Le motivazioni connesse ad un`autentica educazione alla
Transcript
Le motivazioni connesse ad un`autentica educazione alla
Le motivazioni connesse ad un’autentica educazione alla convivenza civile nella scuola. a cura Prof. Adriana De Francisci, Dirigente Scolastico I.C. Giovanni XXIII Terni IL Decreto Legislativo 19 febbraio 2004, n. 59, all’art. 5, ponendo le Finalità della scuola primaria detta : “La scuola primaria …. ha il fine ……..di educare ai principi fondamentali della convivenza civile”. Nelle Indicazioni Nazionali per i Piani di studio Personalizzati nella Scuola Primaria e nelle Indicazioni per la secondaria di 1^ grado, un paragrafo viene riservato agli “Obiettivi specifici di apprendimento per l’educazione alla convivenza civile:educazione alla cittadinanza, stradale,ambientale, alla salute, alimentare e all’affettività”. “Entro il termine della classe quinta [terza ], la scuola ha organizzato per lo studente attività educative e didattiche unitarie che hanno avuto lo scopo di aiutarlo a trasformare in competenze personali le seguenti conoscenze e abilità:…” . Non si tratta dunque di una nuova disciplina: l’educazione alla convivenza civile, con tutte le sue articolazioni, si presenta come il fine ultimo di tutto il percorso educativo degli allievi. Ma quali sono le motivazioni per l’introduzione nella scuola della “educazione alla convivenza civile”? che rapporto ha con l’educazione civica? IL QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO: ⇒ Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo» (O.N.U., 1948). ⇒ Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» - Consiglio d’Europa (1950). ⇒ Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale – 1965 (ratificata dall’Italia nel 1976) ⇒ Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali - 1978 Conferenza generale dell’UNESCO ⇒ Documento del Consiglio d’Europa sull’insegnamento e l’apprendimento dei diritti umani nelle scuole (adottato dal Comitato dei ministri il 14 maggio 1985) ⇒ Dichiarazione sull’educazione alla pace, ai diritti dell’uomo e alla democrazia » (c.d. «Dichiarazione di Ginevra»), seguita da un «Quadro d’azione». 1994 - Conferenza generale dell’UNESCO ⇒ Il Decennio per l’educazione ai diritti umani 1995-2004 ⇒ «Dichiarazione di principi sulla tolleranza» - Conferenza generale dell’UNESCO 1995 (in coincidenza con l’«Anno internazionale della tolleranza», proclamato dall’O.N.U.) ⇒ Conferenza dei Ministri dell’istruzione degli Stati membri dell’Unione europea - Varsavia 20 - 22 aprile 1997 Il concetto di “educazione” trova il suo primario riferimento valoriale nella «Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo» (O.N.U., 1948). Infatti, la proclamazione dei «diritti», sottende, nei suoi principi ispiratori, i «valori» di 1 libertà, uguaglianza, giustizia, equità, solidarietà, dignità della persona, rispetto reciproco. Si è rilevato che la «Dichiarazione» rappresenta un fatto nuovo nella storia, in quanto per la prima volta un sistema di principi fondamentali è stato liberamente ed espressamente accettato, attraverso i loro rispettivi Governi, dalla maggiore parte degli uomini viventi sulla terra.Le radici dei pronunciamenti e dell’impegno degli organismi internazionali nel campo dell’educazione sono già tutti presenti nella Dichiarazione universale dei diritti umani. In essa si legge: «L’Assemblea generale dell’ONU proclama la presente Dichiarazione...come ideale da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne... l’universale ed effettivo riconoscimento...». Si riportano di seguito alcuni dei 30 articoli della Dichiarazione su cui riflettere e far riflettere alla luce dei tragici avvenimenti di questi ultimi anni: Articolo 3 Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona. Articolo 5 Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti. Articolo 25 1. Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; …. L’articolo 26 dispone inoltre che «1. Ogni individuo ha diritto all’educazione. ... 2. L’educazione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace». La Dichiarazione dell’O.N.U. trova corrispondenza nella «Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», promossa dal Consiglio d’Europa (1950). Con riferimento a questi testi, le Organizzazioni internazionali, e in particolare l’O.N.U., l’UNESCO e il Consiglio d’Europa da tempo invitano i Paesi membri a introdurre nelle loro scuole l’educazione ai diritti umani. La sollecitazione si è fatta più pressante a seguito della proclamazione del Decennio dei diritti umani (1995-2004) e in occasione del cinquantennale della Dichiarazione del 1948. LE «EDUCAZIONI» NEI DOCUMENTI INTERNAZIONALI La Dichiarazione dei diritti dell’uomo è stata seguita presso l’O.N.U. e presso l’UNESCO (come istituzione specializzata dell’O.N.U. per i settori della educazione, della scienza e della cultura) da una serie di dichiarazioni e documenti che ne hanno sviluppato i principi. 2 Con riferimento al principio di uguaglianza, una serie di testi si è pronunciata contro le varie forme di discriminazione (razziale, religiosa, nei confronti della donna, etc.). La Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (1965) è stata ratificata dall’Italia nel 1976 e pertanto costituisce un nostro impegno vincolante. In particolare, all’art. 7 le Parti si impegnano ad adottare immediate ed efficaci misure, in particolare nei campi dell’insegnamento, dell’educazione, della cultura e dell’informazione, per lottare contro i pregiudizi che portano alla discriminazione razziale e a favorire la comprensione, la tolleranza e l’amicizia tra le nazioni ed i gruppi razziali ed etnici. Questa convenzione definisce quindi l’educazione ai diritti umani come un obiettivo immediato e costituisce un preciso impegno da parte degli Stati aderenti, impegno la cui attuazione è verificata a livello internazionale da parte di un apposito Comitato (art. 8 della Convenzione) sulla base dell’analisi di rapporti periodici presentati dai singoli Stati. Nell’anno 1978 la Conferenza generale dell’UNESCO ha prodotto una «Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali» che ha assunto rilevanza storica. Nel testo il concetto di razza non appare scontato, ma è riferito ai pregiudizi e alle tesi razziste. Il preambolo riconosce nella comunità internazionale «un insieme universale, ma diversificato» e rileva che «tutti i popoli e tutti i gruppi umani, quale che sia la loro composizione o la loro origine etnica, contribuiscono secondo il loro proprio genio al progresso delle civiltà e delle culture, che nella loro pluralità e grazie alla loro interpenetrazione costituiscono il patrimonio comune dell’umanità». Sono qui da sottolineare l’introduzione del concetto di etnia, in luogo del concetto di razza e l’affermazione del valore positivo dell’incontro tra culture diverse. Nell’anno 1994 la Conferenza generale dell’UNESCO ha emesso una «Dichiarazione sull’educazione alla pace, ai diritti dell’uomo e alla democrazia» (c.d. «Dichiarazione di Ginevra»), seguita da un «Quadro d’azione». In quest’ultimo testo si afferma, tra l’altro, che «l’educazione deve sviluppare la capacità di riconoscere e di accettare i valori che esistono nella diversità degli individui, dei sessi, dei popoli, delle culture, e di sviluppare la capacità di comunicare, condividere e cooperare con l’altro>>. I cittadini di una società pluralista e di un mondo multiculturale dovrebbero essere in grado di ammettere che la loro interpretazione delle situazioni e dei problemi deriva dalla vita personale, dalla storia della loro società e dalle loro tradizioni culturali e che, in conseguenza, nessun individuo o gruppo detiene la risposta unica ai problemi e che, per ciascun problema, può esistere più di una soluzione. Essi dovranno, dunque, comprendersi e rispettarsi gli uni con gli altri e negoziare su un piede di eguaglianza in vista della ricerca di un terreno d’intesa. Così l’educazione deve riformare l’identità personale e favorire la convergenza di idee e soluzioni che rafforzano la pace, l’amicizia e la fraternità tra gli individui,l’individuazione dei valori universali con il riconoscimento dei valori dei singoli individui e delle singole culture, in una prospettiva relativista, per la quale nessun individuo o gruppo detiene la risposta unica ai problemi. Nell’anno 1995 la Conferenza generale dell’UNESCO ha prodotto una 3 «Dichiarazione di principi sulla tolleranza» in coincidenza con l’«Anno internazionale della tolleranza», proclamato dall’O.N.U. La Dichiarazione investe il termine «tolleranza», contestato da alcuni, in quanto sembra esprimere un atteggiamento di superiorità e di sopportazione nei confronti dell’inferiore e contenere, quindi, il germe dell’intolleranza. In realtà, il testo si presenta come sviluppo dell’art. 26 della Carta delle Nazioni Unite (che menziona, appunto, la tolleranza) e attribuisce a questa nozione una portata assai più ampia rispetto all’interpretazione strettamente letterale del termine. L’art. 1 afferma, infatti: «La tolleranza è il rispetto, l’accettazione e l’apprezzamento della ricchezza e della diversità delle culture del nostro mondo, dei nostri modi di espressione e delle nostre maniere di esprimere la nostra qualità di essere umani… La tolleranza non è né concessione, né condiscendenza, né compiacenza. La tolleranza è, prima di tutto, un atteggiamento attivo animato dal riconoscimento dei diritti universali della persona umana e delle libertà fondamentali degli altri… Essa implica il rifiuto del dogmatismo e dell’assolutismo». I successivi articoli rilevano che «è essenziale per l’armonia internazionale che gli individui, le comunità e le nazioni rispettino il carattere multiculturale della famiglia umana» e sollecitano «la promozione e l’apprendimento dell’apertura di spirito, dell’ascolto reciproco e della solidarietà». Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha anche emesso nel 1985 una Raccomandazione su «Insegnamento e apprendimento dei diritti umani nelle scuole», tuttora valida. L’invito viene accolto in misura e con modalità diverse in ciascun Paese, ferma restando una propensione diffusa a valorizzare, in ambito nazionale, l’educazione civica. Questo approccio educativo richiama, nella denominazione stessa, il concetto di «cittadinanza» e implica la promozione della convivenza democratica tra cittadini, sulla base della Costituzione e dei principi fondamentali di ciascun ordinamento. Il tema della convivenza internazionale e i principi dei diritti umani non sono di certo esclusi, risultando, di regola, contemplati dalle Costituzioni stesse: in un’ottica allargata, si parla infatti, di formazione dell’uomo e del cittadino. Tuttavia la nozione di cittadinanza in senso stretto risulta di per sé separante, recando la distinzione tra i cittadini e coloro che cittadini non sono, cioè gli stranieri. La riflessione sulla «società multiculturale», che si è sviluppata in questi ultimi decenni, ha aperto una nuova prospettiva, che investe la nozione di cittadinanza. Si è affermato così il concetto dell’«appartenenza multi-scalare di ciascun individuo, secondo i livelli mondiale, continentale, nazionale, regionale e locale, cui corrisponde, almeno sul piano culturale, la nozione di «cittadinanza plurima». Posso essere milanese, avvertire la mia appartenenza alla cultura lombarda, riconoscermi come italiano e sentirmi ad un tempo cittadino dell’Europa e del Mondo. Il documento introduttivo della Conferenza dei Ministri dell’istruzione degli Stati membri dell’Unione europea, svoltosi a Varsavia dal 20 al 22 aprile 1997, afferma che «l’istruzione europea, per essere tale, deve essere necessariamente interculturale e aperta: unendo identità e differenza e accettando con coraggio le molteplici appartenenze della cittadinanza contemporanea». 4 Questo il quadro normativo generale, ma vi sono anche ragioni sociali e culturali che impongono una rinnovata attenzione verso i fondamenti della convivenza civile. Ognuno di noi avverte, nelle dinamiche del vivere insieme, un deficit che non è solo di buona educazione, ma di rispetto di se stessi, degli altri, dell’ambiente, di attenzione per la propria salute e per il bene comune, in altre parole, amore per la vita.Tale deficit, di cui l’opinione pubblica fa anche carico alla scuola, è stato prodotto da diversi fattori sociali, riconoscibili sia nei complessi mutamenti derivanti dagli effetti della modernità, sia anche nella crescente difficoltà e, talvolta, incapacità della famiglia di mantenere il proprio tradizionale ruolo etico-educativo e culturale-educativo. I figli imparano comportamenti e valori e sviluppano affettività sia attraverso l’amore e la cura che ricevono dai genitori, sia dall’esempio e dalla pratica delle regole con cui si confrontano. Ma la famiglia, fra le altre agenzie formative,è entrata in crisi ed è cambiata senz’altro più della scuola, per ragioni prevalentemente socio-economiche. Sulla sua ricchezza educativa e formativa ha inciso profondamente la crescente pressione del lavoro: orari, ritmi, ansia di perderlo, competitività, da cui scaturiscono deprivazione di tradizioni, disaggregazione, contrazione e sottrazione di tempi e di persone alle risorse familiari (lavoro femminile) e perdita dei rapporti affettivi, fino a menomare la stessa relazione genitori-figli. L'esperienza quotidiana fa rilevare come, sempre più spesso, i genitori siano in pratica assenti dalla vita affettiva e relazionale dei figli, spesso per motivi di lavoro o per il bisogno di realizzarsi, professionalmente e socialmente, fuori dell'ambito familiare. Le situazioni conflittuali all'interno delle famiglie sembrano moltiplicarsi e, sempre più frequentemente, sfociano in separazioni o divorzi. L’ostilità e le tensioni emotive presenti in ambito familiare, sempre più spesso sono proiettate sulla parte più indifesa, i figli, usati in modo strumentale e ricattatorio. La tradizionale famiglia patriarcale, costituita com’era da diverse generazioni, spesso conviventi, rappresentava un ambiente sociale privilegiato, in cui le esigenze dell'individuo e, soprattutto, della prole, trovavano ascolto. La famiglia rappresentava, in altre parole, il sistema sociale principale, con valenze non solo di sostegno e di solidarietà ma anche l’ambiente privilegiato della trasmissione d’esperienze tra generazioni, con chiare valenze educative e culturali. L'attuale famiglia nucleare non solo ha perso gran parte di queste funzioni educative, ma spesso non riesce a fornire neanche un adeguato sostegno emotivo ed affettivo verso i figli. A volte per il bisogno di realizzarsi, in campo professionale e sociale, ma, sempre più spesso, per obiettive necessità economiche, entrambi i genitori si allontanano dall'ambito familiare, per svolgere un’attività lavorativa, per un lungo lasso di tempo nell'arco della giornata. In questo contesto, i bambini, sempre più frequentemente, sono affidati ad asili nido, a scuole materne, ad altre istituzioni d’assistenza all'infanzia, oppure a giovani “baby-sitters” occasionali, spesso inesperte e demotivate. Man mano che il bambino cresce sempre più spesso viene a trovarsi solo con se stesso, spesso abbandonato per molte ore senza custodia, davanti al televisore, le cui trasmissioni sono non sempre educative ed adatte all'infanzia, oppure aggregato a gruppi di coetanei, non sempre adeguatamente coinvolti in attività istruttive e/o ricreative. Il Ministero di 5 Grazia e Giustizia italiano ha rilevato che: il numero di ragazzi al disotto dei quattordici anni, denunciati all’autorità giudiziaria, è raddoppiato tra il 1989 ed il 1991; l’età di primo contatto e d’uso personale di stupefacenti sì è sensibilmente abbassata, soprattutto per il sesso femminile; lo spaccio di droga è sempre più frequentemente gestito da minorenni; il numero di minorenni assassini è passato da 41 nel 1990 a 56 nel 1991. Alla base di questa situazione complessiva si può riconoscere nella nostra società un ridotto impegno educativo degli adulti, in ambito familiare, ma anche nel contesto scolastico. Recenti osservazioni confermano, infatti, che le leggi dell'obbligo scolastico sono spesso eluse. I modelli comportamentali degli adolescenti mutuati, sempre più spesso, dai mezzi di comunicazione di massa, s’ispirano a giovani adulti "rampanti", arrivati rapidamente a posizioni di privilegio economico, attraverso vie spesso illegali e perseguite senza scrupoli. Il vero valore, che viene costantemente ed insistentemente introiettato, attraverso migliaia di spot pubblicitari, è la ricerca del piacere individuale, esclusivo, proprio delle classi più agiate, da perseguire con tutti i mezzi. Sempre più spesso, in ambito familiare, manca nei confronti della prole un investimento affettivo privilegiato, ma anche, nel contesto sociale ed istituzionale, un chiaro progetto d’educazione dell'infanzia e dell'adolescenza. La molteplicità delle situazioni cui si è fatto cenno spiegano almeno in parte le anomalie comportamentali sempre più spesso espresse da adolescenti e giovani. E' sempre più frequente imbattersi in giovani ben cresciuti, ma non ancora maturi emotivamente, sportivi, sani, vestiti con indumenti firmati, ma senza ideali, senza obiettivi di vita, insoddisfatti, annoiati. Gli adolescenti si ritrovano troppo frequentemente senza figure parentali con cui confrontarsi, cui chiedere conforto ed aiuto nell'affrontare la difficile stagione delle scelte di vita. Talora, l'adolescenza si prolunga sul piano emotivo, relazionale e sociale, per molti anni. Il giovane continua, cosi, a dipendere totalmente dalla famiglia di origine, spesso mal tollerata e tiranneggiata con richieste assurde. Il sottile e pervasivo senso di colpa, avvertito più o meno consciamente da genitori lontani e distratti, legato al sempre minore legame affettivo, stabilitosi negli anni con i figli, spesso si traduce in una gran disponibilità a fornire i tanti surrogati d’affetto, offerti dalla società dei consumi, sotto forma d’oggetti del desiderio, dal giocattolo costoso ed esclusivo per il bambino, all'auto sportiva e potente, per il giovane. Purtroppo nessun oggetto, per quanto costoso, può sostituire un sincero rapporto d'affetto, né può riempire il vuoto creato dal mancato sostegno emotivo, in situazioni difficili sul piano psicologico, soprattutto in un’età critica, come quella adolescenziale. Anche la scuola, seconda agenzia formativa, è diventata conteiner-bersaglio di ogni critica sulla mancanza di etica, cultura, capacità di reperire lavoro sul mercato. Le accuse che più frequentemente vengono fatte alla scuola sono che non sempre è attrezzata per combattere il fenomeno dell'evasione scolastica e che spesso non prepara per il lavoro. Tutto ciò si accompagna ad un susseguirsi, sempre più frequente, di episodi che ci agghiacciano, episodi che danno il segnale di sgretolamento del connettivo sociale, una volta educante, e di perdita di senso della vita, e della stessa morte. Ne sono vittima innanzitutto i minori, molto spesso soli e privi di relazioni educative e formative, 6 scarsamente considerati per le persone che sono, consumatori di mode e modelli, ‘periferici’, ‘espulsi’. E' un dato di fatto che sono sempre più frequenti, tra gli adolescenti, quei comportamenti che la letteratura specialistica definisce «a rischio» in quanto causa, in modo diretto o indiretto, di danno alla loro salute e/o vita: dai comportamenti autolesivi (suicidio e tentativi di suicidio, tossicomanie) alle conseguenze di un'attività sessuale precoce e promiscua (malattie a trasmissione sessuale, aborti), dai comportamenti alimentari abnormi (anoressia, bulimia) alla morte «da divertimento» (le stragi del sabato sera, la violenza agita e subita nello sport). Uno dei termometri più efficienti nella valutazione del disagio adolescenziale è ricavabile dal “Rapporto supplementare alle Nazioni Unite di Telefono Azzurro per la Convenzione dei Diritti del fanciullo”del 2002. Da questo rapporto si ricava che nel 2001 le consulenze telefoniche, su casi con problematiche rilevanti riguardanti gli adolescenti, richieste a Telefono Azzurro sono state 2.740. Le tematiche segnalate sono state: problemi relazionali con coetanei, difficoltà in ambito scolastico, fughe da casa, interruzioni di gravidanza, problematiche relative all'uso di stupefacenti e, da ultimo, intenzioni di suicidio. Se si vuole analizzare il problema da un'ottica relativa all'età, si scopre che l'età a rischio è proprio quella che va dai dodici ai quattordici anni. In particolare, il 24% delle chiamate è effettuato da quattordicenni. Le richieste di aiuto telefonico a Telefono Azzurro sono una testimonianza evidente di un fenomeno che sta emergendo, in modo sempre più rilevante, arrivando a diventare, nei paesi occidentali industrializzati, una vera patologia sociale. Le espressioni del disagio adolescenziale sono riconducibili a: • Comportamenti violenti • Fenomeni di bullismo • Dipendenze • Fughe da casa • Suicidio • Tentativi di suicidio (dimostrativi) • Fenomeni di autolesionismo • Disturbi dell'alimentazione Fenomeni satellite e sequenziali sono la dispersione scolastica, la delinquenza minorile, il consumo e l'abuso di alcool e sostanze stupefacenti, le interruzioni di gravidanza in età adolescenziale, l'abuso sessuale nei minori. COMPORTAMENTI VIOLENTI e BULLISMO Come ignorare che anche a scuola, non di rado, si consumano violenze grandi e piccole, minacciate o praticate? E la violenza lungi dall’essere solo individuale, produce identificazione con un ruolo nella sottocultura del gruppo dei coetanei. Un comportamento da bullo è un tipo di azione che mira deliberatamente a ferire; spesso è persistente, talvolta dura per settimane, mesi e persino anni ed è difficile per coloro che ne sono vittime difendersi. Alla base della maggior parte dei comportamenti sopraffattori c’è un abuso di potere e un desiderio di intimidire e dominare. 7 Il bullismo assume forme differenti: - fisiche: colpire con pugni o calci, appropriarsi di, o rovinare, gli effetti personali di qualcuno; - verbali: deridere, insultare, prendere in giro ripetutamente, fare affermazioni razziste; - indirette: diffondere pettegolezzi fastidiosi, escludere qualcuno da gruppi di aggregazione. Alcuni esempi: Marco: 4 anni, padovano; durante la ricreazione viene aggredito da tre bambini di 5 anni per portargli via un piccolissimo pupazzetto di quelli contenuti in un piccolo uovo di cioccolato. Il bambino ha riportato una serie di contusioni ed una prognosi di 15 giorni (La Stampa, 17.2.97) Andrea: uno studente tredicenne della provincia di Modena, per mesi è stato costretto da due baby-taglieggiatori a consegnare dei soldi sotto la minaccia di percosse (L’Unità, 5.10.97) Parolacce, botte, furti: fin dalle elementari. La cronaca italiana racconta di una bambina di sette anni trascinata in bagno, forse da due compagni di classe, e spogliata, violentata, picchiata, forse con un bastone. Nessuno vede, nessuno sente nulla. Un’altra scuola, in periferia: un gruppo di bambini di sei anni elude la sorveglianza della maestra e si nascondono nel bagno delle bambine. Quando le piccole arrivano i compagni le rincorrono nei corridoi, con i pantaloni abbassati, ridendo ed insultandole. E ancora… Un ragazzino di 14 anni afferma: “La terza media l’ho presa senza studiare. E’ stato facile: facevo il prepotente, in classe ero un bullo, e non ero il solo. Se sono andato avanti è perché i professori non ne potevano più: volevano liberarsi di me”. In una scuola “bene”, bande di diciassettenni di famiglie “bene” rubano motorini ai compagni più piccoli, prendono in ostaggio i giubbotti per chiederne, il giorno dopo, il riscatto. Le angherie sono finite grazie ad un ragazzo che ha avuto il coraggio di parlare e di denunciare il ricatto subìto. Il bullismo ha radici ovunque: dal Nord al Sud, dalle scuole di periferia ai licei prestigiosi. Il fenomeno comunque è più sentito nelle città del Sud, Palermo e Napoli, meno in Calabria, Valle D’Aosta e Piemonte. A Napoli, ci sono zone in cui la lotta tra clan e famiglie arriva anche nella scuola. Altro che bullismo. I figli dei boss pretendono di comandare su tutto ed i genitori sono dalla loro parte. I bambini italiani risultano coinvolti nel fenomeno del bullismo in modo quasi doppio rispetto ai loro coetanei europei. Drammatica la situazione in alcuni contesti socio-culturali, come per esempio la città di Napoli, che conta il 48% di vittime alle scuole elementari ed il 31% alle scuole medie, e il 38% di coloro che si dichiarano “prepotenti” alle elementari e il 32% alle scuole medie. Sempre a Napoli, come a Palermo, si riscontra elevata anche la percentuale delle femmine “prepotenti”.I bulli agiscono di fronte ad un pubblico fatto di almeno 4 spettatori cui il 54% osserva, il 21% sta con il più forte; solo il 25% difende verbalmente la vittima. Le femmine, attaccate per lo più psicologicamente, chiedono aiuto e si confidano con maggior facilità con la madre o le amiche. Dalle ricerche effettuate emerge come i disabili sono vittime preferite dei bulli e che la maggior parte delle violenze fisiche e psicologiche avviene in classe: come è possibile che gli insegnanti non 8 agiscono per prevenire e reprimere tutto ciò, visto che si verifica sotto i loro occhi? La psicologa Ada Fonzi, autrice del libro edito da Giunti “Il bullismo in Italia. Il fenomeno delle prepotenze a scuola dal Piemonte alla Sicilia”, ha raccolto le esperienze dei ricercatori italiani per farne un bilancio purtroppo poco rassicurante. <Il bullismo nelle scuole italiane è molto frequente. Il 41% dei bambini che frequentano la scuola elementare e il 26% dei ragazzini delle scuole medie subiscono prepotenze. Alla domanda “Quanti dei tuoi compagni sono vittime dei bulli?”, il 61% degli scolari e il 53% degli studenti delle medie risponde “Sicuramente almeno tre per classe”. “E i bulli quanti sono?” Il 23% dei bambini delle scuole elementari e il 18% dei ragazzini delle medie ammettono di comportarsi in modo violento con i compagni. Basta confrontare le percentuali italiane con quelle di altri Paesi per rendersi conto delle dimensioni del fenomeno. Rispetto alle statistiche inglesi, per esempio, il numero delle prepotenze è quasi il doppio>. E’ grave pensare che i suicidi tra gli adolescenti non sono dovuti solo ai fallimenti scolastici ma a provocarli può essere anche la violenza dei compagni. Secondo una ricerca del Dipartimento di psicologia dell’Università La Sapienza di Roma, al primo posto le parolacce, al secondo le botte, al terzo le maldicenze. Ultimi il furto, le minacce e l’isolamento. Afferma Ada Fonzi che i più prepotenti sarebbero proprio i bambini più piccoli. I maschi bulli sono il 30,4% nella scuola elementare e il 21,7% nelle medie. Le femmine sono il 24,8% e il 10%. Nel libro si legge ancora: <I miei compagni si comportavano come se Laura avesse una malattia infettiva: se uno la toccava ne era contaminato… Oppure, fanno giochini scemi, come ad esempio prendere il diario di Paolo e tirarlo addosso a un ragazzo che si ritrae schifato e spaventato urlando “nooooo!”. A questo gioco a poco a poco ha preso parte tutta la classe. Un altro divertimento è toccare la persona, poi toccare un altro ragazzo dicendo “capelli di Paolo” , oppure “Paolo”. Il ragazzo fa un vezzo inorridito , fa finta di pulirsi oppure passa una mano sulla parte “infettata” e da’ l’immaginaria cosa posseduta ad un altro. E così via.> Il bullismo, quindi, è anche questo, non solo botte e furti. Vengono presi di mira bambini e bambine caratterialmente più deboli ed indifesi, o troppo buoni. Chi si lamenta viene accusato di “non stare allo scherzo”. Ma questa violenza psicologica diventa un dramma per chi la subìsce dal quale a volte non si riesce ad uscirne. E ancora, da un ragazzino di terza media: <La mia compagna Maria nel cervello tiene più cellule rincitrullite che sane e viaggia a 20 Mhz. (…) Venti Mhz sono niente e perciò per dire “casa” la mia compagna ci mette da due a tre minuti. In seconda tutti a turno ci siamo messi vicino a lei per aiutarla, ma dopo un po’ non ne avevamo più voglia. Lei riteneva di essere la “regina” e noi i suoi sudditi e voleva che le facessimo i compiti e le verifiche. Dopo due mesi abbiamo deciso di smetterla e di spiegarle che anche noi dobbiamo “vivere”. Lei e il suo cervello non hanno parlato con noi per circa due giorni, poi ci ha fatto avere una lettera in cui diceva che se fosse stata bocciata si sarebbe suicidata. Ora, miss Maria non ha mai preso un voto decente, in prima l’hanno promossa 9 perché faceva pena alle “profie” e perché la madre è andata a parlare con le professoresse. Quest’anno non sapeva cosa fare per essere promossa e ha inventato la storia del suicidio. Da una settimana non parliamo più assieme, lei è convinta di poter sperare che noi andiamo a consolarla dopo che ci ha rovesciato le cartelle e tirato l’acqua…>. Un altro ragazzino racconta così di una compagna di classe: <Non ha la forza di difendersi. E’ povera e, soprattutto, indifesa. Noi le diciamo parolacce e non ci avviciniamo neanche perché diciamo che non si lava. Questa ragazza la prendiamo in giro anche perché ha paura di tutto: della palla quando si gioca, dei pezzi di carta che le lanciamo. Quando le arriva la palla invece di prenderla si sposta, facendoci perdere punti. E poi per come si veste, e perché non è intelligente ed è molto magra. E’ pure vero che lei però reagisce in modo esagerato ed è molto appiccicosa. E’ spiona, antipatica, brutta di aspetto e di carattere. Dovrebbe essere più spigliata, simpatica ed evitare di isolarsi. Dovrebbe almeno sforzarsi e non farsi vedere dagli insegnanti, facendosi compatire>. Il capro espiatorio è il bambino delle elementari: mite, timido, sensibile, un po’ impacciato. Magari bravissimo a scuola, oppure no. Non ha “quella cartella”, “quella felpa” e diventa così identificabile e bersagliato da scherzi e soprusi. Questi bambini come reagiscono? Dapprima protestano ma poi, pur di far parte del gruppo, accettano le crudeli beffe pensando che le sberle e gli spintoni sono sempre meglio dell’indifferenza. Anna Oliverio Ferraris, psicologa dell’età evolutiva, afferma che i meccanismi che possono spingere un bambino a comportarsi da bullo sono essenzialmente due: l’apprendimento e la rivalsa. <Nel primo caso, lo studente trasferisce in classe un modello di comportamento che gli viene offerto in casa. Un padre prepotente, violento nei confronti della moglie, dei parenti o dei vicini ha molte probabilità di indurre nel figlio lo stesso atteggiamento»: “Il papà è forte, anch’io voglio essere come lui”. Nel caso della rivalsa, invece, il bambino prima ancora che “carnefice” è “vittima”. Ha subìto sulla sua pelle una violenza, fisica o psicologica, che tende a scaricare sui compagni. Come si vede, in entrambi i casi, la famiglia ha un ruolo decisivo. Difficilmente le vittime confidano ciò che stanno sopportando, lo faranno ad un amico o a qualche parente in casa, quasi mai a scuola, per vergogna o paura di rappresaglie. Negano sistematicamente di fronte agli insegnanti e pregano i genitori di “non dire nulla a scuola”. L’omertà, anche in questo caso, diventa complice e facilita la continuazione del dramma. Ai bulli è sufficiente uno sguardo minaccioso indirizzato alle loro vittime per sottolineare la propria supremazia. Fare il bullo, in sintesi, significa dominare i più deboli con atteggiamenti aggressivi e prepotenti, sottoporre a continue angherie e soprusi i compagni di classe o di giochi fisicamente e caratterialmente più indifesi. Gustavo Pietropolli Charmet, psicologo, esperto di problemi degli adolescenti. <I genitori sono sempre più occupati dal lavoro. E la famiglia è sempre meno presente, in qualche caso non c’è affatto. Può succedere che i bambini se ne costruiscano una tutta loro, a scuola o in strada. E’ così che nasce il gruppo, la banda: una famiglia “sociale” che, lentamente, prende il posto di quella “naturale”>. 10 Questo passaggio, secondo Gustavo Pietropolli Charmet, può avvenire prestissimo, quando i bambini sono ancora molto piccoli, in alcuni casi già a partire dalla quarta elementare, quando si creano le prime complicità: in aula ci si scambia messaggi sotto i banchi e, nei corridoi, si sceglie la vittima di turno: il più debole. Intendiamoci: è giusto che le madri lavorino, che i padri non siano assillanti: i genitori oppressivi creano danni ancora più gravi. Dobbiamo solo renderci conto che oggi i bambini sono spinti dalla stessa famiglia a far parte di una “compagnia”: appena i figli passano dall’asilo alla prima elementare, le madri cominciano a organizzare feste, ritrovi, merende al fast food. Un po’ perché hanno il terrore che il piccolo non riesca a inserirsi tra i compagni, un po’ perché non possono più, come una volta, dedicare tutta la loro giornata al figlio. Ecco quindi che il bambino passa più tempo con gli amici (a scuola, nel tempo prolungato, facendo sport) che con i genitori. Il gruppo, la banda con i suoi simboli, i suoi riti, diventano il vero punto di riferimento, al posto della famiglia sempre più presa dal lavoro. Il bullismo ha alla base un disagio familiare. Una volta chiarito questo aspetto, bisogna parlare ai nostri figli ed insegnare loro che ci sono modi diversi dalla violenza per dimostrare la propria forza>. Nella scuola, tale fenomeno trova sicuramente terreno fertile ed è fondamentale, quindi, che proprio la scuola coinvolga attivamente tutti i ragazzi nel trattare questo argomento e li incoraggi a prestare maggiore attenzione al comportamento singolo di ogni compagno e ad intervenire quando assistono a soprusi ai danni di altri alunni. Secondo la dott.ssa Anna Placentino, psicologa e ricercatrice e la dott.ssa Barbara Rossi, psicologa e psicoterapeuta, vari sono i motivi che sollecitano un intervento risolutivo: 1) Innanzitutto, la salvaguardia dei principi democratici di base, il diritto fondamentale di ogni minore di sentirsi al sicuro e di non essere oppresso e umiliato. Nessuno studente dovrebbe temere di andare a scuola per paura di essere molestato o disprezzato, e nessun genitore dovrebbe temere che ciò possa accadere al proprio figlio. 2) Si ricordi che chi si esprime con tanta violenza sente un livello di sofferenza così alta da non trovare altro modo per esprimerlo, per cui ha bisogno di essere assistito e non etichettato. Di fatto i bulli , se non vengono aiutati a modificare i loro comportamenti aggressivi, possono continuare ad usare modalità aggressive nelle loro relazioni interpersonali. Questi ragazzi, da adulti, corrono il rischio di sviluppare comportamenti antisociali e altri comportamenti problematici, come l’abuso di sostanze, come alcool e droghe. Gli studi sottolineano che circa il 45% degli ex bulli entro il 24° anno di età, sono stati condannati in tribunale per almeno tre crimini. 3) Anche le vittime dei bulli hanno vita difficile. Possono sentirsi oltraggiate, possono provare il desiderio di non andare a scuola, sviluppare diverse somatizzazioni (mal di testa, mal di pancia, incubi, attacchi d’ansia…) e nel corso del tempo è probabile che perdano sicurezza, autostima, rimproverandosi di attirare le prepotenze dei propri compagni. Questo disagio può influire sulla loro concentrazione e sul loro apprendimento. Addirittura in certi casi, subire comportamenti prepotenti può mettere in serio pericolo di vita, portando lesioni gravi o perfino al suicidio. Gli alunni che nel corso degli 11 anni sono stati spesso vittime di prepotenze hanno più probabilità, da adulti, di soffrire di episodi depressivi. Quando le vittime dell’emarginazione sono ragazzi di diversa etnia, si parla di fenomeni di razzismo, fenomeni che spesso coinvolgono anche gli adulti. IL RAZZISMO A Roma, un ragazzo di 10 anni, figlio di eritrei, viene apostrofato dalla maestra: stai zitto tu, negraccio. Ad Alghero, un ragazzino di 12 anni, figlio di un africano, viene insultato dall'insegnante: sporco negro bastardo, sei un cretino. A Milano, il gestore di un bar si rifiuta di servire una birra ad un marocchino di 17 anni: a quelli come te, non gliene vendo. A Pisa, un bimbo nomade perde un dito dopo aver aperto un libro di fiabe che conteneva una bomba a strappo, appositamente confezionata per lui. E' l'associazione Save the Children Italia che - nella "Giornata nazionale dei diritti dell'infanzia" - ci fa arrossire, ricordandoci fino a che punto l'Italia sia intollerante e crudele nei confronti dei piccoli stranieri. Xenofoba? Forse no. Ma certamente meno civile e generosa di quanto non ci piaccia credere. Soprattutto verso i bambini zingari. Il "Rapporto sulla discriminazione razziale dei minori in Italia" di Save the children, ci dice che i minori stranieri nel nostro paese sono 230mila e che ben il 70 per cento delle segnalazioni di episodi di razzismo riguarda l'ambiente scolastico. Perchè i nostri bambini già alle scuole elementari sanno essere razzisti, anche se "in modo inconscio". In una ricerca del "Coordinamento dei genitori", citata nel rapporto, troviamo che i ragazzini preferiscono compagni di giochi o di scuola europei bianchi; in secondo ordine cinesi; terzi, i "neri", verso i quali provano "una diffidenza ambigua"; mentre "l'ostilità per gli zingari è più esplicita". Sono loro - spiega il rapporto i più osteggiati. Da una ricerca effettuata su tutto il territorio nazionale e su una popolazione giovanile tra i 14 e i 18 anni (2200 intervistati) è emerso un dato inquietante che svela gli stereotipi ben radicati tra i giovani relativi a tre gruppi sociali e culturali presenti in Italia: ebrei, musulmani e extracomunitari. Il 64% degli intervistati sostiene che «i musulmani rimangono fedeli al mondo islamico», mentre il 52% li definisce «nemici del progresso». Per quanto riguarda gli “extracomunitari” per il 24% degli intervistati essi «inquinano la nostra cultura», mentre per il 32% «sottraggono agli italiani casa e lavoro», il 24% «portano malattie» e infine il 52% «alimentano la prostituzione». Un motivo di preoccupazione per quanto riguarda la memoria storica e la tenuta democratica delle giovani generazioni emerge infine dagli stereotipi che riguardano la comunità ebraica. Per il 17,5 degli intervistati «gli ebrei devono ritornare in Israele». Gli studi di psicologia sociale degli ultimi decenni hanno messo in luce il legame tra equilibrio psichico e capacità di buone relazioni con gli altri. Una situazione di generale benessere psicologico, la capacità di controllare le tensioni e dominare gli impulsi, la sicurezza psicologica fin dalla prima infanzia, un rapporto sereno con i genitori e con l'autorità, un sano inserimento nel mondo 12 dei coetanei sono i fattori portanti di una personalità proiettata verso gli altri senza paura del diverso. Nelle ricerche psicoanalitiche, ad esempio, gli atteggiamenti aggressivi verso altri gruppi vengono essenzialmente considerati come originati all'interno del nucleo familiare e diretti all'esterno in funzione della coesione del proprio gruppo. Una seconda lettura attribuisce invece maggiore attenzione all'influenza della struttura sociale e delle condizioni socio-economiche sui rapporti tra gruppi. Tale spiegazione tende ad attribuire maggiore peso ai fattori oggettivi di tipo sociale piuttosto che agli atteggiamenti psicologici individuali. Attualmente, l'influenza dei fattori sociali, in Europa, può essere individuata anche sotto un altro aspetto. L'immigrazione degli ultimi anni è avvenuta in un momento di crisi profonda del sistema economico. L'arrivo di forza-lavoro necessaria all'industria ed a settori non coperti dagli europei si accompagna ad un disagio sociale in cui risulta prevalente il fattore disoccupazione. Non di rado l'immigrato diviene il capro espiatorio dell'insoddisfazione sociale. Ogni programma di modificazione degli atteggiamenti e di educazione al rapporto tra persone di culture diverse deve tener conto di questi fattori di tipo sociale. La scuola e gli altri luoghi educativi sono certamente collegati con il tessuto sociale, e risentono delle problematiche più vaste nelle quali sono inseriti. Ma la loro azione non ne è condizionata al punto da dover dipendere da una mutazione politico-sociale che renda più favorevole l'educazione alla solidarietà con i diversi. L’azione educativa della scuola si rileva tanto più necessaria quanto più rapidamente la società si avvia a diventare multietnica e multiculturale come dimostrano le seguenti cifre. Nell'anno scolastico 2000 – 2001 nelle scuole italiane vi erano 147.406 alunni stranieri iscritti; nel 2001-2002 si era raggiunta e superata la quota di 181.76, ora, 2003 – 2004, si è sfondato il tetto dei 230 mila (2,7% del totale della popolazione scolastica). Un dato che cresce a ritmi impressionanti, negli ultimi tre anni si è raddoppiato (nel 99/2000 erano 119 mila, pari all'1,47% del totale) e che continuerà a farlo nei prossimi anni. Le stime del Miur prevedono che entro il 2010 il numero di alunni stranieri sarà tra 488 e 566 mila, per arrivare nel 2017 a un numero compreso tra 560 mila e 710 mila. I comportamenti violenti crescono nell'età compresa tra i 14 e i 18 anni; in particolare si caratterizzano con fenomeni di violenza in famiglia e nella scuola, atti di vandalismo, violenza negli stadi, aggressioni razziali, sassi dal cavalcavia, “baby gang”, violenze sessuali, sopraffazioni ai danni di coetanei. I comportamenti a rischio in questa età si manifestano con: • Rapporti sessuali non protetti • Guida pericolosa • Gioco d'azzardo GUIDA PERICOLOSA e ALCOOL La guida pericolosa costituisce una “novità” fortemente eccitante trasgressiva, connotata però da un grave rischio per la vita e l'incolumità. e 13 Gli elevati indici di incidenti stradali che nel nostro Paese si sono registrati sulle strade nel corso degli ultimi anni costituiscono un fenomeno a cui bisogna prestare molta attenzione: la maggiore percentuale di morti e feriti si registra negli individui di età compresa fra i 14 e i 29 anni di età. In Italia la maggior parte di incidenti mortali è dovuto "all'abuso" di alcol, ben il 46 %. Questo è l'allarmante dato che è venuto a galla durante il Congresso Nazionale dei Club degli Alcolisti in Trattamento. Bastano piccole quantità di alcol per aver colpi di sonno, riflessi lenti e vista annebbiata. I dati forniti dalla polizia stradale sono agghiaccianti: nel 2001 sono stati 909 i giovani morti in incidenti stradali mentre i feriti sono stati 31.093. L'orario maggiormente a rischio è compreso dalle ore 22 del venerdì e le sei del sabato (incidenti del venerdì notte) e tra le ore 22 del sabato e le sei della domenica (incidenti del sabato notte). Le cause più frequenti sono l'eccesso di velocità, il mancato rispetto delle regole di precedenza, del sorpasso e della distanza di sicurezza, la distrazione nella guida, e soprattutto, lo stato psico-fisico alterato per l'uso di alcool o sostanze stupefacenti ed altre circostanze riferibili allo stato psicofisico stesso (inquinamento acustico e visivo). Nel corso del 2001, la Polizia stradale ha effettuato in tutta Italia 55.449 controlli con l'etilometro ed ha accertato 18.588 violazioni per guida in stato di ebbrezza (pari a quasi il 35% sul totale dei controlli). Nello stesso arco di tempo, ha rilevato 2.094 violazioni per guida sotto l'influenza di sostanze stupefacenti, tuttavia si ritiene che il dato sia sottostimato, a causa della notevole difficoltà ad effettuare questa tipologia di accertamenti. L'Istituto Superiore della Sanità ha evidenziato che, su un campione di 6.959 giovani transitati nei reparti di Pronto soccorso degli ospedali italiani, a seguito di incidenti stradali avvenuti nell'anno 2001, ed in particolare nelle notti del fine settimana, la percentuale delle persone che hanno presentato patologie legate al consumo di alcool è del 65%. Inoltre gli incidenti con elevato indice di mortalità sono proprio quelli dovuti ad un anomalo stato psico-fisico del conducente (6,1% contro il 2,2% relativo agli incidenti generati dagli errati comportamenti di guida del conducente). La spiegazione di un così elevato fattore di rischio, che caratterizza gli incidenti causati da stato psico-fisico alterato, si rinviene nella perdita di controllo del veicolo da parte del conducente, che non riesce ad attenuare gli effetti dell'urto con le appropriate manovre correttive. Il 41% dei ragazzi, di prevalenza maschile, dichiara di essere stato coinvolto in un incidente stradale; il 18% in 3 o più incidenti. Quando si parla poi di sicurezza stradale, bisogna tener presente che già a 14 anni il 70% di ragazzi e il 40% delle ragazze guida il motorino, quindi il problema si sposta non solo alla patente ma anche ad un'età precedente perché, comunque, i ragazzi sono utenti della strada e possono andare incontro allo stesso tipo di lesività se assumono alcool. Un altro dato allarmante è quello evidenziato da una recentissima ricerca dell'Istituto Superiore di Sanità sul tema”Guida e comportamento a rischio” , che ha coinvolto più di 30.000 studenti, nell'arco di età dai 14 ai 19 anni, in quasi 300 istituti di istruzione in tutte le regioni italiane nel corso dell'anno, 2002-2003. Da quest'indagine è risultato che il 67% dell'intero campione fa 14 uso di bevande alcoliche , quindi oltre 2 terzi; un valore che raggiunge il 78% per la fascia di età compresa tra i 18 e i 19 anni. Un altro dato è che si comincia a bere intorno ai 13 anni, quindi l'età si abbassa sempre di più. La birra è in testa ai consumi con circa il 51%, seguita dal vino , 38% e dagli aperitivi, 31%. I super alcoolici si bevono soprattutto nei week end , ma vino, birra e aperitivi vengono consumati durante tutta la settimana. Quasi la metà dei ragazzi intervistati sostengono di essersi ubriacati almeno una volta e il 21% dei giovani che guidano un auto, per lo più di sesso maschile, dichiarano di aver guidato in stato di ebbrezza. Paradossalmente per questo campione però, il 60% ritiene che le bevande alcoliche non producono danno se assunte in quantità moderata. In realtà, si è prodotta una pericolosa assuefazione e ad incoraggiarla c'è spesso la complicità dei media indirizzata ai giovani, per esempio, sulle bevande a basso tasso alcolico. L'uso di alcool e droga è diffuso tra gli adolescenti, ma ciò che colpisce di questi fenomeni, oltre alla diffusione di massa, è che continua ad abbassarsi l'età della prima assunzione. Da studi effettuati negli Stati Uniti, risulta che se 14 anni è l'età media in cui viene assunta per la prima volta la mariuana, per l'alcool è 12 anni. Sempre negli Stati Uniti i morti, collegabili all'uso di droghe o alcool, sono 55.000 all'anno, sono giovani maschi tra i 15 e i 29 anni. L'Oms ha condotto uno studio secondo il quale un quarto dei decessi di giovani maschi tra i 15 e i 29 anni è dovuto al consumo di alcolici. Del resto la pubblicità non aiuta di certo la riduzione del consumo di bevande alcoliche, il marketing delle industrie che producono queste bevande prende sempre più di mira i giovani. Anche tra le mura domestiche o sul posto di lavoro si registrano sempre più incidenti dovuti allo stato confusionale indotto dall'alcol. Marc Danzon, direttore dell'Oms Europa, invita a una maggiore istruzione sugli effetti dell'alcol e i pericoli che si affrontano quando se ne "abusa"; l'alcol è una droga che provoca assuefazione e dipendenza. Il Club degli Alcolisti in Trattamento ricorda che il 5% della popolazione è alcolista e che i decessi causati dall'alcol sono ogni anno ben 30mila, uno ogni quarto d'ora. Legati alle morti vanno aggiunti i costi sociali che ammontano a 13mila miliardi I luoghi di socializzazione primaria, punti di accesso all'uso di sostanze stupefacenti, sono la scuola, la discoteca e l'università. IL SUICIDIO Il suicidio è tra le prime cinque cause di morte nei giovani tra i 15 e i 19 anni ed è un fenomeno in crescita per gli adolescenti in età compresa tra i 12 e i 14 anni, anche se probabilmente sottostimato. Negli Stati Uniti il 3% dei bambini, e più del 8% degli adolescenti, soffre di depressione, fatto che molti psichiatri infantili considerano come potenziale meccanismo di attivazione di motivazioni suicide. Dietro a ciascuna di queste problematiche adolescenziali troveremo sempre un adulto maltrattante o assente, spesso si tratta di una figura genitoriale. In Italia, fortunatamente, il fenomeno dei suicidi giovanili ha un'incidenza più contenuta rispetto al contesto europeo e, inoltre, osservando i dati assoluti, si nota che nel passaggio dal 1996 al 1998 i casi di suicidio di adolescenti si sono ridotti da 45 a 40. 15 Va però ricordato che nella nostra Nazione, ad esempio, la quota di giovani sotto i 15 anni si va progressivamente riducendo e, quindi, il dato assoluto non è poi così rassicurante. I maschi hanno il primato in questa triste graduatoria, mentre le femmine conducono quella dei tentativi di suicidio a scopo dimostrativo. L’idea o il proponimento di suicidarsi è, specialmente fra i giovani, un processo graduale che tende a concretizzarsi a mano a mano che il senso di sfiducia, di disistima o la sensazione che non vi sia più nulla da fare si fanno strada nella psicologia dell’individuo. Tuttavia, a volte, una causa immediata può essere trovata: basti pensare all’esempio degli studenti che si suicidano, o che tentano di farlo, immediatamente dopo una bocciatura scolastica, dopo un rimprovero particolarmente severo da parte di un genitore o di un insegnante vissuti come ingiustificabili. L’insuccesso scolastico è tanto più correlabile al suicidio quanto più la prova assume il ruolo di una verifica globale dell’individuo e quanto più diviene decisiva per il futuro professionale e sociale del giovane. Crepet sostiene:“In Italia, le recenti trasformazioni culturali e sociali hanno avuto una sensibile ricaduta anche riguardo all’attitudine dei giovani nei confronti del suicidio. Una recente indagine condotta da un istituto di Ricerca di Milano, lo IARD, permette di analizzare questi cambiamenti: è emerso infatti che il 15% dei giovani intervistati ritiene che suicidarsi sia tollerato dalla nostra società, un quarto di loro lo ritiene moralmente ammissibile, anche se pochi (il 3%) arrivano ad ammettere che potrebbe capitare anche a loro” (P. Crepet, Le dimensioni del vuoto). La spettacolarizzazione di questo tragico fenomeno ad opera di TV e giornali sembra avere avuto una forte incidenza sulle condotte suicidarie di alcuni ragazzi. Diversi casi infatti si sono manifestati con le identiche modalità ampiamente pubblicizzate dalle cronache inducendo i giovani protagonisti ad assumere comportamenti imitativi. E’ evidente che la scuola può avere un ruolo importante nel commento e nella discussione di tali casi favorendo l’analisi del fatto - e, al contempo, cercando di smitizzare quella dimensione eroico-tragica che può favorire meccanismi di identificazione. La scuola può infine costituire un magnifico osservatorio circa lo stile cognitivo dei suoi ragazzi e le eventuali correlazioni con comportamenti a rischio o autolesivi: “Accanto alle caratteristiche comportamentali, gli stili cognitivi ricoprono un ruolo di grande importanza nelle dinamiche psicologiche che possono portare a una condotta suicidaria. Molti autori hanno evidenziato alcune caratteristiche cognitive del giovane suicida. Il loro pensiero appare sovente come polarizzato, formato dall’abitudine a procedere per dicotomie, rigido e inflessibile. Ciò produce una notevole difficoltà nella soluzione dei problemi perché (…) induce il soggetto a ragionare utilizzando una scarsa varietà di alternative e, dunque, impulsivamente” (P. Crepet, Le dimensioni del vuoto). Talvolta i giovani che soffrono di tale disagio lanciano dei messaggi, in qualche modo, più o meno consapevolmente comunicano il loro desiderio di annientamento. Di qui l’importanza di ottimizzare la capacità di ascolto e la sensibilità di genitori, amici, insegnanti: “può capitare infatti che un 16 insegnante legga un tema in cui si fa esplicito riferimento alla morte o una poesia nella quale si parli della stanchezza o della paura di vivere o del mondo dell’aldilà. Anche se si tratta di temi generali, anche se non vi sono riferimenti personali, non per questo tale comunicazione deve essere sottovalutata. Pochi anni prima di morire suicida Primo Levi aveva detto in un'intervista: "Nessuno, secondo me, è in grado di capire un suicidio. Perlopiù non lo capisce neppure il suicida: è raro che chi si uccide sappia la vera ragione per cui lo fa. Non c'è un rapporto preciso fra l'esperienza del lager e il suicidio. Anzi in lager il suicidio era praticamente assente. Perché questo avvenisse e perché, invece, ci siano tanti più suicidi quanto più la società sia prospera, fatto questo abbastanza noto, è mal spiegato. Io ho una mia teoria personale e penso che il suicidio sia un atto altamente personale ed intellettuale, se si vuole patologico, ma gli animali non si suicidano. Ed in lager la vita era quella dell'animale: non c'era tempo per pensarci, c'era da pensare a mangiare, a proteggersi dal freddo, e proteggersi dalle botte. Il tempo per meditare sulla vita e sulla morte e di scegliere per il suicidio non c'era". Certamente, dietro il suicidio ci sono fattori più o meno noti e ovvi come il disagio provocato dal desiderio frustrato di essere all'altezza della situazione, di riuscire a competere con gli altri; ma esistono anche cause che non riguardano la scuola come la disgregazione della famiglia, la fragilità della personalità, la crisi dei valori e la conseguente incapacità di fare riferimento a grandi Ideali… BULIMIA E ANORESSIA Fra i comportamenti a rischio autolesivi un posto importante spetta ai disturbi dell’alimentazione,anoressia e bulimia. Le cause dell’anoressia e della bulimia possono essere varie. Molti studiosi sostengono che le sindromi si sviluppino come reazione conseguente a relazioni interpersonali non soddisfacenti o opprimenti, soprattutto famiglie delle classi medio-alte, tese all’inseguimento di un’affermazione sociale importante. Nonostante un’apparenza di normalità la comunicazione interpersonale tra i membri della famiglia tende a essere inadeguata. Anche elementi di carattere culturale sono importanti nell’anoressia. Il desiderio di essere snelli e in forma è un potente stimolo nella moderna società occidentale. Fabiola de Clerque – fondatrice ABA ( associazione per la ricerca sulla bulimia, anoressia e i disordini alimentari) “Il cuore batte troppo forte…ma intanto mangio ancora…Forse mi sto solo tappando la bocca per non chiedere aiuto, per non scoppiare in un pianto interminabile che nessuno potrebbe interrompere. Un pianto represso da anni, tutto il dolore e la rabbia che non ho mai potuto esprimere”. DATI STATISTICI 3 milioni di persone in Italia sono colpite direttamente da anoressia, bulimia e disordini alimentari; 5% della popolazione soffre di disturbi alimentari; 7,5 milioni sono le persone coinvolte a livello familiare con tali patologie; 14-35 anni è la fascia di età più colpita ma i disturbi possono manifestarsi anche in fasce di età più giovane e oltre i 40 anni; 17 92% di chi chiede aiuto è donna. Chi colpisce. Oggi sembra colpire lo 0.28% delle adolescenti e delle giovani donne adulte dei paesi occidentali. Il 90-95% delle persone colpite appartiene al sesso femminile e i maschi costituiscono tuttora una minoranza. L’età dell’esordio del disturbo è compresa fra i 12 e i 25 anni. Mentre negli anni Settanta l’anoressia nervosa colpiva prevalentemente classi agiate, attualmente è distribuita in modo omogeneo nelle varie classi sociali. un intervento educativo consentirebbe, ad esempio, l'apprendimento - fin dall'infanzia - di un corretto comportamento alimentare e, di conseguenza, di prevenire i danni che potrebbero derivare da diete squilibrate o da condotte alimentari abnormi. Una efficace educazione alimentare potrebbe aiutare a risolvere un altro problema di rilevanza sociale: l’obesità. Paradossalmente, visto il grado di malnutrizione esistente sul pianeta, l’obesità costituisce oggi, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), uno dei problemi di salute pubblica più visibile e tuttavia ancora trascurato. Le malattie croniche, cui l’obesità contribuisce a volte in modo determinante, uccidono ogni anno quasi il 60 per cento dei 56.5 milioni di morti all’anno, e costituiscono il 45.9 per cento del carico totale mondiale di malattie. Si può dire, vista la prevalenza dell’obesità in molte parti del mondo, che ci si trova di fronte a una vera e propria epidemia globale di sovrappeso e obesità, una “globesità” come la definisce l’OMS, che si sta diffondendo in molti paesi e che può causare, in assenza di una azione immediata, problemi sanitari molto gravi per milioni di persone nei prossimi anni. Per questo, la OMS ha deciso di adottare una “Strategia globale sulla Dieta, Attività fisica e la Salute”, sotto il mandato dell’Assemblea Mondiale della Sanità del maggio 2002. L’obesità preoccupa oggi anche il Ministero della Salute italiano che dà molta importanza al problema, cui ha dedicato un Progetto-obiettivo specifico all’interno del Piano Sanitario Nazionale 2002-2004, dal titolo “Promuovere gli stili di vita salutari, la prevenzione e la comunicazione pubblica sulla salute”, per sensibilizzare la popolazione ad adottare un corretto modello alimentare e a migliorare il controllo sul proprio stato di salute. Anche se ormai l’obesità interesse la maggior parte dei paesi del mondo, è sicuramente ancora oggi un problema particolarmente evidente negli Stati Uniti. Sono oltre quaranta milioni gli americani che possono essere definiti obesi, con un BMI> 30 e l’obesità è la prima causa di morte per almeno 300 mila morti all’anno. Secondo i CDC americani, tra gli adulti statunitensi di età compresa tra i 20 e i 74 anni, la prevalenza della condizione di sovrappeso è aumentata del 2 per cento dal 1980, passando dal 33 per cento al 35 per cento della popolazione nel 1999. Nel suo Rapporto sulla salute in Europa del 2002, l’ufficio regionale Europeo dell’OMS definisce l’obesità come una “epidemia estesa a tutta la Regione europea”. Circa la metà della popolazione adulta è sovrappeso e il 20-30 per cento degli individui, in molti paesi, è definibile come clinicamente obeso. La Conferenza Europea sull’obesità di Copenaghen (11-12 settembre 2002) ha evidenziato che l’incidenza dell’obesità è aumentata in Europa del 10-50 per cento nell’ultima decade a seconda del paese considerato, e che circa il 4 per 18 cento di tutti i bambini europei è affetto da obesità. L’incidenza di questa condizione sui costi globali sanitari è del 2-8 per cento ed è necessario mettere in atto urgenti campagne di informazione e di educazione per informare la popolazione europea sui rischi legati al sovrappeso e all’obesità. In Italia, nel periodo 1994-1999, l’Istat ha registrato un aumento della popolazione sovrappeso (16 milioni di italiani) con un aumento drastico dell’obesità del 25 per cento. In conclusione, il fenomeno del disagio adolescenziale è sicuramente preoccupante nel nostro paese, richiede una grande attenzione da parte di noi 19 tutti, delle istituzioni, sanitarie e scolastiche in primo luogo. Si può affermare che trae origine dal cambiamento in atto nel corpo e nella mente che, in questa fase della vita, è davvero tumultuoso e, naturalmente, non può che generare insicurezze. Dietro un adolescente violento, o sofferente, troveremo sempre la responsabilità di un adulto, ed è in questa direzione che dobbiamo orientare i nostri sforzi. Il disagio adolescenziale richiede, per essere contrastato, ascolto e attenzione da parte di noi tutti. Richiede che nella scuola si effettua veramente l’educazione all’affettività. Educazione all’affettività Se andiamo a cercare sul vocabolario la parola “affettività” leggiamo che essa può definirsi come “l’insieme di fenomeni soggettivi (umore, sentimenti, emozioni) che caratterizzano l’individuo nella sua risposta agli eventi (interiori o esteriori, somatici o psichici). L’ umore (o temperamento) è determinato da caratteristiche intrinseche costituzionali e da fattori acquisiti, come apprendimenti, esperienze, abitudini; ha un ruolo preminente nella risposta emozionale individuale, che varia da soggetto a soggetto; esprime sia la disposizione affettiva di base, sia un temporaneo stato affettivo; può subire modificazioni in senso euforico o depressivo. I sentimenti possono definirsi stati affettivi, più o meno stabili, che caratterizzano l’atteggiamento emotivo individuale nei confronti di se stessi e della realtà esterna (oggetti, persone ecc.) inducendo particolari comportamenti. Le emozioni sono invece stati affettivi intensi ma fugaci, a insorgenza e scomparsa rapida; compaiono solitamente come reazione a eventi esterni o interni e si accompagnano a manifestazioni somatiche, tra le quali pallore, rossore, tachicardia, sudorazione, tremore. Anche in condizioni normali si possono avere oscillazioni dell’affettività legate a situazioni particolari, interne o esterne. A scuola nessuna affettività Ancora oggi il modello scolastico propone una relazione tra insegnanti e allievi fondata sui contenuti da far imparare. Nessuna formazione, se non, oggi, per gli insegnanti elementari, sui processi affettivi che entrano nell’apprendimento, sulla complessità psico-antropologica della relazione. L’insegnamento è affidato alle naturali capacità relazionali insieme a quelle professionali del singolo insegnante. La negazione dei processi affettivi nella relazione, delle strategie affettive nei processi di apprendimento ha una ricaduta nella pratica istituzionale dell’insegnamento: in primo luogo l’impossibilità di riconoscere i veri motivi dei successi/insuccessi scolastici per cui si affida la responsabilità di questi solo agli allievi, alle loro motivazioni, capacità, risorse cognitive, psicologiche, culturali, alla loro provenienza sociale. Ma non è solo un problema di incomprensione del fallimento: dietro a questo vi è un problema ancor più pesante, di resistenza al cambiamento. Attribuendo il fallimento agli allievi, l’istituzione non solo si deresponsabilizza ma impedisce il proprio cambiamento, delle pratiche di insegnamento, dei contesti di classe, dell’organizzazione complessiva. L’incapacità di affrontare la resistenza all’apprendimento di alcuni allievi è speculare all’incapacità di affrontare la propria (degli insegnanti) resistenza al cambiamento. Affermare che la resistenza all’apprendimento di alcuni allievi sia esclusivamente di tipo 20 cognitivo, porta ad escludere che possa essere culturale ed emotiva. E’ interessante notare come una gran parte degli insegnanti che frequentano corsi di aggiornamento, pur avendo, loro, capacità cognitive adeguate, in realtà rifiutino di apprendere i contenuti degli aggiornamenti a causa delle loro motivate ragioni culturali ed emotive, quelle stesse ragioni che negano negli allievi. Capita che in questi corsi di aggiornamento lo scarto tra i formatori pedagogisti, psicologi, antropologi, ecc.) ed insegnanti si faccia abissale ("belle parole, dicono, ma noi siamo in prima linea", “le condizioni di lavoro nella scuola sono impossibili”, ecc. ecc.).Ribaltando il ruolo nei corsi di aggiornamento (da insegnanti ad allievi) il gruppo insegnante si comporta ne più ne meno come una normale classe scolastica: ci sono i motivati, gli arrabbiati, gli indifferenti, i rivoluzionari. Visto che le risorse cognitive sono indiscutibili, qui le resistenze sono culturali ed emotive, cioè le medesime ancora una volta degli allievi. Senza avere idea di quali strategie, culturali e psicologiche, per scardinare queste resistenze, per fare spazio negli stereotipi culturali, per vincere la demotivazione, la rabbia, la timidezza, ancora una volta l’apprendimento, il cambiamento è lasciato al caso, è affidato ai bravi (relazionalmente e professionalmente) insegnanti e ai motivati, stabili emotivamente e preparati, allievi. Educare all’affettività dunque non può essere soltanto conoscere “testi letterari e non che affrontino il problema della conoscenza di sé, dell’autostima, della ricerca dell’identità propria del periodo preadolescenziale”(Indicazioni Nazionali); “approfondire la conoscenza di sé, rafforzando l’autostima, anche apprendendo dai propri errori” vuol dire passare da una logica che pone al centro dell’attenzione il processo di insegnamento ad una logica che pone al centro la persona dello studente e le sue aspettative di successo. Alcune riflessioni, infine, sul perché dell’educazione ambientale. La nostra generazione è stata testimone di una crescita e di un progresso tecnico senza precedenti che, pur riversando benefici su numerosi Paesi, hanno avuto ripercussioni nefaste sulla società e sull'ambiente. Si accresce l'ineguaglianza tra poveri e ricchi, tra nazioni e persino all'interno di ciascuna nazione ed è noto che l'ambiente naturale va deteriorandosi sempre più su scala mondiale. L'educazione ambientale nasce, in tutto il mondo ed anche in Italia, esclusivamente come educazione per la difesa e la conservazione della natura. E' solo di fronte alle catastrofi ambientali, segnatamente a partire da Seveso (1976),ed alla proposta elaborata dalla Conferenza Intergovernativa di Tbilisi(1977) che il significato di educazione ambientale si amplia:si comincia a pensare in termini di società sostenibile e non più solo di conservazione.Il Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 ha invitato la Commissione europea "a elaborare una proposta di strategia a lungo termine per il coordinamento delle politiche per uno sviluppo sostenibile sotto il profilo economico, sociale ed ecologico" da presentare al Consiglio europeo di Göteborg nel giugno 2001. Agenda 21 è il principale strumento che, a livello mondiale, viene utilizzato per promuovere la realizzazione di politiche di sviluppo sostenibile. "Per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo che risponda alle necessità del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie esigenze". 21 E' infatti assolutamente vitale che tutti gli uomini lottino affinché vengano prese misure a favore di un sistema di crescita economica che non abbia ripercussioni nefaste sulle popolazioni e che non rechi alcun danno al loro territorio e alle loro condizioni di vita.Bisogna trovare il modo di garantire che nessuna nazione cresca e si sviluppi a spese di altre , che nessun individuo aumenti il suo consumo a spese di altri individui. Le risorse della Terra dovrebbero essere valorizzate in modo da giovare all'umanità intera e in modo da fornire il potenziale che permetterà di migliorare la qualità della vita di ciascuno.Abbiamo bisogno, dunque, di una nuova etica universale, un'etica che riconosca i rapporti complessi, ed in continua evoluzione, dell'uomo con il suo simile e con la natura. Per assicurare il modello di crescita razionale dettato da questo nuovo ideale mondiale dovranno riprodursi importanti trasformazioni nel mondo intero, trasformazioni basate su una ripartizione equa delle risorse mondiali e su una più corretta soddisfazione dei bisogni di tutti i popoli. Questo nuovo modello di crescita esigerà anche di ridurre al minimo i danni arrecati all'ambiente, di utilizzare i rifiuti per scopi produttivi e di elaborare tecnologie volte a raggiungere questi obiettivi. Soprattutto, esigerà la garanzia di una pace duratura, grazie alla coesistenza ed alla cooperazione tra nazioni che hanno sistemi sociali diversi. Si possono reperire enormi somme da distribuire per rispondere ai bisogni umani riducendo i bilanci militari e limitando la corsa agli armamenti. Il disarmo dovrebbe essere lo scopo ultimo. La riforma dei processi e dei sistemi educativi è essenziale al formarsi di questa nuova etica della crescita e dell'ordinamento economico mondiale. I governi ed i responsabili politici possono ordinare cambiamenti, e nuove concezioni della crescita possono avviare il processo di miglioramento della situazione mondiale, ma si tratta solo di soluzioni a breve termine, se la gioventù mondiale non riceverà un'educazione di nuovo tipo. Ciò richiederà l'instaurarsi di rapporti nuovi e fruttuosi tra alunni e insegnanti, tra scuola e comunità ed anche tra il sistema educativo e la società nel suo insieme.La raccomandazione 96 della Conferenza di Stoccolma sull'ambiente ha chiesto un maggior sviluppo dell'educazione in materia ambientale, considerata come uno degli elementi più decisivi per poter affrontare seriamente la crisi mondiale dell'ambiente.E' in questo contesto che occorre fissare le basi di un programma mondiale di educazione ambientale, il programma permetterà di sviluppare conoscenze e competenze, valori ed atteggiamenti nuovi, tutti elementi essenziali di un movimento verso una migliore qualità dell'ambiente e, di fatto, verso una migliore qualità della vita delle generazioni odierne e future. Oggi la scuola non può non farsi carico dei temi della convivenza civile Anche se la colpa di tutto questo non può essere di certo attribuita al Ministero dell’Istruzione, chi, se non la scuola, può farsi carico di raccogliere il testimone dei fattori educativi venuti meno nel tessuto sociale? Per combattere suicidi, depressione, disadattamento, per formare cittadini consapevoli, rispettosi di se stessi, degli altri e dell’ambiente che li circonda, proiettati verso la costruzione di un futuro migliore, Stato e società civile possiedono un solo strumento veramente utile, appunto la scuola. Soltanto nella scuola possiamo intervenire per lottare contro i baratri di disuguaglianza, anzitutto psicologica e culturale. 22 Occuparsi anche di questi aspetti dell’educazione non significa certo sostituirsi al ruolo della famiglia, assecondandone così lo svuotamento deculturante, oppure rendersi funzionali a un ulteriore impoverimento delle altre agenzie formative. Oggi non basta insegnare le discipline, come poteva bastare quando la famiglia poteva esplicitare a pieno il suo ruolo educativo e la scuola completava la formazione etica e civile dei ragazzi. Le discipline devono essere insegnate all’interno di un contesto che valorizzi le dimensioni etiche della conoscenza e quindi anche quelle civili. Da qui l’esigenza dell’educazione alla Convivenza civile in ogni sua dimensione (educazione alla cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute, alimentare e all’affettività). La riforma del sistema di istruzione e formazione vuole proprio partire dalla radice dei problemi di cultura nella società di oggi. Non a caso nelle Raccomandazioni specifiche le discipline sono precedute dall’educazione alla Convivenza civile. Significa che la trasformazione degli obiettivi specifici di apprendimento delle diverse discipline, presenti nelle Indicazioni nazionali, in adeguate unità di apprendimento determina di per sé, e contiene, l’educazione alla Convivenza civile: gli obiettivi specifici disciplinari e di educazione alla Convivenza civile si richiamano vicendevolmente. Le discipline, se bene impostate in una strategia di integrazione e non ridotte a meri repertori, sono strumenti che danno personale significato all’esperienza unitaria di ogni studente, sono educazione alla Convivenza civile, così come questa è ‘educazione’integrale di ciascuno, e mai una disciplina che si aggiunge. Operativamente, educare ad alimentarsi in modo corretto non è “fare altro” rispetto agli obiettivi formativi concordati da ogni scuola come finalizzazione degli obiettivi specifici di apprendimento di Scienze, Italiano, Attività Motorie e Sportive ecc…. Infatti, lavorare sull’alimentazione, sui modelli culturali, sulla critica alla pubblicità, ecc., è mettere in campo specifiche conoscenze disciplinari e precise abilità. L’educazione alimentare diventa formidabile strumento e molla per scegliere modelli culturali e stili di comportamento in cui si integrano il sapersi nutrire,il praticare un sano esercizio fisico e il dotarsi di attitudini positive: dare senso alla vita. La flessibilità dei Piani di Studio Personalizzati farà superare la mentalità dello “specialista”: tutti gli insegnanti, con l’esercizio, l’esempio e il coordinamento, fanno educazione alla Convivenza civile e insieme decidono contenuti, modalità e strategie per far confluire i propri percorsi disciplinari in un unicum e per arrivare a un effetto globale. Non basta più insegnare le sole discipline Non solo le discipline, bensì tutti gli interventi educativi e didattici hanno bisogno di unità e coordinamento se si vogliono seguire procedure rispettose sia della centralità dell’allievo e della sua educazione integrale sia del più vasto contesto a cui appartiene. Invece,negli ultimi decenni, per progettare i Piani di Studio si partiva con il chiedersi quali fossero le discipline di studio di cui non si poteva fare a meno nel quadro orario. Di fatto, si spostava l’attenzione dalla persona dello studente ai contenuti da trasmettere. I ‘saperi’ ne uscivano frammentati, a favore di una visione culturale fatta di specialismi anziché ricomposta in un orizzonte comune, ampio e unitario. I Piani di studio, 23 assemblati sommativamente, anziché essere i mezzi per il fine dell’educazione dei giovani, al loro servizio, diventavano il fine stesso dell’educazione e invertivano il rapporto tra discipline di studio (mezzi) e persona (fine). Le ‘materie’ di insegnamento balzavano in prima posizione, mentre l’allievo era retrocesso a consumatore di equilibrismi fra discipline, ottenuti a tavolino. Invece, nella proposta di riforma il Profilo Educativo, Culturale e Professionale non solo ci dice ciò che un allievo è, avendo ben presente che vive in una società con cui deve confrontarsi, e ciò che deve essere alla fine del Primo e del Secondo ciclo, ma, attraverso lo studio e le attività scolastiche e senza mai separare meccanicamente cultura umanistica, scientifica e tecnica, si propone anche come uno strumento di garanzia per promuovere la sua integralità di persona umana. L’educazione alla convivenza civile si presenta, pertanto, da una parte, la sintesi delle “educazioni” alla cittadinanza, stradale, alla salute, alimentare, all’affettività, dall’altra il risultato dell’apprendimento delle conoscenze e delle abilità che caratterizzano le differenti discipline di studio. Nella società multiculturale è indispensabile convivere civilmente: il concetto di convivenza civile supera il valore del buon comportamento nello spazio pubblico, comprende invece la pratica del buon comportamento anche nel privato per ciò che riguarda la partecipazione e la coscienza politica, la circolazione stradale, il rispetto dell’ambiente, la cura della salute e dell’alimentazione, i comportamenti affettivo-sessuali. Insomma, far bene a se stessi in tutti questi campi contribuisce al bene della collettività e viceversa: questa consapevolezza è alla base della convivenza civile. L’”Educazione alla convivenza civile” si presenta quindi come la sintesi del percorso educativo dello studente, l’esemplificazione più compiuta di quelle competenze che, attraverso le diverse discipline, egli mette in atto nel mondo reale. Fine e condizione delle varie educazioni è proprio questa unità morale personale, la quale a sua volta è fine di tutta l’esperienza scolastica, compresa la padronanza delle discipline più specifiche. Un buon insegnamento deve produrre la convivenza civile; le competenze specifiche della convivenza civile, da parte loro, nascono ed esistono dentro le conoscenze e le abilità disciplinari. Alessandro Costantini, pedagogista, psicologo psicoterapeuta nel libro “Tra regole e carezze – Comunicare con gli adolescenti di oggi” , mette in evidenza che “gli educatori del 2000 devono fare i conti con eventi che stanno modificando il mondo e che influiranno sul futuro dei giovani. Basta citarne alcuni per comprendere quanto tutto si stia modificando rapidamente. Primo fra tutti i tragici eventi che si susseguono dall’11 settembre 2001. (…) Aiutare e guidare le giovani generazioni a costruire il futuro di una umanità più attenta a questi equilibri e meno violenta è un imperativo categorico del quale tutte le culture devono farsi carico. Le azioni educative capaci di produrre tali cambiamenti dovranno necessariamente avere paradigmi comuni: il valore della pace, la negoziazione dei conflitti, il rispetto dell’uomo sia esso inteso da un punto di vista laico che religioso, l’attenzione alle radici e alle tradizioni etniche e culturali, l’integrazione tra i popoli e tra le religioni.” 24 Il fenomeno della globalizzazione, dell’immigrazione, Internet, l’utilizzo quotidiano della tv che ha una notevole influenza sui giovani, i computer e la telefonia mobile sono tutti eventi che cambiano e condizionano gli scenari sociali e il comportamento di ciascun individuo. “E’ decisivo riuscire a confrontarsi con questi cambiamenti” afferma Costantini, “è decisivo riuscire a trovare le modalità per adattarvisi, è decisivo impostare in maniera nuova l’azione educativa nei confronti dei giovani. Rinunciarvi significa non essere al passo con i tempi, scollegarsi dal mondo giovanile, non adempiere ad una funzione sociale vitale per la società”. la società.” Bibliografia: A. AUGENTI, Europa chiama scuola, Roma, Sermitel, 1998. L’educazione interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri, in «Studi e documenti degli Annali della pubblica istruzione». 1995, Ministero della P.I., Le conoscenze fondamentali per l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana nei prossimi decenni, in «Studi e documenti degli Annali della P.I.», Elisabetta D’Onofrio I diritti umani alle soglie del nuovo millennio: la politica di tutela attuata dall’Unione Europea. R. Travagli, Fenomenologia del disagio giovanile. Appunti per una pedagogia della devianza, Urbino, Edizioni Goliardiche, 1999. S. Sharp e P. K. Smith, Bulli e prepotenti nella scuola. Prevenzione e tecniche educative, Trento, Erickson, 1995, P. Crepet, Le dimensioni del vuoto. I giovani e il suicidio, Milano, Feltrinelli, 1993, 25