Stefano Reggio IL SANDALO DI FERRAGAMO Erano arrivate da tre
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Stefano Reggio IL SANDALO DI FERRAGAMO Erano arrivate da tre
Stefano Reggio IL SANDALO DI FERRAGAMO Erano arrivate da tre giorni e subito esposte in vetrina sopra l’elegante scatola rossa con l’etichetta Salvatore Ferragamo. Erano due paia di sandali con la tomaia in fili di nylon. Era stato Tonini stesso ad estrarle dagli imballaggi. Quelle scarpe facevano la differenza tra il nostro negozio e altri che esponevano ancora calzature con le zeppe di sughero o la tomaia in feltro. Più che scarpe, erano una speranza, una possibilità fino allora sconosciuta. Scarpe eleganti, da esibire e non da ereditare da parenti defunti. Tonini se ne stava davanti al suo negozio. E fumava le Nazionali, pareva scrutare e valutare i pochi forestieri che ciondolavano per le Mercerie. All’interno del negozio stavo in piedi, le mani dietro la schiena in attesa che accadesse qualcosa. Si era aperto da poco, altri sistemavano le merci, controllavano i conti, attendevano i grossisti, ma Tonini fumava le Nazionali. Era un quarantenne, adiposo congenito e di moderate convinzioni monarchiche. Non pareva che il destino di Re Umberto fosse tra i suoi pensieri. Eravamo il negozio di calzature più frequentato nel sestiere di San Marco. Gli affari procedevano bene. Ma Tonini era pensieroso. I ricchi americani gli passavano accanto, lui indifferente, li guardava come fossero colombi. Tommaso devo andare, starò via un’ora al massimo. Tonini aveva ripetuto la frase per la terza volta nell’ultima settimana. Gli uomini si fermavano davanti al sandalo di Ferragamo, sembravano immaginare il piede femminile più seducente e più adatto per la scarpa. Io li osservavo con quello sguardo di umile cortesia, essenziale per un commesso come me. Poi era arrivata lei. Gonna plissettata di cotone beige che era rimasta aderente alle gambe, capelli nericorvino mossi in onde piatte; la camicia bianca con il collo merlettato, diventava decisamente stretta sul busto. Non era alta. Mi aveva guardato molto prima dei vari modelli di scarpe. E nei suoi occhi c’era una qualcosa di furibondo che non avevo mai visto prima. Era con la madre. Con una mano a paletta le avevo circondato il tallone tiepido, con l’altra le avevo toccato prima il collo del piede, poi le avevo calzato una scarpa chiusa in scamosciato nero numero trentasei: un prodotto di pregio. Spero di rivederla signorina Rita, avevo detto, ma rivolto alla madre la signora Anna che conoscevo. La signora Anna, era la moglie del dottor Querini del quale sia io sia Tonini ci servivamo per risolvere i nostri rispettivi malanni: una forma di gotta curata con inutili sali iodati lui, scompensi cardiaci in corso di accertamento io. Abitavano nei pressi di Rialto in Fondamenta del Vin in una casa di proprietà con balcone e trifore. A questo ripenso, mentre Tonini rientra nelle sue mansioni con un sorriso compiaciuto sulle labbra. E alle undici del mattino, quando gli altri negozianti si contendevano i clienti, lui, il Tonini inizia finalmente a far di conto e mettere chiarezza sulle future ordinazioni. La sera mi abbandono sul letto e ascolto la radio: musica da ballo soprattutto ma anche opere, in questo momento trasmettono Salomè di Strauss. E penso. Rita appare e scompare tra le immagini che la mente crea. Mi sforzo di trovare il modo per eliminare articoli in magazzino e lei mi chiama, cerco l’allestimento più gradito per la nostra vetrina e lei mi chiama. Dentro il sandalo di Ferragamo non c’è più posto per il piede di Doris Durante ma per quello morbido di Rita. Al Lido c’è questo Pappagallo Dancing, mai stato… non ho tempo per divertirmi o forse non mi diverto a divertirmi, il negozio assorbe una quantità enorme del mio tempo. Ma domani ci andrò, ci vanno tutti la domenica pomeriggio per ascoltare la musica da ballo americana. Ci sarà Rita... Dal mare tira questa brezza allegra, un’aria che odora di alghe, di avventure estive. La prua della motonave punta sul Lido con un beccheggio appena percettibile, decisamente percettibile è l’oscillazione delle gonne sulle gambe delle ragazze. Famiglie con le borse riempite di pane e bottiglie, gruppi di amici in cerca di ragazze, individui solitari che passeranno il tempo a guardare il mare o a leggere un qualche libro. In ogni caso gente che non usufruirà di una cabina, ma nella migliore delle ipotesi, ha in tasca le dieci lire per lo spogliatoio. Come il sottoscritto. C’è questo di bello nel tragitto che porta alle spiagge, le aspettative di una giornata eccitante, ricca di sorprese, da non dimenticare. Il Pappagallo Dancing ha questa terrazza all’aperto dove un’orchestra di balera si arrabatta a suonare questo swing nostrano - Solo me ne vò per la città/passo tra la folla che non sa - il batterista ha solo la grancassa e i piatti su cui pestare e mi guarda, sembra dedicarmi la canzone di Nella Colombo. C’è molta gente e sono appena le nove di sera. Molti giovanotti si aggirano solitari tra la folla: capelli impiastricciati di brillantina, lo sguardo da animale predatore, alcuni con la sigaretta all’angolo della bocca come divi americani. Ma le ragazze stanno sedute su panche di legno chiuse in formazione di difesa, come la tartaruga delle centurie romane. L’orchestra adesso libera frettolosamente note di Rabagliati. Si vocifera di una big band che dovrebbe arrivare, dalla gloriosa portaerei Midway, ferma a qualche miglio dal Lido. Aspettano gli amanti della musica americana, le signorine aspettano i marinai, le entraineuses i graduati, tipacci della baia del Re aspettano le Lucky Strike da contrabbandare, io aspetto Rita. Dopo aver pattugliato in lungo e in largo per il Pappagallo Dancing, compresso, urtato, stretto da decine e decine di persone, decido di sedermi. Uno sgabello di legno in una posizione laterale è un buon punto di osservazione. Ordino un Fernet con ghiaccio per giustificare la mia posizione e osservo questa rassegna di individui eccitati che si muovono senza tregua e senza meta solo per far sapere che qui, ci sono anche loro. Questa musica agita la gente come la bora sull’acqua della laguna, il sole, il Fernet, lo swing formano un impasto denso che mi pesa in testa e nei muscoli. Mi concentro sui miei passi, vengo costantemente deviato e respinto da altri corpi. Approdo come un naufrago sul lato destro del palco quando l’orchestra rallenta improvvisamente nel ritmo languido di Moonlight serenade. Mi accendo questa sigaretta che tengo tra le dita. Non ricordo di averla chiesta a nessuno. E finalmente ho la piena consapevolezza della situazione. Sai di aver trascorso una domenica inseguendo un’idea vaga, di amore. Il lunedì mattina è un oceano da attraversare, ossa e muscoli indolenziti, la pelle continua a scottare e sullo specchio annerito del bagno, il viso ha il colore di un crostaceo bollito. Nella testa ristagna la stessa confusione della sera precedente. Le poche ore di sonno non hanno migliorato le condizioni del mio corpo, né quelle della mia mente. Arrivo davanti al negozio, alzo con uno schianto di ferraglia la saracinesca. E la luce resuscita merci, arredi, le casse contabili. Mentre chiudo la porta del ripostiglio, vedo Tonini entrare con una puntualità allarmante. Gli chiedo se tutto è a posto. Vieni con me… devo farti vedere… te la devo far vedere. Si accende una Nazionali, soffia sul fiammifero, le labbra tornano lentamente a disegnare un sorriso. Non è un sorriso di felicità. Il negozio signor Tonini… In culo al negozio Tommaso! Appendo un cartello con su scritto TORNIAMO SUBITO. Ma non sono sicuro di tornare subito. Mi metto al fianco di Tonini. Ha il passo lungo deciso, guarda davanti a sé, campo San Luca e campo Santo Stefano, il ponte dell’Accademia, affrontato come stambecchi tra le rupi. Tonini fuma e cammina, liberando ogni tanto brevi raffiche di tosse. In campo San Barnaba quasi si ferma vistosamente, esita un istante poi suona un campanello su una targhetta di ottone lucido. Non corrisponde nessun nome, nessun ufficio. Niente. Il portone ha un sussulto, si apre liberando lentamente l’immagine di una donna non giovane, ancora bella avvolta in un’intricata combinazione di veli trasparenti. Tonini?! In anticipo oggi, ma venga, venga. Saliamo una rampa di gradini di marmo con una guida rossa al centro, entriamo nell’anticamera di un appartamento. I miei dubbi sono finiti. Guardo intorno, sulle pareti, una serie di riquadri con divieti di servire bevande, cibi, suonare, cantare, aprire le persiane. La donna si è sistemata alla cassa sulla quale troneggia il tariffario: lire dieci semplice, mezz’ora lire venticinque, un’ora lire cinquanta. Accanto al tariffario un puttino ridente con una foglia di fico tra le gambe… Non deve essere nemmeno una casa di lusso, e non è nemmeno semplice distinguere tra le pensionande e le cameriere che a quest’ora si incrociano nel salone della maison. Aleggia questo odore pungente di creolina, di profumi persistenti. Una donna con mutandine di pizzo che separano fette di adipe su fianchi e ventre, si para davanti al viso del signor Tonini. Ha gambe tornite avvolte da calze di nylon che finiscono dentro un paio di sandali Ferragamo. Le unghie dei piedi sono smaltate di rosso e si intonano con il colore dei sandali. Il nome della donna è un soffio caldo sul collo: Genevieve. Non è difficile intuire che il signor Tonini è cotto della Genevieve, al cambio della quindicina, è qui per un ultimo saluto. Un bussare deciso alla porta interrompe le congetture sul mio ruolo in questa faccenda. RAGAZZE IL DOTTORE! Strepita la tenutaria, e nell’anticamera appare, come la brutta fine di un bel film, il dottor Querini. Non guarda il Tonini, il suo sguardo è tutto per me. Interminabile. Indagatore. Mentre lui andrà ad perlustrare intimità femminili, io e Tonini condivideremo l’illusione di un amore. L’amore è risultato di sequenze esatte, forse predestinate. Incontrare in un bordello il padre dell’amata non è segno del destino. A questo penso mentre scendo le scale, e ritorno al negozio.