I Il corpo della ragazza era avvolto dalla nebbia

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I Il corpo della ragazza era avvolto dalla nebbia
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Il corpo della ragazza era avvolto dalla nebbia.
Considerato il pessimo spettacolo, al commissario
Stefano Cuscev quasi non dispiaceva di dover socchiudere gli occhi per mettere a fuoco. Gli sembrava
di guardare attraverso un velo bianco. Guardò in alto
e capì che presto i raggi di sole sarebbero riusciti a
perforare la densa cortina. La temperatura di quella
notte di fine novembre era stata glaciale. Se qualcuno
avesse avuto la stupida idea di trascorrerla fuori casa,
probabilmente si sarebbe imbattuto in branchi di lupi
alla ricerca di carcasse. Ma ormai il buio caliginoso
stava per lasciare il campo a un’altra giornata limpida.
– Tra un po’ la foschia si alzerà, – sostenne Cuscev
con un filo di voce.
– Già, – concordò l’agente Giacomo Rubini che,
per la sua passione per il black jack, era soprannominato ‘Jack’ anche se non ci giocava mai perché non
poteva. Dava da mangiare a una moglie, due figli, un
cane e un pappagallo, e lo spessore del suo portafoglio era uguale a una di quelle foglie che cadevano
dagli alberi in autunno. Però in quel gioco era un vero
maestro, tanto da conoscere a memoria tutte le statistiche sulle uscite delle carte.
– Già, – fece eco l’agente Rebecca Silvestrini, detto
l’‘angelo del commissariato’. I colleghi maschi erano
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invidiosi e pronti a scommettere sulla propria madre
che lei eseguiva tutti quegli arresti solo perché ai
delinquenti sbatteva in faccia una sua foto in topless.
I furfanti incrociavano gli occhi davanti a tanta grazia di Dio e allora lei faceva scattare i bracciali ai
polsi. Ma la storiella reggeva poco, visto che Rebecca
Silvestrini sbatteva in galera anche le donne.
– Dobbiamo toglierla dalla vista. Oltretutto, non mi
dispiacerebbe ridare a questa poveretta un po’ di dignità, – aggiunse il commissario.
– Forse è meglio, – ammise Jack.
– Sì, forse è meglio, – incalzò Rebecca.
Cuscev infilò le mani nelle tasche del cappotto per
proteggersi dal freddo e guardò i due in cagnesco. Li
conosceva da pochi giorni, ma erano stati sufficienti
per poterli definire originali. In certi frangenti, uno
tendeva a ripetere quello che aveva appena detto l’altro. Jack diceva qualcosa e Rebecca la riproponeva o
viceversa. A volte si prendevano la licenza di aggiungere una parola. Se diventavano due, Cuscev era disposto a proclamare la giornata nazionale dell’originalità. Però erano ottimi poliziotti, e lui lo aveva
intuito immediatamente.
– Bene. Se siete d’accordo, – osservò con sarcasmo – perché non fate qualcosa?
– Giusto, facciamo qualcosa, – annuì Jack, accigliato.
– Copriamo la scena con un telone, – propose Rebecca.
Dopo quelle due dichiarazioni così diverse tra
loro, Cuscev, pur incredulo, si sentì pronto a proclamare la giornata nazionale dell’originalità.
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Si guardò intorno per cercare degli appigli, dove
fissare le estremità di un telo capace di coprire la
scena, ma la nebbia rendeva arduo quel compito. Ci
ragionò su e dopo dispose: – Fissate due angoli al muro con dei chiodi, a tre metri d’altezza. Uno legatelo al
palo di quel divieto di sosta e l’altro... Non riusciva a
vedere dove poter legare la quarta estremità.
Rebecca scese dal marciapiede e quasi sparì dalla
vista. Poi tornò sui suoi passi.
– A dieci metri da qui c’è un cartellone pubblicitario che fa al caso nostro. Fissiamo l’angolo del telone a una corda e leghiamola laggiù.
– Chiamate il commissariato e fatevi portare il necessario, – aggiunse Cuscev.
– Capo, è dall’altra parte della strada, – osservò Rebecca.
– Già, dall’altra parte, – aggiunse Jack. Annullata
la giornata nazionale sull’originalità.
Questo fatto dava molto da pensare, a Cuscev.
Avevano lasciato la ragazza a due passi dal commissariato dove lui si era trasferito di recente, in una via
interna della Tuscolana. A trovarla era stato un agente, mentre andava a recuperare la sua auto al termine
del turno di notte. Azzardò tre ipotesi: un messaggio,
uno sfregio o semplice casualità.
– Jack, vai a prendere il necessario, – ordinò riavvicinandosi all’auto.
Il corpo era riverso sulla macchina. La ragazza, o
meglio, il suo cadavere, giaceva in posizione prona
sul tetto dell’auto. Aveva le braccia aperte perché i
polsi erano legati alle maniglie degli sportelli con il
filo di ferro. Le gambe, che cadevano lungo il para15
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brezza anteriore, erano invece divaricate e legate al
paraurti davanti. Indosso aveva ormai pochi lembi di
vestiti. La biancheria intima, ridottissima e bianca,
era in bella vista, come inevitabilmente le sue grazie
e i profondi morsi sulla sua carnagione color ebano,
di un corpo da urlo. Morale chiara anche a un cieco:
si doveva trovare esattamente così. Cuscev restrinse
le ipotesi: messaggio o sfregio. Niente casualità.
Il funzionario della scientifica, Forleo, e un suo
collaboratore erano impegnati nei rilevamenti.
Infilati nelle tute bianche e imbacuccati piedi e testa,
sembrava stessero eseguendo test di laboratorio su
qualche virus letale. Armeggiavano sul corpo e all’interno della macchina con le mani fasciate dai guanti,
muovendosi con tale disinvoltura da far credere che
quello fosse il loro abbigliamento abituale.
– Ha trovato qualcosa? – chiese il commissario. Rebecca era vicino a lui.
– Strangolata, commissario, – decretò Forleo. – Età
tra i venticinque e i trenta. Presa a morsi con la furia
di un cane idrofobo, ma non è stato un animale, questa è opera di un uomo. Se così si può chiamare uno
che fa certe cose. Credo abbia infierito su di lei quando era già cadavere. L’autopsia lo dirà. Il corpo e l’interno dell’auto emanano un forte odore di disinfettante. Sul cadavere è stata praticata un’abbondante
spugnatura, per cui niente saliva sui morsi. Addio
DNA.
Rebecca scosse la testa.
– Siamo in grado di consultare un dentista per
avere il calco dei denti? – chiese Cuscev.
– Certo.
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– Ha già capito di che disinfettante stiamo parlando?
– Di quelli che si usano nelle sale operatorie, credo.
– Da quanto è morta?
Forleo serrò le labbra e, per rispondere, interruppe
la sua meticolosa attività. – Difficile a dirsi. Il freddo
fa strani scherzi. Può essere da cinque ore come dieci.
Dipende da quanto tempo l’hanno lasciata qua fuori.
Le saprò dire. Ma certo qui ce l’hanno messa quando
era già morta.
– Questo è evidente, – commentò Cuscev – sull’auto non ci sono macchie di sangue.
Forleo si stupì della sua deduzione da esperto. –
Sta cominciando a districarsi in mezzo a queste belle
scenette. – Si riferiva al fatto che Cuscev, prima di
insediarsi al Tuscolano, aveva esercitato per alcuni
anni al commissariato dei Parioli, detto il residence.
Laggiù non aveva avuto modo di sviluppare fiuto
investigativo su morti violente, stupri o rapine a mano armata. L’unico omicidio sul quale aveva dovuto
indagare era stato quello di Silvia Angelini, sua ex
ragazza. Per il resto si era occupato di argenteria sparita, pizzicotti sui sederi delle fanciulle ai semafori e
qualche furto d’appartamento. Con Forleo si erano
conosciuti in quella circostanza.
– Non serve un esperto per capirlo.
Forleo sospirò. – È vero, ma a lei chi glielo ha
fatto fare di venire quaggiù?
Cuscev rispose muovendo la mano come per scansare la nebbia. Forse cominciava a domandarselo
anche lui. In tutto il tempo che aveva lavorato al resi-
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dence i reati su cui aveva indagato erano così puerili
da fare quasi tenerezza ai giudici che dovevano condannare il colpevole, fino a quando si è trovato davanti al cadavere di Silvia Angelini e ha dovuto frequentare l’ambiente in cui era vissuta. Allora aveva
preso la sua decisione in un lampo: combattere la criminalità e tutelare i diritti di cittadini semplici. Gente
che fatica a pagare le bollette o ad arrivare a fine
mese con lo stipendio.
Ora quella ragazza di colore. Doveva essere stata
bellissima.
Riversa sull’auto, la povera donna aveva gli occhi
leggermente aperti o forse sarebbe meglio dire leggermente chiusi. Come se non volesse vedere quello
che le avevano fatto, ma il sopraggiunto rigor mortis
glielo avesse impedito.
– Poveraccia. – Il commento di Rebecca fu poco
più di un sussurro, ma sufficiente a destarlo dai suoi
pensieri.
– La conoscevi? – chiese.
La donna fece un debole segno di no. Lei e Jack
lavoravano sulle strade del quartiere da così tanto
tempo che ormai conoscevano anche la composizione familiare di tutti i topi intorno ai cassonetti. – Non
era di queste parti.
– Niente documenti, ovviamente. – Cuscev fece
quella deduzione a beneficio di Forleo, il quale si trovava dall’altro lato della vettura.
– Il pezzo di stoffa più grande che ha ancora
indosso questa disgraziata non è grande a sufficienza
per contenerli, commissario.
– Borsa? Documenti dell’auto?
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– Niente. La macchina sembra appena uscita dalla
lavanderia, – rispose il tecnico, mentre scattava delle
fotografie.
Cuscev annuì. La nebbia si stava diradando e
lui cominciò a innervosirsi. Ma in quel momento
vide spuntare dalla foschia Jack e un altro poliziotto.
– Fate in fretta, – ordinò.
Rebecca, Jack e l’altro uomo si misero a lavorare
di buona lena e in pochi minuti un telone giallo copriva la scena del delitto. Intorno disposero alcune
volanti, mentre il tratto di strada era già stato transennato.
Un effimero tentativo per conferire dignità alla
giovane.
Cuscev continuava a osservarla. Per quanto la
morte ne avesse deformato l’espressione, il viso era
ancora modellato con i tratti di una bellezza generosa o era solo la pietà che provava per lei a mostrarla
in quel modo?
Perché denudarla quasi completamente, perché
morderla?
– Hanno proprio voluto infierire. – Il commento di
Rebecca gli fu di risposta. Pensò che se Jack avesse
fatto il verso alla collega anche in quel momento, lui
gli avrebbe ficcato due dita nel naso e se lo sarebbe
portato a spasso per tutta la città.
– Chiederò ai colleghi di altri commissariati di
fare un salto al laboratorio, – disse invece Jack. –
Vediamo se qualcuno la riconosce. Sono sicuro di sì.
Cuscev fissò il suo uomo, – Perché?
– Guardi le mani.
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Lui si avvicinò alla macchina ancora di più. I palmi
delle mani della donna erano aperti e poggiati sulla
lamiera, il filo di ferro aveva prodotto solchi profondi
sui polsi. Però non fu su questo particolare che egli concentrò la sua attenzione. Aveva unghie lunghe e squadrate, ma anche un cieco si sarebbe accorto che erano
finte. Smalto rosa e neanche una rotta. Annuì.
– Sembra ben curata, ma sono convinto che faceva la vita per vivere. Magari era d’alto bordo, – dedusse Jack.
– Già. Lo credo anch’io, – aggiunse Rebecca.
– Jack si spinse un po’ più avanti in quel ragionamento. – Se così è: uno, qualche collega me lo confermerà...
– Due, chi l’ha ammazzata conosceva la vittima, –
proseguì Rebecca.
– E sapeva che doveva essere una da cinquecento
euro al colpo, ma soprattutto ‘pulita’, – completò il collega.
– Drogata o piena di sonnifero quando l’hanno
strozzata.
– In ogni caso, o chi l’ha ammazzata la conosceva
molto bene o è un vero pazzo, – finì l’agente scelto
Giacomo Rubini.
– A causa dei morsi? – chiese Cuscev.
– Con tutto quest’Aids che gira, lei si metterebbe
a mordere qualcuno che non conosce? Cinquanta
milioni di sieropositivi a oggi. Rapportati alla popolazione che si scanna sulla terra ogni santo giorno fa
quasi l’uno per cento. Lo correrebbe questo rischio?
– No. Ma se anch’io fossi sieropositivo o con la malattia conclamata?
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Jack e Rebecca si voltarono simultaneamente dalla sua parte, come se lo vedessero per la prima volta.
Evidentemente le loro riflessioni non li avevano condotti a una tale ipotesi. Il novello commissario Stefano Cuscev, fresco d’incarico, aveva conquistato diversi punti sulla loro hit parade.
– Quindi, secondo voi, chi la conosceva sapeva
che era una prostituta di alto livello ma anche che era
un soggetto sano. La donna non ha opposto resistenza e, se ti stanno strangolando ma non cerchi di difenderti, vuol dire che sei drogato o mezzo addormentato,
– riassunse Cuscev.
– Mezzo addormentato! – esclamò Rebecca strabuzzando gli occhi.
– Significa che ronfi come un orso in letargo o hai in
corpo un ettaro di campo colombiano. Ecco che significa, – incalzò il suo collega con uno sbuffo finale.
– Tutto questo, se è vera l’ipotesi che questa poveretta facesse la prostituta, – Cuscev lo puntualizzò
più per se stesso che per gli altri. Nel costruire ipotesi c’era sempre andato con i piedi di piombo. Se quella ragazza faceva davvero la vita era ancora da dimostrare, e puntare solo su quella pista significava
restringere pericolosamente il campo delle indagini.
Un grosso errore.
– Io mi sento di essere abbastanza d’accordo con
la loro ipotesi, – s’intromise Forleo, immerso con la
testa nell’abitacolo. Teneva in mano un paio di pinzette. Ogni pelo, filo o fibra di tessuto trovati su sedili o tappetini, sarebbe finito in un sacchetto di plastica. Ma sembrava esserci davvero poco.
– Perché? – chiese il commissario.
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Forleo si tirò su e inspirò profondamente, risucchiando qualche litro di nebbia. – Più che altro per le
sensazioni che mi suscita la scena. Ci sono tanti particolari che danno questa sensazione, ancora di più se
valutati nel quadro d’insieme. Corpo ben curato, le
unghie, biancheria ridottissima e di certo costosa.
Anche se non è detto. Magari stava andando a un
appuntamento col suo uomo.
– Chissà che non sia stato proprio lui, – commentò
Rebecca.
– In ogni caso, se ha fatto tutto da solo, è un tipo
piuttosto robusto o è un pazzo oppure un soggetto
lucidissimo, – aggiunse Cuscev e poi chiarì meglio il
suo pensiero. – Se questa notte non fosse calata questa nebbia così fitta, come avrebbe fatto a organizzare questa bella scenetta a due passi da noi? L’avrebbe
lasciata da qualche altra parte? Oppure è un tale cinico programmatore da aspettare le condizioni giuste
del tempo? A pensarci meglio non mi sembra proprio
che sia uno psicopatico. Magari lo vuole lasciare intendere, ma a me sembra invece molto lucido e organizzato.
– Sono dello stesso avviso, ma una cosa è certa.
Beccheremo quell’animale, – dichiarò Jack, voltandosi verso Rebecca. – Che dici socia?
– Ci puoi scommettere lo stipendio da qui a Pasqua.
– A proposito di Pasqua, lo sai che disse Gesù alla
Maddalena? – chiese l’uomo alla collega.
Cuscev gli scoccò un’occhiata così torva che Jack
si zittì all’istante.
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