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Nato nel 1967 in un paesino della Charente, Philippe Besson si trasferisce nel 1989 a Parigi, dove inizia a insegnare Diritto alla Sorbonne.
Nel 2001 pubblica Un amico di Marcel Proust (Guanda, 2005), che
si aggiudica il Prix Emmanuel-Roblés dell’Académie Goncourt, e Son
frère, che vince il Prix Fémina e viene portato sullo schermo da Patrice
Chéreau. E le altre sere verrai, pubblicato nel 2003 (Guanda, 2004),
vince il Prix Rtl-Lire. Del 2003 è anche Un ragazzo italiano (Guanda,
2007). Nel 2004 esce I giorni fragili di Arthur Rimbaud (Guanda,
2006) e nel 2006 L’Enfant d’Octobre, che suscita una vasta polemica
per l’attualità dei suoi temi. Nel 2007 pubblica Come finisce un amore (Guanda, 2009).
Gare du Nord
La frenesia e la multiculturalità della parigina Gare du Nord raccontano il
carattere composito della collana di narrativa contemporanea di Edizioni
Clichy, dedicata alla scrittura di stampo letterario, principalmente
francofona ma non solo: storie, esseri umani, vite, colori, suoni, silenzi,
tematiche forti, autori dal linguaggio inconfondibile, senza timore di
assumere posizioni di rottura di fronte all’establishment culturale e sociale o
di raccontare abissi, sperdimenti, discese ardite ma anche voli e flâneries.
«Une bonne raison de se tuer»
de Philippe Besson
© 2012 Éditions Julliard - Paris
Per l’edizione italiana:
© 2013 Edizioni Clichy - Firenze
Edizioni Clichy
Via Pietrapiana, 32
50121 - Firenze
www.edizioniclichy.it
Isbn: 978-88-6799-008-5
Philippe Besson
Una buona ragione
per uccidersi
Traduzione di Barbara Puggelli
Edizioni Clichy
Non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 23 marzo 1938
Laura
Ci vuole pure un inizio. Qualcosa che apra la storia,
qualcosa come la prima immagine di un film. In quest’immagine vediamo una donna addormentata, in una camera, al mattino. Si intuisce il momento del giorno dalla
sua luce particolare, un biancore caldo, carico di sole, che
penetra attraverso gli avvolgibili, trionfando poco a poco
sull’oscurità. Ci avviciniamo al letto, il corpo steso della
donna è ricoperto da un lenzuolo fino alla base del seno,
la testa posata su un cuscino, leggermente di traverso.
Questa donna è Laura Parker.
Quella mattina fa fatica a strapparsi dal sonno. Sente
un velo volare davanti agli occhi, o meglio ha l’impressione che della polvere le si sia posata sulla cornea, provocandole una specie di irritazione. E poi ha il corpo pesante. è talmente difficile spostare un braccio, sollevare il
corpo. Non è sicura di essere capace di un tale sforzo. Sul
comodino mancano diverse compresse alla tavoletta dei
sonniferi e questo potrebbe bastare a spiegare l’apatia. La
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carta d’alluminio è strappata sopra le capsule ormai vuote. Da quante notti non si addormenta normalmente, in
maniera naturale? Da quanto tempo ha bisogno di quelle
compresse? Pensa che le sia successo questo: le pillole che
prendeva per non restare più incinta sono state sostituite
dai sonniferi. E alla fine è trascorso un periodo molto breve fra queste due necessità. Appena una manciata di anni.
Un dettaglio: si sveglia dal lato sinistro del letto, nel
punto preciso in cui si è addormentata la sera prima. Perché se il sonno è lento ad arrivare, una volta arrivato è profondo. Anche se tormentato, è profondo. Per questo dorme immobile, come fosse morta, la schiena perfettamente
diritta, le braccia allungate lungo il corpo, il busto rivolto
verso il soffitto dove girano con nonchalance le pale di un
ventilatore cromato. Una vecchia abitudine, a cui non ha
mai rinunciato. Il lato destro del letto, quindi, è rimasto
impeccabile. Le lenzuola non sono state sgualcite.
Poco a poco, si sgranchisce. Il sangue la irriga di nuovo. Esce a fatica dalla sua paralisi. Riporta gli avambracci
sulla pancia. Sente un lieve rigonfiamento sotto la stoffa
della camicia da notte, l’allargamento dei fianchi, le rotondità delle donne della sua età che hanno resistito a
lungo e alla fine hanno ceduto. Preme sulla carne, troppo
gonfia per i suoi gusti ma non ci sarà niente da fare, certo,
niente farà scomparire per incanto l’oltraggio del tempo.
Liscia la stoffa con il palmo della mano, scaccia una tristezza fugace.
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Ormai ha gli occhi spalancati. Osserva il vortice ripetitivo delle pale, sente il soffio regolare che assomiglia
a quello di una sega che passa e ripassa, e si chiede se
quell’accessorio abbia davvero un’utilità, se l’aria non sia
agitata inutilmente, se non si tratti di un’abitudine supplementare alla quale non ha saputo resistere. Nella sua
tenera infanzia, dalle parti di San Diego, c’erano dei ventilatori in tutte le stanze. Ma laggiù l’estate, il caldo, erano insopportabili. C’era un’afa, una cappa di piombo che
tagliava il fiato, stringeva il petto, faceva pulsare il sangue
nelle tempie e scendere il sudore lungo la spina dorsale.
Avvicinava le guance alle pale, porgeva le ascelle, andava
tutto bene pur di non soffocare. A Los Angeles fa meno
caldo. L’infanzia non è altro che un ricordo bollente.
E poi, è novembre, i primi giorni di novembre. Perfino
in California, il fresco finisce per insediarsi.
Laura Parker pensa che non ha mai perso tanto tempo
a letto, non ha mai conosciuto delle mattinate pigre. Non
erano per lei, probabilmente, quei momenti deliziosi e
sterili. Bisognava sempre alzarsi, assumere un volto in cui
non sarebbe apparsa nessuna traccia di fatica, occuparsi
della colazione dei bambini, disporre per bene le ciotole, i cereali, i succhi di arancia sulla tavola, affaccendarsi
affinché la casa prendesse vita, accogliere suo marito appena uscito dalla doccia che già si infilava una camicia,
un completo, mandando giù alla svelta un caffè, un toast,
prima di correre via, a volte senza nemmeno pensare a
darle un bacio. Lei era sempre la prima. Designata per
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queste cose, le cose materiali, materne, coniugali. Oggi
niente più bambini, niente più marito. Eppure, continua
ad alzarsi come se avesse ancora qualcosa da fare, un ruolo da recitare, un posto da occupare.
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È in piedi. Indossa una camicia da notte leggera di
tonalità beige, che finisce a mezza coscia, sta davanti alla
finestra della camera e, con un movimento brusco, alza
l’avvolgibile tirando la cordicella. Di colpo una luce intensa entra nella stanza, getta una pozza sulla moquette,
rimbalza sul lenzuolo e rivela tutto un altro luogo, da cui
la promiscuità e la tetraggine sono state cacciate, dove
all’improvviso regna un’estate imprevista. Laura impiega
qualche secondo ad adeguare lo sguardo, ad abituarsi a
tutta quella luminosità. Del resto barcolla un po’, come
quando si è sbilanciati da un’onda dell’oceano, un’onda
che avevamo immaginato inoffensiva e che risulta invece
più forte del previsto. È colpa dell’autunno. Passato Halloween, si crede che le belle giornate siano terminate. Ma
qualche volta resistono. Perdurano. Non vuole andarsene, il tepore. Lei pensa: sarà una bella giornata. Sente le
parole nella sua testa: sarà una bella giornata. Non le pronuncia, le parole. Non parla quando è sola. Non è ancora
arrivata a quel punto.
Sotto i piedi, la moquette comincia a riscaldarsi. Le
piace quella sensazione. Le è già successo di restare impalata così per interi minuti, a piedi nudi, con il tepore che
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si insinua fra le pieghe della lana. In quei casi chiude gli
occhi, piega la testa e si dondola impercettibilmente, ed
è un momento vellutato, tranquillo, come ne ha conosciuti, prima. Una volta, Vincent, suo figlio minore, l’ha
sorpresa mentre ballava così, senza quasi muoversi. Non
lo aveva sentito entrare. È trasalita quando lui l’ha interpellata. Si è sentita subito colpevole. Come se fosse stata
smascherata nella sua intimità. E lui, certo, non si era
reso conto di niente. Era solo di passaggio, una toccata e
fuga. Da allora sta in guardia. Stamattina, tuttavia, non
c’è alcuna possibilità che qualcuno la smascheri. È in una
solitudine perfetta.
Guarda dalla finestra. Conosce il fogliame immobile
degli alberi, il cielo nei suoi intervalli, il cielo nella sua
vastità se alza gli occhi, il grigio del marciapiede se li abbassa, il rosso del bordo per impedire la sosta alle macchine. Conosce le abitazioni di fronte, le cassette della posta.
È un paesaggio così familiare, anche se ha traslocato in
quell’appartamento solo due anni prima. Già due anni.
Vive in un piccolo palazzo a tre piani. Il suo bilocale
con bagno si trova all’ultimo piano, il che le dà un’impressione di altezza in quella città orizzontale in cui la maggior
parte delle persone abitano nei terratetto. Un’impressione
anche di povertà, perché gli altri, nella maggior parte dei
casi, sono proprietari. Un tempo anche lei ha abitato in
una casa, e nei quartieri alti per di più. Ma quell’epoca
è finita. Da due anni. Già due anni. È uscita dalla foto,
espulsa dal sogno americano.
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Apre la finestra e assapora la calma. Perché Los Angeles, contrariamente a quello che racconta la leggenda, è
una città estremamente calma. Certo, lungo i viali che
corrono dal deserto all’oceano, al ritmo di palme gigantesche, la macchina è sovrana, il rumore del traffico
produce un chiasso continuo, la furia automobilistica
assomiglia all’afflusso di sangue nelle arterie. Ma nelle
avenue perpendicolari, come quella in cui vive lei (assai
mal battezzate, del resto, perché somigliano più a delle
stradine), non passa nessuno, se non quelli che tornano
a casa propria, al calar del sole, o ripartono la mattina
per recarsi al lavoro: è la tranquillità a dominare. Si è in
disparte dall’urgenza. La civiltà non è che un brusio, un
soffio lontano.
Eppure lei è approdata in Sweetzer Avenue quasi per
caso. Conosceva male quella parte della città, West Hollywood per lei non era altro che un nome, o una marca, e
soprattutto, alla stregua di molti losangelini che si avventurano raramente più lontano del loro caseggiato, usciva
poco dal suo precedente quartiere. Un giorno, tuttavia,
ha dovuto lasciare la dimora signorile di Los Feliz Boulevard. Eppure Dio solo sa quanto amasse quell’edificio
bianco, dalle grandi vetrate, il cui ingresso era incorniciata da colonne. L’interno era vasto, la fila delle stanze
fluida e col passare degli anni era riuscita ad arredare l’insieme in maniera elegante, senza decorazioni pacchiane,
attenta ai particolari, all’armonia dei colori, alla qualità
dei tendaggi e della carta da parati, del mobilio. Tutti sostenevano che si trattasse di una casa incantevole, che sapeva di comfort ma che aveva saputo evitare l’arroganza.
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Certo, era a nord, non il posto più comodo, accessibile,
ma le era piaciuto stabilirsi non lontano da Griffith Park.
Perché andava matta per quell’oasi di verde, per quella
montagna che compiva il prodigio di sposare l’aridità del
Grande Ovest con la tranquillità della campagna inglese.
Tutto questo è ormai finito. Ha dovuto metterci una pietra sopra.
Laura inspira l’aria per qualche istante, si riempie i
polmoni. Ne ha bisogno, ancora, una boccata d’aria, ne
ha bisogno per sentirsi viva, per sentirsi parte di questo
mondo. Vuole respirare ancora, inghiottire delle boccate
dall’esterno, braccare una brezza leggera che si intrometta miracolosamente, e abbracciare il cielo, come faceva
sul molo di Newport Beach i giorni in cui pensava di
annegare e l’alito leggero del vento la salvava, all’ultimo
momento.
Ma stavolta Laura Parker non verrà salvata: ha deciso
che morirà quella sera stessa.
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