Agatha Raisin era in procinto di vendere casa e lasciare per sempre

Transcript

Agatha Raisin era in procinto di vendere casa e lasciare per sempre
1
Estratto da
Agatha Raisin e le fate di Fryfam
Titolo originale dell’opera
Agatha Raisin and the Fairies of Fryfam
Traduzione dall’inglese
di Marina Morpurgo
© 2000 by M.C. Beaton
© 2014 astoria srl
corso C. Colombo 11 – 20144 Milano
Prima edizione: settembre 2014
ISBN 978-88-96919-87-3
In copertina: illustrazione di Alice Tait
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Agatha Raisin era in procinto di vendere casa e lasciare
per sempre Carsely.
O meglio, il piano originario era quello.
Aveva già preso in affitto un cottage nel villaggio di Fryfam, nel Norfolk. Lo aveva preso alla cieca. Non conosceva
né il villaggio né alcun altro luogo del Norfolk. Un’indovina le aveva detto che proprio lì, nel Norfolk, stava il suo
destino. Il vicino di casa di Agatha, l’amore della sua vita,
James Lacey, era partito senza nemmeno salutarla e così lei
aveva deciso di trasferirsi nel Norfolk e il villaggio di Fryfam
l’aveva scelto infilzando la carta geografica con uno spillo.
Una telefonata alla locale centrale di polizia l’aveva messa
in contatto con un agente immobiliare del posto, il cottage
era stato preso in affitto e adesso ad Agatha non restava che
vendere il suo e partire.
Ma c’era un problema, ovvero le persone che venivano
a vedere la casa di Lilac Lane. O erano troppo attraenti,
e Agatha non aveva alcuna intenzione di fornire a James
Lacey una vicina di casa attraente, o erano acide e immusonite, e in tal caso Agatha non se la sentiva di infliggerle
al villaggio.
1
Il trasloco nel cottage del Norfolk era stato fissato per i
primi di ottobre e si stava avvicinando la fine di settembre.
Foglie autunnali dai colori vivaci turbinavano per i viottoli
dei Cotswolds. Era un’estate indiana fatta di pigre e dolci
giornate di sole e di notti nebbiose. Carsely non era mai
apparsa così bella. Ma Agatha era determinata a liberarsi
dalla sua ossessione nei confronti di James Lacey. Fryfam
probabilmente era altrettanto bella.
Agatha stava cercando di resuscitare la volontà infiacchita quando sentì suonare alla porta. Andò ad aprire. Si
trovò davanti due persone basse e tonde. “Buongiorno,”
disse vivacemente la donna. “Siamo il signore e la signora
Baxter-Semper. Siamo venuti a vedere la casa.”
“Avreste dovuto prendere appuntamento con l’agenzia
immobiliare,” brontolò Agatha.
“Oh, ma qui fuori abbiamo visto il cartello in vendita.”
“Entrate,” sospirò Agatha. “Date un’occhiata in giro. Se
avete domande mi trovate in cucina.”
Si chinò su una tazza di caffè nero al tavolo di cucina, e si
accese una sigaretta. Attraverso la finestra vedeva i suoi gatti, Hodge e Boswell, giocare in giardino. Bello essere gatti,
pensò amaramente Agatha. Niente amore senza speranze,
niente responsabilità, niente conti da pagare, niente altro
da fare se non aspettare di essere nutriti, e ruzzolare al sole.
Sentiva la coppia muoversi in giro per le stanze. Poi udì
il rumore di cassetti aperti e richiusi.
Andò ai piedi delle scale e gridò verso l’alto: “Vi ho dato
il permesso di visitare la casa, non di frugare tra le mie mutande”. Ci fu un silenzio scioccato. Poi il signore e la signora Baxter-Semper tornarono al piano di sotto. “Abbiamo
pensato che magari lei potrebbe lasciarci i mobili,” disse la
donna, sulla difensiva.
2
“No, ho intenzione di metterli in un deposito,” disse
stancamente Agatha. “Ho preso una casa in affitto nel Norfolk e la terrò finché non trovo da comprare.”
Lo sguardo della signora Baxter-Semper oltrepassò Agatha.
“Oh, ma quello è il giardino?”
“Sì, è ovvio,” disse Agatha, soffiando il fumo verso di lei.
“Guarda, Bob. Potremmo buttare giù quel muro della
cucina e fare una bella serra.”
Oddio, pensò Agatha, una di quelle odiose escrescenze
in legno bianco e vetro dovrebbe sporgere sul retro del mio
cottage.
I due rimasero lì impalati, come in attesa che Agatha
offrisse loro un tè o un caffè.
“Vi accompagno alla porta,” disse Agatha con tono
scontroso.
Mentre sbatteva con energia la porta alle spalle della
coppia, Agatha sentì la signora Baxter-Semper dire: “Che
villanzona!”.
“Però la casa per noi sarebbe perfetta,” le fece notare il
marito.
Agatha prese il telefono e chiamò l’agenzia immobiliare. “Ho deciso di non vendere, per il momento. Sì, sono
la signora Raisin. No, non voglio vendere. Tirate via quel
vostro cartello, e basta.”
Quando rimise giù la cornetta, si sentì più felice di
quanto non lo fosse stata da tempo. Lasciando Carsely non
avrebbe ottenuto nulla.
“E così hai deciso di non trasferirti nel Norfolk?” esclamò qualche ora dopo la signora Bloxby, la moglie del pastore. “Sono così contenta che non ci lasci.”
3
“Oh, ma io nel Norfolk ci andrò. Cambiare aria non mi
farà male. Ma tornerò.”
La moglie del pastore era una donna di aspetto piacevole, con i capelli grigi e gli occhi miti. Con i suoi abiti ragionevoli da signora, le scarpe basse, la gonna di tweed sformata, la camicetta di seta e un vecchio cardigan appariva
l’esatto opposto di Agatha Raisin, che era un po’ inquartata
ma aveva bellissime gambe avvolte in calze trasparenti, e
sfoderava un tailleur corto sartoriale. I capelli lucidi erano tagliati elegantemente a caschetto, e gli occhietti ursini,
a differenza di quelli della signora Bloxby, guardavano al
mondo con sospetto e diffidenza, sulla difensiva.
Sebbene fossero molto amiche, spesso si chiamavano tuttora per cognome – signora Bloxby, signora Raisin – perché
questa era l’usanza antiquata in vigore presso la Società
delle Dame di Carsely, di cui entrambe facevano parte.
Erano sedute nel giardino della canonica. Era un pomeriggio di fine autunno, tiepido e dorato.
“E che mi dici di James Lacey?” chiese gentilmente la
signora Bloxby.
“Oh, me lo sono quasi dimenticato.”
La moglie del pastore guardò Agatha dritta negli occhi.
La giornata era tranquilla. Una rosa tardiva fioriva, rossa e
splendente, contro i muri dolcemente dorati della canonica.
Al di là del giardino c’era il camposanto, le pietre tombali
sghembe proiettavano ombre sull’erba a ciuffi. L’orologio
del campanile batté le sei.
“Le notti si stanno allungando,” disse Agatha. “Ebbene
no, la storia con James non l’ho superata. L’idea di andarmene nasce da questo. Lontano dagli occhi, lontano dal
cuore.”
“Non funziona.” La signora Bloxby tirò un pallino di
4
lana del suo cardigan. “Stai consentendo a una persona di
vivere nella tua testa, e non le fai pagare l’affitto.”
“Parli come una psicoterapeuta,” disse Agatha, sulla difensiva.
“E però è vero. Tu andrai nel Norfolk ma lui continuerà a restare con te finché non ti sforzerai di cacciarlo via.
Spero che tu non venga coinvolta in altri omicidi, Agatha,
ma ogni tanto mi capita di sperare che qualcuno uccida
James.”
“È una cosa terribile da dire!”
“Non ho potuto farne a meno. Non importa. In ogni
caso perché il Norfolk, perché questo villaggio, come si
chiama, ah sì, Fryfam?”
“Ho puntato uno spillo sulla carta. Sai, quell’indovina
mi aveva suggerito proprio il Norfolk.”
“Non mi meraviglio che le chiese siano vuote,” disse la
signora Bloxby, quasi parlando tra sé e sé. “Trovo che la
gente che si rivolge a chiaroveggenti e indovini manchi di
spiritualità.”
Agatha si sentì a disagio. “Io vado via solo per divertirmi
e riderci su.”
“Un divertimento dispendioso, affittare un cottage. L’inverno nel Norfolk. Farà un gran freddo.”
“Anche qui farà freddo.”
“È vero, ma il Norfolk è così… piatto.”
“Sembra una battuta di Noël Coward.”
“Mi mancherai,” disse la signora Bloxby. “Immagino
che ti farebbe piacere se ti telefonassi nel caso di un ritorno
di James?”
“No… cioè, sì.”
“Lo sapevo. Beviamoci un po’ di tè.”
5
Per Agatha il giorno della partenza arrivò fin troppo in
fretta. Quella sua smania di fuggire da Carsely si era placata. Ma il tempo era ancora bello e insolitamente mite, e lei
aveva pagato una sostanziosa caparra sul cottage di Fryfam
e così cominciò a caricare controvoglia le valigie nel portabagagli dell’auto e anche sul nuovo portapacchi appena
montato sul tettuccio.
La mattina della partenza lasciò le chiavi del cottage alla
donna delle pulizie, Doris Simpson, e poi tornò a casa per
convincere Hodge e Boswell a entrare nel loro trasportino. Avviò la macchina, percorse a ritroso Lilac Lane lanciando un’ultima occhiata di rimpianto al cottage di James, svoltò l’angolo
e poi accelerò risalendo la collina boscosa in uscita da Carsely,
con i gatti nelle loro gabbiette sul sedile posteriore e una carta
stradale aperta accanto a sé, sul sedile del passeggero.
Il sole splendette per tutto il viaggio finché Agatha non
raggiunse il confine della contea di Norfolk e a quel punto il
cielo si rannuvolò sulla campagna piatta e tetra.
Il Norfolk – che in origine significava “Casa del popolo
del Nord” – divenne parte dell’Anglia orientale dopo l’invasione degli anglosassoni nel Quinto secolo. L’area era in
origine la più grande palude d’Inghilterra. Le alture erano
sede di accampamenti romani. I romani avevano tentato
di prosciugare il terreno e costruito alcune strade attraverso le Fens, come veniva chiamata la zona paludosa di un
tempo. Dopo l’arrivo degli anglosassoni però la loro opera
fu lasciata decadere, e si dovette aspettare fino al Seicento
per avere il primo efficace sistema di bonifica, consistente
in una serie di dighe e canali.
Agatha, abituata alle strade tortuose e alle colline dei
Cotswolds, trovò infinitamente deprimente tutto quel piattume che si estendeva a perdita d’occhio.
6
Si fermò in una piazzola e studiò la carta. I gatti alle sue
spalle non la smettevano di raspare. “Tra poco ci siamo,”
gridò loro Agatha. Non riusciva a trovare Fryfam. Tirò fuori una carta topografica dell’Istituto geografico militare e
alla fine ci riuscì. Adesso che sapeva dov’era Fryfam consultò di nuovo la carta stradale e il nome sembrò balzarle
subito agli occhi. Perché non lo aveva visto un minuto prima? Il villaggio era annidato in mezzo a una rete di strade
di campagna. Agatha scrisse con cura i numeri di tutte le
strade che portavano al villaggio, e poi ripartì. Il cielo si stava oscurando e una pioggerella sottile cominciava a velare
il parabrezza.
Alla fine, con un sospiro di sollievo, vide un cartello con
la scritta fryfam e seguì la direzione indicata da quel dito
bianco. Su entrambi i lati c’erano boschi di conifere e il
paesaggio si stava facendo collinoso. Dietro un’altra curva
ecco il cartellone fryfam ad annunciarle che era arrivata.
Si fermò di nuovo e tirò fuori le indicazioni fornite dall’agente immobiliare. Il cottage Lavanda, sua nuova dimora
temporanea, si trovava nel vicolo dei Folletti, dall’altra parte
del parco comunale.
Un parco comunale davvero vasto, pensò Agatha, facendone il periplo. C’erano un gruppo di case con i muri in
pietra, un pub, una chiesa e poi c’era il vicolo dei Folletti,
lungo il camposanto. Era una stradina assai stretta e lei la
percorse lentamente, sperando che non arrivasse una macchina nell’altro senso. Agatha era un disastro nelle retromarce. Accese i fari. Poi vide un cartello sbiadito, vicolo
dei folletti, svoltò a sinistra e procedette sobbalzando
lungo un viottolo laterale. Il cottage era lì in fondo. Era una
casa a due piani in pietra e mattoni e aveva un’aria molto
antica. Pendeva leggermente verso il giardino, un giardino
7
davvero grande. Agatha uscì indolenzita dall’auto e osservò
l’edificio attraverso la siepe.
L’agente immobiliare aveva detto che la chiave di casa
sarebbe stata sotto lo zerbino. Si chinò e la trovò. Era una
chiave molto grossa, come quella del portone di una chiesa
antica. La serratura fece resistenza, ma con un colpo secco
Agatha riuscì ad aprire. Appena dietro la porta trovò un
interruttore, accese la luce e si guardò attorno. Era in un
minuscolo vestibolo. Sulla sinistra c’era la sala da pranzo e
a destra un salotto. Sul soffitto travi basse e nere. Una porta
in fondo all’ingresso dava su una cucina moderna.
Agatha aprì le ante dei mobiletti. Erano pieni di piatti,
pentole e padelle. Tornò alla macchina e portò dentro uno
scatolone di alimenti. Tirò fuori due scatolette di cibo per
gatti che versò in due ciotole, altre due le riempì d’acqua
e poi andò a prendere Hodge e Boswell che erano ancora
nell’auto. Quando li vide mangiare tranquilli, Agatha cominciò a portare dentro anche il resto dei bagagli. Lasciò
tutto nell’atrio. Adesso per prima cosa aveva voglia di una
tazza di caffè e di una sigaretta. Aveva smesso di fumare in
macchina da quando un giorno le era caduta una sigaretta
accesa sulla camicetta e per poco non si era schiantata.
Solo dopo essersi seduta al tavolo di cucina con una tazza di caffè in mano e la sigaretta nell’altra si rese conto di
due cose. In cucina mancava un forno a microonde. Negli
ultimi tempi Agatha aveva rinunciato alle sue incursioni
nell’arte della “vera” cucina ed era tornata all’uso del microonde. E poi nel cottage faceva molto freddo. Si alzò e
cominciò a cercare un termostato per alzare il riscaldamento. Solo al termine di una vana ricerca capì che in quella
casa non c’erano termosifoni. Andò in salotto. C’era un
camino grande a sufficienza per arrostirci un bue. Accan8
to al camino c’era una cesta di ciocchi. Trovò anche una
confezione di esche e una pila di giornali vecchi. Accese il
fuoco. Perlomeno la legna era asciutta e ben presto i ciocchi
cominciarono a scoppiettare allegramente. Agatha perlustrò di nuovo la casa. C’erano camini in ogni stanza, a parte
la cucina. In cucina trovò in un armadio una stufetta a gas
Calor.
Ma è ridicolo, pensò Agatha. Mi toccherà spendere
una fortuna per scaldare questo posto. Uscì dalla porta
principale. Il giardino continuava a sembrarle molto grande. Avrebbe avuto bisogno dei servigi di un giardiniere. Il
prato era coperto da un fitto tappeto di foglie cadute. Era
sabato. L’agenzia immobiliare non avrebbe riaperto fino
a lunedì.
Dopo aver svuotato gli scatoloni della spesa e riposto
in freezer i pasti surgelati, Agatha aprì la porta sul retro.
Il giardino aveva uno spazio per il bucato e poco altro. E
mentre guardava sbatté le palpebre. In fondo al prato danzavano piccole, strane luci colorate. Lucciole? Non nel freddo Norfolk. Attraversò il giardino in direzione delle luci,
che sparirono di colpo al suo avvicinarsi.
Lo stomaco di Agatha brontolò, ricordandole che non
mangiava da un po’. Decise di chiudere casa e di andare a
piedi al pub per vedere di riuscire a rimediare un pasto. Era
a metà del viottolo quando con un gemito si rese conto di
non aver tirato fuori le cassettine dei gatti. Tornò al cottage,
fece quel lavoretto e poi uscì di nuovo.
Il pub si chiamava Dragone Verde. Davanti alla porta
pendeva il ritratto mal dipinto di un drago verde. Agatha
entrò. I clienti erano pochi, tutti uomini, tutti omettini piccini. Si avvicinò al bancone e i clienti la osservarono, in
silenzio.
9
Era un pub molto tranquillo, niente musica, niente slotmachine, niente televisore. Dietro il bancone non c’era nessuno. Lo stomaco di Agatha emise un altro brontolio. “Non
c’è un cameriere, qui?” gridò lei. Si girò a guardare gli altri
avventori che prontamente abbassarono gli occhi sul pavimento a lastre di pietra.
Agatha si girò di nuovo verso il bar, spazientita. Ma in
che postaccio sono capitata? pensò amaramente. Si sentì
uno scalpicciare di tacchi alti in avvicinamento e poi dietro
il bancone si materializzò una visione. Era una bionda giunonica che pareva la polena di una nave. Aveva una folta
chioma bionda – bionda naturale – che ricadeva in morbide onde partendo da una faccia liscia color panna e pesca.
Gli occhi erano molto grandi e molto azzurri.
“Come posso esserle d’aiuto, missus?” chiese la donna
con voce flautata.
“Ho fame,” disse Agatha. “Avete qualcosa da mangiare?”
“Mi dispiace molto. Non serviamo pasti.”
“Oh, ma santi numi,” ululò Agatha, al colmo dell’esasperazione. “C’è un qualche posto in questo villaggio dimenticato dal tempo in cui io possa mangiare qualcosa?”
“Pensi quanto è fortunata. Mi è avanzata una porzione
del nostro steak pie. La vuole?”
Scoccò ad Agatha un sorriso abbagliante. “Sì, grazie,”
disse Agatha, rabbonita.
La bionda le tenne aperto lo sportelletto del bar. “Venga
pure. Lei deve essere la signora Raisin, quella che ha preso
in affitto il cottage Lavanda.”
Agatha la seguì nel retro, arrivando in una cucina grande e squallida, con al centro un tavolo di legno grezzo.
“Prego, si accomodi, signora Raisin.”
“E lei chi è?”
10
“Io sono la signora Wilden. Le posso offrire un bicchiere
di birra?”
“Se non chiedo troppo, non mi dispiacerebbe del vino.”
“No, non chiede troppo.”
La signora Wilden sparì e tornò poco dopo con una caraffa di vino e un bicchiere. Poi mise davanti ad Agatha coltello, forchetta e tovagliolo. Aprì lo sportello del forno di una
cucina economica Aga e tirò fuori un piatto con una fetta di
steak pie. Lo mise su un piatto di portata, poi aprì un altro
sportello della cucina ed estrasse un vassoio di patate arrosto.
Un altro sportello ancora ed ecco saltare fuori carote, broccoli e piselli. La donna servì ad Agatha un piattone colmo di
tutto, ci aggiunse una salsiera di gravy bollente, che pareva
aver fatto comparire per magia dal nulla, un cestino di panini
croccanti e una fettona di burro color oro. Non solo il cibo
era delizioso, ma il vino era il migliore che Agatha avesse
mai assaggiato. Di solito non distingueva un vino da un altro,
ma in qualche modo capì che quello era speciale, e avrebbe
voluto che sir Charles Fraith, l’amico baronetto, lo potesse
assaggiare per dirle che cos’era. Si girò per domandarlo alla
signora Wilden, ma la bellona era scomparsa di nuovo.
Agatha mangiò fino a non poterne più. Sentendosi rilassata e leggermente brilla, tornò al bancone.
“Allora, tutto bene?” chiese la signora Wilden.
“Era tutto squisito,” disse Agatha. Tirò fuori il portafoglio. “Quanto le devo?”
In quei begli occhi azzurri si accese un lampo di stupore.
“Ma gliel’ho detto, non serviamo pasti.”
“Ma…”
“Quindi è stata mia ospite per il cibo e il vino,” disse la
signora Wilden. “Adesso è meglio se va a casa a dormire un
po’. Sarà stanca, credo.”
11
“Grazie mille,” disse Agatha, mettendo via il portafoglio.
“Una sera dovete venire a cena da me, lei e suo marito.”
“È molto gentile da parte sua, ma mio marito è morto e
io sono sempre qui.”
“Mi dispiace per suo marito,” disse Agatha, imbarazzata, mentre la signora Wilden le teneva aperto lo sportello
del bar per farla passare. “Ma quando ha detto il nostro
steak pie, ho pensato…”
“Intendevo dire mio e di mia madre.”
“Ah, bene, è stata molto gentile. Magari potrei offrire da
bere a tutti?” Gli avventori del pub stavano parlando sottovoce, ma alle parole di Agatha seguì un improvviso silenzio.
“Non stasera. Non lo faccia, altrimenti si viziano, vero
Jimmy?”
Jimmy, un vecchietto rattrappito, borbottò qualcosa e
guardò tristemente il boccale vuoto.
Agatha si diresse all’uscita. “Grazie ancora,” disse. “Oh,
senta, mi è capitato di vedere in fondo al giardino sul retro
delle strane lucine danzanti. Da queste parti avete degli insetti simili alle lucciole?”
Per un momento il silenzio nel pub fu assoluto. Tutti
sembravano congelati, come statue. Poi la signora Wilden
prese un bicchiere e cominciò a strofinarlo. “Non abbiamo
niente del genere, in questa zona. Probabilmente i suoi poveri occhi erano stanchi, dopo quel lungo viaggio.”
Agatha scrollò le spalle. “Può essere.” Uscì nella sera.
Le venne in mente di aver lasciato il camino acceso, e
di non averci messo davanti un parafuoco. Corse per tutta
la strada fino a casa, atterrita al pensiero di ritrovare i suoi
adorati gatti fritti come patatine. Frugò nella borsetta alla
ricerca di quella ridicola chiave. Devo oliare la serratura,
pensò. Aprì la porta e si precipitò in salotto. Il fuoco ardeva
12
rosso. I gatti erano sdraiati lì davanti. Con un sospiro di
sollievo Agatha si chinò ad accarezzare i loro corpi caldi.
Poi andò di sopra, per infilarsi a letto. C’erano due camere,
una con un letto matrimoniale e l’altra con un letto singolo.
Scelse la matrimoniale. Il letto era coperto da un piumone
grande e spesso. Agatha esplorò il bagno. Aveva un riscaldatore a immersione. Ci sarebbero voluti secoli per scaldare
l’acqua della vasca. Lo accese, si lavò la faccia e i denti,
andò a letto e scivolò in un sonno profondo e senza sogni.
La mattinata era luminosa e soleggiata. Agatha si fece
un bagno caldo, si vestì e si concedette la solita colazione a
base di due tazze di caffè nero e tre sigarette. Lasciò uscire i
gatti nel giardino sul retro e poi, tornando in cucina, prese
la lista con la dotazione della casa compilata dall’agente immobiliare. Agatha, vecchia volpe delle case prese in affitto,
sapeva quanto fosse importante il controllo degli inventari.
Voleva riavere l’intera caparra, e non voleva vedersela decurtare in nome di perdite inesistenti.
Era a metà dell’opera quando qualcuno bussò alla porta.
Andò ad aprire e si trovò di fronte quattro donne.
La capa del gruppo era una signora di mezza età lunga
e allampanata, con un gilet trapuntato indossato sopra una
camicia a scacchi. Portava calzoni di velluto a coste sformati
sulle ginocchia. “Io sono Harriet Freemantle,” disse. “Le
ho portato una torta. Apparteniamo tutte all’Associazione Donne di Fryfam. Mi consenta di fare le presentazioni.
Questa è Amy Worth.” Una donna minuscola e slavata con
un vestito che le penzolava addosso sorrise timidamente e
porse ad Agatha un vasetto di chutney. “E questa è Polly
Dart.” Una signorottona di campagna con le sopracciglia
cespugliose e un accenno di baffi. “Le ho portato un po’
13
dei miei scones,” disse con il suo vocione di basso. “Io sono
Carrie Smiley.” L’ultima a farsi avanti era una tipa piuttosto giovane, sulla trentina, con capelli e occhi scuri e un
bel corpo messo in evidenza da jeans e maglietta. “Le ho
portato un po’ del mio vino di sambuco.”
“Accomodatevi, prego,” disse Agatha. Le condusse in
cucina.
“Hanno risistemato bene la casa del vecchio Cutler,” disse Harriet, mentre lei e le altre depositavano i loro doni sul
tavolo di cucina.
“Cutler?” disse Agatha, inserendo la spina del bollitore.
“Un vecchio che ha vissuto qui per secoli. La figlia affitta
il cottage,” disse Amy. “Quando il padre morì, questa casa
era ridotta a un disastro. Non buttava mai via niente, lui.”
“Mi stupisce che la figlia non si sia limitata a metterlo in
vendita. Deve essere difficile riuscire ad affittarlo.”
“Non saprei,” disse Harriet. “Lei è la prima.”
“Qualcuno di voi ha voglia di un caffè?” chiese Agatha.
Ci fu un coro di assenso. “E magari possiamo mangiare un
po’ del dolce della signora Freemantle.”
“Harriet. Qui ci chiamiamo tutte per nome.”
“Come probabilmente sapete già, io sono Agatha Raisin. Faccio parte di una società di dame del mio villaggio,
che sarebbe Carsely.”
“Una società di dame?” esclamò Carrie. “È così che la
chiamate?”
“Siamo un po’ antiquate,” disse Agatha. “E ci chiamiamo sempre per cognome.” Harriet stava tagliando a fette
con perizia una deliziosa torta al cioccolato, e sistemando
le fette sui piatti. Se non sto attenta metterò su peso, pensò
Agatha. Prima quel pasto gigantesco e adesso una torta al
cioccolato.
14
Una volta riempite le tazze, tutte quante si trasferirono
in salotto con i loro caffè e i piatti di torta. “Volete che accenda il fuoco?” chiese Agatha.
“No, abbiamo caldo a sufficienza,” disse Harriet senza
interpellare le altre.
“Penso che avrebbero potuto installare un qualche impianto di riscaldamento centrale,” si lamentò Agatha. “L’affitto era già abbastanza caro senza doverci aggiungere la
spesa per la legna.”
“Oh, ma di legna qui ce n’è in abbondanza,” disse Polly.
“In fondo al giardino c’è un capanno pieno di ceppi.”
“Non l’ho visto. Ma era buio, quando sono arrivata. Oh,
e tra l’altro, in fondo al giardino ho visto danzare delle strane luci.”
Ci fu un silenzio e poi Carrie chiese: “Manca qualcosa?”.
“Sono arrivata a controllare solo metà dell’inventario,
quindi non lo so. Perché?”
Ancora silenzio.
Poi Harriet disse: “Ci chiedevamo se durante il suo soggiorno non le andrebbe di essere socia onoraria del nostro
gruppo femminile. Stiamo trapuntando”.
“Sarebbe a dire?” bofonchiò Agatha, con la bocca piena
di torta. Perché non volevano parlare di quelle luci?
“Stiamo facendo trapunte patchwork. Sa, cuciamo quadrati di stoffa sopra vecchie coperte.”
Competitiva come al solito, Agatha Raisin non avrebbe mai ammesso di non essere capace di cucire. “Sembra
divertente,” mentì. “Potrei fare un salto, prima o poi. Siete
state così gentili a portarmi tutti questi regali.”
“Stasera,” disse Harriet. “Ci troviamo questa sera. Passerò a prenderla alle sette, subito dopo la funzione della
sera. Lei fa parte della Chiesa d’Inghilterra?”
15
“Sì,” disse Agatha, che in realtà non era religiosa ma
sentiva che l’amicizia con la signora Bloxby le forniva titoli
sufficienti a far parte della Chiesa d’Inghilterra.
“Oh, in tal caso, ci vedremo in parrocchia questa sera, e
poi andremo direttamente da lì,” disse Harriet.
Agatha era pronta a mentire dicendo che si sentiva uno
straccio e che non ce l’avrebbe fatta ad andare da nessuna
parte, quando Polly disse all’improvviso: “Avanti, allora. Ci
racconti del suo cuore infranto”.
Agatha arrossì. “Di cosa state parlando?”
“Quando abbiamo saputo della sua venuta,” disse Harriet, “e che lei abitava in un villaggio dei Cotswolds, ci siamo
chieste chi glielo facesse fare di andarsi a cercare una casa in
affitto da un’altra parte e quindi abbiamo deciso che dovesse
avere dei problemi con un uomo, e volesse tagliare la corda.”
Mi sbarazzerò di voi alla svelta, pensò Agatha. Sorrise
a tutte, quel sorriso da pescecane che indicava che Agatha
Raisin era in procinto di sparare una bugia colossale.
“In realtà al momento sto scrivendo un libro,” disse.
“Volevo un posto in cui poter lavorare in pace e tranquillità.
Vedete, continuano a piombarmi in visita vecchi amici londinesi e non ho tempo a sufficienza per me. Stasera uscirò
con voi, ma temo che mi toccherà fare un po’ la reclusa.”
“Cosa sta scrivendo?” chiese Amy.
“Un giallo.”
“Come si chiama?”
“Morte al maniero,” disse Agatha, improvvisando freneticamente.
“E chi è il detective, nel suo giallo?”
“Un baronetto.”
“Ci sta dicendo che ha creato una nuova specie di lord
Peter Wimsey?”
16
“Vi dispiace se non parliamo più del mio lavoro?” disse
Agatha. “Non amo discuterne.”
“Ci dica solo questo,” disse Amy, protendendosi in avanti. “Gliene hanno già pubblicato qualcuno?”
“No, questo è il mio primo tentativo. Sono un’investigatrice, nella vita reale, e dunque ho pensato che avrei potuto
romanzare alcune delle mie avventure.”
“Ci sta dicendo che lei lavora per la polizia?” domandò
Harriet.
“Di tanto in tanto lavoro con la polizia,” disse Agatha,
grandiosamente. Procedette a menare vanto dei casi da lei
affrontati. Con irritazione di Agatha, proprio al culmine
dell’emozione di uno di questi misteri Harriet si alzò e disse
all’improvviso: “Mi dispiace, dobbiamo andare”.
Agatha le accompagnò alla porta. Andò con loro fino al
cancello del giardino e le salutò con un cenno della mano.
Rimase appoggiata alle sbarre, godendosi il sole.
Alle sue orecchie giunse la voce di Harriet. “È evidente
che stava mentendo.”
“Lo pensi davvero?” la voce di Amy.
“Oh, sì. Non c’era una sola parola di verità. Quella donna probabilmente non è capace di mettere giù due frasi in
croce.”
Agatha serrò i pugni. Befanaccia gelosa. Gliel’avrebbe
fatta vedere lei. Avrebbe scritto un libro. Dopotutto scrivere
era scrivere, e lei nella sua veste di addetta alle pubbliche
relazioni aveva scritto abbastanza comunicati stampa. Si
era portata appresso il computer e la stampante. Cominciò
a provare una certa eccitazione. Il suo nome sarebbe giunto
in cima alla classifica dei best seller, e a quel punto James
avrebbe drizzato le orecchie e prestato attenzione.
Rientrando in casa, Agatha lanciò un’occhiata al di so17
pra della siepe, al vialetto dove era parcheggiata la sua auto.
Che cosa avevano voluto dire, chiedendo se mancava qualcosa?
Agatha aprì la porta della cucina e andò in fondo al giardino, trovando un capanno dietro a un gruppetto di alberi.
Era pieno di legna. Tornò in cucina con i gatti che le saltellavano dietro. Perlomeno a loro questo posto piace, pensò.
Diede loro da mangiare e tornò al controllo dell’inventario,
senza però smettere di farsi domande sulle sue visitatrici.
Avevano dei mariti? Non potevano essere tutte vedove.
Dopo aver finito di spuntare tutte le voci dell’elenco,
mise in un tegame il contenuto di una confezione di Curry Bengalese Genuino, raschiando ben bene. Doveva procedere all’acquisto di un forno a microonde. Mangiò quel
poltiglione piccante e poi decise di cominciare a scrivere il
suo libro.
Sistemò il computer sul tavolo della cucina, digitò “Capitolo Uno”, e poi fissò lo schermo. Invece del libro si ritrovò a scrivere delle scuse per schivare le trapunte. “Ho
un attacco di emicrania.” No, non andava bene. Sarebbero
piombate lì tutte, armate di pastiglie. “È sopraggiunto un
impegno urgente.” Quale? E come diamine avrebbe fatto a
mettersi in contatto con loro? La signora Wilden giù al pub
certamente lo sapeva.
Agatha decise di andare a piedi fino al pub.
Mentre percorreva a passo di marcia il vicolo dei Folletti, si disse che avrebbe dovuto cominciare a osservare la
campagna che aveva attorno. Gli scrittori lo facevano. Nella
siepe alla sua destra si vedevano le bacche rosse della rosa
canina e del biancospino. Okay. “Le bacche rosse della rosa
canina e del biancospino splendevano come lampade tempestate di pietre preziose…” No, cancelliamo. “Le bacche
18
rosso vivo della rosa canina e del biancospino pendevano
come lampade sopra il…”
Nada, riproviamo. “Le bacche del biancospino costellavano la siepe.” No, le bacche non possono costellare. I fiori
sì. Ma in ogni caso chi cavolo desidera fare la scrittrice?
Il pub era chiuso. Agatha rimase lì, indecisa sul da farsi. Nel
mezzo del parco comunale c’erano uno stagno delle anatre ma
senza anatre, e una panchina che guardava lo stagno. Agatha
attraversò il prato e si sedette a contemplare l’acqua.
“’ngiorno.”
Agatha sobbalzò nervosamente. Un vecchio rattrappito
si era seduto accanto a lei senza fare rumore.
“’ngiorno,” disse Agatha.
Il vecchio scivolò lungo la panca fino ad arrivarle vicinissimo. Puzzava di zuppa di prosciutto e fumo di sigaretta.
Aveva chiaramente addosso il vestito della domenica, a giudicare dal vecchio abito spelacchiato, dalla camicia bianca
e dalla cravatta a righe. I suoi stivali troppo grandi erano
lucidissimi.
Poi Agatha sentì qualcosa sul ginocchio, e abbassando
lo sguardo vide che il vecchio le aveva piazzato una mano
sopra.
Agatha gli sollevò la mano, e gliela piazzò sul suo, di
ginocchio. “Veda di comportarsi come si deve,” disse, secca.
“Non si preoccupi di quel suo tizio che l’ha trattata male.
Ci pensiamo noi, a lei, ci pensiamo.”
Agatha si alzò e si allontanò a lunghi passi, paonazza in
viso. L’intero villaggio aveva deciso che lei doveva avere il
cuore infranto? Ma che se ne andassero tutti quanti a quel
paese. Come prima cosa lunedì mattina sarebbe andata a
parlare con l’agente immobiliare per disdire il contratto.
Trovò una strada che partiva dall’altra estremità del
19
parco, e offriva un piccolo assortimento di negozi. C’erano
un ufficio postale con emporio, simile a quello di Carsely,
un negozio di prodotti elettrici, uno che vendeva abiti stile Laura Ashley, un antiquario e in fondo alla strada c’era
Bryman, l’agenzia immobiliare. Agatha studiò gli annunci
in vetrina. I prezzi delle case erano inferiori a quelli dei
Cotswolds, ma non di molto.
Tornò nel parco, sola come una nuvola, e decise di rientrare a casa e impiegare utilmente la giornata disfacendo il
resto dei bagagli.
Il giardiniere passò nel pomeriggio e domandò ad Agatha se c’era qualcosa in particolare che desiderava vedere
fatto. Agatha desiderava che lui rastrellasse via le foglie, tosasse il prato e tenesse in ordine le aiuole fiorite. Era un
giovanotto muscoloso e tatuato, con una massa di capelli
castani scuri. Disse di chiamarsi Barry Jones, e che sarebbe tornato l’indomani. Agatha lo ringraziò e, quando lui si
voltò per andarsene, gli disse: “Ha per caso sentito parlare
di certe strane luci? Ieri sera ho visto danzare in fondo al
giardino delle lucine misteriose”.
Quello non si girò neppure. “Ammetto di non saperne
nulla,” disse e si allontanò a passi veloci.
C’è qualcosa di strano in questa faccenda delle luci, pensò Agatha. Magari si tratta di un maledetto insetto velenoso
e la gente del posto non ne vuole parlare per timore di far
scappare i turisti.
Tornò ai suoi lavori domestici, chiedendosi, mentre appendeva gli abiti, se i camini a legna sarebbero stati sufficienti per tenere calda la casa nell’eventualità di un’ondata
di freddo. L’agenzia immobiliare avrebbe dovuto avvertirla.
Quando Agatha si accorse che si erano fatte quasi le sei,
cominciò a domandarsi se fosse il caso di schivare o no la
20
chiesa e le trapunte. Controllò la guida ai programmi televisivi che si era portata appresso. Non c’era un granché. E
poi si rese conto di soffrire la solitudine.
Chiuse casa e arrivò in chiesa in tempo per la preghiera
serale. Con suo grande stupore vide che in quei giorni di
senza Dio la chiesa era piena. Il sermone del pastore verteva sulla fede da opporre alla superstizione, e la mente di
Agatha tornò a quelle luci. Il villaggio di Fryfam aveva un
che di chiuso, di anacronistico, di comunità senza rapporti
con l’esterno. Là fuori nel mondo imperversavano fuoco e
inondazioni e carestie. Eppure a Fryfam dame con il cappellino e gentiluomini in abito levavano le loro voci nel canto
di Resta con noi, Signore, come se non esistesse nulla al di là del
loro sicuro mondo inglese governato dall’avvicendarsi delle
stagioni e dal calendario della chiesa: la Festa di san Michele, la Candelora, la Festa del Raccolto, l’Avvento, il Natale.
Agatha attese sul sagrato. Le venne incontro Harriet,
circondata dalle altre tre donne. Portavano gli stessi vestiti
ma si erano messe in testa i cappelli: Harriet una calottina
in feltro, Amy un cappello di paglia, Polly un berretto da
pescatore in tweed mentre Carrie sfoggiava un cappellino
da baseball.
Agatha, che si era cambiata scegliendo un completo
pantalone di sartoria e una camicetta in seta, si sentì fin
troppo elegante.
“Bene,” disse Harriet. “Andiamo!”
Una coppia superò il gruppo, bisticciando con acrimonia. “Non essere così pesante, Tolly,” stava dicendo la
donna. Alle narici di Agatha giunse una zaffata di Envy di
Gucci. Si fermò a guardare la coppia. La donna possedeva
quella che Agatha giudicava la “nuova” bellezza, nel senso
che piaceva agli altri. I capelli erano biondi, portati lunghi
21
fino alle spalle. Indossava un completo in tweed di buon
taglio, e la gonna aveva uno spacco laterale che metteva in
mostra una gamba ben tornita fasciata da una calza dieci
denari: autoreggenti, e non collant, perché lo spacco era
profondo a sufficienza da lasciar intravvedere un bordo. Gli
occhi erano azzurro chiaro, e ben distanziati. Gli zigomi
erano alti, ma il naso era troppo vicino alla bocca, e quella bocca allungata era troppo vicina al mento squadrato.
L’uomo era più anziano, piccolo, grassoccio e bilioso, con i
capelli radi e il colorito rosso acceso.
“Andiamo, Agatha,” ordinò Harriet.
“Chi sono quelli? Quella coppia?”
“Oh, quello è il nostro signorotto, si è eletto tale da solo,
ha fatto i soldi montando docce nei bagni, e lei è sua moglie Lucy. I Trumpington-James. Buffo, non è vero?” disse
Harriet con voce udibile per tutto il sagrato. “Non molto
tempo fa un cognome doppio denotava una nobildonna o
un gentiluomo. Adesso invece ti fa capire di essere in presenza di un parvenu di rango medio o basso.”
“Non sta facendo un po’ la snob, Harriet?” chiese Agatha.
“No,” disse Harriet. “Sono decisamente odiosi, come
constaterà di persona.”
“E come farò a constatarlo?”
“Sono convinti che faccia parte dei loro doveri di signori
e capi dare il benvenuto ai nuovi arrivati. Vedrà.”
“Dove stiamo andando?”
“A casa mia.”
Harriet abitava dall’altra parte del parco comunale, in
un edificio squadrato del primo periodo vittoriano.
Facendo strada al gruppo verso un salotto ampio ma
tetro, Harriet accese le luci e disse: “Qualcuna vuole bere
qualcosa, intanto?”. E prima che Agatha potesse chiedere
22
con gratitudine un gin tonic, Harriet disse: “Sì, ecco, possiamo bere un po’ del vino di sambuco di Carrie”.
Agatha si guardò attorno. La stanza aveva dei finestroni
lunghi e il soffitto alto, ma era ingombra di mobili pesanti.
Le pareti erano di un verde smorto, con quadri dozzinali di
cavalli e selvaggina morta.
Amy stava tirando fuori da un grosso cassettone nell’angolo coperte, scatole di stoffe e strumenti per il cucito.
“Penso che dovrebbe lavorare su una trapunta insieme
a Carrie,” disse Amy. “Lei si mette da una parte e Carrie
dall’altra. Se vi sedete vicine potete stendere la coperta in
mezzo a voi.”
Harriet tornò con un vassoio di bicchieri colmi di vino
di sambuco. Agatha assaggiò il suo con cautela. Era molto
dolce e aveva un retrogusto di medicina.
“Siamo tutte vedove, qui?” chiese Agatha, guardandosi
attorno. “Non ci sono mariti?”
“Mio marito è al pub con il marito di Amy e quello di
Polly,” disse Harriet. “Carrie è divorziata.”
“Credevo che il pub fosse chiuso la domenica. Ci sono
passata all’ora di pranzo ed era chiuso.”
“È aperto la domenica sera.” Harriet si scolò il bicchiere
e lo rimise sul vassoio. “È meglio se cominciamo.”
Dovrebbe essere facile, pensò Agatha, mentre Carrie le
passava una piccola pila di quadrati di stoffa. Devo solo
cucirli lì sopra.
“Non così,” disse Carrie, nel vedere che Agatha conficcava un ago vicino al bordo di un quadrato. “Prima ci fa un
orlo, lo cuce e poi sfila l’orlo.” Agatha la guardò malissimo
e procedette al tentativo di fare un orlo a uno scivolosissimo
quadratino di seta. Non appena eseguito un punto, la seta si
sfrangiava sui bordi. Agatha lasciò cadere surrettiziamente
23
il pezzo di seta e tirò fuori un quadrato di lana colorato.
Lanciò un’occhiata di sguincio a Carrie, che stava piazzando velocemente in vari quadrati di tessuto piccoli punti ordinati, pressoché invisibili.
Decise di avviare una conversazione per tentare di distogliere l’attenzione delle altre dal suo modo dilettantesco di
cucire. “La signora Wilden mi ha offerto un pasto delizioso,
ieri sera al pub. È una donna di una bellezza decisamente
straordinaria.”
“Peccato abbia una moralità da gatto maschio,” ribatté
secca Polly, spezzando il filo con i suoi denti forti e giallastri.
“Oh, davvero?” disse Agatha, osservando incuriosita quelle facce irrigidite. “A me è parsa una tipa piuttosto amabile.”
“Buon per lei che non è sposata,” fece Amy, con voce
quasi lacrimosa.
“Quando è mancato suo marito, Agatha?” domandò
Carrie.
“È passato un po’ di tempo,” disse Agatha. “Non mi
va di parlarne.” Non aveva voglia di raccontare a quelle
donne che suo marito era stato assassinato subito dopo essere riemerso dal passato per impedire ad Agatha di sposare
James Lacey. “Mi sto ancora interrogando su quelle luci,”
proseguì. Notò con sorpresa che, distratta com’era dalle
chiacchiere, era riuscita a fare l’orlo a un riquadro di stoffa.
“Le ha viste di nuovo?” s’informò Harriet.
“No.”
“E allora, qui la volevo. Probabilmente era stanca dopo
aver guidato tanto e se l’è solo immaginate.”
Agatha lasciò perdere la faccenda delle luci. Era sicura
che quelle donne tra di loro spettegolassero liberamente.
Lei era l’estranea, non era ancora stata accettata, e questo
metteva un freno a qualsiasi conversazione.
24
Quando Harriet dopo un’ora disse “Ebbene, per stasera
dovrebbe bastare,” Agatha si sentì come se fosse suonata la
campanella della scuola.
Nell’uscire si fermò ad ammirare una composizione di
foglie autunnali in un vaso all’ingresso. Harriet tirò fuori il
mazzo di foglie e lo diede ad Agatha. “Lo prenda,” disse.
“Io immergo le foglie nella glicerina, quindi dovrebbero durarle tutto l’inverno.”
Agatha tornò a casa con le foglie. Si ricordava di aver
visto un grosso vaso in pietra, posato sul pavimento del salotto, accanto al camino. Entrò nel cottage, lieta di essersi
portata dietro i gatti come compagnia, mentre Hodge e Boswell le si strofinavano su e giù attorno alle caviglie.
Attraversò la cucina e posò le foglie sul bancone. Guardò
fuori dalla finestra, ed eccole di nuovo lì, le luci danzanti.
Agatha aprì la porta e andò in giardino. Le luci erano
scomparse.
Borbottando tra sé e sé rientrò in casa. Stava succedendo
qualcosa di strano. Non se l’era sognate, quelle luci, e la sua
vista non aveva nulla che non andasse.
Agatha andò in salotto a prendere quel vaso. Non c’era
più. Cominciò a chiedersi se per caso non se lo fosse immaginato. Tirò fuori dal cassetto della cucina il foglio con
l’inventario. Sì, eccolo lì, sotto “Contenuto del salotto”: un
vaso in pietra.
Agatha all’improvviso si sentì minacciata. Controllò che
le porte fossero chiuse e andò di sopra, a letto. Lo stomaco borbottava, rammentandole che non aveva cenato, ma il
pensiero di scendere nuovamente al piano di sotto l’atterriva.
Si fece un bagno, si cambiò e strisciò sotto il piumone tirandoselo sopra la testa, per chiudere fuori le paure della notte.
25