Luciano e la filologia omerica

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Luciano e la filologia omerica
LA FILOLOGIA OMERICA VISTA DA LUCIANO DI SAMOSATA: STORIA VERA, II 20
Luciano di Samosata (II secolo d. C.), autore famoso per la pungente ironia e per la vena polemica dei suoi numerosi
scritti (circa un'ottantina di opere), nella Storia Vera (II 20) si diverte a prendere in giro i principali dubbi e le più
importanti problematiche che riguardavano la figura di Omero e i suoi poemi. Tra le varie tappe del fantastico viaggio
narrato da Luciano, non senza una implicita polemica letteraria contro gli “storiografi bugiardi”, si trova una
descrizione dell’Isola dei beati (II 5 e seguenti), luogo paradisiaco popolato dalle grandi personalità dell’antichità e da
eroi e da eroine del mito. Dopo aver descritto i luoghi e la vita condotta dai beati, Luciano elenca tutta una serie di
celebrità della tradizione ellenica che, in quel luogo, hanno trovato dimora (i soldati della guerra di Troia, poeti e
filosofi) e, ovviamente, tra queste, egli annovera il grande Omero.
“Non erano passati due o tre giorni che, avvicinandomi al poeta Omero – né lui né io avevamo niente da fare –
cominciai a tempestarlo di domande: in primis, di dove fosse originario; gli spiegai che si trattava di una questione su
cui, da noi, stavano ancora compiendo ricerche su ricerche. Neppure lui ignorava - mi rispose allora – che certuni lo
ritenevano di Chio, altri di Smirne, i più di Colofone: era babilonese, invece; dai suoi concittadini non veniva chiamato
Omero, ma Tigrane: in seguito, inviato in Grecia come ostaggio, si era cambiato il nome. Gli chiesi, poi, se avesse
scritto veramente lui certi versi da espungere, e mi confermò che erano tutti autentici; per cui condannai come
davvero eccessiva la pedanteria di Zenodoto e di Aristarco e dei filologi loro seguaci. Soddisfatto delle risposte avute
sull’argomento, gli domandai ancora perché mai avesse cominciato l’Iliade dall’“ira” di Achille: mi disse che gli era
venuto in mente così, non l’aveva studiato a bella posta. Morivo, inoltre, dalla voglia di sapere se avesse scritto prima
l’Odissea dell’Iliade, come i più ritengono: e lo negò. Che, poi, non era nemmeno cieco – altra voce che circola sul suo
conto – me ne sono accorto subito: ci vedeva, e così non ho avuto neppure bisogno di chiederglielo. Molte altre volte
ci siamo intrattenuti a conversare, quando mi capitava di vederlo libero da impegni; mi avvicinavo, rivolgendogli
qualche domanda, e lui appagava volentieri ogni mia curiosità, specialmente dopo aver avuto la meglio nel processo:
infatti, Tersite aveva sporto contro di lui una querela per oltraggio, per la maniera in cui lo aveva schernito nel suo
poema e Omero vinse la causa con il patrocinio, per la difesa, di Ulisse” (traduzione di Maurizia Matteuzzi).
Il passo, reso in maniera molto efficace dalla traduttrice, è un autentico capolavoro di ironia, ma è anche una
interessante critica alle ricerche condotte dai filologi sul testo di Omero, a partire, soprattutto, dall’età ellenistica. (…)
Il passo di Luciano, dunque, si inserisce in una precisa tipologia di invettiva, che aveva come scopo principale quello
di biasimare l’eccessiva pedanteria (Luciano usa il termine ψυχρολογία) dei grammatici, la perdita del legame con la
realtà da parte degli studiosi e l’inutilità di questi studi. Del resto, la satira contro i grammatici e contro i filologi non è
un fenomeno letterario molto diverso dalle invettive – ben documentate, all’interno della produzione di Luciano stesso
– contro i filosofi. Luciano, dunque, attraverso la sua inimitabile aristofanesca ironia, cerca di mettere in rilievo le
aporie concernenti la biografia omerica (problema che cominciò a essere trattato già in età arcaica), ma, soprattutto,
l’assurdità delle ricerche condotte dalla filologia (la nostra “critica testuale”) sul testo dei poemi. Benché, ovviamente,
vi siano delle esagerazioni, in ciò che Luciano afferma (il riferimento è al problema dell’autenticità di tutti i versi
omerici), l’elemento sostanziale che viene messo in luce, in questo passo, è la pretesa di trattare e di spiegare la
poesia unicamente come un fenomeno razionale soggetto a precise e infallibili regole. Quando Luciano, per esempio,
fa dire al suo Omero che l’Iliade comincia con la parola “ira” per una pura casualità, è implicita la critica nei confronti
di tutta una serie di studi grammaticali e filologici dedicati all’analisi, quasi maniacale, di ogni parola o espressione
omerica. Va ricordato, a proposito del primo verso dell’Iliade, che Protagora sembra aver addirittura contestato a
Omero (Aristotele, Poetica, 1456b 15) l’uso dell’imperativo, dal momento che l’imperativo era un modo inadeguato,
nel contesto di una preghiera (avrebbe, in sostanza, dovuto usare l'ottativo!). Nella sostanza, sono due le
problematiche filologiche trattate da Luciano, in questo passo: l’edizione critica dei filologi alessandrini e i rapporti fra
Iliade e Odissea. In merito al primo aspetto, si ricordi che i filologi alessandrini, a cominciare da Zenodoto, cercarono,
attraverso vari criteri filologici ed esegetici, di determinare il testo originale di Omero che, in seguito a secoli di
trasmissione orale, si era inevitabilmente corrotto (ciò era evidente soprattutto nella tendenza ad allungare il testo).
Nel far questo, però, non operarono una cancellatura dei versi ritenuti inautentici (spuri), ma si limitarono a
contrassegnare tali versi con dei segni a margine che indicavano l’espunzione degli stessi. Quanto al secondo aspetto,
va detto che gli antichi discussero molto, in merito ai rapporti fra Iliade e Odissea. Le posizioni principali in merito a
questo problema erano fondamentalmente due: vi era chi sosteneva (Xenone ed Ellanico, noti come χωρίζοντες =
separatisti) che l’Iliade e l’Odissea non vennero composte dallo stesso poeta, dato che erano troppo diverse per stile e
per ispirazione, mentre Aristotele e i filologi Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia ritenevano che questi
poemi erano stati composti dallo stesso poeta. Si ricordi, inoltre, la tesi sostenuta dal Sublime, trattato di controverse
datazione e attribuzione, secondo il quale l’Iliade fu composta da Omero in gioventù, mentre l’Odissea durante la
vecchiaia.
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Per concludere, ciò che Luciano esprime in questa deliziosa scenetta della Storia Vera può essere accostato, a livello
concettuale, a un passo di Seneca, tratto dal De brevitate vitae (XIII) che, pur essendo molto distante dallo spirito
sarcastico e pungente di Luciano, può essere considerato la versione seria e filosofica dello scrittore di Samosata:
Persequi singulos longum est quorum aut latrunculi aut pila aut excoquendi in sole corporis cura consumpsere vitam.
“Non sunt otiosi quorum voluptates multum negotii habent. Nam de illis nemo dubitabit quin operose nihil
agant, qui litterarum inutilium studiis detinentur, quae iam apud Romanos quoque magna manus est.
Graecorum iste morbus fuit quaerere quem numerum Ulixes remigum habuisset, prior scripta esset Ilias
an Odyssia, praeterea an eiusdem esset auctoris, alia deinceps huius notae, quae sive contineas nihil
tacitam conscientiam iuvant, sive proferas non doctior videaris sed molestior”.
“Sarebbe lungo passare in rassegna coloro che hanno consumato la vita nel gioco degli scacchi, o in quello della palla,
o nella pratica di cuocersi il corpo al sole. Non sono inoccupati coloro i cui piaceri implicano molte preoccupazioni. E
certo nessuno dubiterà che si diano un gran da fare quanti sono impegnati in studi letterari inutili. Di costoro, anche
tra i Romani, c’è oggigiorno un folto manipolo. Fu già una malattia dei Greci il ricercare quale numero di rematori
avesse Ulisse, se sia stata scritta prima l’Iliade o l’Odissea e altresì se i due poemi siano del medesimo autore, e via
via tante altre notizie di tale stampo, notizie che, se tu le tieni dentro di te, non giovano affatto all’intima scienza del
tuo spirito, e se le metti fuori, non sembrerai perciò più dotto, bensì più molesto” (traduzione di Raffaello Del Re).