riconfigurare l`“oralità”. reciproche influenze tra lo studio

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riconfigurare l`“oralità”. reciproche influenze tra lo studio
Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive
Corso di laurea magistrale in Scienze della Comunicazione
RICONFIGURARE L’“ORALITÀ”.
RECIPROCHE INFLUENZE TRA LO STUDIO DELLE CULTURE ORALI
E LO STUDIO DELLA CULTURA SORDA.
Relatore
Chiar.mo Prof. Massimo Squillacciotti
Controrelatore
Chiar.mo Prof. Fabio Mugnaini
Tesi di laurea di
Filippo Secchi
Anno Accademico 2013 / 2014
Indice
Introduzione ............................................................................................................ 5
Capitolo I
L’orecchio e l’occhio: il dibattito sull’oralità e la nascita dei Deaf Studies ......... 12
1.1 All’origine della “grande dicotomia” ........................................................ 12
1.1.1 Un mondo videocentrico ...................................................................... 14
1.1.2 La prepotente tirannia dell’orecchio .................................................... 20
1.2 Anche l’occhio vuole la sua parte ............................................................... 28
1.2.1 La visione conformista: i segni come parole........................................ 36
1.2.2 L’origine gestuale del linguaggio ........................................................ 40
1.2.3“People of the Eye”: la scoperta di una cultura..................................... 41
Capitolo II
Oltre il fonocentrismo: un’oralità senza suoni? .................................................... 43
2.1 Oralità e fonocentrismo .............................................................................. 43
2.1.1 La metafisica della presenza ................................................................ 44
2.1.2 Suoni, parole, pensiero: ciò che ci rende umani? ................................. 45
2.1.3 Senza suoni, senza parole: gli esclusi dal mondo del suono ................ 49
2.2 Il modello patologico della sordità: la metafora del silenzio ..................... 51
2.2.1 Svelare l'audismo ................................................................................. 58
2.3 Lingue dei segni e oralità ............................................................................ 61
2.3.1 L’indipendenza delle lingue dei segni dalle lingue parlate .................. 63
2.4 Oralità senza suoni ..................................................................................... 66
2.4.1 La relazione tra narratore, narrazione e pubblico................................. 71
2.4.2 I generi della tradizione “orale” segnata .............................................. 73
2.4.3 I temi della narrativa “orale” segnata ................................................... 75
Capitolo III
“Corp-oralità” e nuove alfabetizzazioni................................................................ 78
3.1 Ridefinire l'oralità ....................................................................................... 78
3.2 Il video è una forma di scrittura? ............................................................... 79
3.2.1 Canone letterario, autorialità, sperimentazione linguistica .................. 80
3.3 Letteratura del corpo .................................................................................. 85
3.3.1 Un corpo narrativo ............................................................................... 87
3.3.2 Il corpo come veicolo di presenza e del senso di appartenenza ........... 89
3.4 La cognizione spaziale e l’azione corporea alla base del linguaggio ........ 93
3.4.1 Cognizione motorio-percettiva del tempo e dello spazio ..................... 94
3.5 Ridefinire l’alfabetizzazione ........................................................................ 97
3.5.1 Molteplici alfabetizzazioni ................................................................. 100
Conclusioni .......................................................................................................... 103
Bibliografia .......................................................................................................... 106
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Introduzione
Nell’ottobre del 2009 il centro storico di Orvieto venne pacificamente invaso
da un numeroso e variamente colorato gruppo di giovani, la loro presenza
avvertibile già a qualche isolato di distanza, segnalata da un chiassoso quanto
trascinante incedere ritmico di percussioni, amplificato nella sua propagazione
dagli echi e dalle risonanze degli stretti vicoli incorniciati dai palazzi medievali
che impreziosiscono la cittadina umbra. Raccolta in una piazza adiacente al
centralissimo Palazzo del Popolo, la nutrita folla di ragazzi, suddivisa in ordinate
quanto fluide disposizioni circolari, era impegnata in vibranti conversazioni.
Dislocati in vari punti della piazza, altri partecipanti all’originale assembramento
donavano alla piazza un sapore carnevalesco esibendosi, apprezzati da un ristretto
pubblico di astanti, a varie evoluzioni ed esercizi di giocoleria. Benché lo spazio
aperto della piazza, al contrario delle strette vie del centro cittadino, favorisse il
disperdersi del suono, il rullare dei tamburi, incessante, era tale da scoraggiare il
tentativo di qualsiasi scambio verbale, a meno di non essere disposti ad alzare
significativamente il tono della propria voce. I giovani raccolti nella piazza,
apparentemente indisturbati dal frastuono circostante, proseguivano tuttavia nelle
loro vivaci e movimentate interazioni, interrotte saltuariamente solo dai festosi
convenevoli riservati agli ultimi arrivati. L’occasione dell’inusuale ritrovo era il
primo festival nazionale dei giovani sordi, un evento in grado di richiamare
partecipanti provenienti da tutta Italia, accorsi per assistere a un’intensa ed
eclettica due giorni di seminari, workshop, lezioni, performance artistiche, mostre
fotografiche, pittoriche, e di art plastiche, presentazioni di recenti pubblicazioni
scientifiche, dimostrazioni di innovative tecnologie di comunicazione, esibizioni
teatrali, cabaret e arti di strada: il tutto all’insegna della Lingua dei Segni Italiana,
della cultura sorda, e della comunità dei sordi italiani. I ragazzi che attendevano
impazienti l’apertura del festival erano i membri più giovani di questa peculiare, e
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spesso “invisibile” 1 comunità linguistica, e le loro conversazioni, capaci di
continuare indifferenti alla saturazione sonora prodotta dal soverchiante incedere
dei tamburi, erano condotte nella lingua visiva-gestuale dei sordi italiani, la LIS.
Qualche mese prima, nell’estate dello stesso anno, qualche decina di giovani
adulti, sordi anch’essi, si ritrovò a Siena per partecipare a un workshop finalizzato
al perfezionamento delle tecniche di storytelling in LIS. Alla fine dei tre giorni di
studio e pratica, i partecipanti presentarono le proprie performance, un variegato
campionario di poesie, “canzoni”, narrative personali, storie dal tono di volta in
volta umoristico e drammatico, barzellette, sketch comici e giochi linguistici: tra
narrazioni individuali e narrazioni di gruppo, tra creazioni originali e rivisitazioni
della tradizione folklorica della comunità sorda, gli studenti del workshop misero
in scena un significativo repertorio di artefatti culturali in LIS.
Dalle riflessioni estemporanee maturate durante l’osservazione, pur limitata e
condotta in maniera non sistematica, di questi e di altri eventi analoghi, oltre che
di innumerevoli interazioni spontanee e non strutturate tra individui sordi, sia
italiani che americani, ha preso avvio questo lavoro di tesi. Riflessioni condotte
intorno a un’unica idea centrale: le modalità di interazione e socializzazione dei
sordi, tanto quelle spontanee quanto quelle messe in atto in eventi formalizzati
come il festival di Orvieto, le caratteristiche emergenti, “strutturali”, della grande
varietà di performance artistiche e “letterarie” a cui si è avuto occasione di
assistere, persino lo svolgersi delle ordinarie conversazioni quotidiane tra
segnanti, presentavano un’impressionante similitudine con la rigorosa descrizione
delle culture orali proposta da Walter Ong in Oralità e Scrittura (1991). Con una
significativa, fondamentale differenza: queste interazioni, questi esempi di
“letteratura”, questi scambi linguistici, prendevano vita in una modalità senza
alcuna traccia di “oralità”, in un medium, la lingua dei segni, che non solo rifugge
il mondo del suono, ma secondo la teoria dell’oralità si colloca addirittura agli
1
Nessun particolare attributo anatomico permette, a prima vista, di distinguere una persona sorda
da una udente. La sordità in quanto qualità distintiva emerge solo in un contesto relazionale, nel
momento in cui si instaura una comunicazione tra due esseri umani. Solo allora, nell’impossibilità
(relativa) del primo di intraprendere la comunicazione mediante il linguaggio verbale, si verifica la
rottura delle convenzioni associate alla comunicazione linguistica.
6
antipodi rispetto a esso. Com’era possibile che un medium come la lingua dei
segni, articolato con le mani e con il corpo e percepito per mezzo della vista,
esibisse le stesse proprietà che, secondo Ong, permettono di caratterizzare il
pensiero e l’espressione delle culture che non fanno uso della scrittura e
dispongono solamente del linguaggio verbale, articolato sul canale che dalla
bocca dell’emittente conduce all’orecchio del ricevente? Com’era possibile che il
binomio mano-occhio, associato nella teoria dell’alfabetizzazione alla più radicale
trasformazione tecnologica della parola nella storia dell'umanità, la scrittura, fosse
qui l’elemento costitutivo di una comunicazione linguistica contraddistinta dalla
medesima evanescenza attribuita al suono e soggetta agli stessi vincoli spaziotemporali delle interazioni faccia-a-faccia? La “psicodinamica dell’oralità”,
secondo la fortunata e ubiqua formula coniata dallo studioso gesuita, sembrava
poter rendere conto di fenomeni comunicativi e sociali che, paradossalmente, non
accadevano nel dominio proprio dell’oralità, il suono appunto, ma bensì in un
contesto dove proprio le orecchie, immediata metonimia per il senso dell’udito e
luogo d’elezione dei fenomeni sonori significativi per l’esperienza umana, erano il
simbolo attraverso cui marcare immediatamente la differenza tra le capacità
sensoriali dell’individuo sordo rispetto e quelle dell’individuo udente. Sotto la
spinta propulsiva data dall’urgenza di ridurre questa “dissonanza”—termine che,
in questo contesto, appare ironicamente inappropriato—il presente elaborato nasce
con il proposito di indagare le relazioni tra due campi di studio apparentemente
distanti, in quanto afferenti a domini sensoriali così distinti, eppure collegati da
una fitta rete di molteplici, benché “sotterranee”, reciproche relazioni: gli studi
etno-antropologici sull’oralità e sulle conseguenze dell’alfabetizzazione da un
lato, e gli studi sulla sordità (Deaf Studies)2 dall’altro.
2
La traduzione letterale in lingua italiana dell’originale termine “Deaf Studies”, “studi sulla
sordità”, verrà qui adoperata di frequente, pur con la consapevolezza che essa non sia in grado di
cogliere perfettamente il significato che la dicitura originale assume all’interno della tradizione
accademica anglosassone. Il termine-ombrello “Deaf Studies”, sulla scia della tradizione dei
cultural studies, con i quali condividono la tendenza a un approccio che è a un tempo teoretico,
pragmatico e con esplicite finalità politiche, raccoglie sotto di sé una varietà di approcci
disciplinari—dall’etno-antropologia alla sociologia, dalla psicologia cognitiva alla
sociolinguistica, con frequenti escursioni nel territorio di competenza delle scienze economiche,
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La sordità si presenta (letteralmente) agli occhi dello studioso come un oggetto
teorico liquido, capace di assumere una molteplicità di forme, così fluido da
sfuggire i tentativi di racchiuderlo entro precisi confini interpretativi e
“contenitori” epistemologici. Affrontare la sordità implica spesso aprire
un’infinita ramificazione di fenomeni legati alla biologia e all’esperienza umana:
significa affrontare le specificità di una lingua articolata lungo il canale visivogestuale—che coinvolge gli occhi, l’espressione del viso, la postura e il
movimento del corpo—invece di quello audio-vocale, e allo stesso tempo
significa prendere in considerazione gli inusuali e spesso problematici contesti e
le modalità sociali e culturali attraverso cui questa lingua viene appresa; significa
considerare la peculiare dotazione neurofisiologica del sordo e le disposizioni
cognitive che questa dotazione favorisce, e contemporaneamente tenere presente
quanto l’ambiente circostante, sia fisico che culturale, ne orienti e ristrutturi lo
sviluppo; significa identificare le pratiche comunicative e relazionali a cui l’uso di
questa modalità comunicativa dà origine e al contempo considerare come queste
pratiche si inseriscano in un contesto culturale e sociale più ampio, caratterizzato
da pattern comportamentali con esse spesso incompatibili, dando così vita a
complesse relazioni di potere e di costruzione dell’identità individuale e collettiva;
significa, da ultimo, affrontare la preoccupazione alla base dell’indagine di tutte le
scienze umane, l’inestricabile groviglio di vincoli, reciproche influenze e costanti
adattamenti che coinvolge la Natura e la Cultura, sempre meno distinte tra loro di
politiche, della storia, della retorica e della critica letteraria—che assumono come proprio oggetto
di indagine scientifica lo studio degli individui sordi, dei gruppi di sordi, e delle istituzioni e
organizzazioni legate ai sordi, con l’obiettivo di descrivere i vari aspetti che compongono
l’esperienza sorda di essere-nel-mondo, attraverso l’analisi delle credenze, delle attitudini, degli
orientamenti valoriali, dei comportamenti condivisi, delle pratiche culturali ed epistemologiche
che la contraddistingue. Alla presenza ormai stabile e relativamente diffusa nel contesto
universitario nordamericano non corrisponde, a oggi, altrettanta diffusione nel resto del mondo,
dove l’attività di ricerca in questo ambito è perseguita in un numero limitato di dipartimenti presso
alcune università europee (nel Regno Unito e nei Paesi Bassi) ed extra-europee (in Nuova Zelanda,
India e Hong Kong).
Per distaccarsi dall’approccio predominante di matrice nordamericana, Zuccalà (2007) ha avanzato
la proposta di introdurre la nozione di “Antropologia della Sordità”, così da affrontare la
fenomenologia della cultura sorda da una prospettiva—e attraverso una metodologia—
eminentemente etno-antropologica, con una presa di distanza dalle finalità “militanti” implicite
nell’approccio dei Deaf Studies, pur condividendone l’ipotesi di fondo secondo cui la sordità non
sia (unicamente) un deficit sensoriale, ma bensì una risorsa generatrice di cultura.
8
quanto, per secoli, non si sia pensato.
Nel primo capitolo verranno presentate le origini delle due aree di studio tra le
quali si muove questo lavoro. Accomunate da una data di nascita coeva,
identificata nei primi Anni ’60, esse hanno intrattenuto sin dal principio,
probabilmente in modo del tutto inconsapevole, un legame originario. Nel
contestare i presupposti della scienza linguistica, orientata allo (e dallo) studio del
linguaggio nella sua forma scritta (e incline ad attribuire all’espressione orale
giudizi di valore basati sulla vicinanza alla forma scritta, concepita come forma
“standard”), la teoria dell’oralità stabilì il primato ontogenetico e filogenetico
dell’espressione orale rispetto alla scrittura. Lo studio delle lingue dei segni, le
quali mancano storicamente di un sistema di scrittura pienamente sviluppato,
beneficiò, nel suo reclamare dignità scientifica, di un contesto culturale in cui
l’assenza di un sistema di rappresentazione grafica del linguaggio non implicava
una minore dignità del linguaggio stesso. In senso totalmente opposto, tuttavia, il
nuovo primato dell’oralità confinava ancora una volta le lingue dei segni, a causa
della loro articolazione gestuale, nella dimensione del non-linguistico, o, al
meglio, del pre-linguistico, negando loro lo status di lingue naturali. A sua volta,
la ricerca di legittimità linguistica spinse le prime ricerche nel campo dei
linguaggi segnati in direzione di uno spiccato conformismo teso a dimostrare lo
status di “lingua a tutti gli effetti” mediante la dimostrazione della compatibilità
del segnato con i modelli teorici consolidati nello studio delle lingue verbali. Solo
successivamente lo studio dei segni si è ridefinito in senso differenziale, prestando
attenzione a tratti distintivi quali la simultaneità e l’iconicità, con l’obiettivo di
mostrare l’inadeguatezza di quegli stessi modelli teorici e metodologici nel
rendere conto di tutte le possibili manifestazioni della propensione umana al
linguaggio.
Il secondo capitolo mira a fornire gli elementi per riconoscere i
condizionamenti ideologici alla base delle teorie sull’oralità e dell’ipotesi
dell’alfabetizzazione, attraverso la presentazione di fenomeni difficilmente
interpretabili mediante gli schemi concettuali elaborati all’interno del paradigma
della “Grande Dicotomia”: l’analisi del patrimonio culturale della comunità sorda
9
fornisce gli elementi per contestare la predilezione per il suono che ne ha orientato
l’elaborazione, offrendo lo spunto per uno sguardo critico ai fondamenti
metafisici sui quali essa si poggia.
Il terzo capitolo propone una cornice che, idealmente, vorrebbe ri-orientare gli
studi sull’oralità, spostando l’attenzione non può sull’astratta, deterministica
interazione tra i sensi e il linguaggio, fonte di generalizzazioni difficilmente
verificabili e viziate da notevoli condizionamenti ideologici, bensì sul contributo
che i sensi—concepiti non più come “finestre aperte sul mondo” (Classen 1997, p.
402), canali neutri attraverso cui la realtà esterna viene semplicemente “tradotta”
in segnali interpretabili dal cervello, ma piuttosto come “porte strette” (Marazzi
2010, p. 92), organi condizionati dalla fisiologia umana e dal contesto in cui
operano—apportano nel processo di costruzione del mondo, e sulla variabilità
culturale dei significati attributi alle sensazioni. Il sensorium, per utilizzare un
concetto caro a Ong (1967), infatti,
is not simply one aspect of bodily experience, but the basis for bodily experience.
We experience our bodies—and the world—through (enfasi in orig.) senses. Thus
the cultural construction of sensory perception conditions our experience and
understanding of our bodies and the world at a fundamental level (Classen 1997, p.
402).
Considerato il ruolo delle percezioni, si proporrà di sostituire il rigido schema
“oralità : udito = scrittura : vista” con il punto di vista idealmente neutrale
identificato nel concetto di corp-oralità (McCleary 2003), mediante il quale
focalizzare l’attenzione sul ruolo del corpo, in quanto sede incarnata del
linguaggio e della cognizione, soggetto cioè ai limiti e alle potenzialità derivate
dalla sua struttura motorio-percettiva, nei processi comunicativi umani.
Due precisazioni sono d’obbligo, per meglio definire l’oggetto di studio di
questo lavoro. In primo luogo, è opportuno segnalare come la teoria dell’oralità e
l’ipotesi dell’alfabetizzazione, specialmente nella sua espressione nota come
“Grande Dicotomia”, siano state ampiamente criticate all’interno del campo degli
studi linguistici e etno-antropologici. Tannen (1982, 1983), Gee (1986),
Rosenberg (1987), Peters (1998), Rumsey (2002), Cole e Cole (2006), Sterne
10
(2011) e soprattutto Finnegan (1988, 2002, 2003, 2006) hanno variamente
contestato le conclusioni della teoria dell’oralità, mettendone in discussione,
principalmente, la pretesa portata universalistica, non sostanziate dalle ulteriori
ricerche svolte sul campo, e l’ipotesi dell’alfabetizzazione, contestandone
l’implicito
determinismo
tecnologico,
l’inadeguato
modello
rigidamente
dicotomico e i pregiudizi etnocentrici insiti in molte delle sue formulazioni.
Nessuno di questi spunti è stato qui esaminato in dettaglio, ma alcune delle
obiezioni mosse da questi autori hanno comunque contribuito a tracciare le linee
guida entro cui questo ulteriore approccio critico è stato elaborato.
In secondo luogo, nonostante l’esistenza di una corposa letteratura in merito
(Padden – Humphries 1988; Kannapell 1989; Kyle 1990; Lane 1992; Dolnick
1993; Turner 1994; Reagan 1995; Zuccalà 1997a; Senghas – Monaghan 2002;
Ladd 2003; Woll – Ladd 2003), la definizione di cultura sorda impiegata nel corso
dell’argomentazione qui presentata non è stata problematizzata, optando per il
ricorso alla sua accezione più comune proposta originariamente da Padden (1980),
secondo cui la cultura sorda è l’insieme dei comportamenti appresi da un gruppo
di persone che ha il proprio linguaggio (la lingua dei segni), i propri valori, le
proprie credenze in merito alle persone sorde e nei riguardi delle persone non
sorde, le proprie regole comportamentali e un patrimonio di tradizioni comuni.
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Capitolo I
L’orecchio e l’occhio: il dibattito sull’oralità e la nascita
dei Deaf Studies
1.1 All’origine della “grande dicotomia”
All’inizio degli anni Sessanta, in modo improvviso e inatteso, e in virtù di una
coincidenza di interessi che agli stessi protagonisti apparve per lo più frutto della
casualità, la comunità intellettuale occidentale si ritrovò a dibattere attorno alle
implicazioni storiche, sociali e cognitive della comunicazione orale e delle sue
relazioni con i sistemi di rappresentazione grafica del linguaggio, un tema che
ancora oggi appare un fecondo ambito di ricerca per le scienze sociali in generale,
e per le discipline etnoantropologiche in particolare.
La rinnovata sensibilità nei confronti della tradizione orale e delle relazioni
sussistenti tra oralità e scrittura culminò nella pubblicazione quasi contemporanea
di alcune opere fondamentali: nell’arco di poco meno di un anno, tra il 1962 e il
1963, Marshall McLuhan, Jack Goody e Ian Watt, Claude Lévi-Strauss e Eric
Havelock, pubblicarono quattro lavori (rispettivamente, The Gutenberg Galaxy, il
lungo articolo The Consequences of Literacy, La Pensée Sauvage e Preface to
Plato) in cui, accanto al proposito di indagare i fenomeni legati all’oralità, si
perseguiva l’inedito obiettivo di dimostrare come la differenziazione tra le diverse
culture potesse essere ricondotta all’introduzione di un sistema di scrittura, evento
questo in grado di determinare la divaricazione tra le culture orali e quelle
alfabetizzate.
Partendo da prospettive differenti, dati i diversi ambiti delle scienze sociali in
cui questi studiosi operavano, e in condizioni di relativo isolamento l’uno dagli
altri, ciascuno impegnato a perseguire linee di ricerca reciprocamente indipendenti
(Havelock 1995, p. 14), questi autori—tra i quali spiccano i protagonisti di quella
12
che sarebbe poi diventata nota come Scuola di Toronto 3 —concordarono
nell’avvertire la necessità di proporre dei modelli esplicativi del funzionamento
delle società orali e di quelle alfabetizzate. Questa simultanea convergenza di
interessi nei confronti delle pratiche legate all’oralità e delle relazioni tra la parola
parlata e la parola scritta apparve, agli occhi degli stessi protagonisti, un evento
accidentale
all’interno
delle
dinamiche
culturali
del
periodo.
Solo
successivamente si riconobbe che all’origine di questa “emozione collettiva”
risiedevano le inquietudini generate dalla diffusione dei mezzi di comunicazione
di massa nella società occidentale, responsabili di aver toccato “un nervo comune
[…], un nervo acustico e quindi orale” (Havelock 2005, p. 39). La presa di
coscienza degli effetti dei media elettrici fu il fattore determinante nel dare avvio a
questa profonda riflessione sulle caratteristiche dell’oralità (pp. 39-43)4, nella
convinzione che, come teorizzò McLuhan qualche anno più tardi,
[a] causa della sua azione nell’estendere il nostro sistema nervoso centrale, la
tecnologia elettrica sembra favorire la parola parlata, inclusiva e partecipe, a
3
Tra gli studi fondativi della Toronto School of Communication vanno ricordati, oltre ai contributi
di McLuhan e Havelock qui citati, anche i lavori di Harold Innis, studioso di politica economica
che spostò progressivamente la sua attenzione dall’analisi del funzionamento delle reti
commerciali a quella degli effetti delle tecnologie della comunicazione. Al di là di reciproche
influenze (e inevitabili contatti, considerata la condivisione del medesimo spazio accademico), è
problematico parlare di “scuola” in senso stretto, dato che questi autori portarono avanti i loro
studi in modo autonomo e secondo approcci disciplinari radicalmente diversi. Tuttavia è
rintracciabile un interesse comune che spinge questi studiosi a rivolgere la loro attenzione nei
confronti degli effetti dei mezzi di comunicazione, ed è innegabile che le loro ricerche abbiano
preparato il terreno all’“esplosione” degli studi sul rapporto oralità-alfabetizzazione qui preso in
esame, dando di fatto origine a una “scuola di pensiero”. Lo studio dei media inaugurato dalle
ricerche condotte presso la University of Toronto già a partire dagli anni ’30 è stato portato avanti
da un gran numero di altri studiosi, sia che essi fossero o meno direttamente legati all’ambiente
accademico canadese. Tra questi figurano alcuni dei protagonisti del dibattito sull’oralità che viene
qui preso in esame, ovvero Walter Ong, Jack Goody e David Olson, nonostante gli ultimi due non
ritengano giustificato il proprio inserimento all’interno di questa tradizione di studi (cfr.
Kerckhove 1989, p. 74).
4
Questa è l’interpretazione fornita da Havelock e condivisa in seguito da Ong. Goody e Watt,
invece, rintracciano in alcune esperienze personali l’origine del loro interesse nei confronti delle
conseguenze dell’alfabetizzazione, ovvero il contatto con le culture prive di metodi di scrittura
avvenuto durante le ricerche antropologiche svolte da Goody, e il lungo isolamento e la
deprivazione di materiali scritti sperimentati da Watt durante gli anni di prigionia patiti nel corso
della seconda guerra mondiale (Goody 1968, p. 1, n. 1). Tuttavia, la drammatica esperienza bellica
di Watt implica, in qualche modo, la consapevolezza della rinascita dell’oralità attraverso i media
elettrici, dato che durante la lunga prigionia egli mantenne il suo unico contatto con il mondo
esterno grazie all’ascolto della radio da campo (Frasca 2005, p. 22).
13
scapito di quella scritta, tipicamente specialistica. I valori occidentali, che poggiano
sulla parola scritta, sono già stati parecchio scossi da media elettrici come la radio,
il telefono e la TV. (McLuhan 1999 [1964], p. 91)
Havelock (1995, p. 14) ha sottolineato la criticità di questo momento chiave
nella storia della scienze umane, definendolo una “sorta di spartiacque […] o più
esattamente una diga che sta[va] per cedere”: la pubblicazione di questi testi,
infatti, aprì la strada ad un’intensa attività intellettuale volta alla spiegazione di
quella che egli stesso ha definito “l’equazione oralità-alfabetizzazione” (p. 15). Lo
stesso Havelock ha offerto la misura della forza dirompente di quest’ondata di
studi sull’oralità: analizzando la vasta bibliografia compilata da Walter Ong nel
suo fondamentale lavoro Oralità e Scrittura (Ong 1991 [1982]), pubblicato
vent’anni dopo il cedimento di quella metaforica diga citata in precedenza, egli fa
notare quanto sia modesta la quantità di testi dedicati allo studio dell’oralità
pubblicati in anni precedenti al 1962, e quanto sia invece ricca la lista degli studi
sull’argomento pubblicati successivamente a questa data (Havelock 2005, p. 32).
1.1.1 Un mondo videocentrico
La riflessione avviata dalle pubblicazioni del 1962-63 si basa sull’assunto che i
cambiamenti nelle tecnologie dei mezzi di comunicazione siano alla base dei
mutamenti riscontrabili in ambito psicologico5 e sociale, e questo si verifica tanto
in senso diacronico quanto lungo la dimensione transculturale. Secondo questa
concezione, l’invenzione della scrittura—ma in particolare l’ideazione e la
diffusione di un tipo specifico di scrittura, quella alfabetica, a opera di una
specifica civiltà, quella greca6—segna la comparsa di un nuovo medium in grado
di ristrutturare le attività comunicative umane, un medium destinato ad avere un
5
Havelock (1986, p. 138) afferma che “communication is not merely the instrument of thought; it
also creates thought”.
6
Poiché, secondo Goody,
[d]al punto di vista dei rapporti umani, l’introduzione dei sistemi di scrittura logografici
presenta implicazioni diverse rispetto all’introduzione dell’alfabeto. In secondo luogo,
fattori diversi da quelli immediatamente “tecnologici” sono di importanza critica per
definire il modo (distinto dal mezzo) della comunicazione. Sono questi fattori (religiosi,
politici, economici e via dicendo) a restringere o ampliare le potenzialità dei diversi canali
o registri” (Goody 1989, p. 116).
14
effetto determinante sulla specie tanto al livello delle modificazioni cognitive e
sensoriali individuali quanto al livello dei cambiamenti in ambito culturale,
economico, politico e sociale.
La cosiddetta “ipotesi dell’alfabetizzazione”, nella sua versione più radicale,
implica una profonda e insanabile discontinuità tra cultura orale e civiltà della
scrittura, poiché la scrittura abilita lo sviluppo di nuove competenze che
determinano un’irreversibile separazione tra i due mondi. L’ipotesi fondamentale
sostenuta dai teorici della “grande dicotomia” consiste nel ritenere che la
tecnologia dell’alfabeto fonetico abbia avviato un processo di ridefinizione del
sensorio, e abbia, attraverso l’enfatizzazione del ruolo della vista a discapito
dell’udito, alterato l’equilibrio dei rapporti tra i sensi. Invitando l’uomo a cedere
“un occhio per un orecchio”, secondo la celebre formula coniata da McLuhan
(1962, p. 27), la scrittura alfabetica ha dato inizio ad un processo di totale
capovolgimento delle priorità assegnate ai sensi che arriverà al suo apice con
l’invenzione e l’interiorizzazione della parola stampata. “Se l’alfabeto fonetico
cadde come una bomba sull’uomo tribale, il torchio da stampa lo colpì come una
bomba all’idrogeno di 100 megatoni”, afferma McLuhan (1982, p. 35) in una
delle sue celebri iperboli, efficace nel riuscire a sintetizzare in un’immagine
fortemente drammatica la portata degli effetti della scrittura sulla mentalità
dell’uomo orale, e le conseguenze ancora più accentuate del successivo avvento
della tecnologia tipografica. La differenza tra le culture orali e quelle alfabetizzate
viene interpretata, dunque, quale risultato di una radicale diversità nel modo di
percepire e interpretare il mondo attraverso i sensi (Ong 1969). Nella cultura
occidentale, considerata tradizionalmente figlia della classicità greca, la parola
scritta, da Platone in poi, avrebbe preso progressivamente il sopravvento sulla
parola parlata, determinando un riallineamento psicologico dovuto alla
trasposizione della parola dal mondo effimero del suono allo spazio delimitato e
permanente della pagina:
The use of this invention in the course of 300 to 400 years after 700 B.C. had a
transformational effect upon the behavior of the Greek language, upon the kind of
things that could be said in the language and the things that could be thought as it
15
was used. [...] What precisely was its nature? […] a shift from poetry to prose as
the medium of preserved communication; […] a shift in literary style from
narrative towards exposition; […] the creation of a new literate syntax of definition
which could be superimposed upon the oral syntax that described action (Havelock
1986, p. 134).
Prerequisito fondamentale per comprendere la filosofia platonica e la sua
successiva influenza sul pensiero occidentale—la “prefazione a Platone” a cui
allude il titolo del libro di Havelock—è capire la portata del capovolgimento
culturale in atto nella società greca, un momento di crisi in cui ad un paradigma
fondato sull’oralità si sostituiva una modalità conoscitiva orientata primariamente
dal senso visivo: è in questo contesto che Platone ha elaborato la propria
metafisica, così come una nuova epistemologia e la pedagogia alla base del suo
stato ideale (Havelock 2005, pp. 10-12).
Sul piano cognitivo, questa trasposizione del linguaggio da un medium ad un
altro, e la sua fruizione attraverso una modalità alternativa—visiva piuttosto che
uditiva—consentirebbe all’uomo alfabetizzato operazioni mentali precluse
all’illetterato, differenziandolo da quest’ultimo attraverso la ridefinizione dei
processi impliciti nella produzione, trasmissione, immagazzinamento e recupero
della conoscenza mediante il linguaggio. Le conseguenze che i teorici della
“grande dicotomia” attribuiscono all’impiego della scrittura sono, pertanto,
molteplici e di vasta portata: benché il nuovo medium della scrittura non abbia
soppiantato totalmente il vecchio medium della parola parlata, esso svolge in
modo nuovo le stesse funzioni, oltre ad introdurne progressivamente di nuove
(Olson – Torrance 1995, p. 9).
In primo luogo, l’utilizzo di media diversi modifica il modo di comunicare,
influenzando così le relazioni sociali tanto al livello micro delle interazioni tra gli
individui quanto a quello più ampio dei rapporti tra gruppi. La specificità del
medium della scrittura si manifesta primariamente garantendo la permanenza della
parola: questo consente, da un lato, di poter riesaminare e rettificare l’espressione
orale, condizione necessaria per l’emergere della conoscenza scettica (Goody –
Watt, p. 344), e dall’altro di favorire lo sviluppo del ragionamento logico-
16
deduttivo (di cui quello sillogistico costituisce un esempio classico) (ib.). Lo
stoccaggio dell’informazione introduce nuove forme di discorso (ad esempio,
liste, tabelle, categorie, voci di dizionario) (Goody 1989, p. 267 e ss.), consente la
fissazione e l’accumulazione dei testi (p. 89 e ss.), e spinge al rifiuto dei metodi
tradizionali
di
conoscenza
e
trasmissione
del
sapere,
sostituendo
al
coinvolgimento estatico proprio della poesia la razionalità analitica della prosa
scientifica (Havelock 1995, pp. 27-28). Separare nel tempo e nello spazio il
momento dell’enunciazione del messaggio dal momento della sua ricezione
significa rendere il significato indipendente dal contesto e dalle conoscenze
condivise tra i soggetti dell’interazione, una condizione che, da una parte, invita il
lettore alla riflessione individuale, silenziosa e solitaria (Ong 1991, p. 185), e
dall’altra spinge lo scrittore a sviluppare la tecnica saggistica, ovvero elaborare il
discorso in modo che
la frase affermi in effetti il significato che essa intende esprimere, e non affermi
solamente ciò che intende affermare ma lo affermi anche in modo che non solo sia
vera l’asserzione ma siano vere anche le implicazioni logiche di quella asserzione:
un’asserzione che rimanga vera anche se sottoposta ad ulteriore analisi. (Olson
1979, p. 153).
Alla fruizione del linguaggio attraverso modalità alternative sarebbe
imputabile, invece, l’introduzione di mutamenti sia della forma sia degli usi del
linguaggio stesso. L’ipotesi fondamentale, introdotta nella sua versione più
estrema da McLuhan, è che la modalità sensoriale abbia un peso decisivo nel
determinare quali operazioni cognitive siano possibili attraverso il linguaggio.
Come accennato in precedenza, la riflessione mcluhaniana trascura gli aspetti
generali legati all’invenzione tout-court della scrittura, focalizzandosi pressoché
unicamente sull’alfabeto fonetico e traendo, dall’analisi di questo particolare
sistema, conclusioni di carattere universale. La rappresentazione del flusso sonoro
per mezzo di un codice visivo costituito da simboli ordinati in sequenze lineari
(questo è infatti il principio fondamentale su cui si basa l’alfabeto fonetico),
sarebbe il passaggio fondamentale che consentirebbe all’uomo di sottrarsi alla
pressione della tradizione—di abbandonare il mondo tribale, nella terminologia di
17
McLuhan—e di riconfigurarsi secondo una nuova modalità conoscitiva incentrata
su un senso fortemente spazializzante come la vista: strappato al coinvolgimento
totalizzante del mondo audio-tattile, l’uomo “detribalizzato” si orienta verso uno
stile cognitivo videocentrico, che McLuhan caratterizza come prospettico,
astraente, lineare, analitico, discreto (McLuhan 1962, pp. 23-28). Non
sorprendentemente, dato che i debiti nei confronti del sociologo canadese sono
noti e apertamente riconosciuti, questa è anche la posizione sostenuta da Walter
Ong, il quale, in termini forse meno evocativi ma non per questo meno radicali,
nelle varie pubblicazioni (cfr. Ong 1986, 1987, 1991) in cui ha affrontato lo studio
delle conseguenze dell’invenzione e dell’interiorizzazione della scrittura ha
individuato in essa una trasformazione tecnologica della parola in grado di
modificare (“ristrutturare”) il pensiero. Poiché “l’intelligenza è sempre
autoriflessiva”, scrive Ong, essa “interiorizza anche i suoi strumenti esterni, i
quali diventano parte del proprio processo di riflessione” (Ong 1991, p. 122): le
tecnologie—e qui è facile riconoscere l’influenza mcluhaniana—non svolgono il
semplice ruolo di aiuti esterni, ma comportano la trasformazione delle strutture
mentali. Il confinamento della parola nello spazio bidimensionale della pagina, “la
riduzione del suono a spazio” (p. 123), separa il linguaggio dal presente, e così
facendo trasporta “il discorso dal mondo orale-aurale a una nuova dimensione del
sensorio, quella della vista” (p. 127), trasformando al tempo stesso sia il pensiero
che il discorso (agendo anche sull’espressione orale dell’individuo letterato, non
comparabile all’espressione orale di colui che non abbia avuto contatto con la
scrittura). Tra tutti i sistemi di scrittura storicamente realizzati, l’alfabeto fonetico
è quello maggiormente adatto a ridurre il suono a forma visiva: avendo perso ogni
rapporto cone le cose che intende rappresentare, come accade invece nei sistemi di
scrittura ideografici e pittografici, l’alfabeto fonetico “rappresenta il suono stesso
come una cosa, trasformando l’evanescente mondo sonoro in un quieto, quasi
permanente, mondo dello spazio” (p. 134), orientando in senso visuo-spaziale
anche i processi cognitivi. La reificazione della parola comporta la possibilità di
operare su di essa in modi impensabili in un contesto dominato dall’oralità, poiché
la parola-oggetto, esperita per mezzo del senso della distanza, tanto al livello
18
cognitivo individuale quanto al livello sociale, favorisce una molteplicità di
processi di separazione: tra l’oggetto e il soggetto della conoscenza, condizione
che, promuovendo l’oggettività, sottende allo sviluppo del pensiero scientifico
(così come è inteso in Occidente) (Ong 1986, p. 37); tra l’interpretazione dei dati
e i dati stessi, distinguendo il testo da chiunque lo enunci, legga o ascolti, e quindi
costringendo le interpretazioni che questi soggetti possono elaborare sul testo in
oggetto a diventare “altro” rispetto ad esso (p. 38); tra la sorgente del messaggio,
lo scrittore, dal suo ricevente, il lettore, allontanati l’uno dall’altro tanto nello
spazio quanto nel tempo (p. 39); tra la parola e il suo naturale habitat esistenziale,
sostituendo al contesto della parola parlata, dominato da istanze non-verbali, solo
altre parole facenti parte dello stesso testo, una dieresi che rafforza la precisione
(ideale squisitamente visivo), poiché l’assenza di un contesto non-verbale
costringe le parole ad assumere significati sempre meglio definiti; tra il passato e
il presente, ora chiaramente distinti e non omogeneizzati come tipicamente accade
del mondo orale (p. 40); tra l’amministrazione, sia essa civile, religiosa,
commerciale, e il resto delle altre attività sociali, creando tanto un insieme
specialistico di funzioni ignote in una cultura orale, quanto un gruppo sociale
dotato delle speciali competenze per svolgere queste funzioni (ib.); tra la logica, la
struttura del discorso, e la retorica, il discorso persuasivo socialmente efficace
(ib.); tra la conoscenza astratta, accademica, distaccata, indipendente dalla sua
applicazione nel mondo reale, e la saggezza, sempre situata nel contesto d’uso a
cui essa si riferisce (p. 41); tra una lingua “alta”, di alto prestigio,
chirograficamente controllata, e una lingua “bassa” esclusivamente orale, dando
origine a fenomeni di diglossia (ib.), e tra i grafoletti, dialetti che rafforzati dalla
scrittura assumono una posizione egemone, e il resto dei dialetti, destinati a una
posizione subalterna (p. 42); e, infine, “the most momentous of its dieretic effects
in the deep history of thoughts” (p. 43), la separazione tra l’essere e il tempo,
necessaria alla riflessione metafisica, e quindi alla riflessione filosofica.
L’ipotesi di Olson (1995), elaborata in tempi più recenti, prende in esame un
altro aspetto derivante dalla mediazione del linguaggio attraverso modalità
sensoriali diverse. La scrittura è, in sé, un’attività metalinguistica che si articola a
19
più livelli. La rappresentazione della lingua orale mediante simboli grafici (più o
meno accurata, a seconda di quali aspetti—siano essi sonori o semantici—il
sistema si prefigga di rappresentare) è un’attività che assume come proprio
oggetto il linguaggio stesso, in un processo che produce conoscenza linguistica.
Tale conoscenza dipende dal sistema di rappresentazione adottato, poiché sistemi
di scrittura diversi permettono l’emergere di diverse proprietà costitutive del
linguaggio: “la scrittura logografica rappresenta la struttura delle parole, quelle
sillabiche rappresentano le sillabe, gli alfabeti rappresentano i fonemi, e così via”
(p. 273). Il sistema di scrittura avrebbe pertanto un ruolo fondamentale nella
costruzione della consapevolezza linguistica, nell’offrire cioè un modello della
struttura del linguaggio: l’elaborazione di un sistema di scrittura come quello
alfabetico non sarebbe dovuta ad una pre-esistente comprensione del linguaggio
come composto da unità minime (i fonemi), ma piuttosto sarebbe vero il contrario,
ovvero una teoria linguistica che si propone di analizzare il linguaggio
individuandone un elemento costitutivo come il fonema può essere elaborata solo
in un contesto in cui si faccia uso di un sistema di scrittura di tipo alfabetico.
Parafrasando la nota ipotesi whorfiana, secondo cui gli esseri umani interpretano
la realtà inquadrandola secondo linee dettate dalla loro lingua madre, Olson
sostiene che l’uomo sia in grado di “analizzare il linguaggio secondo linee
determinate dal [proprio] sistema di scrittura” (1993, p. 15; 2006, 2009a). Ad un
livello successivo, l’esistenza di questa rappresentazione grafica, e la conoscenza
linguistica ottenuta attraverso di essa, favoriscono a loro volta la formazione di
una nuova competenza metalinguistica, destinata a realizzarsi, in questo caso, sul
piano del linguaggio orale: si rende necessario, infatti, l’uso di un metalinguaggio
orale che assume la scrittura stessa (“o qualunque altro aspetto di un’espressione o
di un testo”) come suo oggetto (Olson 1995, p. 273).
1.1.2 La prepotente tirannia dell’orecchio
Le due modalità in cui è possibile articolare il linguaggio verbale vengono,
come si è detto, concettualizzate nei termini di due poli estremi di una relazione di
opposizione. Questa articolazione binaria, tuttavia, non implica la mutua
esclusività, così come il sottolineare la separazione creata dalla scrittura, in quanto
20
tecnologia spartiacque tra culture orali e alfabetizzate, non significa sottintendere
che gli effetti del processo di alfabetizzazione (e, successivamente, della stampa
tipografica) siano immediatamente percepibili. L’invenzione della scrittura viene
interpretata come evento cardine nella creazione di una fondamentale
discontinuità nel processo evolutivo della specie e delle società umane, ma il
ridimensionamento (e non l’annullamento) dell’oralità a cui essa dà luogo è un
processo lungo e complesso. Pensare le due tradizioni orale e scritta come due
manifestazioni totalmente distinte, precisa Goody, sarebbe un errore: seppure in
misura variabile, “l’interazione risulta essere costante [e] anche là dove la
maggior parte della popolazione non legge né scrive, si registra sovente la
partecipazione ad entrambe le tradizioni” (Goody 1989, p. 8), anche quando
l’oralità sembra essere stata completamente soppiantata a causa dalla ulteriore
esasperazione del videocentrismo favorita dalla stampa a caratteri mobili.
Una posizione di questo genere implica una presa di distanza tanto
dall’approccio della filologia comparativa, focalizzata sul solo studio dei
documenti scritti, quanto dalla scienza linguistica moderna, che, al contrario, ha
tradizionalmente
considerato
irrilevante
l’analisi
del
linguaggio
scritto,
considerato alla stregua di una semplice registrazione del linguaggio parlato7. Ed è
proprio lo studio dell’oralità il punto di partenza nell’elaborazione della teoria
dell’alfabetizzazione: in primo luogo, l’oralità è una condizione storicamente e
7
La subordinazione della scrittura rispetto alla lingua orale è ricorrente nella teoria dei maggiori
linguisti del Novecento. Sia Saussure che Bloomfield considerano l’espressione orale l’unica
manifestazione del linguaggio rilevante ai fini della ricerca linguistica, ritenendo la scrittura una
mera registrazione o trascrizione del parlato (cit. in Olson 1993, p. 1). Sapir ritiene che tra il
linguaggio scritto e il linguaggio parlato possa essere stabilita una corrispondenza biunivoca, e che
la scrittura costituisca un sistema di simboli secondario rispetto ai simboli fonetici, anche se
so close is the correspondence that they may, not only in theory but in the actual practice of
certain eye-readers and, possibly, in certain types of thinking, be entirely substituted for the
spoken ones. Yet the auditory-motor associations are probably always latent at the least,
that is, they are unconsciously brought into play. Even those who read and think without the
slightest use of sound imagery are, at last analysis, dependent on it. They are merely
handling the circulating medium, the money, of visual symbols as a convenient substitute
for the economic goods and services of the fundamental auditory symbols. (Sapir 1921, p.
18).
21
logicamente8 antecedente l’alfabetizzazione; in secondo luogo, capire l’oralità è il
passo fondamentale per rispondere a quella preoccupazione, accennata in
precedenza, nei confronti degli effetti della “galassia elettrica” mcluhaniana,
responsabile di aver bruscamente ricondotto l’uomo occidentale in una sorta di
ambiente audio-tattile, simultaneo e risonante, paragonabile a quello delle società
orali-aurali. Essendo oralità e scrittura in relazione l’una con l’altra, sostiene Ong,
“without a deep understanding of the normal oral or aural-oral consciousness and
noetic economy of humankind before writing came along, it is impossible to grasp
what writing has accomplished” (Ong 1986, p. 23).
Innanzitutto, è bene sottolineare che la trasposizione della discontinuità tra
oralità e scrittura sul piano cronologico (ovvero assumendo l’oralità come una
categoria rappresentativa del passato e la scrittura come prodotto culturale
relativamente moderno e caratterizzante il presente) non comporta, nelle
dichiarazioni esplicite di questi autori, l’aderenza a un ingenuo, benché diffuso,
approccio di matrice evoluzionista. All’inizio degli anni Sessanta le tesi classiche,
tra le quali è esemplare quella formulata da Rousseau, che legavano
indissolubilmente lo sviluppo sociale all’evoluzione di forme di scrittura
progressivamente più sofisticate9, avevano già perso gran parte del consenso in
ambito accademico, così come era ormai chiaro che non necessariamente lo
sviluppo di un modello sociale—o la ricchezza di una cultura—fossero funzione
della diffusione dell’alfabetizzazione. Nonostante questo, l’idea dell’esistenza di
8
Questo si basa su una visione “ristretta” dei sistemi di scrittura (ovvero una prospettiva che
considera scrittura solo quelle tecnologie che mirano alla codifica grafica del linguaggio orale e
non altre manifestazioni grafiche o visive aventi comunque funzioni comunicative) quale è quella
abbracciata dai teorici dell’alfabetizzazione. I sistemi di scrittura presi in considerazione,
selezionati con questo criterio, sono relativamente “giovani” rispetto alla storia complessiva delle
lingue orali. Havelock stabilisce nettamente il confine entro cui si può parlare di oralità: “[p]er
definizione, l’oralità ha a che fare con società che non impiegano alcuna forma di scrittura
fonetica”. (Havelock 2005, p. 83).
9
Le spiegazioni di ispirazione evoluzionista ritengono che il passaggio dai pittogrammi agli
ideogrammi, per approdare infine all’adozione dell’alfabeto fonetico, rispecchi il progresso più
generale della società. Secondo Rousseau, ciascun sistema di scrittura corrisponde ad un preciso
stadio di sviluppo: pertanto, il pittogramma (“la rappresentazione degli oggetti”) è un sistema
appropriato per le popolazioni selvagge, l’ideogramma (“segni per le parole e per le proposizioni”)
lo è per quelle barbariche, mentre l’alfabeto è proprio delle popolazioni civilizzate (cit. in Olson
2006, p. 136).
22
diversi tipi di mentalità, una tradizionale contrapposta a quella moderna propria
della civiltà occidentale (idea compatibile con la teoria più generale dello sviluppo
lineare sia della specie umana che delle società, e quindi dell’esistenza di “società
sviluppate” e “società inferiori”) si annidava—e in qualche misura si annida
tuttora—in alcune espressioni etnocentriche proprie della cultura occidentale
(Squillacciotti 2008, p. 251). Tanto Goody e Watt, quanto Havelock e, più tardi,
Ong, presero le distanze da una prospettiva deformata dal pregiudizio
scritturalista, rifiutando una visione secondo la quale l’assenza di un sistema di
scrittura implicherebbe necessariamente il confinamento ad uno stadio di sviluppo
primitivo, inteso come pre-logico e quindi qualitativamente inferiore rispetto al
pensiero proprio di una cultura alfabetizzata. Al contrario, afferma Havelock, lo
studio dell’oralità mira a rimuovere il pregiudizio testualista, responsabile della
confusione tra la condizione di analfabetismo nelle società alfabetizzate e l’oralità
primaria, con il risultato di proiettare su quest’ultima l’evidente negatività
associata alla prima. Rivelare la complessità dell’oralismo è funzionale a
dimostrare che
una condizione di totale analfabetismo non connoti necessariamente quel tipo di
primitività che viene sovente proiettato a posteriori nella storia più antica delle
società, come per esempio accade nell’antropologia di Lévy-Bruhl […]. [L’oralità]
può rappresentare la positiva condizione di un oralismo che possiede una propria
qualità di vita, certo più semplice della nostra ma civile, con la particolare capacità
di creare una ‘letteratura orale’. (Havelock 2005, p. 149).
Una visione di questo tipo è condivisa anche da Goody e Watt, i quali, nel
definire i presupposti del proprio studio, dichiarano esplicitamente di non poter
più accettare:
the view that anthropologists have as their objective the study of primitive man,
who is characterised by a “primitive mind”, while sociologists, on the other hand,
concern themselves with civilised man, whose activities are guided by “rational
thought” and tested by “logico-empirical procedures” (Goody – Watt 1963, p. 305).
La consapevolezza di questo pregiudizio e la sua confutazione attraverso la
ridefinizione di alcuni concetti (tra i quali, ad esempio, quello di “letteratura”) non
23
significano, però, la negazione delle differenze tra le culture orali e quelle
alfabetizzate, ed è proprio il tentativo di identificare la natura di queste differenze
l’obiettivo primario del dibattito sull’oralità:
il ragionamento logico, in senso generale, non è mai stato messo in giuoco.
Procedure simili, di tipo ancora meno esplicito, possono reperirsi anche nelle
culture orali. […] Non abbiamo scorto nel pensiero primitivo o selvaggio (e si
intenda qui l’uomo ‘orale’) l’incapacità del ragionamento logico, l’incapacità di
percepire la contraddizione […]. Su altro abbiamo insistito: sul fatto che l’uomo
orale era privo non già di ragionamento logico ma di alcuni strumenti attivi a
livello intellettuale che risultano fondamentali per la definizione dell’idea greca di
‘logica’ […]. (Goody 1989, pp. 228-229).
Nella prima parte del loro lungo articolo apparso su Comparative Studies in
Society and History, Goody e Watt concentrano la loro attenzione sulle modalità
di trasmissione del patrimonio culturale così come avviene nelle società non
alfabetizzate, suddividendo il passaggio di questa eredità da una generazione a
quella successiva in tre componenti distinte. Certamente, sostengono gli autori, il
patrimonio lasciato in eredità da una generazione a quella successiva include tanto
il lascito dell’apparato materiale quanto l’insegnamento di modi di agire
standardizzati (ad esempio, metodi di coltivazione, modi di cucinare il cibo,
accudimento della prole), comunicati attraverso il medium della parola ma
trasmessi in gran parte attraverso l’imitazione diretta. Tuttavia, è innegabile che
gli aspetti più significativi di ogni cultura umana siano
undoubtedly channelled through words, and reside in the particular range of
meanings and attitudes which members of any society attach to their verbal
symbols. These elements include not only what we habitually think of as
customary behavior but also such items as ideas of space and time, generalised
goals and aspirations, in short the weltanschauung of every social group. […] The
transmission of the verbal elements of culture by oral means can be visualised as a
long chain of interlocking conversations between members of the group. Thus all
beliefs and values, all forms of knowledge, are communicated between individuals
in face-to-face contact; and, as distinct from the material content of the cultural
24
tradition, whether it be cave-paintings or hand-axes, they are stored only in human
memory (ib.).
In una società non alfabetizzata la comunicazione orale svolge quindi un ruolo
cardine, e questo, a causa delle caratteristiche intrinseche del medium, ha almeno
due conseguenze fondamentali sia sul contenuto che sulla trasmissione stessa del
repertorio culturale. Innanzitutto, la comunicazione orale “makes for a directness
of relationship between symbol and referent” (p. 306). In secondo luogo, implica
“the homeostatic organisation of the cultural tradition” (p. 307): se l’eredità
culturale può essere trasmessa solo immagazzinando i contenuti nella memoria, la
tradizione è essenzialmente il frutto di un costante processo dialettico tra la
memoria individuale e la stessa eredità culturale, in una costante ridefinizione del
passato in cui permane ciò che continua ad avere rilevanza sociale, mentre il resto
può essere dimenticato (p. 308).
Havelock, analogamente a Goody e Watt, rivolge la propria attenzione alla
classicità greca, e specificatamente a quel periodo della storia ellenica in cui si
verifica l’introduzione della scrittura alfabetica e, nel corso di oltre tre secoli, il
passaggio da una condizione di oralità primaria a quella di un’alfabetizzazione
(relativamente) diffusa. Nell’analizzare le caratteristiche della cultura orale greca,
Havelock concorda con Goody e Watt nell’assegnare un ruolo preminente alla
memoria: è fondamentale capire come, in una cultura orale che affidava al canto e
alle arti performative le funzioni educative, il poeta orale, il cantore (“Omero”)
potesse trasmettere i contenuti della tradizione in modo che questi venissero
preservati nelle memorie individuali. Riprendendo da un lato le tesi elaborate da
Milman Parry e, in seguito, da Albert Lord sulla “questione omerica” e sulle
caratteristiche stilistiche della poesia epica, e dall’altro le tesi di Ernst Mayr sul
ruolo del linguaggio come portatore dell’informazione culturale (operante in
modo analogo a quanto fanno i geni in campo biologico)10, Havelock ritiene che i
segreti dell’oralità “non [stiano] nel linguaggio così come viene usato nella
10
L’opera di Mayr a cui si riferisce Havelock è Animal Species and Evolution, anche questa
pubblicata “in quei fondamentali dodici mesi tra il 1962 e il 1963”. (Havelock 1995, p. 26).
25
conversazione, ma nel linguaggio usato per immagazzinare informazioni nella
memoria” (Havelock 1995, p. 26), il linguaggio proprio della poesia orale, del
canto performativo11 . Il linguaggio utilizzato dal cantore opera attraverso un
processo quasi ipnotico basato sugli effetti del suono—articolato attraverso
l’incedere ritmico del verso—e sulla continua variazione/ripetizione di elementi
formulaici e tematici, il tutto eseguito all’interno di una performance che,
avvalendosi della muscolatura (impegnata a produrre la voce attraverso gli organi
fonatori, ad assumere le posture proprie della danza e ad agire sullo strumento
musicale che sovente accompagnava la recitazione), coinvolge il corpo nella sua
totalità. Il discorso poetizzato deve utilizzare un linguaggio modellato e
modificato sia nella forma (ritmica) sia nel contenuto (narrativizzato, in quanto
finalizzato
all’intrattenimento)
(ib.)
per
adattarsi
alle
richieste
della
comunicazione orale e della memoria uditiva, combinando in una sola arte “la
modalità didattica e quella estetica” (Havelock 2005, p. 15) e riuscendo in questo
modo a svolgere la propria funzione di trasmissione della tradizione, Questa
sollecitazione del corpo si trasmetteva dal cantore al pubblico che assisteva la
performance, il quale, a sua volta, “ascoltava, ripeteva, danzava e, infine,
assimilando porzioni di epos, ‘ricordava’” (Frasca 2005, p. 24). In conclusione, il
patrimonio culturale poteva essere trasmesso attraverso “una sofisticatissima e
apparentemente impalpabile macchina per il riposizionamento dei sensi, che
avrebbe finito col modificare, tramite la memoria, il corpo stesso che si disponeva
ad ospitarla” (ib.).
Walter Ong riprende, e in qualche misura radicalizza, l’idea della centralità del
suono sottesa alle tesi di Havelock: Oralità e Scrittura (Ong 1991),
indubbiamente uno dei capisaldi della letteratura sulle relazioni—e sui contrasti—
tra la parola parlata e la parola scritta, è una speculazione, in larga parte
11
Nella culture orali, sostiene Goody, “non c’è praticamente verso che non sia canto, e questo
grazie a un accompagnamento musicale o per un’elaborazione vocale in musica” (Goody 1989, p.
7).
26
puramente teorica12, sugli effetti cognitivi della comunicazione orale, effetti che
derivano essenzialmente dal medium sonoro di cui si avvale il linguaggio umano.
Il linguaggio, osserva Ong, in evidente sintonia con la definizione saussuriana (de
Saussure 1916, p. 24), è un fenomeno orale, e,
sebbene gli esseri umani comunichino in molti modi diversi, servendosi di tutti i
loro sensi—del tatto, del gusto, dell’odorato, e soprattutto della vista e dell’udito—
e sebbene alcuni tipi di comunicazione non verbale, come la gestualità, siano
immensamente ricchi, fondamentale è tuttavia la lingua, il suono articolato. Non
solo la comunicazione, ma il pensiero stesso è collegato al suono in modo tutto
speciale. […] Ovunque esistano esseri umani, essi hanno un linguaggio, e sempre
si tratta di lingua parlata e udita, ossia che esiste nel mondo del suono. (Ong 1991,
p. 25)
L’oralità fondamentale del linguaggio, conclude Ong, “è un carattere stabile”
(ib.). Ong conduce quindi un dettagliato esame delle caratteristiche della parola
parlata, dedicando un lungo capitolo del suo libro alla stesura di una teoria
generale che renda conto della “psicodinamica delle culture orali primarie” (p.
59). Per via delle caratteristiche del medium utilizzato, e per rispondere alle
capacità fisiologiche della memoria umana, in una cultura ad oralità primaria il
pensiero e l’espressione tendono ad assumere una particolare struttura, i cui tratti
salienti consistono nella predilezione per una sintassi paratattica invece che
ipotattica (ovvero basata su una struttura di frasi coordinate e non subordinate),
nell’essere aggregativi piuttosto che analitici (da cui la ricchezza di formule
12
Il concetto di “oralità primaria,” ovvero, secondo la definizione di Havelock ripresa da Ong, la
condizione di “una cultura del tutto ignara della scrittura e della stampa” (Ong 1991, pp. 29-30), è
di fatto un’astrazione, dato che è impossibile avere testimonianze dirette di una cultura di questo
tipo. “È difficile” scrive ancora Ong, “che oggi esista una cultura orale primaria in senso stretto,
poiché tutti sanno dell’esistenza della scrittura e hanno esperienza dei suoi effetti” (p. 30).
Tuttavia, Ong si limita a constatare l’impossibilità dell’esistenza di questa condizione in un
contesto contemporaneo, mentre altri autori hanno criticato la possibilità di parlare di oralità
primaria anche nel caso ci si voglia riferire ad epoche remote, dato che è impossibile negare
l’esistenza di un certo livello di alfabetizzazione, laddove per alfabetizzazione si intenda il contatto
di una data cultura con un qualsiasi sistema di scrittura, anche risalendo a culture esistite centinaia,
o migliaia, di anni fa. È problematico tracciare la linea di confine tra società orali e società
alfabetizzate—come già avevano notato Goody e Watt (1963, p. 304)—ed è tuttora da stabilire se
questa linea possa effettivamente essere tracciata. (cfr. Rosenberg 1987, pp. 73-74.).
27
standardizzate, fisse e non disgregabili, come gli epiteti associati ai personaggi
protagonisti delle narrazioni), nell'essere ridondanti (poiché, in assenza di un
supporto scritto a cui fare riferimento, la ripetizione garantisce una maggiore
probabilità che le parti fondamentali del messaggio siano recepite dal pubblico),
conservatori (in quanto la necessità di una facile memorizzazione spinge a
rifuggire la sperimentazione), situazionali (ovvero vicini all’esperienza umana, al
racconto di situazioni concrete a cui sia immediato relazionarsi, piuttosto che alla
generalizzazione astratta), nonché contraddistinti da un tono agonistico, enfatico e
partecipativo.
1.2 Anche l’occhio vuole la sua parte
Arrivati a questo punto, per poter meglio definire l’ipotesi centrale di questo
lavoro, è opportuno fare un passo indietro, e tornare di nuovo agli anni Sessanta
del XX secolo per prendere in esame un’altra pubblicazione, di qualche anno
precedente rispetto a quelle che diedero inizio al dibattito contemporaneo
sull’oralità, la cui tesi principale fu decisiva nel determinare la nascita di un intera
area disciplinare all’interno delle scienze umane: gli studi sulla sordità e sulle
lingue dei segni.
William Stokoe, giovane medievalista e linguista americano, all’epoca docente
di letteratura inglese presso quella che è oggi la Gallaudet University, pubblicò
nel 1960 il primo pionieristico studio condotto su base linguistica dell’American
Sign Language (ASL), dal titolo Sign Language Structure: An Outline of the
Visual Communication Systems of the American Deaf (Stokoe 1960). Stokoe fu
certamente il primo ad intuire che lo studio di una lingua dei segni potesse essere
affrontato utilizzando gli strumenti teorici della linguistica, ma numerosi
intellettuali, nel corso della storia del pensiero occidentale, avevano già rivolto la
loro attenzione nei confronti dei linguaggi segnati, consapevoli della possibilità
che lo studio di questi fenomeni linguistici, proprio per la loro peculiarità, potesse
offrire una visione unica sulle capacità comunicative umane. La pubblicazione
delle ricerche di Stokoe ha offerto una prospettiva innovativa nello studio delle
lingue dei segni, e, come si vedrà, una chiave completamente nuova per
28
comprendere il linguaggio umano, ma per cogliere fino in fondo l’originalità del
suo approccio è utile ripercorrere, in linea estremamente generale, le idee in
proposito emerse dai primi studi in materia.
La prima traccia dell’esistenza di una lingua dei segni in uso tra le persone
sorde si ritrova in Platone, il quale accenna al linguaggio gestuale utilizzato da un
gruppo di sordi in un frammento del Cratilo13, un passo spesso citato dagli
studiosi che si occupano di sordità e linguaggi segnati quale prima testimonianza
scritta dell’esistenza delle lingue dei segni. Ulteriori testimonianze sulle varie
manifestazioni del linguaggio visivo-gestuale14 si ritrovano, in seguito, sia durante
l’età classica latina sia nel corso del Medioevo, del Rinascimento e dell’età
barocca. In epoca rinascimentale e barocca l’obiettivo principale è quello di
sviluppare metodologie educative e strategie finalizzate alla riabilitazione dei
sordi all’uso del linguaggio, e questi studi sono di particolare rilevanza in quanto,
al di là del loro obiettivo esplicito, segnano la ripresa della speculazione sul ruolo
dei sensi nei processi conoscitivi umani, e avanzano per la prima volta l’ipotesi
che la vista possa sopperire alle carenze dell’udito, e che il canale sensoriale
integro possa pertanto essere sfruttato per l’apprendimento della lingua scritta
(Russo Cardona – Volterra 2007, pp. 20-22). Risale a questo periodo il
perfezionamento di strumenti educativi tuttora in uso nell’educazione dei sordi,
quali, ad esempio, la codificazione dei primi alfabeti manuali e l’esplorazione dei
benefici nell’apprendimento della lingua parlata dovuti all’associazione di
13
Il riferimento è al seguente passo tratto dal dialogo platonico:
SOCRATE: […] Rispondi a questo: se non avessimo né voce né lingua e volessimo rendere
chiare vicendevolmente le cose, non tenteremmo, come fanno ora i muti, di manifestarle
con
le
mani,
la
testa,
e
con
tutto
il
resto
del
corpo?
ERMOGENE: E come sarebbe possibile in altro modo, o Socrate?
SOCRATE: Se dunque, io penso, volessimo indicare quel che sta in alto ed è leggero,
solleveremmo le mani verso il cielo, cercando di imitare la stessa natura della cosa; se
invece ciò che sta in basso ed è pesante, le piegheremmo verso la terra. Se poi volessimo
indicare un cavallo mentre corre o qualche altro animale, tu sai bene che renderemmo i
nostri
corpi
e
i
nostri
atti
il
più
possibile
simili
ai
loro.
ERMOGENE: Mi sembra necessario che sia proprio come tu dici (Platone, Cratilo, 422e423a).
14
Non solo le lingue dei segni esibite dalle persone sorde, dunque, ma anche i codici gestuali
elaborati dai membri degli ordini monastici osservanti la regola del silenzio (Russo Cardona –
Volterra 2007, pp. 17-20.)
29
sensazioni tattili (come le vibrazioni) al significante sonoro delle parole15. Ma è
tra la fine del Seicento e, in misura maggiore, nel Settecento, che l’unicità del
comportamento linguistico esibito dalle persone sorde ha suscitato il maggiore
interesse all’interno della comunità scientifica16, poiché l’uso di una modalità di
15
Alcune ricerche linguistiche condotte in questo periodo si intrecciano, inoltre, con le ricerche
della “lingua perfetta”, o, più in generale, di una lingua primitiva universale, seguendo un filone di
ricerca piuttosto popolare fra gli intellettuali dell’epoca. L’educazione alla parola dei sordi
congeniti appare, agli occhi di alcuni studiosi, il banco di prova ideale per dimostrare l’esistenza di
una lingua che sia naturale anche per chi non ne abbia mai appreso una: una condizione che il
senso comune attribuisce, per l’appunto, alle persone sorde. Benché in quest’ambito si mescolino
con disinvoltura ipotesi scientifiche e congetture fantasiose, da alcuni di questi studi possono
essere tratte alcune intuizioni funzionali agli obiettivi generali di questo lavoro. È il caso, ad
esempio, delle ricerche di Mercurius van Helmont e del suo tentativo di dimostrare, attraverso un
sistema per insegnare la lingua scritta ai sordi, che la lingua naturale dell’uomo non possa che
essere l’ebraico. Largamente condizionata dalle suggestioni culturali e religiose dell’epoca, la
teoria di van Helmont ipotizza che l’ebraico sia la lingua primigenia basando questo assunto sul
fatto che i suoni che lo costituiscono sarebbero quelli più facilmente riproducibili dall’apparato
fonatorio umano. A dimostrazione di questo, van Helmont correda il suo libro di incisioni che
mirano ad illustrare come, nella produzione dei suoni, gli organi fonatori si articolino in modo da
imitare fisicamente la forma delle lettere ebraiche corrispondenti (Eco 1999a, pp. 93-94).
La tesi di van Helmont è sicuramente piuttosto eccentrica, ma da essa è possibile trarne alcuni
spunti di di riflessione. In primo luogo, si tratta di un caso limite di identificazione mimetica tra il
sistema di scrittura e il linguaggio verbale, una sorta di curiosa variante di quelli che verranno in
seguito definiti alfabeti distintivi (featural alphabets) dalla scienza linguistica. La rappresentazione
grafica dei simboli fonetici viene percepita, in questo caso, come “motivata”, ad indicare come,
ancora nel tardo Seicento e nonostante l’esposizione alla tecnologia tipografica, la percezione della
scrittura potesse essere ancora legata all’idea di pittogramma piuttosto che evidenziare la
consapevolezza del principio fonetico. D’altra parte, una concezione di questo tipo parrebbe offrire
supporto alle tesi sostenute da McLuhan, Ong e Olson sul ruolo avuto dalla stampa nel formare la
convinzione, seppure in questo caso appaia ancora inconsapevole, dell’identità sostanziale tra
simbolo grafico e simbolo fonetico, convinzione che si è visto essere ancora dominante all’interno
dei paradigmi della linguistica moderna.
Per quanto riguarda gli studi sulla sordità, un metodo di questo tipo viene elaborato in un contesto
in cui inizia a delinearsi l’opposizione tra metodi “oralisti” e metodi “manualisti”. I metodi oralisti,
tuttora predominanti nell’educazione dei sordi in gran parte del mondo, considerano prioritaria
l’acquisizione della capacità di esprimersi attraverso la parola parlata, nonostante questo implichi
l’uso di una modalità sensoriale che al sordo è preclusa. L’alternativa, l’uso del canale visivo,
viene utilizzata per l’insegnamento della lingua scritta. Nel corso del lavoro si presterà maggiore
attenzione a questo punto fondamentale.
16
Cartesio, Bacone, Vico, e, in misura maggiore, le figure di spicco dell’Illuminismo, tra i quali
Diderot, Rousseau, e il filosofo sensista Condillac, hanno, in varia misura, dedicato alcune delle
loro pagine alle lingue dei segni, in quanto oggetti di studio particolarmente adatti ad indagare il
rapporto tra il linguaggio e i sensi e a sostenere l’ipotesi dell’origine gestuale del linguaggio.
Soprattutto negli scritti di Diderot emerge una concezione delle lingue dei segni come una forma
di comunicazione che ha una relazione con il pensiero e con i sensi diversa da quella intrattenuta
dalla lingua vocale. Laddove quest’ultima esprime in modo sequenziale le rappresentazioni legate
al pensiero e alle informazioni fornite dai sensi, i segni veicolano queste rappresentazioni in modo
simultaneo, dando origine ad una modalità conoscitiva particolarmente diretta e adatta alla
comprensione delle rappresentazioni artistiche (Russo Cardona – Volterra 2005, p. 24). Occorre
sottolineare che la descrizione della sordità che emerge da alcuni studi condotti in questo periodo è
30
comunicazione così peculiare parve offrire particolare supporto all’elaborazione
di alcune teorie nell’ambito delle ricerche sull’origine del linguaggio, e, in
assoluto, sui fondamenti psicologici della comunicazione umana.
Stokoe sosteneva una tesi rivoluzionaria rispetto a tutte le teorie sulle lingue
dei segni elaborate lungo il corso di questo lunghissimo intervallo di tempo, e
ancora indiscusse al momento della pubblicazione del suo breve saggio: la lingua
dei segni è una lingua a tutti gli effetti, dotata di un lessico, di una sintassi, e della
proprietà, comune a tutti i sistemi linguistici, di poter generare un numero infinito
di proposizioni a partire da un insieme finito di simboli e regole combinatorie, ed
è pertanto oggetto legittimo di indagine linguistica. I risultati della ricerca
condotta da Stokoe conducono alla teorizzazione di un modello descrittivo dei
linguaggi segnati la cui portata innovativa emerge in tutta la sua forza quando la si
mette a confronto con l’atteggiamento con cui la teoria linguistica dominante
guardava alle lingue dei segni. In continuità con la visione del linguaggio
teorizzata da de Saussure, all’inizio degli anni Venti Edward Sapir etichettò tutte
le lingue non verbali, includendo tra di esse le lingue dei segni in uso tra le
persone sorde, come semplici transcodifiche, attuate attraverso la mimica e la
gestualità, della lingua parlata (Sapir 1921, pp. 16-20). Questa concezione escluse
di fatto le lingue dei segni dall’orizzonte della ricerca linguistica e fu alla base di
un diffuso disinteresse su questo argomento da parte degli ambienti accademici.
Tra quegli studiosi che continuarono marginalmente a occuparsene, per oltre
quaranta anni questo atteggiamento si mantenne immutato, esemplificato da
posizioni come quella sostenuta da esperti nell’educazione dei sordi come Helmer
spesso conforme a una visone romanticizzata e affine all’agenda politica dei pensatori
illuministi—una visione che considera il sordo vicino ad un desiderabile stato di natura in quanto
la modalità visivo-gestuale del linguaggio segnato è intrinsecamente naturale e trasparente (e
quindi espressione non mediata del pensiero) rispetto all’espressione vocale, e questo garantisce
una maggiore resistenza ai tentativi di manipolazione e corruzione perpetrati dalle classi dominanti
attraverso la cultura (Armstrong 2008, p. 291). D’altra parte, non mancarono concezioni
diametralmente opposte, espresse, per esempio, dalle posizioni di studiosi come Amman e l’abate
Sicard, che considerarono l’individuo sordo, proprio per questa vicinanza alla natura, assimilabile
più all’animale che all’uomo, alimentando allo stesso tempo il dubbio che i segni potessero
permettere effettivamente lo sviluppo di un pensiero completamente astratto (Myers – Fernandes
2010, p. 33).
31
Myklebust, secondo il quale:
[t]he manual language used by the deaf is an ideographic language […] it is more
pictorial, less symbolic […]. Ideographic language systems, in comparison with
verbal systems, lack precision, subtlety, and flexibility. It is likely that Man cannot
achieve his ultimate potential through an Ideographic language. […] The manual
sign language must be viewed as inferior to the verbal as a language (cit. in
Armstrong – Karchmer 2002, p. xii)17.
La lingua dei segni è quindi considerata una semplice pantomima, un insieme
non strutturato di gesti iconici finalizzati a codificare in forma visiva, in maniera
limitata e approssimativa, il lessico di una lingua vocale.
Al contrario, l’ASL studiata da Stokoe dimostra di essere un sistema complesso
e semanticamente ricco tanto quanto le altre lingue. Stokoe utilizza i metodi
propri di quella linguistica inevitabilmente ancora indifferente alle (o
inconsapevole delle) differenze che intercorrono tra l’oralità primaria e la
scrittura, e tende pertanto ad analizzare i fenomeni linguistici attraverso la lente
del pensiero alfabetizzato proprio di una cultura tipografica 18 . L’intuizione
fondamentale alla base dell’ipotesi di Stokoe è, di fatto, pienamente riconducibile
all’interno del paradigma strutturalista: descrivere i segni non più come delle unità
indivisibili (così come erano tradizionalmente considerati, da cui la supposta
similarità con gli ideogrammi) bensì, assumendo una prospettiva radicalmente
nuova, considerarli scomponibili in unità minime prive di significato,
internamente strutturate in relazioni di opposizione paradigmatica. Il problema
17
È interessante notare come, oltre alla teoria linguistica dominante, sulla concezione della lingua
dei segni pesasse ancora la valutazione negativa emersa dal Congresso di Milano del 1880. Per
avere un idea del assenza di qualsiasi progresso nello studio delle lingue dei segni in seguito a
quell’evento è sufficiente considerare che il parallelo diretto tra il linguaggio gestuale e gli
ideogrammi della scrittura cinese era già stato avanzato da Tylor quasi un secolo prima rispetto a
Myklebust (cfr. Tylor 1865, p. 62).
18
A questo proposito, Ong scrive che, nonostante la linguistica di matrice saussuriana abbia
indagato a fondo la fonologia della lingua, “la linguistica moderna con tutta la sua attenzione
all’aspetto fonico del discorso, si è fino a pochissimo tempo fa occupata solo incidentalmente,
quando lo ha fatto, delle differenze tra l’oralità primaria (quella delle culture che non conoscono la
scrittura) e la scrittura stessa. Gli strutturalisti hanno analizzato dettagliatamente la tradizione
orale, ma per lo più senza metterla esplicitamente a confronto con le composizioni scritte” (Ong
1991, pp. 23-24).
32
principale nella ricerca di queste unità minime è che, a differenza del linguaggio
vocale, in cui le unità—i fonemi—sono ordinate in modo sequenziale,
nell’esecuzione di un segno le componenti sono eseguite in modo simultaneo, e in
questo aspetto è possibile riconoscere la causa principale dell’idea tradizionale
accennata in precedenza, ovvero la percezione erronea della natura unitaria del
segno (Stokoe 1980, p. 369). Quest’idea non era diffusa solo in ambienti
accademici poco interessati alla riflessione sulla lingua dei segni, ma era parte del
senso comune anche tra gli stessi sordi. La proposta di Stokoe fu accolta con
incredulità, e spesso con ironia, da diversi suoi colleghi sordi e dai suoi studenti
durante le ricerche condotte alla Gallaudet University. Nel personale resoconto
della sua esperienza accademica presso l’università, Gilbert Eastman, divenuto in
seguito uno dei più stimati commediografi sordi19, ricorda che
my colleagues and I laughed at Dr. Stokoe and his crazy project. It was impossible
to analyze our Sign Language […]. I did not believe Dr. Stokoe would succeed in
his project and I thought these two deaf assistants were wasting their time signing
before the camera (Eastman 1980, pp. 93-94).
Stokoe dimostra che qualsiasi segno può essere suddiviso in componenti più
piccole, non portatrici di significato20, eseguite simultaneamente, e che queste
unità minime (configurazione della mano, movimento, e luogo di esecuzione)21
operano in modo analogo ai fonemi delle lingue vocali, e sono pertanto
19
Laureatosi presso la Gallaudet University, Eastman fondò in seguito il dipartimento di studi
teatrali presso la stessa università, diventandone uno dei docenti più apprezzati. Figura di
riferimento nel panorama artistico della comunità sorda americana, Eastman era noto per la sua
grande competenza nella comunicazione visivo-gestuale e per le sue doti di narratore. Fu tra i
fondatori di una vera e propria istituzione della comunità sorda americana, il National Theater of
the Deaf, nonché autore della prima pièce teatrale concepita e recitata interamente in ASL, Sign
Me Alice, nel 1974 (Bragg 2001, p. xxxii).
20
Il fatto che i cheremi (questo il termine coniato da Stokoe, in assonanza con il termine fonema,
per denominare le componenti minime del segno) non siano portatrici di senso è in realtà un tema
dibattuto tra gli studiosi di linguistica delle lingue dei segni. Lo stesso Stokoe ha sottoposto a
revisione questo aspetto della sua descrizione dei Segni, elaborando, nel corso di ricerche
successive al teoria della “semantic phonology” (Wilcox, Armstrong – Wilcox).
21
Ricerche linguistiche successive, svolte in continuità con l’ipotesi formulata da Stokoe,
dimostreranno la necessità di aggiungere altri due parametri formazionali per poter adeguatamente
descrivere i segni: l’orientamento della mano e le componenti non manuali (quali, ad esempio, le
espressioni del volto e la postura del corpo), dato che anche queste assumono valore grammaticale
all’interno del discorso segnato (cfr. Volterra 1981).
33
combinabili secondo un sistema di regole atto a stabilire quali, tra le combinazioni
possibili, siano quelle effettivamente accettabili per formare i segni (Padden –
Humphries 1988, p. 79). Seguendo i dettami della linguistica strutturale, ovvero
rilevando la presenza, come nelle lingue vocali, di una struttura regolare al livello
sub-lessicale (fonologico) basata su relazioni di opposizione, Stokoe mostra come
sia possibile, anche nell’ASL, organizzare i morfemi in relazioni di coppie
minime distinte soltanto da occorrenze diverse di uno solo dei parametri. Una
struttura interna di questo tipo assimila l’ASL ad una qualsiasi lingua naturale, ed
è quindi legittimo ipotizzare che sia possibile trascriverla per mezzo di un alfabeto
che rappresenti le unità minime costituenti il segno. L’obiettivo del linguista
americano diventa, quindi, quello di dimostrare che l’ASL, essendo dotata di una
struttura di questo genere, può essere trascritta utilizzando un sistema assimilabile
all’alfabeto fonetico (Armstrong – Wilcox 2007, pp. 10-11). In una comunità
scientifica ancora non destabilizzata dall’esplosione delle ricerche sull’oralità, in
cui sono ancora prevalenti i condizionamenti ideologici messi in luce da Ong,
ovvero l’inconscio atteggiamento totalitario della forma mentis tipografica 22 ,
appare chiaro che l’unico modo di legittimare l’ASL e conferirle lo status di
lingua a tutti gli effetti, alla pari con le lingue vocali, è quello di dimostrare che
questa stessa lingua può essere scritta, poiché la possibilità di avere una forma
22
Se McLuhan definiva “tirannia dell’orecchio” l’effetto totalizzante derivante dalla sollecitazione
estrema del senso dell’udito, in grado di guidare l’esperienza dell’individuo partecipe
dell’ambiente sonoro tipico della cultura orale (McLuhan 1962, p. 28), Ong utilizza la stessa
terminologia per sottolineare la pervasività dell’alfabetizzazione. Gli effetti della scrittura—
“un’attività particolarmente appropriativa e imperialistica, che tende ad assimilare il resto a sé”
(Ong 1991, p. 31)—sono tali da imprigionare la parola “tirannicamente, e per sempre, in un campo
visivo” (ib.): l’introiezione deIla parola scritta è talmente profonda da alterare permanentemente la
percezione del linguaggio, in un modo tale da far apparire questa specifica “tecnologia della
parola” come naturale piuttosto che culturalmente acquisita, negando il primato storico e
metafisico della parola parlata. A causa di questo irremovibile pregiudizio installato nella mente
alfabetizzata dalla tradizione chirografica e rinforzato da quella tipografica, Ong sostiene che:
[...] nonostante le radici orali di ogni tipo di verbalizzazione, gli studi scientifici e letterari
della lingua e della letteratura hanno evitato per secoli, e fino ad anni molto recenti, di
affrontare l’argomento dell’oralità. I testi hanno richiamato l’attenzione in modo così
perentorio che le creazioni orali sono state viste tendenzialmente come scritte, oppure come
non meritevoli di seria attenzione da parte degli studiosi. […] Tranne che negli ultimi
decenni gli studi linguistici hanno sempre rivolto la loro attenzione ai testi scritti piuttosto
che all’oralità (Ong 1991, pp. 26-27).
34
scritta, oltretutto per mezzo di un sistema di simboli analogo a quello dell’alfabeto
fonetico, garantisce la caduta di tutti i presupposti che permettevano di
considerare la lingua dei segni un sistema pseudo-linguistico, di livello inferiore
rispetto alle lingue verbali, in quanto impreciso e limitato: in una parola, un
sistema comunicativo “primitivo”23.
Qualche anno più tardi, nel 1965, Stokoe, avvalendosi della collaborazione di
due suoi assistenti sordi, pubblicò A Dictionary of American Sign Language on
Linguistic Principles, il primo vocabolario dell’ASL organizzato secondo principi
fonetici propri della lingua dei segni, ovvero quelli identificati dallo stesso autore
nell’opera precedente. Le intenzioni di Stokoe sono evidenti: la possibilità di
ordinare i lessemi dell’ASL secondo un criterio interno, e non, come era avvenuto
fino ad allora, sulla base del loro corrispondente in lingua inglese o sulla base di
categorie semantiche generali (ad esempio, “animali”, “colori” o “mezzi di
trasporto”) (Padden – Humphries 1988, p. 79), equivale a ribadire una volta di più
l’equivalenza della lingua dei segni rispetto alla lingua vocale. Tuttavia, è
possibile rintracciare anche in questo passo verso l’emancipazione della lingua dei
segni dallo status di semplice sistema di codifica della lingua verbale il residuo
del sistema di valori proprio del mondo alfabetizzato: per poter ambire ad essere
una lingua avente pari dignità rispetto a una lingua di alto prestigio come
l’inglese, l’ASL deve poter esibire il proprio dizionario di riferimento, dando
prova della propria ricchezza lessicale 24 . Dopo quasi un secolo di totale
23
Occorre precisare, tuttavia, che la notazione proposta da Stokoe venne elaborata con l’intento
esclusivo di fornire uno strumento alla ricerca linguistica, secondo un modello assimilabile a
quello utilizzato per la trascrizione fonetica basata sul sistema IPA, e non per l’uso corrente. Si
vedranno più avanti alcuni esempi di sistemi di scrittura esplicitamente pensati per dotare la lingua
dei segni di sistema di segni grafici e di un’ortografia in grado di consentire “l’alfabetizzazione”
dei sordi nella loro lingua nativa, la lingua dei segni, attraverso vari tentativi di riduzione alla
superficie bidimensionale della carta la tridimensionalità (alla quella deve poi essere aggiunta
un’ulteriore quarta dimensione che renda conto del fattore tempo) propria del segno.
24
In precedenza si è notato che l’impossibilità di ricorrere alle “definizioni del dizionario”
(l’assenza di stratificazione semantica e quindi la necessità di affidarsi ad una “relazione diretta tra
simbolo e referente”, ovvero la determinazione del significato delle parole legata al contesto e
negoziata nel momento del loro uso in situazioni concrete) era una delle due conseguenze dovute
alla natura della comunicazione orale individuate da Goody e Watt (1963, p. 306). Questa
condizione è connotata negativamente all’interno di una cultura che abbia, nel corso dei millenni,
introiettato profondamente la tecnologia della scrittura. Secondo Ong
35
disinteresse accademico, repressione sul piano educativo e stigmatizzazione sul
piano sociale, la prima conseguenza della diffusione delle ricerche di Stokoe fu
quello di dare avvio al lungo processo, ancora non completamente concluso
mezzo secolo dopo la loro enunciazione, di uscita dalla “clandestinità” cui le
lingue dei segni furono costrette a partire dal congresso internazionale degli
educatori dei sordi tenutosi a Milano nel 1880. Si compie così, come anticipato
poco sopra, l’ingresso della sordità e delle lingue dei segni nell’ambito di indagine
delle scienze sociali.
1.2.1 La visione conformista: i segni come parole
In questa fase iniziale le ricerche vengono condotte in larga misura in ambito
linguistico, psicolinguistico e sociolinguistico (oltre a spingere alla messa in
discussione, nel campo della ricerca pedagogica, i metodi educativi oralisti rivolti
ai bambini sordi) (Stokoe 1980, p. 365), e la loro diffusione si limita agli Stati
Uniti,
dove
nascono
dipartimenti
universitari
e
laboratori
di
ricerca
esclusivamente dedicati agli studi sulla sordità e sull’ASL. Tra la fine degli anni
Settanta e l’inizio degli anni Ottanta le tesi di Stokoe incominciano a diffondersi
gradualmente oltre i confini delle università americane, contribuendo ad avviare lo
studio delle diverse lingue dei segni utilizzate dalle varie comunità di sordi
presenti nel resto del mondo25, un campo di studi tutt’ora in divenire. Seguendo
[d]issociare le parole dalla scrittura può inoltre rappresentare una minaccia psicologica,
poiché il senso di controllo sulla lingua tipico di chi sa leggere e scrivere ha stretti legami
con la trasformazione visiva del linguaggio: come vivrebbero gli alfabetizzati senza
dizionari, senza regole grammaticali scritte, punteggiatura, e tutto il resto dell’apparato che
fa sì che le parole possano essere cercate? Chi usa un grafoletto come l’inglese standard, ha
accesso ad un vocabolario centinaia di volte più ampio di quello di qualsiasi lingua orale. In
un mondo linguistico di questo genere, i dizionari sono essenziali” (Ong 1991, pp. 33-34).
Tuttavia, è necessario notare che, nonostante la pubblicazione del dizionario di Stokoe (e di
numerose altre pubblicazioni dello stesso genere, relative non solo al lessico dell’ASL ma anche,
gradualmente, alle lingue utilizzate dalle comunità segnanti nel resto del mondo), una delle ragioni
tuttora adottate per accantonare la questione della legittimità delle lingue dei segni quali lingue a
tutti gli effetti e della loro autonomia rispetto ai codici verbali, è spesso quella di rilevarne la
povertà lessicale, supposizione rinforzata, ironicamente, proprio dal basso numero dei lemmi (se
comparato a quello di lingue ad alto prestigio e dalla lunga tradizione scritta) registrato nei
dizionari.
25
Risalgono a questo periodo, ad esempio, le prime ricerche sulla Lingua dei Segni Italiana (LIS)
condotte da Virginia Volterra all’Istituto di Psicologia del CNR di Roma.
36
l’imprinting del “fondatore” della disciplina, ovvero conducendo la ricerca sulle
lingue dei segni utilizzando gli strumenti e le metodologie di indagine proprie
della linguistica, e quindi sotto la pressione di un paradigma interpretativo
dominante, l’obiettivo dei ricercatori è principalmente quello di dimostrare come,
sotto ogni aspetto, le lingue dei segni sono equivalenti alle lingue vocali, restando
come unica e fondamentale differenza tra le due modalità quella relativa all’uso di
diversi organi articolatori (principalmente le mani, ma sostanzialmente tutto il
corpo in un caso, e l’apparato fonatorio nell’altro) e al canale impiegato (visivo
piuttosto che uditivo). Un esempio, tra i tanti, di ricerche condotte con l’obiettivo
esplicito di dimostrare la perfetta equivalenza delle due modalità comunicative,
orale e segnata, è lo studio condotto da Bellugi e Fischer (1972). Lo studio,
condotto su un piccolo campione di individui bilingui (udenti figli di sordi,
segnanti nativi in ASL e contemporaneamente madrelingua inglese), mirava a
comparare la velocità dell’eloquio in lingua inglese, misurata nel numero di parole
al minuto, con quella in ASL, misurata in segni al minuto, entrambe al netto delle
delle pause del flusso sonoro/segnato. Ai soggetti dello studio venne richiesto di
produrre una narrazione personale in ASL, e successivamente di raccontare la
stessa storia sia in inglese sia per mezzo della comunicazione simultanea
(esecuzione contemporanea in segni e nel linguaggio verbale)26. Dall’analisi dei
dati raccolti, Bellugi e Fischer conclusero che, benché la velocità dell’eloquio in
inglese (in parole/minuto) fosse quasi doppia rispetto a quella dell’ASL (in
segni/minuto), prendendo come punto di riferimento l’intera proposizione e
26
La pratica della comunicazione simultanea (SimCom) in due lingue distinte è chiaramente
impossibile da intraprendere nel caso di due lingue verbali distinte, mentre, a causa della diversa
modalità di articolazione, risulta attuabile nel caso in cui si voglia comunicare simultaneamente in
una lingua verbale e in una lingua dei segni. Diffusa principalmente come pratica educativa, essa è
in realtà fortemente stigmatizzata poiché alla possibilità teorica di esecuzione simultanea non
segue, di fatto, una produzione linguistica accettabile in nessuna delle due modalità linguistiche
impiegate (e specialmente l’esecuzione in segni ne risulta danneggiata) (Gertz 2008), ad ulteriore
dimostrazione di come la differenza tra il segnato e il parlato non si riduca alla superficiale
divergenza nella modalità di articolazione:
the accuracy and integrity of each language is nearly impossible to maintain, and given the
heavy presence of the voice in the phonocentric loop of hearing oneself speak, the speaker
is often under the illusion that she is communicating. SimCom, more often than not,
produces signs that are misshapen, misplaced, or missing altogether (Bauman 2008a, p. 17).
37
calcolandone la durata media i tempi di esecuzione nelle due lingue fossero
fondamentalmente identici. La differenza misurata nella velocità dell’eloquio,
conclusero le due ricercatrici, era dovuta alla diversa organizzazione superficiale
delle due lingue, e principalmente al fatto che l’inglese presenti morfemi (articoli,
preposizioni, inflessioni) che sono assenti dal repertorio lessicale e grammaticale
dell’ASL, mentre la sostanziale identità nei tempi di esecuzione misurata al livello
della frase indicava la capacità del segnato, grazie al ricorso alla sintassi spaziale,
di condensare il messaggio e incorporare l’informazione linguistica in un numero
inferiore di parole/segni (Bellugi – Fischer 1972, pp. 198-199).
Si possono interpretare in quest’ottica anche le ricerche in campo
psicolinguistico (Klima – Bellugi 1979; Corina 1999), tese a dimostrare come il
discorso segnato, nonostante avvenga in assenza di stimoli sonori, sia un
fenomeno linguistico anche a livello cerebrale, in quanto l’elaborazione della
comunicazione in segni è lateralizzata e avviene nelle stesse aree cerebrali
reclutate dalla comunicazione verbale (Area di Broca e Area di Wernicke).
A maggior ragione non sono immuni da questo condizionamento le ricerche
linguistiche in senso stretto, decise a rimuovere uno dei principali ostacoli posti
dalla teoria classica saussuriana sulla via del riconoscimento della legittimità
linguistica della lingua dei segni. Avendo dimostrato la presenza di un livello sublessicale (e avendo, quindi, dimostrato di possedere il requisito della doppia
articolazione), resta una seconda condizione che, secondo la linguistica
strutturalista, deve necessariamente essere soddisfatta da un segno che voglia dirsi
propriamente linguistico: tendere all’arbitrarietà piuttosto che all’iconicità. La
ricerca linguistica tende a mostrare come nelle lingue dei segni (nello specifico,
l’ASL, ma riflessioni analoghe sono state fatte anche in merito ad altre lingue dei
segni, vedi ad esempio Volterra e Russo (2007, p. 47 e ss.) sulla LIS) siano
certamente presenti elementi iconici 27 , e come la componente mimetica sia
27
La concezione comune secondo la quale le lingue dei segni sarebbero dei sistemi linguistici
costituiti esclusivamente da una gestualità mimetica, facilmente comprensibile, deriva certamente
dal fatto che l’iconicità dei segni, ad uno sguardo superficiale, emerge con grande risalto,
specialmente se confrontata con quella minima del linguaggio verbale. Un’osservazione più attenta
38
certamente uno dei meccanismi alla base della creazione di molti lessemi
appartenenti al repertorio di una data lingua dei segni, ma questo non implichi
l’assenza di una componente arbitraria. Oltre a sottolineare il fatto che,
riprendendo Peirce, un certo grado di iconicità, così come di indessicalità, è
presente anche nei sistemi linguistici verbali (Volli 2000), si nota che la gran parte
dei segni non esprimono una relazione motivata tra segno (linguistico) e referente,
e, laddove lo facciano, essi tendono, nel corso della naturale evoluzione della
lingua, a perdere i tratti iconici e a conseguire piuttosto i caratteri
dell’arbitrarietà28, mantenendo solo quelle componenti coerenti con la struttura
interna della lingua (ovvero incluse in quell’insieme finito di parametri
formazionali individuati da Stokoe). Inoltre, le differenze riscontrate tra la diverse
lingue dei segni utilizzate dai sordi in diverse parti del mondo offrirono
un’ulteriore conferma: non solo i segni non sono universali, ma la stessa
componente iconica può presentare caratteri di arbitrarietà, dato che segni
appartenenti a lingue dei segni diverse e aventi il medesimo significato,
caratterizzati da una componente iconica più o meno trasparente, mettono in
risalto aspetti diversi del referente (Frishberg 1975; Klima – Bellugi 1975; Bellugi
– Klima 1976). In seguito l’iconicità emergerà come uno degli aspetti di maggiore
interesse delle lingue dei segni (Armstrong 1983; Taub 2006), ma in questa fase
iniziale, in cui i propositi della ricerca linguistica sono inscindibili dall’obiettivo
politico di stabilire la legittimità dei segni di fronte allo scetticismo
dell’accademia, essa viene sistematicamente minimizzata e misconosciuta. Si
assume così una fondamentale identità tra i meccanismi, i processi e le strutture
profonde delle lingue segnate e quelli delle lingue vocali, interpretando le
differenze unicamente come variazioni nell’articolazione superficiale: l’analisi
dello scambio comunicativo tra persone sorde segnanti è sufficiente a mostrare come questa sia
una percezione erronea: “per quanto si continui a osservare”, nota Sacks nella sua efficace
descrizione della sensazione provata da un non segnante esposto a una conversazione in lingua dei
segni, “l’istante liberatorio della comprensione non arriva: è quasi un supplizio di Tantalo, giacché
i Segni rimangono inintellegibili a dispetto della loro apparente, ingannevole trasparenza” (Sacks
2009, p. 119).
28
D’altra parte, nell’illustrare le proprietà dei segni iconici (ipoicone), lo stesso Pierce non ha mai
negato la presenza in essi di una componente convenzionale (“simbolica”) (Eco 1999b, p. 295 e
ss.).
39
dell’ASL viene così condotta all’interno di modelli interpretativi riconosciuti, per
dimostrare di essere, in ogni suo aspetto, “a highly abstract, rule-governed,
combinatorial linguistic system” (Klima – Bellugi 1979, p. 318)29. Ricorrendo alla
distinzione proposta da Jakobson tra segni visivi e segni auditivi, l’iconicità viene
descritta come sostanzialmente apparente, un fenomeno da inquadrarsi in un
riconosciuto bias percettivo umano:
[w]e observe a strong and conspicuous tendency to reify visual signs, to connect
them with objects, to ascribe mimesis to such signs, and to view them as elements
of an “imitative art”. Painters of all periods have splashed blotches or spots of ink
or color and tried to visualize them as faces, landscapes or still lifes. How often
broken twigs, furrows in stones or other natural bends, crooks and patches are
taken for representations of things or beings (Jakobson 1964, p. 341).
1.2.2 L’origine gestuale del linguaggio
Un’altra area di studio che trasse beneficio dalla pubblicazione delle tesi di
Stokoe—e che tutt’ora sembra proseguire in modo promettente (Gentilucci –
29
Oltre alla pressione di modelli teorici consolidati, le ragioni del prevalere della visione
conformista che mantenga invariate le altre proprietà strutturali normalmente attribuite al
linguaggio sono di vario tipo. In primo luogo, esse sono riconducibili al campo di interesse e alla
formazione dei primi studiosi che intrapresero le ricerche sulle lingue segnate: non tutti i
ricercatori avevano una sufficiente competenza nella lingua dei segni (e il numero di ricercatori
sordi era limitato), ed è probabile che il loro approccio a una lingua visivo-gestuale a loro ignota
fosse viziato da una prospettiva legata alle lingue verbale “canonico”, spesso quelle altamente
codificate (inglese, francese, italiano) e con una lunga tradizione scritta alle spalle. In altri casi, lo
studio delle lingue segnate era considerato il banco di prova per testare modelli teoretici sviluppati
per le lingue verbali, e il desiderio di legittimarli potrebbe aver portato a trascurare aspetti
percepiti come non rilevanti. In terzo luogo, la difficoltà di approntare un sistema di notazione
idoneo alla rappresentazione delle componenti spaziali e cinetiche dei segni ha avuto come
conseguenza il ricorso alle glosse, ovvero all’uso delle parole della lingua parlata che condividono
il medesimo significato con il segno in qualità di etichette per il segno stesso, trascurando le
accezioni assunte nello specifico contesto di occorrenza (v. Kilma – Bellugi 1979, p. 379). L’uso
delle glosse, tuttavia, può essere fuorviante nell’interpretazione dei fenomeni linguistici, poiché le
proprietà delle parole della lingua parlata possono inconsciamente essere attribuite anche al segno
che si propongono di rappresentare. Da ultimo, la selezione di particolari occorrenze linguistiche
segnate potrebbe aver influito sull’elaborazione dei modelli interpretativi. Una parte considerevole
dei primi studi è stata condotta elicitando la produzione segnata a partire da corpora di dati
linguistici provenienti dalla lingua verbale, osservandone quindi la traduzione in segni. Non
trattandosi di occorrenze spontanee in lingua dei segni, è possibile che in questi corpora prevalesse
l’uso dei segni nella loro forma citazionale, ma mancasse l’uso estensivo di quelle componenti che
rendono i sistemi linguistici visivo-gestuali così peculiari, quali l’uso creativo dello spazio, il
ricorso a immagini visive vivide, l’articolazione simultanea multilivello, etc. (Vermeerbergen
2006, pp. 170-174).
40
Corballis 2006; Armstrong – Wilcox 2007; Armstrong 2008)—fu quella delle
ricerche sull’origine gestuale del linguaggio. Come accennato in precedenza,
l’ipotesi che le prime forme di comunicazione linguistica tra membri della specie
umana fossero di natura gestuale, e che la lingua dei segni utilizzata dai sordi ne
fosse la dimostrazione, è presente in nuce già in Vico, ed ebbe in seguito
particolare fortuna durante l’Illuminismo nell’opera di Condillac, Diderot e
Rousseau (Russo Cardona – Volterra 2005, p. 23), e, in epoca più recente,
nell’opera di uno dei padri dell’antropologia, Edward B. Tylor
30
. La
legittimazione da un punto di vista linguistico della lingua dei segni ha rinverdito
questa linea interpretativa, poiché, supportata dalle nuove scoperte in ambito
paleo-antropologico, ha permesso di affiancare alla spiegazione tradizionale
(ovvero che la gestualità dovesse essere ritenuta evolutivamente pre-esistente
rispetto al linguaggio verbale poiché in grado di stabilire con maggiore facilità
delle relazioni mimetiche tra nomi e i loro referenti), la consapevolezza che un
certo tipo di gestualità, la lingua dei segni appunto, potesse permettere operazioni
cognitive dello stesso ordine di quelle compiute attraverso il linguaggio verbale.
1.2.3“People of the Eye”: la scoperta di una cultura
L’ultimo aspetto da prendere in considerazione, forse quello di maggiore
rilevanza nell’ambito di uno studio antropologico, è quello della ricaduta sociale
delle scoperte di Stokoe. Il dizionario pubblicato nel 1965 contiene infatti, oltre
alla descrizione sistematica dell’ASL, anche la descrizione della comunità che ne
fa uso: le persone sorde per le quali la lingua visiva-gestuale è il veicolo naturale
di interazione sociale. La legittimazione linguistica apre la strada ad un processo
di rivendicazione sociopolitica di più ampio respiro, che va dal movimento per i
diritti civili alla pressione per la revisione delle pratiche educative, ma,
30
Tylor condusse un’approfondita analisi della gestualità esibita dai sordi, traendone la
conclusione, come si è accennato, non scontata per l’epoca, che i segni fossero indipendenti dal
linguaggio verbale e fossero tuttavia uno strumento idoneo alla trasmissione del pensiero (pur non
avendo potenzialità espressive paragonabili a quelle del linguaggio verbale.) Questo assunto è
fondamentale per sostenere la tesi dell’origine gestuale del linguaggio, dato che il “linguaggio
gestuale”, essendo in grado di esprimere il pensiero, è il candidato ideale ad essere l’anello di
congiunzione tra il protolinguaggio e la lingua parlata (Tylor 1865, p. 58 e ss.).
41
soprattutto, sancisce la possibilità di dare avvio ad un percorso di autocoscienza
della stessa comunità sorda alla ricerca della definizione di un’identità alternativa
rispetto a quella imposta dal modello patologico dominante, propagatosi, in virtù
di questa egemonia, fino ad estendersi al senso comune. La scoperta che
l’articolazione della facoltà del linguaggio sul canale visivo-gestuale non implica
l’utilizzo di una modalità comunicativa qualitativamente inferiore rispetto alla
lingua verbale permette l’estensione della ricerca alle stesse pratiche comunicative
messe in atto dai soggetti che utilizzano questa modalità, alle interazioni sociali
che avvengono per mezzo della lingua dei segni, alle norme sociolinguistiche e
comportamentali che regolano queste interazioni e ai valori e alle tradizioni che
esse veicolano attraverso i contenuti simbolici e artistici prodotti per mezzo di
questa lingua: in altre parole, emerge la visione di una cultura, la cultura sorda
(Deaf culture), che in quanto tale si configura come oggetto d’indagine
privilegiato per le discipline antropologiche (Zuccalà 1998). Cosa sia la cultura
sorda, e in che misura si possibile—o auspicabile—giungere all’elaborazione di
una definizione in grado di rendere conto dei fenomeni relativi alla sordità tanto in
un contesto locale, relativo alle singole comunità “nazionali”, quanto ad un livello
globale, alla ricerca di cosa comporti, in generale, l’“essere sordo”, è una
questione che ha animato il dibattito tra gli studiosi impegnati in questo campo
negli ultimi cinquant’anni (vedi, ad esempio, Padden 1980; Padden – Humphries
1988; Kannapell 1989; Kyle 1990; Lane 1992; Dolnick 1993; Turner 1994;
Reagan 1995; Senghas – Monaghan 2002; Ladd 2003; Woll – Ladd 2003), un
lungo dibattito che prosegue tuttora, arricchito dalle continue nuove informazioni
provenienti dallo studio delle comunità sorde e segnanti di tutto il mondo (Zuccalà
1997b). Si potrebbe sostenere che la presenza di un sentimento identitario e la
percezione di un’appartenenza ad una comunità (di volta in volta caratterizzata
come avente le caratteristiche di minoranza etnica o di minoranza linguistica)
fosse già rintracciabile tra i sordi e i segnanti americani, seppure raramente in
modo esplicito e talvolta in un modo che denunciava la non consapevolezza (se
non ad un livello puramente intuitivo) che la propria lingua potesse effettivamente
essere considerata tale.
42
Capitolo II
Oltre il fonocentrismo: un’oralità senza suoni?
2.1 Oralità e fonocentrismo
Lo slittamento delle dinamiche comunicative—e, attraverso di esse, di tutto
l’assetto cognitivo e sociale umano—da un sistema unicamente (o quantomeno
prevalentemente) orale-aurale a uno fortemente sbilanciato in favore del senso
della vista, è, come si è visto nel precedente capitolo, il punto fondamentale che
accomuna le varie declinazioni dell’ipotesi dell’alfabetizzazione. L’intento di
rendere palese quella tendenza che, a partire da Platone31 e Aristotele32, permea
l’intero pensiero occidentale (Sparti 2007, p. 9), orientato irrimediabilmente verso
una metafisica imperniata sul senso della distanza e sugli ideali di chiarezza,
nitidezza, precisione e chiusura ad esso associati, tracima sovente nella
glorificazione delle proprietà legate alla visione e nell’attribuzione alla vista di
una capacità di ristrutturare il pensiero umano tale da suggerire che le teorie
elaborate
all’interno
del
paradigma
della
Grande
Dicotomia
soffrano
irrimediabilmente di uno spiccato videocentrismo. Questo tratto, benché senza
dubbio presente33, potrebbe tuttavia essere in realtà meno saliente del suo esatto
opposto. Infatti, se è vero che il predominio della vista abilitato dalla scrittura è,
nella teorizzazione antropologico-linguistica degli Anni ’60, la causa prima della
differenza qualitativa tra il pensiero analitico (scientifico, razionale) dell’uomo
chirografico/tipografico e quello concreto (conservatore, pre-sillogistico) del suo
31
Nonostante sia nota ed esplicita l’avversità di Platone nei confronti della scrittura e delle sue
supposte nefaste conseguenze sui processi educativi—corruttrice delle facoltà mnemoniche
dell'uomo e, soprattutto, irrimediabilmente ostile al processo dialogico, e pertanto negatrice della
possibilità stessa di produrre, trasmettere e acquisire conoscenza—l’ontologia platonica fa
riferimento quasi unicamente ad un universo visivo. La filosofia platonica è, fin nell’etimologia
dei suoi termini fondanti (idea, eidos), un fenomeno essenzialmente visivo (Sparti 2007, p. 76).
32
Aristotele, responsabile della suddivisione del sensorium umano nelle cinque manifestazioni a
cui ancora oggi generalmente si fa riferimento (Marazzi 2012, p. 136), nello stabilire una gerarchia
tra di esse individuò proprio nella vista il senso dominante rispetto agli altri quattro.
33
Pur rintracciabile in tutte le teorizzazioni esaminate in 1.1.1, esso è riscontrabile con maggior
forza in alcuni autori rispetto ad altri. Per esempio, la valorizzazione positiva delle proprietà
associate alla visione è un tratto particolarmente rilevante negli scritti di McLuhan (1963, 1964).
43
progenitore illetterato/tribalizzato, la sua manifestazione più dirompente,
l’alfabeto fonetico greco, deve la sua carica rivoluzionaria alla sua intima (o
percepita come tale) relazione con il suono. A differenza degli altri sistemi di
comunicazione visiva storicamente realizzati, l’alfabeto fonetico è un artefatto
cognitivo di straordinaria potenza poiché, attraverso la rappresentazione simbolica
del solo significante sonoro del linguaggio, e non dei significati veicolati
attraverso di esso, mantiene indissoluto il legame con quello che è considerato il
senso fondante dell’esperienza umana34:
[n]ella fase del grafismo lineare, che caratterizza la nostra scrittura [...] il
linguaggio scritto, fonetizzato e lineare nello spazio, si subordina in modo totale al
linguaggio verbale, fonetico e lineare nel tempo in modo che le dimensioni dello
spazio vengono ridotte solamente a due [...]. Scompare il dualismo verbale-grafico
e l’uomo dispone di un apparato linguistico unico, strumento di espressione e di
conservazione di un pensiero a sua volta sempre più incanalato nel ragionamento e
preso dalla sua forma espressiva (Squillacciotti 2000, p. 94).
2.1.1 La metafisica della presenza
Le riflessioni sull’oralità degli autori esaminati nel precedente capitolo
condividono, dunque, un punto di partenza fondamentale: pur prendendo le
distanze dall’assunto strutturalista dell’identità tra il segno fonetico e quello
grafico, esse affermano comunque la necessità di declinare il linguaggio come un
fenomeno primariamente orale. A tal proposito, si consideri la posizione assunta
da Goody, che in modo non troppo dissimile da Ong (1991, p. 25), sostiene che
“se è vero che in taluni contesti la scrittura può rimpiazzare l’interazione orale,
essa comunque non toglie alcunché alla natura fondamentalmente orale-aurale
degli atti linguistici” (Goody 1989, p. 6). Nell’analizzare le proprietà della
comunicazione linguistica, dunque, un ruolo prominente è assegnato alle
manifestazioni sonore. A questa predilezione per il suono, e all’intera tradizione
34
La crisi dell’uomo occidentale post-cartesiano, immerso nell’“oralità secondaria” descritta da
Ong (1982, p. e ss.) e tanto temuta da McLuhan, è il prodotto del ritorno dell’esperienza aurale,
resa ancor più travolgente e totalizzante dall’assenza, dovuta a secoli di attività chiro-tipografica,
degli strumenti per una corretta fruizione di questa stessa esperienza (Cfr. McLuhan 1962, 1999).
44
strutturalista che di questa predilezione ha costruito le fondamenta teoriche,
Derrida rivolge un’aspra critica, scegliendo come bersaglio della propria vis
polemica non solo de Saussure, ma anche, ed è quello che più sembra rilevante in
questo contesto, le conclusioni tratte da Lévi-Strauss in seguito alle osservazioni
condotte presso la popolazione brasiliana dei Nambikwara. L’indagine
antropologica di Lévi-Strauss è colpevole, agli occhi di Derrida, di celare dietro
una posizione che si considera anti-etnocentrica—nel suo tentativo di rimuovere
la distinzione classica tra il “primitivo” e il “civilizzato” interpretando le
differenze transculturali come il prodotto dell’utilizzo di codici (o tecnologie) di
comunicazione differenti35—un etnocentrismo subconscio ancora più profondo
(Peters 1998, pp. 27-28). L’artificiale separazione tra oralità e scrittura, l’idea che
esistano popolazioni prive di scrittura e l’implicito corollario che essa sia
un’invenzione occidentale esportata presso le culture orali, e soprattutto la
concezione della scrittura come sistema secondario rispetto alla parola parlata—e
in quanto tale responsabile di un allontanamento dalla dimensione originaria della
natura umana, dal senso di autenticità, trasparenza e prossimità insito nelle
interazioni faccia-a-faccia e del senso di “presenza a se stessi” garantito
dall’oralità—sono i miti propagati dall’approccio strutturalista, indicatori espliciti
dell’attribuzione inconsapevole di uno status privilegiato al pensiero occidentale e
funzionali al mantenimento di una concezione metafisica e teologica dominante:
quella, appunto, fondata sul senso della presenza, della sostanza, dell’essenza,
“contrassegnata dalla centralità della voce, della parola parlata che si illude di
poter realizzare la piena presenza del soggetto a se stesso” (Trabattoni 2004, p.
247).
2.1.2 Suoni, parole, pensiero: ciò che ci rende umani?
Il bias fonocentrico (e logocentrico) evidenziato dalla critica decostruzionista
derridiana emerge in modo estremamente marcato nelle riflessioni condotte da
Walter Ong, la cui intera opera appare mossa dalla volontà di tracciare
35
Un tratto che, lo si è visto nel primo capitolo, accomuna le riflessioni di Goody e Watt,
Havelock e Ong (Goody – Watt 1963, Havelock 2005, Ong 1987).
45
l’evoluzione storica della “parola” (nei suoi aspetti sociali, psicologici,
fenomenologici e religiosi) e di elaborare una dettagliata e filosoficamente
approfondita—nonché adeguata alla teologia cristiana—teoria del suono come
presenza.
Tra i lavori dello studioso gesuita, The Presence of The Word. Some
Prolegomena for Cultural and Religious History (1967) è quello in cui, sin dal
titolo, l’intento di determinare lo statuto esistenziale della parola parlata quale
mezzo per l’esercizio del potere e veicolo attraverso cui l’uomo è presente a se
stesso si fa più manifesto. Da un punto di vista meramente cronologico 36 ,
argomenta Ong, la parola nasce come fenomeno orale, come esperienza legata al
mondo del suono—“[a] world of sounds thus tends to grow into a world of voices
and of persons” (Ong 1967, p. 131)—ed è destinata a rimanere tale
indipendentemente dalle sue molteplici reincarnazioni tecnologiche. Da questa
considerazione deriva la fondamentale caratterizzazione della parola parlata come
“naturale”, proprio in opposizione all’artificialità di queste trasformazioni 37 .
Imparare a scrivere, ad esempio, richiede “the most arduous discipline” (p. 94),
mentre apprendere la lingua orale
comes about with far less anguish than does writing. […] [Speech] is not drilled
into the child with the grim determination that often marks the teaching of writing.
[…]. [Writing rarely becomes] so spontaneous or flowing as speech (ib.).
La “naturalità” della parola parlata è una delle ragioni che la rende così
36
Delle decine di lingue parlate nel corso dell’esistenza sulla Terra di Homo Sapiens (c. 30000
anni)—è l’argomento ricorrente nell’opera di Ong—appena un centinaio hanno conosciuto una
qualche forma di codifica grafica, e l’utilizzo di queste codifiche ha contraddistinto solo una
recente, e minima, frazione di questo lungo arco di tempo: l’introduzione dei sistemi di scrittura,
con l’ideazione dei caratteri cuneiformi, risale a meno di 6000 anni fa (Ong 1986, p. 26). “Speech
is ancient, archaic”, conclude Ong, “[w]riting is brand-new” (p. 34).
37
L’artificialità, qualità legata all’essenza tecnologica della scrittura, è lodata da Ong (1986, p.
32), ma è chiaro che con la qualifica di “naturale” egli intende garantire il primato esistenziale
all’oralità. La “world as view” (lo sviluppo della quale, in opposizione al concetto di “world as
event”, è abilitato dalla scrittura)
is not a datum, a donné, but something the individual himself or the culture he shares partly
constructs; it is the person’s way of organizing from within himself the data of actuality
coming from without and from within. A world view is a world interpretation (Ong 1969,
p. 634).
46
intimamente legata alla costruzione dell’identità personale e culturale, e
modificarne lo statuto attraverso le trasformazioni tecnologiche ha come
conseguenza immediata quella di indebolire questo effetto38. Inoltre, essendo
appresa, e pertanto riservata solo a coloro i quali possono sottostare al percorso di
addestramento formale necessario a padroneggiarla, la parola scritta è
intrinsecamente esclusiva, al contrario della parola parlata, la quale,
inclusivamente, abbraccia tutta l’umanità poiché “lends itself […] to virtually
everyone” (p. 116).
Quella tra la “naturalità” della parola parlata, opposta all’“artificialità” delle
varianti tecnologiche della parola stessa, è solo la prima di tante, vivide
opposizioni binarie mediante le quali Ong si propone di caratterizzare i fenomeni
sonori. Il suono, la “sostanza” dell’espressione orale, è via via connotato come
fonte di potere e azione (p. 114) e non oggetto di contemplazione, immersivo
poiché colloca l’ascoltatore nel mezzo degli eventi (p. 128) e non al di fuori di
essi, simultaneo (p. 129) poiché slegato dalla direzionalità della vista, e in virtù di
queste proprietà, capace di connettere l’ascoltatore in modo partecipativo agli
eventi stessi (p. 138) invece di separarlo da essi, e, soprattutto, rivelatore
dell’interiorità degli oggetti e degli aspetti più intimi del reale (p. 117) e non
soltanto delle superfici. Da queste proprietà del “mondo del suono”, e
principalmente dalla capacità di rivelare l’interno delle cose senza doverle
penetrare fisicamente (e, così facendo, evitando di violarle e distruggerle), deriva
l’importanza che Ong gli attribuisce nella creazione delle comunità umane e la
possibilità stessa di instaurare quella che altrove egli ha definito “I-Thou
38
In questo senso, ed è qui che emergono in modo decisivo le preoccupazioni di natura teologica
dello studioso gesuita, la scrittura rappresenta l’allontanamento dell’uomo dalla sua originale
condizione “edenica”. La parola “in its purest form, in its human and most divine form, in its
holiest form” è quella che “passes orally between man and man to establish and deepen human
relations” (p. 92): dato che“[a]ll reductions of the spoken word to non-auditory media, however
necessary they may be, attenuate and debase it, as Plato so intensely felt” (Ong 1967, p. 322), la
scrittura non può che rappresentare l’allontanamento dell’uomo dal divino.
In termini meno esplicitamente derivati dalla dottrina cristiana, Ong definirà gli effetti della
manipolazione della parola parlata in termini di “alienazione” (cfr. Ong 1989, pp. 27 e ss.).
47
knowledge”39: la voce—suono indissolubilmente legato al linguaggio e quindi al
pensiero—è, da un lato, il mezzo attraverso cui l’individuo può giungere alla
conoscenza della propria interiorità e del proprio sé40, e dall’altro il fondamento
psicologico della natura relazionale dell’essere umano41. La voce
unites communities as nothing else does. The psychological reasons for this are by
no means all understood. But one reason is certainly the interiorizing quality of
sound and thus of voice. Voice […] manifests interiors as interiors and unites them.
Since thought arises in a human community and since a human community is
essentially a union of interior consciousnesses, each self-driven and completely
open only to itself (no one else knows what I experience when I say “I”), and yet
consciously and reflectively conjoined with others (that is, joined in terms of it own
interiority), it appears understandable that that particular sense world which is of its
nature most directly interior would be the most readily exploitable in direct
connection with thought (p. 146).
Un ruolo centrale nella costruzione di questa metafisica della presenza basata
sulla parola parlata è svolto, inoltre, dalla dimensione temporale del fenomeno
sonoro. A questo proposito Ong offre un esempio che diventerà ricorrente nei suoi
scritti successivi, mediante il quale egli si propone di dimostrare l’impossibilità di
cristallizzare le occorrenze della parola parlata e separarle dallo scorrere del
tempo. Le parole, infatti, “come into being through time, and exist only so long as
they are going out of existence” (p. 40): nel pronunciare una qualsiasi parola, ad
esempio, la parola “reflect”, “by the time I get to the “flect” the “re” is gone, and
necessarily and irretrievably gone” (ib.). Nonostante la sua evanescenza, il suono
39
Il mondo del suono è “the I-thou world where, through the mysterious interior resonance which
sound best of all provides, persons commune with persons, reaching one another’s interiors in a
way in which one can never read the interior of an ‘object’” (cit. in Soukup 2004, p. 9) e pertanto
“[e]very human word implies not only the existence—at least in the imagination—of another to
whom the word is uttered, but it also implies that the speaker has a kind of otherness within
himself” (ib.).
40
“In all human cultures”, scrive Ong, “the spoken word appears as the closest sensory equivalent
of fully developed interior thought. Thought is nested in speech” (Ong 1967, p. 138).
41
La centralità della voce nel processo di costruzione della relazione è così marcata che anche la
scrittura, attività solipsistica e distaccata, non è capace di liberarsi di questa caratteristica,
ovviando all’assenza di un interlocutore presente “qui e ora” con la costruzione del pubblico
immaginario di riferimento (Ong 1991).
48
è reale,
[…] more real or existential than other sense objects […]. Sound itself is related to
present actuality rather than to past or future. It must emanate from a source here
and now discernibly active, with the result that involvement with sound is
involvement with the present, with here-and-now existence and activity (p. 111).
L’oggetto della sensazione uditiva, a differenza delle esperienze sensoriali
associate agli altri sensi, è quello più intimamente legato al tempo, poiché esso
non può essere arrestato, ma, al contrario, ha innata dentro di sé la proprietà di
progredire, appunto, nel tempo, ed è attraverso di esso che l’uomo può avere
accesso alla conoscenza di un oggetto immateriale come il tempo stesso. In ultima
istanza, il suono e la parola parlata sono “vivi” (p. 309), laddove la parola scritta è
inesorabilmente “morta”: i predicati (aristotelicamente) attribuibili al suono e ai
fenomeni sonori come la lingua parlata sono gli stessi predicati che permettono di
attribuire all’essere umano la propria qualità di “umanità”.
2.1.3 Senza suoni, senza parole: gli esclusi dal mondo del suono
In questa metafisica così radicata nell’esperienza uditiva, non sfugge a Ong—
come invece, ironicamente, era sfuggita a Derrida—la possibilità di un caso limite
in cui essa è teoricamente preclusa, e di cui è necessario rendere conto: la
condizione di chi è fisiologicamente o psicologicamente escluso dal mondo del
suono (Ong 1986, p. 31), ovvero i sordi congeniti. Nonostante il riferimento alle
pratiche comunicative in uso tra le persone sorde denoti una conoscenza talvolta
approssimativa del fenomeno42, per corroborare la tesi della fondamentale oralità
del linguaggio umano Ong ricorre frequentemente a espliciti riferimenti alla
42
Ong sostiene che, benché solo la lingua orale garantisca la compresenza dei diversi attori
coinvolti in uno scambio comunicativo, in alcuni casi particolari un condizione di presenza
assimilabile a quella garantita dal parlato possa essere raggiunta mediante l’uso di messaggi scritti.
Una delle condizioni particolari individuate da Ong è quella di uno scambio comunicativo tra
interlocutori sordi (Ong 1989, p. 66). In realtà, lo scenario descritto da Ong è inverosimile e
fuorviante: in primo luogo, l’uso di brevi messaggi scritti è una pratica comunicativa comune tra
sordi e udenti non segnanti, mentre è del tutto estranea agli scambi conversazionali tra individui
sordi segnanti, anche in quei contesti dove la scolarizzazione e l’alfabetizzazione dei sordi è
sufficientemente diffusa; in secondo luogo, è un punto di vista che presuppone come unica
alternativa alla lingua orale una variante visiva della stessa lingua ad essa subordinata, mentre
ignora colpevolmente il reale veicolo di interscambio linguistico adottato dalle persone sorde.
49
condizione “silenziosa” cui sono costretti i sordi, alle lingue dei segni da essi
adoperate, e alla relazione che intercorre tra i sistemi linguistici visivo-gestuali e
quelli orali-aurali. Coerentemente con l’impostazione fortemente fonocentrica del
suo pensiero, i sordi, esclusi dal mondo del suono, non possono che essere
identificati come soggetti svantaggiati, mentre le lingue segnate sono riconosciute
solo in quanto traduzioni dei sistemi linguistici vocali, delle lingue artificiali
dipendenti dalle lingue vocali la cui esistenza è strumentale all’educazione e alla
riabilitazione dei sordi, e utili a compensare e aggirare il deficit sensoriale nelle
comunicazioni interpersonali. I sordi, scrive Ong, poiché hanno accesso solo alla
componente visiva degli atti linguistici orali (movimento delle labbra, postura dei
parlanti), senza un’adeguato percorso pedagogico che li educhi alla comprensione
del fenomeno sonoro e senza l’ausilio di tecnologie che ripristinino, anche solo
parzialmente, la capacità uditiva, “always grew up subnormal. Left unattended,
the congenitally deaf are far more intellectually retarded than the congenitally
blind” (Ong 1967, pp. 141-142), dato che “per imparare a pensare e comprendere,
è molto più importante poter sentire e parlare che vedere” (Ong 1989, p. 149).
Inoltre, dalla tesi della fondamentale oralità del linguaggio non può che
discendere una concezione delle lingue segnate allineata all’orientamento
prevalente in tutta la scienza linguistica, conforme quindi a quelle valutazioni che,
lo si è visto nel primo capitolo, da Sapir in poi hanno negato alle lingue segnate lo
status di lingue naturali, considerandole mere transcodifiche gestuali delle lingue
verbali. Nonostante riconosca alla gestualità una notevole ricchezza comunicativa,
Ong afferma che
i linguaggi costituiti da segni consapevolmente inventati sostituiscono il discorso
orale e dipendono da sistemi di discorso orale, persino quando vengono usati da
sordi congeniti (Ong 1991, p. 25)43.
43
Nell’edizione originale in lingua inglese (Ong 1982), Ong parla di “elaborated sign languages”.
Il traduttore italiano, operando una scelta lessicale rivelatrice di quelle che sono le credenze
comuni in merito alle lingue dei segni e delle diffuse attitudini verso di esse, ha scelto di rendere
questa espressione con “linguaggi di segni consapevolmente inventati”, invece di optare per un più
accurato “lingue dei segni”. Benché dal paragrafo—e da altri passi del libro—si evinca che la
concezione di Ong nei confronti dei sistemi linguistici visivo-gestuali presupponga una
50
Alla luce dell’innovativa ricerca sull’ASL condotta da William Stokoe [vedi
cap. 1.2], l’affermazione di Ong è problematica sotto molteplici aspetti, come ha
puntualmente mostrato John Paul Gee in uno scambio epistolare intrattenuto con
lo stesso Ong e riportato, a breve distanza dalla pubblicazione di Oralità e
Scrittura, sulla rivista Language & Style (Gee – Ong 1983). Ma prima di passare
in rassegna le evidenze scientifiche che, nel corso degli ultimi decenni, hanno
contribuito a smentire definitivamente la visione delle lingue dei segni contenuta
in questa affermazione, e prima di esaminare quali siano le conseguenze di questa
doverosa correzione sulla più generale teoria dell’oralità proposta da Ong, è utile
provare a ricostruire la genesi della visione patologica della sordità che di questa
teoria sembra essere immediato corollario.
2.2 Il modello patologico della sordità: la metafora del silenzio
La sordità è una condizione comunemente rappresentata come un attributo
fisico relativo alle funzionalità audiologiche dell’orecchio umano: secondo questa
descrizione, la differenza tra un individuo udente e uno sordo risiede unicamente
nella possibilità di accesso agli stimoli sonori, un’esperienza garantita al primo e
preclusa al secondo (pur in una varietà di gradazioni) a causa del parziale o totale
malfunzionamento degli organi sensoriali deputati alla ricezione di questi stimoli.
Questa differenza, imperniata su un’unica proprietà, è così autoevidente da
permeare l’intero senso comune: la condizione in cui le capacità auditive sono
integre viene categorizzata come “normale” e quindi di per sé naturale44, mentre
ciò che appare come l’inevitabile contrario, la sordità appunto, è fatalmente una
deviazione dalla norma ed è pertanto ascrivibile al dominio delle “disabilità”.
Tuttavia, il prevalere di questa concettualizzazione patologica della sordità non è
dipendenza di questi dalle lingue vocali, la qualifica di “consapevolmente inventati” suggerisce
un’artificialità che, considerati i riferimenti bibliografici citati in corrispondenza di questo e di altri
passi analoghi, sembra ben al di là delle intenzioni dell’autore.
44
Per una sintetica ma esaustiva ricostruzione di come il concetto contemporaneo di “normalità”
(in merito alle caratteristiche e alla capacità umane) abbia saputo conquistare una posizione
egemone nella cultura occidentale, e per comprendere in che modo sia emersa la relazione di
opposizione che lo lega al concetto di “disabilità”, cfr. Davis 2006.
51
un inequivocabile dato di fatto, ma bensì il risultato della stratificazione di
particolari significati associati alla sordità in determinati contesti socioculturali.
Infatti, così come ciò che pertiene alle distinzioni basate sul genere, sull’età
anagrafica o sull’appartenenza etnica, anche in ambito audiologico certamente
esiste una discriminante fisica in grado di suggerire le linee lungo le quali è
possibile demarcare l’appartenenza all’una o all’altra categoria, ma questi stessi
attributi fisici non sono intrinsecamente portatori di significato: la sordità è
indubbiamente un fenomeno fisiologico, ma è allo stesso tempo una costruzione
culturale, e in quanto tale il significato ad essa attribuito è suscettibile di continue
rinegoziazioni nel corso del tempo45: ben lungi dal poter essere definita in modo
stabile e trasparente, la sordità “must be interpreted and cannot be apprehended
apart form a culturally created web of meaning” (Baynton 2006, p. 33).
Esemplare, in questo senso, è il mutamento dei significati attribuiti alla sordità nel
corso del XIX Sec., dove un paradigma interpretativo mosso da preoccupazioni di
tipo missionario, ispirato dal fervore religioso dei movimenti di rinascita spirituale
che si diffusero negli ambienti protestanti nordamericani e predominante fino agli
Anni ’60 dell'Ottocento, venne in seguito spodestato da una visione alternativa,
promossa da un lato dal prepotente emergere dei sentimenti nazionalisti (e del
conferimento alle lingue nazionali di un ruolo fondamentale nel processo di
costruzione delle identità), dall’altro dall’estremizzazione della teoria darwiniana
dell’evoluzione, risultata in una profonda e duratura fascinazione di parti
consistenti della comunità scientifica per discipline quali l’eugenetica. Da
condizione responsabile dell’esclusione degli individui dalla comunità cristiana (i
sordi non possono beneficiare della predicazione del Vangelo, e quindi dalla
“salvezza”, con chiare implicazioni di natura morale), nella seconda metà del
45
L’attribuzione alla sordità di diversi significati influenza inevitabilmente anche le attitudini e le
pratiche ad essa associate, promuovendo, per esempio, l’adozione di paradigmi radicalmente
diversi in ambito medico (rendendo più o meno desiderabili interventi invasivi mirati alla “cura”
del sordo) o in ambito pedagogico (come la storica contrapposizione dei metodi di insegnamento
manualisti—che ritengono cioè indispensabile l’uso della lingua dei segni per un effettivo
sviluppo cognitivo e linguistico del bambino sordo, a quelli oralisti, improntati al contrario al
rafforzamento delle sole capacità di apprendimento e produzione della lingua parlata e scritta
quale unico reale percorso in grado di garantire l’integrazione nella società udente).
52
secolo la sordità si configura primariamente come un ostacolo alla piena
partecipazione di alcuni individui alle nuove comunità nazionali, idealmente
omogenee da un punto di vista etnico, culturale e linguistico, ma anche come una
disabilità, un tratto negativo che tramite la selezione genetica può (e deve) essere
eliminato. Le due visioni della sordità qui ricordate differiscono profondamente
nell’approccio pedagogico delle quali si fecero promotrici (manualista la prima,
animata dal desiderio di diffondere con qualsiasi mezzo la predicazione
evangelica, contrapposta al rigoroso oralismo della seconda, preoccupata tanto di
garantire l’unità linguistica della comunità nazionale, quanto desiderosa di
scoraggiare la formazione di una comunità linguistica a sé stante, condizione che
avrebbe necessariamente favorito le unioni endogame con il conseguente aumento
della probabilità di una prole anch’essa sorda)46, ma concordarono su un punto di
fondo—la sordità isola chi ne è affetto dal resto della comunità, in qualunque
modo questa sia intesa—e gettarono le basi per la costruzione di
quell’immaginario in cui i concetti di imprigionamento, oscurità, assenza,
solitudine sono sistematicamente legati alla condizione dei sordi, un immaginario
così dominante e incontrastato da aver influenzato persino il discorso accademico,
come si evince dalle valutazioni espresse da Walter Ong riportate in precedenza.
I significati correlati alla descrizione della sordità come difetto fisico, alla
condizione di “mancanza di qualcosa” emersa dall’humus culturale della fine del
XIX Sec. e sottintesa nel confinamento nella categoria della disabilità, si
condensano e si sedimentano in modo sorprendentemente efficace nella “metafora
del silenzio”, la potente immagine di un mondo senza suoni in grado di evocare
immediate sensazioni di disorientamento, vacuità, assenza e oppressione47. La
46
Era questo il grande cruccio di Alexander Graham Bell, noto sostenitore dell’eugenetica, nel
tristemente famoso pamphlet “Memoir Upon the Formation of a Deaf Variety of Human Race”,
del 1884 (Baynton 2006, p. 34).
47
Dalla letteratura al teatro all’audiovisivo, sono innumerevoli le occorrenze in cui il ricorso al
“silenzio” mira deliberatamente a evocare queste sensazioni. Ripercorrere esaustivamente la
genesi e l’utilizzo di questo tòpos trascende evidentemente dagli obiettivi di questo lavoro,
tuttavia, a titolo di esempio, basterà ricordare la cancellazione (o il significativo ottundimento)
tanto delle componenti sonore diegetiche (dialoghi, sonoro ambientale) ed extradiegetiche
(colonna sonora) in alcune celebri sequenze cinematografiche—si pensi allo stordimento e la
confusione di Jack La Motta (Robert De Niro) in Raging Bull di Martin Scorsese, o all’isolamento
53
metafora del silenzio deriva gran parte della propria forza e pervasività dalla sua
relazione—per antitesi—con il mondo del suono, e quindi, come si è visto, con il
linguaggio: il silenzio si configura così come quello spazio liminale in cui il
suono, e con esso il linguaggio, smette di esistere, determinando di fatto non solo
l’impossibilità di qualsiasi comunicazione, ma la stessa possibilità di esistenza del
pensiero. E anche qualora il silenzio sia interpretato come significante, come
comunicante di per sé, è ancora una volta Ong, sin dalle prime pagine di The
Presence of the Word, a ricordare che
when we thus think of silence as communicating, we are likely to think of it as a
kind of speech rather than as a kind of touch or taste or smell or vision—“speaking
silence,” we say. The reason is plain: silence itself is conceived of by reference to
sound; it is sound’s polar opposite. Thus even when we conceive of
communication as a transaction more fundamental than speech, we still conceive of
it with reference to the world of sound. (Ong 1967, pp. 2-3)
Considerando le premesse fonocentriche della metafisica della presenza,
emerge con chiarezza il motivo per cui una comunicazione silenziosa come quella
articolata sul canale visivo-gestuale sia, agli occhi di Ong, irreparabilmente
inferiore rispetto alla parola parlata: in quanto negazione del suono, il silenzio è di
fatto responsabile dell’interruzione del senso di presenza a se stessi di cui il suono
stesso è elemento fondante. Agendo così in armonia con il paradigma della
metafisica della presenza, la metafora del silenzio si dimostra un dispositivo
culturale in grado di rappresentare, di fatto, l’impossibilità di conoscere il mondo,
e data la secolare ostilità nei confronti delle lingue dei segni e la strenua resistenza
alla nozione della loro piena linguisticità, non ancora completamente dissipata
nonostante le evidenze prodotte dalla ricerca linguistica, non sorprende che la
metafora del “mondo senza suoni” venga sovente adoperata, sia in virtù delle
proprie implicazioni meramente acustiche, sia per i significati simbolici in essa
e alla separazione dal mondo esterno causato dalla maschera da sub indossata da Benjamin
Braddock (Dustin Hoffman) in The Graduate di Mike Nichols—per avere un’idea del grande
potere evocativo che la rappresentazione del silenzio può avere, e di come ad essa si colleghino
stati emotivi generalmente percepiti come negativamente connotati.
54
racchiusi, quale narrazione privilegiata nel momento in cui si intenda descrivere
l’esperienza quotidiana degli individui sordi. Come sottolineano Padden e
Humphries,
[t]o hearing people the metaphor of silence portrays what they believe to be the
dark side of Deaf people, not only the inability to use sound for human
communication, but a failure to know the world directly. For hearing people, the
world becomes known through sound. Sound is a comfortable and familiar means
of orienting oneself to the world. And its loss disrupts the way the world can be
known. These images communicate the belief that Deaf people cannot have access
to the world because it is primarily conveyed by sound and especially by the
spoken word. Instead they are locked “on the other side,” behind “sound barriers”
and are condemned to a life lacking the depth of meaning that sound makes
available to hearing people (Padden – Humphries 1988, pp. 91-92).
La metafora del silenzio si è imposta in modo così incontrastato da essere non
solo evocata nel linguaggio comune ogni qual volta si affronti la “questione
sordità” nelle sue varie declinazioni linguistiche, sociologiche, o prevalentemente
mediche (come si può facilmente verificare dalla semplice osservazione di come
essa viene trattata sulla stampa generalista quotidiana48, o dall’enorme risonanza
che determinati contenuti diffusi in rete riescono rapidamente ad acquisire)49, ma
48
Quella che segue è una breve rassegna, frutto di una raccolta occasionale e non sistematica, e
pertanto certamente non esaustiva, di articoli dedicati al tema della sordità apparsi in formato
cartaceo o digitale su alcune popolari riviste e su alcuni tra i maggiori quotidiani nazionali italiani.
Come si può rilevare da una semplice scorsa dei titoli, l’associazione della sordità con una
connotazione disforica del silenzio (“muro del silenzio”, “vuoto del silenzio”) è costante, così
come è costante un’approccio focalizzato esclusivamente sulla medicalizzazione della sordità e
sulle possibili, imminenti soluzioni della patologia che l’avanzamento della tecnologia protesica
lascia intravedere.
Cfr. Messa, A. “Sordità. Impianti elettronici per infrangere il muro del silenzio”, La Repubblica, 1
Febbraio 2011, p. 36; Di Diodoro, D. “Il vuoto del silenzio «riempito» da una musica inesistente”,
Corriere della Sera.it, 21 Giugno 2013 <http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/13_giugno_21/all
ucinazioni-uditive-cervello_2145b08eb705-11e2-8651-352f50bc2572.shtml>; Salmi, M.P. “Udito. Un
orecchio bionico sta per abbattere il muro del silenzio”, La Repubblica, 4 Febbraio 2014, p. 28;
Faillaci, S. “Mamma. Che silenzio” Vanity Fair, 9 Aprile 2014 <http://www.vanityfair.it/news/ital
ia/14/04/09/storia-famiglia-sordi>; “Sordità, urla nel silenzio. Ma il mondo non ascolta”,
LaRepubblica.it 10 Aprile 2014 <http://www.repubblica.it/solidarieta/2014/04/10/foto/sordit_foto
progetto_maria_nasti-83219959/1/#1>.
49
Ci si riferisce qui ai numerosi video presenti in rete rilanciati con grande risalto dai maggiori siti
di informazione o da piattaforme dedite alla diffusione di contenuti virali (ad esempio,
55
da essere persino adottata dagli stessi sordi, come dimostra il ricorrere
dell’aggettivo “silenzioso” nelle denominazioni di varie organizzazioni di sordi
(per esempio, le tante “associazioni silenziose” diffuse in tutta Italia) e nelle
testate delle riviste pubblicate dalle associazioni dei sordi (si pensi alla storica
rivista americana The Silent Worker).
Tuttavia, nonostante l’apparente accuratezza e pregnanza, la metafora del
silenzio è sotto molteplici aspetti scarsamente utile alla comprensione del
fenomeno che si propone di descrivere. In primo luogo perché, da un punto di
vista acustico, pochissimi individui possono dirsi completamente sordi, dato che
la maggior parte di essi è effettivamente in grado di percepire in modo più o meno
distinto determinati intervalli di frequenze (solitamente quelle più basse). In
secondo luogo, ciò che la costruzione teorica legata alla metafora del silenzio
sottovaluta è la componente culturale legata alla percezione del suono, ovvero
quella gamma di significati che vanno al di là della semplice ricezione di una
perturbazione del mondo fisico circostante per mezzo degli organi sensoriali ad
essa deputati. La percezione è legata indissolubilmente a un processo di
interpretazione, la quale, giocoforza, non è “automatic or straightforward, but it’s
Upworthy.com) nei quali vengono presentate le reazioni alla prima esperienza auditiva avute da
pazienti sordi recentemente protesizzati o che utilizzano per la prima volta gli apparecchi acustici.
Queste testimonianze sono di solito inquadrate in una narrazione che ricorre ampiamente alla
retorica dell’uscita dal “silenzio” e dell’auspicato ingresso nel “mondo del suono”, con grande
enfasi sulle emozioni positive (gioia, commozione) legate a questo evento e senza alcuna
menzione delle note problematiche fisiologiche e cognitive che accompagnano questo tipo di
interventi. Non si vuole qui esprimere una valutazione sulle scelte individuali compiute dai
soggetti protagonisti di queste testimonianze—l’opportunità e l’auspicabilità del ricorso
all’impianto cocleare, specialmente in età infantile, è tema complesso e aspramente dibattuto tanto
nella comunità sorda quanto, seppure in misura minore, nella stessa comunità medica—quanto
piuttosto porre l’accento sugli effetti che la diffusione di questi contenuti sui media generalisti ha
su un’audience occasionale non pienamente informata degli innumerevoli risvolti linguistici,
culturali e sociali relativi alla sordità, e di come essi, facendo leva sull’emotività e
sull’immediatezza della condivisione sui social network, siano adoperati strumentalmente per
supportare la visione patologica della stessa. Cfr. Zoot Cadillac, “8 Month Old Deaf Baby's
Reaction To Cochlear Implant Being Activated”, YouTube video, 5 Giugno 2010
<https://www.youtube.com/watch?v=HTzTt1VnHRM>; Arnold, C., “Amy hears sound for the
first
time
@
26
years
old”,
YouTube
video,
2
Settembre
2012
<https://www.youtube.com/watch?v=xpi1xKD20dw>; Birmingham Mail, “Joanne Milne's
Implants are turned on and she hears for the first time”, YouTube video, 27 Marzo 2014
<https://www.youtube.com/watch?v=S7LcNUxcQ8Y>; Lever, T., “Lachlan’s first hearing aids
aged 7 weeks old. Our gorgeous baby boy”, YouTube video, 31 Agosto 2014
<https://www.youtube.com/watch?v=UUP02yTKWWo>.
56
shaped through learned, culturally defined practices” (Padden – Humphries 1988,
p. 93): conoscere il suono implica non solo la scoperta delle sue proprietà
acustiche, ma anche la comprensione dei significati associati ai diversi fenomeni
sonori. In modo più o meno accurato, i sordi, immersi in un contesto in cui il
suono assume i significati più disparati, apprendono—tanto attraverso un percorso
di scoperta per prove ed errori, quanto per mezzo di esplicite prescrizioni
provenienti dagli udenti con cui si trovano in contatto (pp. 93-100)—la complessa
rete di significati associati ai suoni, e soprattutto a decodificare i processi di
significazione che gli udenti compiono in merito al suono. L’individuo udente,
attraverso il processo di ascolto, percepisce eventi, oggetti e fenomeni concreti, e
solo raramente “suoni”: i suoni, la “materia prima” dell’udito (Marazzi 2010,p.
77), risultato delle oscillazioni di un corpo in vibrazione trasmesse (di solito) per
via aerea, sono associati alle cose del mondo, e l’atto stesso della percezione è
sufficiente a evocare immediatamente il “percepito” (cioè, per l’appunto, quegli
eventi, oggetti e fenomeni concreti che ne sono l’origine). Il sordo, di contro,
manca di queste associazioni così profondamente introiettate nella coscienza: le
sensazioni sonore, in qualche forma o capacità, spesso non gli sono aliene, ma
queste non sono legate alle “cose” del mondo. “Deaf people may hear sounds, but
rarely things, which means that [they] may perceive without making perceptions”
(Haualand 2008, p. 112): la modalità con cui i sordi esperiscono il suono è tale per
cui la sensazione sonora è disconnessa e rimossa dalla sorgente che la produce,
cosicché la sua percezione si riduce unicamente a una sorta di ascolto astratto
(ib.), alla “percezione del suono in quanto tale”.
Da ultimo, ed è questa la prospettiva certamente più rilevante, essa è
inadeguata poiché la sua stessa enunciazione denuncia la profonda penetrazione
del bias fonocentrico. Per i sordi congeniti (e anche per chi, pur non essendo sordo
alla nascita, abbia in seguito perso l’udito, poiché il ricordo dell’esperienza sonora
tende progressivamente a svanire) la relazione del silenzio con il suono non è, di
fatto, significativa. Solo assumendo una prospettiva che considera il suono il
cardine dell’esperienza umana il silenzio può connotarsi in senso negativo, e la
sordità può essere rappresentata sinteticamente nei termini di assenza e mancanza.
57
Ma per coloro i quali il suono non svolge un ruolo centrale nel rendere
significante la propria esperienza quotidiana del mondo, la sordità non si
configura staticamente come assenza, come incapacità di sentire, ma bensì come
una relazione sociale dinamica, ovvero la relazione che intercorre tra individui
“udenti” e individui “sordi”: “[w]hat the deaf person sees in [hearing] people is
not the presence or absence of hearing, not their soundfulness or their silence, but
their mode of communication—they sign, or they move their lips” (Baynton 2006,
p. 38). L’uso estensivo della metafora del silenzio è indicativo, di per sé, di come
questa relazione sia attualmente dominata da uno dei due poli, segnatamente
quello udente, e di come la costruzione di un immaginario che oppone la
solitudine all’inclusione, o persino il sub-umano al pienamente umano, sia
funzionale a promuovere la dipendenza di un polo rispetto all’altro.
2.2.1 Svelare l'audismo
Alla ricerca di una cornice teorica in grado di inquadrare i termini di questa
relazione dominante/dominato, Humphries ha proposto una definizione del
fenomeno modellata su analoghe forme di discriminazione e oppressione
socialmente e storicamente realizzatesi: così come sono esistite (ed esistono)
ideologie fondate sull’assunto secondo cui la varietà fenotipica propria della
specie umana è indice di appartenenza a razze biologicamente distinte, ciascuna
dotata di uno specifico patrimonio intellettivo—o persino morale—tale da rendere
possibile una gerarchizzazione tra le stesse, allo stesso modo la suddivisione della
specie sulla base di differenti competenze sensoriali promuove la gerarchizzazione
degli individui, che nel caso della sordità avviene su base esclusivamente
audiologica.
L’analogia
elaborata
da
Humphries
si
estende
a
livello
terminologico, con la proposta di identificare l’insieme di orientamenti
discriminatori nei confronti della sordità per mezzo del neologismo “audismo”,
modellato, come si può facilmente intuire, sul termine “razzismo”. In un saggio
presentato nel 1975, Humphries ha proposto una definizione “da dizionario” del
termine audismo:
Audism: (Ô-diz-m) n. The notion that one is superior based on one’s ability to hear
58
or behave in the manner of one who hears. (cit. in Bauman 2004, p. 240).
L’audismo, secondo Humphries, si manifesta nelle credenze e nei
comportamenti di chi garantisce all’essere udenti un’intrinseca superiorità nei
confronti dell’essere sordi, dando luogo a una serie di attitudini, giudizi e azioni
rivolte alle persone sorde. È opportuno parlare di audismo, quindi, ogni qual volta
viene espresso un giudizio negativo sulle capacità intellettive delle persone sorde,
o si assume l’impossibilità delle persone sorde di condurre un’esistenza
soddisfacente qualora esse non siano in grado di acquisire un’adeguata
padronanza della lingua parlata, o si richiede ai sordi di uniformare i propri
comportamenti e i propri valori a quelli che usualmente ci si aspetta dalle persone
udenti. In questi termini, quello rilevato da Humphries è, tuttavia, una forma di
“audismo individuale”, sostanzialmente equivalente a quelle occorrenze di
comportamenti e attitudini razziste che, nel manifesto del Black Power stilato da
Carmichael e Hamilton, vennero definite “razzismo individuale”, ovvero
manifestazioni concrete ma superficiali (e spesso pubblicamente stigmatizzate e
rigettate) del pregiudizio e della tendenza alla stereotipizzazione. Per rendere
conto delle modalità che permettono al pregiudizio di essere assimilato e
successivamente messo in pratica (anche inconsciamente) all’interno di una
comunità, Lane (1992) ha proposto di ampliare la definizione di audismo
elaborata da Humphries. Poiché l’audismo implica anche il processo di creazione
di un sistema di riferimenti culturali, di norme e di pratiche istituzionali mirato a
rinforzare oppressione e discriminazione, da un punto di vista sistemico esso si
sostanzia in
“[a] corporate institution for dealing with deaf people, dealing with them by
making statements about them, authorizing views of them, describing them,
teaching about them, governing where they go to school, and in some cases where
they live; in short, audism is the hearing way of dominating, restructuring, and
exercising authority over the Deaf Community” (p. 43)
A un livello più profondo rispetto alle manifestazioni individuali risiedono
delle dinamiche strutturali che permettono al pregiudizio di auto-perpetuarsi, in
modo da continuare a garantire una posizione privilegiata agli individui udenti,
59
legittimare il controllo sulle pratiche mediche e pedagogiche riservate agli
individui sordi, e infine esercitare una vera e propria egemonia culturale, tale da
rafforzare la preminenza della modalità di conoscenza propria della maggioranza
udente e da instillare nelle stesse persone sorde la preferenza per il modello udente
e il desiderio di conformarsi ad esso, disconoscendo al contempo la propria
identità linguistica, culturale e sociale.
Bauman (2004) individua un’ultima dimensione
50
in cui, attraverso
l’incorporazione nella consolidata tradizione filosofica occidentale a cui si è fatto
riferimento sin dal principio di questo capitolo, opera l’audismo: un audismo
definito come “metafisico” (p. 242), ovvero “the orientation that links human
identity and being with language defined as speech” (ib.). Dalla presupposta
biunivoca identità tra linguaggio e espressione orale (l’espressione orale è
linguaggio, ciò che distingue qualitativamente l’uomo dal resto delle specie
viventi, e, viceversa, il linguaggio è espressione orale, come sostenuto con dovizia
di argomenti, lo si è visto, da Walter Ong) consegue logicamente che “the concept
of what it means to be human becomes intimately tied with speech” (p. 242). Il
frutto di questa millenaria speculazione sull’essenza dell’uomo può essere
sintetizzato nella forma di un sillogismo che, benché fallace nelle sue premesse,
non accenna a perdere di efficacia retorica: “language is human; speech is
language; therefore deaf people are inhuman and deafness is a problem”
(Brueggemann 1999, p. 11, enfasi in orig.). Il portato del fonocentrismo, dunque,
50
Il modello descrittivo dell’audismo articolato su tre livelli appare congruo per gli obiettivi di
questo lavoro, ma è opportuno segnalare che, per rendere conto di alcuni fenomeni riscontrabili in
determinati contesti socioculturali (per esempio, quello nordamericano) in cui, in seguito alla
presunta crescente consapevolezza e accettazione della lingua dei segni—ottenuta anche attraverso
una sempre più frequente rappresentazione della lingua e della cultura della comunità sorda nei
prodotti culturali mainstream—e alle ormai consolidate tutele legislative dei diritti delle persone
sorde, la condizione dei sordi appare migliore rispetto al recente passato, Eckart e Rowley (2013)
hanno recentemente proposto una quarta forma di audismo, denominata “laissez-faire”. Elaborato
in analogia con la nozione di razzismo “laissez-faire”, ovvero quella forma di razzismo (ancora
una volta tanto manifesto quanto “nascosto”, tanto consapevole quanto inconscio) che
contraddistingue le società autodefinitesi “post-razziali”, l’audismo “laissez-faire” è una
“postmodern apology which claims recognition of Deaf humanity, but through the denial of Deaf
autonomy coupled with a social evolutionary goal to end Deaf-centric structures, schemas, and
praxis ends up perpetuating a dehumanization of Deaf American communities” (p. 107, enfasi in
originale).
60
si estende ben al di là di quanto denunciato dalla critica derridiana (ovvero,
l’elaborazione di una teoria che considera linguistico solo quel segno associato al
significante acustico, e, in virtù della linearità di quest’ultimo, attribuisce un ruolo
speciale alla scrittura fonetica a discapito di quelle non-fonetiche, e dà origine a
una forma di pensiero che interpreta in senso lineare il tempo, la logica e gli stessi
processi di pensiero), implicando anche la creazione di un intero apparato
concettuale sulla base del quale definire l’essenza dell’essere umano. In virtù del
ruolo decisivo attribuito al suono e al linguaggio verbale, entrambi necessari alla
piena esperienza del mondo e del sé, il corpo normale, il corpo prototipico, è
inevitabilmente quello che ha la possibilità di sentire (e, allo stesso tempo, di
“sentirsi”). La conseguenza di questo assunto è la de-umanizzazione di tutti quei
corpi che, al contrario, non si conformano al modello prototipico, con l’estensiva
propagazione di un’ideologia, di attitudini individuali e di pratiche culturali e
sociali che promuovono una relazione asimmetrica tra il mondo udente e la
comunità sorda, garantendo l’egemonia del primo sulla seconda.
2.3 Lingue dei segni e oralità
Avendo fornito gli elementi per riconoscere e decostruire il fonocentrismo alla
base degli studi sull’oralità, e specialmente nella trattazione di Walter Ong che, in
virtù del consistente volume di pubblicazioni e della grande influenza avuta sugli
sviluppi della ricerca in materia, ne è uno degli esempi più rilevanti, è possibile
ritornare alla critica mossa da Gee ed esplorare in dettaglio le conseguenze di
quella singola ma radicale, e perciò estremamente significativa, affermazione
presa in esame. Come riportato all’inizio del precedente paragrafo, Ong considera
le lingue dei segni dei sistemi dipendenti dal discorso orale (Ong 1991, p. 25).
“This claim”, esordisce Gee nella sua critica a questo specifico passo dell’opera,
“needs to be corrected not only to mitigate the myth it perpetuates, but because
the existence of American Sign Language (ASL) and Deaf culture has
implications for Professor Ong’s views as a whole” (p. 231). Il “mito” da sfatare è
quello secondo cui, nonostante decenni di ricerca psicolinguistica e linguistica
abbiano ampiamente dimostrato il contrario, la lingua dei segni (l’ASL, nel caso
61
specifico, ma la stessa considerazione è evidentemente valida per tutte le lingue
visivo-gestuali utilizzate dalle comunità segnanti in tutto il mondo) non sarebbe
altro che un versione segnata della lingua orale creata ad hoc per poter comunicare
con i sordi. Sebbene la modalità di articolazione delle lingue segnate non abbia
alcuna influenza sulle strutture di base del linguaggio né sui suoi processi di
acquisizione, e tutte le proprietà strutturali delle lingue segnate—inclusa quella
più peculiare e intimamente legata all’articolazione spaziale, ovvero la capacità di
comunicare una molteplicità di informazioni in modo simultaneo—appaiano
compatibili con analoghe proprietà riscontrate nelle lingue verbali, l’ASL non è in
alcun modo legata alla lingua inglese, ma, sottolinea Gee, curiosamente essa
sarebbe piuttosto assimilabile alla lingua Navajo e ad alcune lingue semitiche (pp.
231-232). Questa similarità, di conseguenza, non è indice di dipendenza dalla
lingua parlata, ma piuttosto riflette “the human biological capacity for language, a
capacity that does not seem to be particularly contingent on the properties of
sound for its basic shape or for its concrete realization” (ib.). Alla luce di questa
evidenza, sostiene Gee, l’intera teoria dell’oralità elaborata da Ong parrebbe
vacillare in uno dei suoi cardini fondamentali. Ong, lo si è visto anche nel
precedente capitolo, assume un rapporto di causalità tra la natura del medium
utilizzato e le proprietà strutturali assunte dal contenuto: le proprietà del suono e
della parola parlata sono il vincolo che impone ineluttabili forme di espressione e
processi di pensiero. Gli artefatti culturali propri della cultura sorda sono, tuttavia,
un importante banco di prova per questa teoria, poiché in essa si ritrovano
these same modes of expression and thought processes […], but it is not embedded
in a world of sound. It thus strike to the heart of Professor Ong’s characterization
of orality, and leads us to seek an explanation of “oral consciousness” elsewhere
than in sound […]. [T]he opposition orality-literacy is not parallel to the opposition
sound-vision, as ASL is a visual language and Deaf culture is centered in visual
awareness (pp. 232-233).
Quel concetto di “letteratura orale” che Ong ritene mostruoso (Ong 1991, p.
30) in quanto, in virtù dell’etimologia del termine letteratura, è il sintomo palese
dell’incapacità dell’uomo letterato di comprendere in profondità e descrivere in
62
termini altri rispetto a quelli riservati alla produzione scritta “un patrimonio di
materiali organizzati oralmente, che nulla hanno a che fare con la scrittura” (ib.),
potrebbe in realtà essere ritenuto mostruoso anche e soprattutto a causa del
termine “orale” (Gee – Ong 1983, p. 233).
2.3.1 L’indipendenza delle lingue dei segni dalle lingue parlate
Un’ulteriore dimostrazione dell’indipendenza delle lingue dei segni dalle
controparti orali parlate nella medesima comunità socio-culturale dalla
popolazione non sorda—e, incidentalmente, ennesima confutazione del principio
secondo cui l’oralità del linguaggio sia un carattere stabile e irrefutabile—è offerta
dalle osservazioni condotte presso il villaggio indonesiano di Bengkala (Branson
et al. 1996; Woll – Ladd 2003; Kusters 2010; Kortschak 2010; de Vos 2011). Il
villaggio, situato all’estremità settentrionale dell’isola di Bali, ospita una
comunità linguistica peculiare, poiché in un contesto ancora largamente orale51 è
presente una numerosa comunità sorda indigena52, la cui rilevanza è tale da aver
51
La società tradizionale balinese era letterata, ma l’uso della scrittura e la produzione di
letteratura era limitato da un lato alle funzioni religiose (riservato alla casta sacerdotale
brahmanica), dall’altro era parte di un insieme di saperi iniziatici (riservati alle elite) che, data la
credenza che attribuiva alla scrittura origini divine, garantivano l’accesso a forze spirituali e poteri
soprannaturali. In questo contesto, in cui la maggioranza della popolazione è non letterata e gli usi
della scrittura attengono dominii estremamente specifici, “literacy itself is not simply, or even
primarily, a medium but a contextualized experience, an aspect of an oral, nonliterate culture.
Literacy was practiced and understood in terms of the oral culture that encompassed it" (Branson
et al. 1996, p. 53). La lingua dei segni di Bengkala, una lingua non scritta come tutte le lingue dei
segni, si è evoluta quindi in prossimità ad una lingua non scritta come quella parlata dai locali, in
una cornice tradizionalmente orale. Negli anni successivi alla decolonizzazione e al
conseguimento dell’indipendenza, l’Indonesia ha implementato un sistema scolastico esteso alle
aree rurali. Tuttavia, nonostante la presenza di una scuola primaria nel villaggio abbia contribuito
all’alfabetizzazione delle ultime tre generazioni dei suoi abitanti, una vasta maggioranza della
popolazione adopera ancora la lingua balinese non scritta nelle proprie interazioni quotidiane
(Branson et al. 1996, pp. 49-50), restando immersa—per usare la terminologia di Ong—in
un’economia noetica orale.
52
A causa della presenza di una forma genetica di sordità la cui persistenza nel corso delle
generazioni è stata garantita dalla tendenza all’endogamia (a sua volta favorita dall’isolamento
geografico del villaggio), circa il 2,1-2,2% degli abitanti di Bengkala è sordo (Kusters 2010, p. 5),
una percentuale decisamente superiore rispetto all’incidenza media della sordità congenita rilevata
a livello mondiale (stimata, come si è già accennato, nell’ordine di 1-2 casi ogni 1000 individui).
Così come riscontrato in contesti simili—tra i quali l’isola colombiana di Providence, l’isola
caraibica di Grand Cayman, i villaggi di Adamorobe (Ghana), Ban Khor (Thailandia) e Nohya
(Messico), presso alcune tribù come i beduini Al-Sayyid del deserto del Negev e i brasiliani Uribe,
e la storica, ormai estinta comunità dell’isola di Martha’s Vineyard, al largo della costa orientale
degli Stati Uniti— una percentuale di individui sordi elevata (tra il 2 e il 4% della popolazione
63
influenzato il toponimo con cui il villaggio è conosciuto nella zona (Desa Kolok,
ovvero “il villaggio dei sordi” in lingua balinese). L’indagine etnografica condotta
da Branson e colleghi ha messo in luce come la lingua dei segni utilizzata dai
“kolok” (sordi) e dagli “inget” (udenti) del villaggio si sia evoluta nel corso di un
lungo arco temporale53 unicamente all’interno dei confini del villaggio stesso, e
sia, sotto ogni aspetto, “a full-fledged language, extremely rich in the registers
associated with village life” (Branson et al. 1996, p. 42). Kata Kolok
(letteralmente “parlato dei sordi”, nella denominazione locale) non è in alcun
modo “derived from or dependent on the oral language of the village, despite the
fact that it has developed over many generations in intimate association with a
hearing community” (p. 40). In essa, infatti, sono presenti numerose
caratteristiche strutturali e sintattiche presenti nelle lingue dei segni utilizzate in
tutto il mondo (estensivo uso di classificatori, marcata topicalizzazione, ampio uso
dello spazio segnico, impiego di espressioni facciali fortemente accentuate,
attribuzione di segni-nome basati su caratteristiche fisiche salienti), mentre le
uniche similarità con la lingua parlata nella comunità sono riscontrabili a livello
semantico, chiara conseguenza della condivisione del medesimo orizzonte
socioculturale (per esempio, il segno MATRIMONIO rappresenta iconicamente il
copricapo indossato dalla sposa durante le cerimonie nuziali) e dell’inevitabile
presenza di parlanti/segnanti bilingui (ovvero individui udenti membri delle
famiglie di sordi). Un aspetto linguistico che illustra con chiarezza la distanza che
intercorre tra Kata Kolok e il balinese parlato dagli abitanti di Bengkala è dato
dalla diversa lessicalizzazione dei colori operata nelle due lingue, le quali
adottano, nonostante operino entrambe in un contesto culturale condiviso in cui i
totale) e costante nel corso di varie generazioni ha dato origine all’emergere di una lingua dei
segni e di una comunità sociolinguistica (definita in letteratura “signing community” o “shared
signing community” (p. 4)) nella quale l’uso dei segni non è appannaggio unicamente dei sordi e
delle persone ad essi legate da vincoli familiari, ma è diventato uno strumento di comunicazione
adottato, pur con diversi livelli di competenza, anche dalla maggior parte della popolazione
udente.
53
Le testimonianze orali raccolte da Branson e colleghi hanno permesso di ricostruire la presenza
dei kolok nel villaggio nel corso degli ultimi 150-200 anni (circa otto generazioni), ma il
patrimonio di miti tradizionali tramandati tra gli abitanti di Bengkala attesta la presenza di
individui sordi già a partire dall’XI Sec. (Branson et al. 1996, p. 42).
64
colori sono estremamente significativi54, segmentazioni dello spettro cromatico
che differiscono in modo significativo nel numero di cromonimi utilizzati (de Vos
2011). De Vos ha dimostrato come in Kata Kolok, esistano solo quattro segni
convenzionali utilizzati per denominare i colori (nero, bianco, rosso e verde/blu,
in conformità con l’ipotesi classica di Berlin e Kay), mentre il resto dei colori
venga indicato per mezzo di segni fortemente contestuali, ovvero segni indicali
diretti ad oggetti situati nelle vicinanze degli interlocutori oppure segni relativi ad
oggetti che—tipicamente—sono associati al colore che si intende nominare (ad
esempio, BANANA per indicare il “giallo”). Inoltre, ad ulteriore conferma di
come le denominazioni di questi quattro colori siano parte effettiva del sistema
linguistico, dai dati sperimentali raccolti da de Vos emerge che i quattro segni in
oggetto sono combinabili con quelle componenti grammaticali, manuali e non,
che in Kata Kolok indicano l’intensificazione delle qualità, a differenza dei segni
utilizzati in modo contestuale, i quali non supportano questa possibilità—ragion
per cui per il segnante Kata Kolok è possibile utilizzare il segno NERISSIMO, ma
non il superlativo dei colori le cui denominazioni sono esclusivamente contestuali
(pp. 70-72). Dalla comparazione di questo sistema di denominazione dei colori
con il sistema di cromonimi proprio del balinese parlato, nel quale il numero di
colori lessicalizzati è quasi triplo rispetto a quelli presenti in Kata Kolok, si evince
chiaramente come il primo non sia in alcun modo derivato dal secondo (p. 73).
Degna di nota, nell’ottica di una dimostrazione dello statuto autonomo delle
lingue dei segni, è anche l’assenza nella lingua usata dai kolok di tutte quelle
marche che tipicamente segnalano il contatto tra i segni e le lingue verbali. Kata
Kolok, evolutasi in un contesto in cui la scolarizzazione—a maggior ragione
quella indirizzata agli studenti sordi—è un fenomeno relativamente recente, non
presenta alcuno di quegli elementi fonologici, sintattici e lessicali (alfabeto
54
Le denominazioni dei diversi colori fanno parte di un complesso sistema culturale in cui i colori
sono associati a specifiche divinità, alle direzioni cardinali e alle diverse parti del corpo.
L’importanza dei colori è lampante, per esempio, nell’uso rituale che di essi viene fatto durante le
cerimonie religiose—alle quali, come riportato da Branson et al., partecipano senza distinzione di
ruolo tanto gli inget quanto i kolok (Branson et al. 1996, pp. 44-45), e durante le quali una parte
consistente del rito consiste nella colorazione del cibo offerto alle varie divinità del pantheon
hindu (de Vos 2011, p. 73).
65
manuale, prestiti di strutture sintattiche e lessicali dalla lingua parlata
maggioritaria, riproduzione labiale delle parole) (cfr. Woll 1990, pp. 407-409)
tipici delle lingue dei segni—quali, ad esempio, quelle occidentali—sviluppatesi a
stretto contatto con lingue nazionali di alto prestigio e di lunga tradizione
letteraria, in grado quindi di esercitare una forte pressione omologante su lingue
minoritarie come quelle segnate. Le influenze esterne provenienti da lingue dei
segni utilizzate nelle contigue comunità balinesi sono state, al momento della
ricerca condotta da Branson e colleghi55, limitate a un unico caso, quello di un
kolok che ha frequentato per due anni l’istituto per i sordi della vicina città di
Singaraja. Nonostante il breve periodo al di fuori della comunità nativa, il segnato
dell’ex-alunno dell’istituto ha subito l’influenza della lingua dei segni adottata in
classe56, ma ogni qual volta questi elementi esogeni diventati parte integrante del
suo idioletto emergono in conversazione—siano essi segni provenienti
dall’indonesiano segnato (SIBI) o occorrenze di alfabeto manuale—questi
vengono sistematicamente ignorati e considerati irrilevanti dal resto dei segnanti
kolok (Branson et al. 1996, p. 42).
2.4 Oralità senza suoni
Il secondo aspetto dell’obiezione mossa da Gee all’affermazione di Ong
riportata sopra accenna alle implicazioni che l’adeguata comprensione dello
statuto linguistico dell’ASL e delle consuetudini culturali della comunità che
55
Negli anni successivi alle prime sistematiche ricerche di Branson e colleghi il contesto
linguistico ha subito dei rapidi cambiamenti: un numero crescente di bambini kolok ha frequentato
l’istituto di Singaraja, mentre a partire dal 2007 la scuola primaria di Bengkala ha cominciato ad
accogliere tra i suoi studenti anche i bambini sordi, adottando, su pressione di un insegnante del
villaggio e della ricercatrice olandese Connie de Vos, la lingua dei segni del villaggio come lingua
veicolare (Kortschack, p. 76).
56
La lingua veicolare utilizzata per l’educazione e l’alfabetizzazione dei sordi indonesiani è
l’indonesiano segnato (Sistem Isyarat Bahasa Indonesia, noto con l’acronimo di SIBI). Come tutte
le codifiche manuali adoperate nella didattica dei sordi, SIBI non è una vera e propria lingua dei
segni, bensì una lingua artificiale il cui lessico è stato creato amalgamando segni creati ad hoc con
altri presi in prestito dall’American Sign Language e da lingue dei segni indonesiane preesistenti, e
le cui strutture sintattiche e regole grammaticali derivano invece dalla lingua indonesiana parlata,
in modo tale da avere di essa una rappresentazione visiva parola per parola (Kortschack 2010, p.
77).
66
quella lingua l’adopera potrebbe avere sugli sviluppi dell’intero impianto teorico
elaborato dallo studioso gesuita. Infatti, nonostante sembri un evidente
contraddizione in termini, l’ASL, così come le altre lingue dei segni, “exists in an
“oral culture”, a culture based on face-to-face signed interaction, with writing and
middle-class literacy playing little to no role in much of the heart of the
community” (Gee – Ong 1983, p. 232).
La considerazione più ovvia in merito è, come si è brevemente accennato nel
primo capitolo, l’assenza di un metodo di scrittura delle lingue dei segni accettato
e adoperato da una parte significativa della comunità. Sebbene sin dagli Anni ’60
siano
stati
introdotti
vari
sistemi
di
notazione
per
rappresentare
la
57
quadridimensionalità dei segni sulla superficie bidimensionale della pagina, una
serie
di
aspetti
problematici
(dall'eccessiva
complessità
del
codice
all’incompatibilità con gli standard utilizzati nei sistemi informatici) ne ha
limitato la funzionalità e ostacolato l’adozione diffusa, confinandoli per lo più
all’uso in ambito accademico quale alternativa alle glosse. Anche quei sistemi
(come SignWriting, concepito nel 1974 da Valerie Sutton, o si5s, progetto avviato
da Robert Arnold nel 2003) ideati con il proposito esplicito di fornire ai sordi un
sistema di scrittura da adoperare nella comunicazione quotidiana, pur
distanziandosi dagli eccessivamente complicati sistemi di notazione fonetica
proposti dai linguisti e propendendo piuttosto per delle soluzioni assimilabili a
quelle proprie degli alfabeti distintivi, non hanno, al momento, raggiunto un grado
di accettazione tale da far intravedere nell’immediato futuro l’emergere di una
significativa tradizione scritta in una qualsiasi lingua dei segni locale (Lucas, C.,
comunicazione personale, 19 novembre 2010), né sembra che tra i sordi sia
particolarmente condivisa l’urgenza di adottarne una (Krentz, C., comunicazione
personale, 21 novembre 2010). Non solo il discorso segnato, in tutti i suoi aspetti
57
Il parlato, generalmente, viene descritto come avente un’unica dimensione,
la sua estensione nel tempo; la scrittura ne ha due; i modelli, tre; solo le lingue dei segni
dispongono di quattro dimensioni: le tre dimensioni spaziali accessibili al corpo del
segnante e la dimensione temporale. E i Segni sfruttano a pieno le possibilità sintattiche
offerte dal proprio canale di espressione quadridimensionale (Stokoe, cit. in Sacks 2009, p.
135).
67
visivi, gestuali e cinematici, si dimostra particolarmente resistente al tentativo di
traduzione nel linguaggio verbale e ancor di più alla trascrizione: altrettanta
resistenza, infatti, è opposta da chi questo linguaggio lo adopera in qualità di
madrelingua. I sordi segnanti, che si affidano primariamente ai loro occhi e ai loro
corpi quale veicolo per la ricezione e l’emissione di messaggi linguistici,
prefer communication via the hands, face, and body, setting them apart from most
of the world’s population (who rely on their ears and on printed material).
Therefore, they have continued to use a visual-kinetic vernacular and in the process
generated a discourse that is at odds with printed languages and literatures (Peters
2000, p.19).
Secondo Bragg, i benefici prospettati dalla possibilità teorica di adoperare un
sistema di scrittura W1, più vicino alla L1 di quanto non lo sia la variante scritta
della lingua parlata locale (W2), sono neutralizzati dal timore che la perdita delle
tradizioni faccia-a-faccia comporti una più facile assimilazione alla cultura
dominante, mettendo in pericolo l’esistenza della comunità (ORTRAD-L 1993, p.
431):
linguists have developed several writing systems for asl [sic], but they are
universally shunned by deaf people. like socrates [sic], perhaps, we want to keep
our culture oral, and refuse to use them. […] they are not alphabets, but rather
syllabaries or logograms, although i [sic] understand that an alphabet is in the
works. we wont [sic] use it! (p. 420).
In modo non dissimile da altre culture minoritarie la cui lingua non scritta è
vittima di oppressione sistematica e pressioni normalizzatrici provenienti dalla
cultura letterata58, la comunità sorda—“in contrast to the more sophisticated (and
58
La comunità sorda americana è, in quanto comunità etnico-linguistica minoritaria, simile alla
comunità nera americana (Gee – Ong 1983, p. 232), caratterizzata da molte di quelle
caratteristiche che Ong attribuisce alle culture orali o residualmente orali. Attraverso la variante
nera dell’inglese americano (AAVE), infatti, la comunità esprime un ricco corpus di performance
orali (storytelling, sermoni, toasts, signifyin’, i duelli di insulti noti come “the Dozens”), tuttora
fondamentale patrimonio culturale e identitario dei neri americani (Sparti 2007). In un thread
apparso su un list-serv legato alla rivista Oral Tradition, invece, la condizione linguistica dei sordi
inseriti in un ambiente circostante alfabetizzato e integrati nel sistema scolastico proprio di
quell'ambiente (condizione che, oggi, costituisce la norma pressoché ovunque nel mondo, con la
68
more conforming) written literature of the literary elite and canon” (Peters 2000,
p. 20)—ha mantenuto un notevole repertorio di tradizioni folkloriche e
performative che, tramandate di generazione in generazione attraverso infinite
interazioni faccia-a-faccia, perpetuano i valori fondanti della comunità stessa: pur
prendendo vita attraverso i segni e non per mezzo dell“espressione vocale59, le
narrazioni in ASL godono di molte di quelle proprietà individuate da Ong come
necessarie nelle modalità di narrazione orale. Innanzitutto, le immagini visive di
cui essa si avvale sono, nel discorso segnato, evanescenti (anche dal punto di vista
percettivo: la decadenza degli stimoli visivi e delle immagini ricostruite dal
cervello è estremamente rapida) e dinamiche (dato che la lingua viene realizzata
nello spazio attraverso organi articolatori—le mani, il viso, il corpo nella sua
totalità—in movimento, e questo movimento è, lo si è visto, una delle componenti
costitutive del segno) tanto quanto il flusso sonoro alla base del discorso parlato.
Il linguaggio stesso, nelle sue caratteristiche strutturali, è profondamente “orale”,
tanto nei suoi aspetti sintattico-grammaticali quanto per ciò che concerne gli
aspetti retorici. Nelle lingue dei segni, l’espressione è “formulaic, patterned,
mnemonic, redundant, conservative” (ORTRAD-L, p. 420), caratterizzata da
“‘variability of expression’ [and] by ‘covariation’ of signs and referents, in short,
by a generally closer tie of expression units to context” (Washabaugh 1981, p.
245)60. Il discorso segnato, inoltre, predilige la modalità narrativa, supportata da
una sintassi additiva, piuttosto che la modalità argomentativa e l’ampio impiego di
considerevole eccezione dei “village sign languages” analoghi a Desa Kolok) viene descritta nei
termini di diglossia: la comunità sorda intrattiene con la lingua maggioritaria di alto prestigio
(l’inglese scritto e parlato, nel caso specifico degli Stati Uniti) un rapporto analogo a quello
riscontrato in passato tra le varianti non scritte delle lingue locali e il latino. In entrambi i casi,
l’uso di una L1 di basso prestigio—non scritta, “orale”—è confinata all’uso domestico, familiare,
informale, mentre la L2 di alto prestigio è la lingua veicolare nel contesto scolastico/accademico ed
è quella legata alla produzione di letteratura “alta” (ORTRAD-L 1993, p. 424). (Sul fenomeno
della diglossia delle comunità segnanti, cfr. Woodward 1980, pp. 119-122 e Washabaugh 1981,
pp. 240-244).
59
Un metodo di trasmissione definito “by sign of hands”, evidente calco dell’espressione
idiomatica “by word of mouth” che, per evidenti motivi, non è applicabile nel contesto della
sordità (Carmel 1996, p. 415).
60
La tendenza alla contestualizzazione è testimoniata dal fatto che l’espressione in lingua dei segni
è costantemente situata nel presente: “[sign language] doesn't make use of past or future verb
forms, although it does have signs to communicate that something took place, takes place, or will
take place” (Brueggemann 1995, p. 416).
69
subordinate tipico della lingua scritta (Brueggemann 1995, p. 416), e ricorre
frequentemente alla personificazione quale espediente retorico (ORTRAD-L, p.
420)61.
Come in ogni tradizione orale, a causa della scarsità di fonti dirette è
problematico, se non addirittura impossibile, determinare con certezza le origini e
l’evoluzione in senso diacronico del patrimonio culturale condiviso tra i membri
delle comunità segnanti, e ugualmente difficile è l’elaborazione di tassonomie
esaustive che rendano conto dei generi di “letteratura” che compongono questo
corpus in ogni dato momento storico. A questa fondamentale difficoltà si
aggiunga l’ulteriore problema dell’estrema eterogeneità delle condizioni di
esistenza delle comunità segnanti nel mondo (il cui studio, in molti casi, non è che
agli inizi), condizione che invita all’estrema prudenza qualora si voglia
generalizzare quanto appurato in una specifica realtà linguistica alle altre, anche
quando queste appaiono simili sotto molteplici aspetti (linguistici, storici,
socioculturali).
Tenendo conto di queste necessarie premesse e dovute cautele, può tuttavia
essere utile prestare attenzione ai risultati degli studi condotti presso la comunità
sorda americana, e, in attesa di ulteriori ricerche in aree geografiche e
socioculturali diverse, adoperarli per fornire un primo supporto alla tesi di una
significativa analogia tra la cultura sorda e le culture orali. Il contesto
nordamericano è particolarmente fecondo per questo tipo di ricerca soprattutto per
la presenza di fonti dirette di capitale importanza62. La disponibilità di un corpus
di testi ha reso possibile rintracciare le origini e l’evoluzione di queste tradizioni
61
Un esempio di personificazione nel discorso narrativo è visibile in questo video: awti, “Most
*Colossal* That!Vlog EVAR”, YouTube video, 30 giugno 2011 <https://www.youtube.com/watch
?v=RXetg9NqyLA>.
62
Sotto la pressione della crescente minaccia posta dalla rapida diffusione dei metodi didattici
oralisti, la National Association of the Deaf (NAD) commissionò, tra il 1913 e il 1920, una serie di
registrazioni su pellicola di performance e di una ricca varietà di usi “creativi” dell’ASL (lezioni
sulla storia e sulla lingua dei sordi, ma anche e soprattutto recitazioni di poemi, storie, racconti
(auto)biografici e “canzoni”), con l’esplicito intento di preservare la lingua e il patrimonio
“letterario” della comunità sorda americana così come si era conservato fino all’inizio del XX Sec.
I film, aventi per protagonisti alcuni tra i membri più influenti della comunità, da George Veditz a
John Hotchkiss, costituiscono il più antico repertorio al mondo di testimonianze videoregistrate di
esecuzioni in lingua dei segni (Bauman – Nelson – Rose 2006, p. 243).
70
segnate almeno fino agli Anni ’60 dell’Ottocento, fornendo al contempo anche dei
preziosi indizi sulle pratiche di diffusione e trasmissione delle stesse tra i membri
della comunità. A partire dallo studio di questo patrimonio, sono ormai numerosi
gli studi che, da prospettive differenti—da quelli di matrice puramente linguistica
a quelli etno-antropologici, per finire con quelli di critica letteraria (Klima –
Bellugi 1979; Frishberg 1988; Rose 1994, 1996; Carmel 1996; Peters 1999, 2000,
2006b; Bauman 2003; Bauman – Nelson – Rose 2006; Bahan 2006; Christie –
Wilkins 2007a, 2007b)—hanno costruito una solida cornice teorica utile ad
analizzare e categorizzare le pratiche narrative, i luoghi in cui tradizionalmente
questi saperi vengono tramandati tra i membri della comunità, il loro sviluppo nel
corso del tempo in seguito all’evoluzione della struttura stessa della comunità, e
gli effetti avuti su di esse dall’introduzione di tecnologie di registrazione sempre
più accessibili (Krentz 2006).
2.4.1 La relazione tra narratore, narrazione e pubblico
Un primo aspetto che contribuisce a qualificare il corpus di narrazioni
condivise tra i membri della comunità sorda e le pratiche di trasmissione proprie
della comunità come facenti parte di una tradizione orale “faccia-a-faccia” è
l’inscindibile relazione che intercorre tra gli esecutori delle performance, il
contenuto della performance stessa, e il pubblico che vi assiste. Proprio come
nelle società tradizionali, dove il poeta orale riveste un ruolo fondamentale nella
comunità in virtù della sua particolare abilità nel maneggiare il repertorio di
formule e materiali condivisi, il “poeta” o il narratore sordo, il “deaf Cædmon”,
nella calzante definizione proposta da Lois Bragg (ORTRAD-L 1993, p. 421), è,
grazie al sapiente uso delle possibilità espressive offerte dalla lingua dei segni, il
custode dell’artefatto culturale su cui si fonda il senso di identità della comunità,
ovvero la lingua stessa63. Bahan (2006) definisce i poeti e i narratori sordi più
63
Nelle parole di George Veditz, l’ASL è “the noblest gift God has given to Deaf people” (cit. in
Padden – Humphries 1988, p. 36). La lingua dei segni è, sopra ogni altra cosa, ciò che definisce la
comunità dei sordi (Padden 1980; Reagan 1995). L’appartenenza per nascita, infatti, è limitata ad
appena il 10% della totalità dei sordi congeniti: sono questi i sordi nativi, ovvero i bambini sordi
figli di sordi che si trovano nelle condizioni ideali per un apprendimento spontaneo della lingua dei
segni (attraverso l’esposizione, sin dalla nascita, della lingua usata dai genitori, in modo analogo a
71
apprezzati come “smooth signers” (p. 24), ovvero quegli artisti in grado di
“tessere” le loro storie in modo così fluido da rendere semplici e visivamente
piacevoli anche gli enunciati più complessi. Poiché la tendenza alla
narrativizzazione è parte integrante della base linguistica delle lingue dei segni
(questo è particolarmente evidente, per esempio, nel ricorso al role-shifting,
struttura grammaticale che permette la rappresentazione del discorso diretto), gli
individui che hanno un’elevata competenza nella lingua dei segni affinano
naturalmente la propria tecnica narrativa, poetica e di espressione visiva nell’uso
quotidiano del linguaggio (Lane 1984, p. 5), giungendo così a padroneggiare un
vasto vocabolario segnato e a sviluppare la capacità di sfruttare la modalità visiva
all’apice delle proprie possibilità iconiche e cinematiche. Il possesso di una
grande abilità affabulatoria (indice, evidentemente, di elevata competenza
linguistica) è una qualità alla quale i membri delle comunità segnanti
attribuiscono grande valore, ed è uno dei tratti che spesso caratterizza i leader
delle comunità (Haggerty 2007, p. 53). Gli storyteller svolgono così un triplice
ruolo, dato che non si limitano ad essere solo degli intrattenitori, ma rivestono
anche quello di depositari dell’eredità culturale della comunità e di insegnanti
(Lane – Hoffmeister – Bahan 1996, p. 7): essi, infatti, tramandano le storie alle
quali hanno assistito durante il proprio percorso di crescita all’interno della
comunità—e integrano il proprio modo di raccontarle, maturato nel tempo,
incorporando elementi stilistici dei narratori che li hanno preceduti e dai quali le
hanno apprese—diventano simultaneamente archivi di narrazioni e di “narratori”
(Bahan 2006, p. 26); e, contemporaneamente, svolgono il ruolo di educatori, in
quanto avviene nello sviluppo linguistico dei bambini udenti), e costituiscono il “cuore” della
comunità (Carmel p. 416). La “periferia”, invece, di gran lunga più estesa del centro, comprende la
stragrande maggioranza dei membri della comunità sorda: i figli di udenti che apprendono la
lingua non dai propri genitori, ma dal contatto con i pari (spesso dai segnanti nativi, per questo
tenuti in alta considerazione). È solo con l’apprendimento della lingua che i sordi figli di udenti
entrano effettivamente a far parte della comunità, e si comprende, quindi, il perché essa sia un
fattore così decisivo nel processo di costruzione dell’identità, tanto individuale quanto collettiva
(Charrow –Wilbur 1975, p. 357). Tale è il legame simbolico tra la lingua dei segni e l’identità
sorda che non è infrequente ritrovare nei sordi segnanti un’atteggiamento di marcata diffidenza nei
confronti degli udenti che si avvicinano alla comunità: capovolgendo la dinamica di oppressione
udente/sordo, all’interno della comunità segnante il monopolio della lingua dei segni da parte dei
sordi garantisce su di essa controllo (e quindi protezione dell’identità) e potere (Kannapell 1989, p. 26).
72
primo luogo promuovendo il senso di identità e di appartenenza alla comunità, ma
anche fornendo, attraverso il messaggio contenuto nelle storie che raccontano, gli
strumenti per interpretare e comprendere il mondo dal punto di vista di persone
“visually oriented” (Hauser et al. 2010), perpetuando le strategie adattive
rivelatesi efficaci nella navigazione di un mondo dominato dagli udenti (Bahan
2006, p. 26). L’ultima componente di questa relazione triadica è costituita dal
pubblico, coinvolto nella performance non soltanto in qualità di spettatore, ma
attivo partecipante nello svolgimento della stessa. La selezione delle storie da
raccontare, e il modo in cui il narratore decide di raccontarle64, sono infatti il
frutto di una contrattazione implicita ed esplicita, talvolta dagli accesi toni
agonistici, tra l’esecutore della performance e chi vi assiste (Peters 2000, pp.180181). La scelta compiuta dal narratore di quali parti del repertorio eseguire riflette
l’incoraggiamento o la disapprovazione degli astanti, o ne asseconda le richieste, e
non è infrequente che membri del pubblico si propongano, a loro volta, in qualità
di narratori. La relazione con lo spettatore non si limita, tuttavia, solo alle
interazioni esplicite tra i due. Lo spettatore entra a far parte dell’esperienza
poetica per il solo fatto di possedere un corpo funzionalmente identico a quello
che, nel momento della visione, sta producendo il testo, e i due corpi non possono
che entrare in “risonanza” l’uno con l’altro:
[a]s with any medium that incorporates the human body, a type of intersubjective
communication occurs between performer and viewer. […] [The] ASL text is
always a human body, projecting its own visual-spatial-kinetic experience,
awakening similar lived experiences in the minds and bodies of the viewers
(Bauman 2003, p. 44).
2.4.2 I generi della tradizione “orale” segnata
A Frishberg (1988) si deve il tentativo di categorizzare e analizzare gli aspetti
64
Il modo in cui la storia viene raccontata cambia a seconda del tipo di pubblico e della sua
composizione (per età, genere, appartenenza o meno alla comunità sorda). Un noto narratore sordo
americano, Mike Kemp, racconta come, di fronte a un pubblico composto prevalentemente da
adolescenti, egli faccia uso, nella la sua rivisitazione segnata della nota fiaba di Cenerentola, di
maggiori dettagli relativi al vestiario dei personaggi, mentre, di fronte a un pubblico
prevalentemente adulto, i dettagli “per adulti” assumano un ruolo preminente (Peters 2000, p.
183).
73
formali dei generi di letteratura che compongono questo corpus “orale”. In un
articolo che, sin dal titolo esplicita i propri debiti nei confronti deli studi classici
sull’oralità65, Frishberg passa in rassegna i tre macro-generi di cui si compone la
letteratura in ASL: l’oratoria (divenuta popolare probabilmente a causa della
formazione religiosa di molti dei primi insegnanti delle scuole specializzate
nell’educazione dei sordi), caratterizzata da un ritmo del segnato più lento rispetto
a quello tenuto nella conversazione quotidiana, dall’esecuzione di segni
marcatamente più grandi e dall’occupazione di uno spazio segnico maggiore
rispetto a quello standard (a causa della maggiore distanza tra il segnante e il
pubblico destinatario del messaggio), dall’uso di un registro formale e di uno stile
retorico arcaicizzante; il folklore, all’interno del quale Frishberg include
recitazioni di narrazioni (rigorosamente non fiction) di esperienze personali o di
storie (spesso nella forma di epiche, di leggende o di morality stories) aventi per
protagonisti i personaggi chiave della storia dei sordi, la tradizione onomastica
delle attribuzioni dei segni-nome, barzellette, indovinelli, giochi linguistici (sign
play) e calembour visivi (basati non sull’omofonia ma bensì sull’isomorfismo di
alcuni segni); e, da ultimo, le arti performative, segnatamente la poesia composta
in lingua dei segni, caratterizzata dalla sperimentazione linguistica e dal
consapevole tentativo di sfruttare a fini estetici le componenti iconiche e cinetiche
dei segni (pp. 156 e ss.).
Alcuni sottogeneri non inclusi nella tradizione folklorica della categorizzazione
operata da Frishberg, ma tuttavia ad essa afferenti, sono di interesse particolare,
poiché in essi si condensa il rapporto conflittuale della minoranza sorda con la
maggioranza udente, e soprattutto nei confronti delle pratiche educative imposte
dalla cultura letterata dominante. È il caso delle cosiddette “ABC stories”,
popolari narrazioni in cui una delle più evidenti influenze della cultura
maggioritaria, l’alfabeto manuale, viene resa manifesta, ma al contempo la sua
65
Il titolo dell’articolo, Signers of Tales richiama, e allo stesso tempo, per mezzo di un semplice
quanto efficace anagramma, ricontestualizza, adattandolo al dominio delle lingue segnate, il
seminale studio condotto da Albert Lord presso le popolazioni rurali balcaniche, esperienza da cui
prese corpo la teoria esposta in The Singer of Tales.
74
funzione originaria viene radicalmente ribaltata. Si tratta di storie costruite a
partire dalle configurazioni dell’alfabeto manuale, in cui a un segno formato
mediante la configurazione A segue necessariamente un segno formato tramite la
B, a sua volta seguito dalla C, e così via fino alla configurazione Z 66 . Il
ribaltamento avviene nel momento in cui il significato del segno non è associato
alla corrispondente lettera dell’alfabeto, ma è slegato da essa, spesso ricorrendo a
costruzioni visive iconiche ottenute mediante l’uso delle configurazioni in qualità
di classificatori. Manipolando il sistema fonetico della lingua orale e facendolo
interagire con il sistema fonologico della lingua segnata si verifica una sorta di
riappropriazione dei segni, liberati dall’artificiale (e imposta) associazione con
una lingua aliena e colonizzatrice:
the ABC story-poem is a kind of parodic, subversive thrust at [the written
language] and its all-important alphabet of twenty-six vowels and consonants. The
vaunted […] alphabet is deprived of any meaning in itself; it merely provides the
framework of the story-poem. More radically, the alphabet is put to a use for which
it was never intended, as letters are emptied of their aurality and become instead
fully visual and fully animated elements […]. ABC story-poems also typically deal
with subjects considered somewhat inappropriate or taboo in formal […] discourse,
such as sex, ghosts, and quasi-legal activities, which adds to the mischief (Peters
2000, p. 57).
Peters (2000) inquadra questo fenomeno in continuità con la tradizione
carnevalesca (popolare, e soprattutto orale) di epoca medievale, il mundus
inversus durante il quale le normali, sedimentate e immutabili relazioni di potere
sono ribaltate, le leggi che preservano lo status quo sono temporaneamente
sospese, e l’autorità è oggetto di scherno (pp. 102-103).
2.4.3 I temi della narrativa “orale” segnata
Come si è parzialmente accennato sopra, la produzione letteraria non è solo un
66
La sequenza è spesso quella canonica (A, B, C, … Z), ma esistono numerose possibili varianti
elaborate sulla base dello stesso principio: alfabeto inverso (dalla Z alla A), numeri (1, 2, … 10),
acrostici in cui la sequenza di configurazioni è data dalla sequenza di lettere di una data parola, che
funge così allo stesso tempo da vincolo e da soggetto della narrazione (ad esempio, S-I-E-N-A),
set limitati di lettere e numeri (ad esempio, A e 5), etc. (Bahan 2006, pp. 37 e ss.).
75
mezzo di intrattenimento, ma anche un veicolo di propagazione dei valori fondanti
della comunità e dei significati associati all’esperienza di essere sordi in un
mondo abitato da una larga maggioranza udente, assumendo valenze educative e
addirittura politiche (Sacks 2009, p. 206). In uno studio incentrato sulla
produzione poetica (inclusa nel dominio delle arti performative nella tassonomia
proposta da Frishberg), Christie e Wilkins (2007b) individuano una serie di
tematiche ricorrenti che caratterizzano questa produzione letteraria, mostrando
come, al di là delle differenze riscontrabili al livello narrativo superficiale, la
maggior parte dei testi poetici si coagulino intorno a tre concetti fondamentali:
quello di resistenza al sistema di valori imposto dalla maggioranza, quello di
affermazione dei valori propri della cultura sorda, e quello di liberazione, sintesi
dei primi due, in cui si attua la transizione dalla fase resistenziale a quella
dell’affermazione individuale e collettiva dei sordi. Ognuno di questi temi è
articolato secondo quattro dimensioni, che investono la sfera del linguaggio, dei
metodi educativi, dell’identità personale e delle relazioni sociali: i poemi
resistenziali rappresentano così l’oppressione della lingua maggioritaria e il
predominio del suono (aspetto linguistico), la violenza dei metodi oralisti e la
forzata inclusione nell’ambiente scolastico udente (aspetta pedagogico), la
medicalizzazione della sordità (aspetto identitario) e la costante pressione verso
l’assimilazione (aspetto sociale), a cui i poemi in cui emerge l’affermazione
positiva dell’essere sordi oppongono, rispettivamente, la rappresentazione della
bellezza e del valore della lingua dei segni e la naturalità della comunicazione
attraverso mani e occhi (aspetto linguistico), il senso di comunità provato nelle
scuole residenziali per l’educazione dei sordi (aspetto pedagogico), la scoperta
dell’identità sorda (aspetto identitario) e la preservazione dell’identità culturale in
una società capace di accettare il multiculturalismo (aspetto sociale). Trasversale a
questi tre macro-temi appare uno dei tòpoi delle letterature post-coloniali, quello
del “ritorno a casa” (agognato o realizzato) e della scoperta di un luogo (fisico o
immaginario) in cui finalmente sperimentare un vero senso di appartenenza e di
comunanza (Christie – Wilkins 2007a). Attraverso l’uso creativo ed estetico del
linguaggio, le produzioni poetiche segnate veicolano questi temi ricorrendo alla
76
standardizzazione di motivi simbolici (negativamente connotati—porte chiuse,
catene, luoghi isolati, il buio—o, viceversa, positivamente connotati—le radici, il
cielo e le stelle, le ali, la casa, la luce) e la ripetizione di costruzioni metaforiche
consolidate (il passaggio dal buio alla luce, l’uscita o la fuga dallo spazio chiuso e
la conquista di uno spazio aperto, la rottura delle catene, la salita verso l’alto, etc.)
(Bahan 2008).
77
Capitolo III
“Corp-oralità” e nuove alfabetizzazioni.
3.1 Ridefinire l'oralità
Si è fin qui è cercato di dimostrare come la predilezione per il suono alla base
delle ipotesi classiche sul funzionamento delle culture orali tradizionali sia un
fatto tutt’altro che necessario e “naturale”, ma si tratti, al contrario, di una
costruzione socio-culturale che, sottoposta a un’osservazione filtrata da una “lente
sorda” (Bauman 2008), può essere decostruita fino a scoprirne i condizionamenti
ideologici e mostrarne i notevoli punti di criticità, specialmente per quanto
riguarda alcune generalizzazioni sui fondamenti cognitivi del linguaggio e sui
processi conoscitivi che orientano la percezione e la comprensione del mondo da
parte degli esseri umani, generalizzazioni che, alla luce di quanto emerge
considerando un punto di vista alternativo ma inequivocabilmente altrettanto
umano, appaiono ingiustificati. Il capitolo si è concluso con una presentazione
delle forme culturali tipiche della cultura sorda, ovvero non basate sul suono, non
tanto per assecondare finalità di natura politica (quantunque in esse presenti, in
modo esplicito o implicito)67 o per rimarcare, ancora una volta, la legittimità di
67
Humphries (2008) riferisce come uno dei compiti assolti dal nascente ambito dei Deaf studies,
sulla scia delle ricerche linguistiche avviate negli Anni ’60, fu quello di cercare febbrilmente le
“prove” di una “cultura sorda”:
if we were to claim that there is such a thing as “Deaf Culture” we must quickly find some
artifacts of it. There must be art and literature that is “Deaf”. Those of you who are Deaf
must remember the near panic that we felt when we realized that we would be asked to
produce these examples of our difference. And they had to be darn good examples too. […]
[F]irst we produced the best cultural artifact of all, our language, ASL. But that wasn’t
enough; we needed to present, for public scrutiny, a literature. A few pieces of ASL poetry
would not do the trick; we needed to collect as much as we could as fast as we could (p.
37).
L’incontro tra la nascenti ricerche legate alla sordità (alla lingua dei segni da un lato, e alla
comunità sorda come legittimo oggetto di studio per le scienze umanistiche e sociali dall’altro) e il
mondo accademico pose un’ulteriore sfida ai ricercatori e ai militanti sostenitori della nuova
concezione culturale della sordità. La proposta di includere l’insegnamento dell’ASL nei
curriculum di studi e la richiesta di garantire all’uso dell’ASL pari dignità rispetto alle altre lingue
straniere insegnate nelle università americane incontrarono lo scetticismo e la resistenza
dell’ambiente accademico, con la richiesta di rispettare gli standard stabiliti dai dipartimenti di
78
una “cultura sorda”, quanto per fornire una prova del fatto che la tipologia di
relazioni interpersonali, di processi di pensiero e di modalità espressive
riconosciute da Ong, Goody e Watt, McLuhan e dagli altri autori protagonisti del
dibatto sull’oralità, si presentano sostanzialmente inalterate anche rimuovendo
quello che si riteneva esserne il fondamento fisico e, soprattutto, metafisico: il
suono, appunto.
In questo capitolo si tenterà di dare seguito alla seconda parte della critica
mossa da Gee a Ong, ovvero fornire degli elementi per sostenere un approccio
alternativo che rimuova—o quantomeno integri—la già di per sé problematica
categoria analitica nota come “letteratura orale”. Se da un lato il grande merito
degli studi condotti da Ong e dagli altri esponenti degli studi etno-antropologici
sulle tradizioni orali è quello di aver portato alla ribalta le contraddizioni insite
nell’adozione acritica del termine “letteratura”, l’integrazione della prospettiva
offerta dai Deaf studies dimostra come anche la qualifica “orale” debba sottostare
a un analogo processo di revisione, alla ricerca di un chiave di lettura che permetta
di descrivere i fenomeni culturali umani nella loro globalità.
3.2 Il video è una forma di scrittura?
Nel precedente capitolo si è mostrato come le dinamiche di trasmissione
dell’eredità culturale tra le diverse generazioni della comunità sorda siano
sorprendentemente assimilabili a quelle riscontrare presso le culture orali o
prevalentemente orali, e come le categorie del pensiero e dell’espressione orale
individuate da Ong siano, nonostante le premesse fonocentriche su cui si basa
quella tassonomia, adatte a descrivere in modo adeguato le caratteristiche del
folklore e della letteratura in lingua dei segni. Si è anche notato come, nonostante
vari tentativi, la lingua dei segni si sia dimostrata resistente a qualsiasi tentativo di
studi umanistici. Un responso che il più delle volte, ricorda Humphries, era sintetizzabile
nell’imperativo “show us the literature” (p. 38). Risalgono a questo periodo ricerche come quella
condotta da Frishberg (1988), in cui si avviano minuziose classificazioni del patrimonio di
narrazioni e folklore della comunità sorda, interpretata, data l’assenza di forme di scrittura e dato il
modesto corpus testuale prodotto dopo la recente introduzione delle videoregistrazioni, all’interno
della cornice delle “tradizioni orali”.
79
trascrizione, supportando da un lato l’idea diffusa che un’alfabetizzazione in
lingua dei segni sia di fatto impossibile, dall’altro la convinzione che
l’alfabetizzazione,
per
come
è
comunemente
intesa,
sia
qualcosa
di
essenzialmente diverso dal semplice capovolgimento delle gerarchie sensoriali.
Tuttavia, sin dalla fine dell’Ottocento, l’invenzione della macchina da presa ha
fornito la possibilità di registrare su pellicola le immagini in movimento, e quindi
anche un metodo per tramandare le esecuzioni in lingua dei segni al di là dei
vincoli fisici e temporali a cui sottostanno le interazioni faccia-a-faccia. È grazie
alla macchina da presa e alla registrazione su pellicola che l’inestimabile archivio
di performance segnate d’inizio Novecento ha permesso di ricostruire la
tradizione
folklorica
sorda
americana,
ed
è
grazie
alle
tecniche
di
videoregistrazione che molte delle ricerche condotte a partire dal 1960 hanno
permesso di indagare con profitto un oggetto fino ad allora sconosciuto come il
linguaggio segnato. Ma è solo a partire dagli Anni ’80, con la diffusione di
tecnologie di registrazione e riproduzione video sempre più economiche e sempre
più facili da utilizzare anche per chi non avesse una formazione tecnica specifica,
e ancor più dagli Anni ’90, con l’avvento della tecnologia digitale (Peters 2000, p.
173), che la possibilità di video-documentare i segni ha cominciato ad avere un
significativo impatto non solo sulle forme e sui contenuti della letteratura
“indigena” della comunità sorda, ma anche su una vasta gamma di consuetudini
culturali e sociali correlate alla particolare distribuzione geografica dei sordi.
3.2.1 Canone letterario, autorialità, sperimentazione linguistica
I mutamenti delle pratiche narrative e sociali generati dall’introduzione del
video spingono ancora una volta a guardare alle teorie sviluppate all’interno del
paradigma della Grande Dicotomia, ma in questo caso le similitudini sono da
ricercarsi nella seconda parte della già citata “equazione oralità-alfabetizzazione”
proposta da Havelock (1995, p. 15), ovvero quella che pertiene agli effetti
dell’alfabetizzazione, e più precisamente della stampa (Krentz 2006, p. 51 e ss.).
In un intervallo di tempo straordinariamente breve—appena qualche decennio,
rispetto alla secolare tradizione tipografica—la “testualizzazione” della letteratura
segnata ha prodotto su di essa effetti riconducibili sommariamente a quelli avuti
80
dalla scrittura, e ancor di più dalla stampa, sulla tradizione letteraria orale,
inducendo su di essa radicali trasformazioni percepibili a vari livelli.
Il ricorso alla registrazione e alla riproduzione video comporta la possibilità di
rendere statico un testo, ovvero non più soggetto alla variabilità che
contraddistingue la narrativa e la poesia tramandata “by sign of hands” nel corso
di una performance a cui assistere necessariamente dal vivo. Liberata dal vincolo
dello spazio (tipicamente, la sede della locale associazione dei sordi, l’istituto per
i sordi o una delle tante fiere e festival—ritorna qui la similitudine con la
tradizione “carnevalesca” (Peters 2000)—che periodicamente scandiscono la vita
sociale e culturale dei sordi) e del tempo (il dover assistere alla performance dal
vivo, nello stesso istante in cui essa viene effettivamente prodotta), la fruizione
della letteratura in lingua dei segni diventa individuale, persino domestica, e,
conseguenza ancora più decisiva, essa diventa finalmente preservabile. Così come
la stampa ha alterato le modalità di formazione e conservazione della memoria
collettiva, creando un corpus di testi a cui fare riferimento e rendendoli disponibili
allo studio, così la possibilità di registrare l’esecuzione di una performance
segnata ha offerto sia la possibilità di preservare la storia, la lingua e la cultura
della comunità sorda (Krentz 2006, pp. 54-56)68, sia l’occasione di dare avvio alla
creazione di nuove forme letterarie (a discapito delle forme tradizionali del
folklore, divenute meno rilevanti o comunque destinate ad essere reinterpretate
sulla base delle caratteristiche del nuovo medium) e, successivamente, di un vero
e proprio “canone” in cui sono raccolti i migliori esempi di letteratura destinati a
divenire modelli di riferimento:
Because they are preserved on videotape, […] narratives become fixed,
authoritative, artistic objects. Once a particular story is taped, every viewer will see
precisely the same performance, which is held to be the story and valued as the
definitive work. Presumably it was rehearsed and perhaps there were earlier takes,
68
Era appunto questo il proposito esplicito di George Veditz nel momento in cui commissionò le
registrazioni che entrarono a far parte dell’archivio filmico della NAD a cui si è fatto cenno nel
precedente capitolo: “We want to keep and preserve the signs as these men now use them to keep
and pass on to future generations” (cit. in Padden – Humphries 1988, p. 56).
81
but the best work is preserved and no other variants are distributed. The resulting
narratives thus become suitable models for others, though of such high quality that
other storytellers might be discouraged from attempting the same stories (Peters
2000, p. 184).
Lo sviluppo di un canone letterario si accompagna alla trasformazione radicale
del ruolo del poeta/narratore. I testi segnati perdono gradualmente la propria
natura creativa collettiva, e l’esecutore della performance, il “singer/signer of
tales” tende ad assumere il ruolo di autore individuale. “Omero”, nome collettivo
attribuito alla molteplicità di esecutori all’interno dei generi del folklore
tradizionale, perde la sua connotazione anonima e diventa propriamente Omero,
un autore individuale contraddistinto dalle proprie caratteristiche stilistiche e
idiosincrasie linguistiche, dalla predilezione per particolari forme narrative e dallo
sviluppo di una poetica che risponde alle proprie sensibilità individuali.
La possibilità di registrare e rivedere il testo aumenta esponenzialmente il
controllo che l’autore ha su di esso, incoraggiando l’autoriflessione e la ricerca
delle modalità più efficaci di espressione. La rielaborazione dinamica dei testi
della tradizione lascia il posto a un processo di composizione mediato dalla
registrazione, e quindi dalla possibilità di rivedere da un punto di vista esterno la
propria esecuzione e apportare le debite correzioni (Rose 1994, p. 147), rendendo
possibile (e auspicabile) la ricerca stilistica, cosicché “signers composing with
videotape […] will tend to play more with the language [and] will become more
interested in art for art’s sake”, con il risultato di produrre “narratives [that] are
highly crafted, lengthy, and heavily symbolical” (Peters 2000, p. 187-188).
La possibilità di oltrepassare l’evanescenza dell’esecuzione dal vivo permette ,
oltre alla sperimentazione stilistica, di adottare anche strutture narrative
radicalmente diverse. Consapevole della possibilità offerta al fruitore finale di
seguire lo sviluppo della narrazione in un contesto diverso da quello comunitario e
della permanenza del testo anche dal lato della fruizione, l’autore può affiancare
alle caratteristiche delle narrazioni orali, presenti, come si è visto, anche nel
discorso segnato, nuove strutture narrative alternative, in grado di sfruttare le
caratteristiche del nuovo medium:
82
Videotape is making possible the “textualization” of ASL works performed by a
flesh-and-blood signer. Just as an oral spoken story becomes text when it is put on
paper, taking on some of the characteristics of the medium of the written page, so
an ASL story becomes “text” on videotape, acquiring characteristics of (written)
“textual” works and losing some of its oral or vernacular characteristics (p. 179180).
La circolarità della narrazione (Peters 2006a, p. 274) e la ridondanza, per
esempio, non più funzionalmente necessarie, tendono a scomparire, venendo
sostituite dall’introduzione di trame lineari—“a straight narrative with a
beginning, middle, and end” (p. 190)—e relativi intrecci, oltre che da una
maggiore stratificazione semantica e una molteplicità di livelli di lettura che solo
la visione ripetuta e analitica può permettere di cogliere e apprezzare.
L’interruzione della relazione biunivoca che unisce il poeta/narratore “orale” al
suo pubblico, causata dalla testualizzazione, ha come conseguenza quella di
limitare le reciproche influenze che caratterizzano le esecuzioni dal vivo.
L’accresciuta distanza tra due elementi della relazione triadica narratorenarrazione-pubblico si ripercuote inevitabilmente sul terzo componente, con
l’emergere di un linguaggio decontestualizzato, “an autonomous discourse to
which one cannot directly respond” (Krentz 2006, p. 56), in modo decisamente
simile a quanto rilevato da Olson in merito agli effetti della scrittura e allo
sviluppo della tecnica saggistica69. Al contempo, anche il legame comunitario che
69
L’istituzione di un “canone” (video)letterario comporta ulteriori conseguenze sulla lingua dei
segni in sé. Il corpus letterario funge, più e meglio dei dizionari in forma cartacea, da veicolo di
standardizzazione della lingua, per quanto questo effetto, a causa dell’estrema frammentazione
geografica della comunità sorda, sia avvertito in misura nettamente inferiore rispetto a quanto
avvenuto nel corso dei secoli per le lingue verbali. Tuttavia, la crescente disponibilità di video
didattici è ormai un fondamentale punto di riferimento per conoscere le forme citazionali dei
segni, le espressioni facciali, la corretta esecuzione di un frasario standard, l’uso appropriato delle
regole grammaticali e così via (Krentz 2006, p. 66). La standardizzazione del linguaggio facilita
anche i processi di diffusione e apprendimento della lingua stessa, incentivando
l’“alfabetizzazione” in lingua dei segni in egual modo tra i sordi (anche i non segnanti nativi) e tra
gli udenti (un fenomeno, quest’ultimo, le cui conseguenze suscitano sentimenti ambivalenti in
alcuni ambienti della comunità sorda, a causa delle dinamiche di potere e controllo sul linguaggio
a cui si è fatto riferimento in precedenza). D’altra parte, la disponibilità di una tradizione
videoregistrata, attraverso cui avere accesso alle opere degli autori più rinomati, oltre che alle
testimonianze del passato, incrementa il senso di appartenenza alla comunità. Come sottolinea
Krentz (2006) in riferimento alla comunità sorda americana,
83
si instaura tra i membri del pubblico riunito in occasione della performance viene
rescisso: la possibilità di assistere in modo individuale alla rappresentazione del
testo determina una minore necessità, per le persone sorde, di frequentare i luoghi
tradizionali in cui si esprime la socialità della comunità, risultando in una
diminuzione della frequentazione delle sedi della propria associazione o della
partecipazione alle fiere e ai festival (Krentz 2006, p. 56)70.
Da ultimo, la registrazione video implica, oltre all’artista/autore, l’intervento di
mediatori esterni—le varie figure professionali e i soggetti economici necessari
alla produzione e diffusione dei contenuti—la cui presenza implica tanto un
ulteriore distanziamento dell’autore dal pubblico quanto la nascita di un’industria
legata alla letteratura come prodotto, soggetta pertanto alle dinamiche che
regolano il mercato. Come in altri comparti dell’industria culturale, le logiche
economiche influenzano in modo sempre più decisivo il contenuto dei “testi”,
dato che esse orientano la produzione verso quelle opere in grado di assicurare i
profitti più elevati piuttosto che supportare l’innovazione e la sperimentazione
[t]hrought film, Deaf people have made this “nationality” more tangible. They have
preserved a body of ASL work that amply demonstrates their shared language, culture,
history, and worldview. […] Films enable people to have more access to Deaf role models
and eloquent ASL performers. They also connect Deaf people across time and space,
allowing them to unite more strongly as a minority group. Above all, they give an increased
sense of legitimacy. Deaf people can now points anyone with doubts about ASL literature
or the Deaf community to a large array of videotapes that demonstrates conclusively the
value and distinctiveness of the culture (p. 67).
70
Occorre precisare che quanto accade nei contesti alfabetizzati (anche in quelli ad alta
alfabetizzazione, come quelli occidentali, in cui la tecnologia tipografica a caratteri mobili ha
dipanato i propri effetti nel corso di oltre cinque secoli), dove oralità e pratiche letterate convivono
in un continuum, è riscontrabile anche nella comunità sorda: i mutamenti qui descritti non sono da
intendersi in senso assoluto—“sismico”, per così dire—ma piuttosto come variazioni nel
bilanciamento di adozione delle pratiche stesse, con l’incremento, da un lato, degli usi legati al
nuovo medium, e il relativo declino, ma non la scomparsa, della tradizione faccia-a-faccia e della
partecipazione ai luoghi in cui essa è possibile.
D’altra parte, è comunque un dato di fatto che le comunità sorde contemporanee, specialmente
quelle occidentali, stiano sperimentando un cambiamento per ciò che riguarda le modalità di
socializzazione tra i propri membri, un cambiamento che, negli Stati Uniti ma, in misura
embrionale, anche presso le comunità europee, è attribuibile a significative trasformazioni nella
struttura economica della comunità sorda, con la rapida crescita di una classe di professionisti
sordi, all’introduzione delle tecnologie di comunicazione che permettono la trasmissione di
contenuti e immagini in movimento in tempo reale e a grande distanza, e alla crescente
segmentazione della comunità dovuta all’intersezione di nuove identità recentemente riconosciute
(etniche, socioeconomiche, di genere) con l’originaria “identità sorda” (cfr. Padden 2008).
84
stilistica a cui l’innovazione tecnologica del nuovo medium ha aperto le porte. Nel
caso delle produzioni segnate, questo si traduce nella presenza sul mercato di
“manualistica” per l’insegnamento della lingua dei segni, il cui pubblico
potenziale, prevalentemente udente piuttosto che sordo, è numericamente di gran
lunga più esteso—e quindi potenzialmente più redditizio—rispetto al numero
relativamente esiguo di consumatori sordi. Gli effetti potenzialmente negativi che
questi macro-processi di natura economica e industriale potrebbero avere sulla
comunità sorda sono parzialmente contrastati dal notevole incremento della
disseminazione della lingua dei segni, e parallelamente della cultura sorda, presso
il pubblico mainstream, con il risultato di diffondere una maggiore
consapevolezza nei confronti della sordità e lo sviluppo di attitudini
maggiormente positive verso di essa.
3.3 Letteratura del corpo
Questa descrizione dettagliata delle similitudini riscontrabili in due modalità
linguistiche differenti sotto l’influenza di tecnologie altrettanto distinte è utile,
ancora una volta, più che a dimostrare l’identità tra i due domini, a identificare i
problemi teorici della cornice analitica entro cui è stata elaborata l’equazione
oralità-alfabetizzazione. Nel tentativo di cogliere le dinamiche universali del
pensiero attraverso l’analisi degli effetti dei mezzi di comunicazione, e
identificando come punto centrale di questa analisi la dimensione linguistica (in
quanto medium per eccellenza) in due possibili declinazioni sensoriali
presupposte in una relazione di opposizione, gli studi sull’oralità e
sull’alfabetizzazione hanno colto dei tratti significativi, ma fondamentalmente
superficiali. Paradossalmente, ciò che è più interessante in questa analogia tra la
stampa e la macchina da presa è quello che per mezzo di essa non può essere
colto. Il parallelismo tra la tecnologia di registrazione e riproduzione video e la
tecnologia tipografica, difatti, è capace di rendere conto solo degli aspetti, per così
dire, funzionali dell’alfabetizzazione (preservare i testi, fruirne individualmente
senza sottostare ai vincoli spazio-temporali dell’interazione faccia-a-faccia,
introdurre l’importanza dell’autorialità e del controllo individuale sul prodotto
85
artistico letterario, sperimentare creativamente con il linguaggio e con le forme
narrative, etc). L’analogia si dimostra inadeguata non tanto per il permanere, nella
letteratura segnata videoregistrata, di alcune significative marche della tradizione
orale71, quanto per una differenza cruciale e ineliminabile nel modo e gli effetti
che i due medium hanno sui linguaggi che esse veicolano: la stampa accelera ed
estremizza le tendenze della scrittura, distanziando fisicamente e cognitivamente,
fino a rimuoverla quasi del tutto, la presenza fisica dell’autore, mentre nella
videoregistrazione il corpo del narratore è inevitabilmente sempre presente. La
parola scritta non ha una “voce” distintiva, se non quella interiore del lettore
impegnato nella sua fruizione, mentre il video di un’esecuzione segnata porterà
sempre, tanto nella performance faccia-a-faccia quanto in quella registrata, le
marche della presenza fisica dell’esecutore. Se anche si volesse rimuovere
l’autore/narratore reale, sostituendolo, mediante l’intervento di tecnologie in
grado di manipolare l’immagine in movimento, con un narratore artificiale, o
addirittura con una creatura di fantasia, esso avrebbe comunque un volto, un
corpo, degli arti superiori e delle estremità necessariamente antropomorfe, e
mostrerebbe in ogni caso una specifica identità in quanto segnante, un “accento
visivo” distintivo, poiché solo attraverso il corpo umano—attraverso ogni singolo,
individuale corpo umano, o dalle caratteristiche anatomiche riconoscibili come
affini a quelle del corpo umano—è possibile avere la produzione in una lingua
segnata. “Ci può essere, si può immaginare”, sostiene Sacks (2009), “un
linguaggio vocale disincarnato, ma non una lingua dei segni disincarnata. L’atto
di segnare esprime di continuo il corpo e l’anima del segnante, la sua identità
umana unica” (p. 174)72.
71
Per esempio, nota Peters (2000), spesso le opere in lingua dei segni sono distribuite come serie,
o collezioni di testi e performance eseguiti da una varietà di autori/performer, “in a manner more
typical of vernacular discourse. The experience of watching a videotape set of ASL literature is
much like observing a group of fairgoers interacting and having a high time” (p. 186). Poiché la
diffusione della videoregistrazione è relativamente recente, l’analogia potrebbe essere ancora
pertinente, se si considera il fatto che, come rileva Ong, agli albori della tecnologia tipografica le
prime pubblicazioni a stampa si collocavano per forma e contenuti veicolati in forte continuità con
la preesistente tradizione orale (Ong 1991).
72
La “personalità” del segnante è parte così integrante del segnato individuale da aver suggerito la
creazione del concetto di “EMBODIED (enfasi in orig.) intertextuality” (Rose 1996, p. 432).
86
3.3.1 Un corpo narrativo
In uno studio condotto da Rayman (1999), a un gruppo di segnanti nativi in
ASL e a un equivalente (per numero, genere, età anagrafica, livello d’istruzione ed
esperienze professionali nell’ambito delle arti performative) gruppo di parlanti
nativi di lingua inglese è stato richiesto, dopo aver assistito alla visione di una
storia rappresentata per mezzo di un cartone animato muto, di raccontare la stessa
storia nella propria lingua madre. Le differenze emerse dal confronto delle
narrazioni prodotte nelle due modalità suggeriscono che le specifiche risorse
linguistiche a cui le due lingue fanno ricorso abbiano un’influenza sulla
produzione narrativa: le esecuzioni in lingua dei segni hanno dato vita (non solo
in senso figurato, dato che il racconto segnato assume effettivamente le forme di
una vera e propria messa in scena) a narrazioni vivide, cinematiche, ricche di
dettagli visivi nella caratterizzazione dei personaggi e orientate a descrivere con
precisione i movimenti, le relazioni spaziali tra i protagonisti, e tra questi e
l’ambiente circostante (p. 79), mentre i racconti in lingua inglese, anche per via
della sedimentata tradizione prosastica e dei consolidati registri narrativi ad essa
pertinenti, sono risultati maggiormente analitici, focalizzati sullo sviluppo
dell’intreccio e sulla descrizione astratta degli stati psicologici dei personaggi, e
inclini a trascurare il rendiconto dettagliato degli eventi ogniqualvolta questi
potessero essere facilmente inferiti dal contesto (ib.). Se questo risultato è in linea
con l’aspettativa iniziale secondo cui il discorso segnato sia generalmente
incentrato sulla descrizione-rappresentazione di movimenti, relazioni spaziali e
aspetti morfologici visivamente salienti (p. 80) per via dello stile percettivo
fortemente visivo attraverso cui i sordi esperiscono il mondo, e a causa
dell’espressione in una lingua che si fa mediatrice di questa esperienza anch’essa
Dall’osservazione delle esecuzioni segnate di alcuni studenti di college impegnati
nell’elaborazione di narrative personali ispirate ad alcuni dei testi inclusi nel canone letterario in
ASL, si è notato come essi, nel ricorrere a temi e scelte stilistiche riprese dai testi assunti a
modello, si fossero appropriati anche di alcune “qualità” proprie degli autori di riferimento (ib.).
“This recognition of embodied intertextuality”, argomenta Rose, “reinforces the merging of artist
and text unique to ASL literature. The text does not exist separately from the artist, as in printed
literature; yet the text does not become re-authored every time it is performed, as in oral traditional
literature” (p. 438).
87
in senso visuo-spaziale, ancora più interessanti sono le considerazioni emerse dal
confronto degli aspetti concernenti l’enunciazione, specialmente per ciò che
riguarda l’assunzione del punto di vista. All’adozione costante di un narratore
esterno, onnisciente, oggettivo e distaccato, riscontrato nei racconti resi in lingua
inglese, si oppone, nell’enunciazione segnata, il prevalere dell’assunzione di un
punto di vista interno e soggettivo—“character mode” (p. 78)—accompagnato
dall’ampio uso di espressioni facciali, posture fisiche e movimenti caratteristici
dei personaggi presenti in scena73, con il ricorso a prospettive esterne solo in
quelli che, cinematograficamente, possono essere definiti piani d’ambientazione.
Queste osservazioni supportano l’ipotesi che il ricorso all’impersonamento,
ottenuto per mezzo di dispositivi linguistici (ad esempio, un costrutto
grammaticale
come
il
role-shifting)
(Haggerty
2007,
p.
53)
e
contemporaneamente attraverso tecniche proprie del dominio delle arti
performative (ad esempio, la tecnica teatrale del role-playing), sia un elemento
connaturato e imprescindibile del linguaggio segnato in quanto “visual, enactive
embodiment” (Brueggemann 1995, p. 414). La letteratura in lingua dei segni,
dunque
is more than a literature of the body; it is a literature of performance, a literature
that moves through time and space, embodied in the author’s physical presence.
[…] The literary power of [sign language] literature is defined by, and coexistent
with, its theatrical or performative power; thus the Deaf poet’s gift with language is
always already a gift of bodily expression and dynamic stage presence. A Deaf
poet, it seems, must necessarily be a good performer—a quality not required of
hearing poets, whose texts lie dormant on the page, waiting to be awakened by a
reader (Rose 2006, p. 131).
Le narrazioni in lingua dei segni, dunque, esplicitano e amplificano una
caratteristica insita nei dispositivi linguistici, sintattici e grammaticali, di cui la
73
Tra i madrelingua inglese partecipanti allo studio, solo il soggetto con precedenti esperienze
nelle arti performative ha fatto ricorso, nel corso del racconto, all’alterazione di elementi
paralinguistici (ad esempio, con variazioni del tono della voce e con l’accentuazione della mimica
facciale) in modo da dotare i personaggi di ulteriori tratti caratterizzanti oltre a quelli espressi in
modo descrittivo (Rayman 1999, p. 78).
88
lingua dei segni fa uso. La prassi discorsiva narrativa, messa in atto attraverso
dispositivi che sottolineano il ruolo centrale del corpo, quali il role-shifting e la
personificazione
(anche
di
oggetti
inanimati),
non
pertiene
solo
alle
manifestazioni in cui l’uso della lingua ha finalità artistiche, ma è ricorrente anche
al di fuori di esse, ed è attraverso di essa che la lingua stessa diventa il veicolo di
espressione di un modo di essere-nel-mondo orientato dalla percezione visiva
(Hauser et al. 2010).
3.3.2 Il corpo come veicolo di presenza e del senso di appartenenza
Ripercorrendo l’indagine condotta da Ong (1967) sulle proprietà della parola
parlata, si è sottolineato come il fenomeno sonoro, in cui si sostanzia la parola
parlata, fosse identificato, a causa delle sue proprietà fisiche, quale veicolo
attraverso cui si realizza l’autocoscienza e si stabilisce il senso di “presenza a se
stessi”, fondamento della speculazione metafisica occidentale, e il senso di
appartenenza alla comunità umana. I condizionamenti derivati da questa
tradizione metafisica, la predilezione per il suono e la confusione epistemologica
tra parola parlata e linguaggio (e quindi, a un livello immediatamente successivo
di inferenza, tra ciò che è umano e ciò che non lo è), sono stati messi in evidenza
in merito al ruolo avuto nell’elaborazione di una teoria dell’oralità che
comprendesse unicamente i fenomeni sonori, a discapito delle altre modalità
attraverso cui l’uomo attribuisce significati all’esperienza del mondo, producendo
e tramandando “cultura”. Il riconoscimento della possibilità di modalità “altre” di
essere-nel-mondo, indipendenti dal senso dell’udito e estranee al mondo del suono
come può essere quella orientata dal senso della visione propria degli individui
sordi, non si è però accompagnato a un’analisi di come sia possibile spiegare la
creazione di comunità, e il senso di appartenenza a esse, anche al di là dei
fenomeni sonori. Secoli di tradizione retorica sono l’innegabile testimonianza di
come la comunicazione orale sia un eccellente strumento per stabilire i legami
necessari a unire gli esseri umani in gruppi coesi, indipendentemente dal fatto che
si interpreti questa capacità come l’effetto immediato delle intrinseche proprietà
unificatrici del suono, come sostiene Ong (1991, pp. 195-196), o come il risultato
di quello che Haualand, identificando le metafore sensoriali auditive riscontrabili
89
nelle lingue scandinave, denomina il “sentire insieme” o il “sentire identico”
(“hear same”) (Haualand 2008, p. 115, enfasi in orig.), la condivisione di un
medesimo soundscape la cui esperienza e rappresentazione sono alla base del
senso di appartenenza alla comunità. Ma che dire a tal proposito di una
comunicazione, come quella segnata, che si avvale di un canale del tutto
differente?
Le condizioni di esistenza della comunità sorda implicano processi differenti
nella costruzione del senso di presenza e di appartenenza, non solo per la relativa
impermeabilità all’influenza del suono, quanto per gli aspetti che ne
contraddistinguono la costituzione. Fatto salvo per quella piccola percentuale di
sordi figli di sordi che costituiscono il cuore della comunità, essa è per la maggior
parte composta di individui isolati che non ne fanno parte per diritto di nascita, ma
ne acquisiscono l’ideale cittadinanza nel momento in cui, tramite il contatto con i
pari, apprendono la lingua dei segni: la comunità sorda è così, per sua natura, una
comunità priva di patria, una comunità “diasporica” (Lane 2005, p. 293),
“immaginata” (Zuccalà 1998, p. 125) o di “convertiti” che vi aderiscono
deliberatamente (Bechter 2008, p. 61), slegata dall’identificazione con una
specifica località geografica su cui proiettare il senso di appartenenza. Essa è al
tempo stesso nomadica––riflette, cioè, la costante ricerca, da parte dell’individuo
sordo isolato, di consimili, sovente localizzati al di fuori degli immediati legami di
parentela e di residenza, con i quali condividere una modalità comunicativa
unica––e translocale, addirittura globale74, poiché esiste in tutti quei luoghi (gli
istituti e le scuole residenziali, le sedi delle associazioni, i ritrovi occasionali, le
fiere e i festival, gli incontri internazionali, le Deaflympics) in cui, per periodi di
tempo limitati, i sordi si trovano a condividere uno stesso spazio fisico. Poiché
non esistono dei luoghi ascrivibili alla “cultura sorda”, non ci sono luoghi in cui
74
La consapevolezza di condividere un’esperienza e una visione del mondo organizzata intorno a
un “centro diverso” (Padden – Humphries 1988) induce un senso di appartenenza che travalica i
confini delle comunità nazionali all’interno dei quali i sordi si trovano a vivere:
Deaf-Worlds are to be found around the globe, and when Deaf members from two different
cultures meet, they feel a strong bond although they share no common territory and are
limited in their ability to communicate with one another (Lane 2005, p. 293).
90
“sentire insieme”, nel senso in cui le comunità e le culture sono
convenzionalmente intese e interpretate. L’esistenza della comunità sorda sfida
così la concezione di appartenenza basata sul “sentire”:
[b]y using “hearing” concepts of belonging through sounds, we are in danger of
ignoring what is one of the basic features of the Deaf Culture: its meeting places
are transitory and temporary, yet it exists in the everyday life of Deaf people. The
embodied experience of belonging may thus be experienced differently by hearing
and Deaf people respectively. […] A Deaf person might from an early age have a
dislocated and another embodied experience of belonging, since Deaf people in
fact do not hear the same as the hearing people surrounding them. The Deaf quest
for belonging might be dislocated and not connected to a particular geographical
site, but toward other sign language users or visual people. […] Meeting at
temporary events […] eventually leads to a more intense realization of Deaf
Culture and the value of (visual) communication (Haualand 2008, p. 119).
Il senso di appartenenza cessa così di essere legato a un luogo e a un tempo, e
diventa piuttosto un processo. La lingua dei segni, a causa del ruolo centrale
assunto dal corpo nella produzione della comunicazione segnata, svolge in questo
processo una funzione cruciale, ed è nella predisposizione alla narrazione insita
nella produzione linguistica segnata che Bechter (2008) ricerca la chiave di lettura
della costruzione del senso di appartenenza in una comunità transitoria e
translocale. L’incorporamento dello storytelling all’interno delle pratiche
comunicative attraverso risorse tratte dal repertorio di strumenti grammaticali e
discorsivi di cui la lingua dei segni si avvale (principalmente l’impersonamento,
ovvero l’assunzione dei ruoli attanziali presenti al livello della narrazione, e la
personificazione, ovvero l’attribuzione di un corpo––necessariamente, almeno in
parte, antropomorfo––e di facoltà cognitive tipicamente umane agli oggetti
inanimati del mondo fisico) permette l’emergere della rappresentazione di una
visione del mondo, di una “basic intuiton of the natural order of things” (p. 61),
connessa all’essere sordi: la continua ricerca di “deaf lives” (ib., enfasi in orig.),
cioè di altri individui sordi e di altre esperienze sorde, e il tentativo di vedere
“deaf lives when others […] do not” (ib.). La personificazione, l’attribuzione di
91
un corpo agli oggetti del mondo fisico––di un corpo “sordo”, e quindi segnante,
orientato alla percezione visiva e costretto dagli stessi vincoli, biologici e sociali,
che le persone sorde sperimentano nella loro esperienza quotidiana––
rappresentazione linguistica del mondo stesso è una modalità nativa della
comunità sorda di critica ontologica (p. 63), nel senso che essa permette di
riconfigurare il mondo a immagine e somiglianza dell’esperienza sorda, e
contestualmente di dargli “voce”, una voce “sorda”. Riconoscendo i corpi sordi
anche laddove gli altri non sono in grado di vederli, e assumendone le prospettive
(e quasi letteralmente le fattezze), anche attraverso la mediazione linguistica, si
potrebbe ipotizzare che il “sentire insieme” si trasferisca dalla comune esperienza
sensoriale (di un senso isolato dal corpo) al corpo stesso: si potrebbe sostenere che
il senso di presenza e di appartenenza sia veicolato della consapevolezza del
corpo, in tutti i suoi aspetti percettivi (visivi, auditivi, tattili, cinetici,
propriocettivi).
L’osservazione del fenomeno sordità contribuisce così a riconfigurare le ipotesi
sul ruolo dei sensi e del linguaggio nel dare forma all’esperienza umana, invitando
ad andare oltre le rigide opposizioni tra modalità conoscitive associate ai sensi e
specifiche codifiche (o tecnologizzazioni) del linguaggio, e riportando entrambe
nel dominio del corpo. L’incorporamento dei sensi e delle pratiche comunicative
suggerisce di superare l’artificiale distinzione tra razionalità (identificata
primariamente nel linguaggio) e la corporeità (regno delle sensazioni non mediate,
identificata con il residuo animale, primitivo, istintivo), in quanto esse non sono
altro che espressioni del corpo, all’interno dei vincoli che esso impone (Classen
1997, Farnell 1999, Marazzi 2010). Nella tradizone filosofica occidentale, così
come nella ricerca accademica
this bifurcation has led to a valorization of spoken and written signs as “real”
knowledge, internal to the reasoning mind of a solipsistic individual, to the
exclusion of other semiotic (i.e. meaning-making) practices, thereby bifurcating
intelligent activities. This, in turn, has produced a radical disjunction between
verbal and so-called nonverbal aspects of communication in our meta-linguistic
discourse. (Farnell 1999, p. 346)
92
Guardare all’oralità e alla tradizione orale come incorporamento (embodiment)
del linguaggio e dell’esperienza umana permette di includere in essa anche i
fenomeni riscontrati osservando la modalità di essere-nel-mondo propria dei sordi
e superare il modello dualistico, sedimentato in una tradizione di pensiero che da
Platone giunge fino a Cartesio, di una mente––luogo interno non materiale sede
della razionalità, del pensiero e del linguaggio che lo struttura––separata dal
corpo, luogo esterno delle sensazioni non mediate e dell’irrazionalità (Marazzi
2010, p. 65). Tanto l’oralità quanto la gestualità sono modalità linguistiche (e non
linguistiche) mediate dal corpo, legate inestricabilmente all’azione motoria e
recepite attraverso i sensi. Le caratteristiche associate al “pensiero orale” e a
quello espresso tramite l’articolazione visuo-spaziale-cinetica dei segni derivano
entrambe “from corporal reality and its biological and physical constraints”
(McCleary 2003, p. 112). Per rimarcare la natura essenzialmente e intimamente
corporea delle interazioni umane, e dei processi, inclusi quelli linguistici,
attraverso i quali si costruisce la conoscenza del mondo, si propone quindi di
superare l’“oralità”, portatrice di inevitabili connotati orocentrici e fonocentrici, e
riconfigurarla piuttosto come corp-oralità (ib.). L’“oralità”
“came to share with “language” an aura of abstraction and lost its connection with
physical reality. “Corporality” helps to correct the bias, It reminds us that language
is rooted in the body […] It is as if the language is stored not only in the mind but
just as surely—perhaps more surely—in the body (pp. 112-113).
3.4 La cognizione spaziale e l’azione corporea alla base del linguaggio
All’interno del concetto di corp-oralità possono essere ricondotti anche i
concetti fondamentali di spazio e tempo. Ancora una volta, per evidenziare come
la formazione di questi indispensabili framework cognitivi alla base
dell’esperienza umana nel mondo si origini nel corpo e nelle sue funizioni
motorio-percettive, è utile rivolgere lo sguardo all’esperienza sorda.
L’aspetto distintivo delle lingue dei segni è, come si è qui argomentato di
frequente, il ricorso a una modalità di articolazione radicalmente diversa rispetto a
quella propria delle lingue verbale: il ruolo che in quest’ultime è svolto
93
dall’apparato fonatorio, nelle lingue dei segni è proprio delle mani, degli arti
superiori, del viso, e in definitiva del corpo nella sua interezza. Il materiale
linguistico prende così vita in una sintassi, una grammatica e un lessico
esclusivamente spaziali, un uso linguistico dello spazio “inafferrabilmente
complesso a un occhio ‘normale’, che non è in grado di vedere (tanto meno di
capire) l’intrico delle sue configurazioni spaziali” (Sacks 2009, p. 133) poiché
“tutto ciò che nel parlato è lineare, sequenziale, temporale, nei segni diventa
simultaneo, presente a più livelli, concomitante” (ib.). All’uso dello spazio al
livello sintattico-grammaticale corrisponde un sistema semantico che è anch’esso
di natura visuo-spaziale: le radici verbali, per esempio, hanno significati locativi o
direzionali, e quindi spaziali. In questo aspetto, tuttavia, le lingue dei segni
potrebbero non essere uniche, ma semplicemente accentuare e rendere
maggiormente esplicita una caratteristica comune a tutte le forme del linguaggio
umano: in contrasto con l’ipotesi dell’alfabetizzazione, la tendenza alla
spazializzazione potrebbe non essere il risultato dell’introduzione della scrittura,
ma bensì essere “inherent in human language from the start” (Gee – Ong 1983, p.
232).
3.4.1 Cognizione motorio-percettiva del tempo e dello spazio
Recuperando ed espandendo l’ipotesi della correlazione e l’ipotesi della
complessità formulate da Clark (1973), Stokoe (2001) propone un modello
psicolinguistico del processo di sviluppo ontogentico secondo cui, dalla
percezione spaziale—l’esperienza della realtà fisica abitata dall’essere umano—
derivino
tanto
la
rappresentazione
linguistica
dello
spazio
quanto,
successivamente, la percezione del tempo e la sua peculiare concettualizzazione, e
come un passaggio chiave tra queste fasi sia la rappresentazione gestuale.
Secondo Clark (1973), la conoscenza esperienziale dello spazio (definita spazio
percettivo, P-space) precede l’acquisizione dei termini che la lingua adoperata da
ciascun essere umano ha per rappresentare linguisticamente questa conoscenza
(una conoscenza definita, a sua volta, spazio linguistico, L-space). P-space,
94
dunque, è inteso come un framework cognitivo pre-verbale biologicamente
determinato75 che precede, nello sviluppo ontogenetico, l’acquisizione dell’abilità
di parlare dello spazio stesso, e, in accordo con l’ipotesi della correlazione, la sua
struttura e le sue proprietà vengono preservate in L-space. La mediazione tra i due
piani, che, nelle parole di Clark, “remains somewhat mysterious” (p. 53), è data
dai vincoli imposti dal sistema linguistico nella sua totalità: le regolarità del
sistema incanalano, per così dire, l’introduzione dei nuovi concetti in L-space,
così da preservare la conformità con P-space. Tuttavia, l’osservazione del
comportamento degli esseri umani nei primi mesi di vita, nota Stokoe (2001),
mostra come non solo prima dell’emergere della produzione linguistica (verbale o
segnata) il bambino sia impegnato in una frenetica esplorazione dello spazio
fisico, raccogliendo esperienze su di esso e concettualizzandole in P-space, ma
anche come questa attività sia accompagnata dalla rappresentazione gestuale76 di
queste proprietà:
[g]estures that point up, down, forward, back, left, and right do more than represent
P-space; they provide an externalization of our perceptions to help the perceptions
become conceptions. They permit humans to internalize what is out there (p. 9).
Secondo l’ipotesi di Stokoe, M-space (da “manuale” e “manifesto”), in cui
percezione e azione agiscono all’unisono, è lo spazio cognitivo in cui avviene la
mediazione tra la percezione e la realizzazione linguistica, e potrebbe avere sullo
sviluppo cognitivo del bambino un’influenza maggiore rispetto alla presenza o
75
Nel senso che dipende dalla dotazione biologica dell’essere umano:
the child is born into a fiat world with gravity, and he himself is endowed with eyes, ears,
an upright posture, and other biological structure. These structures alone lead him to
develop a perceptual space, a P-space, with very specific properties (Clark 1973, p. 28).
La realtà dell’ambiente fisico circostante, esperito attraverso la specifica dotazione sensoriale
umana, situata in un corpo anch’esso dotato di particolari attributi, è alla base dello sviluppo nel
bambino delle caratteristiche psicofisiologiche del spazio percettivo P-space. In quanto tale, Pspace non è neutro, ma bensì condizionato (e quindi contraddistinto da attribuzioni di valore, sia
positive che negative) a partire dalle particolari disposizioni biologiche (anatomiche) dell’essere
umano, quali, ad esempio, la postura, la lateralizzazione e la direzionalità (p. 33-34).
76
La gestualità esibita dal bambino, precisa Stokoe, non si limita tuttavia alla produzione di segni
indicali, ma include anche la direzionalità dello sguardo, le espressioni facciali, l’assunzione di
determinate posture del corpo, etc. (Stokoe 2001, p. 10).
95
all’assenza della possibilità di ricevere lo stimolo linguistico sonoro proveniente
dagli adulti che ne popolano l’ambiente circostante, tradizionalmente considerati
come i fornitori degli input decisivi per lo sviluppo del linguaggio. L’emergere
del linguaggio, dunque, potrebbe non essere dato dall’apprendimento imitativo
delle parole parlate o segnate (né, tantomeno da un istinto o da un dispositivo
innato), ma piuttosto essere il risultato dell’interazione percettivo-motoria con il
mondo fisico e con gli altri umani che lo popolano.
Secondo l’ipotesi formulata da Clark (1973), anche la conoscenza linguistica
del tempo ha il suo fondamento nella struttura cognitiva che sottende P-space e
nella sua successiva linguisticizzazione in L-space: i termini adoperati per
descrivere gli intervalli temporali non sono altro che gli stessi termini presenti in
L-space, adoperati però in accezione metaforica77 (p. 48). La stessa costruzione
metaforica è rintracciabile nella proposta di Stokoe, così da spiegare in analoghi
termini visivo-gestuali anche l’internalizzazione dell’esperienza temporale. La
concezione del tempo, difatti, deriverebbe dalla pre-esistente conoscenza e
rappresentazione percettivo-motoria dello spazio, poiché la comprensione
intuitiva degli intervalli temporali (uno schema cognitivo denominato P-time78) si
svilupperebbe a partire, per esempio, dalla constatazione empirica che raggiungere
un punto più lontano è meno immediato che raggiungere un punto vicino.
Possedere una rappresentazione gestuale per le localizzazioni “lontano dal
soggetto” e “nelle vicinanze del soggetto”, quindi, è il pre-requisito per l’uso delle
stesse rappresentazioni in senso metaforico (“dopo” e “adesso”) nel momento in
cui attraverso di esse si sviluppi il concetto del tempo e successivamente la sua
articolazione linguistica.
Si ricorderà come il nucleo della riflessione condotta da Ong fosse la
77
Segnatamente, Clark individua due costruzioni metaforiche del tempo in termini spaziali:
“moving ego” (il soggetto si muove lungo la linea del tempo, localizzando il futuro di fronte a sé e
il passato dietro di sé) e “moving time” (il soggetto è fermo, e ciò che si muove sono gli eventi, in
moda tale che gli eventi futuri scorrono verso il soggetto e, una volta trascorsi, continuano il loro
corso alle sue spalle) (Clark 1973, pp. 48-52).
78
In realtà, poiché non esiste percezione diretta del tempo attraverso alcun organo sensoriale ed
esso è essenzialmente un costrutto cognitivo, secondo Stokoe sarebbe più appropriato definirlo nei
termini di C-time, laddove C sta per “concettuale” (Stokoe 2001, p. 11).
96
concezione secondo cui il suono, benché evanescente, fosse caratterizzato dal
possedere attributi di realtà tali da essere il veicolo attraverso cui avere coscienza
del presente, dell’esistenza qui-e-ora, e come dal suo sviluppo lineare egli facesse
discendere la concezione altrettanto lineare che caratterizza la comprensione
umana del tempo. L’ipotesi di Stokoe secondo cui la comprensione e la
rappresentazione dello spazio, e sulla base di essa, la comprensione e la
rappresentazione del tempo, siano mediate da una componente motorio-percettiva
che integra percezione sensoriale ed azione—laddove la prima è basata
prevalentemente sulle sensazioni visuo-spaziali e la seconda coincide con la
gestualità del soggetto—si pone in diretta antitesi a questo modello:
hands are real (enfasi aggiunta)—not abstractions—and they are so thoroughly
connected to brains that their use literally makes impact after impact on cognition
(p. 13)
e questo si verifica tanto nello sviluppo del bambino udente quanto in quello
del bambino sordo.
3.5 Ridefinire l’alfabetizzazione
Come si è notato al principio di questo capitolo, una differenza fondamentale
distingue la “testualizzazione” della letteratura segnata da quella della parola
parlata ottenuta per mezzo della scrittura: la presenza fisica dell’enunciatore
(autore o performer del testo segnato) è ineliminabile, e per quanto la fruizione
possa essere differita nel tempo e nello spazio, non esiste testo segnato che non
porti permanentemente con sé non solo le marche dell’enunciazione, ma l’intera
corporeità dell’enunciatore. Una seconda differenza qualitativa tra le due modalità
emerge se si adotta una visione “stretta” dell’alfabetizzazione: al contrario del
testo scritto, in cui il linguaggio è sottoposto a due codifiche di tipo diverso che
richiedono operazioni cognitive di ordine diverso (decodificare un simbolo
grafico comporta il ricorso a competenze diverse rispetto a quelle usate per
decodificare uno stimolo sonoro), l’informazione linguistica veicolata da un testo
segnato, tanto nella performance dal vivo quanto in quella videoregistrata,
97
permane nella medesima codifica visuo-gestuale-cinetica.
Cosa si intenda per alfabetizzazione assume una rilevanza particolare nel
momento in cui si consideri il ruolo che essa ricopre nell’organizzazione dei
sistemi educativi e nell’elaborazione dei curricula scolastici, specialmente
all’interno di società altamente tecnologizzate come quelle contemporanee.
Intimamente legata allo sviluppo di un particolare modello di società,
l’alfabetizzazione, ben lungi dall’essere un processo neutrale, porta inoltre con sé
notevoli implicazioni relative alle dinamiche di potere che regolano i rapporti
all’interno delle società, e, in senso transculturale, tra modelli diversi di società.
La visione “stretta” dell’alfabetizzazione, così come la visione dell’oralità
esclusivamente legata al suono, deve gran parte della sua posizione predominante
alle relazioni di potere che, sulla base di essa, si sono cristallizzate. È la visione
che permea la teoria dell’alfabetizzazione presentata nel primo capitolo, secondo
la quale l’acquisizione delle competenze legate alle attività di lettura e scrittura
permettono lo sviluppo di un pensiero di ordine superiore rispetto a quello orale.
Ed è a partire da questa visione, secondo cui l’alfabetizzazione è legata
unicamente allo sviluppo delle capacità necessarie a leggere e scrivere, che la
lingua dei segni, non riducibile alla superficie bidimensionale della pagina per
mezzo di una codifica in simboli grafici, è considerata “priva di scrittura”, da cui
segue il necessario corollario secondo cui non è possibile un’alfabetizzazione in
lingua dei segni. Entrambi questi aspetti––la restrizione del dominio
dell’alfabetizzazione al testo scritto, e le relazioni asimmetriche di potere che
l’impiego di questa definizione produce e sostiene––assumono una rilevanza
decisiva nel momento in cui ci si confronti con le esigenze degli individui sordi
immersi in società altamente alfabetizzate, poiché l’insegnamento delle complesse
abilità necessarie alla decodifica e alla produzione di un testo scritto si è rivelato
un compito storicamente arduo, accompagnato sovente da modesti risultati
nell’educazione dei sordi, con il risultato di privare questi ultimi della possibilità
di massimizzare il proprio potenziale accademico e influenzare in modo decisivo
la relazione di subalternità, esplorata nel secondo capitolo, che la comunità sorda
intrattiene con la maggioranza udente. La preoccupazione alla base dei metodi di
98
insegnamento oralisti, legata indissolubilmente al modello patologico della
sordità, è l’integrazione e l’assimilazione dell’individuo sordo in un contesto
udente, mediante lo sviluppo parallelo di tecniche mirate a compensare il deficit
uditivo (con il ricorso alla logopedia e, per esempio, attraverso l’addestramento
alla lettura labiale) e all’insegnamento della lingua scritta, in quanto fruibile
attraverso il canale sensoriale integro, la vista. La relativa egemonia di cui
tutt’oggi godono questi metodi educativi (e le strettamente correlate pratiche
mediche rivolte alla riabilitazione del senso dell’udito), si fonda, in gran parte,
sull’alto prestigio conferito all’alfabetizzazione nella sua versione “stretta”.
Nonostante la ricerca linguistica abbia dissipato le perplessità legate al
bilinguismo (l’apprendimento di due lingue diverse non limita il pieno sviluppo
della competenza linguistica in nessuna delle due lingue coinvolte), e siano ormai
numerose le evidenze secondo cui il bilinguismo è possibile anche in modalità
diverse (verbale e segnata), e nonostante sia ormai ampiamente dimostrato che
una precoce esposizione del bambino sordo al linguaggio visivo-gestuale
contribuisca in maniera decisiva a fornire le strutture cognitive necessarie
all’apprendimento del linguaggio e allo stesso tempo favorisca, e non inibisca, il
successivo apprendimento della lingua verbale, l’orientamento prevalente adottato
dai policy maker in ambito scolastico è, per quanto riguarda l’educazione dei
sordi, rigidamente monolingue e imperniato sull’acquisizione del linguaggio nella
sua forma scritta.
Un approccio promettente di sviluppo di un curriculum bilingue esplicitamente
progettato per accomodare le esigenze degli studenti sordi è quello proposto da
Nover et al. (1998). Nover e colleghi riconoscono la necessità di fornire, nel corso
del percorso educativo, le competenze richieste dall’uso della lingua
maggioritaria,
ma
integrano
il
modello
canonico
oralità/scrittura
con
l’introduzione di un terzo dominio di competenza comunicativa, denominato
signacy (in assonanza con i termini inglesi oracy e literacy), attraverso cui fornire
gli strumenti per un pieno sviluppo linguistico e per l’acquisizione delle capacità
cognitive a esso collegate, e trasferirle successivamente negli altri due domini. Il
concetto di signacy è elaborato in continuità con la comune rappresentazione delle
99
abilità richieste nei domini della produzione e comprensione del linguaggio orale
e della produzione e decodifica del linguaggio scritto. In analogia con le capacità
produttive (parlare e scrivere) e ricettive (ascoltare e leggere) associate ai domini
dell’oralità e della scrittura, signacy implica “the ability to control the
visual/signing medium of linguistic transmission in the form of signing and
watching skills” (Nover – Christensen – Cheng 1998, p. 66). Nel contesto
dell’educazione dei sordi, le capacità ricettive e produttive associate a oralità e
scrittura sono riconfigurate secondo la modalità percettiva accessibile al bambino
sordo, e includono, da un lato, la lettura labiale in corrispondenza dell’ascolto e la
capacità di “leggere” l’alfabeto segnato (fingerreading) affiancata alla lettura
intesa nei termini convenzionali, e, dall’altro, la produzione vocale (grazie
all’intervento logopedico) e le capacità di esprimersi nell’alfabeto segnato
(dattilologia, fingerspelling) e nella scrittura. Per un proficuo sviluppo bilingue, il
bambino sordo necessità dell’opportunità di sviluppare le diverse capacità
linguistiche in tutti e tre i domini. Il modello di sviluppo bilingue dei bambini
sordi, concludono Nover e colleghi
can guide educators to ensure that deaf children acquire [sign language]
signacy as a foundation upon which to build and expand [second language]
literacy skills and then take advantage of their literacy to develop oracy skills (p.
67).
3.5.1 Molteplici alfabetizzazioni
Tuttavia, la “testualizzazione” della letteratura in lingua dei segni offre lo
spunto per un’ultima considerazione in merito al dibattito oralità/scrittura in
campo antropologico: se le suggestioni derivanti dall’osservazione delle
interazioni faccia-a-faccia tra individui sordi possono contribuire a una
ridefinizione del concetto di oralità, in che modo la tecnologizzazione della lingua
dei segni, per mezzo della videoregistrazione, può offrire la possibilità di
inquadrare anche l’alfabetizzazione in una nuova prospettiva (Kuntze 2008)?
Così com’è ormai assodata la presenza di una molteplicità di pratiche legate
all’oralità, sostiene Finnegan, è altrettanto necessario individuare la molteplicità
di pratiche associate alla produzione e fruizione dei testi, e oltrepassare l’originale
100
binomio che identifica oralità e scrittura in una relazione di contrapposizione, o
come poli opposti in un continuum. Con dispiego di notevole ironia, Finnegan,
forse la voce critica che, all’interno delle discipline etno-antropologiche, più di
tutte ha contestato le dinamiche di potere insite nell’opposizione binaria tra oralità
e scrittura, descrive lo scenario classico entro cui le nozioni di oralità e scrittura,
funzionali al perpetuamento di queste dinamiche di potere e dominio, agiscono:
Human Speech has often been presented as the crucial line dividing humanity from
animals, with Literacy then entering in as the fulfiller of human destiny, the
redeemer from primitive orality, and, in alphabetic apotheosis, the all-conquering
hero of the west’s civilising mission. This epic tale, pervasive as it still remains, is
now under attack from many directions, not least in the expanding work on
multiple literacy practices (Finnegan 2003, p. 7).
La visione “stretta” dell’alfabetizzazione non permette la comprensione di una
serie
di
pratiche
associate
all’ambiente
multimodale
e
multimediale
contemporaneo. La produzione di “testi” in lingua dei segni offre un solido
argomento in supporto a questa tesi. Il testo videoregistrato manca, se interpretato
in accordo con la visione “stretta” dell’alfabetizzazione, di un secondo livello di
codifica del messaggio: laddove la parola parlata è la codifica del pensiero per
mezzo di un significante acustico, la scrittura è una codifica di secondo livello,
per mezzo di simboli grafici, del significante acustico. Poiché il video restituisce il
messaggio nella modalità originaria, esso non implica l’uso di un codice
secondario. Tuttavia, l’innovazione tecnologica costringe a una revisione di cosa
si intenda per “codifica secondaria”. Le competenze richieste dalla produzione di
un messaggio segnato tramite videoregistrazione non si limitano, infatti, alla sola
codifica di questo messaggio per mezzo del sistema simbolico proprio della lingua
dei segni, ma includono, in primo luogo, la conoscenza delle pratiche narrative
(tra le quali il raffinamento e l’ampliamento delle caratteristiche cinematiche del
segnato) (cfr. Sacks 2009, pp. 135-136 e Bauman 2003) e compositive (per
esempio, l’uso di storyboard illustrati) associate alla registrazione di una
performance per il medium filmico, e, in secondo luogo, tutte le necessarie
competenze
linguistiche
(inquadratura,
montaggio)
e
paralinguistiche
101
(distribuzione) relative al mezzo cinematografico. Seguendo la proposta formulata
da Gee (cit. in Czubek 2006, p. 377) di ampliare, in virtù della rilevanza sempre
crescente di contenuti multimediali ibridi nella realtà delle comunicazioni
contemporanee, la comprensione dell’alfabetizzazione oltre i canonici ambiti della
parola parlata e scritta (e stampata), introducendo la nozione di domini semiotici,
ovvero di tutte le pratiche che richiedono l’intervento di una o più modalità (orale,
scritta, visiva, grafica, sonora), Czubek (2006) sostiene l’opportunità, anche
politica, di includere la tecnologizzazione del segnato nell’ambito di queste
molteplici alfabetizzazioni possibili.
102
Conclusioni
Gli usi linguistici legati all’adozione di un medium visuo-gestuale come la
lingua dei segni, e le manifestazioni culturali realizzate attraverso di essa—tanto
quelle evanescenti legate alla tradizione folklorica faccia-a-faccia, quanto quelle
permanenti della (relativamente) recente tradizione “testuale”—sono state
adoperate come banco di prova per testare, in un domino estraneo a quello entro
cui sono convenzionalmente intesi tanto il linguaggio verbale quanto le
manifestazioni culturali umane, l’efficacia delle teorie sull’oralità e dell’ipotesi
dell’alfabetizzazione nel rendere conto dei fenomeni sociali e culturali che
caratterizzano una comunità priva di scrittura come quella dei sordi. Le categorie
del pensiero e dell’espressione orale individuate da Ong (1991) e, in generale, le
ipotesi di funzionamento delle società tradizionali elaborate dagli altri studiosi
coinvolti nello studio dell’oralità (Goody – Watt 1963; McLuhan 1962; Havelock
2005), si sono dimostrate utili da un punto di vista operativo, e l’ipotesi
dell’alfabetizzazione è sembrata idonea a descrivere, per mezzo dell’analogia tra
la tecnologia tipografica e le tecniche di registrazione video, gli effetti della
“testualizzazione” della letteratura in lingua dei segni, ma entrambe si sono
rivelate inadeguate nel rendere conto del differente modello sensoriale associato
alla sordità. Le cause di questa incapacità di fornire un adeguato modello
interpretativo sono state individuate nel fondamento “metafisico”—il radicale
fonocentrismo—che orienta e caratterizza gli studi sull’oralità, e nell’eccessiva
rigidità nell’attribuire all’uso di modalità sensoriali presentate come alternative,
associate al linguaggio e ai mezzi di comunicazione in genere, effetti cognitivi,
tanto individuali quanto sociali (Goody 1989), di portata universale. Il caso della
sordità, in cui una lingua non scritta è percepita attraverso il canale visivo e
articolata per mezzo del corpo, suggerisce a) la necessità di tenere conto delle
specificità culturali nell’attribuzione di valore e significato ai sensi, b) la necessità
di considerare il rapporto tra i sensi, intesi nelle loro funzionalità e potenzialità
biologicamente determinate, e il linguaggio come situato nel corpo, da cui segue
103
c) la necessità di abbandonare la nozione della centralità del suono quale
fondamento del linguaggio, della cognizione e del senso di “presenza” dell’uomo
a se stesso, riconducendo anch’esso al dominio della corporeità in tutte le sue
articolazioni percettive (auditive e visive, senza dubbio, ma anche tattili,
propriocettive e cinestetiche). Il concetto di corp-oralità (McCleary 2003) si
propone come un’alternativa in grado di abbracciare le varie modalità in cui i
sensi interagiscono con il linguaggio, riconfigurando questa relazione non come
pertinente alla sfera di un’astratta razionalità (un prodotto mentale, separato dal
corpo), ma bensì come inevitabilmente situata nel corpo, fondamentale segno di
presenza, e specificamente nelle sue funzionalità motorio-percettive.
Le suggestioni provenienti dallo studio dell’oralità, una volta riconosciuta la
loro necessaria estensione al di là dei fenomeni sonori, rimangono tuttavia
preziose nel fornire un modello di analisi delle interazioni faccia-a-faccia e delle
tradizioni performative (in qualunque modalità esse si articolino), per coglierne
ricorrenze strutturali e stilistiche, oltre a poter dare un significativo contributo, nel
loro approccio mirato a individuare i condizionamenti imposti dalle ideologie
dominanti, nel restituire dignità a manifestazioni culturali non canoniche
marginalizzate e/o stigmatizzate. In modo analogo a quanto avvenuto nel campo
degli studi musicali, dove il ricorso allo studio dell’“oralità” è stato funzionale a
rimuovere l’artificiale, ideologica separazione tra musica “alta” e musica
“popolare” e nel promuovere l’indagine delle complesse interazioni tra le
espressioni formalizzate e quelle improvvisate (Sparti 2007; Caraci Vela 2009),
nel campo dei Deaf studies lo stesso apparato critico può rivelarsi un concreto
supporto nel promuovere la piena dignità delle manifestazioni culturali della
comunità sorda quale oggetto legittimo di indagine della critica letteraria.
D’altra parte, anche la prosecuzione della ricerca sulle relazioni tra il
linguaggio verbale e la sua rappresentazione grafica per mezzo di sistemi di
simboli visivi, e sulle competenze necessarie alla loro effettiva manipolazione,
potrebbe trovare una proficua applicazione nel campo dei Deaf studies,
specialmente per quanto concerne l’elaborazione delle pratiche educative rivolte
agli studenti sordi. Situati in contesti dove il possesso delle abilità legate
104
all’alfabetizzazione è il requisito per una piena partecipazione alla vita sociale—
nonché espressione di dinamiche di potere, l’acquisizione delle competenze
cognitive necessarie all'alfabetizzazione è un obiettivo di primaria importanza
anche per gli individui sordi. L’assenza di un sistema di scrittura W1 legato alla L1
visiva, gestuale, e cinetica, e le particolari caratteristiche linguistiche, discorsive,
paralinguistiche e stilistiche a essa associate, sono gli elementi che rendono
particolarmente difficoltoso l’apprendimento dei sistemi di scrittura legati a una
L2 esistente in una modalità inaccessibile al sordo. Tuttavia, una migliore
comprensione dei processi implicati nel passaggio tra i due codici orale e scritto,
unita alla consapevolezza di quelli connessi all’uso di una lingua visivo-gestuale,
potrebbe permettere di individuare strategie didattiche dirette a individui
bilingui/biculturali sempre più efficaci e in grado di facilitare un adeguato
trasferimento di competenze tra le diverse modalità di espressione.
Infine, così come si è riconosciuta l’esistenza dell’oralità in una molteplicità di
modalità e nell’attuazione di pratiche comunicative che non sono solo verbali—
ma, suggerisce Finnegan, “multiplex—multimodal, multi-media” (2003, p. 11), e
potenzialmente in grado di andare anche oltre il linguaggio così come viene
convenzionalmente inteso 79 —lo studio della sordità può dare impulso a una
ridefinizione dell’alfabetizzazione, suggerendo come anch’essa esista in una
molteplicità di modalità, media, e domini semiotici (Czubek 2006) e sia
interpretabile in una serie di competenze cognitive che vadano oltre la capacità di
manipolare simboli grafici in relazione al linguaggio verbale. In questo senso, è
stato introdotto il concetto di signacy (Nover – Christensen – Cheng 1998),
attraverso il quale indicare le competenze cognitive e linguistiche necessarie alla
manipolazione e alla decodifica di significanti visivi, gestuali e cinetici, e allo
stesso tempo proporre un framework educativo specificatamente disegnato per
accomodare le esigenze di individui bilingui/biculturali.
79
L’espressione orale, nelle sue articolazioni multimodali, “may be verbal but is emphatically not
just verbal; and […] one reason this has so often been overlooked is the potent western ideology
privileging linguistic expression”. L’iconicità del linguaggio segnato e la sinestesia in quello
verbale sono due fenomeni che suggeriscono come esista un livello “altro” rispetto all’espressione
linguistica, eppure a essa intimamente legato.
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