Leopardi: la lingua, la nazione di Alfredo Luzi

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Leopardi: la lingua, la nazione di Alfredo Luzi
Leopardi: la lingua, la nazione
di Alfredo Luzi *
Rileggendo lo Zibaldone ed altri scritti leopardiani ci si imbatte in
una ricchezza di riflessioni di carattere sociolinguistico, sulle quali
oggi forse ancora pesa il giudizio di Salvatore Battaglia sulla eterogeneità e sulla contraddittorietà delle posizioni critiche del poeta di
Recanati1.
A trovare un filo d’Arianna che unisca la problematica linguistica
a quella politico-sociale dell’unità d’Italia, in un coacervo di definizioni e interpretazioni, mi ha aiutato molto un volumetto prezioso,
curato non da un linguista ma da un altro scrittore, Vitaliano Brancati, dal titolo Società, lingua, e letteratura d’Italia, pubblicato durante
il fascismo e in piena guerra da Bompiani nel 1941 e impostato su
nuclei tematici tratti dai vari testi.
Leopardi era consapevole dello stretto rapporto che lega la lingua alla cultura e alla nazione. Basta leggere quanto egli scrive in
Zibaldone, 2591:
La storia di ciascuna lingua è la storia di quelli che la parlarono o la
parlano, e la storia delle lingue è la storia della mente umana.2
Ma nel momento in cui egli sposta il problema teorico della lingua a quello dei parlanti e alla storia delle idee veicolate appunto
tramite la lingua s’imbatte nella dicotomia categoriale insita nella
*
Alfredo Luzi è professore di Letteratura italiana nell’Università di Macerata.
Cfr. Salvatore Battaglia, in Leopardi e il Settecento. Atti del I Convegno internazionale
di studi leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1962), Olschki, Firenze 1964, pp. 11-47.
2
Giacomo Leopardi, Zibaldone, Newton Compton, Roma 1997, p. 521.
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prospettiva sociolinguistica di ogni idioma: da una parte il punto di
vista che privilegia l’uniformità e l’omogeneità e dall’altra quello
che sottolinea la varietà e la molteplicità. Il prevalere di una delle
caratteristiche sull’altra è strettamente connesso al tipo di organizzazione sociale di cui la lingua è uno strumento comunicazionale.
Per illustrare la connessione tra lingua e società all’interno del
rapporto uniformità/varietà Leopardi fa riferimento alla storia romana e al latino (Zibaldone, 2058):
La poca libertà e la somma determinazione e precisazione del carattere e
della forma della lingua latina che può parere strana 1. In una lingua
antica, 2. in una lingua parlata e scritta da tanta moltitudine e diversità
di gente e di nazioni, 3. In una lingua d’un popolo liberissimo, e formata
e ridotta a letteratura, nel tempo che la sua libertà era anzi sì eccessiva da
degenerare in anarchia, oltre le cagioni dette altrove, ebbe certo fra le
principali la seguente.
La lingua latina, riconosciuta per buona, legittima e propria della letteratura, non fu mai, sinch’ella si mantenne nella sua primitiva forma, e
quando ella fu applicata alla letteratura, altro che la romana, cioè quella
di una sola città. Or quando l’arbitra della lingua è una sola città, per vasta, popolosa, e abitata o frequentata ch’ella sia da diversissime qualità di
popolo, e di nazioni, la lingua prende sempre una indole determinata,
circoscritta a limiti più o meno estesi, ma che sempre son limiti certi e riconosciuti; la lingua si uniforma, si equilibra, per tutti i versi, e perde necessariamente quel carattere di notabile e decisa libertà ch’è propria
delle lingue antiche formate o no.3
E in Zibaldone, 2059 egli definisce la società romana come
infinita e vivissima e strettissima società che doveva necessariamente
esercitare, ed esercitava un’estrema e decisissima influenza sulla lingua, e
sulla letteratura. Ora dovunque la società e la lingua parlata esercita una
forte e irresistibile influenza sulla lingua scritta, e sulla letteratura, (come
accade in Francia) quivi l’una e l’altra indispensabilmente acquistano un
carattere di stretta uniformità, e quindi di coartazione, di necessità, di
poca libertà, un carattere intollerante di novità individuali, e di decisa
originalità.4
3
4
Ivi, pp. 433-434.
Ivi, p. 434.
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Discorso diverso per la lingua greca in cui è prevalsa la variabilità
proprio perché la Grecia «non aveva una capitale» e non aveva «molto stretto uso di società, se non in Atene» (Zibaldone, 2090-2061)5.
Attraverso i riferimenti al mondo classico il poeta evidenzia il
condizionamento sociologico subito dalla lingua in base alla situazione politico-economica della capitale di un paese e del suo rapporto con il territorio. Nella dinamica uniformità/varietà si svolge la
viscosità della lingua che da una parte tende costantemente a variare e dall’altra, soprattutto in connessione con certe condizioni sociali, assume una certa omogeneità, una forma stabile.
Proprio nel confronto con il latino ed il greco Leopardi sottopone a serrata analisi le condizioni della lingua italiana nei primi anni
dell’Ottocento, il cui primato non è di carattere socio-economico ma
culturale e letterario (Zibaldone, 2122- 2123):
L’Italia non ha capitale. Quindi il centro della lingua italiana si considera
Firenze, come già si considerò la Sicilia. […] Quando il centro della lingua non è la capitale, il che non può essere se non quando capitale non
v’è, esso non può né pretendere né esercitare di fatto una più che tanta
influenza […] Tale influenza non derivando dall’essere di capitale, né
dall’influenza politica, non può derivare se non da quella influenza sociale che è data da una maggioranza di coltura e letteratura, e che si
esercita mediante queste.6
In Italia dunque l’assenza di unità della nazione ha affidato un
ruolo fondamentale nella omogeneità normativa linguistica al primato artistico e letterario svolto tra il quattordicesimo e il sedicesimo secolo da Firenze e dalla Toscana.
Ma questa omogeneità, secondo Leopardi, sarebbe «cosa ridicola
che in un paese privo affatto di unità, e dove nessuna città, nessuna
provincia sovrasta all’altra, si voglia introdurre questa tirannia nella
lingua» (Zibaldone, 2064)7.
A differenza della doxa corrente il giudizio che egli dà sulla letteratura a Firenze non è affatto elogiativo. Anzi ne contesta radicalmente il primato:
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Ivi, passim, p. 434.
Ivi, p. 443.
7
Ivi, p. 434.
6
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Firenze in letteratura sottostà a tutte le altre metropoli e città colte d’Italia, eccetto forse Roma, e la Toscana se non a tutte le provincie italiane,
certo cede al Piemonte, Lombardia, Veneziano, e non supera punto né le
Marche, né il Napoletano (Zibaldone, 2124).8
E ancora:
La letteratura è in meschinissimo stato in Toscana, e indipendentemente
dalla lingua, lo stile, il gusto, le metafore, ogni qualità generale e particolare dello stile è così barbaro negli stessi Accademici della Crusca che
fa meraviglia (Zibaldone, 2124).9
In comune con Manzoni Leopardi lamenta la mancanza di una
unità nazionale e di una capitale che possa aver favorito la standardizzazione della lingua, ma a differenza dello scrittore lombardo non
accetta come soluzione linguistica unificante quella di «risciacquar i
panni in Arno», scelta adottata da Manzoni a partire dal 1827.
In qualche modo Leopardi anticipa il concetto di «sistema», che è
alla base del Cours de linguistique générale di De Saussure, quando
affronta la dinamica che ogni poeta dovrebbe tener presente tra
adozione di una lingua «comune e nazionale» e riutilizzo di forme
antiche che favoriscono nel lettore l’accesso alla evocazione del passato e la proiezione nell’immaginario.
La sollecitazione ad affrontare i problemi dello stile che oggi, sul
piano semiotico, sarebbero enucleati nella coppia oppositiva socioletto/idioletto, derivava anche dall’influenza della scuola classica romagnola fondata da Monti, i cui membri erano in rapporto epistolare col
poeta recanatese, e della idea che un laboratorio linguistico impostato
sui classici favorisse, per via di imitazione, l’accesso al sublime.
Per Leopardi il linguaggio poetico si differenzia da quello «prosaico» e «familiare» anche per la diversa «inflessione materiale» (Zibaldone, 3009):
Lo stile e il linguaggio poetico in una letteratura già formata, e che n’abbia uno, non si distingue solamente dal prosaico né si divide allontana
solamente dal volgo per l’uso di voci e frasi che sebbene intese, non sono
però adoperate nel discorso familiare né nella prosa.10
8
Ivi, p. 443.
Ivi, p. 444.
10
Ivi, p. 596.
9
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In Zibaldone 3016 è confermata la convinzione che la poesia è una
espressione linguistica privilegiata, attenta, attraverso il recupero
del passato, alla eleganza stilistica, trascurata invece nella lingua del
popolo:
Resta dunque per allontanar dall’uso volgare le voci e frasi comuni, l’infletterle e condizionarle in maniere inusitate al presente, ma dagli antichi
nazionali, parlatori, prosatori, o poeti usitate, e dalla nazione ancor conosciute, e conservate di mano in mano negli scritti di quelli che cercando l’eleganza procurarono di scostarsi mediocremente dal volgo.11
In questa prospettiva alcuni critici hanno ravvisato un forte tasso
di modernità e in particolare una sorta di anticipazione del principio di «straniamento» dei formalisti russi.
Nella dinamica tra tradizione e innovazione Leopardi sembra essere del tutto in favore della seconda e non esita a dichiarare (Zibaldone, 1098): «Odio gli arcaismi»12; ma poi aggiunge di amare quelli
così lontani da ogni senso di affettazione o di studio ad usarli, e insomma
così freschi, (e al tempo stesso bellissimi etc.) che il lettore il quale non sa
da che parte vengano, non si può accorgere che sieno antichi, ma deve
stimarli modernissimi e di zecca. Parole e modi, dove l’antichità si può
conoscere, ma per nessun conto sentire (Zibaldone, 1099).13
Egli distingue tra parole e termini, attribuendo alle prime una valenza, si direbbe oggi, connotativa, di cui sono privi i secondi, e riconoscendo nella letteratura un fertile terreno di elaborazione di
stili, in contrasto con l’esigenza definitoria della scienza (Zibaldone,
109-110):
Le parole, come osserva il Beccaria (trattato dello stile) non presentano
la sola idea dell’oggetto significato, ma quando più quando meno immagini accessorie. Ed è pregio sommo della lingua l’aver di queste parole.
Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perché determinano e definiscono la
11
Ivi, p. 597.
Ivi, p. 255.
13
Ibidem.
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cosa da tutte le parti. Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto
più è adattata alla letteratura e alla bellezza ecc. ecc.14
Un pensiero «sistematico» si individua anche nella riflessione
leopardiana sulla presenza e sulla frequenza dei dialetti in Italia,
entrambe dovute al fatto che l’Italia non ha avuto né nazione, né società, né capitale.
Sull’asse sincronico-spaziale proprio la mancanza di uno Stato
unitario e di una capitale ha favorito l’estensione e la varietà dei
dialetti italiani mentre sull’asse diacronico un ruolo fondamentale
nella differenziazione è stato svolto dal variare del costume sociale
nell’arco dei secoli in una civiltà antica come quella italiana. Leopardi si muove così tra principi metodologici assimilabili a quelli
della geografia linguistica, del primitivismo vichiano e alcune anticipazioni sociologiche rintracciabili in Taine e in Madame de Staël.
Leopardi mette a nudo in vari interventi la crisi che l’Italia stava
attraversando nei primi anni dell’Ottocento tra rivoluzione e reazione, democrazia e impero, scientismo e romanticismo, mentre la penisola, che dovrà attendere ancora mezzo secolo per diventare, almeno sul piano politico-istituzionale, nazione, è attraversata da
eserciti di varia nazionalità.
La lettera a Giuseppe Montani del 21 maggio 1819 è un documento prezioso del pensiero leopardiano sull’Italia di allora e permette di trovare delle corrispondenze con la situazione attuale, nel
momento in cui, a centocinquant’anni dall’unità d’Italia, è doveroso
adottare un sereno sguardo critico sul nostro passato:
Secondo me non è cosa che l’Italia possa sperare finattanto ch’ella non
abbia libri adattati al tempo, letti ed intesi dal comune de’ lettori, e che
corrano dall’un capo all’altro di lei […] E mi pare che l’esempio recentissimo delle altre nazioni ci mostri chiaro quanto possano in questo secolo
i libri veramente nazionali a destare gli spiriti addormentati di un popolo
e produrre grandi avvenimenti. Ma per corona de’ nostri mali, dal seicento in poi s’è levato un muro tra i letterati e il popolo, che sempre più
s’alza, ed è cosa sconosciuta appresso le altre nazioni.15
14
Ivi, p. 5.
Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, Newton Compton, Roma 1997,
p. 1182.
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Lo stretto rapporto che lega la lingua alla società, alla coscienza
collettiva degli individui che fanno parte di una nazione, alla cultura di un popolo, è sottolineato in un pensiero dello Zibaldone, 799,
la cui forza veritativa è confermata dalla sua icastica brevità:
Per rimettere davvero in piedi la lingua italiana bisognerebbe prima insomma rimettere in piedi l’Italia, e gl’italiani.16
E come non ricordare le riflessioni gramsciane sul conformismo
come comunità di sentire e sulla dinamica tra letteratura e vita nazionale ?
Nel 1935, nel Quaderno 29, Gramsci riprenderà la suggestione
leopardiana dello stretto rapporto tra lingua e società:
Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua,
significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione
e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti
più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale,
cioè di riorganizzare l’egemonia culturale.17
A conferma dell’attualità del pensiero leopardiano, sia sul piano
strettamente linguistico sia su quello delle connessioni della lingua e
della cultura con l’ethos socio-politico di una nazione, se si vuol
prendere a modello gnoseologico l’Angelus Novus di Benjamin, con
il viso rivolto al passato mentre la tempesta del progresso lo spinge
irresistibilmente nel futuro, è significativo il fatto che nel gennaio
2011 Franco Cordero abbia ripubblicato presso Bollati Boringhieri
il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani accostandolo,
per similitudine e differenza, ai Pensieri d’un Italiano d’oggi.
Credo che sia nostro dovere politico aderire al suo invito di un
«ritorno al Leopardi», trasformando il centocinquantenario dell’Unità
d’Italia in un contributo di conoscenza e coscienza:
Torniamo a Leopardi, nei cui Pensieri il mondo è società malavitosa; gl’interessati a mantenerla lanciano invettive, ridono o sogghignano, e i Tartufi compatiscono l’opinione pessimista: rabbia, riso, mistificazioni anti16
Giacomo Leopardi, Zibaldone, cit., p. 191.
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere (a cura di Valentino Gerratana), Einaudi,
Torino 2007, p. 2346.
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moniose stanno nel quadro. Dobbiamo decidere: vita attiva, conforme
alla prassi, o l’eremo? Né l’una né l’altro: che gli avvenimenti siano predeterminati, non esclude scelte operose; l’impegno calvinistico contribuisce alle trasformazioni economiche. […] Non costa niente fingere un futuro indeterminato, lavorando meglio che possiamo, anche se tutto risulta prestabilito nella causalità universale, inclusi Big Bang e collasso finale. Il disincanto stimola dinamismi volitivi: non foss’altro, è questione
estetica; abitiamo un mondo sordido; ritocchiamolo in meglio.18
18
Giacomo Leopardi / Franco Cordero, Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degl’Italiani seguito dai Pensieri d’un Italiano d’oggi, Bollati Boringhieri, Milano 2011,
pp. 235-236.
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