivere in inglese o in
francese vuol dire fare una denuncia che raggiunge milioni di persone di più. Non credo che sia un
atto di vigliaccheria, credo che sia una forma di resistenza anche quella, un’arma, diciamo. Perché
servirsi di una lingua che è praticamente, in questo momento, a disposizione di tutto il mondo, vuol
dire anche poter parlare, poter raccontare a tanti il famoso censore cieco.
Una delle cose che mi ha più colpito sentendo le amiche iraniane, leggendo le scrittrici, è
questo continuo senso di esilio. L’esilio non è una cosa leggera, noi forse ce lo scordiamo, ed è vero
che Azar Nafisi è andata via, ma vive da esule. Lei dice che si può fare resistenza restando - e suo
marito ha fatto resistenza restando per un po’ -, però lei ha deciso di andar via. Ma quando dice: “Io
ho lasciato l’Iran, ma l’Iran non ha lasciato me”, alla fine del libro, c’è un profondo senso di
malinconia e di nostalgia per questa patria perduta, che per gli iraniani è fortissimo. Io questo lo
posso dire come amica straniera di diverse persone. E’ un amore sconfinato, il loro, non è una patria
qualsiasi, è una cosa straordinaria. Quindi, secondo me, c’è anche questo di cui va tenuto conto,
perché non viene fuori se non se ne parla.
Alessandra Peretti
Io però volevo rettificare l’impressione. Io proponevo il problema non come giudizio su chi
va e chi resta, ma come problema di rapporti tra chi va e chi resta. Questo a me interessava capire,
anche perché chi va, di fatto, ci andrà con tutta la nostalgia e il dolore, però per alcuni aspetti taglia
con una realtà che da ora in poi guarderà dal di fuori; forse Tatiana ha qualcosa da dire in proposito,
perché mi parlava anche prima di questo suo rapporto.
Tatiana Boutourline
Rischiano di essere rapporti spesso molto conflittuali. Se penso alla mia piccola esperienza e
all’esperienza della mia famiglia, parte della mia famiglia è all’estero, parte è in Iran. Noi che per
anni non siamo tornati, guardavamo con un senso di orrore all’Iran in cui loro vivevano e abbiamo
creato anche una certa distanza con chi è rimasto, anche se non tutti quelli che sono rimasti sono
rimasti per scelta: alcuni sono rimasti pensando che le cose sarebbero cambiate e poi non sono
cambiate. Sono diverse le motivazioni che hanno spinto alcune persone a restare ed altre ad
andarsene. E comunque nel frattempo sono passati quasi 30 anni, per cui è accaduto che alcuni
iraniani sono finiti negli USA, o in Francia, o in Inghilterra, e si sono creati lì un loro piccolo Iran.
Questo è accaduto soprattutto alle persone che avevano già una vita in Iran e sono andate via a 4050 anni. E’ stato difficile per loro rimettersi nel mondo del lavoro e si sono molto ripiegati sul
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ricordo, per cui guardano la televisione e i film iraniani, sia vecchi film che programmi iraniani sui
canali satellitari, che non raccontano però la realtà attuale, ma la realtà di 30 anni fa. Ci sono negozi
iraniani, ci sono ristoranti iraniani, ci si riunisce tra di noi e si parla di quel mondo come se niente in
realtà fosse cambiato. Naturalmente chi invece è in Iran vive la realtà, per quanto alcuni, come
cercavo di raccontarvi, si rinchiudano quasi nelle loro case in una specie di esilio, perché non
vogliono riconoscere la realtà, mentre tutto il mondo cambia. Loro magari vivono in una zona che
un tempo era una zona meravigliosa, alla moda, con parchi, verde e giardini, e adesso questa zona
non è più così verde, perché hanno costruito accanto un palazzone enorme dove ci stanno solo
mullah; e dove prima uno poteva starsene nella sua piscina a nuotare, adesso se nuota vengono e ti
arrestano e ti portano via, oppure il vicino di casa ti denuncia. Queste persone, anche se cercano di
isolarsi dalla realtà circostante e aspettano appunto che arrivino i giornali e le riviste straniere - che
arrivano censurate, però arrivano - perché hanno questa fame e questa sete culturale, comunque
vivono quella realtà e, per quanto tu non voglia essere influenzato da quello che ti circonda, lo sei.
Perciò anche chi assolutamente non vuole autocensurarsi o cambiare sente la pressione dell’esterno
e diventa alla fine altro da sé; perché non puoi vivere per 30 anni in una realtà altra senza cambiare:
e questo succede sia per chi resta, sia per chi se n’è andato. Perché anche chi se n’è andato continua
a sentire di appartenere ad un mondo che non c’è più. Questo è vero soprattutto per chi appartiene
alla generazione di chi era già adulto quando c’è stata la rivoluzione. Per chi, come me, appartiene
alla generazione che è venuta dopo, ci sono altri problemi identitari, perché quando l’identità è
molto forte e tu senti di appartenere a un mondo altro, o ti ripieghi sui ricordi di cose che in realtà
non hai vissuto o vai a vedere. Se vai a vedere, purtroppo, non ritrovi le cose che ti hanno
raccontato e molto spesso vai a caccia di sensazioni che non trovi, trovi solo l’orrore. Allora vai in
questo orrore, spesso anche aiutata da categorie occidentali, e cerchi di capire.
Quindi è molto difficile e purtroppo la distanza spesso rimane. Persone come Azar Nafisi,
che comunque in Iran sono rimaste e hanno combattuto, quando alla fine scelgono di andarsene, di
comunicare quella che è la nostra realtà, si trovano spesso in contrasto con altre persone che invece
scelgono di restare, di combattere all’interno del regime, come Shirin Ebadi. Poi succede che c’è un
dissidio tra chi dice: “Io con questo regime non voglio avere niente a che fare, perché anche solo
avendoci a che fare mi sporco e non sono più me stessa, annullo la mia identità” e chi dice invece:
“No, l’unico modo per cambiare questo regime e avere un impatto sulla realtà è lavorarci insieme”.
Sono tendenze entrambe molto forti, che purtroppo non riescono spesso a conciliarsi, per cui c’è
una forte conflittualità.
Fariba Ferdosi
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Hai spiegato benissimo. L’unica cosa importante che vorrei aggiungere è che purtroppo c’è
una realtà molto amara e ci sono tanti, ma tanti, che vogliono uscire, però non possono. Non è cosa
da poco, perché io ho visto e vedo delle famiglie che si sono completamente distrutte, hanno
venduto tutto, prendendo avvocati su avvocati, per poter uscire dal Paese, però non hanno potuto:
primo perché è il Paese stesso che lo impedisce, secondo perché non ci sono tanti Paesi così aperti
da poter ricevere gli iraniani che escono. Se uno esce dall’Iran deve avere un visto e ci sono Paesi
che non te lo danno. E poi se sei una donna devi avere anche il permesso del marito. Perciò c’è un
conflitto molto sottile: per noi che comunque siamo riusciti a uscire c’è molta amarezza quando
torniamo e vediamo le persone che hanno voluto tanto uscire e non ce l’hanno fatta. Allora c’è
veramente un rapporto molto difficile, non sai come comportarti e loro non sanno come
comportarsi. E’ molto forte il desiderio di uscire da questa vita così difficile: perché non ti senti te
stessa, non ti accettano e non hai neanche la possibilità di andare via.
Tatiana Boutourline
Se posso solo aggiungere un’altra osservazione... Prima Fariba parlava della tecnologia, di
quanto la tecnologia sia importante. Per chi ha voglia di capire cos’è l’Iran di oggi, più che leggere
tante cose sui giornali, sui veli, sulle ragazze che si truccano e vanno in giro, sarebbe utile leggere
un po’ cosa scrivono su Internet quei ragazzi che proprio attraverso Internet riescono a comunicare,
a mettere in relazione l’Iran di fuori e l’Iran stesso, l’altro Iran e l’Iran reale. C’è una
comunicazione grossissima che sta cambiando tanto i codici comportamentali, le idee, è uno
scambio continuo; con tanti filtri, però nonostante i filtri si trovano sempre nuovi modi, metafore,
giochi di parole, linguaggi e questo è un fenomeno abbastanza dirompente. Ci sono siti
assolutamente non politici, che trattano temi più leggeri, siti usati da ragazzi e ragazze per
incontrarsi, che vengono regolarmente filtrati, ma ne vengono fuori sempre di nuovi. Per cui è vero
che c’è questa grossa dicotomia tra dentro e fuori, però è vero anche che c’è uno sforzo, una voglia
continua di parlarsi.
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