Gennaio - Torsanlorenzo Gruppo Florovivaistico

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Gennaio - Torsanlorenzo Gruppo Florovivaistico
torsanlorenzo
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Pubblicazione mensile del Consorzio Verde Torsanlorenzo
Anno 7 - numero 1
Gennaio 2005 - Diffusione gratuita
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Foto di copertina: Citrus limon, Vivai Torsanlorenzo
Sommario
VIVAISMO
Una raccolta di viburni: il ruolo poco compreso
delle collezioni di germoplasma
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Limoni a spalliera
7
La coltivazione degli agrumi nelle regioni centro
settentrionali d’Italia - Storia e introduzione
9
PAESAGGISMO
Il restauro del giardino della Minerva, a Salerno
12
VERDE PUBBLICO
Parco Savello all’Aventino detto Girdino
degli aranci
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VARIE
Regolamento del “Premio Internazionale Vivai
Torsanlorenzo 2005”
21
Prize Regulations “Torsanlorenzo Nurseries
International Prize 2005”
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NEWS
Corsi, libri, mostre, incontri culturali
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Una raccolta di viburni: il ruolo poco compreso
delle collezioni di germoplasma
di Carla Dalla Guda, Enrico Farina - CRA – Ist. Sperimentale per la Floricoltura - Sanremo
Non sembra sussistano dubbi sul fatto che le collezioni
siano, in gran parte, l’espressione del piacere a costruirsi un “mondo” personale da parte del “raccoglitore”, il
quale, spesso, è anche geloso custode e talora esclusivo
fruitore del materiale. Al massimo, è disposto a condividere questo mondo con pochi intimi e per periodi di
tempo limitati.
Se possiamo considerare le collezioni l’espressione di un
certo egoismo o, se preferite, di una certa visione egocentrica, è anche vero che le collezioni rappresentano
anche il meccanismo col quale salvaguardare – anche in
modo inconscio – un certo tipo di materiale da dispersioni o perdite definitive. In più, quando le collezioni
rappresentano un punto di partenza di iniziative culturali, è anche possibile ottenere una valorizzazione del
materiale ai fini sociali ed economici. Proprio nelle attività creative riguardanti le collezioni, cultura ed economia possono procedere di pari passo.
Ci accorgiamo di questo quando ad esempio vengono
organizzate le grandi mostre d’arte che si basano sulle
collezioni disponibili oppure quando, in certe occasioni,
Fiori fertili di Viburnum opulus
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vengono resi fruibili al pubblico alcuni beni artistici solitamente non accessibili. Allora ci si rende conto di quanto trainante dal punto di vista economico possa essere
l’azione sulle collezioni. Anche le collezioni di materiale vegetale appartengono a questo contesto, sia che si
tratti di iniziative quali mostre pomologiche o di piante
ornamentali, oppure di fruibilità di giardini storici, di
parchi oppure, perché no, solo di semplici giardini pubblici. Spesso, l’osservazione di una pianta basta per promuovere l’attenzione su di essa, ad esempio una pianta o
un ramo fiorito si promuove da solo per la possibilità di
esprimere con immediatezza le sue qualità estetiche ma
molto spesso sono le informazioni accessorie che possono rendere interessante una pianta e promuoverne la diffusione presso il pubblico oppure, nel caso di mostre
professionali, presso gli operatori alla produzione o al
commercio.
Le informazioni accessorie dovranno pertanto mettere in
evidenza settori di impiego, anche potenziali, problematiche tecniche ed elementi che possano far percepire che
l’utilizzazione della pianta può essere un processo funzionale ed esente da gravi difficoltà. Ciò frequentemente si verifica se una specifica azione preliminare è stata
svolta nell’ambito della collezione stessa.
Insomma, le collezioni possono essere non solo una
riserva di germoplasma, ma anche un laboratorio ove
attivare azioni volte ad una iniziale valorizzazione del
materiale. Purtroppo in questo momento, nel settore
pubblico, mantenere ed implementare una collezione di
materiale vegetale non è per nulla facile.
Oggi è imperante il concetto di “risultati subito” mentre
costituire collezioni vegetali ed iniziarne la valorizzazione è un processo lento e progressivo, per il quale occorre dotarsi di un progetto protratto nel tempo e aver
garantita sicurezza di risorse adeguate nelle quantità e
nel tempo.
Ciò si scontra col concetto dei risultati immediati, spesso inoltre valutati solo sul piano economico. Molta della
attività fatta presso l’Istituto Sperimentale per la
Floricoltura di Sanremo, oggi confluito nel C.R.A.
(Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura), ha risentito di questi elementi ed essere riusciti
a organizzare alcune (modeste) collezioni di Limonium,
Hebe e Viburnum, peraltro collezioni “per attività di sperimentazione e ricerca”, ha comportato una certa fatica,
pari d’altronde a quella di mantenere le collezioni stesse.
Eppure queste modeste collezioni hanno consentito non
solo di portare a risultati scientifici ed informazioni tec3
niche puntuali di immediata utilità in relazione agli
obiettivi previsti dai programmi, ma anche, con osservazioni prolungate negli anni, al formarsi di una conoscenza a vasto raggio sui diversi generi in modo da poterli
inquadrare da un punto di vista sistematico, ecofisiologico, propagativo, patologico, colturale e commerciale.
Nel caso dei viburni, piante di circa una quarantina di
specie/varietà sono allevate per circa una decina di anni
in crescita libera o in varianti specificatamente elaborate
nell’ambiente mediterraneo, annotando il succedersi
delle fasi fenologiche, verificando ipotesi relative a fattori induttivi o limitanti la fioritura anche con l’appoggio
di prove sperimentali in condizioni climatiche controllate, individuando i più adeguati livelli nutrizionali, il
manifestarsi di problemi fitopatologici e raccogliendo
comunque una serie di elementi informativi di varia
natura.
Come espressione dei risultati, sono state adottate sia le
consuete modalità di pubblicazione di articoli di specifico contenuto su riviste tecnico/scientifiche di settore o
rapporti tecnici per operatori alla produzione, sia modalità forse meno consuete quali la realizzazione di un
volumetto monografico sui viburni per l’areale mediterraneo.
Ciò è stato possibile proprio per la disponibilità di informazioni tecnico-scientifiche su un’ampia base bioagronomica. Di quest’ultima iniziativa, portata a termine con
la fattiva e preziosa collaborazione di Arturo Croci attra-
verso la Editrice ACE, ci piace ricordare in questo articolo, i tratti salienti da un punto di vista del contenuto
sostanziale senza peraltro sottacere sui contenuti “formali” ed “estetici”, insomma sulla presenza di tavole e
fotografie a colori che sicuramente impreziosiscono l’opera e la rendono più accattivante e fruibile anche per un
pubblico “amatoriale”.
I contenuti sono ovviamente in relazione ai principali
aspetti e risultati messi a fuoco mediante l’attività sperimentale. Centrando l’interesse sulla flora europea e in
particolare su Viburnum tinus è stata verificata sperimentalmente la buona attitudine propagativa della specie
e delle cultivar più importanti; la risposta alle concimazioni azotate in termini di maggiore sviluppo vegetativo
della pianta ma anche l’effetto limitante la fioritura di
apporti troppo sbilanciati.
Le osservazioni relative ai ritmi fisiologici di crescita
hanno portato ad un’attenta gestione delle potature per
meglio indirizzare forma della pianta e fioritura, nodo
centrale per chi opera nella produzione di fronda recisa
o per chi desidera consentire l’espressione della bellezza
da parte di queste piante nel giardino o nell’ ambito dell’arredo urbano.
Pianta di poche esigenze ma generosa nella fioritura, il
viburno tino è un’arbustiva sempreverde spontanea della
macchia mediterranea, già coltivata per sfruttamento
industriale di fronda recisa, ma più diffusamente presente in ambito vivaistico con quote diversificate di produ-
Fiori sterili di Viburnum opulus
Siepe di Viburnum tinus ‘Macrophyllum’
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zione per tipologia di prodotto a seconda della destinazione d’uso.
Punti di forza di questa specie sono la presenza di un
fitto fogliame verde intenso, la forma densa e compatta
della pianta, il lungo periodo di fioritura protratto dall’inverno alla primavera, la colorazione caratteristica dei
frutti.
A questo si somma la rusticità, le scarse esigenze termiche, la tolleranza alle alte temperature e la resistenza alla
siccità. La specie ben si colloca in giardino in pieno sole
come cespuglio o piccolo albero, ma è anche adatta a
costituire siepi formali ed informali od ad essere utilizzata in ambiente urbano in fioriere, ben tollerando polveri e smog. Lasciata in crescita libera raggiunge in 6-8
anni l’altezza di 2-3 m.
La densa vegetazione si ricopre dall’autunno di bocci
rosati, bianchi a fioritura, riuniti in infiorescenze piatte
ombrelliformi, di notevole valenza estetica.
Specie autoctona a discreto valore paesaggistico, atta
anche al recupero di terreni marginali alla floricoltura
tradizionale, contribuisce alla flora mellifera del mediterraneo ed è ampiamente bottinata dalle api per nettare
e polline.
Il lavoro di miglioramento effettuato a partire dall’800
ha reso disponibili alcune varietà fruibili in giardino per
bellezza della fioritura ed abbondanza di fruttificazione,
ma anche dedicate a produzione industriale di fronda.
Vero è che nel grande serbatoio di germoplasma del
mediterraneo molte specie o anche le varietà migliorate
necessitano spesso di essere valorizzate agronomicamente per quanto riguarda le loro potenzialità d’uso.
La cultivar ‘Eve Price’ è valorizzata dalla presenza massiva in inverno di frutti (drupe) di colore blu metallico,
mentre la fruttificazione nella specie non è sempre
garantita.
Caratterizzata anche da foglie di piccola dimensione,
verde lucido, si presta a costituire validi schermi antirumore, ad essere sagomata in siepi con funzioni divisorie
per la compattezza dei rami, all’allevamento ad alberello anche in contenitore.
‘Eve Price’ è pure cultivar di elezione per produzione
industriale di fronda con frutti, in minor misura di fronda fiorita, tipologia di prodotto per cui V. tinus
‘Macrophyllum’ risulta essere maggiormente apprezzato, poiché produce lunghi rami a portamento eretto,
generosi nella fioritura e nella fruttificazione, adatti per
il mercato della fronda fiorita.
La ricchezza e la maggior grandezza delle infiorescenze
e delle infruttescenze lo rendono inoltre particolarmente
decorativo in giardino, anche se necessita di precisi
interventi cesori per la sua valorizzazione, in maggior
misura se destinato alla produzione di fronda recisa.
Fra i viburni a duplice valenza ‘Lucidum’, caratterizzato da una tipica infiorescenza paniculata e da foglie di
grandi dimensioni, coriacee, verde lucido, sfruttato indu-
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Particolare dei fiori e dei frutti di Viburnum tinus
Particolare dell’infiorescenza di Viburnum tinus ‘Macrophyllum’
strialmente per produzione di fronda verde o più comunemente utilizzato per costituire siepi o piante in vaso
per addobbo urbano.
‘Variegatum’ è invece varietà a rara fruttificazione ed a
fioritura meno importante che raggiunge il massimo
valore estetico in pieno inverno quando le infiorescenze
a bocci rosati e dal legno nuovo rossastro emergono fra
le foglie verdi bordate di bianco panna. La bellezza del
fogliame di ‘Variegatum’ mantenuta nel trascorrere
delle stagioni, rende questa pianta adatta a creare macchie di colore di contrasto nel giardino.
Sempre per giardino allevato come pianta singola a
cespuglio, V. tinus ‘Compactum’, a crescita compatta,
unisce una fioritura abbondante e profumata alla presenza di una fitta fruttificazione. Piante a sviluppo lento e
contenuto sia ‘Variegatum’ sia ‘Compactum’, mantengono in crescita libera forme equilibrate ad alta valenza
estetica e raramente richiedono interventi cesori.
Sorvolando su V. lantana, specie spoglia in inverno, tuttavia di grande interesse vivaistico perché usata come
portainnesto per molti altri viburni e di un certo valore
estetico per il fitto fogliame a colorazione intensa non5
ché per la presenza di dense infruttescenze apprezzate
anche sul mercato del reciso, parliamo un attimo della
specie di notevole rappresentatività estetica fra i viburni
europei: Viburnum opulus.
Questa specie si presenta a partire da novembre-dicembre con rami completamente spogli e, in corrispondenza
delle cicatrici fogliari, con piccole gemme appressate,
rivestite da un tegumento marrone (squame).
L’abito invernale sarà mantenuto fino a tutto gennaio-febbraio, periodo in cui le gemme iniziano ad ingrossarsi. In
marzo le gemme gonfie si spaccano lasciando intravvedere all’interno le nuove foglie e le strutture fiorali. La pianta è in pieno rigoglio vegetativo a fine marzo-aprile, con
fioritura in un unico flusso, prettamente primaverile.
La specie si adatta a climi anche freddi, ma risulta
comunque poco idonea a formare siepi, poiché spoglia in
inverno. Allevata a cespuglio o anche toelettata ad alberetto ha una forte valenza ornamentale in primavera per il
fitto fogliame verde chiaro, in estate arricchito da infruttescenze con drupe rosso traslucido, in autunno per l’abito a colori sgargianti, dal giallo al rosa al rosso-marrone.
Caratterizzata da un forte sviluppo vegetativo con una
discreta capacità di emettere polloni, è specie anche
importante in ambito vivaistico, perché utilizzabile come
portainnesto come il già citato V. lantana.
Il notevole lavoro di miglioramento e selezione ha portato a forme godibili in giardino, ma anche sfruttabili da
un punto di vista commerciale per produzione di fronda
Viburnum tinus ‘Variegatum’
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con frutti e in maggior misura per produzione di fronda
fiorita. Fra le cultivar caratterizzate da una abbondante
fruttificazione sono più diffuse ‘Compactum’ e ‘Xanthocarpum’, a sviluppo ridotto, l’una con drupe rosse,
l’altro con drupe di color giallo-arancio, entrambi a produzione tardo primaverile-estiva, essendo apprezzati
anche con frutti immaturi.
Queste cultivar sono fruibili in giardino anche per la fioritura abbondante, con le caratteristiche infiorescenze ad
ombrella piatte coi fiori fertili crema centrali circondati
all’esterno dai candidi fiori sterili a corolla larga, a funzione vessillatoria. La fioritura è però spettacolare nelle
forme ortive con soli fiori sterili, meglio conosciuti sotto
il generico nome di “Palla di neve”, coltivati in Olanda
già dalla fine del Cinquecento e particolarmente apprezzati dagli Inglesi nei loro giardini. Conosciuti anche col
nome comune di “Guelder Rose” alcune cultivar come
‘Roseum’ e ‘Sterile’ ampiamente diffusi nei giardini
rappresentano la quota economicamente più importante
sul mercato del reciso per la produzione di rami di 40100 cm portanti grosse infiorescenze a globo formate da
numerosissimi fiori solo sterili a grande corolla.
Un grande assortimento quindi già nell’ambito di V.
tinus e di V. opulus, come evidenziato citando solo alcune delle varietà più diffusamente utilizzate. E molto vi è
ancora da scoprire, poiché nel genere esistono specie che
si adattano a quella serie di condizioni climatiche, anche
notevolmente differenziate, normalmente compattate
sotto il termine di “clima mediterraneo”, oppure a vari
tipi di terreno. Alcuni di questi aspetti sono stati analizzati a livello preliminare nella monografia, con riferimento ad alcune specie di viburno che meglio si adattano ai pedoclimi italiani.
L’espressione sintetica del contenuto del volume, ovviamente ben più ricco di informazioni rispetto a quanto
sopra citato, ci consente di testimoniare che un certo
cammino di attività sulla collezione è stato percorso.
Ma ci si chiede ora se la nostra piccola collezione di
viburni avrà un futuro attraverso il rilancio di programmi di ricerca o dimostrazioni che coinvolgano questo
genere, con eventuale implementazione dei materiali
vegetali oppure se, alla cessazione di finanziamenti per
specifica attività di ricerca, dovrà subire il destino di
tutto quello che non è più funzionalmente adeguato a
fornire risorse o prestazioni per l’immediato, né più né
meno di un comune elettrodomestico eventualmente da
dismettere.
Noi nel frattempo continuiamo a lavorare “in background” sul materiale vegetale di viburno a tuttora disponibile, sul quale ad esempio non sono stati ancora riferiti dati nell’ambito della monografia già realizzata.
Chissà, una nuova serie organizzata di informazioni
potrebbe risultare in una iniziativa editoriale analoga alla
precedente e ad essa integrativa.
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Limoni a spalliera
di Maria Cristina Leonardi
Quando progetto un giardino od un terrazzo desidero
sempre soddisfare le esigenze del committente tenendo
conto sia degli aspetti pratici che di quelli diciamo psicologici primo tra tutti la serenità e la piacevolezza dell’ambiente “verde”. E chi più della pianta del limone è
capace di creare un’atmosfera felice col suo bel fogliame
persistente denso e luminoso, con i suoi fiori profumati
ed i frutti dorati presenti quasi tutto l’anno?
Il nome stesso di questi ultimi, detti esperidi, riporta la
memoria alla mitologia greca con una leggenda molto
poetica che narra di un’isola al confine occidentale della
terra dove il giorno e la notte si incontrano.
Qui, in un bellissimo giardino crescevano alberi straordinari dai pomi d’oro, frutti meravigliosi creati dalla dea
Terra in occasione delle nozze di Zeus ed Era come dono
Citrus limon - frutti
Citrus limon allevato a spalliera in plasticotto
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prezioso ai due sommi numi.
I pomi, rari ed introvabili, divennero simbolo di amore
e fecondità, ed erano custoditi in quello splendido ed
inaccessibile giardino dalle Esperidi, figlie di Esperis,
dea della Notte, aiutate da Ladone, un terribile drago
dalle cento teste.
In realtà queste piante, appartenenti alla famiglia delle
Rutaceae, genere Citrus medica (della Media, antico
Iran), varietà Limonum (dall’arabo limoun cioè prato,
luogo erboso, perché quando il frutto è acerbo ha colore verde come l’erba) sono di origine tropicale, provenendo da una vasta area dell’Asia Sud-Orientale.
Essi arrivarono nelle nostre zone per primi, assieme ai
cedri, lungo itinerari difficili da ricostruire: dall’India
all’Asia Minore fino agli orti più caldi e protetti degli
antichi romani.
Fino al ‘500 essi erano apprezzati soprattutto come piante medicinali ed alimentari; poi, durante il Rinascimento,
sono diventati un arredo vegetale prezioso ed irrinunciabile.
La loro presenza testimoniava la ricchezza e la potenza
dei proprietari, la loro capacità di superare i vincoli
imposti dalla natura. Infatti riuscire a coltivare gli agrumi nei giardini più freddi non era impresa da poco.
Per questo vennero mobilitati i migliori botanici del
tempo, che scrissero dettagliatissimi trattati per insegnare ai giardinieri sistemi e norme per il loro allevamento.
Se il clima non era troppo rigido, si suggeriva di piantarli
in piena terra, facendoli crescere a spalliera ed al riparo
7
Citrus limon allevato a spalliera in fioriera plasticotto
di un muro rivolto a sud.
Per le ville romane invece si consigliavano i cocchi: pergolati formati da tralicci di legno lungo i quali venivano
guidati i rami delle piante.
Queste spettacolari gallerie verdi offrivano in estate un
magnifico rifugio ombroso e profumato, ma in inverno
richiedevano cure assidue.
Nei giorni di sole bisognava sollevare le stuoie fissate
alle pareti, in modo da far penetrare aria e luce; mentre
nelle notti più fredde, segnalate dal gelare dell’acqua
contenuta in una ciotola sistemata al loro interno, oltre
a chiudere ermeticamente tutto l’ambiente, bisognava
mantenerlo tiepido con brace ardente.
Queste protezioni mobili non riuscivano però a difendere le piante ospitate nei paesi settentrionali.
Così in queste zone gli agrumi venivano coltivati in vaso
e durante l’inverno ricoverati nelle aranciere: stanzoni
in muratura provvisti di grandi finestre.
Io, che amo molto questa pianta, la colloco spesso nei
terrazzi sia grandi che piccoli.
Tra le forme di allevamento in vaso, ad alberetto, a
cespuglio, a cerchio ed a spalliera, prediligo quest’ultima per vari motivi.
Ad esempio in piccoli spazi come i balconi, la spalliera
permette di poter sistemare i limoni a ridosso del muro
esterno senza che la chioma riduca troppo il passaggio;
in terrazzi ampi la spalliera può avere funzione di siepe
sempreverde per nascondere una vista non gradita, oppure può essere impiegata come elemento divisorio di zone
diverse, evitando così l’utilizzo dei soliti cespugli spesso assai meno generosi in fiori e frutti. Volendo addolcire un muro troppo esteso o dare la sensazione di maggiore profondità, se il clima e l’esposizione lo permettono, nulla è più bello di una parete di limoni a spalliera.
Inoltre con questa forma di allevamento è più facile
mantenere nel tempo le dimensioni della pianta che si
desiderano.
Anche la resistenza a molte patologie può venire aumentata dalla forma a spalliera che permette alla luce solare
di raggiungere ogni parte della pianta diminuendo così
eventuali attacchi fungini.
La forma a spalliera va predisposta quando la pianta è
giovane.
In occasione di un rinvaso si inseriscono in verticale due
o più canne di bambù sul retro della chioma; poi si legano in orizzontale altre canne di bambù ed ancora altre
canne a sezione più piccola in modo da creare un grigliato.
Per sorreggere i frutti, specie quelli più grossi, occorre
legare i rami alla struttura descritta.
Coltivazione di Citrus limon a spalliera in vasi plasticotto
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La coltivazione degli agrumi
nelle regioni centro settentrionali d’Italia
Storia e introduzione
di Paolo Galeotti
La coltivazione degli agrumi, partita dalle terre
dell’India e dell’Estremo Oriente, ha origini lontanissime, ed è in quest’area che si sarebbe sviluppata, non meno di quattromila anni fa, intorno al 2400
a.C., la coltura degli agrumi, considerato che le più
antiche indicazioni nella letteratura indiana e cinese
vanno riferite ad un periodo compreso tra il 2400 e
l’800 a.C..
Le piante di cui si hanno più antiche menzioni sono
il pummelo - Citrus grandis (L.) Osbeck, poco
conosciuto e diffuso in Europa soltanto nel XII
secolo, e il cedro - Citrus medica L., del quale invece - forse per la sua utilizzazione nei riti religiosi si è avuta una maggiore diffusione e conoscenza.
Il cedro fu infatti adottato dagli Ebrei per la “Festa
delle Capanne o dei Tabernacoli” già nel VI sec.
a.C. diffondendosi intorno al III sec. a.C. dapprima
in Grecia, per poi arrivare in Italia intorno al I sec.
a.C.; Virgilio fu il primo scrittore latino a menzionarlo.
Secondo alcuni Autori l’introduzione del limone Citrus limon (L.) Burm. f., è avvenuto ad opera
degli Arabi tra il sec. X e XI d.C., attraverso l’India
e la Persia, per giungere in Liguria soltanto intorno
al XIII sec. portato dai Crociati che l’avevano conosciuto in Palestina e Siria. Ma nel 1951, nel corso
dei nuovi scavi, a Pompei venne alla luce nella
“Casa del Frutteto” un affresco che raffigura una
pianta di limone con ventuno frutti risalenti al I sec.
d.C. e recentemente sono stati ritrovati alcuni fossili di semi di limone, che fanno quindi supporre la
presenza di questo agrume in Campania già nel I sec
d.C..
Si deve andare, invece, intorno all’XI sec. per avere
notizie dell’arancio amaro - Citrus aurantium L.,
che fu introdotto in Italia probabilmente dai Crociati
provenienti dalla Palestina, dove era stato diffuso
dagli Arabi nel X sec., i quali a loro volta lo avevano importato dalle regioni più meridionali dell’Asia.
Dopo circa cinquecento anni, intorno al XV sec.,
sarà introdotto in Italia, dai genovesi e dai portoghesi, l’arancio dolce - Citrus sinensis (L.) Osb.,
chiamato arancio Portogallo o di Lisbona, proveniente dalla Cina e dall’India.
Frutti di agrumi
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Citrus limon (limone) - fiori e frutti
Citrus limon (limone)
Non possiamo stabilire con certezza in quale periodo inizi la coltivazione degli agrumi nei giardini del
centro e del nord Italia, ma riferendosi ai vari tratta-
ti “specializzati” in materia, sappiamo che già
nell’XI sec. - anno 1037 - il cedro, dal quale deriva
il nome del genere Citrus, fece la sua apparizione in
Toscana, come viene riferito da Manni, il quale illustra un sigillo con l’impronta di tre cedri, appartenente alla famiglia fiorentina Cedernelli.
Si sa anche che sul lago di Garda, a Gargnano (BS),
il limone fu introdotto dai frati francescani nel XIII
secolo, all’interno di un monastero riparato dai venti
e dal gelo, e a Roma troviamo menzione di aranci
coltivati nel XIV secolo ad opera dei frati domenicani.
Ma la moda della coltivazione degli agrumi e l’esplosione della “citromania” nei giardini del centro
nord dell’Italia la troviamo a partire dalla metà del
‘400, quando le nobili famiglie cominciano ad
inviare i propri emissari in giro per il mondo alla
ricerca di specie e di varietà ancora sconosciute per
ampliare le collezioni di frutti dorati, mostruosi e
bizzarri da introdurre nei propri giardini, racchiusi
spesso da alti muri, capaci di trattenere e restituire il
calore, ove poter coltivare gli agrumi a “spalliera” o
formare boschetti di “cedrati” o creare le gallerie di
Coltivazione di Citrus in vaso
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Citrus sinensis (arancio dolce) - frutti
Citrus aurantium (arancio amaro)
Citrus sinensis (arancio dolce)
limoni definite “cocchi” nelle ville del Lazio.
Oggi, purtroppo, in molti giardini di ville storiche
non rimangono che poche e sporadiche tracce di
queste collezioni e coltivazioni, che fino al XIX
secolo avevano avuto oltre ad uno scopo estetico ed
ornamentale anche uno sviluppo commerciale per la
vendita dei frutti.
Per proteggere gli agrumi coltivati in terra venivano
realizzate, a seconda delle zone, vari tipi di coperture, dai semplici cannucciati per proteggere le piante
dai venti gelidi, a tettoie di legno o alla costruzione
di veri e propri tetti, con ambienti riscaldati da stufe
a legna o da bracieri.
Per la coltivazione degli agrumi in vaso saranno realizzate, a partire dal XVII sec., le limonaie, ampi
locali luminosi con fondo in terra battuta, e nel caso
di giardini importanti le raffinate “orangerie”, ossia
edifici belli anche dal punto di vista architettonico.
La coltivazione degli agrumi, sia in terra che in
vaso, nel centro e nel nord Italia, non deve essere
ritenuta difficile o addirittura impossibile, conside-
rato che le piante di limone e di arancio si adattano
piuttosto bene anche a climi non proprio mediterranei o miti. L’importante è che le piante nel periodo
primaverile-estivo siano posizionate a sud, in pieno
sole, possibilmente riparate dai venti, e che nel
periodo più freddo, a seconda della zona, ad esempio se siamo nel nord Italia, cercheremo di coltivare
gli agrumi in vaso per poterli spostare e ricoverare
in locali adatti dall’autunno alla primavera inoltrata,
oppure, se nel centro Italia, gli agrumi potranno
essere coltivati anche in piena terra, vicino o al riparo di un muro, per essere protetti con materiali che
potranno essere di vario tipo (es.: cannucciati, tessuto non tessuto, materiale ligneo con vetri, policarbonato, ecc.).
Le piante si concimano verso la fine dell’inverno
con concimi organici a lenta cessione, si innaffiano
poco in inverno, onde evitare ristagni d’acqua o
marciumi radicali, e si effettuano ogni anno leggere
potature nel mese di maggio.
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Il restauro del giardino della Minerva, a Salerno
Enrico Auletta e Luciano Mauro - Paesaggisti AIAPP
La planimetria del giardino della Minerva
Tra il X e il XIV secolo, con la fortuna della Repubblica
d’Amalfi, il paesaggio costiero subisce una trasformazione radicale, conservata, nelle sue linee principali, sino
ad oggi. Nello stesso periodo la vicina Salerno, con il
consolidarsi dell’istituzione universitaria della Scuola
Medica ed il ruolo di capitale normanna (seconda metà
dell’XI secolo), si afferma quale polo di scambi culturali nell’ambito del bacino mediterraneo. Vi confluiscono,
mediate dalla cultura araba, le conoscenze mediche e
botaniche dei grandi autori antichi, dando nuovo impulso alle opere originali dei Maestri salernitani.
La Scuola Medica ha, così, la possibilità di conoscere,
coltivare ed usare nuovi semplici provenienti dall’Oriente e dal Nord Africa, ampliando il carattere sperimentale
del suo sapere e, non a caso, è qui che, a cavallo tra il
XIII ed il XIV secolo, nasce il primo Orto Botanico universitario. Lo fonda Matteo Silvatico, medico e botanico, che nelle sue Pandette descrive, su di un totale di
487, ben 67 vegetali di origine esotica.
Cultura e colture, mentre subiscono fortemente l’influenza
(...ed il fascino) del mondo arabo, riescono a rielaborarla e
12
sposarla con la grande tradizione classica, imprimendone
gli indelebili segni, oltre che nel patrimonio culturale, nella
fisicità del paesaggio. Non quindi in meri caratteri stilistici, più evidenti in luoghi di dominazione araba quali Sicilia
o Andalusia, ma più profondamente strutturali, definendo,
con la sintesi felice di “bello” e “utile”, quell’idea di “giardino mediterraneo”, inteso come agrumeto integrato da
specie orticole e ornamentali, coincidente con quella di
paesaggio mediterraneo antropizzato.
Ma è solo nel XIII secolo che la trasformazione del paesaggio costiero terrazzato si consolida e, se l’aspetto più
evidente è la diffusione di roseti, frutteti e agrumeti, è in
realtà nelle tecniche di irrigazione e coltivazione, nonché
nello sfruttamento intensivo del suolo, che più si manifesta l’influenza araba.
L’acqua viene captata a monte e canalizzata, per essere distribuita, attraverso una fitta rete di canali e acquedotti, a
cisterne e peschiere dimensionate sull’appezzamento da irrigare, a loro volta afferenti ai solchi di irrigazione, e, attraverso un “troppo pieno”, a vasche poste a livello più basso.
Con tali premesse l’influenza del paesaggio sulla nasci-
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ta del giardino più propriamente detto, terrazzato e cinto
d’ambiente mediterraneo, appare non solo evidente, ma
la sua genesi quasi spontanea. È significativo che il termine “giardino”, nell’accezione locale, non faccia differenza tra concetto utilitaristico - frutteto, orto - e quello
più propriamente estetico-contemplativo.
Terrazze, muri, scale, pergole, vasche e canali, l’apertura visiva sull’intorno, l’alternanza di luce ed ombra,
l’uso sapiente di materiali poveri derivanti dall’ambiente stesso, la ricca, colorata e profumata vegetazione
autoctona, in perfetta simbiosi con le forme, i colori e i
profumi di quella introdotta a fini utilitaristici, sono di
fatto gli stessi elementi che ne segneranno lo sviluppo
attraverso i secoli. Certo con cambi di gusto, con introduzione di nuove specie più propriamente decorative,
ma sempre fondandosi su quella struttura di base impressa indelebilmente nel paesaggio.
A cavallo delle mura medioevali di Salerno, stretto tra la
città antica e la recente espansione edilizia, si è miracolosamente conservato un pezzo di quel paesaggio storico, cinto e terrazzato, così tipico della costa amalfitana;
testimonianza compiuta di un sistema integrato, organico e funzionale, di sfruttamento del suolo a fini produttivi, ma anche della sua vocazione a farsi “giardino”.
Anche qui risulta essenziale la canalizzazione, la conservazione e la opportuna distribuzione delle acque sul terreno, che viene all’uopo modellato con una modesta
baulatura. Significativo l’uso del terrapieno del terrazzamento per la creazione di vasche d’acqua, dimensionate
sull’area da irrigare, situate in profonde nicchie: in tal
modo si ottiene l’effetto di ridurne l’evaporazione e di
non sprecare suolo prezioso.
Nel tempo, ai caratteri meramente funzionali, si aggiungono valenze decorative: le nicchie delle cisterne sono
rivestite da inserti di “schiuma di mare” e conchiglie, a
simulare grotte naturali, mentre il prospetto esterno
viene impreziosito da lesene e festoni; le scale di collegamento vengono coperte da eleganti pergole su pilastri
in opera; si aggiungono sedili e fondali a stucco o dipinti sui muri. Si crea il giardino. Esempio significativo di
tale organizzazione è il “giardino della Minerva”, sottoposto, di recente ad un profondo intervento di restauro.
Proprietaria di un terreno al di sotto del monastero di S.
Nicola della Palma, i cui confini sembrano proprio corrispondere, fu nel XII secolo la famiglia Silvatico; ciò
lascia con verosimiglianza presumere che Matteo fondasse, proprio in questi luoghi, il suo Orto Botanico,
primo nella storia del mondo occidentale. Oggi la proprietà è del Comune.
Il giardino si trova sull’asse di collegamento tra il castello di Arechi e il suo parco naturale, posto sul colle
Bonadies che sovrasta il centro antico, la zona del
Plaium montis, dove sono ubicati i grandi monasteri e
conventi nei quali si sviluppò la Scuola Medica, e la
Villa Comunale, esempio di collezione botanica in un
giardino ottocentesco a funzione pubblica.
È sicuramente il più interessante, tra gli orti cinti e terrazzati del centro antico, per i valori storico-artistici che
vi sono espressi, particolarmente una serie di elementi di
tipo sei-settecentesco. Il più caratterizzante è una lunga
scalea sottolineata da pilastri a pianta quadrata, con
decorazioni in stucco, che sorreggono una pergola
lignea. La scalea, costruita sulle mura medievali, collega
i diversi livelli del giardino e lo inquadra visivamente nel
contesto dell’ampio paesaggio, terminando in un terrazzo-belvedere. Ognuno dei sei terrazzamenti è arricchito
da vasche o fontane, fino ad arrivare ad una peschiera,
con zampilli e inquadrata da colonne, sul più basso e
vasto appezzamento. Una grande e composita fontana
d’impronta manierista, su di un terrazzo in linea con le
mura e di fianco ad un padiglione aperto con arcate, è l’ideale continuazione della sistemazione su diversi piani.
Gli stessi elementi stilistici si ritrovano, pur meno evidenti, anche all’interno dei giardini confinanti: il giardino della Cera, di S.Leo, di villa Avenia, ecc., documentando, in ambiente urbano, l’evoluzione storica verso
una funzione più aulica, ma senza l’abbandono dei
caratteri originali. Tutta l’area, pur manifestando ancora
grande vitalità nella conservazione del sistema produttivo, presenta un notevole livello di degrado e necessita di
un recupero generalizzato e mirato.
Nel 1991, durante il simposio dal titolo “Pensare il giardino”, fu presentato uno studio di fattibilità relativo
all’intera area, dalla Villa Comunale al Castello, da strutturarsi quale parco botanico-paesaggistico. La proposta,
che prevedeva anche interventi di rivitalizzazione di tipo
La terrazza più bassa con la scalea ed il belvedere pergolato
La terrazza più alta con la pergola e la spalliera dei cedri
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La fontana del mascherone con la Colocasia antiquorum
urbanistico, quali un parcheggio interrato, una stazione
metropolitana, collegamenti verticali, fu in parte finanziata, con fondi europei, nell’ambito del programma “Urban”.
Allo stato si è già restaurata la Villa Comunale, ripristinata l’illuminazione sui percorsi storici, è in atto il recupero
dell’ex monastero di S. Nicola della Palma, sono partiti i
lavori della metropolitana ed è stata completata la prima, e
più importante, fase di restauro del giardino della Minerva.
Dato l’avanzato stato di degrado del giardino, il progetto
di restauro, improntato a caratteri di flessibilità e genericità, è stato considerato come un canovaccio, da modificare
a seconda dei risultati delle indagini in corso d’opera, tese
ad individuarne i caratteri stilistici, formali e tecnici.
Il restauro, oltre a porsi lo scopo del recupero puntuale
della fase architettonica più evidente, ha mirato, attraver-
Le due terrazze inferiori con la peschiera
so le tecniche archeologiche, e particolarmente di archeologia dei giardini, alla investigazione degli strati e dei
livelli più profondi, con una speciale attenzione al sistema delle acque, rilevando una complessa stratificazione.
FLORA PRIVATA DELLA MINERVA
Il recupero del Giardino ha avuto una lunga gestazione, durata più di 15 anni. Da quando una mattina, increduli, penetrammo all’interno di quel piccolo lembo di paradiso, posto in via Ferrante Sanseverino, accolti con grande affetto da “don”
Antonio Pierro (un “don” usato per sottolineare la nostra stima nei nostri confronti), ignaro che quella visita, tanto gradita, avrebbe significato di lì a qualche anno la perdita del dominio sul luogo.
Era un magnifico orto mediterraneo, lussureggiante di tutte le possibili varianti vegetali: dal banano al pomodorino vesuviano, dalle viti “pizzutella” e “sanginella” alle fragoline di bosco. Un trionfo della varietà e dell’utilità, un vero e proprio
archetipo del giardino mediterraneo. Per noi, che in quei giorni eravamo alla ricerca del luogo dove poter ubicare un Orto
Botanico dedicato alla memoria di Matteo Silvatico, la visione di quelle mura antiche, di quelle pergole romanticamente
sconnesse, di tutta quell’abbondanza d’acqua a stento contenuta in peschiere oramai decrepite, era la più evidente delle conferme che solo quello poteva essere il Luogo. Lì certamente riposava lo spirito botanico del Grande Salernitano. Certo, solo
una sensazione, ma che divenne poi certezza salendo la prima rampa di scale: di fronte a noi - parzialmente nascosto da un
filare di piselli - apparve il più bell’esemplare di Colocasia mai visto prima, che soavemente sorgeva da una graziosa fonte
ornata da un mascherone in marmo raffigurante la Gorgone. Che incanto! Proprio come la Colocasia descritta nel capitolo
delle Pandette da Matteo Silvatico “ [...] Et ego ispam (culcasiam) habeo Salerni in viridario meo, secus spectabilem fontem
[...]”. Una sensazione che poi negli anni ci fu confermata dal lavoro di ricerca archivistico svolto da Paola Valitutti e Sergio
Marino: effettivamente quel giardino era stato, nel dodicesimo secolo una delle proprietà della famiglia Silvatico.
Tante sono poi le cose accadute, fino ad arrivare ai giorni nostri, con l’avvio di una gestione attenta alla rivalutazione del
luogo quale spazio dedicato alla memoria della tradizione botanica della Scuola Medica salernitana. Permane, comunque,
fortissima, nella nostra mente, la sensazione che è il Giardino ad aver sempre accompagnato tutte queste nostre “scoperte”.
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La fontana a nicchia con la scalea pergolata
L’intenzione di collocarvi la collezione botanica delle
specie medicinali descritte da Matteo Silvatico, ha trovato conforto, per la sua organizzazione, nella restituzione dei livelli settecenteschi delle aree di coltivazione e
dei percorsi. Il recupero dell’architettura, e delle architetture (fontane, pergole, sedili) è andato di pari passo
con la ricerca di conservazione dell’immagine paesaggistica e vegetazionale dell’orto-giardino. Se l’ordinamento delle specie erbacee nelle aiole è stato improntato ai
concetti di classificazione della botanica medievale, quel-
le arbustive ed arboree sono state distribuite con l’intento di rimarcare la struttura del giardino, integrandosi alle
specie preesistenti cronologicamente compatibili.
Si è così voluto perseguire lo scopo di ridare fisicità
all’idea del primo Orto Botanico, collocandolo nel luogo
dove era nato, senza negare l’evoluzione e la stratificazione storica del luogo stesso: la riproposizione della
collezione botanica del Silvatico all’interno del giardino
della Minerva, con i suoi caratteri formali e vegetazionali in condizioni di apprezzabile completezza.
Bibliografia
• Auletta E., Mauro L. Influenze arabo-persiane sul giardino occidentale: tra esperidi e semplici, la nascita del primo Orto
Botanico. (da “Giardini per il terzo millennio. Dal Giardino dell’Eden al Paradiso Urbano” atti della Conferenza Internazionale
di Assisi ottobre 1998), centro Stampa dell’Università degli Studi di Perugia, Perugia 2000;
• Auletta E., Mauro L., Salerno: l’antico Orto della Scuola Medica, (da “Paesaggi e Giardini del Mediterraneo” atti del
Convegno Internazionale di Pompei giugno 1993), GRG Tipolitografica srl, Salerno 1993;
• Auletta E., Mauro L., Il giardino e Salerno: alla ricerca del genius loci, Apollo (Bollettino dei Musei Provinciali del
Salernitano) vol. X, Electa, Napoli 1994;
• Cifelli F., Valitutti P., Vitolo S., Marino S., Il sistema delle acque tra giardini balnea e residenze nella Salerno medievale, (da
“Paesaggi e Giardini del Mediterraneo” atti del Convegno Internazionale di Pompei, giugno 1993), GRG Tipolitografica srl,
Salerno 1993;
• Capone P., Lanzara P., Venturi Ferriolo M. (a cura di), Pensare il giardino, Guerini e Associati, Milano 1992;
• Citarella A.O., Il commercio di Amalfi nell’Alto Medioevo, Collana storica a cura del Centro «Raffale Guariglia» di studi salernitani, Grafikart, Salerno 1977;
• Del Treppo M., Leone A., Amalfi medioevale, Giannini Editore, Napoli 1977;
• Sereni E., Storia del paesaggio agrario italiano, Editori Laterza, Bari 1991;
• Venturi Ferriolo M. (a cura di), Mater Herbarum. Fonti e tradizione del giardino dei semplici della Scuola Medica
Salernitana, Guerini e Associati, Milano 1995.
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Parco Savello all’Aventino
detto Giardino degli aranci1
di Massimo de Vico Fallani
Tratto da: Massimo de Vico Fallani, Raffaele de Vico e i Giardini di Roma, prefazione di Isa Belli Barsali, Firenze, Sansoni,
1985, p. 113: Parco Savello all’Aventino - 1932.
Il Giardino degli aranci
Scheda descrittiva:
L’area, di forma rettangolare, estesa circa un ettaro, è
quella dell’antico castello dei Savelli, ereditato da
Ottone III dopo il 1000, caratterizzata dalla presenza
della mole absidale di Santa Sabina oltre che dal contrasto tra lo spazio recinto dalle vecchie mura e la veduta
della zona nord-ovest di Roma con l’ansa del Tevere in
primo piano e, sullo sfondo, San Pietro.
De Vico si valse della situazione dei luoghi disegnando
un impianto simmetrico che ha come uniche eccezioni
l’ingresso principale (sulla sinistra verso piazza Pietro
d’Illiria2) e la fontana (proveniente dalla scomparsa
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piazza Montanara) spostata a destra della visuale maggiore.
La dilatazione centrale, definita dai pini e dalla disposizione a filari concentrici degli alberi d’arancio selvatico,
sottolinea la centralità dello spazio esaltando il valore
spettacolare del belvedere su Roma, incorniciato lungo
l’asse prospettico dalla nota cromatica dei cespugli di
oleandro posti in vaso su basi di travertino. La posizione
decentrata dell’ingresso su piazza San Pietro d’Illiria fu
scelta da Raffaele de Vico perché rimandando di un
breve intervallo di tempo l’inquadratura prospettica del
belvedere, attenuava la rigidezza della simmetria,
aumentando il valore suggestivo della veduta3.
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Scheda critica:
Il Parco Savello, più noto come Giardino degli Aranci,
inaugura uno degli schemi compositivi cari a de Vico,
più tardi riprodotto nei giardini degli ulivi all’EUR. È il
tema della figura curva e del suo rapporto con il paesaggio; la forma circolare, qui dilatata in un ovale, si incardina nello spazio rettangolare definito dalle mura della
cinta Savella, e la veduta di San Pietro si pone come
punto di vista prospettico di sfondo che caratterizza il
quadro. Quest’area pertanto rientra nel tipo di giardino
ad asse orientato con verso determinato dalla veduta; il
doppio giro di aranci amari, a scala ridotta, richiama le
esedre arboree di piazza Venezia e, ancor precedente,
l’ampio respiro del Monumento Ossario dei Caduti della
Grande Guerra al Verano, sempre del de Vico: la veduta
lontana attrae l’occhio e la successione del percorso che
restringe-dilata-restringe lo spazio prepara alla suggestione del belvedere sul Tevere. Nonostante una porticina aperta nelle mura in allineamento con l’asse longitudinale confermi il rispetto per la legge prospettica dominante, l’ingresso principale affaccia invece su piazza San
Pietro d’Illiria, decorato dal portale qui ricostruito della
villa Balestra. Sulla sinistra dell’ingresso si nota la composizione a fontana con una vasca di granito romana
dominata dal mascherone dell’Acqua Lancisiana, rimontato qui dopo gli anni dell’abbandono nei magazzini
comunali seguiti all’asportazione dal luogo di origine
nel lungotevere all’epoca dei muraglioni4. L’acqua che
tracima dalla vasca viene raccolta in basso in un piatto
delimitato da ciglio in travertino a profilo stondato e
rivestito da un mosaico rustico di marmi policromi.
Anche in assenza di testimonianze riguardo le intenzioni
progettuali del de Vico, si osserva che l’ubicazione laterale dell’ingresso costituisce un incremento dell’effetto
finale: il portale, grazie alla sua importanza dimensionale ed estetica, marca con evidenza il momento dell’in-
Fontana del Mascherone di Santa Sabina
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Veduta del Tevere dal giardino degli aranci
gresso, ma essendo disposto trasversalmente all’asse
longitudinale ed affiancato sulla sinistra per quasi quindici metri da un muro, delude momentaneamente la
legittima aspettativa della prospettiva creando così le
condizioni per il maggiore effetto finale. A questa non
ortodossa soluzione d’ingresso corrisponde, sul lato di
fondo verso il Tevere, una doppia uscita dal giardino: a
destra, con un arco che rimanda alla rampa esterna, e
sulla sinistra con una scala che per mezzo di diverse
giravolte riporta in basso a livello del Lungotevere.
La dimensione del linguaggio è quella della semplicità,
nella quale spesso consiste la bellezza, che qui si invera
mantenendosi vivida nella successione concatenata di
livelli che va dall’idea compositiva, allo sviluppo del
disegno d’insieme, ai dettagli. In questa creazione di de
Vico tale successione è tenuta sempre sotto controllo e
costituisce uno dei punti di forza del disegno. De Vico,
analizzando il sito, aveva apprezzato il prevalente valore della preesistenza storica rappresentata dalle mura e di
quella – protagonista – della veduta di Roma. Unica concessione alla decorazione, i basamenti con vasi di oleandro, tuttavia di disegno semplice e motivati dalla necessità di accentuare l’asse principale. Un atteggiamento di
rispetto per il dato reale che era caratteristico di de Vico,
come lo troviamo già manifestato in un articolo del 10
marzo 1934 rilasciato al “Giornale d’Italia”; interrogato
sui criteri progettuali assunti per il progetto di Villa
Paganini, de Vico rispondeva: “[Le strade del parco]
saranno quelle esistenti … quali migliori vie di quei
magnifici viali già tracciati che conviene soltanto liberare dalle erbacce, ripulire, inghiaiare?”.
Negli anni passati questo giardino ha dovuto subire le
conseguenze di una smemorizzazione del valore oggettivo che ne ha causato il veloce degrado. Nel suo
Catechismo il Dvorak ricorda che: “… accanto alla
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Scorcio del Giardino degli aranci
Ingresso principale
distruzione sciocca o malvagia, anche la trascuratezza
indolente è sempre più spesso causa di gravissimi danni
al patrimonio monumentale …”5. Testimoni di tale
degrado i cigli squadrati di travertino posti a delimita-
zione delle aiuole, invece dell’originale sistema con pioletti di castagno e filo di ferro, i sedili e le copertine del
parapetto spezzati, il fondo dei viali deformato e privo di
manto ghiaioso, la scomparsa delle spalliere di rose, la
depauperazione delle alberature in pessime condizioni
fitosanitarie. Quindi più che di restauro si può parlare di
interventi di manutenzione straordinaria e, poi, di una
gestione futura che insieme ad un uso appropriato ne
garantisca la necessaria manutenzione.
1Sono
esemplari di Citrus aurantium volgarmente noto come arancio amaro o melangolo. L’idea di caratterizzare in maniera
così identificativa il giardino si deve probabilmente al vicino monastero domenicano di santa Sabina, dove esisteva un famoso
albero di questa specie, come ricorda Alberto Manodori (Alberi romani, in AA. VV., “De Arbore”, Catalogo della mostra omonima collegata alla Giornata mondiale dell’Alimentazione, Gaetagrafiche s.r.l., Gaeta, 1991) p.762: “…Ancor più famoso è il
melangolo che raggiunse ben sei metri di altezza che S. Domenico di Guzman piantò presso S. Sabina sull’Aventino. I frutti
dell’albero, una volta canditi, venivano offerti ai papi e ai cardinali durante la visita che questi vi facevano al mercoledì delle
Ceneri. Le foglie venivano invece raccolte dai pellegrini e conservate fra le pagine dei loro Baedeker”.
2
Questo ingresso venne decorato sovrapponendovi nel 1937 il portale della distrutta Villa Balestra (sulla via Flaminia) sulla
cui area, nel ‘51, venne realizzato un giardino pubblico.
3 Quest’impostazione trovò contrario Eugenio Marignani, che, su “Capitolium” (a. VIII, n.5, maggio 1932, p. 226), così riporta: “al primo sguardo di sull’ingresso ci fermate un po’ contrariati: perchè mai il cancello non è in asse col viale mediano del
giardino? In un giardino così piccolo la stranezza ci colpisce come una concordanza”.
4
Cfr.: Fontana del Mascherone di Santa Sabina, in: A. Candelori, D. Somigli, Le Fontane di Roma, Roma Colonna Editori,
1986, p.96. È il mascherone scolpito da Matteo Bartolani, che, voluto da Giacomo della Porta, adornava la fontana di Campo
Vaccino. Successivamente, su idea di Carlo Fontana, venne smontato e tardivamente ricollocato (1815) sul lungotevere di fronte a san Giovanni dei Fiorentini. Smontato ancora nel 1890 come detto per la costruzione dei muraglioni rimase nei magazzini
comunali fino al 1936, quando lo si riutilizzò per la presente collocazione.
5
M. Dvorak, Catechismo per la tutela dei monumenti (1916) in “Paragone”, XXII (1971), n. 257, pp.28-63.
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