Canidapresa 4-2009

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La lupa romana,
un simbolo per
l'alleanza
(
Pare proprio che
la lupa simbolo
della città di
Roma in realtà
fosse un cane. In
questo studio
un’ipotesi affascinante addirittura
sulla razza.
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R
ecentemente, sul semestrale di cultura Sardegna
Mediterranea, una rivista
di nicchia, è stato pubblicato un
mio articolo dal titolo “La Lupa
e l'alleanza tra le tribù”. Si tratta della riflessione sul simbolo
della città di Roma, argomento
che, anche questa volta, vorrei
condividere con i lettori.
Partiamo dal fatto che nei primi
mesi del 2007 numerosi articoli
apparsi su importanti quotidiani nazionali e regionali illustravano le verosimili origini sarde
della Lupa (“Il Sole 24 ore”, “La
Nuova Sardegna”, “L'Unione
Sarda”), divulgando inoltre i
risultati delle analisi eseguite
dal dottor Claudio Giardino,
archeologo e archeo-metallurgo del laboratorio di Oxford,
sul rame utilizzato per la sua
fusione (il bronzo è una lega di
rame e stagno).
Il rame utilizzato per comporre
la lega della preziosa statua,
simbolo della città eterna, proviene senza ombra di dubbio
dalla miniera di Calabona, in
Comune di Alghero.
Giovanni Colonna, archeologo
e docente di Etruscologia e
Archeologia Italica presso l'Università La Sapienza, scienziato di
fama mondiale, convinto come è
che il simbolo di Roma sia sardo
al cento per cento, ha riportato
la notizia su “L'Unione Sarda”
del 17 marzo 2007; secondo il
prof. Colonna, analizzata la
terra di fusione, la statua esposta nei musei capitolini è stata
fusa nel V secolo a.c. da artigiani sardi in una bottega della
bassa valle del Tevere o di Roma:
la sua ipotesi è sostenuta con
forza e agita gli accademici, insidiando certezze acquisite nel
mondo culturale italiano sulle
origini della Lupa, simbolo, da
millenni, della potenza romana.
In origine, la Lupa non allattava
Romolo e Remo, i due mitici
gemelli, aggiunti nel 1471 d.C.
per volere di Sisto IV, il Papa che
ne fece dono alla città di Roma
(essi risultano essere opera dell'artista Antonio Pollaiolo).
La Lupa - originariamente sistemata nel Lupercale, la grotta ai
piedi del Colle Palatino dove la
leggenda vuole che i gemelli
siano stati salvati e accuditi da
una lupa come fossero suoi cuccioli - uno dei pezzi più importanti dei Musei Capitolini, sino a
poco tempo fa veniva attribuita a
Vulca, lo scultore etrusco che l'avrebbe fusa nel VI secolo a.C. per
il Tempio di Giove Capitolino.
In passato, alla Lupa fu data origine medioevale e una sostenitrice di questa teoria è la storica
dell'arte Anna Maria Carruba
che si occupò del suo restauro
circa una decina di anni fa. In
merito a questa ipotesi, Colonna
ritiene che voler, a tutti i costi,
dare fattura medioevale alla
Lupa derivi dalla difficoltà di
inquadramento iconografico
delle sue particolarità nella produzione antica, etrusca in particolare, perché pur essendo gli
Etruschi fonditori e realizzatori
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La Lupa, originale di epoca repubblicana, esposta nei Musei Capitolini di Roma
(i gemelli sono stati aggiunti nel XIV secolo d.C., per volere di papa Sisto IV).
di manufatti in bronzo, i tratti dell'opera non
coinciderebbero con quelli della loro arte, soprattutto se riferiti alla giubba, il mantello dell'animale: esso è, infatti, di tipo leonino. Fusa tra il 500 e
il 475 a. C., la scultura presenta un mantello particolare, un tratto che si individua in opere prodotte in Sardegna, quali i due busti in terracotta del
Colle di Tuvixeddu in Cagliari e i due leoni feniciopunici di Tharros, Oristano. Le barbe dei busti di
Tuvixeddu e la giubba della Lupa sono molto simili nella fattura.
Lo studioso di arte antica del ‘900 Otto Brendel
(
L’archeologo Giovanni
Colonna propende per
l’origine sarda della lupa
capitolina, trascurando
l’ipotesi etrusca
distingueva dei collegamenti tra la Lupa e l'arte
greco-persiana del VI sec. a.C. (ai tempi di Serse e
Dario), elementi che il prof. Colonna individua
nelle opere sarde. Deve inoltre ragionarsi sul fatto
che nell'isola, già da prima del V sec. a.C., da parte
di artisti e artigiani locali, si fondeva il bronzo con
una avanzata e raffinata tecnica, conosciuta come
della cera persa che consisteva nel fare una scultura in cera e quindi, una volta che questa si era rappresa, realizzare lo stampo di argilla sul quale, una
volta asciugato, veniva versato, grazie a un'apertura, il metallo fuso.
La miniera di Calabona, già utilizzata dai Sardi
nuragici, era conosciuta anche da Fenici e
Cartaginesi e, successivamente, dai Romani e gli
scultori Sardi, precedenti e più esperti degli
Etruschi, avevano forgiato la statua del Sardus
Pater - Sardo (Pausania), l'eroe eponimo della
Sardegna, giunto nell'Isola a capo dei Libi, probabilmente nel Neolitico Antico (VI - V millennio
a.C.), consacrato e venerato proprio dai Romani
come pater, ovvero padre - offerta al santuario di
Delfi dove fu probabilmente portata dalla marineria sarda.
Giovanni Colonna propende per l'origine sarda
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Arciere saettante in
piedi sul dorso del
cavallo, bronzetto
nuragico del Sulcis,
unica rappresentazione
preistorica del cavallo
rinvenuta in Sardegna
(rielaborazione, da G.
Lilliu, “Sculture della
Sardegna Nuragica”, la
Zattera, Verona, 1966).
della lupa capitolina e trascura l'ipotesi etrusca
perché, a suo giudizio, una volta che i Romani si
liberarono del re Tarquinio il Superbo e degli altri
lucumoni etruschi, diedero una svolta politica e
culturale in età repubblicana.
Ma, come abbiamo già avuto modo di dialogare in
passato dalle pagine di questa rivista, vorrei proporvi una possibilità preistorica, non proprio inverosimile, condivisa da archeologi, accademici e studiosi del mondo antico: la civiltà romana potrebbe
essersi evoluta da basi dinastiche Sardo-Etrusche.
Nel passaggio dal Bronzo al Ferro, intorno al X sec.
a.C. (1.150 - 850 a.C., Ugas G.), l'insofferenza delle
tribù nuragiche - Sulkitani, Iolei, Galillensi, Iliensi,
Balài, Nurritani, Corsi di Gallura etc. - nei confronti dei Re Cantonali (Lilliu) della Sardegna (o della
federazione dei clan riuniti sotto un'unica guida
politica-militare-religiosa) diede presumibilmente
origine a moti sovversivi - dai quali nacque il
periodo aristocratico sardo (in questo contesto
preistorico nacquero le grandi capanne circolari,
dove si riuniva il consiglio degli anziani del villaggio, archetipo di quello che fu il senato romano) culminati con la cacciata dei governanti, la casta
degli appartenenti alle dinastie Eraclidi-Tespiadi,
secondo la tradizione discendenti dai cinquanta
figli che Ercole ebbe dalle giovani figlie del Re di
Tespio, quaranta dei quali furono inviati da Ercole
in Sardegna assieme a suo cugino Iolao per colonizzarla (Pausania, Diodoro Siculo, fine III - inizi II
millennio a.C.).
Gli Eraclidi-Tespiadi (più brevemente, Tespiadi: gli
Shardana o Sherden o Sardiani, costruttori di torri,
i nuraghi, i probabili capicordata dell'alleanza alla
quale appartenevano i Popoli del Mare?) restarono a capo della Sardegna per molte generazioni
per rifugiarsi, in piena decadenza, in Italia.
I Tespiadi avevano governato la Sardegna attraverso numerose generazioni di re che nel mare
avevano speso le proprie esistenze (nel misterioso
sito archeologico di Montessu, in Comune di
Villaperuccio, a qualche chilometro di distanza da
Santadi, Sulcis, si trovano le tombe dei Principi
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Marinai Sulkitani, appartenenti ad un periodo
ancora più antico, inquadrabile tra il V ed il IV millennio a.C.).
Gli ultimi loro discendenti, signori dei nurakes, le
migliaia di castelli turriti presenti nell'Isola, durante gli eventi appena narrati, al fine di porre fine
alle sanguinose battaglie che vedevano contrapposti clan familiari ed etnie un tempo alleate, probabilmente concordarono rese, salvacondotti ed
esilio. Imbarcati sulle navi nuragiche, gli ultimi
Tespiadi furono esiliati nei dintorni di Cuma nel
momento in cui gli àristoi indigeni, componenti
del collegio degli anziani delle comunità del I
Ferro, imposero una diversa organizzazione politico-sociale (G. Ugas, L'alba dei nuraghi, 2005,
Edizioni Fabula srl, Cagliari).
A un primo esodo repentino dei principi sardi e
delle loro corti, fedeli guerrieri compresi, e dei
loro animali - inclusi i cani da pastore e custodia e
il tremendo Tzacaru (Jagaru o Txakaru), il cane
d'attacco, assieme ai piccoli e nevriti cavalli autoctoni ancora presenti in Sardegna, in seguito battezzati musmon proprio dai Romani - seguirono
altri allontanamenti, anche volontari, dei loro
discendenti e dei nuovi clan nei quali questi si
erano riuniti o integrati; essi, probabilmente, raggiunsero Cuma e tutta la vasta area continentale
che successivamente venne chiamata Etruria.
I principi sardi, forti della millenaria esperienza di
governo e presidio del territorio (le fortezze nuragiche, circa ventimila, controllano tuttora coste e
vie di comunicazione), di un esercito di guerrieri
bene addestrati, non stettero con le mani in mano:
essi potevano fare affidamento sui frombolieri
balài e disponevano di fanteria armata di giavellotto i cui guerrieri impugnavano micidiali e lunghe
spade ed altre, corte, portate sugli scudi come
riserva, e di archi potenti, quanto di una cavalleria
composta da arcieri in grado di galoppare anche in
piedi sul dorso del cavallo (Arciere saettante del
Sulcis) e che, similmente ai successivi combattenti
Parti e Traci, scagliavano micidiali frecce contro il
nemico, ma anche su mute canine da guerra.
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I cani, abilmente addestrati all'attacco, giacciono
nelle tombe accanto al loro capo-branco, il guerriero ucciso in battaglia.
E, intorno all'VIII secolo a.C., sorse la civiltà etrusca, durata ufficialmente sino al I secolo a.C.; gli
Etruschi occupavano in origine il territorio compreso tra il Mar Tirreno, l'Arno e il Tevere ed erano
divisi in numerose città rette ciascuna da un lucumone, magistrato supremo detentore del potere
politico, militare e religioso. Le dodici più importanti città etrusche erano riunite in una dodecapoli; essi si espansero, a partire dal VII secolo, sino al
Lago Maggiore a nord e, al Golfo di Salerno, a sud.
Fonti antiche (Festo) parlano di Re Sardi dei Tirreni
a Veio, una delle città della lega etrusca.
Non possiamo dimenticare Michel Gras. Egli scrisse
sui traffici tirreni antichi (1978) e sui rapporti tra
l'Etruria villanoviana e la Sardegna (1985); in particolare, và ricordato che in tombe etrusche del VII
sec. a.C. furono rinvenuti reperti nuragici - navicelle, altri bronzetti e oggetti vari - del IX o inizio VIII
secolo a.C.: veri e propri falsi
contesti.
Questi oggetti, per Gras, giunti dalla Sardegna molti secoli
prima, avrebbero seguito
donne e uomini etruschi nelle
loro tombe, ben due-trecento
anni dopo, in quanto si tratterebbe di gioie care e
sacre di famiglia, un vero e proprio tesoretto conservato e riutilizzato nelle tombe e nei santuari
etruschi con evidente valore religioso.
Prima di ultimare vorrei aprire un breve accenno
sulla fondazione di Roma. Essa precipita nella leggenda e la sua data, il 21 aprile del 754 prima di
Cristo, non è reale ma fu proposta da Marrone,
contemporaneo di Virgilio, che partendo dal 509,
data certa di inizio della Repubblica, aggiunse
sette generazioni, di 35 anni ciascuna, corrispondenti ai sette re della tradizione orale.
E' opinione preminente che il nome di Roma derivi dalla dinastia etrusca dei Ruma che diede anche
il nome di Rumon al fiume Tevere. Alba Longa era
invece il più importante centro dei Colli Albani ed
ebbe un ruolo importante quale prima capitale
fondata (secondo la mitologia, da Iulo-Ascanio
figlio di Enea, principe troiano in fuga dalla sua
città in fiamme, e di Lavinia, la figlia di Latinio, re
Su cani-lioni, bellissimo
esemplare
di Mastino di Fonni con la
caratteristica
criniera*
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del luogo) alla foce del Tevere, nel luogo dove
Enea trovò consolazione una volta sbarcato.
Regnarono quindi dodici sovrani l'ultimo dei
quali, Amulio, prese il trono al fratello maggiore
Numitone e costrinse sua figlia Rea Silva a farsi
vestale per impedirle di sposarsi e di avere figli;
ma, sempre secondo la mitologia, essa, amata dal
Dio Marte, mise alla luce due gemelli, abbandonati alle acque impetuose del Tevere per ordine di
Amulio. La cesta che conteneva i bambini si arenò
sotto un albero di fico e i due piccoli, Romolo e
Remo, furono curati da una lupa. Cresciuti forti,
una volta conosciuto il proprio passato, essi uccisero Amulio e misero sul trono loro nonno Numitone, re legittimo; fondarono quindi la nuova
città, Roma, ai piedi del Monte Palatino, nei pressi del luogo dove erano stato salvati dalla lupa. La
tradizione ha tramandato il nome di sette re di
Roma, lucumoni che regnarono durante il periodo
compreso tra il 754 e il 509 a.C..
La data di fondazione di Roma, come peraltro
La “lupa”, originale di epoca repubblicana, esposta nei Musei Capitolini
(foto R. Balìa).
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auspicano alcuni studiosi, potrebbe essere spostata al VI - V secolo a.C. e, se ulteriori indagini confermassero la datazione della Lupa Capitolina,
quest'opera potrebbe rappresentare il simbolo
appositamente forgiato per suggellare l'alleanza
tra le antiche etnie di pastori che comparteciparono alla fondazione della caput mundi; e tra quelle
genti non dobbiamo trascurare i Tespiadi in quanto, molto verosimilmente, ebbero un ruolo fondamentale, grazie alla loro pregressa esperienza
politico-militare-religiosa e di governo nella nascita della potente civiltà romana, così come i successivi aristocratici sardi e i repubblicani che, stretti
da vincoli di parentela, li raggiunsero nel continente in periodi successivi alla loro cacciata.
Un apporto non solo culturale, quindi, che ancora
resiste con la continua migrazione di intere generazioni di famiglie di pastori dalla Sardegna alle
fertili terre di Toscana e Lazio, Umbria e Abruzzo
nelle quali realizzano grandi allevamenti ovini e
caprini, vere e proprie aziende modello; non è difficile, vagando lungo le strade provinciali e le campagne di quelle regioni, incappare in nugoli di cani
ringhianti e dallo sguardo particolare che spuntano all'improvviso dai cespugli. Animali troppo simili a quelli delle contrade sarde: Cani di Fonni,
soprattutto, vigili sui monti… come recita una nota
poesia di un intellettuale sardo, Sebastiano Satta,
vissuto agli inizi del secolo scorso.
La “lupa”, originale di epoca repubblicana, esposta nei Musei Capitolini,
particolare del taglio dei padiglioni auricolari (foto R. Balìa).
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Mustafà, Trighinu di Gavoi, altezza cm.75 e kg 50 di peso (proprietario
e foto: R. Balìa)
Su Jagaru (o Tzakaru o Ghijacaru, il Giagaro della Carta de Logu del
Regno di Arborea), cane d'attacco dei sardi nuragici; il molosso primitivo (Cani pertiatzu). Un cane tigrato simile, anch'esso antico, si trova nei
Paesi Baschi (più leggero e piccolo, viene chiamato Tzakur o Txakur o
Villano de Las Encartaciones) e nell'area caucasica (in Georgia, molosso
anche pesante, il suo nome è Dzagli, cane). Nella vicina Corsica invece,
il Cursinu è un cane tigrato di recente assurto a razza, con vari fenotipi, dal mantello tigrato e comunque di taglia media (di molosso ha ben
poco); esso viene utilizzato nella caccia al cinghiale e somiglia ai “pertiatzus” imbastarditi che vagabondano per le campagne sarde.
Tornando ora alla Lupa Capitolina mi chiedo da
tempo (avevo nove anni quando la vidi per la
prima volta e mi sorse il dubbio!) se effettivamente sia il ritratto di una lupa e non invece quello di
una cagna alla quale, come da tradizione pastorale, furono parzialmente tagliati i padiglioni auricolari: lo studio della statua originale, che ho
potuto analizzare nei minimi particolari, mi porta
verso questa conclusione. Dal punto di vista strettamente tecnico, inoltre, dobbiamo ammettere
che l'amputazione della parte esterna del lobo
auricolare risulta evidente anche a un profano:
contrariamente al lato interno delle orecchie,
infatti, il metallo del lato esterno non ha i bordi
integri, “lavorati” arrotondati o smussati, ma presenta invece un rustico “taglio netto e sfrangiato”, a testimonianza della volontà di rappresentarlo tale e quale.
Non di lupa, quindi, si tratta…
Moro, Mastino di Fonni “raspinu” di dieci anni, fenotipo lupo-mastinoide dotato di abbondante criniera
(propr. e foto R. Balìa).
Può trattarsi, infatti, di un cane guardiano, da
custodia e attacco, indispensabile per quelle
comunità arcaiche, piuttosto che di un lupo; e
questo concetto si rafforza se penso agli altri particolari della statua: sguardo frontale, taglio
tondo e non a mandorla e obliquo degli occhi e
via di seguito, soprattutto se raffrontati alle raffigurazioni di lupoidi con evidenti orecchie ritte
alquanto dissimili da quelle della “lupa” presenti
nei musei capitolini.
Il vello leonino è una caratteristica attuale di alcune tipologie di Mastino di Fonni e di Trighinu di
Gavoi e Leone è il nome che si suole dare al proprio animale; alla stessa criniera viene inoltre associata notevole aggressività tanto che il Fonnese
viene anche chiamato su cani-lioni, il cane-leone.
Roberto Balìa
Working Bulldog Research Center
*(dal sito internet http://www.flickr.com/photos/aska360/2523988765/in/pool-684254@N20)
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