Dipartimento di Progettazione e Scienze dell`Architettura
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Università degli Studi Roma Tre - Dipartimento di Progettazione e Scienze dell’Architettura (DipSA) - Laboratorio Tecnologie dell’Informazione per il Progetto Urbano Sostenibile (TIPUS ex CAAD) - Dottorato Sviluppo Urbano Sostenibile - Master Progettazione Interattiva Sostenibile e Multimedialità (PISM) A cura di Alessandro Giangrande Elena Mortola Progetto grafico e impaginazione a cura del Laboratorio TIPUS (ex CAAD): Tatjana Todorovic UNI V E RS IT À D E G L I S T UD I RO M A T RE - F A C O LT À D I AR CHI T E T T U RA Dipartimento di Progettazione e Scienze dell’Architettura (DipSA) Dottorato in Sviluppo Urbano Sostenibile Master in Progettazione Interattiva Sostenibile e Multimedialità Progetto di sviluppo di Ateneo UNIVERSITÀ NELLA CITTÀ ARCHITETTURA, COMUNITÀ e PARTECIPAZIONE: quale LINGUAGGIO? Copyright © MMIII ARACNE EDITRICE S.r.l. 00173 Roma, via Raffaele Garofalo, 133 a/b tel. (06) 72672233 telefax 72672222 www.aracne–editrice.it e–mail: info@aracne–editrice.it ISBN: 88–7999–516–2 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: luglio 2003 2 INDICE Dissolti i presupposti su cui si fondava la società tradizionale, quale Comunità è oggi possibile? Ha ancora senso parlare di progettazione partecipata per la metropoli, dove “sono il consumo e il conflitto a stabilire le relazioni sociali” (Ilardi)? Presentazione, Prof. Vieri Quilici, direttore del DiPSA La partecipazione in assenza di comunità, Alessandro Giangrande Il progetto: uno strumento per destabilizzare, Massimo Ilardi Partecipazione e progetto nelle trasformazioni urbane - Il progetto di Partecipazione nel Conteratto di Quartiere Quattrograne Ovest ad Avellino, Massimo Bastiani Per una comunità despazializzata, Bianca Bottero Il laboratorio di progettazione partecipata di Via Maratta 3, Anna Delera Periferie urbane, comunità urbane, partecipazione al progetto, Mauro Giusti Colonie interattive per 15.000 abitanti, Progetto per la realizzazione di nuovi quartieri periferici, Luigi Centola Architettura / partecipazione / super - linguaggio, Cinzia Farina Strategie di ricostruzione post-catastrofe: costruzione partecipata e autocostruzione, Paolo Matteuzzi Partecipazione e comunità multietnica: applicazione di un modello di pianificazione/progettazione sostenibile per un luogo d’incontro, Tommaso Mele 5 7 11 13 16 18 19 23 26 30 35 Alcuni architetti sperano di arginare il dilagare delle forme arbitrarie, monotone e sgradevoli dell’epoca della globalizzazione con la propria creatività, con un linguaggio (stile) personale. Con quali risultati? Può avere speranza di successo il progetto di C. Alexander, teso a ripristinare la qualità dei luoghi con l’ausilio del Pattern Language? Two languages for architecture, Nikos Salingaros Appartengo al disordine, Fulvio Leoni Metropoli / Linguaggi / Rappresentazione, Ghisi Grütter Linguaggio e micro ecologia sociale, Rita Micarelli Linguaggio e percezione sociale del paesaggio, Giorgio Pizziolo Comunità e Linguaggio, Sviluppo evolutivo tra “città spontanea” e “città pianificata”, Francesca Sartogo Partecipazione e promozione sociale nelle politiche di rigenerazione urbana: il ruolo del capitale sociale, Dario Padovan Il linguaggio architettonico tra globalizzazione e individualismo: il tema del progetto locale attraverso agenda21, Alessandra Carlini Il Pattern Language come forma di espressione organica, Antonio Caperna Valori storici e coscienza comunitaria nel linguaggio architettonico, Luigi Ciotti I patterns riorientati. Un linguaggio di pianificazione e progettazione strategica sostenibile, Fausta Mecarelli Architettura storica - architettura partecipata. Un’esperienza in ambito ligure, Daniela Pittaluga Da linguaggio architettonico a forma mentis sostenibile, Marco Felici I linguaggi della città sostenibile, Barbara Del Brocco 41 46 48 51 54 57 66 75 79 81 85 89 95 97 La rete internet può favorire la nascita di una nuova forma di Comunità? a quali condizioni? Esistono processi di progettazione partecipata in rete atti a facilitare il dibattito collettivo e l’apprendimento sociale? Come utilizzare la rete per comunicare ed elaborare proposte progettuali capaci di migliorare la sostenibilità ambientale e la qualità dello spazio architettonico? La progettazione ha bisogno della rete?, Elena Mortola Comunità virtuali, agire collettivo e media-ambiente, Marco Nardini Virtual Environments for Collaborative Design, Jelena Petric and Tom Maver Università e territorio. La rappresentazione come strumento di costruzione della comunità e della partecipazione, Micol Ayuso Un’ esperienza a Monti: Una comunità in crescita, Angelica Fortuzzi Il GIS e la rete: strumenti per la partecipazione pubblica, Flavia Serafini A Pattern Language on web - la progettazione partecipata in rete, Tatjana Todorovic, Francesco Ruperto Rappresentazione versus Virtualizzazione, Maurizio Unali 101 113 118 124 129 131 136 140 PRESENTAZIONE: “Lingua” o pluralità di linguaggi? Prof. Vieri Quilici direttore del DiPSA Con tale quesito si intende sottolineare quella che appare la maggiore difficoltà nel cercare di individuare un metodo di progettazione partecipativo condiviso, fon dato sull’acce ttazione di codici se man ti ci e modal ità comun ica ti ve di ffuse e sulle po ten zi alità della rete. I miei dubbi, ad esempio, si riferiscono alla “lingua” dei pattern, formata da figure simboliche archetipiche, in cui ciascuno (ovvero ciascuna “comunità”) si dovrebbe riconoscere, associandovi precisi si gnificati. Appare invece ricca di prospetti ve la riflessi one sulla pluralità dei linguaggi oggi disponibili e della corrispondente varietà di manifestazioni comunicative nell’intreccio neo-babelico che sta via via producendo paesaggi multisenso, mutevoli e continuamente posti in discussione, soggetti quindi a nuove interpretazioni. È impossibile, quanto meno improbabile, che la figura del pattern possa veicolare significati condivisi, vista la natura metastorica del simbolo, utilizzato come tale, avulso cioè dal complesso delle relazioni e dai condizionamenti in cui per ogni situazione si viene a trovare. Visto come pura figura, il simbolo evoca significati per psicologica, mentale associazione di stimoli, più che per asson anza culturale , pe r cor rispond enza stor ica di si tu azi oni, quindi “memoria” di significati. Solo se associato a condizioni relative di tempo e di luogo, il simbolo diven ta veicolo di un partico lare significato. Basti pensare alle figu re del simboli smo classi ci sta per re nder si conto del la varietà e pluralità di significati, anche in opposizione, che esso ha acquisito nel tempo, in rapporto di volta in volta alla tradizione o a un ideale di nuovo ordine sociale. Occorre riflettere sul fatto che le “aree di interesse” in cui si riconoscono i gruppi sociali, obbediscono a regole ciclico-evolutive, pur con radicali cambiamenti di orie nta me nto e ribal ta me nti d i se nso. A sua volta, l’ambi ente urbano si compone di paesaggi che si sovrappongono, creando nuove stratificazioni, e si affiancano creando nuove aggregazioni. O che scompaiono, creando nuove sottrazioni. I linguaggi che corrispondono a tale ordine delle cose utilizzano paradigmi figurativi (metafore) intercambiabili e gli “stili” individuali sono suscettibili di d iversa in terpretazione. Le figure simboliche presenti nei diversi paesaggi acquistano forme, dimensioni, significati in funzione delle connessioni sintattiche che si vengono a creare tra i soggetti e le “cose”. Il relativismo totale in cui ci troviamo ad operare rende quasi indifferente la distinzione tra “locale” e “glo bale ”. Le d isti nzioni n ascon o in virtù deg li sp osta me nti di orientamento, degli spiazzamenti tra i punti di vista dei soggetti e dei gruppi, delle diverse accelerazioni o ritmi che la modificazione materiale dell’ambiente può subire, alle diverse scale e con diver- 5 se impl ica zio ni nei loro rap porti. So lo il lessico dei materiali e delle tecnologie sembra voler rinviare ad una omologazione unificante dei “mezzi”. Sul piano str ettamente prog ettuale, distingue rei tra probl emi di senso e problemi di metodo. Il senso di un progetto non può non derivare dalle relazioni che si instaurano tra le sue pre-visioni e le attese che latenti o meno pre-esistono nell’ambito su cui si interviene. Tali relazioni a loro volta, per tradursi in un rapporto produttivo, in un’ideazione condivisa, non possono non basarsi su di una sor ta d i patto social e tr a il prog etti sta e la comuni tà che attende (implicitamente o esplicitamente) il progetto. Un patto sociale che ha due presupposti. Da una parte è basato sul riconoscimento da parte della comunità non tanto di una delega a decidere affidata al progettista, quanto di una competenza nel comporre gli aspetti “tecnici” dell’ideazione, ivi compresi quelli espressivi (vista da parte del pubblico l’espressione, anche quella estetica, diventa un aspetto “tecnico” del progetto, in quanto questione di linguaggio). Dall’altra è basato sulla volontà-capacità del pr ogettista di compr ende re il con te sto i n cu i si intervi ene, di saperne cogliere le potenzialità, sentirne le attese e in sostanza riuscire, per diverse vie, a dialogare con il “pubblico”, con la pluralità delle voci e delle “cose” destinate ad accogliere le trasformazioni. Volontà-capacità anche di voler attribuire quote di ideazione (sottoforma di adattamento al contesto), già presenti nella definizione tematica de l pr ogetto ed implici tamente necessarie nella fase di gestione dell’opera, una volta realizzata. Patto complesso, difficile da rispettare, ma necessario. I problemi di metodo si riferiscono invece alle modalità con cui si affronta e si sviluppa l’attività progettuale, la sua natura mentaleimmaginativa, la sua appartenenza al mondo delle idee. Anche in questo caso la questione si presenta con due facce, ovvero due momenti, nella successione temporale dell’ideazione. Viene prima un momento individuale, che è quello della competenze, ovvero delle capacità di misurare i vincoli preesistenti nella realtà su cui si interviene, in termini di figurazione, spaziale e costruttiva, di valutazioni delle possibilità, dei margini di libertà di cui potersi avvalere, da tradu rre in org anizzazioni funzio nali, forme, tecniche e materiali. Viene quindi il momento sociale della rappresentazione, ovvero del confronto con la comunità, della verifica della coincidenza tra pre-visione e attese pre-esistenti della realtà data, della comun icazi on e di un ’i dea p er ver ifica rla , p er spe ri me ntar ne l’appartenenza ad una comune e condivisa istanza identitaria. Conflitto o processo graduale e partecipativo? Il patto tra decisori e utenti-cittadini-abitanti è configurabile come condizione di par- tenza, garanzia reciproca di rispetto, regola accettata a priori nel comune convincimento di una utilità sociale superiore o è da considerarsi al più come esito di un conflitto, di uno scontro tra inte ressi diversi solo a posteriori componibili attraverso l’individuazio ne di conseguenze possibili e adozione di un linguaggio comune, con cui intende rsi? La risposta , eviden te men te, dipe nde dall e condizioni culturali con cui si opera ed in cui rientra l’organizza zio ne so ci ale de l pubbl ico. L a “par tecip azione ”, qu ale pr atica sociale diffusa si rende possibili solo a determinate condizioni di contesto, ma diventa essa stessa condizione perché si favorisca e si renda possibile l’alimentazione di una rete complessa di relazioni, un intreccio dialogante al più alto livello di efficacia comuni cati va. All ’intreccio parteci pano i “cittadini”, tutti coloro cioè ch e possono rivendicare il diritto di comunicare e rivendicare un’istanza di benessere. Ma re sta un dubbio : veramente tutti sono “citta dini”, anche gli esclusi da ogni idea rivendicativa di benessere, in qu anto al di so tto della sogli a d i a ppartenenza alla comunità civil e, ovvero appartenenti al cosiddetto “resto del mondo”? Resta una certezza: la nece ssità del progetto. Mi vorrei distinguere dalle posizioni estreme di Ilardi, sostenendo questo punto affermativo, che risale al b isogno antropologico dell’individuo di espr imer si attra ve rso l a comuni cazio ne d ei pr op ri bi sogn i e l’espressio ne delle prop rie asp irazioni riconducibili pur sempre alla natura evolutiva della specie e non ad un concetto generico e aprioristico di “progresso”. 6 Dissolti i presupposti su cui si fondava la società tradizionale, quale Comunità è oggi possibile? Ha ancora senso parlare di progettazione partecipata per la metropoli, dove “sono il consumo e il conflitto a stabilire le relazioni sociali” (Ilardi)? La partecipazione in assenza di comunità Alessandro Giangrande Università Roma Tre DipSA e-mail: [email protected] 1. La crisi della comunità La paro la comun ità evoca in alcuni una sensazione piacevo le. “A chi non piacerebbe vivere tra gente gioviale e di animo buono, di cui pote rsi pienamente fidar e? Pe r noi, in pa rticolare , che viviamo in un’epoca fatta di competitività sfrenata -dove tutti sembrano intenti a curare solo i propri affari e pochissimi sono quelli disposti ad aiutarci, dove la risposta alle nostre invocazioni di aiuto è un invito ad arrangiarci, dove solo le b anche, desiderose unicamente di ipotecare le nostre proprietà, sorridono e sono pronte a dire ‘si’ (e anche questo solo nelle pubblicità ma non nelle filiali) – la parola comunità ha un suono dolcissimo; evoca tutto ciò di cui sentiamo il bisogno e che ci manca per sentirci fiduciosi, tranquilli e sicuri di noi”1 Ma il privilegio di vivere in una comunità richiede sempre un prezzo da pagare: la libertà, intesa come autonomia, diritto all’autoaffermazione, diritto di essere sé stessi. Una comunità capace di dispensare bene e sicurezza esige infatti una lealtà incondizionata e considera ogni altro atteggiamento un imperdonabile atto di tradimento. “Desider i la sicure zza? Cedi la tua libe rtà, o qua nto me no bu ona parte di essa. Desideri la tranquillità? Non fidarti di nessuno al di fuori della comunità. Desideri la reciproca comprensione? Non parlare con gli estranei e non usare lingue straniere. Desideri provare questa pia ce vo le se nsazione di in ti mo ambi ente fa mi liar e? In stal la un’allarme alla porta e un sistema di telecamere nel giardino”2 . La crisi della comunità è tutta qui: ai nostri giorni sembra che le persone non siano più disposte a scambiare la loro libertà – vera o presunta che sia – con i benefici che derivano dal fare parte di una comunità. Al contrario, sono ormai in molti a pensare che la metropoli, con tutta la sua durezza e violenza, sia ancora lo spazio che ci dà la possibilità di essere più liberi .3 Nel corso degli ultimi anni la crisi della comunità si è aggravata ulteriormente perché le classi dominanti, che hanno fatto della liberalizzazione e della deregolamentazione le parole d’ordine e il principio strategico più osannato e pe rse guito, non han no p iù i nte resse a con tro llare stre ttamente o gni mossa d ei p ropri governa ti per costringerli all’obbedienza. Per mantenere l’ordine sociale esse preferiscono poggiarsi su un nuovo fondamento, meno problematico e meno costoso: lo stato di costante precarietà – insicurezza del proprio status sociale, incertezza del futuro e fortissima sensazione di non essere padroni del presente – che impedisce ad ognuno di elaborare e attuare programmi. In questo stato di precarietà generalizzata i legami comunitari appaiono sempre meno indispensabili perché non riescono più a svolgere un ruolo di assicurazione collettiva contro le incertezze vissute a livello individuale . 4 2. Gli abitanti della metropoli sono tutti nichilisti? Le libertà esercitate dall’abitante della metropoli – libertà di occupare e attraversare territori, di consumare, di assumere diverse identità, di non partecipare – rappresentano, secondo Ilardi, una forma di rifiuto rad icale di quel l’ordine sociale che impedisce all’abitante stesso di affermare la propria individualità. Nell’e ser cizio di queste li bertà gli abitanti a giscon o in modo non coordinato, secondo un’ottica nichilista che non ha altri fini se non quello di soddisfare il desiderio individuale di arricchirsi e di consuma re. La metropoli diventa allora lo spazio costruito dall’individuo, uno spazio che si configura come “un insieme di segmenti, traiettorie, linee disegnate dai liberi movimenti dei singoli, che si incontrano e si incrociano creando sincretismi e polifonie che si accendono e si spengo no come cer ini” 5. All’o rdine dell ’agir e po litico suben tra il mercato che fa “dell’assenza di fini comuni, dell’esaltazione dei desideri di ognuno come assoluti e inderogabili, e infine dell’annientamento del senso storico , disertato alla stessa stregua dei valo ri e delle istituzioni sociali, le nuove forme di un ordine astratto che non hanno altro scopo che quello di accrescere le possibilità di raggiungimento dei singoli fini” 6. L’integrazione di individui che perseguono scopi diversi é resa in parte possibile dal mercato, che diventa di fatto “l’istituzione centrale della socializzazione, il luogo della costituzione ‘sociale’ dell’individuo”. 7 L’abitante della metropoli non contesta il mercato: al contrario, ne acce tta l e reg ole (ad e sempio, l ’imp erativo di co nsu mare ) anche quando esse rispecchiano la logica autoreferenziale della produzione capitalistica. La carica eversiva della violenza che è intrinseca al- le “libertà metropolitane” 8 non è rivolta deliberatamente contro chi ge stisce il po tere. Interessati esclusivamente a lla ricerca d el lor o particolare, gli abitanti non sono disposti a lottare con gli altri per la loro vita quotidiana, nè ad avviare un progetto comune per il supe ramento de ll’ordine sociale gerarchico . Come scrive Vaneigem 9 , “manca al nichilismo la coscienza del superamento possibile”. Le “libertà metropolitane” plasmano la struttura fisica e sociale del la metropoli contemporanea, ma non tutti gli abitanti le praticano. A fronte delle persone che amano frequentare gli ipermercati, le foodcourt dei mall o le aree di servizio autostradali e che trovano la loro soddisfazione nel “giovarsi di un contesto sociale senza dover nulla cond ividere con esso, sen za dover mai rischi are di raggi unger e un’integrazione con le tante individualità che provvisoriamente occupano quegli spazi” 10 , ne esistono altre ch e rifuggono da questi non-luoghi (o, se si vuole, iperluoghi, cioè spazi dove “incessantemente è dispiegata la tensione a un meglio sempre nemico del be ne, a uno straordinario quotidiano definitivamente separato dal nor male d elle cose reali” 11 ) e preferiscono frequenta re spazi diversi, forse residuali, dove lo scambio soci ale è però ancora possibile : il negozio sotto casa, la scuola, la chiesa, ecc. Pe r alcuni abita nti, in oltre, il consumo non è necessaria mente u n esercizio “violento” di libertà teso all’affermazione della propria indi vidualità, ma una pratica utile per allacciare nuovi rapporti sociali, di versi da quelli che si sono dissolti assieme alla comunità. Molti abi tanti considerano infatti il consumo uno strumento di socializzazio ne 12 e un’attività che può consentire all’individuo di superare la propria alienazione, di riappropriarsi dello spazio organizzato dalle tec niche di produzione 13. Sotto la spinta di sempre più gravi fenomeni di degr ado ambientale, una esigua minoranza di lor o è anche di sposta a rin unciare al possesso o all ’uso di deter min ati ben i (a d esempio, dell’automobile privata) e selezionare i prodotti da consu mare nel rispetto dei principi del ‘consumo critico’ 14. 3. C’è ancora un futuro per la partecipazione? “Tutti gli abitanti recupereranno l’istinto alla costruzione del proprio spazio e quindi della propria vita. L’architetto, come l’artista, dovrà cambiare mestiere: non sarà più costruttore di forme isolate, ma di ambienti completi, di ‘scenari di un sogno a occhi aperti’. L’architet tura farà così parte di un’attività più estesa e come le altre arti scom parirà a vantaggio di un’attività unitaria che considera l’ambiente urbano come terreno di un gioco di partecipazione” 15 Questo ‘scenario’ è osteggiato da molti architetti che lo considerano un attentato al loro ruolo di progettisti; per altri è soltanto un’utopia che non potrà mai concretizzarsi. Personalmente credo che esistano almeno d ue buone ragioni p er auspicare che esso si realizzi. È sempr e p iù di ffusa la con sa pevol ezza ch e l a r ivital izzazion e dell’ambiente passa anche attraverso quei progetti di micro-riequili brio ambientale che sono essenziali per ridurre il ‘carico’ complessivo dell’ecosistema, la cui attuazione non può essere affidata soltan to ad organismi che operano alla scala planetaria, ma richiede un impegno politico e finanziario che va incentivato e controllato in mo do capillare alla scala locale 16 . In questa prospettiva la partecipazione è indispensabile per generare negli abitanti quel senso di affi - damento che solo può garantire efficacia e continuità alle attività di trasformazione e cura del territorio. La partecipazione, praticata come ‘gioco’ 17, può contribuire a rendere l’abitante sempre più cosciente del suo potenziale di creatività e risvegliare in lui quella volontà di ‘rovesciamento’ (détournement 18) che è essenziale per cambiare il senso di tutto ciò che serve il potere e lo ma ntiene in vita. Scrive Raoul Vaneigem (1967): “la passione del gioco (...) fonda, al di là della sua negatività, una società di partecipazione reale. La prassi ludica implica il rifiuto del capo, il rifiuto del sacrificio, il rifiuto del ruolo, la libertà di realizzazione individuale, la trasparenza dei rapporti sociali”. La partecipazione è l’elemento centrale di questo scenario. Affinchè gli abitanti possano recuperare “l’istinto alla costruzione del proprio spazio e quindi della propria vita” è però necessario che essa non continui ad essere una pratica finalizzata ad attutire i conflitti sociali, a facilitare l’acquisizione di consenso. Al contrario, dovrebbe essere un’attività che impatta in modo dirompente su quelli che sono anche i bersagli dell’agire violento degli abitanti della metropoli: l’ordine sociale gerarchico e gli attuali fondamenti della politica. La coincidenza dei bersagli non deve trarre in inganno. Purtroppo gli abitanti della metropoli non hanno alcun interesse alla partecipazione (una delle libertà metropolitane è la “libertà di non partecipare”). Il desiderio di partecipare implica infatti un rove sciamento di prospettiva, una volontà di valorizzare quei nuclei di radicalità interrotti, emersi nel corso della storia, che non possono far parte del progetto di un individuo nichilista che è “senza memoria, senza storia, senza interessi generali che lo disciplinino, senza valori che non siano quelli riferiti ai suoi utili materiali e particolari19”. 4. Che fare? Lo scenario descritto da Careri (cfr. 3) potrà realizzarsi soltanto se settori sempre più ampi della popolazione si convinceranno che il fine della partecipazione non è resuscitare la comunità tradizionale (che quasi nessuno ormai vuole), ma contribuire a realizzare nuovi spazi e forme di convivenza che non costringano l’individuo a rinunciare alla propria soggettività, a restringere i propri margini di libertà. In questa ottica, q uali sugg erime nti si possono d are a ll’architetto ch e, co n molto ottimismo (e un po’ d’incoscie nza ), si accinge ad operare in un contesto partecipativo? Diversamente da quello che alcuni credono, partecipare a un processo di progettazione non significa per l’abitante rinunciare a priori alle proprie idee o ai propri interessi in omaggio a qualche ideologia buonista e solidarista, bensì rafforzare la propria soggettività. Il progettista/facilitatore – cioè colu i che si fa carico della gesti one dell’intero processo partecipativo e non sol o dell’elabo razione del progetto sotto il profilo tecnico – deve mettere in evidenza le cose che uniscono piuttosto che quelle che dividono e sollecitare i partecipanti a sviluppare un interesse per gli altri, a comprendere le loro esi genze e volizioni; ma deve anche me tterli in guardia che ogni sforzo fatto di interessarci agli altri rischia di fallire se non troviamo in noi stessi la forza di tale interesse: “bisogna che quanto mi lega agli altri appaia attraverso quanto mi lega alla parte più ricca ed esigente della mia volontà di vivere. Non l’inverso. Negli altri è sempre me che io cerco, è il mio arr icchimento, la mia realizzazione. Che ciascuno ne prenda coscienza e il ‘ciascuno per sé’, portato alle sue ultime conse gue nze, sfocer à su l ‘ tutti p er ciascuno ’. L a l ibe rtà dell’uno sarà la libertà di tutti. Una comunità che non si edifichi a parti re d alle esigen ze ind ividual i e dal la l oro dial ettica non può che rafforzare la violenza oppressiva del potere” 20 Ogni interazione con gli abitanti (workshop o altro) deve diventare un’occasione di ‘gioco’ Anche se la leggerezza ludica non va mai disgiunta da uno spirito di organizzazione, da una disciplina; anche se deve esistere un ‘attore’ investito del pote re di decisione, o ccorre che questo potere non sia mai dissociato dai poteri di cui ogni individuo dispone in modo autonomo. Il potere del decisore deve essere il punto di accumulazione di tutte le volontà individuali, il duplicato collettivo di ogni esigenza particolare. Le nozioni di sacrificio e di costrizione devono essere escluse dal ‘gioco’. Quando appare la nozione del sacrificio, il ‘gioco’ si sacralizza, le sue regole diventano riti. Tutte le tecniche usate in un ambiente di sacrificio e di costrizione perdono molta della loro efficacia: solo il carattere ludi co del processo garantisce u n lavoro non alienante e produttivo. Alcune procedure di progettazione partecipata contengono spesso fasi che bene si prestano ad essere svolte come un gioco. A titolo di esempio, basterà citare il metodo Planning for Real (pianificare per davvero) o la procedura di Visoning (costruzione di ‘visioni’ o ‘sce nari futuri’) che è presente in molti metodi di Action Planning 21. Un processo partecipativo ben condotto può anche aiutare gli abitanti ad attuare quel ‘rovesciamento di prospettiva’ che significa in nanzi tutto cessare di vedere le cose con gli occhi degli altri. Si tratta di imparare a prendere solidamente possesso di sé, a scegliersi come punto di partenza e come centro, a fondare tutto sulla soggettività. La maggiori difficoltà che incontra di solito un processo di partecipazione prove ngono dai ‘pote ri forti’, che no n intendono condividere con altri le loro scelte, specialmente quelle che riguardano questioni e interessi di grande rilevanza politica ed economica. Per sperare di contrapporsi con successo a questi poteri, gli abitanti devono acquisire un “insaziabile desiderio di vivere” e una sempre maggiore creatività. “Per povera che sia, la mia creatività mi è guida più sicura di tutte le conoscenze acquisite per costrizione. Nella notte del potere, il suo debole chiarore tiene a distanza le forze ostili: condizionamento culturale, specializzazioni di ogni genere, Weltanschauungen inevitabilmente totalitarie. (...) I gesti che distruggono il potere e i gesti che costruiscono la libera volontà individuale sono gli stessi, ma diversa è la loro portata; come in strategia, la preparazione della difensiva differisce, è ovvio, dalla preparazione dell’offensiva”. Prescindendo dal contesto, non è facile dare dei suggerimenti in merito a come va preparata questa difensiva. Una parte non irrilevante del processo partecipativo auto gestito deve essere speso comun- que per cercare di prevedere quali strategie saranno messe in atto dal potere e per individuare le tattiche più idonee a contrastarle. Uno d ei pr incipi chia ve della partecipazione consiste nell’e vitare ogn i comportamento a uto referenziale : un compor tamento ch e è spesso la regola per molti soggetti che hanno un ruolo istituzionale o che detengono una qua lche for ma pote re (tecn ico, bu rocratico, ecc) nell’ambito del sistema gerarchico. La battaglia contro l’autoreferenzialità si identifica pertanto con quella contro i ruoli, cioè contro quell’immagine che hanno g li altri di noi e al la quale noi siamo fin troppo affezionati, fino a lavorare senza posa per abbe llirla e conservarla, anche a discapito del nostro essere autentico. Questa battaglia, tra le più difficili e incerte, merita in ogni caso di essere combattuta. La sua importanza può essere meglio compresa con l ’aiuto di un esempi o. Si tra tta d el pr ocesso di pro gettazione partecipata che ha consentito, alcuni anni fa, di trasformare via Papareschi, nel quartiere Marconi di Roma, in strada residenziale; un processo a l quale ho p artecipato personalmente nell’ambito delle attività svol te d al Labo rator io Mu nicip ale di Qua rtier e Mar co niOstiense, assieme ad alcuni colleghi e collaboratori dell’Università, funzionari comunali e agli abitanti del quartiere. Gli ‘attori’ hanno agito sostanzialmente in modo collaborativo. I processi d i comu nicazione che han no avuto luo go dur ante lo svolgimento delle attività progettuali hanno portato i partecipanti a condividere sistemi di significati e schemi di riferimento, nonostante le numerose divergenze dovute alla diversità degli interessi e dei sistemi di valori. Il progetto finale non é stato scelto perchè riconosciuto valido in assoluto come mezzo per raggiungere un determinato fine, ma per chè poteva contare sulle mi gliori ragioni gener ate dalla riflessione di tutti coloro che – tecnici e non – avevano contribuito alla sua elaborazione. Il processo di apprendimento sociale che si é sviluppato nel Laboratorio in occasione di questa esperienza progettuale ha contribuito a rimuove re le molte di storsioni della comun icazione ege moni ca che impediscono agli abitanti di riacquistare fiducia nella loro capacità di incidere sulla realtà, di generare nuovo capitale sociale, intellettuale e politico. Questo processo é stato pertanto preliminare per mettere gli abitanti in grado di lottare contro le forme sedimentate di prevaricazione esercitate dai gruppi di potere. Le istituzioni pubbliche che hanno partecipato alle attività di Laboratorio – università, amministrazione comunale, ecc. – non si sono limitate in questo caso a fornire consulenze di carattere tecnico-progettua le o gestional e, ma hanno anche contribuito a rendere efficiente ed efficace il processo di apprendimento sociale collaborativo. A questo fine molti ‘attori’ sono riusciti a ‘mettere tra parentesi’ il loro ruolo tecnico e/o istituzionale e a supera re quell’ autoreferenzialità che in altre occasioni ne aveva condizionato l’azione. Note: 1 Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Editori Laterza, Bari 2001, pp. 4-5. 2 Ivi, p. 6. 3 Cfr. Massimo Ilardi, Intervista (a cura di M. M. Sambo), Sgrunt, n. 5, Università degli Studi Roma Tre, dicembre 2001 - gennaio 2002, p. 6. 4 Cfr. Z. Bauman, op. cit., pp. 39-48. 5 Massimo Ilardi, La politica, il mercato, l’individuo ovvero la chiacchiera, l’ordine, la distruzione, in ‘Attraversamenti’ (a cura di P. Desideri e M. Ilardi), Costa & Nolan, Genova 1997, p. 12. 6 Ivi, p. 10. 7 Ivi, p. 11. 8 “La stessa vita sociale di tutte le grandi città non è più organizzata in grandi classi ideologicamente legate, ma è invece frantumata in piccoli gruppi, in bande, in piccole lobby che hanno ognuna un loro linguaggio, un loro modo di vivere, un loro modo di organizzare interessi che non si integrano assolu tamente ma anzi si scontrano fino ad arrivare a una guerra civile strisciante” (Massimo Ilardi, Intervista (a cura di M. M. Sambo), Sgrunt, n. 5, Università degli Studi Roma Tre, dicembre 2001 - gennaio 2002, p. 4). 9 Roul Vaneigem, Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni, Malatempora, Roma 1999, p. 168 (titolo originale: Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes ganerations, Peter Parker, Paris 1967) 10 Paolo Desideri, Tra nonluoghi e iperluoghi verso una nuova struttura del lo spazio pubblico, in ‘Attraversamenti’ (a cura di P. Desideri e M. Ilardi), Co sta & Nolan, Genova 1997, pp. 20-21. 11 Ivi, p. 24. 12 Secondo Lipovetsky, ad esempio, l’uomo sarebbe un individuo flessibile alla ricerca di sé stesso e del proprio benessere, all’interno di cerchie sociali che si fondano su elementi di condivisione e affinità di tipo estetico, affetti vo ed erotico. Ogni individuo sarebbe allora un narcisista in una perenne in fatuazione relazionale governata dal desiderio di piacere e di sedurre, che trova la sua massima espressione nel consumo in quanto importante strumento di socializzazione. Questo fenomeno di narcisismo collettivo non va peraltro letto in termini negativi, come una perdita per il soggetto, bensì come apertura all’altro, alla contingenza del sociale. Anche se poi, a questa interpretazione in chiave positiva, lo stesso Lipovetsky ne associa un’altra, scorgendo in queste pratiche di consumo il pericolo dello smarrimento esistenziale, del “vuoto in tecnicolor” (cfr. G. Lipovetsky, L’era del vuoto, Luni Editrice, Milano 1995). 13 Le tesi di alcuni sociologi e antropologi contemporanei contrastano con quelle della Scuola di Francoforte o di altri studiosi che, come Braudillard, considerano le pratiche di consumo una minaccia per l’autonomia del soggetto, per la sua interiorità e dunque per la sua stessa libertà. Secondo queste tesi le pratiche di consumo possono essere assimilate a un’attività poie- tica, creativa, di “c ostruzione di sé” (D. Miller , Material Culture and Mass Consumpion, Blackwell Pub., London 1994) nella misura in cui il consumo stesso non viene più limitato allo scambio sul mercato, ma si estende al momento dell’acquisto, dell’uso, alle pratiche di ricontestualizzazione e appropriazione simbolica del bene da parte dell’individuo. Di fatto si riconosce nel consumo una possibile via d’uscita dall’alienazione che ha origine nel momento di produzione industriale: al tradizionale concetto di “autenticità” fondato su un processo di produzione propria (si consuma solo ciò che si produce personalmente, controllando l’intero processo di produz ione), se ne contrappone un altro che si basa sulla capacità di appropriazione simbolica attraverso l’uso, sulla propensione delle merci a staccarsi dal processo produttivo industriale e ad essere personalizzato, riconosciuto come qualcosa di proprio. 14 Sul consumo critico vedi ad esempio i lavori pubblicati dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo: Boycott! Manuale del consumatore etic o (Macro Edizioni, S. Martino di Sarsina 1992) e Nuova guida al consumo critico (E.M.I. della Cooperativa SERMIS, Bologna, 2000). 15 Francesco Careri, Città nomade e urbanismo unitario nella New Babylon di Constant, in ‘I labirinti della metropoli’, pubblicazione realizzata nell’ambito delle iniziative culturali degli studenti finanziate dall’Università degli Studi Roma Tre, Roma, 2001, p. 17. 16 Cfr. Alessandro Giangrande, Sv iluppo sostenibile e metodologie di costruzione sociale del piano, Atti del Convegno ‘I laboratori di quartiere nella città di Roma’, Università degli Studi Roma Tre, Facoltà di Architettura, 5 luglio 1995. 17 L’organizzazione sociale gerarchizzata riserva il gioco all’infanzia, concedendo all’adulto soltanto alcune sue forme falsificate e recuperate quali i giochi televisivi, le elezioni, il casinò, ecc. Come ricorda Vaneigem (op. cit, p. 241), ,”solo la passione del gioco è tale da poter fondare una comunità i cui interessi si identificano con quelli dell’individuo”. 18 “Il détournement è una rimessa in gioco globale, una tecnic a capace di svalorizzare e ricos truire significati. “La due leggi fondamentali del détournement sono la diminuzione d’importanza, fino alla perdita del primo senso di ogni elemento autonomo detourné; e nello stesso tempo, l’organizzazione di un altro insieme significante, che conferisce ad ogni elemento la sua nuova portata” (Debord, Rapporto sulla creazione di situazioni, Torino, El Paso Autoproduzioni Faetherstone 1990). 19 Cfr. Massimo Ilardi, Intervista (a cura di M. M. Sambo), Sgrunt, n. 5, Università degli Studi Roma Tre, dicembre 2001 - gennaio 2002, p. 8. 20 Vaneigem, op. cit, p. 42. 21 Personalmente ho avuto modo più volte di verificare quanto sia importante la procedura di Visioning per coinvolgere maggiormente gli abitanti e potenziarne la creatività. Il progetto: uno strumento per destabilizzare Massimo Ilardi Università di Camerino Facoltà di Architettura [email protected] 1. Se in una società di mercato sono il consumo e il conflitto a produrre relazioni so cial i; e se è pro prio la coincidenza tra socie tà e consumo a rendere endemico il conflitto fino a trasformarlo in una guerra civile strisciante; e se, infine , lo spazio pu bblico della città contemporane a prende forma e se nso, e cioè la sua i ndeterminatezza e la sua contingenza, solo nel momento in cui il consumo e il conflitto stessi lo attraversano; come può allo ra l’i dea di prog etto produrre politica e governo del territorio? Eppure è pro prio da questa carenza di ordine, da que ste ene rgie ‘negative’ che hanno fatto della metropoli, fin dalla sua nascita, la scena dove qu otid ianamente si rappresenta l a crisi d el pr ogetto, che l’istanza stessa del progetto e della sua rappresentazione ha origine e si costituisce. 2. Il progetto urbano è teoria politica. L’interlocutore diretto è il livello del potere. E anche se legato al suo contesto sociale non lo si deve confondere con la ‘questione sociale’. La questione è invece politica: investe direttamente il rapporto tra governanti e governati. La stessa crisi della rappresentanza costringe oggi il progetto a questa sfida, e cioè a produrre decisione politica dentro le opposizioni reali e incomunicabili che attraversano la metropoli contemporanea: tra forme di rappresentabilità e disordine sociale, cooperazione sociale produttiva e consumi individuali, dimensione collettiva e anarchia architettonica, diritto al lavoro e diritto al consumo, agire nella rete e vivere sulla strada, città senza luoghi e quartieri militarizzati. Nella metropoli non c’è più alcuna etica democratica, residenziale come nella Vienna rossa o economica come nella Germania di Martin Wagner, che possa sostituire i conflitti urbani. L’ideologia della città come unità produttiva, come macchina che ripete nei propri meccanismi la realtà dei modi produzione e della loro organizzazione, è sostituita dallo sviluppo delle ‘città di quarzo’ dove sono il controllo su chi vorrebbe consumare e la sicurezza di chi può consumare a disegnare la nuova struttura urbana. Come per l’operaio della città del moderno, il nemico non era il capitale ma il lavoro e l’obiettivo non era la rivoluzione dei mezzi di produzione ma la fine del lavoro; così nemico dei nuovi soggetti sociali non è l’Impero ma gli ostacoli posti al loro movimento e alla loro spinta al consumo. La riduzione dello scarto tr a desideri infiniti e possibilità reali di co nsumo costituisce oggi la posta in gioco dei conflitti metropolitani; ed è questo scarto a trasformare il consumo da puro strumento di socializzazione in mano al mercato a esercizio destabilizzante delle sue regole sociali. 3. La forza del progetto non sta allora nella sua capacità strategica o di sintesi, o nella sua funzione ideologica di prefigurare una forma diversa di città, o di promuovere azioni collettive o patti sociali, ma nel rappresentare al suo interno l’oggettività degli aut aut metropolitani e la decisione su di essi che però non è mai direttamente comunicabile o mediabile con la realtà materiale. Occorre spazzare via due idee inutilmente angosciose. La prima è che i l de stino di una società di mercato sia estr anea al p rogetto: “l’ideologia del progetto è tanto essenziale all’integrazione del capitalismo moderno in tutte le strutture e sovrastrutture dell’esistenza umana, quanto lo è l’illusione di potersi opporre a quel progetto con gli strumenti di una progettazione diversa o di un’antiprogettazzione radicale” (M.Tafuri); la seconda è che tra ordine e disordine ci possa essere mediazione e che, per di più, questa sia originata da un Soggetto istituzio nale o col lettivo. L’ordine è impossibile perché il conflitto sul consumo e la domanda di libertà che non richiede partecipazione ma assenza di impedimenti sono costitutivi dell’ esperienza metropolitana e sono irrisolvibili. Per trasformarsi in una teoria di parte, la decisione del progetto deve prendere altre vie: recidere, innanzitutto, la sua azione da ogni presupposto costruttivo-produttivo e da ogni carica prefigurante-predittiva, e spingerlo a muoversi dentro la crisi della civitas, della sua sfera pubblica e delle sue categorie spaziali. Il progetto non deve essere più produttivo di futuro, non deve più elaborare modelli di produzione. Il senso è dato ora dalla sua origine, e cioè dalla sconnessione sempre presente tra idea e realtà, ed è su questa sconnessione che del inea u n compo rtamento de terminato d a possi bilità real i di conflitto contro l’uniformità dello spazio globalizzato dal mercato. Il progetto diventa allora un’idea che eccede la realtà che vuole modificare. E d è que sta eccede nza , è q uesto valore a disegnare la possibilità di una sfera pubblica dove solo è possibile produrre governo del territorio. Dunque, nessuna congiunzione di opposti, nessuna risoluzione del conflitto, nessuna dialettica che porti al suo annullamento, ma istanza di una dimensione specificatamente politica, possibilità di ordine più che sua fondazione. Una sorta di invito all’azione che, pur dentro i l mercato, si ponga fuori dai processi di standardizzazione vigenti, da quelle architetture high teach o architetture d’arte costruite dal potere economico. Contro queste isol e pa cificate inserite nello spazio omogene o e senza confini del mercato, il progetto si erge a ‘controparte’ e indica, attra verso l’elabo razi one d ella sua ricerca, un con testo materialmente determinato che riconsideri le re altà contingenti e p er nulla universali che si celano dietro categorie unificanti quali quelle della città, dell’arte o dell’architettura stessa; e che, soprattutto, demistifichi quella ideologia urbanistica e archite ttonica ch e tende a dissimulare, cercando di riso lver li in imma gini polivalenti e attr aver so un a comp lessità formale, i dissidi insanabil i e le o pposi zion i real i che attraversa no il territorio metropolitano. Una idea e una pr atica de l pro getto, dun que, come processo che può sovvertire l’ordin e consolidato de lle cose esistenti e condannare al conflitto gli stessi attori istituzionali che ne sono i guardiani, tracciando confini e pro vocando differenze. 5. Il compito a cui viene chi amato oggi i l proge tto ur bano è allor a quello di creare le premesse teoriche e pratiche di una riterritorializ zazione possibile che si opponga ai processi di astrazione, di omo loga zione e di unive rsalizzazione dello spazio e che, evitando comunità tradizionali, territori chiusi, livelli locali di appartenenza, sap pia rispo ndere con successo alla globalizzazione del mercato e al p rimato del l’economico, esercitando tutta la sua p ote nza de ntr o condizioni determinate e concrete. Riconquistare la materialità del territorio, delle relazioni sociali e dei conflitti che lo disegnano è fon damentale in una situazione che vede ormai da molti anni la nostra esperienza passare solo attraverso la mediazione delle immagini. Questa trasformazione che ha investito viole ntemente il nostro sistema percettivo diventa per molti intellettuali il pretesto per evitare il contatto brutale con le cose del mondo, con le opposizioni reali che lo attraversano, anzi è colta come un’occasione per superarle trasportandole all’interno di un sistema fantastico che vede, ad esempio, il morphing, la computer grafic, la new economy come momen ti destabilizzanti dell’ordine costituito. Ma corrono il rischio di scam biare questi che sono gli effetti di un mondo dove l’agire politico si è pericolasamente destrutturato, nelle cause di questa crisi. E allora le conseguenze diventano devastanti: si consuma fino in fondo l’incapacità politica dell’intelletuale di produrre decisioni e antitesi reali a favore, invece, della costruzione di un sistema immaginario e del tutto soggettivo. La ‘ricerca della realtà’ si conclude così appagandosi d ell’a pparen za: “i fatti d ella vi ta rel igiosa, moral e, pol iti ca e scientifica si drappeggiano in panni fantastici, e vengono trattati […] sol tanto come pr etesti per la loro p roduttività artistica o criti ca. In quest’ambito puramente estetico, non sono possibili né decisioni religiose, morali o politiche, né concettualizzazioni scientifiche; al contrario, tutte le distinzioni e le opposizioni oggettive […] vengono trasformate in contrasti estetici e in intrighi r omanzeschi, e ridotte ad esplicare la loro attività all’interno di un’opera d’arte.”(C.Schmitt) A farne l e spese è poi la stessa democrazia che, come metodo di governo esige una partecipazione forte e conflittuale dei diversi attor i soci ali, perden do un punto di riferimento fondamentale come quello politico, si schiaccia tutta sul mercato, diventa virtuale come la sua uguaglianza, la sua legalità e la sua libertà astratta, e produce spazio anonimo e cittadini globali; si modifica in una forma di democrazia indifferenziata, omologante, forma di potere di una maggioranza indistinta, verità un ica che si autocelebra continuamente come valore superiore ma che, in real tà, non è più in grado di garantire alcune rappresentanza e che, proprio per questo, pretende che una morale universale e una indistinta umanità siano l’essenza della politica e del governo della complessità. Partecipazione e progetto nelle trasformazioni urbane Il progetto di Partecipazione nel Contratto di Quartiere Quattrograne Ovest ad Avellino Massimo Bastiani Ecoazioni per uno sviluppo locale sostenibile Via B. Ubaldi, Centro Direzionale Prato 06024, Gubbio (PG) [email protected]; www.ecoazioni.it Premessa La trasformazione progressiva di ogni progetto urbano avviene in base ad un preciso processo di utilizzazione. Il processo di utilizzazione è determinato dalle relazioni sociali e di potere che si sviluppano all’interno di una comunità. La trasformazione per svilupparsi necessita di un qualche tipo di linguaggio attraverso i l qual e gli abitanti pe rsona lizzano il p rogetto, creand o alternative o complementarietà rispetto alle condizioni di partenza. Vi è quindi un progetto di trasformazione spontaneamente condotto dagli abitanti fatto di percorsi e scenari personalizzati. Le molte identità coinvolte nella trasformazione sono spesso prive di legami sociali consolidati e si confrontano e scontrano all’interno di un processo di adattamento dello spazio organizzato. Ed è forse proprio all’interno di questo processo che gli abitanti, da fruitori di un luogo, diventano una comunità. Sviluppando cioè una forma di sub-socialità che deriva non più da origini e tradizioni comuni ma dalla consapevolezza di condividere il destino dello stesso luogo. Questa forma di relazione si manifesta in un rapporto attivo con lo spazio che li circonda poiché “appena gli individui si accostano fan no del sociale e organizzano dei luoghi”1 . L’osservazione del “knowledge”, attraverso il quale si personalizza e modifica un Habitat, può aiutare a capire quale dinamiche regolano il rapporto tra ideazione e fruizione di un progetto. Questo fenomeno è più evidente all’interno dei luoghi espropriati di un’identità e q uando i progetti sono impersonali, come avviene di solito nelle aree marginali e periferiche delle città. Questi spa zi e queste comuni tà si p osso no p erò ricrea re a nche all’interno dei centri storici, a Roma ad esempio nell’antico quartiere di Testaccio vi è il Foro Boario, dove è in corso da anni una microtrasformazione ed un adattamento continuo ad opera di una comunità “in terstiziale”, in movimen to tra gli spazi abbandon ati , nomade e multirazziale. I quartieri periferici con i loro vuoti e con la loro standardizzazione edilizia rendono evidente l’esistenza di una “strategia” e di una precisa intenzionalità nella trasformazione dei luoghi che va ben oltre le regole del pro getto. Questa str ate gia seg ue u na l ogica che mira sempre e comunque, a fare di un luogo il proprio luogo. Considerato inoltre che la marginalità non è più un fenomeno circoscritto “ma è piuttosto intensa e pervasiva” all’interno delle città, se ne può dedurre che attra verso un a rinnovata atten zione a q uesta marginalità si possono provare a comprendere meglio quali saranno gli elementi che regoleranno le trasformazioni e le nuove socialità nelle città del futuro. Tutto ciò anche a dispetto delle nuove tecnologie che diffondono la cultura di massa, ed il pensiero unico, poiché nella città del futuro coesisteranno individui e gruppi di diverse appartenenze etniche e culturali i cui interessi diversificati si potranno sviluppare attraverso la condivisione fisica dei luoghi e la scoperta di nuovi rapporti relazionali. È partendo da questi assunti che con il progetto di parteci pazione per Quattrograne Ovest ad Avellino e successivamente con quello di Tor Bella Monaca 2 a Roma è stato sviluppato un approccio metodologico che avesse nell’ascolto delle comunità, nell’osservazione dei sistemi relazionali e de lle trasformazioni del l oro ha bitat, il suo fondamento. Quattrograne Ovest: un processo di partecipazione Il quartiere di Quattrograne Ovest è stato costruito a seguito del terremoto del 1980 ed è costituito da 14 edifici residenziali divisi in 192 alloggi e da un Centro Sociale, il tutto edificato facendo ricorso a sistemi di edilizia industrializzata “prefabbricazione pesante”. Il Quartiere, inizialmente, sorge con un carattere “di provvisorietà” e di precarietà e l’insediamento in forma stabile degli occupanti fa progressivamente emergere problemi e malfunzionamenti delle strutture edilizie. L’area dove sorge Quattrograne si trova a sud del centro storico di Avellino, in linea d’aria a circa un chilometro, ma di fatto vi è totalmente separata da un punto di vista viario e funzionale. La tariffa dei mezzi pubblici che collegano il quartiere al resto della città è conside rata e xtra urba na. Nel qu artier e e ne lle immedia te ad iacenze mancano anche i più elementari servizi, il centro sociale è di solito chiuso o usato occasionalmente per funzioni religiose. La composizione sociale interna è piu ttosto o mogenea, formata da categorie “disagiate”, con un tasso di disoccupazione tra gli abitanti del 40%. In due edifici sono alloggiate famiglie di zingari. Per la riqua lificazion e dell’insediamento l’Amministrazione locale, ha partecipato ad un Contratto di Quartiere aggiudicandosi il finan- ziamento. Usufruendo della possibilità di sviluppare dei “programmi di sperimentazione” che potessero approfondire dei temi specifici, il Comune di Avellino ha avviato un processo di partecipazione degli a bitanti. Alla par tecipa zio ne si è i nte so ricorre re, pe r crear e un a connessione con un ambito urbano considerato “difficile” e per crea re nuove opportunità da un punto di vista socio economico. Il processo di partecipazione da un punto di vista metodologico si è sviluppato in quattro fasi: Ascoltare per conoscere; Comunicare per pa rtecipare; Partecipare per progettare;P rogettare per realizzar e ed autogestire. La prima fase ha riguardato un’amp ia parte dedica ta all’ascolto e a ll’acquisizione di un lingua ggio co mun e con gli abitanti. Po ich é ogni comunità sviluppa al suo interno uno specifico linguaggio con solidato dall’esperienza invece che dagli schemi imposti. Nell’azione asco ltare per conoscere, è stata effettua ta una lettu ra delle modificazioni spontanee realizzate dagli abitanti nel te mpo “i segni della loro cultura e storia locale” 3. Questa lettura ha fornito un immagine di Quattrograne inusuale che ha aiutato gli stessi abitan ti a riconosce rsi nelle tr asformazion i ed a sentire il lo ro Qua rtier e “meno distante” scoprendo che anche “l’architettura è prima di tutto uno strumento del comportamento degli abitanti e non un oggetto che viene acquistato (o ceduto) casualmente “4 . All’interno di questa parte della ricerca si sono analizzati i percorsi no n codificati ed alternativi, le manipola zion i e le tra sformazi oni, l’appropriazione degli spazi, la trasformazione este rna degli edifici (presidi bioclimatici), ri/uso dei luoghi. La ricerca ha inoltre previsto la realizzazione di questionari e interviste in profondità, al fine di acquisire elementi della storia “narrata” degli abitanti del quartiere, che provenissero dall’interno, da un contorno prossimo e dall’esterno. L’immagine emersa dimostra come da un lato all’interno prevalgano l’esclusione, la mancanza concreta di supporti alla vita di tutti i giorni, e a volte anche la speranza: “Non so se me ne voglio andare dal quartiere, a volte penso di si perché non c’è nien te e a volte penso di no perché sto bene in casa mia” 5 . Negli intervistati che non vivono nel quartiere ma con esso sono in un rapporto di “prossimità”, prevale al contrario l’idea di una comu nità socialmente pericolosa ed inaffidabile: “per migliorare le condi zioni del quartiere bisognerebbe fare una selezione dei residenti: te nere lontani i malviventi; quello purtroppo è diventato un quarti ere ghetto, infatti ci sono zingari, delinquenti e prostitute” 6 . Questo aspetto attiene in verità più ad una fantasia collettiva che al la realtà, visto che anche nella stampa locale parallelamente analiz- za ta nel l’arco di due anni (19 98 – 20 00), pr evalgon o le trage die dell’emarginazione: “Avellino, anziana morta da giorni, ma il figlio di sabile non se ne accorge. L’allarme dei vicini a Quattrograne “7 ma non vi è mai traccia di una particolare pericolosità sociale. Dall’indagine socio economica il re sidente tipo che emerge (quello che per un numero maggiore di ore vive nel quartiere) è donna, casalinga, sopra i 50 anni, di basso grado d’istruzione e passa di preferenza il tempo libero in casa. Il Quartiere è chiaro, qui ndi che nell’immagin e este rna subisce le conseguenze di vere barr iere “mentali” che n el tempo si sono costruite nei confronti degli abitanti. La secon da fase del pro cesso di partecipazione si è occupata più specificatamente della comunicazione finalizzata alla partecipazione. Con l’azione “co mun icar e pe r par tecipar e” si son o avviati tre blocchi d i “partecipazione d’impatto ”. Lo scopo era d i giungere ad una ricognizione dei riferimenti e dei bisogni locali, raccolti anche in maniera emozionale e diretta, in modo da creare l’avvio di successivi “approfondimenti progettuali”. La fase si è sviluppata principalmente con dei laboratori che si sono diretti separatamente a diverse fasce di età, in modo da non inibire i comportamenti dei diversi gruppi. Nei laboratori ed in particolare in quelli con i bambini, l’idea del disagio ha a ssunto u n carattere diffuso. All a ri chie sta di d escrivere il Quartiere i bambini hanno risposto in maniera inequivocabile e severa: se fosse un albero?? “senza foglie”; se fosse una persona? “isolata”; se fosse un cibo?”scaduto”; se fosse un pianeta?? “lontano”. A seguito di questi laboratori si è giunti alla stesura di una carta /mappa di riferimento dei diritti e bisogni. Il coinvolgimento dei bambin i è stato mol to importante perché attraverso di loro è stata superata l’iniziale diffidenza degli adulti. Un aspetto interessante emer so dal lavoro fatto con i giovani del quartiere ha invece riguardato la costruzione di progetti da “fare insieme”, come ad esempio la creazione di un centro multimediale (o mediateca) da realizzarsi all’interno del centro sociale, in modo da formare i ragazzi alla “nuova comunicazione” coinvolgendo anche i giovani non direttamente residenti. L’idea di qu esta ape rtura all’esterno è stata svi luppata attra verso l’organizzazione di “eventi”, tra i quali una serata or ganizzata dall’ Unione Astrofili Napoletani, dedicata all’osservazione delle stelle dal Quartiere ed aperta alla città di Avellino, “al fine di abbattere gli stec cati e dimostrare che di notte si può circolare per Quattrograna” 8 . I laboratori partecipati con gli abitanti adulti sono stati innanzi tutto orientati, attra verso la facilitazi one, a tra sformare l e lamentele in proposte. Tutto ciò attivando un dibattito diretto con l’Ammi nistrazione Comunal e sulle problematiche da loro più sen tite, come ad esempio i criteri di assegnazione dei nuovi alloggi, i problemi legati alle modalità di esecuzione dei lavori e la logistica dei trasferimenti. Nel corso dei laboratori sono state evidenziate alcune “invarianti e condizioni per la trasformazione” e cioè gli aspetti positivi del quartiere, i luoghi, le funzioni, le caratteristiche e tutto ciò che il progetto di riqu alificazione n on dovrebbe cambiare o d ovrebb e tutela re: in sintesi “le regole” del processo di trasformazione Le indicazioni di ordine progettuale e strategico hanno in particolare riguardato: l’organizzazione degli Spazi esterni; l’organizzazione e destinazione dei piani terra e potenzialità imprenditoriali ad essi connesse; la gestione del centro sociale, la manutenzione del quartiere. Il ciclo dei laboratori si è chiuso con un European Awareness Scenario Workshop (EASW) patrocinato dalla E.U. DG XIII dove il programma strategico degli abitanti si è confrontato con rappresentanze di attori locali della città di Avellino, tecnici politici ed imprenditori, in qual che modo direttamente co involti o coi nvolgibili nel futuro del quartiere . La successiva fase di lavoro, “partecipare per progettare” si è orientata alla definizione di maggi or dettaglio di alcuni dei progetti ritenuti prioritari dagli abitanti ed individuati nella fase precedente. I progetti sono stati trattati all’interno di gruppi di approfondimento (focus group) ristretti ad esperti esterni ed abitanti e attraverso riunioni aperte. Il livello d i definizione dei progetti ha riguardato l a stesura di programmi gestibili direttamente dagli abitanti, o comunque con gli abitanti, anche di piccola scala e sfruttando risorse locali. Lo stato di avanzamento dei progetti è stato illustrato pubblicamente su pannelli esposti nel “Centro Sociale “ del quartiere accettando contributi “in progress”. È stato in oltre attivato all’i nte rno del Ce ntro S ociale un Punto di Orientamento Impre nditoriale “POI” do ve degli esperti disponib ili due pomeriggi a settimana hanno supportato le idee imprenditoriali e la creazione d’impresa nel quartiere. Quello dell’occupazionale locale ed il conseguente riuso dei locali ai piani terra degli edifici a fini economici è stato un problema alla cui soluzione è stata data una grande rilevanza. Al fine di impegnare in modo specifico i giovani si è dato anche vita ad u n concorso di idee imprendi tor iali “4 idee per Quattrogran e” aperto a col oro ch e vole sser o re alizzare dell e nu ove attività n el quartiere. Il concorso ha selezionato alcuni progetti ritenuti meritevoli ai quali è stato dato un premio in danaro ed una consulenza gratuita per la loro attivazione. L’ultima fase del progetto ha riguardato infine la “partecipazione per reali zzare e per gesti re”. L’obbi ettivo di un organizzazion e locale degli abitanti si è progressivamente concretizzato con la nascita di un Comitato di Quartiere che si è manifestato un interlocutore deciso e strutturato dell’Amministrazione e dei progettisti. Alla prima riunione con gli abitanti all’inizio del nostro lavoro, parteciparono circa dieci persone e all’ultima organizzata direttamente dal Comitato oltre cento. In concl usione a partir e da questa espe rienza si può quindi affermare ch e un pro getto impostato in manier a convenziona le, cioè senza co involg ere gli ab itanti, n onostante le final ità p osi ti ve , lo espone ad un elevato rischio di rigetto interno, poiché vissuto localmente come una imposizione. Intervenire con la parte cipazione signi fica ricercare un “concre to” adattamento del progetto al con testo locale. Ci ò a parti re dalla ricerca di un linguaggio comune con gli abitanti fino al supporto alla trasformazione, fornendo “strumenti” e lavorando di fatto assieme a loro al progetto e sugli “interstizi” del progetto. Note: 1 Marc Augé - “Non Luoghi” ed. Eleuthera Milano 1999 2 PIC URBAN ITALIA - Sottoprogramma Roma (misura 5). Attivazione di nuclei di autogestione negli edifici di proprietà IACP. Consulenza condotta per Federcasa. 3 Giancarlo Paba – “Luoghi comuni”. Ed Franco Angeli, Milano 1998 4 Lucien Kroll – “Tutto è paesaggio”. Universale di Architettura, Venaria (TO) 1999 5 “Ascoltare per conoscere” - interviste nel Quartiere residente donna, palazzina 15 6 “Ascoltare per conoscere” - intervista ad un conducente della linea di Autobus che passa per il quartiere. 7 Otto pagine - Quotidiano dell’Irpinia -Avellino giugno. 1999 8 “Comunicare per partecipare” , laboratori partecipati – giovane residente di Quattrograne Per una comunità despazializzata Bianca Bottero Laboratorio ABITA Tecnologie e progetto per la sostenibilità degli insediamenti DI.Tec, Politecnico di Milano e-mail [email protected] Introduzione Il mio interesse è rivolto alla discussione del rapporto tra comunità e luogo. È dall’inizio del secolo che il termine “comunità”, contrappo sto a quello di “metropoli”, ha rappresentato uno dei riferimenti concettuali più osteggiati / incensati n el dibatti to sulle mod alità di sviluppo delle città. Si trattava allora di un riferimento a comunità spa zialmente localizzate, o etnicamen te individuate, talchè i l termin e comunità era quasi sinonimo di ambito territoriale conforme. Oggi la despazializzazione indotta dalle reti informatiche e il molti p licarsi dei cosidd etti “n on-l uogh i” (dal le peri fe rie subu rban e a i grandi vuoti nel tessuto lasciati dalle industrie dismesse) rispetto ai quali i comportamenti abitativi rilevati appaiono mobili, nomadi ci e indifferenti, rendono estremamente più precario e impalpabile questo rapporto biunivoco tra una comunità e il suo oikos. È a mio avvi so su ll’azione di p articol ari “ attratto ri”, ad alto valor e simbol ico e di presa sull’immaginario collettivo, che una reidentificazio ne dei soggetti rispetto al luogo può essere perseguita e p otenziata dall e diverse forme di partecipazi one attrave rso l’accen tuazione dell’ interazione delle informazioni. Sempre più spesso nei contesti urbani tali attrattori sono costituiti da elementi di NATURA : acqua, parchi, larghi orizzonti e coinvolgono istanze di creatività e di autoprogettazione. Alcune recenti esperienze possono essere portate a giustificazione dell’assunto. Valore del luogo in una comunità despazializzata La partecipazione è un concetto complesso. Coinvolge aspetti sociali, politico-istituzionali e, ultimi ma certo non meno importanti, di linguaggio e di comunicazione. È prop rio su quest’u ltimo asp etto che è partico larmente centrato l’attuale convegno, che si interroga su come raggiungere e coinvol gere in un progetto collettivo un insieme di persone che è ormai difficile definire “comunità”: se per comunità si intende un nucleo soli dale e or ganizzato su obiettivi e valori convergenti come era per il passato, non solo nel medioevo - tempo per eccellenza di comunità ( o comuni) solidali - ma addirittura fino alla metà dell’ottocento, pri ma dell’esplosione delle città a seguito della industrializzazione. Già negli anni ‘20, Robert E. Park, Ernest W. Burgess e Roderick D. Mckenzie, i famosi sociologi della scuola di Chicago - detta “di eco logia urbana” per la sua attenzione agli effetti concreti che la dimen sione fi sica e geogr afica dello spazio ese rcita sui co mportamenti sociali - notavano come la vita frenetica “drogante” della città avesse ribaltato una serie di valori legati alla localizzazione e ciò agisse soprattutto presso i ceti più edu cati, presso gli inte llettuali. Al contrario, gruppi più poveri, minoranze immigrate, conservavano ancora in parte questi valori, anche per ragioni di sopravvivenza. E più tali valori persistevano ( come nelle comunità giapponesi, negre o anche italiane) meno queste comunità erano esposte alla autodistruzione, al crimine, al vizio.... Ma qui il tema si fa complesso e lo lascio alla riflessione di chi, come molti, ritengono l’assimilazione delle minoranze a costumi e soprattutto a consumi nostri, il modo migliore per promuoverne l’emancipazione. Torn ando a l ling uaggio e al progetto partecipato , si tr atta qu i evidente mente di abbandonare gli schemi disciplin ari rigidi, i modelli autocratici e un po’ “imperialistici” ai quali ci ha abituato il pensiero del Moderno. Di fronte allo scacco di molti di quei modelli, alla impermeabilità che si è creata tra linguaggio tecnico e parlare comune, basato su una esperienza viva, reale anche se ancora “non razionalizzata”( scrive l’epistemologo Bill Hillier: la gente, quando dice qualcosa riguardo al suo spazio intende comunicarci qualcosa di imp ortante : bisognere bbe saper interpr eta re...) si tra tta q uindi di riattivare una capacità di ascolto, un atteggiamento quasi etnologico , da bricoleur ( come sug geriva Levi Strauss) p iuttosto che da scienziato. È questo, paradossalmente, un programma scientifico affascinante, che richiede però tempo, p azien za e p erseveran za e che non può mirare o richiedere una legittimazione in risultati immediati, se non indiziari..... Ma nel termine partecipazione è contenuto anche, alla lettera, il termine azione. È l’azione, la conflittualità con lo status quo che rende la partecipazione un formidabile strumento di autoemancipazione, un bacino di potenziale creatività. Negli anni ‘60/’70 la conflittualità sullo spazio urbano, le droit à la ville di Lefébvre e dei situazionisti francesi, le lotte delle minoranze negre dei ghetti delle città americane investiti dai processi di renewal, le lotte per la casa in Italia crearono solidarietà e partecipazione al di fuori dagli stretti ambiti del quartiere. Non si ebbero in quei casi se non raramente azioni “costruttive” (diverso sarà negli anni ‘80 il caso di Berlino, dove i movimenti par tecipativi e conflittuali seppero anche esprimere alti livelli di creatività e di autoorganizzazione dei propri spazi di vita) ma furono importantissimi per la demistificazio- ne della neutralità dello spazio urbano e per la rivendicazione a un uso li bero ed egu alitari o de lla ci ttà ( va ricord ato che il discorso marxista aveva fino allora ignorato l’oppression e esercitata a ttraver so il co man do sull a macch ina urbana e attra ver so i con sumi, considerati momenti “sovrastrutturali”). Cosa è rimasto di quelle iniziative? Molti assetti istituzionali ne hanno assunto le istanze all’interno dei processi di piano. E io credo che questo sia stato un passaggio importante che ha portato a una modernizza zione dell ’azio ne pu bblica di progra mmazi one e di intervento , soprattutto in una tradizione legislativa come qualla dell’Europa continentale che è, a differenza di quella anglosassone, lontanissima dal riconoscere i diritti degli individui, se non delegati e mediati attraverso i canali partitici. In Italia anche questo parziale obiettivo è però ancora lontano. Con la legge Gui del ‘75, per esempio, si sono sì istituiti i Consigli Circoscrizionali, nei quali doveva svolgersi, in forme decentrate, la partecipazione dei cittadini al governo della città. Ma - e qui faccio riferimento a Milano, che è una realtà che ho studiato- di fatto queste circoscrizio ni sono state definite in termini non o rganici, co n confini troppo casuali, sono troppo grandi (100.000 e più person e)...Così che, di fatto, i Consigli di Circoscrizione si sono ridotti a parlamentini, ancora dominati dai partiti, con scarsissima decisionalità e con il quasi unico effetto di “depotenziare” e “delegittimare” le organizzazioni spontanee dei cittadini che si erano in precedenza costituite. Ma, come poi dirò, tali organizzazioni spontanee di cittadini inaspettatamente rinascono... e, in fondo, anche la partecipazione di matrice istituzionale, che viene riproposta ora in tutti quei nuovi strumen- ti di intervento che si stanno ora sperimentando ( Contratti di Quartiere, Prusst, etc.), potrà svolg ere in fu turo un r uolo utile, al quale non ha senso opporre pregiudiziali disciplina ri anacronistiche e, a questo punto, assolutamente ingiustificate. Non si tratta quindi, ora, di mettere in discussione la validità o l’importanza della partecipazione, ma piuttosto si tratta, data la problematicità di definire un contesto comunitario in qualche modo “naturale”, mero corollario a ambiti spaziali specifici, di affrontare le forme e i modi con cui attuarla affinchè non si riduca a mero strumento di consenso istituzionale o, d’altro canto, mezzo di affermazione egoista di diritti troppo “localistici”. Ebbene, io credo che a ciò, a costituire momento di unificazione comune attorno a interessi condivisi, non solo localistici, possa essere di aiuto, oltre che naturalmente la val orizzazione dell’azione diretta, il riferimento a momenti simbolici forti, a valori condivisibili e non immediatamente funzionali. In alcune esperienze svolte dal nostro Laboratorio, non a priori “partecipatorie”, ma comunque connotate da una metodologia partecipatoria, ha per esempio avuto importanza il riferimento a qualcosa di simbolico, di oggi estremamente accattivante, come la NATURA, cioè la vita vegetale, i parchi, gli alberi, la terra, l’acqua... Attorno a questi temi si è consolidato consenso e combattività di gruppi “trasversali” di cittadini non necessariamente identificabili in ambiti spaziali coincidenti. Come, pure, grande importanza ha assunto la difesa di certi luoghi o istituzioni storiche, ricchi di contenuti di MEMORIA anche di natura civica , glorie di una Milano socialista ormai perduta. Il laboratorio di progettazione partecipata di Via Maratta 3 Anna Delera Laboratorio ABITA Tecnologie e progetto per la sostenibilità degli insediamenti DI.Tec, Politecnico di Milano e-mail [email protected] La Regione Lombardia, insieme all’Aler di Milano, a Federcasa e al Politecnico di Milano, ha avviato un Progetto sperimentale di riqua lificazione partecipata delle corti di Via Maratta 3 e di Piazza Monte Falterona 1 e 3 nel Quartiere di Edilizia Residenziale pubblica San Siro a Milano. Il 4 marzo 2002 è stata aperta la sede del Laboratorio di prog ettazione partecipata in un locale posto nell’atrio di via Maratta 3 messo a disposizione dall’Aler di Milano. Nel Laboratorio, coordinato e ge stito dal Laboratorio ABITA del Politecnico di Milano, per un anno si svolgeranno le attività di ascolto e coinvolgimento degli abitanti che porteranno alla realizzazione del progetto preliminare delle corti. L ’importanza di r iquali fi car e gl i spazi aperti co llettivi deg li e difici all’interno dei contesti urbanizzati, i cortili, così come i terrazzi e le facciate delle case, possono rappresentare le occasioni per trasfor mare gli spazi, spesso asfaltati o cementati, in piacevoli oasi verdi. Rinver dire un cortile non si gnifica solo offrire ai suoi utilizzatori un luogo piacevole, ombreggiato e fresco dove trascorrere il tempo li bero nei mesi più caldi, ma anche restituire alla natura ciò che le è sta to sottra tto con il cemento e contribu ire alla ricostruzione dell a “r ete ecologica” de lla città insediando biotopi a nche molto piccol i che, se moltiplicati in esperienze dello stesso tipo, possono contri buire ad un importante miglioramento del microclima e della qualità dell’aria della città. Pe r ra ggiunge re q uesto obiettivo è fo ndamentale che il cittadin o stesso sia il promotore del processo di riqualificazione ambientale e paesaggistica del proprio cortile prendendosi cura in prima persona del piccolo patrimonio comune nel rispetto delle esigenze ricreative e sociali di tutti, con particolare attenzione a quelle dei bambini e de gli anziani. È per questo motivo che il progetto di riqualificazione delle corti oggetto della sperimentazione è proposto all’interno di un Laboratorio di progettazione partecipata. Un Laboratorio di progettazio ne partecipata è un insieme di occasioni e di eventi che si svolgono nei luoghi de ll’abitare riconosciuti come tali da tutte le persone che vivono, operano e si incontrano nel Quartiere o “incontrano” il Quartiere e dalle per sone che “vanno e vengono” dalla città (e dintorni) al Quartiere e viceversa. Le attività del Laboratorio sono la scoperta e l’elaborazione dei valori che emergono dalla percezione e d alla valutazione d el pro prio a bitare e che portano alla man ife stazione dei desi deri e de lle a spi razi oni che ogni abitante può esprimere sulla condizione interna del quartiere e sulla relazione tra il quartiere e i contesti esterni. Lo scopo del Laboratorio a) avviare una sperimentazione integrata dell’abitare e del “progettare insieme” che può costituire il processo di riferimento su cui verificare la sostenibilità e sviluppare i nuovi valori sociali dell’abitare; b) portare a compimento una esperienza progettuale elaborata con la collaborazione di tutti i soggetti coinvolti nel Laboratorio: dagli inquilini agli operatori sociali, dal sindacato, dagli esperti scientifici e tecnici, ai nuovi potenziali soggetti - scuole, formazione professionale, volontariato, ecc - che possono partecipare alla ricerca; c) costituire un caso sperimentale propagandabile in termini di qualità dei risultati raggiunti riferiti: al miglioramento delle condizioni di base dell’abitare (spazi p rivati, spazi sociali, impiantistica ambientale) e della gestione attiva degli ambiti riqualificati; al miglioramento delle opportunità partecipative in termini culturali (di autocoscienza e di propositività) da parte degli abitanti. Periferie urbane, comunità urbane, partecipazione al progetto Mauro Giusti Università di Firenze Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio 1. Nichilismo delle periferie La metropoli è la casa dell’individuo liberato dalla comunità, è il luogo del dispiegamento pieno del malinteso nichilista. La periferia della metropoli, a sua volta, è il luogo dove il carattere paradossale e malinteso del nichilismo co ntemporaneo diventa eclatante, assume dimensioni particolarmente rilevanti – e che inducono alla pietà, alla comp assione. La feli cità apparen te della lib erazi one dell’individuo d ai lega mi comunitari, così come si manifesta nel “centro” della metropoli (più nel centro virtuale e immateriale che nel “centro storico della città”), è del tutto non credibile nei luoghi della marg inalità urb ana, o anche solo nei quartieri “normali” o “medi” della residenza (anche “dignitosa”) ridotta a pura funzione riproduttiva. Per “vivere” si “va in centro” – ma spesso in quel centro diffuso che è la rete telematica, o in un luogo centrale fisicamente periferico come una discoteca, uno sfavillante centro commerciale, un aeroporto, un cinema multisala… La comunità è un intoppo, un i mpiccio, un limite, è il fastidioso portato di una condizione non ancora moderna che ancora ci portiamo appresso, è il rico rdo di una povertà grigia da cui non ci siamo ancora del tutto liber ati – perché sta almeno nel nostro ricordo. E questo è tanto più vero (o almeno così sembra) per chi abita in periferia, specie nei quartieri relativamente recenti di “edilizia economica e popolare”: gente appena inurbata, emigrata da ogni parte d’Italia (e del mondo, ormai), e – soprattutto nei quartieri più duri e difficili – “emigrata” da una qualche condizione di marginalità che viene re-interpretata e ricondotta dal moderno (e non-comunitario) sistema dei servizi sociali all’insieme delle categorie svantag giate: ragazze madri, portatori di handicap ( fisico, psi ch ico ), famiglie nu mer ose, ex ca rce rati, pr ostitute, stranie ri meno trattabili, e così via. Si tratta generalmente di persone in fuga da una condizione per così dire ancora non del tutto moderna – e sotto certi aspetti pienamente comunitaria. In questi quartieri è comune trovare atteggiamenti nichilisti pienamente dispiegati. Il grado zero dell’individualismo senza regole, la manifestazione completa della propensione (ma della velleità, in questi casi) ad affe rma re in primo luogo il pr oprio intere sse a discapito del nemico che è chiunque ci stia attorno si manifesta in molti modi, che si leggono anche nella scarsa cura o talvo lta e persino più spesso nell’aggressività verso il proprio milieu fisico. È sorprendente notare, appena si abbia l’interesse di superare la sog lia di mo lte di qu este case di qu arti eri ma rginali , la cura a volte persino ossessiva posta dai loro abitanti per rendere gradevo le e accoglie nte l’”i nterno ” (sebbe ne co n interven ti che d al punto di vista di un’estetica standardizzata sono spesso patetici) di fronte all’estrema trascuratezza dell’”esterno” (lo spazio pubblico, sia esso la strada, il marciapiede , il parcheggio, il giardino condominiale, le miserabili o invece sempre più spesso pretenziose dotazioni dei giardini pubblici, ma anche la facciata dell’edificio – cioè la faccia esterna della propria casa –, il portone e l’atrio e l’ascensore del palazzo – cioè le vie di accesso alla propria casa – , e così via). La comunità qui non esiste; se non come ricordo di una condizione da cui si fugge. L’altro è il nemico, da chiudere fuori. L’altro è lo specchio di me stesso: lo devo temere perché mi somiglia , so che ha il mio ste sso atteggi ame nto nei confronti dell’esterno – prendere quello che è possibile, difendere ciò che è mio (il poco che è mio). La comunità qui non esiste anche perché le mille comunità da cui provengono le mille famig lie de l qua rtiere hanno usi, tradizi oni, lin guaggi (spesso lingu e), valo ri e riti diversi. Gli a bitanti, qu i, sono frantumi di comunità appena distrutte altrove. Ciò che sembr a aver valor e per me è offensivo p er l’i nqui lin o dell a porta accanto; e io non sopporto gli odori che filtrano dalla sua cucina nel mio salotto (fra i miei ninnoli). Gli sguardi di ammirazione del ragazzo straniero per mia fi glia sono uno sgarbo inso pportabile per me; così come lui non può sopportare la mia gioia – il mio rumore – nel giorno della mia festa, festa che per lui – per la sua religione – è dedicata al raccoglimento, al silenzio. Io ho impiegato tutti i miei sold i pe r comperare un’automobile di lusso, e mi sono anche indebitato, perché mi sembra così di uscire dal ghetto mentale della povertà; ma questo offende il mio vicino, che si è indebitato piuttosto per mandare il figlio mal ato in vacanza, o è disoccupato da mesi. 2. Tracce di comunità nelle periferie I quartieri periferici “duri”, quelli che in ogni città si fregiano di uno stigma spesso costruito ed enfatizzato dai mass media ma pur sempre simbolo di una condizione preoccupante, sono dunque il luog o d ove l’ assenza di co mun ità è par ticolarmente eclatante. Eppure proprio qui, nella casa del disagio e persino della disperazione sociale, è più riconoscibile il proliferare di esperienze comunitarie, assieme alla presenza di e nergie potenziali che paiono quasi solo in attesa di sollecitazioni che le mettano al lavoro. È importante saper riconoscere da una parte la propensione comu nitaria delle persone più svantaggiate (data dalla loro solo recente metropolizzazione, dal permanere della loro memoria comuni- taria, diretta o indiretta), dall ’altra il riconoscimento dell’efficacia del la comunità a tra ttare gli specifici problemi lo cali: si tr atta d i due significativi motori per la ricostruzione di comunità locali, persino stanziali (cioè legate ai luoghi). La strategia comunitaria si mostra efficace (relativamente effica ce, ma il paragone è con le modalità di trattamento pubblico del disagio urbano) da diversi punti vista. Innanzi tutto dal punto di vista del trattamento dei problemi minuti, concreti, quotidiani: le r eti in fo rma li di auto-ai uto , la cura recip roca delle pe rso ne, l a na tura le propensione al don o, ma più semplicemente la cono scenza minuta e continua delle persone, dei loro problemi, delle loro storie… 1 Il trattamento diretto dei problemi spesso riesce a intervenire con tempi e modalità che lo rendono significativamen te migliore dell’intervento dei servizi pubblici. 2 L’azione comunitaria, inoltre, mostra la sua efficacia dal punto di vista della definizione di uno scenario, una direzione, un significato complessivo e congruente dell’azione locale (persino se strumentale, reversibile, al li mite falso).3 S i tratta in questo caso di riconoscere le natural i propensioni dell’azione locale alla defin izione di un modello di sviluppo,4 un quadro complessivo di valori capace di dare dignità anche a stili di vita locali, contro le com p rensib ili ten denze de gli a bitanti de lla p erifer ia ad assumer e mod elli cul tu rali sempli fi ca ti , massificati, i mp osti d ai mezzi d i comunicazione di massa – cascami della modernità. Infine, agire attraverso le pulsioni comunitarie comporta di per sé la costruzione e il rafforzamento di legami sociali :5 se l’assenza di comun ità è precisamente il prob lema delle periferie, l’azion e pubblica in sé costituisce una risorsa (e assieme un risultato, un effetto), rappresenta un valore assiomatico nella sua proprietà di costruire contestualmente reti solidali (e conflittuali) di quartiere. Mettere in atto strategie comunitarie, in questo senso, è un’occa sione per dare corpo alle propensioni progettuali delle persone, alle loro capacità immaginative, al permanente seppure sotterraneo desiderio di diversità nei confronti di un modello di sviluppo per loro particolarmente punitivo. Nell’ambito della progettazione dei luoghi, in particolare, si tratta di avere fiducia nella “capacità di abitare” dei cittadini, quella capacità, quella competenza locale che proprio negli ambiti di maggiore disagio è ancora riconoscibi le, ed è manifestazione pratica di forme di resistenza all’omologazione degli sti li di vita che inevitabilmente risulta punitiva per le categorie sociali (o per i quartieri) più lontani dal modello di svi luppo vincente. Si tratta di avere fiducia nella partecipazione. 3. La partecipazione pe r favorire processi di ricostruzione della comunità È interessante notare come persino documenti istituzionali recepiscano questa idea: la “guida” del Cer alla predisposizione dei Contratti di quartiere ad esempio sottolinea che il coinvolgimento degli abitanti non deve essere concepito come azione “fredda”, e il suo significato non deve essere limitato all’efficienza dello spe cifico progetto. “Al contrario occorre evidenziare che la partecipazione - specie in considerazione delle condizioni, generalmente più marcate, di degrado sociale e abitativo proprie degli ambiti di intervento dei ‘Contratti di quartiere’ - dovrebbe essere finalizzata a costr uire ‘un senso di appa rten enza’ e di ‘iden tità collettiva ’ degli abi tanti nei confronti dei progra mmi e dei progetti che si intendo no rea lizzare, tale da atti vare processi di collaborazione degli stessi abitanti anche nella fase di gestione”. 7 Mettere in atto strategie comunitarie nei quartieri è possibile. Lo permette in particolare la rilevante dotazione di risorse locali – risorse progettuali locali, materiali per quelle definizioni in positivo ch e descrivon o la per iferia e nfatizza ndo u na controg eogr afia potenziale degli elementi e delle identità locali che consentono la trasformazione.8 È una situazione o sservata in numerose esperienze empiriche, e in particolare nel caso delle attività sul campo nel contratto di qua rtie re delle Pi agge, a Fire nze. 9 Le Pia gge sono u n tipi co qua rtier e “mol to per iferi co”10 d ove esiston o e anche per la relativa semplicità del sistema politico locale si possono manifestare energie progettuali che peraltro in centro – in una situazione molto più congestionata di azioni e soprattutto reazioni, configurata dalla sovrapposizione e dall’interazione negativa fra centri di potere consolidati, opachi, e ormai del tutto privi di capacità propulsiva – non possono essere utilizzate. 11 In sintesi, da una parte fra gli ste ssi abitanti del le P iagge si ri conoscono importanti ten denze all’a uto organi zzazione; dall ’altra gli ste ssi reticoli sociali dei borghi storici che fanno da contesto fisico del nuovo insediamento e che accolgono il nuovo quartiere si mobilitano per integrare i nuovi arrivati (in questo gioca un ruolo importante l’ideologia solidaristica ancora dominante nelle classi popolari sullo scorcio degli anni ottanta); infine, nel momento in cui le Piagge vengon o colte nella loro estrema problematicità, cominciano a diventare il terreno di azione di soggetti del “terzo settore”, l egati al volo ntar iato e all ’associazionismo . In quest’ul timo ambito, in particolare, si sviluppa la più radicale esperienza fiorentina di cristiane simo di ba se de gli ultimi anni , la Comunità de l l e P ia g g e, a p pu n to , che g ui d at a d a u n g i o van e pr e te (Alessandro Santoro) costituisce un’associazi one di volontariato orientata soprattutto al recupero di bambini e all’interculturalità (“il Mu retto ”), una coope rativa socia le (“il P ozzo” ), u n imp ortante “gio rnale d elle p eriferi e” co nosciuto e appr ezzato an ch e fuo ri dall’ambiente fiorentino (l’Altracittà), sviluppando un’opera concepita come di missione. Ma prop rio que sto carattere missionario dell’azione della comunità costituisce un fattore di rottura intanto con le mod alità tradizionali di intervento pubblico nelle periferie fiorentine, basate sul connubio fra fiducia nelle capacità tecniche dell’attore pubblico di trattare adeguatamente i problemi e fiducia dei soggetti locali del proprio referente politico in comune, ma poi anche con le forme più locali (e tradizionali, e ormai tutte quasi con soli date ) di azione da l b asso. La Comunità delle Piagge si può definire propriamente come soggetto insurgent: 12 direttamente, perché teorizza e subito mette in pratica stili di vita che immediatamen te configgono con il model lo d i sviluppo corrente, ma anche i n manier a in diretta, perché porta all a l uce e attrib uisce dignità a setto ri sociali estre mamente margi nali (i rom ma non solo). 13 Altri attori locali, sebbene meno radicali, mostrano la loro importan za sia nell’in tera vicenda della trasfo rmazione de l q uartiere delle Piagge in una comunità l ocale potenzi almente pulsan te e viva che nella specifica vicenda del contratto di quartiere: in particolare i comitati di autogestione degli e difici, un importante elemento di partecipazione e di gestione locale nella fase di insediamento delle famiglie ne l quartiere, mostrano al loro interno rile- vanti tensioni e spinte al cambiamento: si registra infatti una commistione fra tendenze conservatrici (basate sulla tutela di un rappor to pri vile gia to con la g iu nta, attrave rso le gami d i pa rtito, secondo il modello della cinghia di trasmissione), atteggiamenti di opposizione dura (per ottenere maggiori risorse, e in relazione a partiti di opposizione), e comportamenti meno definiti a priori, non legati ai partiti, forse più “ingenui”, meno abituati al conflitto politico, e però allora proprio per questo più disposti a giocare radicalmente, senza pregiudizi. 14 Queste risorse potenziali vengono messe al lavoro da un contratto di quartiere. In effetti, fra i più recenti strumenti di programmazio ne il co ntr atto di qua rti ere è quell o che pe rme tte in misu ra maggiore la sperimentazione di pratiche di progettazione partecipata. Le direttive ministeriali per la sua applicazioni prevedono esplicitamente il coinvolgimento degli abitanti, e ipotizzano l’uso dello strumento del laboratorio di quartiere. Il contratto di quartiere, inoltre, viene applicato ad ambiti relativamente ridotti (il quartiere, appunto, quando non addirittura il caseggiato), nei quali le caratteristiche di prossimità favoriscono potenzialmente lo sviluppo di un senso comunitario. Si tratta di quartieri, ancora, esplicitamente selezionati fra quelli in condizioni di maggiore disagio (abitativo, sociale, economico) nei quali il perdersi di tracce di comunità costituisce uno dei problemi maggiori, di na tura strutturale, così come d’altra parte la riconquista e il rafforzamento di pratiche comunitarie è tanto un obiettivo strategico quanto una delle più importanti risorse. Per i “quartieri in crisi” a un tempo la debolezza delle reti locali di comunità costituisce il problema decisivo, la necessità di una loro costruzione e rivitalizzazione è l’obiettivo, e la loro presenza sia pure sottotraccia è la principale risorsa. È impo rtan te sottoline are infi ne che lo stru mento del contr atto di quartiere permette l’adozione di un approccio integrato che, met- tendo in relazione ambiti assai diversi di politiche (da quello edilizio a quello sociale e sanitario, a quello della formazione e del lavoro) e i relativi settori della pubblica amministrazione, tende a far corrispondere il sistema di trattamento dei bisogni alle pratiche di vita quotidiana. Lo strumento del contratto di quartiere si ispira infatti a esperienze europee che riconoscono che il disagio abitativo si affronta tanto migliorando le case, gli edifici, quanto facendosi carico in maniera integrata dei problemi sociali ed economici delle persone insediate.15 È riusci to il contratto di quartiere de lle Piagge a utilizzar e con cura e a valorizzare il rilevante patrimonio di risorse locali (sociali, p r og e tta l i ) c he p u re a ve va l a po ss ib i l i tà di u ti l iz za re ? Sosta nzia lmen te no. Da una par te è proseguita la tradizionale incongruenza fra politiche di settore: non è stata colta dai responsabili politici e tecnici l’opportunità di fare interagire settori “tecnici” (l’intervento è in carico al settore edilizia residenziale pubblica), servizi sociali, se ttori economici del comune .16 Dall’altra il coinvolgimento degli abitanti ha seguito sempre più evidentemente un doppio binario: a un delicato e difficile processo di costruzione della fiducia reciproca fra gli attori in campo si affiancava, via via che questo processo cresceva e mostrava la sua efficacia, un sostan zi ale sg anciamento dei decisori pub blici dai pro dotti dell a p rogettu alità locale, e un a chiu sura pi uttosto n el terr ibile tema della comunicazione pubblica (cioè al pubblico) delle decisioni tecniche. È andata perd uta un a straord inaria possibili tà di sperimentare una forma efficace e democratica di progettazione. È una constatazion e amara, perch é n ei l unghi mesi di lavo ro a bbiamo visto dispiegarsi le grandi possibilità che sia aprivano alle Piagge, le rilevantissime risorse nascoste che chiedono solo di essere valorizzate e indirizzate all’interesse pubblico. 17 Note: 1 Una versione territorialista del tema della cura, con particolare accentuazione per le azioni comunitarie, sta in Daniela Poli, “La cura del territorio fra dec lino istituzionale e globalizzazione”, Critic a della razionalità urbanistica 11-12, 1999 2 Bisogna riconoscere i consistenti miglioramenti nelle prestazioni dei servizi sociali negli ultimi anni – nella professionalità degli operatori sono entrati parametri legati alla cura, all’attenzione per la persona, e non solo per il caso, per l’assistito. Ma siamo ancora lontani dalla capacità di copri re l’intero arco di delicate esigenze delle persone e delle famiglie in condizioni di debolezza o di marginalità. Peraltro l’intervento pubblico – per sua natura esogeno – per definizione non può esaurire la necessaria azione di cura, è necessario ricorrere a un non semplice regime di sussidiarietà. L’azione dei soggetti locali (non istituzionali), ancora, se è necessaria per coprire ampie fasce di esigenze, è da un alato particolarmente necessaria in una contingenza di smantellamento del welfare state, e dall’altra (proprio nel contesto di ques to clima ideologico) potenzialmente pericolosa perché può spingere a un’interpretazione della s ussidiarietà come supplenza dell’intervento pubblico via via scemante. Sulle tendenze (e sui pericoli) della attuale stagione della rifles sione (e delle politiche) sullo s tato del beness ere cfr. Ota de Leonardi s, In un divers o Welfare, Feltrinelli, Milano 1998 (il significativo sottotitolo recita Sogni e incubi). 3 Sulla necessità di definire scenari progettuali locali che si oppongano al processo di globalizzazione cfr. naturalmente Alberto Magnaghi, Il proget to locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000. 4 Non è possibile in questa sede allargare eccessivamente il campo delle osservazioni, ma bisogna rilevare almeno che la congruenza progettuale della comunità è riconosciuta anche in ambiti di ricerca su modelli di svi luppo economico-territoriale in grado di riconoscere e valorizzare le risorse locali: cfr. ad esempio, nell’ambito della ricerc a sugli SLoT (sistemi locali territoriali), Giuseppe Dematteis, “Per una geografia della territorialità attiva e dei valori territoriali”, in SLoT quaderno 1, 2001, a cura di Paola Bonora, pag. 16. 5 Si tratta di un tema particolarmente studiato da un’importante corrente radical statunitense: cfr. John Friedmann, Empowerment: The Politics of Alternative Development, Blackwell, Cambridge, Mass. 1992 6 cfr. Antonio Tosi, Abitanti, il Mulino, Bologna 1994 7 Comitato per l’Edilizia Residenziale – Ministero dei Lavori Pubblici, Istruzioni per la predisposizione dei “Contratti di quartiere”, febbraio 1998, p. 32 8 Giancarlo Paba, Luoghi comuni. La città come laboratorio di progetti collettivi, F. Angeli 1998 9 Mi limito qui a trattare gli aspetti legati al coinvolgimento degli abitanti attraverso il Laboratorio di quartiere, di cui chi mi sono occupato diretta mente c ome coordinatore “s ul campo” dell’unità operativ a del Dupt dell’Università di Firenze fra il 1999 e il 2001. 10 Le Piagge in effetti possono essere definite “periferia” da numerosi punti di vista: sono periferia in senso strettamente geografico, spaziale, perché il quartiere è collocato nell’ultimo lembo di città, in una zona poco pregiata sia dal punto di vista della dotazione di servizi (in senso attivo e in senso passivo: non manc ano serviz i di scala metropolitana percepiti come negativi: l’inceneritore, l’aeroporto, il deposito delle autolinee, le grandi strade di accesso alla città) e persino dal punto di vista della qua lità dei terreni; naturalmente non è automatico che la condizione di perifericità riguardi esclusivamente i quartieri esterni: in numerose città italiane una situazione di perifericità dal punto di vista sociale, culturale ed economico connota diversi quartieri “centrali”, collocati nella città storica; così le Piagge sono periferia anche dal punto di vis ta socioeconomico (case popolari, assegnate in base al reddito e alla presenza di numerosi altri indicatori di problematicità – sociale, culturale, economica); infine, il quartiere delle Piagge presenta caratteristiche di perifericità anche dal punto di vista politico, e delle politiche: se è vero infatti che nel suo settore urbano si concentrano numerosi interventi pubblici, questi interventi si caratterizzano sempre per un atteggiamento centralista, nel quale l’intervento pubblico è sempre calato dall’alto e non riesce a vedere le risorse progettuali locali. 11 Per una accurata ricostruzione della vicenda del quartiere cfr. Corrado Marcetti, Nicola Solimano, (a cura di), Immigrazione, convivenza urbana, conflitti locali, Pontecorboli, Firenze 2000 12 Sandercock (ed.), Insurgent Planning Practices - Plurimondi 2, 1999; un’applicazione del concetto di insurgent city alla città di Firenze ha dato vita a Giancarlo Paba (a cura di), Insurgent city. Racconti e geografie di un’altra Firenze, Mediaprint, Firenze 2002. 13 Peraltro proprio attorno a questo tema si sviluppa un importante (quanto caratteristico) conflitto fra attori locali: alcuni disagi di ordine pratico, contingente, quotidiano (forme non reciprocamene congruenti di uso degli spazi fra le diverse persone e categorie che abitano il quartiere – rumore, fastidio, pulizia) vengono ammantati da questioni di immagine: il fatto di concepire le Piagge come terreno “di missione”, da parte della Comunità di base, implica un proc esso di peggioramento, cioè la costruzione di un’immagine del quartiere che enfatizza gli aspetti negativi del quartiere stesso, mettendosi per questo in contrasto da una parte con il legittimo e comprensibile fastidio degli abitanti (specie dei più attivi) per lo stigma attribuito una volta di più alle Piagge, e dall’altra con la storia recente di effettivi e concreti (sia pure lenti) miglioramenti della qualità della vita nel quartiere: dai c ontinui interventi di manutenzione straordinaria da parte del comune, sugli edifici e sul verde pubblico, con grandi investimenti e con qualche pic colo miglioramento, all’insediamento di un centro commerciale, fino soprattutto alla conquista di un clima sociale molto più aperto di quello cupo e oppressivo che caratterizzava il quartiere all’inizio della vicenda (merito dell’intenso lavoro dei comitati di autogestione, che in una situazione di elevato disagio sociale hanno saputo ricostruire reti di socialità). 14 L’elenco dei soggetti locali coinvolti nell’esperienza è ben più articolato: bisogna qui fare cenno almeno ai terminali locali di associazioni cittadine, ai comitati di quartiere dei borghi storici, ai comitati sorti contro attrezzature locali di scala metropolitana (l’aeroporto, l’inceneritore) e soprattutto ai bambini, coinvolti in un laboratorio specifico che ha prodotto risultati fra i più significativi – benché decisamente trascurati in fase di progettazione definitiva. 15 Per una trattazione più estesa mi permetto di rimandare a Mauro Giusti, “Contratti di quartiere: a picc oli passi verso politiche integrate di recupero urbano”, in Bollettino Dupt, 1-2/2000. 16 “Alle Piagge tutti gli interventi istituzionali sono sempre stati dettati da una specie di miopia politica; anche nel migliore dei casi si è intervenuti o esclusivamente sul settore sociale o solamente nel settore urbanistico, senza alcun tipo di collegamento interassessorile, in una logica di rigida compartimentazione delle competenze, i cosiddetti “settori funzionali”, tipica del nos tro C omune” (Aless andro Santor o, prete alle Piagge, in Marcetti, Solimano, op. cit., p. 48). 17 Per una trattazione più completa delle ragioni che a mio avviso hanno portato al “fallimento” della partecipazione alle Piagge sono costretto a rimandare a Mauro Giusti (intervista a), “perché è fallito il contratto di quartiere”, ne L’Altracittà, febbraio 2002 Colonie interattive Toledo (Spagna) - 2001 Luigi Centola [email protected] Il progetto di colonie interattive per insediamenti satellite di 15.000 abitanti nella periferia di Toledo indaga possibili trasposizioni in urbanistica e architettura di alcune teorie e sperimentazioni scientifiche sull’auto-organizzazione. I futu ri abitanti partecipano in tempo reale alla progettazione attraverso un’interfaccia in rete, seguendo regole che influenzano l’organizzazione dello spazio pubblico e dei volumi costruiti. L’uomo sta sempre più connettendo lo spazio fisico al cyberspazio. Se lo specifico della realtà intensificata (augmented reality) è di sovrapp orre i nformazioni al mondo attraverso mini-display digitali o proiezioni, nel virtuale si devono reinventare i contenuti: politici, artistici, scientifici, espositvi, ludici. Il gioco in mondi paralleli sembra essere, oltre all’interesse personale, una tra le caratteristiche fondamentali per attrarre partecipazione nel cyberspazio. Due le linee teoriche sviluppate nelle nostre ricerche: - Gli studi sull’auto-organizzazione resi po ssibili dalla si mulazione algoritmica applicati per indagare i comportamenti della natura e dei suoi abitanti. - Il gioco che da sempre nelle sue varie espressioni e tipologie, coinvolge e appassiona molti di noi. La nascita dei videogiochi, il perfezionamento della grafica ed infine la possibilità di giocare in rete costituiscono uno sviluppo inarrestabile. Due le linee geometriche individuate come ispirazione e guida per il progetto: - Gli interessantissimi pattern con cui arabi e spagnoli decoravano pavimenti, pareti e soffitti dei luoghi più importanti e rappresentativi della loro cultura e religione. - Le ricerche di Benoit Mandelbrot sulla geometria frattale attraverso l’elaborazione dell’insieme che porta il suo nome e che riproduce quelle cara tteristiche di au to-similarità che ritro viamo sempre più spesso in natura. Nel 1970 il matematico inglese John Conway scrive il programma “vita”, un universo miniaturizzato in continua evoluzione. Sul display una griglia bidimensionale con quadratini neri e quadratini bianchi, la cui configurazione iniziale è arbitraria. Una volta iniziato il gioco i quadratini vivono o muoiono secondo alcune semplici regole di vicinanza ch e sembran o rappresentare un a forma primordiale di esistenza digitale. Trent’anni fa il progredire del gioco stupì per la vitalità delle sequenze di evoluzione e di auto-organizzazione. Il medico e biologo Humberto Maturana concepisce tutti i sistemi viventi attraverso il processo che li realizza. Nel 1974 ispirato dal programma “vita” e partendo da alcune regole locali, simula al compu- te r l a te or ia de l le r e ti a uto p oi e tic he ( d al g r ec o au to s=sé , poiesis=creazione). L’ autop oiesi é la caratteristica fonda mentale dei sistemi viventi che posseggono una struttura organizzata in grado di mantenere e rigenerare nel tempo la propria unità e la propria autonomia rispetto alle variazioni de ll’ambien te circostante, attraverso la creazione delle prop rie parti costituen ti, che a loro vol ta contribuiscono alla generazione dell’intero sistema. Gli “uccelloidi” di Craig Reynolds del 1987 sono creature virtuali nate dallo studio dell’evoluzione algoritmica. Lo stormo si auto-regola attraverso tre semplici indicazioni riferite al singolo e agli immediati vicini, me ntr e for ma e movi me nto d el g rupp o son o in co ntroll ati ; niente impone la su a formazione, eppure emerge. Inizialmente gli uccelloidi sono disseminati a caso sul display, successivamente si riuniscono in un’organizzazione in grado di aggirare gli ostacoli deviando, separandosi e ricongiungendosi come se la soluzione fosse stata pianificata globalmente. Nel 1989 Tim Berners-Lee, dallo sviluppo di un programma retiforme e dal collegamento di ipertesto e internet, realizza il world wide web, ultima di una se rie d i invenzioni che ha nno r ivolu zion ato gli strumenti della comunicazione. Il web ha sovvertito il rapporto uno a uno oppure uno a tutti, divenendo in pochi anni il mezzo per la creazione di un nuovo universo non gerarchico, uno strumento per l’interazione in tempo reale che favorisce la crescita decentrata e organica di idee. Dalla fine degli anni ‘90 la crescente velocità delle connessioni web in banda larga, consente di fruire in tempo reale di immagini e animazioni. Sfruttando queste tecnologi e alcune major hanno sviluppato i Massive Multipla ye r On line Games (MMOG), avventur e o esperienze in mondi virtuali che coinvolgono milioni di utenti creando vere e proprie comunità di giocatori. Everquest, Lineage e Star Wars Galaxies, sono i mondi più diffusi che vedono la partecipazione attiva e costante, in ogni momento del giorno e della notte, di milioni di avatar. Nel 2001, in un luogo periferico privo di particolari suggestioni, l’architetto progetta la propria retrocessione preparando un set di regole locali che forniscono lo strumento di indirizzo per la realizzazione dei volumi costruiti e dello spazio pubblico. Il risultato globale è un ibrido, imprevedibile, ch e dipende dalle singole scelte dei partecipanti e da come esse interagiscono e si combinano ai limiti. Le comunità di potenziali abitanti hanno la possibilità di influenzare il processo di insediamento attraverso regole geometriche locali e una interfaccia tridimensionale online che aggiorna i risultati in tempo reale. Le geometrie proposte inizialmente sono tre ma è data li- bertà di aggiungerne altre, più semplici o più complicate. La divisio ne di p artenza in lotti è so lo esemplificativa , può essere superata. Ogni lotto, a seconda della dimensione, ha uno o due punti di origi ne della costruzione. Le altezze massime nei punti d’origine son o imposte, i coloni possono scegliere densità inferiori a costi maggio ri o viceversa privilegiare la densità per raggiungere costi più conte nuti. Dimensione degli appartamenti, numero dei livelli, aggregazio ne degli spazi e scelta dei materiali di finitura costituiscono ulteriori personalizzazioni demandate ai partecipanti. L’architetto deve talvolta, forse, imparare a retrocedere, che non si gn ifica recedere, fornen do al l’utente la possibi lità di scegli ere d a una base fondata su competenza ed esperienza. Ciò da un lato mal leva il progettista da una cronica sfiducia, dall’altra fornisce al clien te la possibilità di pensare condizioni di abitabilità più adeguate alle sue necessità attraverso risposte personali ed esteticamente soddi sfacenti, risposte che non proiettano più solo i bisogni etici ed este tici dell’architetto, ma anche quelli dell’utente. Architettura / partecipazione / super-linguaggio Vincenza Cinzia Farina Università Roma Tre Dottoranda in Sviluppo Urbano Sostenibile [email protected] L’o biettivo della presen te riflessione è provare a formulare una r isposta alla domanda posta a titolo del seminario (ar chitettura, co munità e partecipazione: qua le linguaggio?) a partire da un’indag ine sul significato del termine comunità e sul r uolo attribuibile, oggi, all ’architettura e alla partecipazione. La comunità e gli spazi antropologici Cos’è la comunità? La comunità è uno spazio antropologico. Noi viviamo immersi i n una molteplicità d i spazi antropologici , che creia mo conti nua me nte. Questi sono spa zi d i si gni ficato, si ste mi d i pro ssimità propri del mondo umano e dunque dipende nti dalle tecniche, dai linguaggi, dalle culture , dalle emozioni, dall e convenzio ni, dotati di propri co dici, val ori, segni, misure, tempi. Se cond o P. L évy a lcun i di questi spazi sono strutturanti1 perché contengono ed organizzano un grande nu mero di spazi differenti. La Terra, ad esemp io, è “ il primo spazio occupato dall’umanità... è il mondo di sign ificati dischi usosi nel linguaggio, nei processi tecn ici e nelle istituzioni sociali.”2 . Si potre bbe dire, dun que, che la Te rra è lo spazio an tropol ogico che esiste da sempre, ad essa corri sponde un tempo immemorabile. In termini antr opologici , quindi, l a Terra non è il pianeta, ma lo spazio in cu i gl i u omini, che lo occupa no , entrano i n rel azion e con gli a nimal i, le piante, le cose. Ma di versamente dagli a nimali che vivon o in nicchie ecologiche, l’uomo “vive su una Terra che elabora e rielabora costantemente con i pro pri linguaggi... e gli guarda le stelle ed inventa gli dei che lo hann o inventato… egli vive tra i segni, i r acconti, i morti… L’uomo è l’un ico animale ch e vive nel cosmo”3 . Se la Terra è lo spazio no made e selvaggio, il Ter ritorio è il mond o sedentario della civilizzazi one. Figure emblematiche di q uesto se condo spazio antropolo gico sono: l’agrico ltura, la città, la scrittura, la divisio ne del lavoro, lo stato. L’elemento cardine dell’esistenza non è p iù la partecipazione al cosmo ma il legame con l’ entità terr itorial e, l’app arte nenza al luo go de fini to dalle pro prie fron tier e. In que sto spazio “due p ersone che si tro vino rispettivamente da un a par te e dall’altra di una linea di frontiera sono tra loro più lontan e r ispetto a pe rsone appar ten enti a llo stesso p aese a nch e se nell o spazio della geografia fisica il loro rapp orto è in verso”4 . Qu esto sp azio , propr io come a ltr i che gli succedera nno, tenta d i dominare, di modificare lo spazio antropologico pr ecedente. Il Te rri torio cerca , quindi, di addo mesticare la Terr a, ma esso può sol tanto sovrapporvisi e mod ificarla parzialmente, ponendole confini, del imitando territori, addomesti candone la natura. Gli spazi antro - pologici, infatti, essendo spazi esiste nziali, sono irreversibili e pertanto coesistenti. Essi sono, dice a ncora Lévy, generati da nuove freque nze e velocità e sono, pertanto, car atterizzati da tempi diversi . Così un’a ccele razione ha pr odotto i l Terr ito rio al qual e cor risponde un tempo lungo , qual è quello della Storia, ma più breve di quello immemorabile proprio dello spazi o a ntropologi co precedente (Terra). Quest’ultimo spazio antrop ologico ri manda all’e spression e di “luogo antro pologico” in teso come luogo “identitar io, relazionale, storico” che M.Augé 5 ri serva alla costru zione concre ta e si mbolica dello spazio. Augé, infatti, ritien e che tale nozione di luogo non sia sufficientemente idonea ad esprimere tutte le vicissitudini della storia di chi compone quel luo go, né la molteplicità degli spazi a i qu ali queste si rife riscono, se non entro i limiti della visio ne 6 culturalista delle società. Ed è propri o a tale visione culturalista che sembra potersi ascrivere la “comunità” inte sa come luogo “ relaziona le, i dentitario e storico” nel quale le relazioni si specificano tra elementi che sono singoli e coesistenti; l’id entità che deri va loro è condivisa pe r il fatto che occupano lo stesso luogo comu ne; ed esso è, infine, storico perch é tutte le relazioni iscritte nello spazio s’iscri vono pure nella durata . Tuttavia, se questa nozione di luogo antrop ologico ha r eso possibile alla tradizione etnologica di padro neggiare le società ben localizzate nel temp o e nello spazio, essa ap pare, oggi, sempre meno adeguata ad interpretare la società moderna e a ncor di più la condizione contemporanea di sur moder nità, cara tterizzata, secondo M. Aug é, da un “eccesso” di tempo e di spazio. “La storia accelera… ci insegue . Come la nostra ombra, come la mor te.”7 . Il nostro stesso passato divie ne subito storia. Il tempo, so vraccarico d’avvenimenti (il ‘ 68, le guerre, la scomparsa de ll’URSS, la caduta del muro di Berlino, ecc.), spinge a d essere sempre più avidi di senso. “Ciò che è nuovo... è che noi proviamo esplicita mente ed intensamente il bisogno di... dare un senso al mondo , non a tale villaggio o a tale lignaggio.”8 Ed è da questo bisogno d i compr endere tutto il presen te che “deriva la nostra difficoltà di dare un sen so al passato pro ssimo”9 . La Storia, intesa come gr ande si stema d ’interpretazione dell’umanità , sembra poter si rite nere finita. “Secondo alcu ni intellettua li, il tempo non è più oggigior no un principio d’intelligibili tà…Se gl i storici du bitano ogg i della storia…è perché essi incontrano grandi difficoltà…ad iscriver vi un principio d’identità.” 10 Diviene, allora, possibi le compr endere come ne lla nostra scru polosa accumulazione di segn i, di te stimonianze del passato, ci si a, in realtà, la ricerca della nostr a differenza, ovvero la ricerca di ciò che “n oi siamo alla luce di ci ò che non siamo più”11 . Il trattamento del “rudere” o anche il restauro banale, che viene operato in molti centri storici, ne costituiscono un’esemplificazione. La seconda figura dell’eccesso di cui parla Augé è l’e ccesso d i spazio. La velocità dei mezzi di trasporto fa sì ch e le capitali distino poche o re di volo l’una d all’altra e i potenti mezzi di co municazio ne e di trasmissione delle immagini ci permettono di avere una visione istantan ea degli avvenimenti che accado no dall’altra parte d el pianeta. Questa sovrabbondanza spaziale determina notevoli modificazioni fisiche: concentra zioni e mutazioni urbane, trasferimenti di popolazi one e moltiplicazione dei n on-luoghi. Questi ultimi, essendo l’opposto della nozione antropolo gica di luogo sono non identitari, non relazion ali, e non storici e corrispondono a tutti quegli spazi di passaggio (autostrade, aeroporti, ecc.), ne cessari a compiere questa circolazion e accelera ta, ma anche agli stessi mezzi di trasporto. M. Augé n on attribuisce al non-luogo un’accezione negativa. Questo, i nfatti, ha favorito il dece ntramento dello sg uardo da parte degli etnologi che da sempre si preoccupavano di rintracciare, all’interno del mondo, totalità piene, univer si di senso, so cietà iden tificate con cu lture, comun ità, en tr o l e q uali, gli ind ividui e i gruppi si relazionavano in base agl i stessi valori, alle stesse procedure di valutazione. Il n on-luogo, poi, é n on solo e spressione della condizione contemporane a di surmode rnità, ma è anche dotato di una forza d’attrazione dovuta al fatto che ci fa se ntire liberi dalla pesantezza del luog o, del Territorio, d ella trad izione. Per P. Lévy la condizione contempor anea è caratterizzata dall’accelerazione dello “Spazio delle merci”. Questo ulteriore spazio strutturante, contraddistinto dall’accelerazione della circolazione dei segni, in un primo momento la moneta e l’alfabeto, successivamente la stampa, ed infine il mercato mondiale, è stato enormemente accresciuto dalla macchina, deterritor ializzante, del capitalismo “che trasforma in merce tutto ciò che riesce a far rientrare nei propri circuiti”12 . Questo spazio a ntropol ogico, che sembra aver inve ntato l’accelerazione, si è storicamente servito del precedente, il Territorio, ma si è via via reso autonomo da questo, lo ha subordinato, ibridato e dilatato. Il Territorio, ricoperto dal tecnocosmo mercantile, è stato esteso a dismisura, al punto da coincidere con l’intero pianeta. Ma se al lo Spazio delle merci corrisponde la figura del tempo reale, astratto e uniforme, una nuo va dimensione antropo logica sta per nascere secondo Lévy, in cui sarà p ossibile riappr opriarsi delle sin golarità temporali, ovvero quella che egl i defini sce lo “Spazio del sapere”. Si tratta dello spazio in cui l’identità (q uantica) si definisce in rappor to co n il sapere in tu tta la sua diversità . In que sto spazio virtuale, che non va inteso come un contenitore, bensì come uno spazio che distilla e struttu ra tutte le forme di pensiero (no n soltanto que lle razionali), tutti i saperi (non soltanto q uelli speci alistici), che in esso si compongono e ricompongono, “un gruppo molecolare ” 13 , servendosi di tutte le risorse delle te cnologi e fini, valorizza il proprio p atrimonio umano qualità per qualità. Lo Spazio del sapere non è ancora uno spazio antropologico autonomo, ma esso sembra, in un’epoca povera di prospettive come la nostra, proporre una direzione, un’utopia, una visione dell’avvenire che si organizza intorno al rinnovamento del legame sociale tramite il rapporto con la conoscenza e intorno all’intelligenza collettiva 14, che è una comunità pensante, e che toccherà a noi rendere reale. L’aspetto più interessante ed implicito nella n atura di questo spazio antro polog ico è costituito d al passaggio da lle tecnolog ie mo lari (che considerano i lo ro ogg etti in blocco , in modo entropico) a quelle mo leco lari (ultrarapid e, precisissime che si accostano agli oggetti in modo fine e senza scarti). La p ossibilità che da queste tecnologie possano trarre ispirazione e ri nnovarsi le diverse forme di organizzazione de ll’attività u mana (la politica, l’economica, l’urbanisti ca) rende meno difficile credere che sia a ncora possibile governarsi in una situazione di deterr itoria lizza zio ne accel erata, come quell a ne lla qual e viviamo. B asti pensare alle implicazioni ch e de rive rebbero dal la costi tuzione di un’agorà virtuale nella quale potrebbero essere: favoriti gli scambi di saper i, offerte visu alizzazioni di namiche di situ azioni collettive, valutate grandi q uantità di propo ste e di proce ssi in atto e, in un certo qual mo do, quind i, accolta la costruzione col lettiva di senso. L’architettura nella realtà contemporanea Noi tu tti, ma sarebbe meglio dire noi a bitanti dell’occidente e delle città, viviamo nella surmod ernità. Cond izione esistenziale, que sta, che è caratte rizzata, come visto precedentemen te, dal biso gno di dare un senso al mondo, al quale sentiamo di a ppartener e, e non ad un villaggio, ad una comunità. Immersi nella complessità degli spazi antropol ogici, ch e pro ducia mo co ntin uame nte, apparteniamo ad una pluralità di comunità, siamo degli “individui mondo”. Una semplice conversazione , ad esempio, può essere consider ata una costruzion e in comune di uno spazio di significati. Inoltre, come è stato precedentemente detto, oggi è divenuto difficile, anche se non impo ssibile, rintraccia re all’interno di realtà complesse come quella metropolitana, totalità di senso iscrivibili in ambiti territoriali circoscritti. Il mio vicino di casa ed io, ad esempio, apparteniamo alla comunità del condominio, ma questa per me non è più significativa di molte altre alle quali ritengo di appartenere e che sono invece deterritorializzate. Per comprendere appieno il grado di complessità del la realtà, e pro vare a collocar vi correttamente l’architettura, si richiamerà un esempio fatto da Lévy 15 per spiegare la simultaneità degli spazi antropologici. Lévy immagina di associare ciascuno spazio antropologico ad un foglio di carta, di sovrapporre successivamente tali fog li e di spie gazzarli, accartocciarl i, sin o a formarne una palla e di conficcare, poi, quest’ultima con un ago (che indica l’evento da rappresentare). L’ago intratterrà rapporti di stinti con i diversi spazi sia per la successione che per il numero dei contatti. È possibile paragonare l’architettura, in quanto evento che determina una discontinuità nello spazio e nel tempo, ad un ago che intrattiene diversi contatti con i molti spazi di significato. Il p aragone è preso a prestito allo scopo di attribuir e al l’architettura il giusto grado di responsa bilità che le compete , nel quadro delle contemporanee trasformazioni e muta zioni urbane e territoriali. Infatti, se è ver o che da tempo l’ ago dell’architettur a sembra stabilire il maggior numero di contatti con lo Spazio delle merci, è vero anche che l’e sito di qualunque intervento a rchitettonico è reso sempre più ince rto proprio in ragione delle impreve dibili relazioni che esso i ntratterrà con i molti a ltri spazi significati vi. Questi si rela zioneranno inevitabi lmente con l’architettur a ed eventualmente pa rteciperanno, in modo p iù o meno virtuoso, alla sua trasforma zione. Questa riflessi one p orta ad indaga re il rappo rto tra ar chitettur a e linguaggio e tra architettura e parteci pazione. Arc hitettura e linguaggio L’a rchitettura, come altre forme espressive, è do tata di linguaggi e contenuti. Come è noto, il processo di desemantizzazione del lin gua ggio architettonico, avviato a partire dal Movimento moderno, è giu nto al limite e d ha prodotto, alimentato dalle perverse dinamich e de l mercato , un e ccesso d’architettura priva d i significato che h a notevolmente co ntribuito alla sua attuale e quasi completa delegittima zione. Il rapporto tra il segno ed il signi ficato, così come quello tra l a forma e l’uso, è divenuto, oggi, estrema mente labile ed incer to. Q uindi, p rima di enu cle are le cond izi oni del proge tto con tempor aneo, l e aspettative che ad e sso sono associate e, successivamente, il ruo lo della par tecipazion e, n on sembra superfluo ri flettere sulla natu r a de l con ten uto e del li nguagg io nell’ architettu ra, sopra ttutto i n u n’epoca come la nostra in cui, nel tentati vo di so ddisfa re l a do manda di senso, si rischia il superamento del linguaggio. Il con tenuto dell’architettu ra non s’identifica con il sodd isfacimento di bisogni, qu anto piuttosto con la “riduzio ne di un’in tera serie di re sistenze alle azi oni desider ate, che allor a diventano più facilmente accadenti proprio grazie a q uesta riduzione… in mo lte situa zion i non sono solo le r elazioni tra le cose a determina re se u n’azione è messa in atto o no, inter vengono anche fattori men o tangibili come l’a pprovazione, il consenso, l’a bitudine.”16 . Il co nce tto di conten uto del l’architettu ra è anche ele gantemente e sp resso dall a seg uente massima tao ista: “S i h a un bel riu nir e trenta raggi in un mozzo, l’u tilità della vettura d ipende da ciò ch e non c’è…”17 ovvero il movimento. Se c’è un b iso gno che viene so ddisfatto da ll’architettur a, questo consiste nell’esprime re il bisogno di dare un senso al mondo. Tal e bisogno trova espressione nel linguaggio. Questo, nel suo ri durre il concepibile al rappresenta bile, è portatore di senso. Diversamen te, n oi ci acco nte nte remmo di abitare una caverna. Il lin guaggi o de ll’archite ttura riguarda, oltr e gli elementi formali e materiali imp iegati, il particola re mo do di me ttere in si eme, in una re lazion e spazio temporale, gli elementi d i un contesto. Al l’aumenta re de lla complessi tà del con testo e degli elementi d a por re in relazi one (si pen si alla città) diviene via via sempre più diffici le la definizio ne chiara dei contenuti del progetto e impossibile l a loro riduzione ad un preciso linguaggio. Si potrebbe tentare d i fo rmulare una rel azione di proporzion alità inve rsa tra la complessità del contesto da o rdinare ed il livello di d eterminazi one di cui deve essere dotato il progetto. Questo si configurerebb e sempre più co me una strategia e semp re meno co me un diseg no, asten endosi dal dire ciò che non sa. La città, ad esemp io, verrebbe in tal mod o semp re più diagrammata e sempre meno disegnata. Qu este ulti me co nside razi oni d a una parte rendono ampiamente auspicabile la partecipa zione degl i utenti nella definizione dei con tenuti, dall’altra, mediante questa sorta di costruzione del non con trollo, si pongon o le condizioni per ulteriori forme di par tecipazion e d ’attu arsi med ia nte il comp leta me nto e l’ auto -o rga nizza zi on e dell’ambiente. R.Ko olhaas ha definito la città contemporane a Ju nkspace, spazi o ciarpame. Se questa d efinizione può non ritenersi universalmente valida, è pur ver o che e ssa gen era, nei riguardi del progetto con temp oraneo, iden tiche aspettative. A quest’ultimo, infatti, si chied e di: ordinare, liberare e ri-signi ficare l’esiste nte lavorando sulle rela - zioni tra le cose, sta bilendo interconnessioni, gettando ponti tra le differenze. M. Augé, h a recentemente18 affermato che affinché i l progetto archi tetton ico possa tornare ad avere se nso e quindi legittimarsi, è necessario ch e questo si situi nella storia. Io cre do che il progetto, ed in particolar modo que llo sosten ibile , dovreb be situar si ne lla storia, ma anche nel presente e nel paesaggio. Infatti, la storia, e il presen te che questa ha determinato, sono gli elementi fondamentali per stabilire il punto d’inizio del progetto e stabilire una strategia globale pe r inventare il futuro di un luogo. L’architettu ra riacquista senso situandosi nella storia e sta bilendo un a utentico leg ame di continuità col passato; situandosi nel presente ed operando nelle molteplicità concre te che agiscono nel locale ma h anno ri percussioni nel globale; situand osi nel pae saggio, ovvero nella concreta orogra fia del luo go, nell a pe cul iarità d ella su a vegetazione e del suo clima. Perché l’archite ttura possa avere senso, qui ndi, è necessar io che passi attraverso la conoscenza della storia, del paesaggio e ascolti il prese nte. Architettura e partecipazione Se prog ettare è con oscere, lo S pazio del sapere prosp etta ampie possibilità d’uti lizzo a tal fine. Nuovi strume nti di navigazione (quali ad esempio le cinecarte 19 ) e forme di rappre sentazione ed organi zza zio ne di na mi ca de l le co n osce nz e, favo r iti d a ll ’u ti li zzo dell’informatica e caratterizza nti questo spazio antropolo gico, indicano , infatti, possibili ed uti li impieghi nell’ambito del la partecipazione delle comu nità a i processi di trasformazio ne della città e del territorio. Partecipa re è in ter ve nire in un fatto d’in te resse colle ttivo. Ma la partecipazione è anche comunicazione ovvero “ascolto molecolare dei collettivi inteso come processo emergente”20 . L’ascolto, che rende udibil i e visi bili fatti, idee, desi deri dei singoli, nell’era della rete, diviene, dunq ue, una circolari tà crea trice dalla quale può affio rare la “visione gl obale”21 , la visione di sé in divenire. La rete, infatti, por ta tutto a d un’unità priva di centro, dal locale al globale, h a il po tere di agganciare il te rritorio al sapere co llettivo, di fare emergere le singola rità p roprio grazie alla sua forma frattale. Questa forma di partecipazione favor isce l’utilizzazione da parte dei sing oli d i una molteplicità di lingua ggi, consente loro , cio è, di ser virsi, p iuttosto che di u n codice a pri ori, di tutti i mezzi ritenuti adeg uati ad esprimere compiu ta me nte l e l oro volizion i e le lo ro aspettative, ed a comunicare il loro sapere. L’insieme di queste forme e spressive (immagi ne fissa o animata, mappe interattive , suoni, si mu lazion i, re altà vi rtuali ) compo ne una sorta di “supe r-li nguaggio”. A quest’ultimo P.Lévy fa corrispond ere, considerate anche le possibilità aperte dall’in formatica di r appresentare e gestire in modo dinamico le informazioni, u n nuovo tipo d i organizzazione del sa pere, la cosmopedia 22 , la cu i pr incipale caratteristi ca è la non-separ azi one del sap ere ed i n cui ogni lettura divi ene una riscrittura. Ai fini della partecipazione assumono particol are interesse non solo la continuità e la dinamicità, caratteristiche dello spazio cosmopedico , ma soprattutto la circolarità del processo pr opria de ll’ascolto molecolare dei collettivi. Grazie, infatti, alla circolarità, favorita dall’utilizzo della rete, il trasfer imento del l’i nformazio ne e d el saper e si attua no n sol ta nto nell’amb ito della relazion e uno-uno ma anch e, ed in modo più fruttuo so, nell’ambito della rela zio ne molti-molti. Per tan to, l’ascol to, che implica una fase di rilancio in cui viene rinviato al collettivo ciò che è stato ascol tato da tutti, permette di a vvicinare i saperi, capirsi meglio e aumenta ndo la tra sparenza del sociale, contribui re alla definizione dei contenuti p rogettuali. Infine, la visione di se in di venire pu ò, forse , anche concorrer e alla formazio ne di quella conoscenza attraverso la q uale solamente è possibile tentare di espri mere compiutame nte in un linguaggio il bisogno qu otidiano, che abbiamo, di da re un sen so al mondo. Note: 1 Pierre Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli editore, Milano, 1996, pag.149; 2 Ibid., pag.137; Ibid., pag.138; 4 Ibid., pag.27; 5 M.Augé, Non luoghi. Introduzione ad un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 1993; 3 6 Tale visione tende ad ignorare le contraddizioni della vita sociale, in base ad essa la cultura è vista come testo iscritto (e pertanto leggibile) nel suolo sotto forma simbolica, e la società, ben localizzata nel tempo e nello spazio, s’identifica con lo spazio cui essa ha dato forma; 7 Ibid., pag. 29; 8 Ibid., pag.32; Ibid. pag.33 10 Ibid., pag.27-28; 9 11 Ibid., pag.29; P.Lévy, op. cit., pag.141; Una collettività numerosa che si autorganizza; 14 “Un’intelligenz a distribuita ovunque, continuamente valorizzata, c oordinata in tempo reale, che porta ad una mobilitazione effettiva delle competenze”, in P.Lévy, op.cit., pag. 34; 15 in Ibid.; 16 Robin Evans, Translations from Drawing to Building and Other Essays, Architectural Association Publications, London,, 1997; T.d.A., pag.27; 17 (a cura di) J.J.L.Duy vendak, Tao Te Ching. Il libro della Via e della Virtù, Adelphi, Milano, 1994, pag.49, 18 Durante una conferenza tenutasi il 25.03.02 presso la facoltà d’Architettura dell’Università Roma Tre. 12 13 19 La cinec arta è nuovo strumento di orientamento, concepito da Lévy e Authier, in grado d’esprimere i rapporti tra gli oggetti dell’informazione e di misurare le prossimità; 20 Pierre Lévy, op.cit.,pag.83; 21 Ibid. pag.86; Diversamente dall’enciclopedia, cui corrisponde un sapere strutturato, circoscritto e s tatico, nella cosmopedia il sapere è continuo ed in continua mutazione e, secondo Lévy, materializzabile in un’immagine pluridimensionale in continua metamorfosi. 22 Strategie di ricostruzione post-catastrofe: costruzione partecipata e autocostruzione Paolo Matteuzzi Università Roma Tre Dottorando in Sviluppo Urbano Sostenibile [email protected] Introduzione La velocità del cambiamento e il suo governo Dobbiamo sforzarci di intendere la progettazione non più come ap propriazione di un idea ma come appartenenza ad un orizzonte am bientale e culturale, dice a tal proposito Gianni Vattimo: “Questa forma di gettatezza, si riconosce come determinata da un si stema di eredità culturali nel cui orizzonte noi esprimiamo il mondo (…) Parlare una lingua significa possedere una competenza gram maticale, sintattica lessicale che è anche una eredità di opere, di fra si, di regole, e di contenuti, in una parola: di tradizioni trasmesse”. 1 Pr oprio in qu esta prospettiva, l’architettura perde il su o caratter e pro gettuale assoluto, e ne l qualificarsi co me attività erme neutica, esce dalla dittatura di principi astratti delle culture che Alexander de finisce a utocoscienti e torna ad una pratica di addestramento p ropria delle culture non-autocoscienti. “…In qualsiasi luogo ove le forme sono virtualmente le stesse, oggi come migliaia di anni fa, i legami devono essere estremamente po tenti….Le culture non autocoscienti contengono, come caratteristi ca d ei loro sistemi di pro duzione della forma, una certa intrinseca fissità, dovuta a i modelli del mito, della tradizione e del tabù, resi stenti ad ogni cambiamento volontaristico.” 2 Nei processi coscienti non solo si perde questa naturale forma di resistenza ai cambiamenti, ma anche i meccanismi di retroazione ad azioni perturbatrici, entrando in azione solo al di sopra di certe so glie rendendo più visibile il cambiamento e questo, così rafforzato, tende a sfuggire ad ogni meccanismo di tradizionalizzazione, ch e necessita invece di tempi più lunghi, e di salti meno bruschi. Qu ello che succede all ora n elle cul tur e coscie nti, che potremmo identificare con i così detti paesi sviluppati, è che ci si rifugia in re gole che possano governare dall’esterno (e dall’alto) il cambiamento, produ cendo in questo modo un ulteriore distacco da q uel pro cesso che da sempre tende ad agire, invece, dal baso. Dice Alexander: “La maggior fatica [nel superare le difficoltà dell a complessità] è dovuta al peso costante della decisione: la respon sabilità di cui si grava [l’uomo delle culture coscienti] una volta libe rato dal peso della tradizione, egli la evita dove può usando regole (o principi generali), che formula in termini concettuali di sua inven zione. Questi principi sono alla radice di tutte le cosiddette “teorie” della progettazione architettonica”. Continua Alexander: “L’affermazione della propria individualità per seguita dal creatore di forma è un caratteristico fenomeno della cul tura autocosciente. Pensate alle forme premeditate dai nostri archi tetti che operano alla luce della ribalta. L’individuo, la cui esistenza dipende dalla fama che raggiunge, è ansioso di distinguersi dai suoi colleghi architetti, di introdurre innovazioni, e di diventare celebre.” 3 E ancora: “Le Tende nere usate dai nomadi dalla Tunisia all’Afgani stan, […] i racconti popolari della antica Irlanda e delle Ebradi Ester ne, […] L’età di questi esempi ci dà un’idea di come siano forti e an tiche le tradizioni che agiscono nel modello non autocosciente delle forme di abitazione, […] I riti e i Tabù legati all’abitazione sono an cora più forti.”.4 In queste culture e prevalentemente nelle culture dei Paesi in via di Sviluppo il funzionamento del linguaggio non è garantito dall’uso di regole astratte o da principi generali, ma da pratiche, legate alle forme di vita, alle tradizioni e alla cultura di un luogo, le città sono pertan to dei sistemi che devono p otersi continuamente ad attare alle modifiche del loro contesto e delle forze che agiscono dall’interno; Il rigore e l’addestramento all’uso del linguaggio all’interno di una forma di vita sostituiscono il rigido ed assolutistico concetto di regola. Le tradizioni, la cultura i miti sono l’impianto linguistico all’interno del quale l’uomo è gettato. Pensia mo , di contro, alle Istr uzioni de l Car dinal e B orro me o d el 1577, che seguirono al Concilio di Trento (1545). Venivano defin iti gli elementi che dovevano configura re la pianta della Chiesa Cristiana: la si voleva a croce latina, la facciata tripartita secondo il modello di Santa Maria Novella di Leon Battista Alberti (le facciata del Gesù del Vignola e di Sant’Agostino a Roma sono riconducibili a questo schema). Con queste Istruzioni si volevano individuare, inconfutabilmente, le tre figure dominanti: il Referente, ovvero la Divinità, Dio; il Destinatario, il Popolo di Dio, i Fedeli, che grazie a degli elementi sempre indivi duabili si sa rebbero rico nosciuti nell a loro casa; n atural mente l’Emittente, la Chiesa Cattolica , che in quel momento doveva segnare un profondo confine con quella della Riforma protestante. Da sempre l’architettura dando lettura di queste tre figure esercita un potere, e da sempre l’architettura Classica e’ stata precettata a questo fine. Obiettivo d ella p rogettazione partecip ata e’ q uello di restaurare il carattere dell’architettura come non derivato da idee preconcette o da pro gettualità la tenti in tese in senso tradizi onale e sotto il peso delle quali si rischia di rimanere schiacciati; ancora, di contribuire a formare la comunità affinché sia capace di rispondere da sola, in futuro, alle proprie esigenze. Credo sia necessario operare un capovolgimento nel ruolo del progetto di architettura e della costruzione quando si lavora in ambito di partecipazione comunitaria soprattutto nel difficile contesto post catastrofe. L’Architettura sarà uno degli strumenti che entreranno in gioco per il conseguimento di tale fine. Pertanto potremmo dire che una delle prime conseguenze di questo rinnovamento culturale in architettura è l’attivazione di quelli che Silvano Petrosino n ella p refa zione alla Disseminazi one d i J. De rida definisce come i valori d’assenza: In quest’ottica dobbiamo riconoscere due distinti livelli di strumentalità: Ci troviamo, infatti, di fronte a tre diversi livelli di assenza proprio le tre figure ricordate precedentemente (referente, emittente, destinatario) potranno indebolirsi fino a sparire: - Assenza del referente: il referente è una garanzia esterna. Per referente si può intend ere una autorità, una volontà, anche una funzione. - Assenza dell’emittente: progettare è produrre una macchina che produrrà a sua volta degli effetti, indipendentemente dalla mancanza dell’emittente originario che ne conosce i presunti corretti meccanismi di funzionamento. - Assenza del destinatario anche il destinatario può configurarsi come qualcosa di contingente, anche altri si troveranno dunque a ricevere quell ’opera, ad in terp reta rla, in quanto, pr esu mibi lmen te, l’opera durerà più di ogni presente destinatario. Il valore strumentale dell’architettura: Un programma “Community – Based” L’assenza della figura del progettista, che rinuncia ad avere un controllo su tutte le fasi della progettazione e che rimanda la maturazione di certe scelte ad una fase di verifica, aperta, maturata sulla messa a regi me delle pr ime decisioni; un progettista che accetta di rimanere un po’ in ombra, che accetta di raccogliere pareri e di ultimare i progetti sulle considerazioni maturate dalla gente; questo fa parte di un processo culturale più vasto, meno forte nel ruolo del committente, del destinatario, dell’emittente…. 1. il primo, intende la costruzione partecipata come processo di formazione e di crescita di una comunità; 2. il secondo intende la costruzione partecipata come processo di rafforzamento culturale loca le, attraverso l’adozione di costruzioni in materiali e tipologie tradizionali, spesso le uniche conosciute e direttamente getibili dalla gente. Perché questi strumenti possano utilizzarsi è necessario che già dalla fase di emergenza relativa alle prime ore del post catastrofe si avvii il riconoscimento delle esigenze, sì di quelle materiali (cure, bisogni basici, ripari ecc), ma è anche necessario che avvenga subito il riconoscimento delle esigenze culturali della popolazione coinvolta. È evidente che questo secondo processo di riconoscimento dovrà essere presente a livello locale già da prima del verificarsi dell’evento calamitoso… Molti degli insediamenti abitativi in corso di costruzione, o pianificati nel quadro della Cooperazione Internazionale, non si sono dimostrati ricettivi delle culture locali, questa situazione sta contribuendo a creare nuovi problemi di emarginazione; questo problema squisitamente culturale è il primo a presentarsi ed è tra i maggiori responsabili del fallimento di numerosi progetti anche nell’ambito degli interventi di prima emergenza, casi di accampamenti temporanei diserta ti dalla popolazione affetta ta dalla ca tastr ofe so no all ’ordine del giorno, la gente preferisce accamparsi nel giardino di casa, andare da parenti, o vivere nella casa lesionata, piuttosto che condividere spazi che non sente propri e lontani dai propri modi di vita… Dicotomia emergenza-sviluppo Il punto centrale del lavoro della ricerca svolta nell’ambito del Dottorato di Ricerca in Sviluppo Urbano Sostenibile è quello di riscattare il nuovo contesto economico, sociale, ambientale e produttivo post catastrofe come opportunità per migliorare la qualità di vita della comunità di persone coinvolta nel disastro; considerando il fattore umano come punto centrale dello sviluppo locale e rinvenendo nell’apprendimento, nella partecipazi one comunitaria, ed i n genere nella struttura ambientale e culturale locale, gli strumenti di tale sviluppo. Con struttura ambientale intendiamo l’insieme delle condizioni che influiscono sulla vita degli individui; è in quest’ottica che anche l’ambiente costruito diventa veicolo di condizionamento sociale, non potremo pe rtanto intendere più il progetto di architettura e la costruzione come fine bensì come strumento di sviluppo comunitario. Il tentativo svolto in seno alla ricerca è quello di lavorare a costruire un legame di continuità tra la prima emergenza (l’intervento di soccorso) e il progetto di sviluppo. Il fine di un programma Community Based non è infatti la costruzione, ma la Comunità. Quando si dice di considerare il fattore umano come punto centrale dello sviluppo locale, si vuol dire rendere da subito le persone pro- Le condizioni di emergenza presentano tre livelli e si riferiscono alla: - risposta alle necessità di base; - gestione produttiva del territorio; - ricostruzione delle aree distrutte dall’evento calamitoso; Continua re a tene re separate la prima fase dalle seconde due significa rinunciare a gettare le basi per lo sviluppo e perdere, perdonatemi l’espressione, “l’occasione” offerta dalla situazione post catastrofe quale ampio contesto di ricostruzione nel quale rafforzare la comunità e i suoi valori culturali. tagoniste del cambiamento a ttraverso il riconoscime nto della pr opr ia i dentità soci ale e culturale ch e spesso viene schiacciata da l ruo lo di vittima nel q uale loro malgrado si vengo no a trovare. Il ri schio maggiore di questa dicotomia è di rendere sterile l’intervento di aiuto e non garantire la sostenibilità locale all’intervento. - Il secondo concetto è quello di migliorare l a capacità e l’abilità di una istituzione che porta aiuto ad una comunità di persone afflitta da un disastro, con il fine di svilupparla e rendere il più efficiente possibile l’uso di risorse nuove, e di quelle già presenti sul territorio, e di raggiungere quest’obiettivo in maniera localmente sostenibile ;6 L’evento catastrofico è uno degli elementi che più tende a scalzare le stratificazioni non solo territoriali ed ambientali, ma anche sociali e culturali locali, queste ultime vengono definitivamente cancellate dagli interventi di ricostruzione che non sono ricettivi delle culture e delle tradizioni locali. I progetti Community Based devono essere calibrati dall’interno ed in relazione alla capacità dei sopravvissuti al disastro e da lì saranno gli strumenti pr ivi legiati per l a ri costruzione, p arallel amen te a quella dei beni ma teriali, a nche della struttura comunitari a, rafforzandola, ridando ruolo alle vite delle persone e alle istituzioni locali. Obiettivi specifici Definizione del problema - Superamento dell’antagonismo tra risposta d’emergenza e pianifi cazione sul lungo periodo, conciliando tipologie locali ed interventi di prima emergenza. - Orientare gli aiuti internazionali nella attuazione di soluzioni inse diative idonee, contribuendo a rilanciare l’attenzione verso tecniche costruttive tradizionali, a basso costo e a basso impatto ambientale. - Creazione all’interno della municipalità interessata di conoscenze e competenze in termini di tip ologie insediative, tecn iche e vinco li costruttivi ed urbanistici per gli interventi sul territorio. - Crea zione all’inte rno della Comunità coinvolta n el progetto di un know-how, possibile fonte di guadagno per la gente più povera. - Co ntribuir e alla cre azione di una coscienza del l’impatto sull’ambiente in relazione anche al tipo di scelte urbanistiche, costruttive e manutentive. (anche perché si è portati a credere che l’impatto più violento sia quello d ella calamità e si tende a sottovalutare quell o portato dagli interventi di soccorso e di ricostruzione). Un programma community based non si attu a naturalme nte, specialmente se: - non c’è una tradizione locale di azione comunitaria; - le istituzioni locali non sono ricettive di queste metodologie - la Comunità Internazionale non è preparata ad agir e nel difficile ruolo di mediazione tra le prime due figure. In molte località dell’Honduras le tegole vengono prodotte ancora da piccole manifatture che potrebbero trarre beneficio da progetti finalizzati alla riqualificazione delle economie locali. Le tegole prodotte non sono cotte ad alta temperatura e vanno soggette a veloce deperimento e a rottura, ma rappresentano pur sempre un ottimo sistema per il manto di copertura: hanno proprietà fonoassorbenti e di isolamento termico, questo particolare, già ricordato nel caso dell’uso della paglia viene messo in particolare evidenza al fine di rivalutare le proprietà dei materiali tradizionali, contro la tendenza che vede la diffusione quasi a tappeto di lamiere ondulate o pannelli di fibrocemento. Questi materiali nuovi oltre ad avere caratteristiche di incompatibilità con il clima e con le tradizioni locali vengono acquistati da molte organizzazioni non governative e finiscono con l’alimentarne il mercato impoverendo le piccole economie locali, fatte di tradizioni e professionalità. Sarebbe importante cominciare ad affiancare al concetto di Ecolo gical Footprint anche il concetto di Cultural Footprint. La “capacity building”. Questa espressione dovrà essere usata al fine di integrare due di stinti ma interrelati concetti: - Il primo concetto che si associa all’espressione C.B. è quello di migliorare l’abilità e la capacità della comunità, delle famiglie e degli in dividui affinché si rendano meno vulnerabili e possano godere pie namente, e in maniera più produttiva, delle proprie vite. Si rende necessario porre in evidenza il gran numero di problemi di coordinamento nello sviluppo di strategie di riattivazione nella ricostruzione. Gli attori che più incidono nell’esecuzione operativa dello sviluppo sono il Governo, le ONG e la Comunità. In ciascuno dei casi si presenta un miscuglio tra la sfera operativa, le definizioni strategiche e i lineamenti delle politiche che li dirigono. Data questa situazione i donanti stessi finiscono con l’assumersi il compito di definire come operare e cominciano a selezionare gli alleati più idonei. Questo ha frammentato gli interventi di cooperazione e portato a che molte risorse umane si orientassero alla preparazione di proposte sterili, sviando il ruolo di coordinamento che devono avere invece gli enti. Gli attori dello sviluppo devono invece inserirsi nel processo in accordo alle loro potenzialità e ai propri ruoli, dato che: il Governo è portatore di politiche economiche, sociali, settoriali e di ricostruzione; la società civile si dovrà convertire in un agente esecutore e promotore di azioni locali; la Cooper azione Intern aziona le dovrà orientarsi a coordinare azioni tanto con il governo come con la società civile .7 Il metodo Alexander orienta attraverso la struttura del pattern la costruzione della forma dell’insediamento secondo un metodo incrementale che procede dal basso verso l’alto, dalla singola cellula fino alla configurazione della città e della regione abitata. Il metodo che la Ricerca si propone di mettere a punto prevede, paral lela me nte a lla colo nna di patter ns in dividu ata d a Alexan der, un’altra colon na ded icata al pro cesso di fo rmazione co munitaria, comunità alla quale Alexander fa sempre esp lici to riferimento, in quanto attore principale del cambiamento, ma la cui formazione non viene mai tematizzata all’interno del pattern language. E lì dove non c’è cultura di partecipazione il funzionamento della comu nità come so ggetto del cambia me nto non lo si p uò dar e p er scontato. A questa seconda colonna dedicata al processo incrementale che aiuta il processo di identificazione e di crescita della comunità sarà necessario affiancare, secon do qua nto detto nell’ambito del concetto di Capa city Building , anche i patterns che aiutan o ad individuare i ruoli delle organizzazioni non governative e delle istituzioni, secondo un’ottica unitaria. L’idea è quella di offrire uno strumento di regolazione ed ordinatore di informazioni, definitore di strate gie e criteri di operazione: i temi basilari saranno quelli della partecipazione comunitaria a tutte le tematiche del progetto, fino all a costruzio ne (o ricostruzione) , attraverso lo sviluppo della comunità, posta a garanzia della qualità dei progetti. Il punto di partenza è far si che la comunità, ma anche le istituzioni e le organizzazioni coin volte, vedan o il progetto sotto la pro spettiva dello sviluppo comunitario e non solo come risposta data nell’ambito dell’auto costruzione ad una esigenza primaria quale è quella della casa. Sarà necessario definire quali siano i meccanismi che aiutano a costruire insieme la casa e la comunità. Così come per le strade, l’elettricità, il sistema di smaltimento de lle acque nere, bisogna anche domandarsi quali siano gli elementi che contribuiscono a costruire e che permettono la crescita di una comunità. Dice Alexander: “Il nocciolo del processo di pianificazione che proponiamo è questo: la Regione è composta da una gerarchia di gruppi sociali e politici, dai gruppi più piccoli e locali - famiglie, vicinati, e gruppi di lavoro - ai gruppi più ampi - consigli cittadini, assemblee regionali. Immagina per esempio una regione metropolitana composta molto semplicemente dai seguenti gruppi, e immagina ogni gruppo un’en tità politica coerente: A - La regione: 8.000.000 di persone B - La città principale: 500.000 persone C - Comunità e piccole città: 5 - 10.000 persone. D - Vicinati: 500 - 1000 persone ciascuna. E - Comparti residenziali e comunità di lavoro: 30 - 50 persone cia scuna F - Famigl ie e gru pp i d i lavor o: 1 - 15 p erson e ci ascuna ...” (C. Alexander Pattern Language) Per affiancar si al metodo di Alexander sarà importan te intro durre questi patterns di formazione comunitaria a tutte le scale: - a livello nazionale o di Regione La scala più larga si attua in programmi di ricostruzione a scala nazionale. Questi programmi in genere coinvolgono grandi sforzi di pianificazione, coordinamento e formazione, richiedono decisioni politiche a livell o nazion ale e coinvol gimen ti eco nomici su l l ung o p erio do. L’obiettivo è quello di costruire decine di migliaia di case l’anno. - a livello di città L’auto costruzione programmata dalle autorità locali a livello regionale o municipale, si colloca in una scala intermedia, e possono esser e condo tte in colla borazione con delle NG O. In ge nere fa nno fronte alla costruzione di diverse centinaia di unità ogni anno. - a livello di piccola Comunità: In molti paesi vengono poi organizzati progetti in auto costruzione a livello di piccola scala e possono lo stesso essere condotti in collaborazione con delle NGO. Po sson o esse re espl etati d a Co mmu nity Ba sed Ora gani zation CBO, Cooperative o Compagnie private. Il numero di unità in genere previsto è compreso tra le 50 e le 500 unità. I progetti a scala più piccola possono essere condotti in collaborazione con le autorità locali. Conclusioni La costruzione della casa è chiaramente uno degli strumenti per favorire l’accrescimento, in termini di autonomia, della capacità di rispondere ai propri bisogn i sviluppata attraverso la partecipa zione comunitaria ai problemi della collettività. Si tratta evidentemente di un’ampia operazione culturale e concettuale che permetterebbe una grande modificazione nel rapporto tra intervento di emergenza – ricostruzione - vita comunitaria; Già V. Hugo nel Notre Dame de Paris colse una simile operazione culturale descrivendola in maniera assolutamente originale nel capitolo intitolato “Questo ucciderà quello”. Hugo si esprimerà contro i trattati, le accademie, e la cultura Beaux Arts a favore di una cultura artigianale e locale. Biasimando quella che potremmo de finire con Alexander come la perdita della qualità senza tempo dell’architettura, concluderei proprio con le parole di Victor Hugo: [ … ]Ritroveremo sulle tre sorelle maggiori – indiana, egizia, romanica – il medesimo simbolo: teocrazia, casta, un ità, do gma, mito, Dio; mentre le tre sorelle minori – fenicia, greca, gotica – qualunque ne sia la diversità della forma inerente alla loro natura, esprimono un eguale significato: libertà, popolo, uomo. [ … ] In quella dei fenici si sente il mercante, nella greca il repubblicano, nella gotica il borghese. [ … ], i caratteri salienti delle costruzioni popolari sono la verità, il progresso, l’originalità, l’opulenza, il perpetuo movimento. [ … ] L’architettura [ … ] è tornata dalle crociate con l’arco a sesto acuto, come le nazioni con la libertà [ … ] I quattro muri, ora, spettano a ll’artista. Il libro dell’architettur a non appartiene più ai sacerdoti, alla religione, a Roma; ma all’immaginazione, alla poesia, al Popolo. [ … ] Ogni razza, che possa scrivere la sua riga sul libro, cancella i geroglifici romanici dal frontespizio delle cattedrali, ed è già molto se vediamo ancora trasparire qua e là il dogma sotto il nuovo simbolo che vi depone. [ … ] Non possiamo farci un’idea delle licenze che prendono allora gli architetti perfino contro la chiesa. Ecco capitelli arabesca ti di frati e monache vergognosamente accoppiati, come nella sala dei Caminetti del palazzo di Giustizia a Parigi. Ecco l’avventura di Noè scolpita senza sottintesi come sotto il portale principale di Bourges. Ecco un fratacchione amante di Bacco con le orecchie d’asino e il bic- chiere in mano che ride in faccia a tutta la comunità, come sul lava bo dell’abbazia di Bocherville. Esiste in quell’epoca, per il pensiero scritto sulla pietra, una libertà molto simile all’attuale libertà di stampa. È la libertà dell’architettura”. Note: 1 Vattimo, Costruire Abitare Pensare dopo Heidegger, in Spazio e Conoscenza nella Costruzione dell’Ambiente a cura di Maria Bottero. 2 C. Alexander, Note Sulla Sintesi Della Forma C. Alexander, Note sula Sintesi Della Forma, p.63 4 C. Alexander, Note Sulla Sintesi della Forma, pag. 54 5 Espressione usata da Gorge McRobie in Building issues, A people-centered Approach. 3 6 Strategy 2010, To improbe the lives of vulnerable people by mobilizing the power of humanity; International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies 7 Serv ices for the Urban Poor. A people-c ebtered Approach. By Gorge McRobie, Lund University 8 V. Hugo, Notre Dame de Paris, cap.II, p.187, Questo ucciderà quello Partecipazione e comunità multietnica Applicazione di un modello di pianificazione/progettazione sostenibile per un luogo d’incontro: il Parco Temporaneo di sosta Tommaso Mele Università Roma Tre Dottorando in Sviluppo Urbano Sostenibile [email protected] Il pensiero della sostenibilità, consolidatosi in p iù di un dece nnio di dibattiti e conferenze internazionali, si può fa r risal ire al “Vertice di Rio” del 1992 quando si è adottato un piano che elabor a strategie ed enuncia un programma di azioni concrete per fer mare e i nvertire g li effe tti de l degr ado ambientale e pe r promuovere uno sviluppo compatib ile con l’ambie nte. Que sto pia no di azione, conosciuto come “Agenda 21 ”, analizza le problematiche a mbientali in rapporto all’economia, alla società e alla cultur a, ed è stato sotto scritto da 150 paesi ; si tratta di u n “sistema di ob iettivi” finali zzato a perseguire: l’integr ità del l’ecosistema, l’ efficien za economica, l’e quità sociale (anche fr a le generazioni). La comunità è oggi più che mai al centr o di numerosi dib attiti soprattutto sul la indi viduazione dei parametri che la identificano: sicuramente quelli che la relazionano ad un luogo geog rafico, ad un insieme di manufatti, alle relazion i economiche e culturali, all’evoluzione storica ecc. Io credo che un punto fon damentale su cui riflettere sia quello d i cap ire come è cambiato e come sta cambiando il “gruppo ” stesso; alla ormai consolid ata distinzione, tipica della fase industria le e postindustrial e, del cittadino ab itante del “centro” e della “periferia”, che comportava p recise distinzioni in termini di comportamento, tenore di vi ta, qualità abitativa e localizzazione urbana, si va progressivamente de lineando una distinzione p iù relazionata al fenomeno della città globalizzata. La Sessen dimostra nei suoi studi sulla città g lobale che l a composizione sociale si va d ivaricando tra residenti ad alto e quelli a basso reddito. I pri mi sono rappr esentati da manager della new economy, dagli oper atori finanziari, dagli alti quadri del le aziende, dai tecnici speciali zzati in informatica e in altri settor i del terziario avanza to, ma anche da uomini di cultura, me dici specia listi, ammin istratori p olitici ecc. Una ragione d i questo cambiamento, la nascita di tali professioni, è dovuta alla conce ntrazione delle a ttività che le supportano in ambiente urbano, che rappresentano luogh i privilegiati per vive re e svilupparsi i n vicinanza di str utture sofisticate che non posso no n ascer e al tro ve. Gli individu i a basso reddito so no quei la voratori di supporto a questi settor i avanzati, che svolgono lavo ri ba nali ma indispensabili; nuovi nell a lor o org anizzazione e sp eciali zzazio ne lavor ativa n on rien trano ne lle consuete classi contemplate d ai r egolamenti. Rappresentano un eterog eneo panorama di individui car atterizzati tutti da un basso salari o, incertezza lavorativa e forte mobil ità. Queste osser vazioni rigu ardano alcuni asp etti relativi ai camb iamenti che hanno trasformato la “comunità urbana” nei suoi aspetti sociali, economici e politici attraverso gli ultimi decenni del ventesimo secolo. Le modificazioni d el tessuto connettivo cittadino sono state di intensità variabile a seconda delle città e delle singole vocazioni al cambiamento, ma è innegabile che il fenomeno ha i nteressato una tale quantità di territori da considerarsi quasi glob ale. Credo sia importantissimo per tu tti i soggetti prep osti alla pianificazione urbanistica ed edilizia, valutare con attenzione “l’utente” che sarà il principal e fruitore del lo spazio urba no, ne i suoi para metri storici consolidati ma soprattutto nelle caratteristiche nu ove che ormai lo co ntraddistinguono. Altro aspetto fon damentale è quell o di saper prevedere i cambiamenti futuri che la storia recente ci assicura di rapidissima evoluzione. È difficile valutare la composizione sociale ed econ omica d ella comuni tà ur bana contempor anea e stabilire i le gami con i mod elli passati , l’unica cer tezza è la velocità con cui i siste mi son o messi in crisi e l’inerzia che la città fisica offre a tali fenomen i. Un chiaro e sempio di que sta situazion e che p ossiamo definire a doppia velocità, da un lato i ca mbiamenti sociali ed econo mici e dall ’altro la resistenza a ll’ad eguamen to fisico d ella città, è rappre sentato dal così detto “proble ma immigrazione” e dal suo impatto ne lle struttur e urbane. Gli stati più industrializzati, nel corso degli ultimi decenni , hanno assistito ad u n pro gressivo trasferimento di individ ui dai paesi del mon do più pove ri, anche se il fenomeno n on è del tu tto nuovo e la società occidentale stessa è il risultato di processi migratori che si sono verificati nell’arco di duemila anni, attualmente riveste un car attere negativo, si parla infatti di pro blema, in re lazione al grande numero di individui e alla scarsa possibilità di integrazion e. Prima abbiamo richiamato la differen ziazione che la Sesse n in dividua all’in terno dell a comunità urba na contemp oranea e l a chiara distinzione tra utenti in b ase al diverso livello di redd ito. Le masse migratorie son o spesso formate da lavo ratori che si inseri ranno in meccanismi produttivi legati alla forza la voro manuale, rapprenderanno, nella maggior parte dei casi, la punta di quell’universo semisommerso che è indispensabil e p er la vitalità del l’economia globale ma su cui ricadr anno mi nori profitti . Co me i nuovi poveri occidentali, il pericolo ma ggiore e che il fenomeno mig razion e incontrollato possa ingr andire quella porzione d i popol azion e con b assissimo reddito, incapace di migl iorare il proprio tenore di vita e di contrib uire val idamente al migl iora me nto col lettivo con il pa gamento dell e tasse. Credo che il termine negativo con cui si identifica questo prob lema rispecchi la p reoccupazi one che queste perso ne possano en ormemente gra vare sulle spese generali della colletti vità sen za poter in qualche modo co ntribuire: il pe ricolo è reale, il fe nomeno se non regolato e organizzato, rappresenta un a po ssibile causa di altera zione di eq uilibri. La società occid entale può essere considerata un in- sieme in equilibr io di varie forze, talvolta contrastanti, che in un d ibattito democr atico stabiliscono le regole, i d iritti e i doveri, che so no alla base della sua stessa esistenza. Tutti i cittadini sono chia mati i n causa nel decidere le forme e i modelli di vita più appropria ti per garantire una miglio re q ualità della vita , il fe nomeno immigra zione, per la quantità di individui che interessa, può alterare questi par ametri che si fondano su valori di relazione, di identità, di ordin e pub blico e a volte igienico-sanitari. Troppo spesso il fenomeno immigrazione è inoltre pensato, ne l nostro Paese, in termini di eme rgen za e in stretta connessione an che con il fe nomeno della criminal ità. Per questo motivo i flussi migratori generano un clima di a llarme sociale nel quale è difficile elaborare adeguate politiche di in tegrazione e rassicurazion e. Il fenomeno è sicuramente una realtà le cui motivazioni so no talmente complesse e l egate a sistemi ma croeconomici e prod uttivi g lobali da rende re forse più conveniente la con vivenza e la sua accettazione. Una tale posizione non deve consistere in u n atteggiamento passivo nei rigua rdi di una moltitu din e di individui che scelg ono di trasferirsi nel nostro paese, ma i n una chiara pre sa di coscienza del fenomeno e nella ricerca di nuo vi mode lli di integrazione. Oggigiorno si osservan o e videnti segna l i di una pr ogressiva sta bilizzazi one che po rta no a considera re i flussi migratori non solo come una fug a da condizioni di e strema povertà e di biso gno, ma anche come il risul tato della forza d’attra zione esercitata da Paesi ad economia avanzata e dall a domand a d i la vo ro presente in queste ar ee. Cred o che sia arrivato in mo mento di affrontare la questione in termini strutturali e governare il “pro blema immig razione” in maniera meno ideologica e più funzio nal e alle esigenze di crescita della nostra economia. Purtroppo esiste anco ra l’idea che la presenza degli strani eri generi disoccupa zione, u n’idea che in passato ha ori ginato movi menti xeno fobi. È p ossibi le, in vece, i nve rtire la ten denza i n favore di un co nsenso ampio, e in lin ea con le istanze espresse soprattutto dal mondo impre nditoriale , sul fatto che gli immigrati rappresentano una risorsa e co nomica i ndispe nsa bile pe r i l n ostr o p aese. Qu esto no n sol o pe rché gli stranieri vanno a ricoprire ruoli lavorativi gravo si e no n più coperti dall ’offerta di lavoro autocton a, ma come soggetti porta tori di valori cultural i in grado di “incontrare” quelli nostr i. Per molti versi i flussi migrato ri r appresentano ancora un problema irr isolto, per motivi di spe culazione politi ca, per la prese nza di or gan izzazioni criminal i sempre alla rice rca di nu ovi sogge tti da avviare ecc. Sorvolando su question i di questo tipo, di cui la cronaca gio rnalmente ci ricorda la loro gravità, e accettando in pieno l’ide a d ella grande risorsa economica , so cia le e culturale che in fond o contraddistingu e questo fenomeno, credo che una p articolare attenzione dovrebbe esser e riservata nei dibattiti in merito alla “par tecipazione”. Le strategie di partecipazion e hanno come obiettivo l a comunità, cercano di co nvo gliare le aspetta tive e i deside rata del la popolazione verso un a forma di pia nificazion e che viene da l basso, non più imposta ma fondata sul consenso e sulla consape volezza dei risultati. Un aspetto importante è quello di sape r “asco ltare” i bisogni della gente e di saperli trad urre in termini di qualità del lo spazio u rbano. Una delle principa li conseguenze del fenome no immigrazione è proprio la trasformazione della co munità urba na in un insieme di energie sicuramente multicul turali; gli immigra ti, siano essi inte grati oppure “nascosti”, rappresentano una note vole porzione della popolazione e sicuramente il loro numero è de stin ato ad aumentare negli anni futuri. Di conseguenza il dibattito i n merito alla partecipazione dovrebbe, a mio avviso, interessarsi del problema cercand o di individuare str ategie cap aci di saper ascoltare q uesta “mo ltitudine di lingua ggi” Gli immigrati, anche se rico ndurli ad u n’unica tipologia è riduttivo essendo il fenomeno di una compl essità e una varietà tale da meritare u na tratta zione separata, sono general mente spi nti ad una rapida integrazion e cercando di mantenere intatti i val ori culturali e sociali che li distinguono e que sto comporta una spinta di rinnovamento cui la città oppon e dei vincoli fisici ma an che culturali. I modelli di partecipazione credo possan o svolgere una reale funzione sociale nel momento in cui si rivolgono ad una comunità multiculturale, rappresentando un momento fondamentale di “incontro” finalizzato sia al la costr uzione fisica di qualità ambientale sia alla definizion e di valo ri ed obiettivi comuni. La realtà dei fatti ci mostra come già sia difficile, in alcu ni casi, la semplice convivenza, basti per tutti ricordare il caso del “ Casilino 700” a Roma, questo però non dovreb be fr enare quelle attività che coraggiosamente si impegnano alla risoluzione del problema. Lo strumento migliore è quello del Forum contemplato nell’Agenda XXI anche se limitato ag li aspetti strate gici generali. La figura maggiormente interessata è il “facilitatore”, colui che all ’interno de l forum cerca di mediare le spinte contrastanti per poi ri condurr e il dibattito su questioni pratiche di ridisegno de llo spazio urbano. Il ruolo del faci litatore dovr ebbe essere da un lato fortemente str utturato, che significa p reparazio ne e forma zi one, e d all’ altro str uttu rante, cap ace d i val utare dur ante le operazioni di “incontr o” le strategie migliori per i nnescare processi costruttivi. Il vero pro blema, nel caso di comunità multicultur ali, è quello legato a lla comunità stessa , alla su a mancanza di coesione; come è possibile implementare p rocessi di pr ogettazio ne e gestione partecipata in un panorama socioeconomico mutevole ed in via di definizi one? Se la comunità si costru isce sul co nsenso e la partecipazione si basa sul dialogo, quali potrebbero esse re le migliori strategie di “ascol to” di u na real tà multicultur ale caratterizzata da un grande livello di co mple ssità? Credo che il momento p rimo , il germe che può innescare processi di piani ficazione dello sp azio urbano condiviso e al lo stesso te mpo far incon trare comunità diverse, sia l’azione di “stimolar e”. Il faci litatore, ancora prima di creare le condizioni del forum, dovre bbe capire quali strumenti di discussio ne p otre bbero essere più app ropriati nei futuri dibattiti , ca pire quali partite si stanno giocando in qu el determinato contesto, quali le ragioni profonde del conflitto di ordine sociale, politico, economico e cultur ale. Di conseguenza dovrebbe preparare l e “domande” ch e maggio rme nte possano scuotere le co scienze, che centr ino esatta mente il cuore del problema ne i suoi minimi termini allontanando considerazioni demagogiche l egate ad u na vision e più generalista. Da quel momento, da qua ndo si i nquadra il pro blema e se ne riconoscono i motivi, si passa alla fase dell’ascolto, altro momen to fondamentale final izzato ad affinare gli obietti vi. L ’ascolto consiste nel capire le ragi oni umane del problema, quelle più legate al contesto, quelle che “so lo chi vive lì può capi re”. È a nche momento di verifica della validità degli “stimoli” proposti, in cui si capisce se effettiva mente il problema è stato messo nella chia ve di lettura gi usta. L’ul timo passo è quello de l “tradurre ” in termini di intervento sul territorio, le istanze scaturite nei dibatti ti, capire quali funzio ni ur bane inse rire, qua li a llontanare e q uali modi ficare. L a costruzi one del consenso nel caso di comunità multiculturali dovrebbe interessare d iversi gradi d’inten sità della partecipazione. Infatti la popolazione può essere chiamata in causa in diversi modi, dalla semplice informazio ne, alla consultazion e, fin o al coi nvolgi mento attivo e all’autocostruzione. In r ealtà la scala dovrebbe essere un insieme di ta ppe da seguire per u n corretto coinvolgimento, infatti maggiore è la partecipazione e più grande sarà il livel lo qualitativo raggiunto, intende ndo con qu alità il g rado di rispondenza del progetto ai bisogni effettivi. Questo perché in alcune ci rcostanze livelli “bassi” di par tecipazion e sono in realtà p rimi passi in direzi one di un processo di camb iamento graduale verso l’introduzione di meccani smi p iù significativi di coinvolgimento a ttivo . L’autoco struzione, a mio avviso, avrebbe come valor e aggiunto quell o di coinvolgere “mate rialmente” comunità culturali diver sificate e rappresentere bbe u n terreno d’incontro altamente q ualitativo coin volg endo aspetti pragmatici e u mani, contribuirebbe a cementa re relazioni, in una parola sarebbe un occa sione di autentica crescita fisica (la città) e sociale (la comuni tà urbana) . Il “pa rco temporaneo di sosta” potrebbe esse re una possibil e risposta all’emergenza “immigrazione” affrontando il primo dei problemi: l’accoglienza. L ’idea è quella di cre are una struttura autogestita e autocostruita inserita in un contesto verde, formata da una serie di piccole residenze, temporanee e faci lmente modificabili, e da una serie di spazi destinati al l’autopro duzione agricola, al possibile allevamento, alla produzi one artigianale e a luoghi d i incontro e d i interscambio culturale. Questo conta tto è auspicabi le che avvenga in un terri torio non urbanizzato, possibilmente libero e comunque per me zzo di strutture non fisse ma temporanee, in modo tale da essere demolite o sposta te nel momento in cui no n sono più necessa rie. Ne l n ostr o caso il prog etto è que llo di una str uttu ra temporanea in cui le comunità di “immigrati” trovano una p rima acco glien za e sopra ttutto l a p ossi bilità di poter costr uire materia lmente lo spazio che utilizzeranno in questo periodo di transizion e. Il “parco temporaneo di sosta” dovrebbe in teoria essere u n “nodo” inserito in una r ete più g enerale di accoglie nza in cui i flussi migrator i p osson o “p assar e” a ttraversand o u na ser ie d i a ltr e struttu re ch e prog ressivamente accompa gnan o l ’in te ro viagg io. Il pa rco transito rio di sosta è p rima di tutto un’alternativa al così detto “centro di prima accoglienza” dove di solito si utilizzano vecchi ospedali, conventi, ospizi e tutte qu elle costruzioni che, in passato, hanno svolto atti vità l egate alla presenza simu ltanea di mo lti individui. Il modello proposto non deve essere una struttura in g rado di offrire soltanto ospitalità te mporane a, ma una vera e propria minicittà in grado di autoso stenersi. Dovrebbe essere principa lmente u n’occasione di inco ntro in cui d a un lato il “viaggiatore” ha la possibilità di organizzarsi e decidere con calma il proprio futuro, e contemporaneamente il cittadino “ospitante ” può rendersi conto e conosce re il suo n uovo vicino. Il fattore tempo è fon damentale, non si può avere la presunzione di r isolvere un problema co mplesso come quello dei flussi migra tori incontroll abili, in un brevissi mo perio do e con un’idea geniale. Il pro blema immig razione od ierno è una consegue nza de lle tr asformazioni economico-soci ali che negli ultimi decenni hann o portato al mu ta men to di moltissimi equil ibri intern azi onali, diversificando i n misura maggiore rispetto al passato la distribuzione della ricchezza planetar ia. I paesi poveri vedono accrescere la l oro miseri a in propor zione sempr e maggiore che no n trova egu ali n ella propr ia storia e, di con seg uenza, p er mol tissimi i ndividui l’ unica certezza di un futuro miglio re consiste nell’abbandonare la loro ter- ra per una nuova e si curamente più ricca d estinazio ne. Il “problema” poiché è la conseg uenza d i un fenomeno sempre più glob ale, in questo stesso senso dovrebbe trovare la sua soluzi one, par tendo dalla dimensione più ampia del fenomeno, a livello planeta rio, per a ffrontare , in successione, livel li più circoscritti fino al “loca le”, alla scala minima di intervento che potrebbe essere l’alloggio. Appare ch iaro come nel l’organizzazione del fenomeno immigrazi one, il ruolo della città debba essere rivalutato co nsiderand o il centro urban o il lu ogo più ambito e la meta final e de lla ma ggior parte dei flussi migrator i, vuoi p er la presenza di a mici e pa renti, per la facilità di trovare alloggio, per potersi maggiormente “nascondere” tra la moltitudine di cittadini ecc. La città dovrebbe rivalutare il suo rapporto tra globale e locale, defi nire la p ropria vocazio ne a superare le barr iere per connettersi con reti di collegamento di ordine superiore ed i nferiore. In generale credo che una soluzione al problema potr ebbe essere quella di creare delle strutture gerarchiche, collegate tra di lor o in una rete internazionale di “so lidarietà” che affrontino il fenomeno nei suoi aspetti compl essivi, organizzando il viaggio, la scel ta delle destinazioni, la prima accoglie nza, la formazione e l’avvio di sistemi di integrazione fino al comple to inserimento lavorativo e so ciale. Ogni struttura di questa ausp icata rete di razi onalizzazi one del fenomeno immigrazio ne, dovrebbe avere la capacità di autore fenziarsi e di saper porsi in competizione con le altre realtà, d i ordine superiore ed inferiore, agendo sullo sviluppo delle struttu re di collegamento, sia no esse materiali o immateri ali, per entrare in un circuito i nternaziona le e consegu enteme nte di ve nire un “nodo ” fra realtà ter ritoriali forti nel settore dell’integrazione sociale. Abbiamo accenn ato al fatto che la città giochi un ruolo fonda mentale pe r cui alcune delle strutture di questa rete di solidarietà avranno una localizzazione urbana. I principali problemi aperti sono proprio qu elli legati da un lato alla conservazione delle caratteristiche intrinseche dei luoghi su cui insisteranno, quelle che definiscono le identità forti capaci raccontare un luogo e la propria condizi one socioeconomica, e dall’a ltro la sce lta strategica del tip o di intervento, che ra ppresenta sicura mente un’innovazione. I due ordin i di problemi sono fortemente l egati , è impensabile attivare forme di trasformazione ur bana se non “tarate” sulla possibi lità ch e la co munità possa accettarle e riconoscere i n esse il rispetto delle proprie tradizioni e dei p ropri valori. L’inser imento in u na rete, ino ltre, presuppone la de finizione delle garanzie di sta bilità : coope razion e e confronto, dunque, diven tano str ategie fondamentali su cui pu ntare insi eme co n il rafforzamento delle reti fisiche di comunicazione e di traspor to. Il progetto d el parco temporaneo di so sta deve perseguire i pr incipi di sostenibilità co me l’equità socia le e l’integrità dell’ecos i stema. Il primo obiettivo deve e ssere quello di creare una prospettiva d i vita co mun e con la possibil ità di conoscere “l’ altro” e allo stesso tempo di riconoscere, nella città ospitante, i valori della fratellan za e della solid arietà. A ffinché si crei que sto dialo go con il conte sto bi sogn a inizialmente r iflettere sulla prop ria i denti tà, e videnziare le differenze e cercare collettivamente quei compro messi capaci di rispetta re se stessi e gli altri. Questa possibilità manca nei normali cen tri di acco glienza, dove l’urgenza di inser ire “l’immigrato” fa sì che questi cerchi di somigliare il più possi bile all’ idea del cittadino ospitante. Si corre il rischio di annullare il proprio modo di vita verso un modello talvolta totalmente e straneo per ottenere quel per messo di soggiorno tanto agognato. Il parco di accog lienza do vre bbe esser e un gra nde la bora torio d i i ntegr azion e e d i inter sca mbio culturale. Un luog o dove si ha il tempo di spe rimentare il pro prio grado di adattame nto a mo delli di vita estranei e al contempo creare quelle relazioni fr uttuose che perme ttono alle proprie differenze di evidenziarsi per diventare rife rimenti culturali per g li altri. Il fattore tempo è oltremodo importante per i cittadini che si vedon o occupare una zona, vicina alla loro casa, da “immigrati”. L’altro è visto come una minaccia alla propria condizione di vita , è messo i n rela zione con la criminalità e altri probl emi di ordine pubbl ico. No n è questa la sede p er affronta re l’ argomento di co me tal i rel azion i siano nate, di come sia radicato il bi nomio immigrato-criminale, n e d i cercare del le sol uzi oni immed iate pe r r iso lve re i l p roblema. È uno stato di fatto, un punto da cui partire . Q uindi, così come è impor tante che l’immigr ato abbia a disposizione tempo per rivendica re l a propria diversità e per inserirsi, lo stesso tempo è indispensa b ile ai citta dini pe r rend ersi co nto d elle re ali poten zi alità di un o sca mbio e di un incontro. Con il termine equità sociale spesso si in tende anche un particolare approccio alla progettazione e trasfo rmazi one dello spazio urbano in cui la comunità loca le può interag ire i n prima p ersona, definendo obiettivi e strategie. Per la simulazione d el parco tempo raneo di sosta è stato applicato un metodo di pianificazione/progettazione so stenibile di tipo inte rattivo e incrementa le, che si fond a su tre procedure diverse colle gate in modo cicl ico: Visioning, Strate gic Choice e A Pattern Lan g uage. Il Visioni ng p ermette attr ave rso l’ elabor azi one di un racconto di chia rire gli obiettivi e gli scena ri futuri che si vo rrebber o rag giungere, consiste in procedu re mol to semp lici b asate sul con fronto incrociato delle diverse aspettative, sotto forma di racconti i n cui posson o convogliare tutti i sog ni e le speranze future. Nell’ambito del fenomen o immigrazione, una tal e tappa, anche se finalizzata all a pr ogettazion e de l centro di a ccoglienza, rappresenta ino ltre una importante fase d i dialogo tra la città consolid ata e i nuovi arri vati, un punto d i incontro basato sul confronto dei propri deside rata e non su posizioni ideologiche pr ecostituite. Lo scopo princi pa le del progetto è quello di creare una con dizione in cui una co munità loca le forteme nte radicata n ella città possa accostarsi a d un’ altra che invece deve ancora trovare la sua dimensione socio pol itica. Il passo successivo , an che se in una sequenza d i procedure cicl iche la successio ne non segue gerarchie pro gressive e le singol e fasi posso no avve nire i n modo simultaneo, è quello dell’applicazio ne delle procedure di Strategic Choice ch e per mette, attraver so fa si metod ologiche di discussione, confronto e scelta, di impostare i pr oblemi, i “fu och i”, e la serie di soluzioni alternative compati bili. Nel caso del “parco temporaneo di sosta”, ipotizzando l’applicazio ne del metodo indicato, i pr incipali “fuochi” d el problema consisto no nel decidere il ti po di orga nizzazione del cen tro, il tipo di resi den ze d a costruire, le attività produttive e quelle di incon tro con l a città, tutte le tematiche che in fondo definiscono una piccola micro città autog estita e autocostruita. In particolare p er le ca se, ho immaginato ch e in seguito ai con tinui confronti tra le diverse istanze, soprattutto quelle legate ad uno svilupp o sostenibile, la scelta migli ore sia q uella di strutture realizzate princip almente con matton i di ter ra cruda. La pro duzione dei mattoni formati da questo antico materiale da costruzione avviene in loco con l a partecipazione d i tutta la comunità . In caso di impossibili tà di realizzazione per man - canza di volontà o di forza lavor o, la produzione può esse re affidata a volontari o a cooperative sociali in teressate alla realizzazione del progetto. L e stru tture saranno diffe renziate a seconda della destinazione d’uso, con possibil ità di mo difi ca immedi ata al var iare delle esigen ze. L’estrema versatilità del mod ello gara nti sce una sua gra ndissima capacità di ada ttamento al mutare delle condizioni, le case possono ridur si o ingrandirsi a seconda delle esigen ze e , esaurito il loro compito, posso no essere smantellate e tornare terra. Le attività di interscamb io culturale (laborato ri, negozi alimentari, luoghi di sosta, per spettacoli, per dibattiti e mostre ) sono localizzati in pi azze tte col locate lun go la strada p rin ci pale . Il luo go dell’incontro è la piazza che costituisce fisicamente il confine tra la zona del par co abitata e le strade pedonali pubbliche che partono in corrisp ondenza dei quartieri limitrofi . A rigore n essuno di questi inte rventi p otrà essere attuato a breve termine, dal momento che esisto no alcune aree di incertezza che possono ostacolarne la realizzazione. L’intero pr ogetto è subordinato al superamento dei più impo rtanti vincoli che lo caratterizzano. P rima di tutto si devono convincere gli abitan ti dei qu artieri limitrofi d ei vantagg i derivanti dalla vicinanza con una comun ità autogestita. Vantaggi sicur amente di tipo culturale ma anche economico, essendoci la po ssibilità di in staurare un commer cio di pro dotti agr icoli genuini e bio logici. Va ntaggi di tipo ricreativo con la possibilità di usufrui re di un parco “ma ngiabile”, un luogo dove si può riviver e l’atmosfera d i un piccolo centro agricolo nel bel mezzo di una grande città. L’opzione in que stione, come abbiamo detto, è subordinata ad un’altra incognita. La comunità autogestita non rappresenta una novità solamen te per gli abitanti, ma soprattutto per quelle persone a cui è destinata, i cosi detti “immigrati” . Bisogna superar e l a no rmale diffide nza che esiste tra comunità diverse e creare le co ndizioni so ciali per la formazione di una nuova realtà che non rappresen ta la sintesi di tutte le altre, ma un mosaico di cultu re diverse. Bisogna sup erare, inoltre, le diffi coltà oggettive ri guardo la p ossibilità di autocostruzione del proprio territorio, a tal fine si possono predisporre delle squadre di volontar i capaci di garantire una continuità costruttiva e direzionale. Anche per quanto riguarda l’opzione delle case in terra, bisogn a inizialmente affrontare alcune incertezze: prima fra tutte l’ovvi a volo ntà da parte delle persone di costruir si la propria residenza e di farl o con mattoni di terr a cruda . Come alternativa ci sarebbe la possibilità di utilizzare delle strutture prefabbri cate, facili da montare e da modificare. Io sono convinto che il fatto di utilizza re la te rra sia prima di tutto una scelta politico-sociale, da una parte re cupero una tradizi one che sta scomp arendo e dall’ altra u til izzo un me tod o di costruzi one veramente soste nibile. L’attività maieu tica è implicita in tutte le proce dure del metodo di proge ttazione/pian ificazione , ma in particolar e in A Patte rn L anguage. I proge ttisti che operano nell’ambito della proced ura sono invitati a farsi carico di un lavoro finalizzato a spiegare agli abitanti e a tutti i soggetti interessati sia il significato di pattern, sia l’uso che si p uò fare con il linguaggio. I pattern teorizzati e spiegati dal lavoro di Chri stopher Alexander nel caso del parco temporaneo di sosta posson o essere utilizzati par tendo da scale urbane ampie che di solito non ven gono considerate. Il progetto rappre senta una minicittà che teor icamente deve essere progettata da zero, il linguaggio dei pattern rappresenta una possibilità unica per chiarire, utilizzando archetipi, l’assetto finale che dovrà avere, dalla sua organiz- zazione, dal rappo rto con il con testo fino al la definizione degli alloggi, dei luoghi comuni, delle stanze ecc. Tra i patte rn sussistono differen ze di scala (in genere la scala del patter n è tanto più alta quanto più basso è il numero che lo id entifica) e relazioni di natura logico-p rogettuale che eviden ziano l’opportunità di interfacciare/integrare pattern diversi. Per elab orare il progetto son o stati scelti alcuni pattern principali di cui sono sta ti presi in considerazione sia i “contenuti”, si a le relazioni che intercor rono tra pattern diversi di ordine superio re ed inferiore. Il pattern principale MOSAICO DI CULTURE LOCALI (8) è stato utilizzato come soluzione prog ettuale arche tip a cui fa re r ife rimento pe r creare un a microcittà “fatta di un gran numero di sottocu lture relati vamente piccole nelle di mensioni, dove ognuna occupa un posto r iconoscib ile e sep arato dal le altr e pe r me zzo d i un mar gin e di terr itor io no n resi den zial e” (C. Alexander). Il pattern principale CASA DI TERRA (aggiu nto) è la solu zion e pro gettuale archetipa cui fare riferime nto per creare le abita zioni e gli e difici specialistici che compong ono il “parco temporaneo si sosta”. La casa è l’unità primaria della organizzazione di ogni tipo di territorio, è l’espressione co struttiva della relazione di “necessi tà” con il luogo e dell a contin ua trasformazione della sua fisi cità, come ri sp osta al la mod ificazi one d el le esig en ze d i vita dell’u omo. Con mezzi semp lici , in eco nomia d i materiali , direttamente reper ibile nel luogo ed in risposta a lle esigenze ambi entali, la casa in mattoni crudi è una struttura abitativa che si conforma nel contesto. Il pattern prin cipale NODI DI ATTIVITÀ (30) definisce gli spazi “di attività per la comunità, sparsi ad una d istanza di 270 mt. Prima ide ntifica quei pu nti ch e e si ston o n ell a comun ità d ove le azioni sembrano concentrarsi. Poi modifica il progetto dei p ercorsi per convoglia rne il più possibile i n questi pu nti. Ogni p unto funziona co me un “nodo” di una rete di percorsi. Perciò, al cen tro di ogni nodo, crea una piccola piazza pub blica, e circondala con una combinazion e di attrezzature e negozi per la comunità che si supportano a vice nda” (C. A lexan der). Il p attern principale PROMENADE (31) sug gerisce “la formazio ne g raduale di una strada pri ncip ale nel centro di ogni comunità che collega i princi pali nod i di attività, localizzati centra lmente, così che ogni punto della comunità sia distante 10 minuti di cammino.” (C. Al exan der). I pattern prin cip ali sviluppati da altri di ordine inferiore a cui sono collegati, definiscono lo schema finale che il parco temporaneo di sosta dovrà avere, il vantagg io è quello di cr eare un modell o non definitivo ma che si può modificare durante le fasi d i reali zzazione, non un insieme di ti- pologie rigidamente de finite ma archetipi aperti alla sperimenta zione e alla “contaminazione” con istanze cultura li proprie dei sog getti a cui è de stinato. Tutto il costruito potrebbe essere inserito in un parco di prossima i stituzione, in mod o tale che, la riqualificazione ambientale di una zon a urbana, sia anche l’occasione per la sperimentazione di un nuovo modello di integ razione sociale. Il contesto di un parco offrirebbe la possi bilità di utilizzare pa rte del suolo per agricoltur a ed allevamento. Altro aspetto fondamentale al fine di rispettare le istanze della sostenibilità è sicuramente quel lo dell’eff icienza ec onomica. L’autogestione da sola non basta, bisognerebbe pu ntare all’autofinanziamento e all’autoproduzione. A tale scopo, come abbiamo de tto, è p revista una superficie di terreno adibita ad ag ricoltura ed all’allevamento. I prodotti alimenta ri in eccesso possono essere ri venduti ai cittadini che u sufruiscono del parco i quali, a loro volta, hanno il vantaggio di accedere a risorse alimentari gen uine e ricavate con metod ologie ar tigianali . Il rica vato di questo commercio è utilizza to dalla comun ità per l’acquisto di tu tti q uei b eni n on d irettamente producibili in loco. Anche la costruzione della r esidenza, e quindi la sua manu tenzione, è affidata alla comu nità utilizzando un modello abitativo come la casa in terra facil mente riproducibil e e trasformab ile. Bibliografia: Alexander C., Note sulla sintesi della forma (1967) Milano. Il Saggiatore Alexander C., Ishikawa S., Silverstein M., A Pattern Language. Towns Buildings - Construction (1977) New York. Oxford University Press Barbagli M. , Immigrazione e criminalità in Italia, Il Mulino, 1998 Macioti M.I. , Pugliese E., Gli immigrati in Italia, Ed. Laterza, Roma-Bari, 1991 Magnaghi A. , Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000 Camagni R. , Ec onomia urbana: princ ipi e modelli teorici, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993, Governa F. , Il milieu urbano. L’identità territoriale nei processi di sviluppo, Franco Angeli, 1997 Fusc o Girarard L., Forte B., Città s ostenibile e sviluppo umano, Franco Angeli, Milano 2000 Dematteis G. , Indovina F. , Magnaghi A. , Piroddi E. , Scandurra E. , Sec chi B. , I futuri della città, tesi a confronto, Franco Angeli, Milano 1999 Giangrande A. , Mortola E. , Spada M., (a cura di), Progettare con la comu nità: metodi e nuove professionalità a confronto, Seminario internazionale, Università degli Studi Roma Tre, DI.P.S.A, Comune di Roma USPEL Sbordone L. ,Città e territorio fra sostenibilità e globaliz zazione, Franco Angeli, Milano 2001 Alcuni architetti sperano di arginare il dilagare delle forme arbitrarie, monotone e sgradevoli dell’epoca della globalizzazione con la propria creatività, con un linguaggio (stile) personale. Con quali risultati? Può avere speranza di successo il progetto di C. Alexander, teso a ripristinare la qualità dei luoghi con l’ausilio del Pattern Language? Two Languages for Architecture Nikos A. Salingaros Department of Mathematics, University of Texas at San Antonio San Antonio, Texas 78249, USA. [email protected] Introduction Pattern Language and Form Language Architectu ral design is a high ly comp lex un dertaking, whi ch has been subject to a mysticism that obscured the processes at its base. Attempts to clarify the design process have been many, yet we still don ’t h ave a desi gn metho d th at ca n b e used by stu de nts an d novices to a chieve practical re sults. Even professiona l designers sometimes present solutions that can only be termed “aberrant” and even “perverse”. In the absence of a design method and accompanying cr iteria for judgi ng a d esign, e ve rythi ng is subje ctive, a nd therefore what is built today is influenced largely by fashion, forced tastes, and the desire for shocking innovation. Fo llowin g Chri stop her Ale xa nder an d L éon Krie r, I b elie ve very strongly that there exist invariant laws behind design in general, and architecture in particular. This paper puts forward a theory of archite ctur e a nd urban ism based on two l angu ages: the pattern la nguage, and the form language. The pattern language encapsulates the interaction of human beings with their environment, and determines, say, how and where we walk, sit, sleep, enter a building, enjoy a room or open space, and feel at ease in our garden. The form language, on the other hand, is strictly geometrical, and represents a particular style of building. The importance of a pattern language for architecture was originally proposed by Christopher Alexander and his associates [1], and a fairly general pattern language was presented. Alexander emphasized that, while many if not most of the patterns in his pattern language were indeed universal, there actually exist an infinite number of p attern la ng uag es. Ea ch p attern l ang uag e r efle cts differ ent modes of life and behavior, and is appropriate to specific climates, geographies, cultures, and traditions. It is up to the designer/archite ct to extr act sp ecifi c, non-u niversal patte rns by exami ning the ways of life and tradition in a particular setting. Alexander also uses the term “form language” to describe the geometrical basis of an architectural style [2]. It has been used in this context by other architects, for example Robert Stern [3]. A form language is a set repertoire of forms that can be combined to build any building, and so it represents more than just a superficial style. The form language depends on an in herited vocabular y of forms; how they can be combined; and how different levels of scale can arise from the smaller components. One extremely successful form language, the “Cl assica l Lang uage”, relies on a wid e rang e of variations of th e classica l style of building based on Gr eco-Roma n ancestry [3]. Ever y tradi ti onal ar ch itectu re has i ts own for m lan guag e. It ha s evolved from many differe nt influences of culture, lifestyle, traditions, a nd practical co ncerns a cting o n tectonic geometry. A form language is highly dependent on traditional and local materials -- at least that was the case before the global introduction of nonspecific industrial materials. Along with many other destructive changes that came along with the industrialization of the bui lding process in the twentieth century, the complete loss of traditional form langu ages around the world has been a catastrophe of tragic proportions. Linking pattern language to form language I am going to propose a general theory of design, following the ideas of Chr istop her Alexan der. Its essence is to link o ne patte rn language to one form language so as to create a design method. The process ma y be summa rized as follows, wi th details to be developed later in this paper. An adaptive design method consists of an interacting pair: a pattern language and a form language. I have indicated what a pattern language and a form language are; we still need to understand what an adaptive design method refers to. Out of many approaches to design, there are very few that result in structures and environments that are adapted both to physical human use, as well as to human sensibilities. Human use is straightforwar d to und erstand: the dimen sions a nd geo metry have to accommodate the human body and its movement. By human sensibilities, I mean that environments should make human beings feel at ease; to feel psychologically comfortable so that persons can carry out whatever functions they have to without being disturbed by the buil t environment. This imposes a stron g constraint on the desig n process to adapt to the many factors (known and unknown) that will influence the user emotionally. A major source of confusion is that a design method could be adap tive, but not to hu man use and sensibilities. For example , it coul d ad apt to a set of pr edetermined geometrica l pr ototypes, su ch as cubes and rectangular slabs. This is minimalist Modernism, which has a clearly-d efined geometrical go al; i.e., its peculiar crystallin e form language. It is successful on its own terms while at the same time ignoring huma n patterns of u se. This is the reason why min imali st mode rnism is i nco mpa ti ble with Alexand er’s Pa ttern Lan guage [1]. In this paper, we will use the term “adaptive” to refer strictly to human beings, and not to abstract ideas. Since there exist an infinite number of pattern languages, and an in finite number of form languages, there are of course an infinite number of adaptive design methods. The crucial point is that there are al so an infinite number of design methods that act aga inst adaptive d esig n b y p rod ucin g stru cture s tha t ar e n ot su itab le to huma n needs. In the absence of an accepted term for design that violates human needs, we will call such actions “non-adaptive design”. Modernism is fun damentally non-adaptive. Its form l anguage pr oduces structures that are intentionally hostile to human sensibilities. Studies by environmental psychologists have confirmed physiological reactions such as the onset of anxiety and signals of body stress in modernist environments. For reasons discussed later in this pa p er, mi nimal ist mode rni sm pre cl ude s the use of p attern s. Th at means that patterns of human function cannot be a ccommodate d within the modernist design canon. To proudly proclaim such a de sign method as “functional” is a mockery of the term, but it was admittedl y a remar ka bly e ffective pro paga nda pl oy that help ed to spread modernism. Antipatterns do not define a language In the theo ry of pattern language s -- actu ally developed more extensively in computer architecture rather than in buildings architec ture -- the concept of “antipattern” plays a central role. An antipattern shows how to do the opposite of the required solution. Sometimes this knowledge can be help ful in order to avoid making th e same mistake repe atedly. A s po inted out in an earl ier pub licatio n [4], knowing the antipattern does not also indicate the pattern, however, since the solution space is not one dimensional; therefore, doing the op posite of the antipattern will not give the pattern, precisely be cause there can be many different “opposites”. Antipatterns do not comprise a language, just as a collection of mis takes do not comprise a coherent body of knowledge. It is therefore not appropriate to talk of a language of antipatterns, but simply a collection of antipatterns. These could (and often do) substitute for, and displace a genuine p attern langua ge. I have given rules for disti ngu ishi ng be tween a true pattern langu age a nd a collection of an tipatterns [4], based on their internal consistency and their connec tivity to external patterns. Our present aim is, of course, to be able to discern whether a pattern language is genuine, so that we can connect it to a form language and thus define an adaptive design process. It is imperative not to be fooled by a collection of antipatterns, otherwise our design process will be non-adaptive, even though we may not know it at the beginning. We will eventually see it in the non-adaptivity of the results, at whi ch time it wil l be to o late (i.e., after a city such as EUR, Milton Keynes, or la Défense has been built). The analogous non-adaptive failure in a form language is more difficult to define. Most of that research is indeed very recent, and relies on mathematical properties [2]. A form language that adapts to human beings encapsulates certain very specific geometrical properties such as fractal str ucture, connectivity, and scaling. (I define these properties in other publications). Again, a form language that doe s no t con ta in those mathe ma tical pr ope rties sh oul d not be called a language at all, because it is too sparse to define a rich language of forms. We will call such a form language a “crude form language”, or “protolanguage”. As ca n be see n fr om th e abo ve defi niti on, an ad apti ve desi gn method requi res the uni on of a pattern language with a form langua ge. If eith er th e patter n l ang uag e o r th e fo rm l ang uage a re fl awe d, then the design method wil l fail to create adaptive structur es. On e may employ a pattern languag e together with a crude form language to create structures unsuitable for human habitation and use, such as modernist buildings that try to use Alexandrine patterns. They may satisfy some functional patterns, but they still feel dead and alienating, so that users are uncomfortable. Other examples were built by alternative “counterculture” architects soon after the Pattern Language [1] appeared. They satisfy all the patterns, yet they look chaotic and unbalanced -- far from satisfying Alexander’s original intent [2]. In the opposite instance, one can use a ntipatterns together with a decent form language to damage the environment. Buildings were built in the Classical form language that are inhuman either because of scale, megaloma nia, or the d esire to intimidate. Th ey may look nice from a distance, but are hostile in actual use. This is a characteristic of some Fascist architecture. Modernist architects were also very fond of employing part of the same language of rich, detailed materials, but to intentionally create alien forms. It is only the correct pairing of pattern language with form language that gives an adaptive design method. The architecture of squatte r settlements is an interesti ng case of genuinely adaptive application. Slum dwellers use a particular form lang uage de te rmined by a va ilab le scrap materi als to bui ld the ir houses. Residents are preoccupied with basic survival, and have no wish to copy elements of a theoretical form language. They definitely apply a pattern language (albeit unknowingly) because they want their dwellings to be as co mfortable as possible. Here we have an excellent example of an adaptive design method, which, were it not for the miserable conditions of life represented by the overcrowded slums of the world, is an excellent example for architecture schools to teach. Analogies in human communication I can think of a parallel for two design languages in the necessity of pairing two entirely distinct types of language to enable human communication. Spoken language is used together with nonverbal emotional cues. These independent channels usually interact when one is speaking face-to-face with another person, and even on the tele- phone. Nonverbal communication gives a message of friendliness, ease of interaction, emotional comfort, or hostility independently of what the spoken language is communicating. Nonverba l cues are the basis of a host of messages that are often more important than verbal content. Hu ma n bein gs d evelop ed and ne ed both verb al and no nverb al mod es of communication. Non ver bal cu es carry thro ugh in tel ephone conversations because one can hear emotional signals encode d in th e speaker’s tone of voi ce and infle ctions. Th is is obviously not as effective as speakin g in front of one -another . A d ecreasing sequence of information content corresponds to the gradual loss of the nonverbal language, and is represented by regressing from face-to-face meeting, to videoconference, to telephone, to handwritten letter, to e-mail, to typed memorandum. This is appreciated by the business world, where the value of serious communicatio n is reflected in the p rice bu sy e xecutives are willin g to pay to arrange face-to-face negotiations. As both lovers and fighters know very well, one can rely almost entirely on nonverbal language for rapid communication in certain situatio ns. Indeed, in those situ ation s, it is sometimes the case that verbal language is used to decoy the true feelings and intentions of the parties involved. Amateurs cannot disguise their emotional language a nd so betray their true intentions. Psychopaths and hardened criminals, however, learn to control their nonverbal cues so as to su pport what they communicate through verbal language, and thus deceive their victims. Here we are interested in building things rather than communicating a message. Still, as the linguistic analogy makes clear, a building or urban setting communicates a wea lth of signals to hu man beings, and those signa ls influence the str uctures’ eventual u se. The built environ ment need s to commun icate on many different levels. It is therefore imperative that we be aware that several different design languages contribute to the overall effect on users. The model of two languages - a pattern language and a form language -- is a simplification of what is probably a more complex phenomenon, yet it is a necessary first step to understanding the design process. An artificially crude language, on the other hand, would not be sufficient for verba l communication. It would con sist of, say, six words such as: yes, no, hot, cold, eat, drink. It i s a protolang uage that a compu ter wo uld u nderstand , or a person stranded among othe rs who spoke a differe nt language. In th is example of a non-speaker amidst people speaking another language, however, he or she will rapidly pick up the host language, facilitated by innate metalinguistic structures that define the person’s own native language. What we conclude from the study of spoken and written languages is that, whereas each may appear totally distinct on the surface, its level of complexity and its internal structur e have to obey general principles. A protolanguage, on the other hand, is characterized by the absence of such internal complexity and structure. It has been proposed that the transition from a protolanguage to a real language corre sp onds to the evolutio nary tr ansition from the la nguag e o f apes (and people brought up in linguistic deprivation) to human language [5]. Turning now to architecture, a viable form language is characterized by its internal complexity. Furthermore, the co mplexity of different form languages is comparable, because each shares a commonality with other form languages on a general metalinguistic level. So, while each form language is distinct, it is not really a form language unless it possesses a minimum of complex internal structure. The exact details of the structure must necessarily parallel the i nternal structure of pattern languages [4]. Roughly, these are described as combinatorial, connective, and hierarchical features. The accuracy of our argument is borne out by the enormous number of d istinct form langu ages de ve loped inde pende ntl y by di ffere nt peoples around the world. It is reasonable to claim that for each spoken language, there is also a form language . Loosely (and deprecating ly) cl assed together as “vernacular archi tectu res”, this vast body of complex styles shames the poverty of “official” architectural styles. In terms of richness and sophistication , contemporary form languages p romoted by the architectural magazines represent an evolutionary regression. Perhaps in order to protect its own obvious deficie ncies, the architectural establishment has been destroying traditional architecture as fast as it can. The internal structure of form languages. The transmission of a style as a virus. All hu man sp oken languag es are contained in a “meta language”, wh ich h as a grammatical or syntactical str uctu re common to a ll known languages [5]. Human languages, even in the most technologically primitive cultures known, are not themselves “primitive”. Independently of their technological achievements, all groups of human beings have developed a richly complex spoken language. Differences arise in specificities, in the breadth of vocabulary for concepts important to that culture, and in their transition to a written language, but those do not affect the general richness of the language. This point is easy to explain from the mathematics of communication. In order to describe and communicate complex human activities and interactions, a spoken language itself has to have an extraordin ary capa ci ty for en cod ing co mp lexity. An i so lated primitive tribe has developed millennia of complex activities that are comparable to the complex activities of an u rban dweller in the most advanced industrialized nations. For this reason, both sets of people require, and have developed, a richly complex spoken language. If we oversimplify a form language and call it an architectural “style”, then we can discuss and explain some events in architectural history. We are now faced with a serious contradiction. Why do some design styles proliferate even though they are poorly adapted to human use and sensibilities? (Such styles or design methods could be deficient because they lack either the pattern language, or the form language, or both). Even worse, it appears that the most damaging, least adaptive styles actually proliferate with the greatest ease. The an swer is fri ghte ning in its implicati ons for ou r civi liza tion. In analogy with the replication of viruses, the crudest minimalist form languages spread the fastest in society [6]. That is simply because they encode a minimum of info rmation. The “style” as an informational unit to transmit among human minds in a population carries over b etter when it is simplest. A few ca tchy images, such as fl at sheer sur faces, transparent g lass wal ls, p ilotis, shin y “industrial” materials such as polished steel, etc. define a simplistic style. Nev- er mind that the components of this protolanguage do not define a true form language; the public accepts them because of propagan da from respected authorities [6]. We know how the spread of a virus can be accelerated, as part of the arsenal of biological terrorists. First, disguise the pathogen in seem ingly attractive substances, so as to have the victims consume it voluntarily. Thi s corresponds to the p romise that modernist architecture an d pl annin g solve so cia l p roble ms a nd l ibera te opp resse d classes [6]. The people buy that. Second, artificially spread samples of the virus in as many places as possible so that the maximum num be r of persons will become infected . He re the med ia p lays a key role, showing and praising modernist structures and urban projects [6]. Our architectural schools and press have done a very effective job of promoti ng protolanguages while supp ressing true form lan guages. Someone who has been raised in the twentieth century and taught that beautiful objects have no hierarchical organization will then ap ply this rule subconsciously to build a building or a city. The reason for this can be traced back to artistic and design trends in the 1920s. Design in a rt and architecture overturned all establ ishe d rul es of tre ating thre e-di me nsiona l for ms and two-di me nsiona l i ma ges. Concepts such as hierarchy were eliminated. They had never been written down; they exist in nature and as examples in all traditional a rt and architecture. The new artificial objects: paintin gs, sculp ture s, and build ings i nfl uenced the way we think. They serve as mental templates for conceptualization. Why did this occur only at the beginning of the twentieth century and no t before? I believe that it had to do with radical social ch anges spurred by population pressure so that for the first time, some peo ple were willing to sacrifice adaptive design in exchange for the false promise of a better future [6]. Prior to that, people on all socioeconomic levels shaped their environment as far as they could to pro vide physical and emotional comfort. Another contr ibuting factor was the creation of a new communications network fo rmed by the convergence of telephone, telegraph, newspapers, magazines, and film. The new media tied the world to gether as never before, yet also made possible the rapid prolifera tion of advertising and political p ropagan da. The spre ad of mod ernism could never have occurred were it not for the new media [6]. Just as in the case of internet computer viruses, which could not ex i st b efo re the intern et, cr ude architectur al form langu ages coul d spread only through architectural picture magazines. Minimal complexity and life processes. An excursion into biology is helpful here. There is a direct analogy be tween archi tecture an d living processes. In exami ning h ow life arises, Freeman Dyson proposes that two distinct processes characterize all living forms: metabolism, and replication [7]. Metabolism involves the physical interaction of an organism with its environment in a way that portions of the environment - i.e., nutrients - enter and are processed chemically by the organism. There is an interpe netration between the organism and the environment which maintains the functions of the organism via a chemical engine. The other component of life, replication, is the distinguishing characteristic of forms that survive through copies. Althou gh an organ- ism needs pieces of the environment as raw material to build a copy of itself, the replicative process is fundamentally distinct from metabolism. Replication is directly dependent upon coding the organism’s structure into a template, so that replication is theoretically tied to information storage rather than to interactivity. Perha ps the most important distin ction between the two components of li ving str ucture is their indep endence. This is better discussed in terms of artificial life, as, for example, in entities generated by, and residing in a computer. It is possible to create a metabolizing entity in the sense that it moves around on the screen and is nourished by devouring other nearby entities. It does not, however, have to reproduce. If one has played with the computer game “Sim City”, then one imagines how an internally complex entity can survive indefinitely, and even grow in complexity as long as necessary “nutrients” are inputted. It can carry on an existence independent of other complex entities - it only needs simple supplies. On th e othe r ha nd, it is also possible to create a compu ter virus whose sole function is to replicate. A virus does not metabolize - it is simply a minimal piece of code (either computer, or genetic) that uses the internal machin ery of a far more complex entity in or der to make copies of itself. A pure replicator cannot carry out an independent existence - it is entirely dependent on more complex entities for its continued survival. Without them, it lies dormant as an inanimate piece of information. This is th e reason why biological viruses are considered not to be really “alive”, but to somehow occupy the interface between inanimate crystals and living forms. Architecture as a living process. Turning now to architectural form, we identify the metabolic aspect of living structure with the pattern language. After all, a pattern language dictates how built form interacts with human activities, which are the defining characteristics of a useful structure. A build ing is percei ve d a s functi onal ly “a live” wh en it accommodates h uman functions in an exemplary fashion. This is entirely independent from the style in which it is built, though the way it is built, and the way it looks, have a major impact in whether humans feel comfortable inside and around such a building. A building that is built so as to discourage or hinder human activity is effectively “dead”, since no-one wants to use it. Repli cation of a building style does not depend upon whether it is use ful or not, b ut on i ts form lang uage. A building repli cates if for some reason an architect decides to erect another similar building somewhere else. We naively imagine that this is due to a building’s succe ss in accommodating human beings and the ir activities, but this is not the case. A building replicates only because its form language is used to build another building, and this is independent of the original building’s success. The principal factor behind this is the ease of copying a particular form language (which becomes an unbeatable advantage in a protolanguage). Other factors that i nfl uence the success of a par ticula r form l anguage include so ciop olitica l forces that condemn on e style while promoting another style; the physical presence of a particular style so that it can be copied by everybody; the virtual presence of a particular style promoted in terms of visual images cu rrently fashionable in the medi a; etc. Obviously, techniq ues of a dvertisi ng and proselytizing can promote a protolanguage and spread it in the environment, after which its dominance guarantees further spread. If the form language is too bizarre, involved, or idiosyncratic, then the building, even though it may be perfectly adapted to its uses, will not be used as a model for a nother building. This helps to explain why cer tain successful bui ldings were never used a s typol ogical prototypes. On the positive side, it is doubtful whether deconstructivist buildings will take off like modernist buildings did - simply because their protolanguage is not copyable. On the negative side, Art Nou vea u bu ildings also di d no t spr ead, in par t because their sophisticated form language could not compete with the simplistic protolanguage of early modernism [6]. Sin ce a for m la ngu age is one -ha lf o f the pa ir pa tte rn/for m lan guages, a form language must tie in to a pattern language. Here is where the crucial distinction is made between effective and ineffective fo rm langu ages, as far as human use is concern ed. A cr ude form language can be enormously successful at replicating, but be totally unsuited for human needs because it cannot encode complex enough information. Form languages that are adaptive have to join mathematically with a pattern language. The join is possible only if the two languages share a comparable internal structure. Two abstract languages can interface only if they both share similar structural characteristics. One of those characteristics is a hierarchical structu re, whi le another is an inter nal combinatorial structure. Just with these two re quirements, we can exclude th e modern ist style and the deconstructivist style as lacking the fundamental basics of a form language that can join a pattern language. It follows that it is hopeless to try to satisfy a pattern language using the form language of either modernism, or deconstructivism. Perhaps because of this perceived impossibility, Alexander’s pattern language [1] has been ignored by the architectural profession for the last twenty years. A new architecture. It is possible to begin implementing a program for the new architecture, but only after globally institutionalized architectural forces are neutralized [6]. What this paper proposes will appear as totally impractical to presen t-day archite ctur al stud ents, who have be en trained in an architecture of empty images and bizarre forms. They are falsely taught that architecture depends on simplistic protolanguages: first mo dernism, th en po stmodernism, th en d econ structivism. The basis for real architecture, which was outlined here, has no relation to what is currently tau ght in architecture scho ols. The only way to change this is to replace the teaching in leading institutions with a curriculum on how to design buildings and cities for human use. The new architecture will, not surprisingly, look a lot like traditional architecture [8]. If it is successful, it will certainly elicit the same feelings of naturalness as those hi storical built regio ns still pre served around the world. Yet, as Léon Krier emphasizes, we can build today urb an en vir onme nts tha t are eve ry bit as comfortable as the greatest examples built in the past. The widely disseminated opinion that we cannot reproduce the past for a multitude of reasons is just propaganda: Christopher Alexander [2], Léon Krier [8], and other sensitive architects have built new structures that are timeless in their human adaptation. These ideas are rapidly coming together with scientific support from my own work to define a new architectural paradigm. We will see the inevitable colla pse of the pr esent archi tectu ral system, soone r or later, because of its irrelevance to human life. It is time to begin training the young a rchitects who will build th e futur e, and who wil l be asked to repair the wounds inflicted upon the built environment over the past several decades. In all probability, the demand wil l come from society itself. When that time comes, graduates of today’s institutions who can only impose destructive images on the environment will be unemployable. Conclusion. This paper has presented a theory of design based on the combination of two types of language: a pattern language, and a form language. The pattern language encodes elements of human interaction with buildings that are to be found in traditional architecture and urbanism. The form language corresponds to whatever geometrical style the building or urban region has. In principle, there is enormous freedom to choose a form language. Nevertheless, what is used in place of a form language in our times is not complex enough to define a language at all, which results in environments unsuitable for human use. Moreover, the adoption of an overly simplistic form language, such as modernism, precludes the necessary link with a pattern langu age, thus guarante eing that human need s will never be satisfied. Once these mechanisms are kno wn, i t wou ld ap pear reasonable that the world could again build its cities in a way to accommodate human beings. Ano the r factor, however , comes i nto play: a fo rm languag e spreads as a vir us among the popu lation of minds. The characteristics of a successful virus/form-language are the opposite of those of a form language required for adaptive design. The fastspreading one is too simple for human use, whereas the useful one spreads too slowly to compete. Thus, we are fighting against a scientific phenomenon: adaptive design is difficult to spread, whereas pathological design spreads very easily. Hopefully, our civilization has enough foresight to reverse this process, and save what is left of our built heritage. References 1. Alexander, C., Ishikawa, S., Silverstein, M., Jacobson, M., Fiksdahl-King, I. and Angel, S. (1977). A Pattern Language, Oxford University Press, New York. 2. Alexander, Christopher (2001). The Nature of Order, Oxford University Press, New York. 3. Stern, Robert A. M. (1988). Modern Classicism, Rizzoli, New York. 4. Salingaros, Nikos A. 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Appartengo al disordine Fulvio Leoni Università Roma Tre DipSA e-mail: [email protected] Cristopher Alexander ci propone una metodologia di progettazione finalizzata alla costruzione di luoghi residenziali che siano dotati di identità, antropicità, storicità e, a questo fine, elabora una raffinata casistica di esiti possibili. Di fronte a ciò si pongono all’attenzione due domande : la prima : l’obiettivo che si pone Alexander è sensato rispetto al di venire degli eventi urbani e alle dinamiche che determinano la con tinua trasformazione delle metropoli contemporanee ? la seconda : qualora l’obiettivo fosse sensato questa metodologia di approccio è efficace ? ottiene i risultati desiderati ? Vo rrei d ire subito che, per quanto riguarda la seconda domanda, no n mi consider o competente a rispondere perché non ho espe rienza di progettazione partecipata e non posso quindi dire se queste tecniche di analisi e di proposta siano o meno in grado di dare soluzion i a problemi che so essere molteplici e, spesso, di difficile soluzione nei cosiddetti Laboratori di quartiere. Quindi non posso che ragionare insieme a voi sulla prima delle due domanda, anch e perché ritengo che, visti i miei studi e scritti , proprio per questo sono stato invitato a partecipare al Seminario. A partire dal mio punto di vista, la risposta alla questione se sia sen sato ipotizzare nella costruzione della città contemporanea una in terazione tra tecnici architetti e popolazione insediata per produrre lu oghi fo rmal men te co erenti e simbolicamente riconoscibili dagl i abitanti, quindi altamente identitari, non potrebbe che essere, istin tivamente, negativa. Ma, forse, le cose non sono così semplici. Un amplissima letteratura ormai ci dice che la metropoli contempo ranea è caratterizzata dalla perdita del centro come elemento ordinatore e misuratore e di una periferia che cresce senza misura, in un dilatarsi senza bordi che impedisce di comprendere dove essa fini sca davvero. Cosi come ci dice che, in una democrazia avanza ta, g ruppi culturali , grup pi d i p ote re politico e econo mi co ma an ch e semplici individui l’attraversano e la usano trasversalmente, proprio in forza della loro autonomia, quali porta tori di differenti significati del lavoro, del divertimento, del bello e, in sintesi, di un diverso significato del vivere. Ed in essa ciascun gruppo ha lo stesso di ritto di esistere ed auto rappresentarsi, così come di perseguire un proprio sogno e disegno che tenta di costruire cercando di ampliare il consenso sulle proprie azioni. La metropoli, cioè, non ha più una forma unitaria e coerente perché non c’è più un gruppo egemone che ad essa dia un unico significa to di ordine. E proprio per queste ragioni la metropoli è sempre mutevole e cangiante. Indeterminata nella sua forma totale e, nel dettaglio, è caratterizzata dalla sommatoria di frammenti figurativi, linguistici, comunicazionali che si intersecano tra loro, si sovrappongono, si elidono. I luoghi altamente identitari - per usare una definizione di M. Augè e riconnettermi così alle parole iniziali del mio discorso - tendono a scomparire, mentre si fanno avanti i luoghi dell’attraversamento e della indeterminazione noti ormai, sempre più, con il termine di non-luoghi Parallelamente - da un punto di vista più strettamente architettonico - il contesto è sempre meno leggibile nei termini di una organizzazione di tipi edilizi perché nulla è stabile abbastanza a lungo da potersi ripetere uguale a se stesso, in un sistema complessivamente ordinato. Ed anzi, al contrario, il contesto fisico in cui gli architetti abitualmente lavorano si pone sempre più come un testo dai significati mutevoli ed ambigui, pronto a cambiare direzione, significato, senso. Il tradizionale rapporto tra edificio e città è posto in crisi a favore di inter ni che si in gigantiscono sempre più, svilu ppandosi nel ventre stesso degli edifici preesistenti o sottoterra, senza che se ne possa percepire la forma complessiva né si abbia anche solo la sensazione di dove ci si trovi rispetto al tutto, quando ci si muove in essi : mi riferisco ai cinema multisala, ai macro musei, ai Mall e in genere a tutte le interior city che si propongono alla nostra attenzione per la loro novità e inquietudine. Analogamente il mondo digitale che ormai ci circonda è, in maniera del tutto analoga ai nuovi spazi metropolitani, privo di misura perché anch’esso è senza bordi, né se ne può percepire la forma complessiva come la si è intesa sin qui ed anzi, forse, essa non esiste neppure. Nel mondo digitale non c’è corrispondenza sintattica tra le parti perché la forma è costruita in modo paratattico, cioè come sommatoria senza fine di elementi simili e contraddittori. Una sommatoria che non tende né prevede una sintesi. Quello che in particolar modo perde di senso è l’organizzazione prospettica del mondo cioè la prospettiva come semplificazione e spiegazione retinica di esso. Nello spazio metropolitano (e sempre più nello spazio architettonico) non c’è più un unico punto di vista da cui tutto si può comprendere, capace cioè di organizzare gerarchicamente e simbolicamente le parti ma, al co ntra rio, queste si a ffollano alla vista e all a co- scienza, simultaneamente, in una molteplicità di elementi discordanti e contraddittori che possono trovare molte organizza zioni di senso che non si fondono più sulla logica causale (sequenze di cause/effetti) ma piuttosto casuale e segmentata. Pensiamo per un mo mento al mondo del l’immagi ne pu bblicita ria (bidimensionale statica o in movi mento nei video spo t) che ci propone sempre una sommatoria di figure e simboli diversi, il cui insieme deve essere capace di evocare contemporaneamente una molteplicità di emozioni ed i loro opposti. Una immagine che è sempre polisemica. Capace di essere sia critica e sbalorditiva, per attirare l’attenzione, ma anche tenera e rassicurante per pacificare e convincere. Dove lo sguardo deve decidere lo stesso percorso di lettura e la soggettività entra in gioco nello scegliere l’organizzazione gerarchica degli elementi presenti. Parallelamente pensiamo al ritmo martellante del cinema contemporaneo capace di smontare un’azione (normalmente vista all’interno di una narrativa lineare, cioè prospettica) per rimontarla in una o più sequenze alterate cronologicamente ma simultaneamente possibili anche se diverse (per esemp io l’ultimo film di Lynch, Mullholand Drive). E ancora, in campo scientifico, la costruzione sempre più frequente di ipertesti e mappe mentali che. per statuto, non hanno nessun inizio e nessuna fine, come invece è sempre stato nelle storie lineari, cronologiche e prospettiche di una volta. Tutto ciò ci impone di torna re a parlare di estetica, di una estetica che superato il moderno, attraversi la frontiera del contemporaneo e quindi dell’indeterminato, del cangiante, del mutevole, dell’ambiguo e p olisemico. Un’estetica d ove la bel lezza no n sia tale so lo quando è perfetta nella sua immobilità, in un empireo senza tempo, ma al contrario quando è sporcata, corrotta, distrutta da un tempo che scorre, cioè quando è ‘evento’. Nella cornice di quanto detto potrei ora facilmente sostenere che i quadri di coerenza di Alexander sono semplicemente dei non-senso storici ma, se affermassi questo ricadrei io stesso in una visone prospettica delle evoluzione. Affermerei cioè che Alexander ci propone il passato delle emozioni e delle forme mentre io vi ho parlato di un futuro che, in realtà, è già presente. Tornerei di nuovo a porre da un lato l’arcadia ed il suo sogno incarnato nella fo rza evo cativa di un lu ogo e, d all’altro, lo spazio com- pl esso, fl uid o e sfug gen te, p er esemp io, di un Ge hry nel G uggenheim di Bilbao, che trascende il luogo Bilbao per porsi come immagine/museo capace di attraversare il mondo : l’unicità di vicinato sarebbe quindi la retroguardia, Gehry l’avanguardia. E come si sa, come vuole una logica evolutiva, lineare e meccanicistica, il futuro travolge e cancella il passato in una visone egemonica delle nuove verità. Ma, al contrario, la simultaneità a cui abbiamo accesso tramite la tecnologia, raggiungendo una nuova frontiera del complesso, ci induce , ci consente e ci obbliga a pensare al mondo co me simultanei tà di azioni , eventi, ritmi emo zi onali e mo di d i e sistere, co me compresenza e non come ordine gerarchicamente risolto del prima e dopo, dell’avanti e dietro. Così come nelle emozioni, nei pensie ri, nei sogni, nei progetti - lo sappiamo bene tutti - il tempo non è lineare a cadenzato perché non c’è una sequenza ordinata di causa ed effetto ma, al contrario, tutto è ricorrente e di scorsivo, circo lare o ip erbolico e, comunque si a, sempre confusamente simultaneo. Nella metropoli esistono una infinità di città; quelle che ciascuno di noi costruisce ripercorrendo ogni giorno, ossessivamente, il proprio personale circuito e, quando capita di sbagliare strada. è portato a dire che g li sembra di essere in u na città scono sciuta, in un’altra città. Ed è vero, è davvero in un’altra città, è nella città di un altro. Nel circuito di un altro. Nei luoghi che sono luoghi simbolici ed affettivi di un altro individuo o di un altro gruppo sociale. Per questo penso che la città di Alexander che corrisponde ad una emozione, ad un bisogoo ed al un sogno di alcuni che non sono io ha diritto di esistere. E vorrei io stesso attraversarla, quando fuggo dalle fatiche e follie della metropoli, nei miei week end in campagna o al mare, o comunque nella natura. Perché anch’io, come tutti, appartengo simultaneamente a più città ed ho bisogno di più città. Ma cosa diversa è chiedersi se, oltre il diritto di immaginare che esita, tale città possa essere davvero costruita e, in particolare, con le regole proposte da Alexander. Allora la mia risposta diviene incerta e, seppure non lo credo possibile, sospendo il giudizio perché, come dicevo all’inizio, nulla so dell’architettura della partecipazione. Appartengo al disordine della metropoli e sono in attesa ed alla ricerca di estetica della me tropol i, cio è del co mplesso, incoerente, contraddittorio, mutevole. Metropoli / Linguaggi / Rappresentazione Ghisi Grütter Università Roma Tre DipSA e-mail: [email protected] Il pr oblema della rappresen tazione del fenomeno me tropolitano è indub biamente una questione dominante; l’attuale trasformazio ne delle città in metropoli coincide con l’impossibilità di poterne rappresentare l’interezza. Oggi non è più affermabile ciò che Max Weber scriveva in apertura del suo Economia e Società e cioè <Si può ten tare di definire la “ci ttà” in modo diverso. Tutte hanno in co mun e questo: che ciascuna è sempre un insediamento circoscritto, alme no relativamente, ed ognuna è un agglomerato…>. Nella metropoli contemporanea si è frantumato quell’equilibrio che nel l’era classica univa a rchitettura e rappre sentazion e, spazio a rchite ttonico e scen a; lo scambio tra architettura e scenografia e ra continuo e biunivoco – basti pensare a Brunelleschi, a Palladio ed a Bernini – e qualsiasi spazio urbano veniva rappresentato con unita rie tà di meto do. Attraverso la visione prospettica si proponeva u n rapporto organico –progettato o realizzato– tra oggetto architettoni co e spazio-scenario. L’autorappresentazione del sociale nella città classica era delegata alla scena urbana che coincideva con le piaz ze, qu ella del Palazzo , quella del Mercato, quella dell a Chiesa e quella Reale, nei loro equilibrati rapporti tra edificio e spazio urbano. Le piazze-monumento a loro volta giocano un ruolo strategico in un sistema che le collegava nel tessuto urbano, ognuna con la sua funzione ben determinata. Era come se la presenza di un edificio nella piazza si potesse leggere come fondale di scena per la vita cittadi na. Ma questo equilibrio viene interrotto dall’era della dinamicità. Le rappresentazioni statiche di prospettive non sono più sufficienti ad esprimere (rappresentare) i nuovi rapporti tra spazi, edifici, strade, e le nuove percezioni di percorrenza. Lo scenario tradizionalmente progettato in funzione di un punto di vista privilegiato, si frantuma, il limite urbano si sposta, si perde il senso del margine. La città moderna , a sua volta, vu ole rip ristinare l’ordine mediante l’attribuzione di un senso ad ogni cosa; separandone le funzioni eti chetta involontariamente anche il Centro Storico come “vestigia del la rappresentazione urbana”. Si cerca di riconfina re l’urbano attraverso la sostituzione del concetto di progetto con quello di programma; ma la città è sfuggita anche al controllo del pensiero moderno. L’identità della metropoli è oggi affidata a figure parziali, a frammenti emblematici e l’immagine “venduta” non coincide né con la realtà urbana composita né tantomeno con l’immagine “vissuta” e cioè quel la che ne hanno gli abitanti. La tecnica più appropriata per rappresentare la metropoli attuale è forse il cinema il quale, attraverso la logica della sequenza e la tec nica del montaggio può, in qualche misura, ricucire i frammenti – fo togrammi – in una successione spazio-temporale. Ciò di cui abbiamo bisogno, dunque, è una serie di nuove ‘catego - rie’ di lettura e di rappresentazione della città contemporanea. Si riporta qui un esempio di descrizione di grande estensione urbana in letteratura, un breve passo di Jack Kerouac, La città e la metropoli del 1950:< Ci sono molti modi di viaggiare dentro New York, dentro il cuore vitale e drammatico di New York-Manhattan, ma solo un modo rivela la grandezza , la be llezza e la meravigl ia de lla grande città. Questo modo non è mai quello che usavano i portavoce, i rappresentanti e i leaders del mondo, che arrivavano con l’aereo o con il treno. Il migliore approccio è i l bus, bus che viene dal Connecticut e che scende giù per il Bronxs, lungo il Grand Concorse , sopr a l a O ttava Aven ue, e gi ù per la Nona Aven ue a Times Squ are, ca rne va le di luci. I bus che ve ngo no dal New Jer se y o dall’Hudson River non penetrano per gradi nel cuore della città, ma improvvisamente emergono o da un tunnel o sopra un ponte o da parcheggi alberati. Ma quando il bus che viene dal Connecticut comincia a passare in posti come Portchester e New Rochelle, si capisce lentamente che queste non son o vere città ma sobborghi e gradini di entrata di quella grande cosa che è New York. E gradatamente questi posti non sono più vaghe città ma sono sobborghi continui e senza fine. Un tremendo sentimento deriva da questo semplice e terrificante fatto: che immensità è mai questa che nutre il cuore dell’affollato centro? Quanto può essere grande la città? Che cosa al mondo c’è di simile?>1 Nella lingua latina urbs e civitas indicavano d ue significati diversi, quello fi sico e quell o soci ale, ed anch e nei fatti e rano p ercep iti in maniera diversa. Spesso oggi si usano definizioni differenti per in- Area di espansione del centro storico di Bordeaux Area metropolitana di Helsinky Roma. Torre Angela Roma. Tor Bella Monaca tendere la stessa realtà: fenomeno urbano, città, area metropolitana ecc. L’insediamento circoscritto di cui parlava Weber non è più riscontrabile a meno di non pensare alla City, al CBD o al Centro Storico, come al centro di un diagramma piramidale contrapponendo il centro alla periferia; ma le periferie, a loro volta, presentano analogie e differenze. Perfino in Italia, la cui caratteristica emergente è sempre stata quella di essere la sommatoria di piccole e medie città, ci presenta oggi un territorio frammentato dove esiste con-fusione tra periferia, conurbazione ed area metropolitana. Il fenomeno urbano è sfuggito al controllo dei pianificatori – non dico architetti che tale controllo non hanno mai avuto e molto spesso neanche voluto – ed il territorio italiano è oggi cospar so di edificazi oni tal vol ta abusive e /o autocostruite, legittimate poi da sanatorie; ciò ha portato a fenomeni diversi in zone geograficamente ed economicamente distanti. Ad esempio la pianura padana lombarda fa da eco a piccole banlieus parigine, mentre la conurbazione costiera calabrese assomma in modo del tutto casuale tipologie di edilizia aulica e di quella rurale. Alcuni parlano di “metropoli spontanea” ma, essendo la spontaneità inconsapevolezza, è antinomica al piano e al progetto. Lo spazio urbano non è più quello definito architettonicamente, ma quello del luogo dove gli abitanti hanno assunto una mentalità cittadina. Questa trasformazione in “qualcos’altro” assomiglia a ciò che Pasolini amava definire una “mutazione antropologica”; le magiche promesse del “progresso”, della “modernizzazione”, sono il risultato di un doppio cambiamento: da un lato, i valori del ceto medio sono d iven tati quelli di un’ideol ogia edonistica del co nsumo e de llo status symbol, dall’ altr o, i valori dell’ Italia con tadin a e paleoin dustriale sono crollati e al loro posto c’è <un vuoto che aspetta forse di essere colmato da una completa borghesizzazione>. 2 La periferia nasce con la città Ottocentesca, dalle sue contraddizioni storiche, prima fra tutte quella fra città e camp agna. La città subordina una sua parte, la città operaia, e la spinge verso la campagna, costruendo quei tessuti misti di fabbriche, abitazion i e campi rurali, propri delle prime periferie. 3 Il nostro impegno non può esse re solo quello del risanamento delle attuali periferie, né solo quello del loro “abbellimento”, né tantomeno della loro omologazione ai caratteri dei centri urbani. Ciò che serve è la ricerca di un modo di crescita alternativo a quello Ottocentesco che vanifichi la nozione stessa di periferia. L’ipotesi può essere quella del policentrismo, della città come complesso sistema di relazioni fra centri diversi, alle diverse scale, da quella regionale, quella capace di strutturarne l’assetto, alla scala metropolitana. Il dibattito sulla periferia come luogo deputato della non-città è stato un argomento centrale anche nel dibattito culturale della prima metà degli anni ‘70 specialmente negli ambienti architettonici ed intellettuali gravitanti in torno al Politecnico di Milano – come ad esempio Maurice Cerasi - ed a quello dello IUAV. Infatti anche Carlo Aymonino tratta questo argomento ne Lo studio dei fenomeni urbani, che a sua volta riprende saggi già pubblicati sia ne La Città di Padova, sia ne Le Capitali del XIX secolo: Parigi e Vienna . Ci si chiedeva se esistesse una riconoscibilità dell’architettura della periferia; spesso le risposte venivano trovate con il tentativo di migliorare il contesto periferico attraverso l’uso di standards più elevati o nell’impegno politico dei tecnici e dei gruppi dirigenti. 4 Il fenomeno della trasformazi one della città antica, rapido ma non improvviso, in alcune città come Londra e Parigi ha inizio prima della rivo luzion e indu striale ed Aymonino ne distingue tre fa si di trasformazione. La prima è contraddistinta da una crescita di fabbricati che si aggiungono alla città preesistente (spesso ancora delimitata da mura) con leggi proprie e comunque diverse, tendendo a riempire gli spazi inedificati. Nella seconda fase la quantità residenziale ha richiesto un riassetto della forma urbana attraverso assi stradali, servizi pubblici e parchi spesso con l’abbattimento delle mura – come testimoniano appunto le soluzioni proposte a Parigi nel 1850 e a Vienna nel 1870. La terza fase consiste in un’inversione del rapporto tra la quantità residenziale e il suo insieme: la prima non è più funzione della seconda ma solo di se stessa prendendo talvolta forme semi-indipendenti come città-giardino o città satelliti. Ogni superficie di terreno può diventare lotto: la proprietà privata del suolo si pone solo problemi di estensione e non certo di forma. A queste tre fasi potremmo aggiungerne una quarta che potremmo chiamare, con Bernardo Secchi, quella dei “grumi urbani” che coincide con la trasformazione delle città in metropoli. 5 La periferia comunque non va letta come “parte malata” tout court della città ed è anche limitativo vederla come escrescenza anomala dei centri storici. È la stessa città storica che diventa – da un punto di vista morfologico – un elemento tra gli altri di un insieme o di un sistema (area metropolitana). La frantumazione del rapporto centro/periferia ha portato alla presenza di nuove realtà multicentriche non programmate. Non e siste i noltre, una pur a contrappo sizione tra il trovarsi nella città e il perdersi nella metropoli; esiste uno stadio intermedio, quello fatto di uno spazio definito in tanti “centri e periferie” che non riusciamo nemmeno a cogliere e che è una forma di costante spaesamento. Numerosi stud iosi insistono sul concetto di “dereal izzazione” e d i “mediatizzazione” dell’ esper ienza metr opolitana paragonando, ad esempio, la visione attraverso il parabrezza dell’automo- Roma. Tor Bella Monaca bile allo sguardo stralunato rivolto al monitor televisivo o al termina le video. Gianni Vattimo intervistato da Georges Teyssot in occa sione della XVII Triennale di Milano 6 asserisce che l’esperienza del la metropoli viene vissuta prevalentemente come perdita del centro. Sempre secondo Vattimo è qui da rintracciare la morte del pensiero metafisico d ella ra ppresen tazio ne in q uanto fondamen tal me nte re alistico; la cri si della rappresentazione può, un po’ p aradossal mente, corrispondere ad un alleggerimento della nozione di reale e ad una conseguente, quasi completa, identificazione tra metropoli e mass media. In altre parole la totalità ermeneutica dentro cui sem pre ci muoviamo, o la totalità metropolitana dentro cui viviamo, ci so no sempre date, eppure non le possediamo “tota lmente”, quindi ci vengono fornite come immersione in un universo di comunicazione. L’età contemporanea è quella dove tutto tende a diventare simultaneo e questo cambia una quantità di cose; ad esempio nella metro poli si è sempre dappertutto e nel contempo non si è in nessun luo go, in quanto non ci sono movimenti verso il centro ed in tal modo si p ossono svil uppare nuove analo gie tra l’esper ienza de l tempo e dello spazio. Scritti dell’autore sull’argomento GG., Sulla periferia, in Rappresentazione dell’architettura e dell’am biente: princi pi costitu tivi del progetto tr a artificio e natura, Milano 1997. Vol. II pp.187/188. GG., Definizione e lettura del “territorio urbano” contemporaneo co me frantumazione del rapporto centro/periferia. In La rappresenta zione delle trasformazioni urbane dal moderno al contemporaneo, ICARO n.4 del DAACM Reggio Calabria 1994, pp. 15/20. GG., Fraintendimento metropolitano, in Ide ntità/Differ enza/Frain ten dime nto: le pr oposte del Disegno , Flaccovi o edi tore , Palermo 1991, pp.202/205. GG., Spazio urbano e comunicazioni visive, in La Trasmissione del le Idee dell’Architettura, Istituto di Urbanistica e Pianificazione, Udine 1988, pp.150/157. Note: 1 JACK KEROUAC, La città e la metropoli, New York 1950, trad. it. 1981, p.328. 2 Cfr. G. HARRISON, Nelle mappe della Calabria, Lerici, Cosenza 1979. Cfr. ANTONIO MONESTIROLI, Verso la città policentrica in Il centro altrove, La Triennale di Milano e Electra, Milano 1995. 3 4 Cfr. CARLO AYMONINO, Lo studio dei fenomeni urbani, Officina edizioni, Milano 1977. 5 Cfr. BERNARDO SECCHI, La periferia in “Casabella” n.583.ottobre 1991. 6 Cfr. il catalogo della mostra Le città del mondo e il futuro della metropoli, Milano 1988, pp.268/272. Parigi. La Défense Parigi. Parc de la Courneuve La metropoli di San Paolo in Brasile Vale più il patito del dottore... Rita Micarelli Politecnico di Milano e-mail: [email protected] Co sì recita un detto pugl iese, che spesso si sen te ri petere , soprattutto nell’Ita lia meridional e. Ma come è per molti altri d etti che ci regala la saggezza popola re, accade spe sso che siamo por tati a sottoval uta rli e a d ig norare il lor o messa ggio. È ovvio che affidarsi all a saggezza popo lare come unica modalità per a ffrontare le ‘malattie’ ch e ci disturb ano non basta, come non ba sta affi dare alla sola esperienza il compito di su ggerirci come ottenere la guarigione; ed è vero che ormai tutti noi ci siamo abitu ati a far e il contr ari o e tend iamo a cer ca re i ri medi d i o gni ma le affid and oci a espe rti e specialisti, che ‘fil trano ’ i nostri pro blemi a ttraverso il loro sape re codificato , senza par tecipare alle no stre sofferenze, da cui restano estra nei, rimanend o sempre più spe sso ‘prigionie ri’ del loro ruol o. Così, p rogressivamente , i l ‘patito’ con la sua esperienza diretta e il ‘dottor e’ con il su o specialismo si allontanano sempre più l’uno dall’altro, fino al punto di non poter col laborare, o fino a entr are in conflitto, co n danno d i entrambi . La nostra ipotesi, che si fo nda sulle pr atich e e l e r iflessi oni che possono maturare nella forma dell’ecolog ia soci ale, vu ole in vece tene re conto del ‘p atito’ e del ‘ dottore’ in termini nuovi e vuole così anch e integrare reciprocamen te il lor o agire , senza cader e in banalizzazion i falsamen te ‘p aritari e’ o r igida me nte a utoritari e, ma evitando anche la semplificazio ne dell a mera ‘pa rtecipazione democratica ’ for male. Sono le esperienze che possono ‘misurare ’ la giusta miscela tra ‘patiti’ e ‘dottori’ e sono ancora le esper ienze che possono su ggerire anche le modalità della loro reciproca integrazione. Ciò pu ò val ere per un’a mpia gamma di ‘malatti e’ e disagi sociali ma pu ò valere anche per una gamma altrettan to ampia di fe nome ni ‘n on pa to log ici’ , come lo so no qu ell i ch e inve sto no i comportamenti delle persone dei gruppi nell a vita di una comun ità, e quel li che i nvestono le trasformazioni e la cura dell’a mbien te di vita della stessa comuni tà, riflettendosi a loro volta sulle interazioni tra le persone e i loro contesti sociali di r iferi mento. E i n tutte queste inter azion i l a pr ogettazione assume un ruolo molto in te ressante, si a n el ca so d elle lo tte social i che in ve ston o lo spazio colle ttivo o l e necessità basilari (casa, servizi primari, mobilità) sia ne l caso delle propo ste che po ssono scaturire dal contesto sociale nei confronti de l suo ambiente d i vita. In o gni caso la ‘progetta zione p artecipata’ diviene un pro cesso i n cui interagi scono ‘patiti e dottori’, e in cui si ripensa all’ambiente di vita di una comuni tà in una nuova dimensione comunicativa (l a partecipazione è r ecip roca scamb ievole tra tutti i so ggetti coinvolti), creativa ed espe rienziale (si pro pone e si sperimenta dir ettamente ciò ch e si è proposto) , motivata e condivisa (si raggiun gono opini oni e valutazion i in iti nere, andando oltre le celebr azion i assembleari e le rap- presentati vità per delega ), verso un a d imen sione pr ogettuale ‘colletti va’ ch e per solo a que ste condizioni può essere anche ‘durevole’. VEDENDO FACENDO … ma non solo Nella reciproca integrazione e nella mescolanza di soggetti sociali e di esperti, tutti al lavoro in un’esperienza di tale natura, anche questo secondo detto popolare siciliano, ‘vedendo facendo’, può esserci di utile rife rime nto, e può emergere dalla bana lizzazione in cui molti ‘esperti’ vorrebbero relegarlo (l’esperienza è roba del passato, oggi la tecnologia e la scienza possono farne a meno, è il metodo che conta…) e torna ad assumere importanza. Propri o così: ‘vedendo facendo’ si sperimenta, si corregge, si verifica ciò che si è fatto, ma il ‘fare’ non è mai separato dal ‘vedere’ come non sono separati i ruoli di chi fa e di chi vede. Ciò che si sperimenta e si verifica può così aprire una nuova prospettiva collaborativa tra soggetti ed esperti. In questo ‘sperimentare-verificare’ ciascun esperto o soggetto sociale potrà valorizzare le prop rie competenze ma no n per questo dovrà rimanere prigioniero del proprio ruolo, né paralizzarsi nella propria ‘categoria gerarchica’. Questa modalità, che per molte comunità esterne al mondo industrializzato è ancora un fatto ‘natu rale’, è invece una ri-conquista sempre più necessaria e urgente per la vita dei gruppi sociali del nostro mondo, dove l’abbondanza quantitativa spesso imprigiona e separa le persone dalla comunità, deteriora la qualità della vita di tutti, e cancella progressivamente anche la speranza di gestire direttamente e di sperimentare forme di vita sociale più soddisfacenti. La scelta di questa modalità diviene per il nostro caso anche fondamental e per avviare esperienze durevoli (permanenti, si potre bbe dire) di autogestione dell ’ambiente e dei molti aspetti de lla vita , e diviene conseguentemente anche il presupposto ne cessario per restitu ire dignità e soste nibili tà a mol te esperienze sociali potenziali o già in atto, che ancora si sviluppano ai margini della progettazione ‘ufficiale’. Per le n ostre socie tà ind ustrializzate qu esta diviene anche la condizione per praticare l’au tososteni bilità leg andola ad azion i dir ette, ecologi che e sociali al tempo stesso, ovver o culturali e spon tane e, a zioni ch e si pr atican o nel la tensio ne crea tiva e g ioco sa , quell a che la natura e le società uma ne ch e ad essa sono p iù vi cine vivon o continuamente, e che solo la razionalità ordinata e il nostro mondo escl ude dal su o po ter e ge rarchico, orga nizzato, che spesso si esercita sulle società umane i n mod o n egativamente drammatico. E son o propri o l’orga nizzazione e le gera rchie delle deci sioni ch e re ndono sempr e più difficili le condizioni p er una creati vità social e spontanea e fe lice , ch e pu ò tornar e ad esprimersi anch e ne l no stro mondo , senza che tutto ciò ra ppresenti un no stalgico e impro pr io rito rno ai modi vita dei po poli ch e più a lungo sono rimasti lon tano da lle civiltà ind ustriali . Assumer e l’ecologia come il rife rime nto de lle azi oni so ciali non si gn ifica però limitare il ‘vede ndo facend o’ alla mera ricerca di equi li bri omeostatici co me qu elli che possiamo scoprire nella natura e ne lle culture ad essa più vi cine , ma significa riscoprire nuove crea tività e n uove po ssibilità di vita, senza fermarsi, né pe nsare di ‘tor na re indietro’. Evolution is chaos with feed back, riconosco no ormai gli sci enzia ti ch e fina lme nte si son o r esi conto che in que sto ca os con fee d ba ck sta la straordi naria fertilità creativa de lla na tura. L’evo luzio ne in questa visio ne è u na successione di stati stazio nari, ed è a l tempo stesso un continuo cambiare; e la più rece nte filosofia del l a n atu ra, con Gre gory Bateson, ci ricorda che anche la per ma ne nza prolungata i n uno stato di equ ilibrio omeostatico come è l o stato stazi onario, può diven tare pato logica ed esasperante, men tre il con tinuo ritorno su se stessi degl i equ ilibri raggiun ti finisce co l pr ivare i si stemi naturali e le culture umane d elle loro capacità d i creare il nuovo, e col rallentare i loro processi e volutivi. Pe nsiamo, con Bateson, che il ‘far e sociale’ assumendo l’ecologi a co me ispi ratr ice de lle su e azio ni tra sforma trici , po ssa esser e creativo e sosten ibile al tempo stesso, e in tal modo possa parte cipare ai processi evolutivi della n atura . Pe r qu esto rite niamo che la cre atività, vissuta i n termini so ciali , si a la chiave per riaprir e in termini so stenibil i gl i o rizzonti dell’e volu zione anche alle socie tà del mondo industr ializzato e domi nante che pur e oggi si prop one di per segui re la sostenibi lità. In q uesto sen so in te ndiamo l’E co logi a d ella na tur a e i n q uesto sen so cerchi amo d i p raticare l’ Ecologi a socia le. Esse sono en trambe attività creative, ovviamente l onta ne d a og ni d eterminismo ma anche lo ntane dall ’inter pretazion e d ell’ evo luzion e i n chi ave seletti va e competitiva , come la vorrebber o molti scienziati ancor a attaccati alle concezion i della scien za post newtonian a dete rmini stica , o in chi ave si ste mi ca, come si tend e a sostene re tra gl i scienzi ati più aggiorna ti, che pure rico nduco no ad essa ogni ma ni festa zione dell’evoluzione. L ’ecologia sociale che noi intendia mo pra ticare ri spo nde invece a ll’ecolo gia intesa come il ca os con feed back che abbia mo de scritto e fa parte de ll’evoluzi one del la natura. In essa ritroveremo in finite ‘successioni di stati stazionari’ che si p roducono nella ten sione gio cosa, non competitiva, non gera rchica, e perciò cre ativa, la tensio ne che si sviluppa tra ‘patiti’ e ‘dottori’ tra esperti e men o esperti, nell a reciproca e continua ‘ parte cipazione’ al fen omeno , in dive nire, della trasformazione. OG NI SCARAFONE…è bello a mamma s ua… Ancora un detto popolare, ben noto nell’area napoletana, ci ricorda come no n è con cepi bile u n risultato di una cre azio ne umana ch e non piaccia a ‘mamma sua ‘, ovvero al suo ‘creatore’ , e ci ricorda co me lo stesso ‘risultato’ sia degno di considerazione solo se ad esso possono essere attribuiti valori, i quali sono estetici e affettivi al tem - po stesso. Non esiste un valore che possa essere attribuito in modo imparziale alle creazioni della natura e degli uomini. Tutto ciò che si trasforma diventa ‘bello’ per i suoi creatori, che ne vanno orgogliosi e che sono pronti a difenderlo, ed è in questo senso che riteniamo si possano pratica re le attività di tra sforma zione anche nelle n ostre società, partecipando ai cambiamenti mentre avvengono, vedendo e facendo allo stesso tempo. Per questo però occorre riscoprire i valori profondi che sono nascosti o latenti in tutti i gruppi umani e ritrovare il divertimento e il godimento estetico, che è presente sia negli equil ibri sta zio nari del la vita quotidi ana ch e n ell’a vventura de lla creazione del ‘ nuovo’. Occorre d unque ritrovare il gusto delle memorie e delle affettività, che sono essenzi ali per ogn i individuo e pe r ogni grup po uma no e riappropriarsi di tutte queste componenti. Ciò non servirà per produrre ‘gr andi opere’ ma per coltivare piccole e fer tili idee che possono tradursi in trasfor mazioni d el propri o ambiente e in nu ovi comportamenti sociali , che non sono imposti dall’esterno ma nascono dal le esperi enze vissu te e compiu te socia lmente, e p er questo possono trasformarsi in ‘ valori sostenibili’. Riteniamo che tutto ciò possa valere sia pe r le soci età opulente del mondo industrializza to sia pe r quelle che a bitano il mondo povero e sfruttato. Le prime sono ricche e supernutrite ma hanno perduto i due valori fond ame ntali dell ’evoluzion e ( omeosta si e creatività) me ntr e l e second e ha nno perd uto l’ autonomia e la possi bilità di rapportarsi al proprio amb iente di vita. La rinascita della creatività e lo sviluppo sostenibile sono per entrambe comunque difficili, ed entrambi sono impediti da un sempre più diffuso assoggettamento al domini o della glob alizzazion e econ omica e cultu rale che sottrae a tutti i contesti sociali i loro val ori più si gnificati vi. La pr atica de ll’ecol ogia sociale è dunque necessaria per tutti, ma se per i pop oli esclusi dallo sviluppo delle società ind ustrializzate essa deve essere praticata primariamente per ritrovare una nuova autosostenibili tà anche tramite opportune strategie di sopravvivenza, per i popoli ‘ricchi’ essa costituisce una via per ritrovare i valori di relazione con il proprio amb iente che il benessere ha dissolto e appiattito. Per tutti sarà comunque necessario non fermarsi alla riconquista di ciò che si è perduto (la stazionarie tà della sopravviven za per gli uni e la felicità creativa de lla partecip azione per gli altri) ma far emergere nuovi valori, originali e propri per ogn i co ntesto, sui quali sviluppare processi diversificati di a utosostenibilità . Per questo riteniamo che l’ecologia soci ale p ossa rappresentare un’occasione di prati care sperimental mente il per corso dell’autoso steni bilità, attivan do oppor tu ni e specifici processi nei diversi co ntesti l ocal i ne i q uali i sogge tti sociali , gli esperti e gli amministratori politici trovino una condizione fa vore vole per collabo rare cre ativamente . Ci ò è p ossi bile , gi acch é, no nostante l’a ppia ttimen to in ca lzante della globa lizzazione, l e p otenzialità social i e umane continuano a man ifestarsi, si a con la ribe llione diretta, che con i piccoli atti creativi che fio riscono un po ’ ovun que, an che do ve le difficol tà culturali ed economiche fa rebbero pe nsare il contra rio, o dove , come nel mon do i ndustria lizzato, le popo lazi oni potr ebbero esser e assuefatte e incapaci di cambiare la loro con dizio ne. Dalle te stimo nianze sponta nee che si manifestano un po’ o vunqu e anche in Europa, è possibile svilu ppare la sperimentazio ne ecologica , attivandola su conte sti e ambienti diffe renziati. Ancora i tre ‘detti’… ma da quale cominciare ? Uno, due …tre…o tre du e uno… o… in una dimensi one evolutiva, circolare e aperta dove ancora i detti p opolari che segnano l’evolversi dei processi di trasfor mazione continuano a succedersi? La successione con la qual e possiamo evocare i n ostri detti p opolari non ha p iù imp ortanza, g iacch é i n o gni pro cesso tr ove remo ‘patiti’ e ‘d ottori’, e ad ogni passo vedre mo nascere fen omen i nuovi o vedr emo ricomparire vecchi errori che si crede vano superati ma , se sapre mo ascoltare le vo ci di tutti , e se tutti saprann o ascoltarsi, potremo commentare lo svolgersi de i processi d i trasformazion e , a ncora … ve dendo facendo, ancora compiacendoci d ella bellezza de i nostri scarafoni appena nati, a ncor a sapend oci mescolare tra pa titi e dottori, anco ra, a ncor a… Così p otr emo accorger ci che non esiston o metodi né para digmi per la parteci pazio ne , che non esi stono categorie, che i l basso e l’alto po ssono ri mesco larsi co ntinu amen te tra loro, e che le occasioni per partecip are ai p roce ssi di trasfo rmazione del nostr o mondo sono mol tissi me e va riegate, e che esse posson o nascer e riaprend o occasioni e r innovando strumenti per la co municazione. In altre occa sioni abbiamo pro posto casi insoliti di pa rtecipazione a processi di trasformazione gene ralmente ri tenu ti di pertinen za dei soli espe rti: dal restauro al paesaggio , fino a mol tepli ci a ttivi tà creative d i piccoli g ruppi sociali rivolte ai loro contesti di vita. Ogni volta a bbiamo cercato di mettere in luce possibil ità nuo ve di esperienze concrete che possono svilupparsi ria prendo nu ovi o rizzonti crea tivi per le pop olazi oni e nuove occasioni di riflessi one per gli esperti, ma restituendo a tu tti loro la felicità del di venir e e la dinamicità del la riflessione continua sui ‘r isultati’ via via co nseg uiti. Il Paesaggio come fenomeno relazionale Giorgio Pizziolo Università di Firenze - Facoltà di Architettura e-mail: [email protected] Il Consiglio di Europa ha elaborato una Carta del paesaggio, nella quale esso è così definito: “… Paesaggio, una parte di territorio, nelle sue trasformazioni natu rali ed antropiche, così come viene percepito dalla popolazione...” È una definizione che condividiamo, in particolare perché da conto della complessità del fenomeno ‘paesaggio’, che è appunto un concetto articolato e plurimo, che qui cercheremo di valutare nelle sue valenze relazionali. ll Paesaggio è dunqu e un feno meno terr itorial e, ma non è ‘solo’ i l territorio in quanto tale, e nemmeno soltanto il suo manifestarsi, esso è anche i l fenomeno di come quel territorio vi ene percepito d a una certa popolazione. Dunque, già di per sé si tratta di un fenomeno relazionale, dove quello che conta è proprio la relazione che si viene a determinare tra un territorio, visto nella sua dinamica, e la popolazione che lo abita e/o che ne fruisce, tramite la percezione che essa ha del territorio stesso. Dal punto di vista relazionale il fenomeno è però ulteriormente inte ressante perché anche i due termini principali della relazione, il ter ritorio (ed il suo man ifestarsi), e la percezione del territorio stesso sono a loro volta, come vedremo, fenomeni relazionali. Da qui, allora, la ricchezza della combinazione (relazionale) dei due fenomeni, anche essi, appunto, strutturati sulle relazioni. Cercheremo in questa occasione di dare conto, in una successione ordinata sinteticamente, di questi fenomeni che si presentano vice versa interagenti ed assai inviluppati, correndo ma gari il rischio di una presentazione un po’ schematica di un gene re di fenomeni di pe r sé talmente fluidi d a semb rare spesso quasi caotici, e propo nendo quindi al lettore di coinvolgerlo, dopo questa valutazione per parti e per singoli aspetti, in modalità di ricomposizione di tali feno meni le più variate, aiutandoci anche con l’illustrazione di alcune letture e modalità di intervento su alcuni paesaggi reali, con i quali ab biamo avuto l’occasione di entrare in un rapporto attivo. 1- Il territori o, com’è n oto, è una struttura con una gran de inerzia, che tend e a con servare le tracce ed i segni degli assetti che pro gressivamente assume, forse perché essi sono opera sia dell’evo luzione dell’ambiente naturale sia dell’operare dell’uomo, due forze plasmatrici di grande intensità, specie se combinate… Ma come in tutti i processi di trasformazione, una posizione gestal tica e relazionale, quale quella che abbiamo assunto, tende a privi legiare la ‘formazione’, il farsi, il divenire, del Territorio, o meglio, se vogliamo rimanere nelle logiche ecologiche, dell’Ambiente Costruito, anziché soffermarsi sulle ‘forme’, sugli assetti che il territorio as sume (e magari sui suoi “tipi”, come fa la scuola territorialista), Il Paesaggio tende allora a cogliere il manifestarsi di questa trasformazione, ad interpretarne i segni, a leggere il divenire di questo fenomeno, ad un tempo ambientale ed opera dell’uomo. Ed è proprio da questa relazione antropica - naturale che si determina il farsi del territorio e quindi del paesaggio. 2- Ma il rapporto della relazion e uomo/natura/società di cui il paesaggio coglie il manifestarsi, ovvero di cui è la manifestazione stessa, è un rapporto complesso e comunque, esplicitamente dinamico. Anche il paesaggio dunque è un fenomeno dinamico, un fenomeno dinamico-relazionale. Ed in quanto tale va dunque studiato.(assunto). 3- D’altra parte proprio per il fare riferimento alla relazione ternaria uomo/n atur a/società, che, come sappiamo, è anche la re lazione ecologica generale e matrice di tutte le relazioni ecologiche specifiche e locali, il paesaggio diviene anche espressione diretta dei fenomeni ecologici, di per sé relazionali, fenomeno ecologico relazionale esso stesso. Quindi paesaggio come categoria ecologica, ma oltre che in sé, più spesso esso si rivela pr ezioso come indicatore ecologico del rapporto dell’uomo con la natura, e quindi come indicatore relazionale, come rivelatore della qualità dello stato delle relazioni uomo/ambiente. Ovviamente lo è anche come espressione della relazion e stessa, ed in quanto tale il paesaggio si presenta più vicino all’ecologia della mente che non a quella della natura. Peraltro rispetto a quest’ultima categoria epistemologica, il paesaggio può divenire preziosa struttura di rilevazione “olistica” dei sistemi ambientali, fornendo proprio il valore di sintesi, che è forse la sua principale prerogativa, come utile strumento per la conoscenza dei sistemi stessi. Da notare che per ciascuna di queste diverse connotazioni del pae saggio si sono sviluppati filoni di ricerca ed interi corsi universitari, a testimon ianza della ricche zza e della fertil ità del concetto di paesaggio, comunque lo si valuti. 4- Il fatto di fare riferimento alle dinamiche relazionali ecologiche uomo/società /natura, comporta anche, dal punto di vista dei tempi, che i dinamismi, i ritmi, dei fenomeni relativi alle trasformazioni dei tempi biologici, e di quelli antropici, e della società siano tra loro assai diversi. Così il pa esaggio, che a d essi si riferisce contemporaneamente e nella loro relazionalità, risulta un fenomeno, per cosi dire, poliritmico. E qua le sia la comp lessità dei fe nomen i polir itmici è ben no to nei campi affini, quali per esempio quello della musica, e quindi anche per il paesaggio affrontare questa complessa interpretazione significa aprire un campo sperimentale tuttora poco indagato ed aperto agli esiti dell’incertezza, e tale effetto è chiaramente ancora più evidente, in presenza di una condizione relazionale così dispiegata. 5- Ma vi è un’ulterior e dimensione dinamica del paesaggio e delle sue strutture, quella del secondo termine della relazione generale, e cioè della percezione del territorio da parte della popolazione. Ebbene anche questa percezione, che potremmo chiamare “percezione sociale del paesaggi o”, è, come si può facilmente dedurre , in continua trasformazione, e lo è particolarmente in questi ultimi anni dove le diverse generazioni hanno del “luogo dove vivono”, e quindi del ‘paesaggio’ vissuto, percezioni ed immagini del tutto diverse tra loro, talvolta anche antitetiche dello stesso luogo, come più dettagliatamente approfondiremo poi in seguito. Quindi a nche il secondo termi ne della definizion e del Consiglio di Europa, la ‘percezione della popolazione’ da luogo ad una serie di valutazioni cariche di molteplici conseguenze: in prima istanza vogliamo sottolineare l’importanza del concetto di “percezione sociale del paesaggio”, un concetto che è stato elaborato, sulla base di alcune esperienze.Tutto ciò rimanda ad una relazionalità interna assai articolata anche per questo secondo termine del confronto generale, estremamente complessa da studiare ed in gran parte ancora inesplorata. 6- Il paesaggio come linguaggio. Sia che lo si consideri come manifestazione delle dinamiche uomo/natura/società, e quindi come “testo” che raccoglie le informazioni depositate sul territorio, sia che lo si valuti come struttura delle diverse modalità di percezione da parte delle popolazioni interessate, il paesaggio ci può apparire come una particolare forma di informazione e di comunicazione, e quindi di ‘linguaggio’. Descriveremo di seguito più dettagliatamente tale fenomeno; qui intanto ci preme di indicarne sinteticamente questa sua natura, duplice, di struttura della comunicazione, equiparabile per molti aspetti ad un vero e proprio linguaggio, che il paesaggio appunto può assumere. 7- Paesaggio come fenomeno relazionale. Facciamo allora interagire le diverse connotazion i del paesaggio sopraesposte tra di loro, a partire dalla multidimensionalità di significati che entro la relazione principale il paesaggio può assumere. In prima istanza connettiamo g li aspetti del paesaggio relativi alla sua dimensione di “manifestazione delle trasformazioni ambientali uomo/natura/società” con quelli del la “percezione sociale del paesaggio”, attraverso il “paesaggio come linguaggio”. Ci troviamo al lora nel ca so di una co ndizione rela zio ne tern aria, quale quelle che ci ha mostrato Bateson , con la funzione del “ linguaggio paesistico” che svolge il ruolo di struttura della connessione, di contesto comunicativo. E, come sappiamo, trovandoci nel caso di strutture tutte dinamiche, dobbiamo tenere conto che la relazione è in continuo divenire, con reciproche continue trasformazioni dei componenti della relazione ternaria stessa. Du nque pa esa ggio come co mb inazion e r elazio nale terna ria tra ‘manifestazione delle dinamiche territoriali, naturali ed antropiche’, ‘percezione sociale degli ambienti di vita’, ‘linguaggio paesisitico’ in una ricchissima e dinamica combinazione fluida di situazioni e di accadimenti. Questo a grandi linee può essere il quadro di riferimento del concetto di paesaggio, letto in chiave relazionale, che si può assumere e che come si può facilmente intuire è molto lontano dalle visioni stereotipate e letterarie delle concezioni tradizionali, ma lo è anche sia dalle attuali concezioni ecoscientiste e ingegneristiche, che da quelle pianificatorie dei parchi e dei piani paesistici o progettuali del verde, così come pure da quelle puramente geografico-descrittive, tutte oggi assai diffuse, tutte parzialmente importanti, ma anche tutte chiuse ciascuna all’interno del proprio assunto selettivo. Viceversa, con l’impostazione relazionale, il paesaggio emerge infatti come fenomeno dinamico in continua trasformazione e pure legato ai tempi lunghi della natura e della memoria e contemporaneamente vicino alla diversità e alla variabilità sociale della percezione, il tutto tenuto insieme da una comunicazione ricca, nuova, imprevedibile, dotata di un linguaggio comunicativo di tipo “artistico”, ancora da approfondire ed in parte da costruire. Così il paesaggio potrà divenire, come vedremo, anche uno strumento di comunicazione sociale straordin ario. E questo aprirà ulteriori campi di riflessione, di indagine ed anche e soprattutto applicativi. In questi anni la ricerca si è sviluppata principalmente lungo tre tematiche: - il paesaggio come fenomeno dinamico; - il paesaggio come linguaggio; - la percezione sociale del paesaggio; Riguardo alla prima tematica abbiamo visto come essa abbia portato al concetto del paesaggio come fenomeno poliritmico. Questo concetto, che u na volta espresso può semb rare o vvio, in realtà rimanda ad una condizione ed a situazioni esperien ziali ovvero progettuali tra le più ardue, poiché generalmente, al di là di rarissimi casi di poliritmia per così dire “concertante” (v. il notissimo caso delle tre orchestre del Don Giovanni che suonano contemporaneamente, alla festa drammatica della fine del primo atto, quasi a dare attuazione all’invito e all’ordine di Don Giovanni :”senza alcun ordine la danza sia...”, a due secoli di distanza un annuncio fulminante, quasi un manifesto della caoti cità creativa) la contemporanea presenza di ritmi diversi può portare a situazioni difficili, come per esempio alla schizofrenia, o comunque alla difficoltà di coordinamento e di compresenza dei diversi ritmi. Nel nostro caso in particolare è spesso assai difficile conciliare i ritmi della natura basati sulla lenta evoluzione e sul ritorno per esempio della stagionalità e della sua ‘miracolosa’ rinascita, con le dina miche accelerate e spesso lineari, e pur discontinue, delle trasformazioni urbane e dell’ambiente industrializzato e ancor più di quelle sociali. Ma progressivamente i diversi ritmi si ‘contaminano’ e la condizione del dinamismo diviene sempre più complessa. D’altra parte solo assumendo la dinamicità del fenomeno sarà possibile pensare di stabilire con esso un rapporto positivo, e, viceversa, pensare al paesaggio come ad un fenomeno dinamico, può portarci ad impostare esperienze artistiche e comunicative avanzate, di ricerca progettuale e sperimentali. In particolare proprio la poliritmicità può divenire un campo di applicazione della relazionalità dinamica che può portare sia a modalità di controllo (rapporto) del fenomeno, che a possibilità di inserimento propositivo, combinando, per esempio, la rivalutazione della memoria del proprio contesto, con le esigenze di lavoro delle giovani generazioni, come in tanti progetti di parco si au spica, operazione per altro più facile a proporsi sulla carta che a praticare nella realtà (forse proprio per quell a diversità d i ritmi che non si può superare tanto facilmente!). La tematica de l paesaggio come lingua ggio a bbiamo visto che si può articolare in due ambiti, corrispondenti a due diversi livelli della comunicazion e, quello del paesaggio come mani festa zion e dell a relazione ecologica u/n/s, e quindi come ‘testo’ di una informazione contenuta nel territorio, e quello come ‘struttura di comunicazione’, come ‘linguaggio espressivo’ nei confronti della percezione del paesaggio. In entrambi i casi le modalità co municative sono talmente articolate da configurarsi in veri e propri linguaggi. In altre occasioni abbiamo paragonato il ‘linguaggio’ del paesaggio assunto come ‘manifestarsi del territorio in evoluzione’ a quello mu sicale, ed anch e qui vorremmo riproporr e alcune analogie tra lin gu aggio musical e e linguaggio della comunicazione territoriale, a no stro avviso assai sig nificative: innanzitutto entrambi i linguagg i sono “universali”, aperti all’inter locuzione con chiunq ue, capaci d i comu nicare indipendentemen te dall’età, dalla prepar azione, dal la cultura etc dell’ascoltatore. Ma contemporaneamente il testo sta scritto: il paesaggio da una let tura del territorio come di uno spartito, esercitare la lettura paesag gistica equivale alla possibilità di interpretare una musica. L’interpretazione peraltro è aperta ed il ruolo dell’interprete (anche per se stesso) è parte intrinseca dell’espressione musicale o paesistica. È chiaro che il paragone non può essere portato oltre un cer to livello, ma è utile ricordare tre particolari: uno, appunto è la questione assai dibattuta ma di grande interesse sul ruolo dell’interprete e sulla possibilità di valutare i margini di am missibilità dell’interpretazione stessa e per contro gli apporti e gli ar ricchimenti di significato che ogni interpretazione porta con sé, e tutto ciò diviene assai stimolante, come vedremo negli esempi, proprio in campo paesistico nel confronto tra letture ‘oggettiva ‘ del paesag gio e lettura interpretativa, ovvero qualitativa, tesa peraltro a perve nire generalmente al cuore segreto di quel “Luogo”, come avviene nei confronti del messaggio più profondo di una certa musica… Anche se è possibile, ed anche se è essenziale disporre di una predisposizione all’ascolto, pure l’esercizio dello strumento e la lettura del testo sono ugualmente indispensabili per approfondire l’esperienza musicale, così come l’ esercizio alla lettura della storia e della struttura del territorio e alla capacità di percezione dei segni e delle connotazioni e dei legami che il ‘ testo’ paesistico trasmette sono indispensabili per sviluppare ed arricchire l’esperienza paesaggistica. Così come per chi vuole fare musica o per chi vuole dedicarsi allo studio dei paesaggi sono rispettivamente indispensabili una grande dedizione allo strumento musicale e corrispondentemente un attento studio delle tecniche e delle pratiche scientifiche dell’analisi paesistica il terzo particolare riguarda il rapporto con il tempo, che ovviamente pervade la musica ma che è anche alla base del paesaggio come fe no meno dinamico: educarsi all’a scolto dei te mpi del paesaggio è una chiave di comprensione dei fenomeni territoriali e della con oscenza dei “luoghi” di grande utilità e suggestione. Ma se nel rapporto con il territorio valgono le comparazioni con la musica, che abbiamo fino a qui visto, sotto l’aspetto della “comuni cazione percettiva”, la comparazion e, quasi spontanea, viene con la pittura e con la poesia o con la letteratura. Peraltro, questa comparazione non si esercita tanto, per entrambe, in senso descrittivo, quanto in senso relazionale, nella valutazione cioè che si tende a fare emergere, delle possibili interpretazioni, nella a ttribuzione di sign ificative che ogni comunicazione, ed anche ogni ‘descrizione’, in realtà, si porta con sé. La terza tematica riguarda la “percezione sociale del paesaggio” Con questa espressione intendiamo riferirci sia ad un argomento tematico sia ad una attività di ricerca ed operativa, che in questi ultimi anni abbiamo sia derivato da esperienze dirette, sia ricercato in applicazione delle direttive europee. Si tratta di mettere in evidenza percezioni e comportamenti sociali nei confronti del paesaggio, di apprezzarne le notevoli differenze, di trovare le modalità di farli esprimere e renderli confrontabili. È un campo di conoscenza e di comunicazione in gran parte, anche se non del tutto, in edito che abbiamo ten tato di a ffrontare da più punti di vista. Vi è infatti una dimensione sociologica in questo tipo di approccio al paesaggio, ve ne è una psicologico - comportamentale, poi ve ne è una comunicativa sulla natura della comunicazione paesistica, e ve ne sono infine anche altre, sia una sociale, che una pre-progettuale, entrambe queste ultime già rivolte in qualche modo alle problematiche dell’intervento. Come affrontare una tale complessità di motivazion i conver genti, ed anche una tale novità di tematiche? Si è pensato, sempre in realtà sulla base di alcune sperimentazioni concrete (sul campo) di carattere preliminare (esplorativo), di fare riferimento a due considerazioni preventive, che sono appunto emerse da tali sperimentazioni: A)- Per potere fare emergere la “percezione sociale”, occorre intendere il paesaggio come il “proprio ambiente di vita”, come il luogo della propria vita quotidiana. Sarà allora possibile che chiunque si interessi di parlare ed anche di appassionarsi a questa problematica, mani festando sia la propria condizione, che i propri desideri, che il proprio immaginario, qualunque sia la condizione ed il rapporto che può avere con il luogo dove vive. Di rei anzi che riemerge questa e sig enza pr ima ria di u n ra pporto profondo con l’ ‘ambiente di vita’, con il contesto cioè delle azioni e degli accadimenti che coinvolgono qualunque persona. In tal modo occuparsi di Paesaggio, non è un ‘operazione aleatoria, superficiale, un pi acevole optional, ma pu ò divenire qu alcosa che interessa tutti da vicino, qualcosa che va ad interessare direttamente le persone che entrano in contatto con tale problematica. B)- Tutto ciò ci conduce a ripensare: all’ambiente di vita, alla partecipazione e ad un comportamento (immersione, messa in gioco, proce sso parteci pativo e gioco aperto) che dall’autopercezione porta a fare i primi passi verso la appropriazione, e quindi verso la rielaborazione di una nuova co ndizione (il paesaggio partecipato come condizione e modo di stare, il paesaggio come ‘progetto’) che porta al paesaggio vissuto come contesto. Comunità e Linguaggio Sviluppo evolutivo tra “città spontanea” e “città pianificata” Francesca Sartogo EUROSOLAR Italia e-mail: [email protected] 1.1 La crisi del linguaggio edilizio 1.2 Il “linguaggio parlato” e la città antica La crisi od iern a del le n ostr e città è anche dovuta ad un d isco ntinuo pa nora ma di p rodo tti edi lizi recip rocamente opp ositivi, b asati su un a concorrenzialit à fra a ut ori e su u n con su mismo no n so lo ec on omi co m a so pr at tutto sti li sti co e mo r fol o gi co dell’Architettura. È come se impro vvisamen te , ma pro gressivamente dei nor ma li mo me nti p rocessuali de l “l ingu agg io p arla to ” si fosse ro tr asfo rma ti totalmente in “ ling ua scritta”. Il “lin gua ggio par lato”, l a “p a role”, è fo n da me n ta l men te o rg a n ic o, a u to cto n o , pr o d ot to da ll ’i nte ra Comu ni tà co nti nu a men te pa r la nte e che cod ifi ca sp ontane amente la complessità del suo pro ce sso sto rico, diffici lmente può diventar e l ingu aggi o scritto, la “langue ” ch e è istitu zi onal me nte epi so dico, pr odotto da pochi, el itario ed i mp ositivo . Oggi il ra ppor to tra il “lin guag gio par lato” ed il “li ngua ggio scritto ” si è altera to . La pro duzion e d el ling uag gio scr itto di “oggetti firmati” co n ca ratteristiche pro prie de lle “emergenze ” si è estesa su tutto, dall e resid enze all ’arr edo ur ban o provocan do un g eneri co calde rone omoge neamen te chiamato “Architettura”. La ci ttà è diven ta ta un a co llezio ne di ogge tti, non pi ù u n “orga nismo”, ma sopra ttutto la sua co mu nicazion e è un col loqu io da “lin gua mor ta ” solamen te tra ad detti ai l avori. Si sta perd endo la str uttu ra, la g rammatica e la sin tassi dell a base for ma tiva che ha g ener ato l a città stessa, le su e r adici cu ltural i sed imentatesi nel lun go p rocesso for ma ti vo in continu ità con la Comunità che lo a bita, lo usa e lo rend e vitale . “ ecco qua e là eme rg ere i seg ni , i fra mmen ti spa rp ag li ati d i un’i dea, d i pi ù contra stan ti “id ee d i città” ch e ar ch itetti e u rban i sti han no, no nostante tu tto, ce rcato d i la scia re, d al dopo guer ra ad o ggi, n el corp o vivo d i un a città…. Ed ecco sta glia rsi, sia p er la lo ro mole so prattutto per il lo ro “d isegn o”, inter i blo cchi di ed i fi ci , “ quar ti eri” ver i e pro pri, stecch e, cia mb ell e, q ualche mo nco ne d i crescent, qu alche fan tasma di “ sq uare ”, insie me a r aggi e re scon cl usiona te , a ci cl opici “segn i u rba ni” passati per disgr a zi a e senza tan te media zi oni d alla ca rta al cemen to , fr atta glie di “town desig n” d ’ann ata, cu ci nate i n tutte quel le sal se ch e la cu l tu ra deg li special isti di volta in volta consig liava. E tale è stata sp esso l’ auda ce in si pien za de gli add etti ai lavor i d a l asci arci in più per plessi se non ad diri ttur a far ci talvol ta rimpi ange re la tr a gica, di sp erata vio lenta “spontan eità” dell e bor gata sen za firme d’au to re e cc e cc” (Giorgio Murat ore “La peri fe ria romana e i suoi mo numenti” ) Il “linguaggio parlato” è tipico dell’edilizia minore quella di base e delle sue aggregazi oni dell’intelaiatu ra urbana che hanno caratterizza to per moltissi mi se coli le nostre città. Sono la co difi cazione raggiunta in un particolare luogo di una Comunità che ha come “sintesi a priori” la “coscienza spontanea” dei propri codici, della propria grammatica e della propria sintassi. La Comunità costruisce la propria casa co n l’esperienza delle millen arie altre case costru ite nella stessa area cu lturale con le modalità e le metodolog ie di costruzione dei singoli artigi ani e dell’uso dei singoli materiali che si adattano all’orografia, idrografia, geomorfologia, ed alle condizioni climatiche del luogo. La “coscienza spontanea” riconosce un grande ruolo alle condizioni di soleggiamento e del regime delle acque e d ei venti. La città e l’edili zia sono pe rfettamen te co erenti e consegu enti, ne lle esplicazion i formali delle loro componenti, alle condizioni del luogo; esse nascono insieme con il luogo e con il suo microclima. L’edificio costruito è la sintesi globale della “ratio, fir mitas e venustas” di Vitruvio, d i un suo proprio “conce tto di ca sa” raggiunto al momento della sua edificazione, come espressione di tutte le esperienze maturate nei periodi antecedenti e come matrice di quelli successivi. Caratteristica fondamentale è la flessibilità dei suoi comportamenti, che codifica il processo tipologico dell’edificio e inoltre gli perme tte di organizzar si in sequenze orga niche di tipi edilizi, di concetti di case e di sistemi di connessioni tra di essi . Il tessuto non è altro che un sistema di connessioni tra edifici. La città é un processo di strutturazione organizzata sulla “parole”; “parole” sono gli elementi, le componenti costruttive, il tessuto, i sistemi aggregativi, tutti contenuti in un unico sistema globale che è l’organismo urbano. Tutto ciò si articola in un repertorio di elementi che costituiscono il linguaggio edilizio caratteristico che, in un determinato luogo ed in un certo intorno cronologico è demandato a leggere e comunicare la propria essenza culturale. Il linguaggio è autoctono, spontaneo non frutto di un progetto calato dall’alto, né di condizionamenti o d i scelte i mportate da altre aree culturali, è aderente alla sostanza civile ereditata, non progettata, ma realizzata dai suoi abitanti unici veri fruitori. Mentre gli edifici speciali le “ emergenze” anche se derivati dall’edilizia di base, sono frutto di una “coscienza critica” e appartengono al linguaggio scritto letterario la “langue”. Sono elementi polarizzati su punti nodali accentranti, espressioni di culture ufficiali, importate da altre a ree culturali limitrofe, esistenti in quel particola re mome nto storico, sempre leg ate alla produzione delle classi dominanti e in qualche modo impositive verso i prodotti processualmente evoluti de lla edi lizia di base costruita deg li abi tanti. La storia delle emer ge nze urb ane è una sto ria della lette ratu ra scritta indipendente dalla processualità del linguaggio parlato; è storia di personaggi, di prodotti singolari, ben diversa da quella storia civile fatta dalla collettività antropica radicata nel suo luogo di appartenenza. La città voluta e costruita dagli abitanti, la “città dei fruitori” è stato il modello organico, coerente equilibrato formato da precise regole di vita civile ecologiche, bioclimatiche, sociali che ha visto consolidare la nostre città europee medievali e che ha lasciato documenti interessan tissimi come gli “Statuti Comunali trece nteschi” tutt’ora si ngola ri esempi di p artecipazi one dei citta dini alla costruzione e g estione della città e del suo perfetto ecosistema.. Essi sono il frutto di un periodo di stabilità e di continuità storica. 1.3 La “città pianificata” Purtroppo quella “città dei fruitori” si è trasformata nei secoli susse guenti in una “città pianificata e degli intermediari ”. La città consoli data nel massimo boom di sviluppo trecentesco innesca un periodo di stasi prolungato di circa 5 secoli i n cui lo sviluppo è quasi nullo. Questa stasi lascia la città immutata nel suo territorio, definito dalle mura prima trecentesche poi quattro - cinquecentesche, operando solo trasformazioni e ristrutturazioni degli edifici e delle sue tipologie nei limiti in cui esse anche a fronte della propria elasticità, possono modificarsi. Il cambiamento dalla casa unifamili are in una semp re pi ù pre sente plurifamiliarizzazione trasforma le tipologie italiche, sopra ttutto caratteri zzate da lla “casa-corte” sud dividendo e i nta sando gli edifici ed il proprio tessuto, ma mantenendo ancora inte gro nelle sue funzioni l’organismo edilizio ereditato. Solo alla fine del settecento ed inizio del ottocento, con la caduta delle mura ed il soprag giungere di un nuovo boom edilizio dovuto alla pressione d emografica ed al massiccio inurbamento nelle grandi città, importan ti modifiche vengono a sovrapporsi alla struttura urbana esistente. La crescita dimensionale dell’unità edilizia modifica sostanzialmen te la tipologia, essa non è più relazionata al singolo nucleo famigliare anche se allargato, è i nvece un insieme di “alloggi” a compor re l’unità edilizia che diventa un aggregato di case in una sorta di “tes suto in verticale”. Questo coinvolge naturalmente l’assetto lottizza tivo, l’assetto viari o ed il tessuto urb ano. La città mode rna è dise gnata per parti divise in zoning funzionali spesso mal collega te ed oppositive alla città preesistente. È articolata su Piani di grande di mensione, privilegia ndo il disegno della viabil ità e de ll’autonomi a dalla strutturazione dell’edilizia, impianti radiali o impianti a grosse maglie quadrate o rettangolari per contenere grossi quartieri e gran di isolati autono mi o una città diffusa, dispersa nel verde, anticittà per eccellenza. Comunque questa complessità e dimensione ha bi sogno dello strumento della “progettazione”. La Comunità non riesce più a costruirsi la sua casa autonomamente con il suo artigiano, ma ha bisogno di arch itetti, di impre se di costruzion i, di specialisti per gli impianti, di istituzioni per i finanziamenti, istituti per il controllo e per le autorizzazioni. Il cittadino “fruitore ” della città antica d el 800 dovrà sovrapporre al desiderio di costruirsi una casa una serie di intermediazioni necessarie al progetto. D’altronde non è più pensabile di costruire un quartiere o condomini come quelli delle perife rie delle nostre città senza la intermediazione del “progetto”. L’età della città del progetto ha sostituito l’età della città spontanea ma il progettista ottocentesco si trova impreparato a capire la progressione del processo formativo della città e delinearne la sua continuità. Ne nasce una discontinuità tra città antica spontanea e città pianificata odierna. Il cittadino ha poco spazio e poche possibilità di mutazio ni ne ll’allogg io racchiuso da confi nazio ni sia verticali che orizzontali nei limiti del suo volume più ridotto Il ruolo attivo dei cittadini veri fruitori dell’edilizia della città spontanea sembra scomparso, ma anch e quello degli intermed iari no n ha raggiunto q uella coerenza che aveva caratterizzato la nostra storia fino ad oggi. La Comunità in un primo momento accetta il disegno della città pianificata sper ando in un miraggio di migli oramento quali tativo e di sviluppo della modernità, mentre la città antica è vista come un’ano malia storica da risanare sia dal punto di vista igienico, che costruttivo, che della viabilità da ricondurre alla logica e alle modalità della città pianificata. A tale atteggiamento corrispondono i ben noti sventramenti e percorsi di ristrutturazione che hanno tan to maltrattato molte delle nostre città. Negli ultimi vent’anni si riacquista la cognizione di valore dell’edilizia storica ed essa ridiventa oggetto di interesse come documento da conservare ma soprattutto riferimento per risolvere le incertezze ed i disagi della odierna “città progettata”. Questa nuova sensibilizzazione ci da la speranza di poter trovare un equilibrio tra cittadini fruitori e intermediari demandati al progetto. Il compito dei responsabili istuzionali del progetto è la interpretazione delle regole del linguaggio e la sua comunicazione, mentre i cittadini dovr anno ritrovare n ella loro co scienza spo ntan ea che, non è possibile che sia totalmente perduta, i fondamenti della “parole” del nu ovo linguaggio edilizio del nostro secolo. La partecipazione dei cittadini è oggi ancora più necessaria in un mondo di globalizzazione imperante in cui l’unica speranza è la diversità e la caratterizzazione delle aree culturali locali come difesa della nostra sopravvivenza. La cr isi d el l ingu aggi o n ell’A rchitettu ra e n ella città in si eme al la emergenza ecologica ed energetica dovrebbero indurci a fare delle opportune riflessioni e cercare di colmare il divario che si è formato tra la città dei fruitori antica e la città pianificata moderna. Il progetto è molto utile se riesce a ricostruire l’ascolto dei cittadini che conservano ancora quel repertorio delle regole provenienti da quella “età preprogettuale”, tutt’ora evidenti, presenti e leggibili in aree geograficamente marginali che non siano state ancora raggiunte e mistificate dalla pianificazione recente o ove un fatto traumatico abbia agito come acceleratore della comunicazione. Comunque l’aiuto della disponibilità e della partecipazione dei cittadini e della preparazione tecnica, tecnologica e scientifica dei progettisti sono passaggi fondamentali per la risoluzione di una crisi di tale portata. 1.4 Il caso di “Venzone” Non mi sono mai occupata di partecipazione, ma sono stata protagonista e progettista della ricostruzione, fortemente voluta e gestita dai cittadini, di una piccola cittadina monumentale del Friuli dopo il devastante terremoto del 1976. È stata una esperienza straordinaria che mi fa un enorme piacere ricordare. Come molti architetti della mia generazione, sono stata coinvolta più volte nella progettazione delle strutture per le ricostr uzioni dopo eventi sismici. Tali ricostruzi oni spesso sono state gestite da ll’alto, d allo Stato, dalle Re- gion i d a Agen zi e G overna tive i stitui te ap posta per l’o ccasi one. (esempi come il Belice, l’Irpinia, la Valnerina,ecc.) La storia del Friuli è totalmente diversa è una storia della popolazione che per tradizione è abituata a fare da sé ed è molto attaccata alle prop rie radi ci. La popolazione fortemente scossa dall’ultimo sisma così devastante è stata molto presente e se vogliamo determinante nelle scelte e nella gestione della ricostruzione e a tutti i livelli. Il problema dopo un evento simile era: se ricostruire, dove ricostruire e soprattutto come ricostruire. La prima reazione soprattutto dei politici e dei progettisti è stata quella di abbandonare quel che restava e di trasferire, come nel Belice, la popolazione altrove. La prima proposta fu quella di una “ nuova città lineare” moderna e attrez zala di tutte le tecnologie avanzate più sofisticate lungo l’asse che congiungeva la città di Udine e di Pordenone in un’unica entità metropoli tana. La se conda fu quella di concentrar e in una zona baricentrica della pianura, ai margini della cittadina storica di Spilimbergo, oggi occupata in parte dall’industria, una “nuova città monocen trica” che prese il nome di “Comellia” dal Presidente della Regione di allora. Ma ambedue le soluzioni molto onerose economicamente, dopo numerosi convegni culturali, consultazioni tra esperti e soprattutto in un serrato dibattito con la popolazione furono accantonate. Esse avrebbero certamente cancellato il millenario disegno territoriale di reti idrografiche, agrarie, centuriali e della struttura minuta e policentrica di quel particolare territorio. Dopo l’ultima terribile scossa sismica del settembre dello stesso anno fu necessario trasferire molta parte della popolazione a Lignano nelle ville e nei condomini modernissimi messi a disposizione dalla borghesia friulana. La popolazione sfollata dalle proprie macerie vi rimase circa otto mesi fino a quando fu possibile sistemarla nelle baracche nei pressi dei loro paesi distrutti. In quei mesi la popolazione odiò quelle case e quella qualità della vita così diversa da quella delle loro radici. Essa non si riconosceva in quelle mutate condizioni, non ritrovava quelle matrici della propria identità che giudicò irrinunciabili e ci fu una forte reazione. La popolazione decise insieme co n i p oli tici, g li ar ch itetti, g li in te lle ttu ali ven uti da molte pa rte dell’Italia e dall’estero l’ultima vera scelta: 1) che non si poteva costruire un enorme museo di reperti come un parco della rimembranza, 2) che la ricostruzione non doveva essere indifferente alla precedente configurazione, 3) che soprattutto la ricostruzione doveva essere “com’era e dov’era”. Geologi ed economisti dettero loro ragione. L’operazione partì in maniera democratica, facile dal punto di vista della gestione economica ed amministrativa. La mano pubblica intervenne con una legge Nazionale che destinava 3.000 miliardi per la ri costruzione d el tessuto edilizio e terr itoriale, il Ministero dei Beni Culturali 100 miliardi per opere monumentali. La Regione promosse un programma a pioggia di contributi articolati in misure diverse per l’industria, la residenza, il commercio come incentivo alla ri costr uzion e. Fu un’ope razio ne autonoma capil lare e ssenzialmente gestita dai Comuni e dai singoli cittadini. Il problema di Venzone è stato un po’ più complesso perché il dibattito tra i monumenti ed il tessuto dell’edilizia storica era appena iniziato. An che per questo i citta dini di Ven zone sono stati determinanti. La loro voce, la “parole” è u scita fuori con una chiarezza ed una coerenza sorprendente. Il ricordo della loro “coscienza spontanea” è stato così forte che per fino le baracche a loro destinate erano suddivise per contrade e rioni. Il bar della piazza era trasferito in mezzo ai propri clienti di sem- pre in quella loro provvisoria sistemazione. Ma la cosa più incredibile, è che sotto il letto o nello sgabuzzino insieme agli oggetti importanti ogn i pro prietario aveva conserva to intere bifore r oma nich e, balconi, portali, architravi, camini ecc tutto quello che avevano potuto staccare e catalogare e conservare come pezzi importanti della loro casa. E il dibattito tra loro era sul “come fosse consentito loro ripararle” ed integrare i pezzi mancanti. La ricostruzione fu fatta sulle parti celle catasta li e sui rilievi murar i esistenti, su lle str atigra fie fornite dalle Soprin tendenze Italiane ed Austriache, sulle tipologie delle case che i cittadini con forza desideravano conservare e ripristinare e su quegli elementi che della loro cultura che erano ancora così fortemente impressi ancora nella loro memoria: elementi come la “ corte interna”, la “sala veneta” del piano superiore, i codici formali e distributivi principali, l’orientamento e la correlazione con le fonti di luce, la tipologia costruttiva per l’inerzia termica e per la protezione termica delle coperture, il solaio ventilato del sottotetto, il ruolo del “fogher” ecc ecc. Il “linguaggio edilizio” giorno per giorno emergeva dalla memoria collettiva della Comunità ed acquistava corpo e validità. Il problema semmai era un altro: superare l’atteggiamento dei Soprintendenti e della Cultura del Restauro fermo ancora alle modalità del restauro destinato ai monumenti. C’era da estendere la disciplina, del resto già enunciata nella Carta di Venezia, all’edilizia storica parzialmente o quasi totalmente distrutta e trovare le regole e le motivazioni per una ri costruzione analog ica. Come esito di un fondamentale congresso a Udine fu decisa con un voto la conservazione della città come un unico organismo monumentale circondato dalle sue mura e di ricercare la verifica e la fattibilità scientifica attraverso un incarico all’Icomos e a me con la consulenza di Gianfranco Caniggia. Per due lunghi anni di rilievi, ricerche documentarie, di progetti e discussioni fu costruito in stretta partecipazione con i cittadini il “Piano di Ricostruzione ” approvato e finanziato per ulteriori 60 miliardi che vennero dal Comune distribuiti ai singoli cittadini come contributo addizionale. La città venne considerata “monumento na zionale” in toto e ricostruita come tale con la seguente risoluzione: “Soltanto per quelle parti di edifici monumentali che furono distrutti dalla furia bellica o da fatali eventi di car attere naturale ma di cui avevamo ancora viva l’immagine davanti ai nostri occhi e nella no stra memori a, era possibile una pronta r icostruzi one, più o meno parziale, secondo la consistenza delle parti superstiti. L’edifi cio si poteva infatti considerare scomposto nei suoi elementi, più che di str utto ………….Il fa tto traumatico, l’ azione viole nta che viene a spezzare al vita di un edificio possono essere vinti e superati con un ‘opera di ricomposizio ne, in b ase a tanti elementi che fino a p oco temp o pri ma avevamo sotto gl i occhi. È una natu rale estensione dell’anastilosi” De Angelis d’Ossat , “ Il Restauro e la Carta di Ve nezia” ,1977. La ricostruzione, oggi totalmente eseguita, è stata realizzata su tutti i 15 comparti unitari di attuazione, per i quali i cittadini proprietari, costituiti in cooperative ne avevano seguito tutte le operazioni comprese la scelta dei progettisti locali e delle imprese di costruzione. 1,5 Il Caso “ Centocelle Vecchia” Interessante il risultato di una particolare metodologia di ricerca e di progettazione presentata al concorso nazionale INU-WWF. che ha ottenuto recentemente il Primo Premio e l’incarico del Piano di Re cupero con la partecipazione dei cittadini. Esso è la conclusione di un iter metodologico improntato non solo sulle analisi urbanistiche tradizionali, ma su analisi storiche da fonti documentarie e scientifi che no nché analisi fisich e, idrogeologiche e climatiche che han no determinato il processo formativo ed evolutivo dell’area. Il risultato emerso è stato la perfetta coincidenza tra le matrici fondamentali storiche, bioclimatiche e socio-urbanistiche che con una razio nalità inaspettata hanno determinato il processo evolutivo dell’area e potrebbero ancora oggi indicare le linee guida delle future strate gie di piano. “Centocelle Vecchia” è i l primo insediamento urbano con solidato, all’inizio del secolo scorso, in un’area di espansione edilizia ben più vasta lungo la via Casilina sviluppatasi dopo il P.R.G. del 1931. Essa è un insediamento spontaneo ove popolazioni dei vicini Castelli Romani in cerca di lavoro si attestano in una situazione abitativa di prima necessità. L’imp ianto viene costruito con una forte “coscienza edilizia” radicata in antichi retaggi storici come “archetipi di riferimento”. Morfologicamente si configura in un area rilevata tra due antichi compluvi, sostituiti oggi da percorsi viari di scorrimento come la via P. Togliatti e la via della Primavera, dalla via Casilina e da un’ampia area libera, lascito della ex tenuta imperiale di Costantino, divenuta aeroporto poi parco pubblico. Il tessuto urbano di prima edificazione si è inserito nella struttura agricola, minuta ed ordinata di origine centuriale sul primo percorso matrice la via Tor de Schiavi, ex collega mento tra il centro aziendale della villa di Costantino e Tor de Schiavi, quasi perfettamente orientato nord-sud, al sole, ai venti invernali ed alle brezze estive. Dal primo percorso matrice l’insediamento si organizza su un’intelaiatura di percorsi paralleli d’impianto edilizio, anch’essi orientati al sole ed ai venti dominanti, condizio nando a sua volta il tessuto edilizio e la sua tipologia. I venti estivi provenienti da S-SO. incontrano solo parzialmente barriere costruttive edificate mentre acquistano una certa velocità, passando sulla vasta area libera del Parco di Centocelle; fluiscono nel tessuto di Centocelle Vecchia che si trova in posizione leggermente rilevata, rispetto alle aree circostanti, incanalandosi nelle strade orientate nord-sud del percorso matrice, dei percorsi d’impianto e negli spazi aperti della tipologia edilizia, anch’essa orientata, creando fenomeni di acce lerazione della ventilazione naturale ed effetto Venturi. I venti freddi in vern ali pr oven ienti da N-NE, pi ù debo li di quell i esti vi, vengon o smorzati e deviati dal compatto tessuto edilizio posto a nord dell’insediamento, mentre la sua tipologia edilizia sembra offrire una così buona protezione nei confronti dei fattori negativi della ventilazione invernale, da permettere la presenza di fiorenti giardini , orti e tante piante di limoni. Centocelle Vecchia forse proprio per questa sua formazione storica e bioclimatica, ha raggiunto una certa qualità della vita, ed un attaccamento al proprio contesto che le ha permesso di offrire, fino ad oggi una forte inerzia alla sua trasformazione, secondo le rego le indicate dal PRG del 1931 che hanno condiziona to in maniera così massiccia l’intera area limitrofa. Per il concorso il progetto di recupero urbano del quartiere aveva impostato la sua strategia essenzialmente sulla valorizzazione del - le po tenzialità micro climati che già i ntrinseche per “forma” nell’impianto, dando alla ventilazione naturale ed all’irraggiamento solare funzioni principali di contenimento degli effetti dell’”isola di calore” e dell’inquinamento atmosferico. L’aerodinamica del regime dei venti e de i flussi dell a ventilazione naturale è a ssunta come”elemento prioritario ordinatore della pianificazione “attraverso il disegno di tutti gli strumenti po ssibili, strade, corridoi , porte e va rchi del ve nto, portici, pergolati, slarghi, piazze, vegetazione, giardini, acqua ecc; mentre la solarizzazione totale delle coperture con pergole verdi, altane, tetti e facciate ventilate contribuiva al risparmio energetico ed alla termoregolarizzazione del tessuto edilizio Dalla razionale correlazione tra il disegno storico, antropico, microclimatico ed energetico potrebbero derivare le linee guida per l’organizzazione funzionale delle reti urbanistiche dei servizi, della mobilità e delle polarità urbane d’interrelazione, delle modalità e dei ma ter iali di costruzione e della fruizione nei setto ri r esi denziale, commerciale e terziario oggi oggetto del progetto attuativo. Il caso di “Centocelle Vecc hia” o ggi potre bbe essere un in te ressante campo di sperimentazione basato sulla diretta partecipazione e collaborazione tra cittadini e progettisti, nel tentativo di far emergere la struttura di quelle regole del “linguaggio edilizio” che anche se nascoste, sembrano ad una prima lettura non ancora sufficientemente ve rificata, essere ancora evidenti, presenti e leggibili. Gli archetipi di C. Alexander, integrati con indicazioni bioclimatiche, solari e di ecologia urbana potrebbero essere un ulteriore contributo per la realizzazione di una nuova città pianificata, e che potrebbe tornare ad essere rigorosamente condivisa e prodotta dai cittadini fruitori similmente alla antica città spontanea. Al contrario…..”crediamo che l’architettura sia regola, poiché il lin guaggio è regola spontaneamente e processua lmen te co difi cata come regola è il “parlato” con il suo lessico, la sua grammatica e la sua sinta ssi, che ciascun popo lo in ciascun luogo usa ed evo lve, ciascuno a suo modo e nell’ambito della sua storia. È struttura de terminata dalla sua stessa processualità, e tanto storica da non sop portare né la staticità né l’arbitrio del singolo parlante. Non è possi bile, in architettura come nel parlato, intendere il passato come un supermarket nel quale attingere di volta in volta i pezzi che più ci ap pagano, per metterli insieme come più ci garba. La storia è una co sa seria: la fatica da fare è tutt’altra e consiste, semmai nel capire la continuità dell’operare umano anche attraverso le vistose disconti nuità momentanee e caduche. Dobbiamo guardare con ottimismo alle capacità di recupero di una continuità, alle capacità di reazione di una cultura edilizia coerente col luogo, contro le imposizioni che momentaneamente posso no deri vare dalla ma ggiore porta nza di un’area e di una cultura esterna contr apposta al la marginalità, al trettanto momentanea, di un’un’altra area. È per questo che ricono sciamo nel Moderno un sistema di esigenze storico - civili, travali canti le confuse realizzazioni, non possiamo non ammettere un va lore altrettanto fondante celato tra le altrettanto confuse esperienze del post-moderno.”Gianfranco Caniggia, G. l. Maffei (Moderno e non moderno Marsilio Editori 1984) Social capital, networks and participation: tools to implement urban regeneration policies. Dario Padovan Department of Sociology, University of Padova e-mail: [email protected] 1. Introduction Since the end of Second World War, Italian public institutions have hardly ever paid much attention to urban problems emerging in dis advantaged neig hbourhoods. Usually, interventions in this field of u rban disease have b een th e task of local authorities, a nd h ave been badly implemented and lacked results. The efforts were often directed towards urban planning, forgetting social strategies to improve the socia l conditions of the inhabitants of deprived are as. In Italy, in reality, there has been increasing polarisation between urban and social planning, with urban intervention expanding to th e detriment of social policy. In a sense, we can say that architects and town planners have played a hegemonic role in implementing urban p olicy exclu ding the task of sociologists dire cted toward s under standing the causes of social and urban diseases. Recently, after years of proposals, reflections, and backtracking, a national programme has been launched which is seeking to regen erate and renew declining urban areas in Italy. These “neighbou rhood agreements”, Contratti di quartiere, are based on the French model, in that they focus on strategies for up-grading urban areas, strategies whi ch are built up by combining urban architectural and social policies. Notwithstandi ng the lack o f integ ratio n between urb an and socia l pe rspectives, which has so far char acterised the Italian ci ty blue p rint, the early stages of ind ustria lisation and urban isati on wer e punctuated by a number of studies and by research on both the ur ban and rural environment, which gave birth to ur ban sociology in Italy. This is an interesting phenomenon, because we can draw so ciological knowledge, interpretations, pragmatic perspectives from it to help face the new problems of social participation emerging in the context of urban regeneration planning. Indeed a historical and genealogical approach has been adopted in this paper. 2. Community studies and urban sociology The first Urban So ci ology in Ital y wa s in the for m of Community Studies. These developed during the post Second World War period when Italian Sociology was recovering and when young sociolo gi sts began to critici se th e Fascism’ s organicist sociol ogy. It was based on a macro analysis of society and engaged in managing the whole system, promoting bio-politics as tool to integrate and build a hierarchical society in Foucaultian terms. For the first time in the Ital ian sociological scenario Community studies appeared to be a good criteria for assessing economic, political and socio-cultural changes (Ferrarotti, 1989). Community studies represent the first empirical attempt to verify the concept of “group” as it appears in community life. At this stage of reflection, the concept of “social group” was influenced both by cultural anthropo logy as in the seminal wo rk by E dwa rd B anfield, and from the sociology of social groups in George Homans. A series of studi es bega n were set up in Italy, dire cted to war ds the study of Community. Among others, we can recall Guido Vincelli’s study of the community of Montorio which proposed to show the cultural patterns working in a changing community (Vincelli, 1958). The study of Castellamare suggested that collecting personal life stories would constitute an indispensable legacy of information for drawing up the headings, the topics for investigation. Community studies took off in the 1950s. More and more researches sought to understand the realities of the country “Italy”. Realities which, starting from a study of the “ethos of local communities”, initially introduced by Edward Banfield, gradually spread towards the knowledge, or recognition, of aspects of social disorganisation which were linked to the processes of in du stri al isa tio n, ur ba ni sati on , mi gr ati on a nd r ati on al isa tio n (Ardigò, 1958; Anfossi, Talamo, Indovina, 1959; Ferrar otti, 1959; Pizzorno, 1956). Community studies were able to establish the lines of social modifications of an economic, political and cultural order. They were really crucial in a country like Italy in which the post war changes were quick and i n some ways misunderstoo d, but where wide areas of backwardness still existed. The contribution of Banfield’s enquiry on Montegrano was, from this perspective, crucial 1 . No sociological re se arch ha s ever been mo re wid ely discusse d by sociol ogists on both sides of the Atlantic as was Banfield’s work. However, this research was profoundly criticised because it was imbued with a lot of “vices”, such as ethnocentrism, prejudice, paternalism, superiority, all fee lings that the winner fe lt towar ds the l oser . Th e concept of “amoral familism” was widel y attacked to o. Howe ver , despite its methodolog ical and political sh ortcomings, B anfiel d’s study - and many others done by American scholars as George Peck, Frederick Friedman, Donald Pitkin, Cappannari and Moss, Lopreato and Lococo - opened up new paths, new areas, o f sociological r esearch among Italian sociologists .2 The decade of the 1960s began with Alessandro Pizzorno’s study of the phenomena of urban isation and th eir consequen ces on social relationships 3 . Pizzorno’s study proposed an analysis of the “associative groups” as basic subgroups of the community, observing at the same time community development in its wider regional context. Economic boom and industrial conflict marked these years. Industrial development was encouraged by the existence of cheap labour and expanding demand in international markets: a model based on exportation. This production model, Fordist in structure but not yet regulated by the state as Keynesian ideals would have wanted it, led to a concentration of labour in manufacturing in the North of Italy, expansion of the tertiary secto r and rap id ur banisation. It se rve d to widen the gap in resource allocation and to increase imbalances in industrial development between North and South, which resulted in large-scale internal migr ation. In these times immigration came to be seen as a problem of sociology, affecting the cultural and social level the new types of urbanised peripheries. The themes of indu strial and urban development an d the related problems o f secularisa tion and conflict attracted the atten tion and interest of many sociologi sts, who develop ed b oth historical and empirical sociological perspective s4 . Urban studies began to take shape focusing on the relations between urban blueprint and social living condition s: a little interest was extended towards peri phery, urban marginality and ghettos even if there was not, then like now, any atte mpt to understand the me aning of ghetto in Itali an ur ban processes. Urbanisation was obviously an effect of industrialisation and wide internal immigrations coming from the northeast and south of countryside. This phenomenon was taken in to account by Balbo and Martinotti revealing more accurate connections and contradictions among urban growth and subcommunity integration in the urban space. P hen omena such a s slums, shantytowns, hu tmen t, sh acks d wel t in by immigra nt workers, became new fiel ds of r esearch for urban sociologists. Related problems were how migrations were crucial in shifting the country towards a modern industrialised society? What tools could facilitate the integration (fitting, assimilation, insertion) of new comers in urban context? Francesco Alberoni suggested “cultural distance” as a pattern to explain the cultural integration process of immigrants in a new urban se tting , an app roach th at he dre w from the work o f the Chi ca go School of Sociology. In this perspective, the immigrant acts in two different ways. On the one hand, he/she brings into existence a traditional and stationary social area inside the new society, recreating a subculture reflecting the early community, and protecting him/hersel f fro m the str ess o f rapid so cia l change s. On the o the r he/she tries to fit into the social mobility mechanism occurring in urban society. Difficulties in fitting into the new social context depended on the position of the immigrant in the continuum between tradition and transformation, which characterises every society. The “cultural distance” of newcomers from the urban and industrial setting could decide of their degree of assimilation and insertion5 . 3. The problem of participation During the 1960’s, the social and political sciences focused on the problem of participation at the time when it seemed to be decreasing. At thi s ti me, Fili ppo Barban o sugge sted disce rning betwe en three different contexts in which participation occurs. In the first context, the p artici pation allude s to the belong ing of an actor to o ne group and in this case we can use the expression “to be part of” or “to be bound to”. In the second context the participation refers to the required possibility of an individual to have a part, to perform a role inside the group or community. In this case we use the expression “to play a part in”. In the thir d context the participation alludes to a wide rang e of acti ons, which arrang e the poli tical be haviour of an actor: in this case we call it “to take part in” 6. This hermeneutic of the concept of participation, this interrelated sequence “being-playingtaking part”, provides us with the conceptual tools to re search this field of social behaviour. Another semi nal contribu tio n to the to pic of pol iti cal participation came from Alessandro Pizzorno’s works. He stressed the lack of historical analysis and of rational reconstruction of the concept of the political participation in authors like Robert Dahl, Seymour Lipset and Stein Rokkan. He identified four types of political participation divided among two dichotomies: action inside the government and extragovernmental action, solidarity and interest. The first was the professional political participation in which actors “live of politics”. It implies the existence of a social division of labour in which the political function is acknowledged as such, as a profession. As James Bryce said “politics has now become a gainful profession”. Here, political solidarity prevails o ver others. The second wa s civic participation, in which solidarity prevails taking the form of conflict among different private interests. Indicators include belonging to volunteer associations, sentiment-activity or friendly relationships, business relationships, belonging to corporate groups. The following table has been ou tl ined by Alessand ro Pizzorno (Intr oduzio ne alla studio de lla partecipazione politica, “Quaderni di sociologia”, n. 3-4, 1966; ora, in Pizzorno A., Le radici della politica assoluta e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 1993, pp. 95-128). (see Table 1) What is clear is that at the time the concept of participation, in spite of its sociological relevance, was misunderstood by those who should be truly interested in it, like labour unions, political parties, entrepreneur organisations and city authorities, as well as sociologists. 4. Urban conflicts and the crisis of classical sociology during the seventies When d uring the sixties and the seventies so cial movements appeared in the field of urban problems and the urban agenda became cruci al for a ple thora of collective actors, institutions a nd po litical parties were dismayed. The participation had taken new directions, which were alternatives to, and often in opposition to those of classic pol iti cal par ticip ati on. Yea rs of ne w collective upr isi ngs were marked by the revival of working-class unionism, which achieved a political role, the spread of social movements of youth, women, students, house squatters, and the formation of radical and clandestine groups able to use violence and to threaten the democratic equilibrium. All of this compelled sociologists and others to rethink, strategically, the points of intersection between political system and wider social political participation. In this shifting cli mate, a crucial sur vey was set up by Fra nco Ferrarotti to investigate the borgate and widespread illegal building as an important social phenomenon. The new social actors breeding in the cultural stew of “urbanisation without industrialisation”, as in the case of Rome, and the perception of a need for change, which targeted not a fearful and strong power but rather a “power by omission”, led to the growth of more conscious social movements7 . Ferrarotti’s work brought to light new movements developing in the city which were challenging the point of view of classical parties and po litical scientists, filled with apprehension of the eruption of th e “social” into the temple of the “political”. The emergence of an unprecedented combativeness on the part of informal social movements marked a decisive shift and moment of crisis for sociolo gy. Alvin Gouldner first made this theme famous: the crisis in functionalist sociology ran through the work of both the sociologists of the past and those of the new generation. For the first time the relationship between social transformation and the role of social scien ce was revealed. The traditional sub jects of collective mobilisation were replaced by more dynamic, radical movements, stud ents, feminists, and urban and housing struggles, all of which h ad n ew iden tities and encomp assed new cultur al n eeds, which threw functionalism into crisis. The “autunno caldo” (hot autumn) of the worker’s movements threw economic, labour and industrial so ciology into crisis. S ome g roups of sociol ogists, wh o con si dere d the ir d isci plin e i n terms of analysis, documentation and participation, did make an ef fort to escape from the cri sis o f so ciol ogy dur ing the 1970s. Two j ournal s were fo unded, “Critica sociolo gica”, di recte d by Fra nco Ferrarotti, and “Inchiesta”, which united a broad network of you ng sociologists and economists, social workers and p olitical militants. Rig ht from the start, “Inchie sta” took a spe ci fic path, whi ch was based on an original reflection on the condition of women, and paid particular attention to the socio-economic situation in Southern Italy, the conditions of wage labour and to social policies. In this cultural and political climate, Italian urban sociology turned toward s the a nalysis of urban str uggle s and movements. In some way, it shared the point of view held by Marxian tendencies within in ternational so ciology, that is based on the principle that “there is a class struggle over the use of houses and that this class struggle is the central process of the city as a social unit... There will therefore be as many potential housing classes in the city as there are kinds of access to the use of housin g”. In their a pproach John Rex an d Robert Moore combined Marx with Weber, assuming, from Weber ian theory, that “class struggle was apt to emerge wherever people in a market situation enjoyed different differential access to property, and that such class struggles might therefore a rise not merely around the use of the means of the industrial production, but around the control of domestic property” . At the same time Italian sociologists noted the shifting of class struggle from the factory to the terri tory, and this meant that the working class sought to appropriate ur b an ser vi ces, u rban consumption and good ho using, o r in othe r words to control domestic and public property. The research u pon the way in which people resolve the housing problem became an important stream in Italian urban sociology. Manuel Castells, in particular, had considerable influence on Italian Urban Sociology. His earlier work was based on the Marxian critique of urban sociology considered as ideology. Caste lls developed arg uments aga inst ur ban theori es, which so ught to expla in urba n processes in terms of the actions of individual subjects. He fought the communi ty power li te ratur e, which concen tr ated on tracin g which individuals or groups at the local level enjoy the greatest pow er to determine policies, because power cannot be conceptualised in terms o f individual attributes or relationshi ps. Ano ther target of Castells critique was urb an managerialism. For him, this perspective, by vir tu e of the ea se with which it respond s to the co ncrete problems that face the “decision-makers”, was assuming increasing relevance. But, for Castells, urban managerialism rested entirely on an ideological base, since it is based on a metaphysical postulate, which emphasises the freedom of individuals (men/women) who remain, whate ver their situatio n, autonomous agents capable of negotiating their cooperation. Castells sought to underline the limits on the auto nomy of signifi cant actors, and we think that this aporia is still working in the modern urban planning. 5. The resurgence of the urban areas in crisis in the 1990s In recent years many segregated areas have developed in different places. The old public housing areas built during the Fascist period, which today offe r an inter esting case of community social life and which could be considered a true model of urban settlement marked by a so-called structural isomorphism, have been joined by the new areas which a re in crisis. Housing and social co nditions in public housi ng areas i n the perip hery of to wns have p rogressively worsened mainly because they contain a conflicting mixture of groups from widely varied social strata: immigrants, non-European worker, Italian migrants from the South of Italy; local workers; retired manual workers; young people with a varie ty of prob lems, ex-p risoners and drug consumers. One further element of such decline, at least in Northern Italy, is the fa ct that the re sid ent pop ulation is ag eing. Y ounger ge nerations ten d to le ave these housing areas, fo r a va riety of reasons. They want to avoid being stigmatised because of their origins; to flee from the possibility of becoming involved in juvenile delinquency or petty cri me; to se ek work outside o f th e restricted , local l abour ma rket and, to find new paths of social mobility. Most of the remaining residents are elderly families who have no intention of leaving the area or of abandoning the social relationships they have built up over the years which offer them a certain degree of trust and emotional security. Not only the fact that the population in these pubic housing areas is ageing but also other factors have affected , aggravated, the problems of living in such areas. One decid ing factor th at has pushed the se urban areas down the path of decli ne and degr adati on has been the policy adopted for housing allocations. The public institutions, whose task it is to choose tenants, have been assigning the housing to people with economic, social and health problems. The effect has been to concentrate a group of individuals who already have problems of adaptation, in one area, super-imposing them on the original inhabitants of the area, those who had in some way or another found equilibrium, a modus vivendi. Once concentrated in the same area, these newcomers have tended to create a social dynamic that has triggered a high level of conflict. Lastly, many council flats have been given to immigrant workers from other countries, who have, involunta rily, fed up the p rocess of spati al segregation and social deprivation, a problem which, only recently, has begin to receive the attention and interest it should. Indeed, we can say that the process of restructuring the Italian Welfar e State, the pro blem of work an d unemployment, espe cial ly in Southern Italy, have led to a process whereby individuals who risk being e marginated have begun to be conce ntrated in such areas. Furthermore, and very important for the Italian case, for years pub- lic housing construction has been subject to personal interests, corruption, which often verged on the illegal. This situation has created a vicious circle, which brings together the lack of structural maintenance on buildings with the lack of effective social planning. We should stress the fact that the creation and formation of ghettos and areas of high urban concentration is an entirely new experience for Italy. Not even during the post Second World War period of mass migration from the impoverished South to the industrialised North of the country were large urban ghettos formed like those in crisis today in the large metropolitan areas. At the time, urban planning policies always managed to avoid concentrating homogeneous populations and social gr oups in specific areas of the town o r city. Even th ough th ere we re a reas i nhabi ted mainl y by in dustri al wor ker s, where the social bond was maintained through belonging to shared ideology, politics, or union, and areas which were already in an advanced state of decline, for example in Milan, Turin and Rome, there were, as yet, no real ghetto areas. 6. Urban Regeneration Policies in Europe The philosophy of Italian “Contratti di Quartiere” is inspired by policies which have been running in France and Great Britain since the early Eig hti es. The two approaches, Challeng e Funding in Great Britain an d Contra ct th e Vi lle in France, a re the two p atter ns by which means of public and private resources are found and allocated accordi ng to equity, efficiency and efficacy criteria. The crucial target is to challenge centralised state planning intervention, favouring a more flexible pattern that combines local participation and social improvement of quality of life. In the first case, the introduction of competitive area regeneration policy occurred in the early Nineties under the conservative government that launched the experimental programme called City Challenge. It invited local authorities to compete for a standard funding package for urban regener ation proje cts [Hall, Mawson, 1 999]. In this perspe ctive, th e competi tion among local pr ojects is conceived as a good value, because the functional activity or efficiency of networked stakeholders would be increased. Resources would be targeted to small areas on the assumption that localised market failure was the key to the urban problem. Funding would be time located because local partnership would have to produce an exit strategy to ensure that benefit would be sustained after the session of funding [Hall, Mawson, 1999]. After this stage, the “competitive model” was repeated by the subsequent Single Regeneration Budge t Challenge Fund program pushing once more towards the local stakeholders collaboration. As Hall and Mawson underline, with the SRB program “a number of difficulties were encountered: the lack of a clear link between resource allocation and need; the variable capacity of localities and of particular di sadvantaged groups (voluntary sectors and ethnic minorities) to compete successfully; the limited transparency and accountability of the partnership to the local constituency; the lack of a critical mass of resources available to address the worst problems in the cities and deprived neighbourhood”. [Hall, Mawson, 1999, p. VI] In the second approach, the process of negotiation is crucial to put into action connections between central administration and local authorities. The local prefect with his national colleagues singles out the deprived urban areas by means of Census Data. Subsequently local authorities take into account and involve key actors; at the end, when local agreement has been reached the prefect and the representative of the Government negotiate the content and funding of the contract. As we can see, the latter procedure is more centralised than the first. One element that renders the Italian case atypical from the situation in other European countries is that there is no single spatial model of concentration and segregation, as fo r example in the French banlieus or British inner cities. Run-down areas exist both in the periphery and inside the so-called centri storici historical town centres. Indeed, Italian public housing policy is a combination of public housing projects set up during the Fascist period and other housing projects set up dur ing th e p ost wa r e con omic boo m (‘60 s and ear ly ‘70s). Given that the situation is unique, it is difficult to predict and construct, a priori, an adequate, or exhaustive, model. Even when analysing the situation at a very general level the deep differences between the Italian regions cannot be ignored. In the South, both the characteristics and the phenomenology of social emargination are very different from the North. For example, in Milan it is frequently the elderly people on low incomes who are in public housing, while in the South, in Naples there are large families with the main wageearner who is either unemployed or employed in the informal (black) economy and with no job security. Following this distinction, we can say that the Italia n regenera tion projects are a combination of the two European models outlined before. In fact, even if the selection of the projects have been made by a cen tra l commission, favourite projects are th ose in which local partnerships are privileged and in which the autonomy of the plan is underlined, mainly at the economic level. As we will see, the capability to extend projects in an ecological and sustainability direction, supporting it at the economical level, is the key action rewarded by the central government by means of other funds. 7. The “Neighbourhood Agreement” However, recently some new opportunities have become available for taking action in this situation. As we said at the beginning of this paper these “neighbourhood agreements” are a novelty in the area of urban intervention policies. Participation means closer integra tion between urban planning tools and methods and between those for plann ing an d managing sectorial policies a nd interventions (residence, mobility, services, electricity and gas supply, rubbish collection) which affect the way in which urban areas evolve. Set up in 1998 by the Comitato Edilizia Residenziale del Ministero dei Lavori pubblici, (Housing Construction Committee of the Ministry of Public Works) these “neighbourhood agreements” pro vide new ways of breaking with the old style of urban policy decision making. They offer: the introduction of urban ecology concepts and of sustainable planning in the area s of construction/building and social and environmental development; closer integration between urban planning tools and methods and between those for planning and managing sectorial policies and interventions (residence, mobility, services, electricity and gas supply, rubbish collection) which affect the way in which urban areas evolve; provision for greater involvement by a larger number of both institutional and economic actors, of repre sentatives of civil society, residents, associations, Unions as well as of individuals, in the plan ning processes for urban renewal policies. Such participation is crucial if these “neigh bourhood a greements” are to be implemented. Participation is the key word for the projects a nd an i mp ortant d ebate is de ve lopin g a round this co nce pt an d around the various experiments it has inspired. We believe that the problem of participation has, so far, been insufficiently explored, not only at the theoretical level, but also at the practical. Invoking partic ipation a nd arguing that the “neigh bourhood agreement” is a “p articipant project”, sometimes merely serves to hide the lack of real, effective participation by those in council/public housing areas. For example, participation should not merely mean social service intervention, the idea of “assisting” the weaker strata of the population; neither should it simply mean making recreation areas available for th e p opu latio n. P arti ci pati on shoul d me an a lon g and compl ex process at the end of which those involved can, publicly and freely, discuss, argue, mediate and n egotiate solutions which fit their felt needs, their values and their interests. 8. Sustainable urban life and social capital What is social capital? In recent years, there has been a rapid growth in interest in the con cept “social cap ital”. The term captures the idea that social bonds and social norms are an important part for sustainab le livelihoods. Its value was identified by Jane Jacobs (The Life and Death of Great America n Cities, Random House, New York, 1961) examining the social life in urban neighbourhoods, by Loury (Loury G., Why should we care about group inequality? in “Social Philosophy and Policy”, 1987) studying the labour market, and by Pierre Bourdieu (Les trois états du capital culturel, in “Actes de la recherche en sciences social s” , n. 30 , 197 9), la te r gi ve n a clear theor etical fra mewor k by James Co leman . As Pierre Bourdie u suggests, socia l capital is a network of relationships, which is the product, intentional or unin tentional, of social investment strategies directed to the building and reproduction of durable and useful social relationships able to give material and symbolic benefits. These relationships enlarge the in d ividual or colle ctive acto rs’ action capab ilities and, if extende d enough, the social system’s action capability too. Due to these features, social capital has the nature of public good. Persons who ac tively suppor t and streng then these structure s of recipro city pro duce benefits not only for themselves but also for all individuals who are bounded to these structures. From the point of view of Coleman, “social capital inher es in the structure of relations between actors and among actors. It is not lodged either in the actors themselves or in physical implements of production” (Coleman J, Social Capital in the Creation of Human Capital, in “American Journal of Sociology”, Vol. 94S, 1988, p. S98). In short, social capital is different from phys ical capital and human capital, it is a public good shared for a num be r of in divi duals. Fina lly, Rober t Putn am (Ma king Democracy at Wor k, Prin ce to n Uni ve rsity Pre ss, P rinceton , 199 3 a nd Fr ancis Fukuyama (Trust: The Social Virtues and the Creation of Prosperi ty, The Free Press, New York 1995 ) have emphasized the role of civic participation to implement democracy and social cohesion, ap plying the concept to the national and regional level. Social capital is formed by a special category of social relations, in which durable mu tual identification of participants, reiteration, and some form of r eciprocity and trust is possibl e. Exchange relationships do not generate social capital except when the quality of commodities is not immediately ascertainable, when for instance there is hostility, conflict, exploitation or a simple meeting. Social capital is featured by a plurality of forms, because it can emerge both at the individual and collective levels. It is a contingent result of interactions among actors with differen t ends, which are shaped by the institutional context in terms of opportunities and constraints. Social capital is featured by those social relationships which persist for a certain long time duration, which individuals in part have in an ascribed way (kinship and status relationships), in pa rt actively build during their life (friend or professional relationships). However, social capital is not the amount of properties that a certain individual possesses. It does not lie either in instrumental goods or in the individual itse lf, b ut it is inheren t to stru ctural rela tio nsh ips between people. These relationships are a form of capital because they produce mate rial and symbolic val ues. Fo r the soci al a ctor th ey are both resources and strengths. Trusting relationships (strong or weak, variably extended and interlocked), which act to improve the social understanding, the information exchanging, the reciprocity and co-operation for common goals, characterize social capital. In short, social capital is formed by informal or formal reciprocal relationships, ruled b y norms and which defin e in a flexib le way forms, contents and boundaries of social exchanges. Social capital is the raw material of civil society. It is created from the myriad of everyday interacti ons betwee n peo ple. It is not located within the individual person or within the social structure, but in the space between people. It is not the property of the organization, the market or the state, though all can engage in its production. Social capital is a “bottom-up” phenomenon. It originates with people forming social connections and networks based on principle of trust, mutu al recip rocity an d n orms of acti on. S ocial capi ta l r efers to the process between people, which establish networks, norms, and soci al trust and faci litate co-ordi nation a nd co-o peration fo r mutual benefit. We increase social capital by working voluntarily in egalitarian organizations. Learning some of the rough and tumble of group processes also has the advantage of connecting us with others. We gossip, relate and in so doing create the closeness that comes from trusting. Accumulated social trust allows groups and organizations, and e ven nations, to devel op tolerance sometime needed to deal with conflicts and differing interests. Forms of Social Capital Social capi tal allo ws i ndividuals, grou ps and co mmunity to solve col lective pro blems more easily. Thu s, many peo ple be nefi t from the contribution of an individual or a group to the social capital. Nevertheless, it runs the risk of being exploited by whom that don’t benefits of it in adequate way.9 Three basic form of social capital have been identified:social bonds, bridges and linkages10 . Bonding refers typically to relations among members of fami lies and eth nic g rou ps. Br idgi ng social cap ital refers to relations with distant friends, associates and colleagues. Linking refers to relations between different social strata in a hierarchy where power, social status and wealth are accessed by different 11 groups. Woolcock relates linking social capital to the capacity of individuals and communities to leverage resources, ideas and information from formal instituti ons beyond the immediate commu nity radius. Although strong bonding ties give particular communities or groups a sense of identity and common purpose, without “bridging” ties that transcend various social divides (i.e. religion, socio-economic status…), bonding ties can became a basis for the pursuit of narrow inte rests, an d can active ly exclude outsider s. Rel ative ly ho mog eneous groups may be characterised by strong trust and co-operative norms within a group but low trust and co-operation with the rest of society. Some forms of exclusive bonding can then be a barrier to social cohesion and personal development. These are examples of weak bridging but strong bonding. A restricted radius of trust within a tightly knit group, such as family members or closed circles of friends, can promote forms of social interaction that are inward-seeking and less orientated to trust and coopera tio n at the wider commun ity leve12 . An exclu sive fo cus on group interests to the neglect of wider public interests can promote socially destructive “rent-seeking” activities. Thus, particular forms of social capital have the potential to impede social cohesion in certain circumstances. In this respect, social capital is no different from other forms of capital, the use of which may serve different ends – not all necessarily desirable for communities at large. Sources of social capital The idea of social capital is associated with relations in civil society. However, relationship of trust and n etworks also involve public organisation s and i nstitu tions. Social capi tal is embedded in n orms and institutions, wh ich include publi c and legal entiti es. It can be identified several sources for the development of social capital. One of these is the family, which creates norms and social ties, and provides a social network that benefits its members. Relations within the family are based on reciprocity. The material and emotional support shared freely between family members can generate an implicit willingness and expectation to reciprocate such support within and outside the family. Schools can foster values for social co-operation as well as providing mee tin g pl ace s wh ere vari ous social networ ks can intersect. Community and n eighbourho ods also pl ay a r ole in socia l capital forma ti on . So cial i nter actio ns a mong n eig hbo ur s, fri end s an d groups generate social capital and the ability to work together for a common good. Some of the growing literature on the ‘new economy’ emp hasises networks, trust, pa rtn ersh ips and collabo rati ve venture s. According to th is vie w, inn ovation is increasingly based on col labora tio n, rapid lea rning and networks: ab ility to ‘n etwork’ or communicate outside formal chann els is incre asingly important in post-Ford ist organi sations whe re a uth ority and management responsibilities are more internalised and where trust and information shar ing are more crucial. Info rmal networ ks promoting shari ng of tacit knowledge are very important. Together with gender and ethnicity, civil socie ty is another source of social capital. Civil society consists of the groups and organisations, both formal and informal, which act independently of the state and market to promote diverse intere sts in society. The re are imp ortant synergies in the relationship between civil society, state and market. The social capital is featured by different kind of social conditions. We identified the following: 1. Participation in networks and groups. Key to all uses of the concept of “social capital” is the notion of more or less interlocking networks of relationships between individuals and groups. People engage with others through a variety of lateral associations. These associations must be both voluntary and equal. Individuals acting on their own cannot generate social capital. It depends on a propensity for sociability, a ca pacity to form new associations and networ ks. Connectedness, networks, and groups and the natu re of relationships are a vital aspect of social capital. There may be many differen t types o f con nection be twe en gro ups (trad ing of goo ds, exchange of information, mutual help, provision of loans, common celeb ration s) . Conne cted ness mani fe sts i tsel f in differe nt types o f groups at the lo cal level – from guilds and mutual aid societies, to sports clubs and credit gr oups, to foster, fi shery or pest managemen t gr ou ps, a nd to lite ra ry so ci etie s a nd mothe r and to ddl er groups. It also implies connections to other groups in society, from both micro and macro levels. 2. Reciprocity and exchanges. Social capital does not imply the immediate and formally accounted exchange of the legal or business contract, b ut a combin atio n of sho rt- ter m altruism and long -te rm self-interest. The individual provides a service to others, or acts for the benefit of others at a personal cost, but in the general expectation that this kindness will be returned at some undefined time in the future i n the case of need . In a co mmun ity whe re recip rocity i s strong, people care for each other’s interests. Reciprocity and exchanges increase trust. Usually, there are two types of reciprocity. “Specific reciprocity” refers to simultaneous exchanges of items of roughly equal value; and “diffuse reciprocity” refers to a continuing relationship of exchange that at any given time may be unrequited, but over time is repaid and balanced. Reciprocity contributes to the development of long-term obligations between peop le, which can be an important a sp ect of achieving po sitive environ men tal ou tcomes. 3. Relati ons of tru st and sa fety. Trust entail s a willingness to take risks in a social context based on a sense of confidence that others will respond as expected and will act in mutually supportive ways, or at least th at others d o not intend harm. Trust lubricates co-operation. It reduces the transaction costs between people, and so liberates resources. Instead of having to invest in monitoring others, individuals are able to trust them to act as expected. It can also create a social obli gation – trusting someone engenders reciprocal trust. Three d ifferent dimensions form th e conce pt of trust: the trust we have in individuals whom we know very well (parents, colleagues, neigh bours) the trust we h ave in tho se oth ers (stra ngers and unknown) we do not know or inter-subjective trust, the trust we have in the institutions or systemic trust. The combination of these three elements provides a concept of trust, which fits in social capital. Trust means for the actor to expect, in a condition of uncertainty, positive experiences, with a cognitive sense by means of he can go beyond the thre shol d o f mer e h ope . Tru st is a t the same time both the source and the outcome of social capital. Each social group is featured by two typ e o f trust: “in ter nal trust”, which inh eres the exchanges and obligations create between actors based upon the solida rity in sid e the gr oup; the “e xter nal tr ust” , that is reward s and sanctions distribute b y the group a mong the me mbers. Trust take times to build, but is easily broken and when a society is pervaded by distrust, cooperative arrangements are unlike ly to emerge. The presence of trusting norms reduces the uncertainty presents in the social life. In this way, safety becomes an indicator of sustainability, because it ensures the maintaining of a given social order, and pro vide s ch anges to improve the situation . Safety is no t in th is per spective only the absence of crime, but it rather is a condition that makes sure the individual and social equilibrium when we are facing the everyday risks. 4. Social Norms. Common rules and social norms are the mutually agreed norms of behaviour that place group interests above those of individuals. They give individuals the confidence to invest in col lective or group activities, knowing that others will do so too. Individ uals can take responsibility and ensure their rights are not infringed. Social norms are sometimes called the rules of the game, or the in ternal morality of a social system, the cement of society. They reflect the degree to which individuals agree to mediate or control their own be havi our. Forma l rul es are those set out by authorities, such as laws and regulations, while informal ones are those individual use to shape their own everyday behaviour. Social norms provide usually a form of informal social control that obviates the necessity for more formal, institutionalised legal sanctions. Social norms are generally unwritten but commonly understood formulae for both determining what patterns of behaviour are expe cted in a given social context, and for defining what forms of behaviour are valued or socially ap pr oved. Some argue that we re social capital is high, there is littl e crime, and little need for formal policing. A high social capital implies high “internal morality”, with individ uals balancing individual righ ts with collective responsibilities. Where there is a low level of trust and few social norms, people will cooperate in joint action only under a system of formal rules. 5. The commons and pro-activity . The combined effect of trust, netwo rks, no rms a nd re cipr ocity crea tes a g ood commu nity, wi th shared ownership over resource known as the commons. The commons refers to the creation of a pooled community resource, owned b y n o o ne , use d by a ll. The sho rt-te rm se lf-i nter est o f e ach, if unchecked, would render the common resource overused, and i n the long term it would be destroyed. Only where th ere is a stron g e tho s of trust, mutuali ty a nd e ffecti ve informal san ctions against “free-riders” can the commons be maintained indefinitely and to the mutual advantage of all. To maintain the commons the presence of a sense of personal and collective efficacy is needed. The development of social capital requires the active and willing engagement of citizens within a participative community action. This is quite differ ent from the receipt o f services, though these a re unque stionably important. Social capital refers to people as creators, no victims. 9. S ocial capital in a regenerating public housing ne ighbourhood in Padova Networks Over the past two decades, network has become a key concept in social sciences as wel l as in the pub lic discourse of mass media, policy circles and social movements. The excitement of discovering a term, which seems able to explain both the social support mechanisms and the genesis of the set of relationships in which an individual i s directly involved, has overstated the su pporti veness of networks themselves. But the networks an individual is in are often not a source of happ iness. Network relations often bring lo ss and anguish. Many people are, sad to say, far more socially burdened than so cial ly supported (Fischer S. Clau de, To Dwell amo ng Frien ds, University of Chicago Press, Chicago, 1982). The same can be said for social capital, the re source “made” by summing up the interactions between people in a given social space. Social capital, as said before, can help strategies of social actors as well as inhibit and encumber other kinds of actions. Each of us holds so cial cap ital because each of us builds networks, which is a part of “building a life”. In all this activity we make choices, every day we decide to see people or avoid them, to help or not, to ask or not. But these are hardly free choices; they are constrained. In building networks, we are constra ined by the po ol o f peo ple availa ble to us. We are also co nstrained by the available info rmation, by our own p ersonalities, by so ciety’s rul es and by social pressu re. But the most severe constraints are posed by the social contexts in which we normally parti ci pate. Most adu lts encoun te r p eople thro ugh th eir fa mi lies, at work, in the neighbourhood, in organizations, or through introduction by friends or relative. Meetings in a bar or in a party, or such, are often anything more than brief encounters. Once we have initiated a relation in a social context, we face the task of maintaining it. People feel that bonds require time, cost an d attention, as well a s it is required by social capital. The following are the survey’s outcomes on networks led in a neighbourhood where an urba n regeneration project is carried on. (see Tab.2) Wha t is interesting in these data , is th at the prevailing socia l networks in the neighbo urhood are nei ther ve ry dense nor strong. In other words, dwellers are embedded in weak and instrumental ties. Network B, which reveals dense and strong connections, and a high level of multiple xity, due to the fact that peopl e do many, different things together, is the least widespread in the neigh bourhood. On the contr ary, Ne two rk A sho ws ho w conn ectio ns b etween a nd amo ng peo ple dep end on speci aliza tion of their functions. These ties are usually weak and ra refied, and they are often built up with others i n a context of pro fe ssiona l, pol iti ca l or cultural activiti es. These ties crosscut the boundaries of the public housing settlement, reaching p ersons who reside in other social and ur ban spaces or simply outside of the public housing area. The presence of weak ties se rves to co nnect d iffe rent g roup s, allo wi ng peop le e ngag ed in them to pursue professional, economic, political and cultural goals. They also in crease the social cohesion inside the neighbourhood, reinforcing the common action and opening new horizons for public housing tenants (G ranovette r M., The S tre ngth of We ak Ties, in “American Journal of Sociology”, n. 78, 1978). Ne twork C shows that ther e a re l ocal relation s mainly based on friendship. Living very close sometimes means to become friends, but we know that the opposite often happens. This type of relation based on friendship tells us that persons essentially share everyday life pr oblems, providing su pport to each other, e xchangi ng small favours and services, often elderly people are involved. However, this n etwork also encompasses the presence of a close fr iend, or maybe a sister or brother, who does not live in the neighbourhood, but who neighbourhood residents meet a couple of times per week. This network is typical of elderly people with little mobility, and it is based on affective ties, social and class proximity but not necessary on physical closeness. Network D, which spreads throughout the neighbourh ood, tells us about friends that people know, but whom they rarely meet. Persons in this network are not able to meet their friends because they have little time or are not in good health. People embedded in this kind of networks are u sually o f the same social origin a nd poli tical be lief, they live nearby, but they meet only rarely and often briefly. Probably, the kinds of people who share this virtual network are very busy and deeply involved in their activity. In this case we could say that social capital is a latent resource, which is not actualised and spent in action and pursuing goals. Living in a public housing, especially in Italy, is a special condition. Public housing r esidents are usua lly eithe r elderly people o r, less so , others who have gain ed the ri ght to live i n l ow- rent h ousing. These categories often have low incomes, are unemployed, have poor quality of life, low levels of consumption, limited relationships and scarce acce ss to soci al resources. The socia l re lations a nd bonds, wh ich have be en bui lt up and de velo ped bu t also broken, sha ttered over ti me, play a crucial role fo r pe ople living in public apartment buildings. The quality of these relationships depends, in part, on economic con ditions, social stigma atta ched to the neighbour hood an d the spatial di stri bution of persona l a nd co llective spaces. Usually we think that in such housing spaces “bonding” social capital p revai ls. B ut, a s we have seen above, to pr oduce improvements in both quality of life and social cohesion people often need “bridging” social capital or, in other words, they must possess cross-cutting ties with other groups. Our research on one of the older neighbourhoods in Padova shows that people are endowed with “bridging” connections too. It means that social changes are possible. 10. Conclusions: Social capital, public housing and new living styles Our task has been to identify network patterns that are widespread among people who live in public housing flats and compare the results from different public housing developments. Our idea to compare different social capital patterns is due to the fact that, over the past de cade, some public ho using developmen ts in Padova have been renewed following new criteria based on housing sustainability, non polluting materials, energy saving (mainly heating energy), collective spaces, communal gardens and allotments, and environ- mental safety. Our working ide a is that housing renewal th at adheres to environmental criteria for improving residential quality can influence householde rs’ lifestyles a nd that these projects can be succeful only if participation is implemented. Obviously, the new criteria adopted whe n ren ewi ng pu blic hou sing are designe d, me et more general needs, such as reducing maintenance costs that accrues from the past use of poor quality materials and outdated building techniques. New criteria fo r building quality include incr easing energy performance, improving durability of materials, and the efficiency of heating plants. But what is interesting is that natural materials are now being used rather than dangerous and polluting chemical products. These materials characteristically, require little energy to produce them, available in nature have both acoustic and thermal properties, are permeable and, are easy to recycle. We have considered the meaning of social capital in particular in a context of public housing in which the social exclusion implied by the stigma attached to such housing often serves to strengthen social networks inside the group of d wellers. The closen ess and th e homogeneity of life styles contribute to this outcome. Thus, economic exclusion, that can be an element for cohesion at the beginning, becomes a mechanism which reproduces exclusion at the social level too. Indeed, denser social networks within these groups would allow more reciprocity among members, but the reciprocity, help, offered is ‘weak’ help, which does not create a lasting improvement of the life cond itio ns. Whether an individual wi ll ha ve th e opp ortu nity of benefiting from an informal network, e.g. to find a job, will depend both on the density of the ties, and on the strength of the network. Today, public building standards ensure better housing conditions as r egard s th e ‘sustaina bility’ o f th e materia ls and their use, the building technologies used and the philosophy that underlies the criteria for renewal. However, the quality of life does not only depend simply on building criteria, but also on the behavioural models existing among dwellers: analysing the social network created and developed among these individuals can help to explain housing models in this context. Could the term housing quality also be used mean a broader quality of life, where housing does not only refer to the domestic area of private space, but also to the semi- public area s of shared spaces of n eighbourhoods? Home has to be consi dered a good : with regard to which the dweller can assu me consu mption models reflecting wider attitudes, those held outside of the context of the house. Public housing developments which offer opp ortunities for meeting and develo ping rel ations among neighbours, e.g. through ade quate services, cou ld le ad to improved q uality of li fe which would have positive effects on the physical and psychological well-being of individuals and help and encourage sustainable consumption. Table 1 Action inside the governmental system Extra governmental action Political solidarity is prevailing Private solidarity (interests) is prevailing A Politics as profession Actors “live of politics”. B Civic participation Civic culture and private interests C Social movements D Sub-culture Private solidarities and political identity Tab. 2 Networks in the neighbourhood A. I have one or more friends with whom I do some activity or other, but I do not see them outside that context B. I have one or more friends with whom I do one activity and I also see them in one or more other contexts C. I have one or more friends with whom I do no specific activity but I see them often D. I have one or more persons who I do not see often, but who are my friends Note: 1 Banfield C. E., The Moral Bas is of a Backward Society, The Free Press, Glencoe Ill., 1958. 2 See for example Lopreato J., Lococo D., Stefanaconi: un villaggio agricolo meridionale in relazione al suo mondo, in “Quaderni di sociologia”, n. 34, 1959. 3 Pizzorno A., Comunità e razionalizzazione, Comunità, Milan, 1962 4 See works on economic and industrial sociology by L. Gallino, F. Ferrarotti, B. Beccalli, in “Quaderni di Sociologia”, n. 4, 1965. 5 Alberoni F., Contributo allo studio dell’integrazione sociale dell’immigrato, Milano, Vita e Pensiero, 1960. 6 Barbano F., Condizioni e forme della partecipazione, in “Tempi moderni”, a. V, n. 10, 1962. 7 Ferrarotti F., Roma da capitale a periferia, Laterza, Bari-Roma, 1970; on the same topics see also Lutte G., Dalle baracche alle case, Ed. Dehoniane, Bologna, 1971; Montaldi D., Alasia, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli, Milano, 1975. 8 Rex J ., Moore R., Race, Community and Conflicts, Oxford U niv ersity Press, Oxford, 1967. 9 Coleman J., The Foundations of Social Theory, Harvard University Press, Cambridge, 1990. 10 Woolcock M., Social Capital: The state of the Notion, Paper presented at a multidis ciplinary seminar on Social Capital: Global and Local Perspectives, Helsinki, April 15, 1999. 11 Woolcock M., The Place of Soc ial Capital in Understanding Social and Economic Outcomes, in J.F. Helliwell (ed.), The Contribution of Human and Social Capital to Sustained Economic Growth and Well-being: International Symposium Report, Human Resources Development Canada and OECD, 2001. 12 Portes A. e Landolt P., The Downside to Social Capital, “The American Prospect”, n. 26,May-June, 1996 Bibliography Ferrarotti F., The Present State of Sociology in Italy, in “Current Sociology”, vol. 37, n. 2, 1989? pp. Vincelli G., Una comunità meridionale, Taylor, Torino, 1958. Ardigò A., Cerveteri tra vecchio e nuovo, Il Mulino, Bologna, 1958; Anfossi A., Talamo M., Indovina F., Ragusa, comunità in transizione, Taylor, Torino , 1959; Ferrarotti F. (edited by), La piccola città, Comunità, Milano, 1959; Pizzorno A., Il fenomeno del lavoro femminile e gli atteggiamenti della popolazione in una piccola città industriale, in “Il Politico”, n. 2, 1956. Banfield C. E., The Moral Basis of a Backward Society, The Free Pres s, Glencoe Ill., 1958. Lopreato J., Lococo D., Stefanaconi: un villaggio agricolo meridionale in relazione al suo mondo, in “Quaderni di sociologia”, n. 34, 1959. Pizzorno A., Comunità e razionalizzazione, Comunità, Milano, 1962 L. Gallino, F. Ferrarotti, B. Beccalli, in “Quaderni di Sociologia”, n. 4, 1965. Alberoni F., Contributo allo studio dell’integrazione sociale dell’immigrato, Vita e Pensiero, Milano, 1960. Il linguaggio architettonico tra globalizzazione e individualismo. Il tema del progetto locale attraverso Agenda 21. Alessandra Carlini Università Roma Tre Dottoranda in Sviluppo Urbano Sostenibile e-mail: [email protected] Il progetto locale Luoghi e non luoghi La trasformazione dell’ambiente urbano con il dilagare di architetture autoreferenzia li, e l’ide a di città come sommatoria di fatti eccezionali, allontana sempre più la comunità dal senso di appartenenza ai luoghi dell’abitare mentre i processi di globalizzazione appiattiscono le diversità. Il concetto di sviluppo locale sostenibile, richiede una radicale trasformazion e dell ’approccio proge ttuale: il passag gio da l prog etto come descrizione funzionale dello spazio o come espressione estetica a utore ferenziale, a l prog etto come descrizion e iden titaria dei luoghi, come insieme permanente dei caratteri socioculturali sedimentati in relazione alle modalità di utilizzo delle risorse locali. « Tener e conto delle specifi che condizion i climatiche, impiega re materiali reperibili in loco, applicare tecniche di costruzione in uso nella regione, rispettare le tradizioni culturali ed estetiche locali: ne deriva necessa riamente una archi tettura regionale, ma non regionalista. Un’architettura che si contrappone con naturalezza a quella globalizzazione per effetto della quale la produzione architettonica contemporanea sembra appiattita, persa com’è ad inseguire le mode trascurando la sostanza del progetto. Ciò che viene chiesto oggi ad una architettura regionale e sostenibile è di raggiungere un certo grado di sintesi critica tra civiltà internazionale da un lato e la cultura locale dall’altro. » (Frampton) Molte delle archi tettu re contempo ranee, brill anti e a ttraenti, dicono sulla città molto più di quanto, i n apparen za, dicono i lo ro stessi autori. Si tratta cer to di un messag gio n on esplicito, attraverso cui privilegia no un a città co stituita di si ngoli oggetti, piena di episod i emozionan ti, ma dispersi. E sse trasmetton o un ’idea di ci ttà che h a a che fare con l’i ndivi dualismo, con la compe titività pe r aggiudicarsi un a p osizione privilegi ata, per accaparr arsi un’ attenzione esclusiva. Ma non è questo l’unico modo di stabilire relazioni tra l’architettura, la città e i suoi modi di produzione. Sono questi alcuni dei disagi che spingono l’Agenda 21 sulla strada dell’attenzio ne nei confronti del “locale”, non come e spressione di un o rdine di grand ezza, ma co me principi o che privileg ia g li e lementi di peculiarità ed irripetibilità di un luogo. Come fa notare Magnaghi, oggi il locale è il vero terreno di scontro sui modelli di sviluppo futuri. Agenda 21 recepisce queste istanze e, la rinnovata attenzione all’identità dei luoghi, acquista perciò un senso strategico. Come architetti, ci interessano i processi di modificazione, gli atti di trasformazione dello spazio fisico, i principi insediativi delle comunità, la lettura delle tracce: ci interessano i LUOGHI. Il progetto locale ed il ritorno ad una dimensione attiva ed operante della comunità suggeriscono l’accostamento di due approcci: -l’attenta descrizione che M. Augè fa dei “nonluoghi”, estranei ai caratteri identitari e rituali delle comunità; -l’attenzione di C. Alexander per il recupero della “qualità dei luoghi” attaverso il Pattern Language. Attra verso l’indagi ne de ll’elemento spaziale della strada, si ten ta una rilettura di quei principi archetipici, di quei contenuti socio-culturali che strutturano il Pattern di Alexander, per proporre una possibile trasformazione da “nonluogo” a “luogo”. La strada è uno dei luoghi più significativi della tradizione urbana. Il suo ruolo sociale come prolungamento dell’ambiente domestico ne ha sempre caratterizzato la struttura e l ’articolazione spazi ale, trasformando un vuoto spazio fisico in un luogo ricco di implicazioni culturali e antropologiche. Se i nfatti i no nl uog hi ven go no de fi ni ti d a Au gè come gl i spazi dell’anonimato, dell’individualismo, ciò che la strada “vuole essere” è l’esatto opposto: “una stan za comun ita ria”, la prima istituzione dell’uomo. Kahn scrive in proposito: « L’architettura è anzitutto un’espressione delle istituzioni dell’uomo, che risalgono a quell’origine in cui l’uomo è perve nuto a r ealizzare i suoi “desi deri” o le sue “ispirazioni”. Le principali sono le ispirazioni ad apprendere, vivere, lavorare, incontrare, interrogare, esprimere. […] La strada è probabilmente la prima istituzione dell’uomo, un luogo d’incontro mancante di copertura, luogo di assembramento delle istituzioni. Tutto quel che un architetto fa, risponde prima di tutto ad un’istituzione dell’uo mo. […] Nella natura dello spazio c’è lo spirito e la volontà di esistere in un determinato modo. La Strada è una stanza che esprime un patto. lo ritengo che l’urbanistica possa ricominciare […] cercando di reintegrare la strada, dove la gente vive, impara, compera, lavora, nel suo ruolo dì stanza comunitaria. Il patto umano è sempre esistito e sempre esisterà. Non appartiene alle qualità misurabili, e perciò è eterno ». La distanza tra luoghi e nonluoghi si gioca su tre aspetti: - identità - comunità - tempo. Augè scrive: « Se un luogo può definirsi identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né r elazionale né storico, definirà un nonluog o ». Il luogo qui ricercato non ha niente a che fare con lo spazio. Il termi ne “spazio” è infatti più astratto di quello di luogo, che implica invece un avvenimen to. Su questi presupposti, la strada viene distinta dal lo “spazio geometrico” della previsione urbanistica, e ridiventa “spazio esistenziale”, istituzione. « Il luogo qui definito è quello del senso iscritto e simb oleggiato, il luogo antropologico […]. Naturalmente, occorre che questo senso sia opera nte, che il luogo si a nimi e ch e i percorsi si effettuino. » (M.Augè) Quindi, lo spazio implica eminentemente una dimensione astratta, ed è molto significativo che oggi se ne faccia un uso sistematico nel lo sforzo di definire il linguaggio architettonico solo attraverso la sua dimensione estetica. I Pattern di Alexander invece, riflettono quel “modo di costruire sen za temp o” capace di produr re ambienti stratificati, frutto di un pr ocesso temporale. Ma, attenzione: l’importanza del tempo, della tradizione costruttiva, no n è final izzata a museificare o a copiare, ma ad acquisire line e guida, regole di sapienza ambientale, frutto di un processo di sele zione. Quando Alexander parla della “qualità senza nome” non si riferisce ad un concetto sfuggente o ad un aspetto astratto del processo di modificazione, ma all’ordine che governa tale processo: ripetizione e diversità sono alcune di queste “qualità senza nome”. I processi di modificazione sono governa ti da struttu re costanti nel tempo, ch e assumo però connotati diversi a seconda della realtà in cui si manifestano. I rapporti tra Tipo e Luogo, tra ciò che permane e ciò che va ria, tra i principi insediativi e le risorse locali, definiscono il linguag gio architettonico. « In altre parole, quando un’azione “ha luogo”, lo spazio indefinito in cui accade acquista significato, ed esprime il proprio grado di com patibilità con l’evento. » Attraverso questo processo di modificazione, ogni atto costruttivo, pur partendo da archetipi che definiscono invarianti, viene differen ziato e connotato a seconda del luogo in cui si realizza. L’interesse e l’aspetto più stimolante del lavoro di Alexander, sta nel tentativo di riportare la progettazione alla sua matrice più profonda, quasi arcaica: il progetto diventa quindi progetto insediativo di una comunità. Il Pattern Language quindi non va inteso come strumento. Il suo uso non è di tipo manualistico. l. La strada Il recupero della qualità dei luoghi è un percorso che richiede cr escita dell’identità locale come matrice dello sviluppo. Ma perché esistano relazioni costruttive tra società locale e ambiente, occorre che la comunità esista, e questo si può ricercare non solo stimolando il coinvolgimento diretto delle comunità attraverso processi di proget tazion e partecipata, ma anche recuperando ad una progettazio ne architettonica più consapevole, il valore di alcuni luoghi capaci di co struire socialità, come appunto la strada. Se è vero che i pattern descrivono le invarianti dei processi costrut tivi e insediativi, si può tentare una descrizione dei caratteri identitari della strada attraverso una selezione critica di pattern. Innanzitutto Alexander riporta la strada alla sua dimensione dinami ca, al suo ruolo di connettivo. - La co nfigurazione lineare che la caratterizza , la definisce immediatamente come struttura del cammino. « Una strada molto lunga è una successione di stanze che ricevono le proprie connotazioni, una stanza dopo l’altra, dall’incontro con le strada trasversali. La traversa porta da lontano le sue infiltrazioni e le comunica ad ogni sla rgo che incontra, i n un a serie di isolati. » (Kahn) Nel pattern 120-PERCORSI E METE, Alexander scrive « la definizione dei percorsi è ben risolta ed efficace quando è compatibile con il procedere a piedi. E il procedere a piedi è decisamente più complesso di quanto uno può immaginare ». Il rapporto che intercorre tra percorso e meta, è sicuramente un’invariante d ella strada, ma non la connota come vuo to spazio fisico tra due poli, un a “strada-corridoio” da vivere fugacemente. Il cammino è narrazione, volontà di un luogo d i racco ntarsi attraverso il tempo e gli eventi che in quel tempo sono scanditi. La strada è ritmata, procede attraver so rallentamenti, pause e dilatazio ni. Quest’aspe tto viene colto nel pattern 126_QUALCOSA PIU’ O MENO NEL MEZZO, in cu i si sottolinea l’importan za di “mete intermedie” che diventano fuochi progressivi e che inducono il rallentamento attraverso destinazioni graduali. « Una strada vuole essere una costruzione. Questi spazi emergono da progetti desunti da un ordine del movimento che distingua il movimento intermittente da quello continuo e che includa l’idea di fermata. » (Kahn) Continuità e delimitazione sono altre due proprietà della strada. La str ada è infa tti l’ ele me nto uni fi ca tore de ll’a mbie nte u rba no. Le schiere continue ed articolate delle facciate, definiscono gli ambienti del vivere quotidiano. I singoli spazi presentano una “interiorità” che emana protezione e appartenenza. Il ruolo svolto dalle facciate, e dalle qualità del loro sviluppo, mette in luce l’interdipendenza che c’è tra edilizia di base e tessuto, tra tipolog ia edilizia e mo rfo logia urb ana, tra la dimensione pri va ta e quella pubblica dell’abitare. I patterns 121_FORMA DEL PERCORSO e 122_FRONTI DEGLI EDIFICI, sottolineano la stretta relazione tra forma del percorso e sviluppo dell’edificio. La strada non separa le case ma le collega. È un “interno urbano” dove la vita ha luogo nel vero senso della parola. Un’altra proprietà della strada è infatti quella di connotarsi come luogo sociale. « La strada è probabilmente la prima istituzione dell’uomo, un luogo d’incontro mancante di copertura. »(Kahn) « La strada è di nuovo concepita come avrebbe dovuto essere originariamente, vale a dire come un luogo dove avviene il contatto sociale fra coloro che vi abitano: un soggiorno co mune come era un tempo. » (Hertzberger) E ancora Alexander scrive: « Le strade devono essere fatte per starci e non solo per muovercisi dentro, come accade oggigiorno. . . perciò fai in modo che siano un luogo in cui stare, non solo un posto attraverso cui passare ». Il rappor to so ciale che l a gente instaura quan do svo lge a ttivi tà in pubblico, è il le gante essenziale della so cietà. « Oggi, la ma ggior parte delle attività avvengono negli spazi chiusi e questo è dannoso perché priva le strade della comunità e le rende abbandonate e perico lose, venend o meno il controllo sociale. » (100_STRA DA PEDONALE.) L a strada dovrebbe riconquistare quelle attività che de- finiscono punti di attrazione e che stimolano il movimento, fornendo luoghi di incontro stratificati. « Ogni cultura locale necessita di un posto dove puoi andare e vedere gente ed essere visto. » (31_PROMENADE.) Ma perché questo avvenga è necessario che la strada offra quello che Hertzberger chiama “spazio abitabile tra le cose”. « Anche se l’ architetto non può esercitar e che un’influenza marginale sugli aspetti fondamentali dei mutamenti sociali, noi dobbiamo fron teggi are qu esti fattori creando ove possi bile l e condizioni per una sede stradale più vivibile. Questo si deve realizzare con l’organizzazione spaziale e cioè attraverso strumenti architettonici. Situazioni in cui la strada serve da prolungamento dell’alloggio sono familiari a tutti noi. A seconda del clima, sono più ricercate le zone assolate o quelle in ombra, ma in ogni caso il traffico motorizzato è assente o almeno è abbastanza lontano da non impedire che le persone possano vedersi e sentirsi fra loro. » (Hertzberger) Il concetto della “strada-soggiorno” suggerisce affinità fra tra le persone, confronto, comunità. « La predisposizione più elementare per mettere in grado le persone di appropriarsi del loro ambiente diretto è probabilmente la predisposizione di sedili (poiché l’opportunità di sedersi è correlata, dal punto di vista etimologico, alla parola insediamento). Un luogo dove sedere offre un’opportunità per un’appropriazione temporanea del posto e al tempo stesso crea le circostanze perché avvenga un contatto con gli altri. . . Gli oggetti che si presentano esclusivamente ed esplicitamente per uno scopo spacifico, in questo caso per il sedersi, appaiono inutili per altri scopi. Un progetto caratterizzato da una funzionalità estrema è un progetto rigido e poco flessibile […] Differenze di livello […], co rrima no, parapetti, ca nali p resen tano varie possibilità di azione. Possono essere utili zzati co me elemen ti primari di quella che si può chiamare la grammatica base dell’architettu ra e ne lla vita qu otidian a r appre se nta no uno stimol o costante all’uso. » (Hertzberger) In a lcu n i pa tte r ns co me 5 5_ CA MMINA ME NTO RIA L ZA TO, 125_GRADINI PER SEDERSI, 243_MURETTI PER SEDERSI, viene colta questa potenzialità, questa aspirazione alla sosta che può essere offerta da un’attenta articolazione dall’ambiente strada. Hertzber ger fa notare infatti che « non ci vuole molto perché degli oggetti servano come una sorta di struttura a cui la vita quotidiana possa attaccarsi ». Il. Linguagio architettonico Una descrizione dell’architettura così impostata non ha bisogno di aggrappa rsi alle mo de, di identificarsi in u no sti le. Questa lettura mette in evidenza le contraddizioni di un’architettura contemporanea che spesso confonde il linguaggio con l’immagine, priva di implicazioni culturali, sociali, etiche, storiche, di struttura, lessico, norme. « Prima o poi si dovrà riconoscere che un linguaggio non si inventa, come non si inventa uno stile di vita. » (A.Siza) La questione del Linguaggio diventa determinante nel momento in cui l’Architettura non viene più intesa come fenomeno, ma torna ad esse re ve icolo del “mod o d i costruir e sen za tempo” di cui par la Alexander. I pattern di Alexander, le intuizioni di Kahn, le osservazioni di Hertzberger, che so no servite a descrivere le proprietà invarianti de lla strada, rispondono a quelle componenti strutturali che secondo C. Norberg-Schulz costituiscono il linguaggio dell’architettura: “TOPOLOGIA, MORFOLOGIA e TIPOLOGIA”. « Bisognerà affrontare innanzitutto l’opinione contemporanea circa l’impossibilità di dare al linguaggio dell’architettura un fondamento. Nel suo ruolo di linguaggio l’Architettura “parla” o meglio “rivela”. In che modo la struttura architettonica rende possibile questa r ivelazione? Secondo lo schema sopra menzionato, l’Architettura si potrà suddividere in tre fondamentali componenti struttur ali: topologi a, morfologia e tipologia. » (C. Norberg-Schulz) La topol ogia ri guar da l’or dine spazial e, la ge rarchi a tra le par ti , l’orientamento, il modo in cui l’uomo si appropria del luogo. La morfologia riguarda invece il “come” delle forme architettoniche, il modo in cui lo spazio viene configurato, i rapp orti tra internità ed esternità, tra dimensione pubblica e privata. La tipologia riguarda il “cosa”, è la struttura della forma e individua , al di là del fen omeno e delle manifestazioni apparenti, le costa nti formali. Queste riflessioni ci portano lontano da un’architettura percepita solo con la vista, fugacemente, nella velocità della vita contemporanea. « Votata a creare luoghi stabili, protetti e ben riconoscibili, l’architettura è da sempre lo strumento umano della sostenibilità. E un’architettura che prend e sul serio le proprie responsabilità sociali de ve proporre , ben al di là del gesto spetta colare, effimero , un’estetica valida nel tempo e diventare cosi’ un luogo in cui chi vi abita possa sentirsi a casa. Il fondamento della sostenibilità culturale dell’architettura è la sua storia. »(V. Magnago Lampugnani) Il rapporto che le comunità instaurano con i fatti costruttivi è strettamente legato alle invarianti del tempo e della durata. La “casa” non è sol o un immobile, è parte dell a propri a storia, e il quartiere la strada sono elementi in cui identificarsi e riconoscersi: c’è bisogno che l’architettura duri, che una strada sia ben caratterizzata, che un quartiere abbia una propria iden tità e sia ben r iconoscibile. Scegliere la strada del locale significa recuperare la qualità dei luoghi, cercando soluzioni aderenti alle specificità locali e no n banalmente ripresi da esperienze importanti, ma estranee, adatte ad altri climi o modi di abitare e costruire. V.Magnago Lampugnani, in un suo editoriale su Domus, già nel ‘94, commentava negativamente la tendenza di molti progettisti a guardar e la pro duzione architettonica internazion ale, come se fosse l’un ica possibile “pr ovi nci ale, og gi, è so prattu tto chi sci mmiotta i comportamenti senza averne capito i moventi”. Recuperare questa sintonia col luogo non è facile dopo che per tanti an ni il modello industrialista del la cresci ta illimitata ha ridotto e contratto lo spessore del territorio, appia ttendo la profondità dello spazio ad una dimensione geometrica lineare e trattando le varietà, le differenze come ostacoli da rimuovere. Sorte analoga è toccata anche al l’ambie nte an tr opico, con la sosti tu zi one di una cultura astratta, omologata, indifferente all’identità dei luoghi in cui si andava ad insediare. Il valore del “locale” che con forza si riafferma in alcuni dei punti di Agenda 21, riafferma la necessità di privilegiare gli elementi di peculiarità e irriperibilità. Locale, dunque, non è sinonimo di “piccola dimensione” e tantomeno di “periferico”, ma è un concetto che esprime ma ggiore complessità della semplice localizzazione, definisce qualcosa di specifico, unico, dotato di una sua particolare identità. Questo non vale solo per l’architettura come fatto isolato, anzi è pro prio l’idea stessa di architettura come prodotto autoreferenziale ad essere contrastata. Le città sono infatti un organismo unico e irripetibile, centri di sape re e ap prendimento, di inn ovazione e creativi tà, luoghi di elabor azione della memoria collettiva. Oggi la produzione architettonica pare posta davanti ad un bivio: Architettura come “comunicazio ne” o Architettura come “espressio ne”?. L’architettura contemporanea lavora molto sul tema della “facciata” ed è molto concentrata sulle questioni espressive legate al rivestimento. Su questa strada la cultura del progetto diventa cultura del la fragilità. L’architettura prodotta solo in funzione di finalità estetiche non è ca pace di segnare un luogo, ne disegna un’immagine temporanea, in teressa spesso solo per lo choc momentaneo del messaggio pubblicitario. Molti architetti contemporanei promuovono facciate sempre più efficienti, sempre più leggere, sempre più industrializzate e sempre più fragili. I materiali di rivestimento prendono prepotentemente il sop ravvento su quell i da costruzione anche in una realtà come quella mediterranea che invece richiede di lavorare sull’iner zia termica, la pesantezza, la durata. L’uso della “contemporaneità”, cela molti equivoci e diviene spesso sinonimo di un’ostentata futuribilità, come se la rottura col passato fosse davvero un valore. La città storica, l’architettura storica, la campagna storica, esistono: non si tratta di distruggerle o ignorarle, ma piuttosto di misurarsi con loro. Ta lvolta basterebbe recuperare quella qualità che il progetto del passato possedeva pe r soddisfare esigenze che, da quel passato a questo presente, non sono mutate. Davanti a molti dei linguaggi architettonici contemporanei verrebbe da pensare all’architetto come a colui che ama essere libero di progettare e dare forma: senza vincoli, in favore di una ricerca espressiva che fa della forma e della libertà i principi architettonici. In realtà l’architettura è, fra le altre cose, un esercizio di risoluzione di problemi, un “gioco magnifico” come disse Le Corbusier, e per poter risolver e probl emi e gio care si devono a vere dei vincoli da cui partire e delle regole in base alle quali procedere. Se il dare forma fosse l’unica preoccupazione, allora il risultato sarebbe la scu ltura , non l’ architettura e il pri ncipio sarebbe l’arbitrio non la libertà. Del resto lo stesso Le Corbusier, ricordato come uno degli architetti più espressionisti del modern o, non è mai stato attratto dalla sola forma, egli è sempre stato interessato dal meccanismo di ciò che sta dietro di essa. Il prog etto locale non propone il ritorno romantico al passato , né suggerisce il vernacolo. Non si tratta di chiudersi alla cultura internazionale e abbandonarsi al provincialismo, bensi di assumere con autorità una posizione cosmopolita e da questa cala rsi nelle realtà locali, assorbendone le specificità in maniera da poterle continuare a rafforzare. Il Pattern Language come forma di espressione organica Antonio Caperna Università Roma Tre Dottorando in Sviluppo Urbano Sostenibile e-mail: [email protected] Sembra essere cosa di grande importanza e difficile da afferrare il Topos, cioè lo spazio luogo (Aristotele, Fisica, libro IV) Premessa Esiste una forma di linguaggio, una struttura metafisica dell’umanità storica, capace di generare un linguaggio architettonico in grado di comunicare l’essenza della vita? Il mezzo per conoscere la risposta passa attraverso una prima analisi filosofica, che mostrerà due macrostrutture presenti nel pensiero Occidentale e che hann o caratteri zzato l’interpretazione che a determinati eventi viene data. Parlo essenzialmente di due modalità di rappresentazione del mondo ad opera di tutti noi: una “organica”, ovvero una struttura profonda che racchiude nel suo nucleo il pensier o mitol ogi co, rel ig ioso e d a rti sti co e ch e attra verso l e su e espressioni cerca di comprendere le relazioni più intime del mondo vi ven te ; ed in opposto a qu esta una struttu ra “te cn ica ” l a qu ale, sempre di più nell’età moderna , ha finito per identifi care le n ostre azioni-creazioni come enti capaci di essere misurati ed assoggettati al dominio della scienza sperimentale e della tecnica, precludendosi, in tal modo, la possibilità di pensare l’Uomo in termini di “Dasein”. Questo oblio dell’”essenza” della natura umana ha generato delle architetture mute intrinsecamente verso ciò che le circonda. Come e quando si è affermata una tale visione del mondo? L’affermazione di struttura filosofica che inquadra ogni cosa in una ideologia trionfalistica del progresso sottomesso alla verifica del comando scientifi co ha avuto la defi nitiva affermazione attraverso e per mezzo dell’Illuminismo, il quale ha partorito una visione dell’esistenza e del Creato fondata sulla ragione, la quale va a contrapporsi alla visione “umanistica” e “classicheggiante” del mondo; una visione, quest’ultima, dove le parole destino e segno hanno un senso che va oltre la scienza, attraverso un intimo legame che lega il microcosmo con il macrocosmo in quanto parte del grande “cerchio”, all’interno del quale è r acchiuso i l senso de ll’”esistenza”. Que sta struttura “umanistica” con cepisce la storia come “azione crea tiva dell’Uomo”. Allora essere nella storia vuol dire diventare consapevoli che in noi stessi c’è l’azione e la forza creatrice; essere consapevoli vuol dire subordinare la necessità meccanica (causa) alla ne- cessità organica, nel senso ch e quest’ultima è il vero fondamento della vita e atto creativo rispetto alla prima che definisce limiti e regole. Se si vuole dare un corpo a questo contrapporsi di uno stesso animo dobbiamo, allora, pensare al Faust di Göethe. Faust ama la dinamica d ello sp azio ill imi tato, i camp i magne tici, le molecole dei gas, i flussi delle correnti elettriche; ma anche la forza ascendente delle cattedrali gotiche e il fascino dell’ignoto. L’anima di Faust nasce dalla tensione e dalla congiunzione della forza insita nell’Uomo con la rappresentazione di Potenza Divina (Dio, Natura, es. la filosofia di Bruno). La vita di Faust è quindi un continuo contrapporsi tra una “logica umana ” ed una “logica tecnica”, ovvero la lotta tra un frammento di vita cosmica - in cui la morte è rinascita e il dolore diviene amore, con un frammento di vita tecnica in cui la potenza e la volontà di dominio sul Creato sono ricercate affannosamente. Una lotta tra due “essenze” che produce uno scontro, una contrapposizione non tanto sugli effetti che ad esempio una legge fisica produce, quanto sul valore, sul significato simbolico che essa assume nel complesso della nostra civiltà. Ecco allora che l’anima tecnica faustia na sulla natura ha genera to una conoscen za co nce ttuale del Creato, la quale si esprime sotto forma di scienza esatta, la qual cosa genera, attraverso l’illusione del progresso, la dittatura del denaro ed una civiltà che ha attribuito un significato idolàtrico alla macchina subordinando ad essa ed alle sue leggi la nostra essenza. Si è assistito ad una implosione interiore della nostra civiltà, la quale ha prodotto un dua lismo su l valor e ultimo e sul sen so da dare all’esistenza, un lento quanto inesorabile indebolirsi del “senso mistico” come motore d i ricerca sul significato ultimo del Cre ato, per contro ad un nuovo modo di percepire la realtà, attraverso cioè il filtro delle conoscenze tecnico-scientifiche, le quali fornivano all’Uomo nuovi strumenti per affermare sempre di più la propria forza, lasciandosi dietro di se tutte quelle manifestazioni di “amore cosmico” che avevano caratterizzato la fanciullezza di questa nostra civiltà. L’operazione svolta da Alexander, attraverso il Pattern Language, si inserisce senza dubbio in que lla che sopra ho definito una “ logica umana”. Così come Heidegger parla di un carattere poetico di tutte le arti così Alexander definisce una poetica del Pattern Language. Una poetica che si esprime attraverso e per mezzo di un significato ancestrale dei patterns, un significato ricco di “relazioni organiche”, che possono esprimersi per mezzo della matema tica frattale, così come dimostrato negli scritti di Nikos Salingaros. Molti obietteranno che un linguaggio può in realtà divenire una sorta di reticolo chiuso, una prigione per gli architetti o gli urbanisti. Ebbene credo che questo si a un falso proble ma. Che questo si può evincere chiaramente dai linguaggi scritti e parlati, dove l’efficacia della comunicazione e la sua creatività non sono certo limitate dalla sintassi. In ultima analisi se guardiamo all’architettura e all’ur banistica dello scorso secolo troviamo forme espressive che hanno pro dotto molti dogmi, inducendo, tanto nell’architettura quanto nell’ur banistica, forme esasperate di “segregazione delle funzioni piuttosto che una loro integrazione” . Tutto ciò ha ge nerato uniformità provocando in tal modo la fine d i tutte quelle variazioni che determinano l’identità di un luogo. Se poi a tutto ciò si aggiungono le problematiche indotte dalla società i ndustriale ecco che diviene inesorabile la tendenza alla disgregazio ne delle relazioni umane con tutte le conseguenze sociali che que sto si porta dietro. Ecco allora la necessità di un processo progettuale che possa con correre in modo nuovo, anche attraverso l’apporto dei cittadini, alla costruzione di forme arche tipali “che p otend o esse re asso ciate a molteplici significati, possono non soltanto assorbire un programma ma possono generarne uno”. Nel suo scritto “Tre dialoghi” Paul Valery i ncar na nel le par ole de l personaggio Eupalinos l’ideale organico. … “E dimmi (giacchè sei così sensibile agli effetti dell’architettura), non hai osservato, andando per la città, che tra gli edifici che la po polano alcuni sono muti altri parlano e altri ancora, i più rari, canta no? E non dalla loro funzione, né dalla loro configurazione generale sono essi a tal punto animati o ridotti al silenzio: un fatto del genere è in relazione col talento del costruttore o col favore delle Muse”… … “Ebbene: quegli edifizi che non parlano e non cantano meritano sol o i l d isprezzo; sono cose mo rte, ge rarchicamen te in fe rior i a i mucchi di pietrame vomitati dalle carrette dei capomastri. Quelli, al meno, dilettano l’occhio sagace con l’ordine accidentale che deriva loro dalla caduta… In quanto ai monumenti che si limitano a parla re, ne ho stima se parlano chiaro. Qui – essi dicono – si riuniscono i mercanti. Qui i giud ici deliber ano. Qui gemono i carce rati. Qui gl i amanti della crapula… Qu elle logge di me rca nti , quei tr ibunal i e quell e pr igioni parl ano, quando i costruttori sanno l’opera loro, il linguaggio più limpido. Gli uni ingoiano visibilmente una folla attiva e perennemente rinnovata; le offrono porticato e peristili, la invitano con numerose porte e con comode gradinate a riunirsi in gruppi nelle loro sale vaste e bene il- luminate, a dedicarsi al fermento degli affari… “ Come è facilmente intuibile, attraverso le parole di Valery emerge la vera architettura, que lla che sa ’ tra smettere attraver so q uell o che Va lery ch iama “canto”, la sua insita “armonia matematica” e il suo sapersi plasmare alla vita. Nel l’ultimo scorcio del X X seco lo abb iamo sempr e più assistito a brutali eccessi progettuali, a forme espressive che si sono succedute nel lasso di qualche lustro. Tali forme espressive non sono state capaci di attecchire nella società perché rinchiuse in ambiti culturali ristretti. Credo che si possa parlare come di rappresentazioni del malessere o delle angosce di una ristretta cerchia di architetti, i quali, però, non hanno saputo dare risposte nelle loro rappresentazioni né il vuoto nè all’impoverimento urbano e sociale della società occidenta le. Si pensi, ad esempio a quell e architetture che attraverso una forma espressiva “tecnocratica” e rivolta verso “l’era spaziale” hanno rappresentato scenari urbani dove lo spazio della città era fond amentalmente ostile all’uo mo, qua si espr essione e raffigurazione di presagi di morte. O, ancora, espressioni di silenziose utopie colme di ottimismo tecnologico, che addirittura in alcune proposte evocan o immagini me tafisiche, effimere e cri ptiche, alcu ne d elle quali sono votate all’autodistruzione. Queste architetture sono solo la rappresentazione fisica di un malessere presente nella nostra società. Apprezzo, di talune di esse, non l’aspe tto architettonico ma quello pittorico, quin di pura mente speculativo attribuendogli una espressività conchiusa in se stessa e per se stessa. Vorrei concludere dicendo che il Pattern Language, nella sua accezione organica, non vuole essere, né tanto meno è, una limitazione alla creatività dell’uomo. Tutt’altro. Esso tenta solo di rendere percepibi li entità archetipali presenti nella vita, attraverso una operazione di continua autorigenerazione perché “Niente di ciò che è bello è separabile dalla vita; e la vita è ciò che muore”. Bibliografia 1. Alexander C. e altri, “A Pattern Language”, Oxford University Press, 1977 2. Hermann Hertzberger, “Lezioni di Architettura”, Ed. Laterza, Bari 3. Pul Valery, “Tre dialoghi”, Einaudi, 1990 4. Salingaros, N. A., 1999, “Architecture, Patterns, and Mathematics” Nexus Network Journal 1 No. 2 (http://www.nexusjournal.com) Valori storici e coscienza comunitaria nel linguaggio architettonico Luigi Ciotti Università Roma Tre Dottorando in Storia e Conservazione dell’oggetto d’Arte e d’Architettura e-mail: [email protected] Considerazioni preliminari “Sembra che quan do un a nazion e giu nge a configurarsi politica mente, il suo linguaggio architettonico tenda alla classicità; più tra di, quando si è data delle regole certe, emergono le caratteristiche del popolo o dei popoli che formano quella nazione e il linguaggio ar chitettonico prende la strada dello storicismo, dell’eclettismo, del lo calismo ( sino alle forme del kitsch ) e del regionalismo.” R. Masiero, Storia e progetto, p. 113, in TOPOS e Progetto - La Risignificazione, Roma 2001 L’argomentazione iniziale del saggio di R. Masiero rivela esemplarmente la lunga persistenza di una visione meccanicistico/evolutiva del linguaggio architettonico, acriticamente percepito in una irreale prospettiva di unifo rmità nazionale che impedisce o gni distinzione fra la retorica classicistica e il “sermo humilis” delle molteplici valenze semantiche espresse dalla quotidianità in ambito sociale, economico e abitativo durante le diverse epoche storiche, contribuendo a rimuovere l’idea di una “classicità...al di là del tempo e dello spazio”, misurabile con “principi universali e quindi metastorici.Una volta con figurati questi ultimi, è possibile trovare i molti radicamenti e le arti colazioni delle molte differenze e singolarità” ( R. Masiero, ibidem ). Tuttavia se, come continua Masiero, “il linguaggio architettonico ri manda così, inevitabilmente, ad un orizzonte di senso politico”, i ca ratteri della quotidianità ora ricordati, difficilmente riconducibili entro il pr ogetto cul tural e ela borato dal la classe social mente egemone pro-tempore, non possono concorrere a definire la “questione della identità e delle forme del riconoscimento sociale” ( R. Masiero, ibidem ), che resta perciò inconciliabile, nella sua peculiare pertinenza soggettiva, con la dimensione metastorica assunta dalla classicità nell’immaginario collettivo europeo almeno sin dalla fondazione dell’impero romano. Infatti, dal le ricerche di R. Bianchi Ban dinelli in poi sappiamo che l’intero decorso delle forme artistiche - architettura inclusa - maturate in seno alla civiltà romana è pervaso dalla continua dialettica fra una concezi one di aulica e artificiosa classicità ( palesata, ad es., dalle sculture dell’Ara Pacis o dalle planimetrie ellenistiche dei Fori di Cesare e di Augusto ) e l’inalienabile matrice popolare di una cultura originariamente agricola e del tutto estranea alle speculazioni estetiche del mondo greco, ( che emerge nel tracciato imprevedibile degli angiporti fra “insulae” dal disegno diseguale e dall’eterogeneo vissuto costruttivo come dalla ormai celebre insegna marmorea di una pollivendola di Ostia antica ), senza mai giungere ad una efficace sintesi reciproca, in grado di realizzare una durevole inculturazione dell’eredità alessandrina e degli influssi provinciali nella variegata facies sociale costituita da Roma e dagli altri centri italici. Non a caso, l’incontro più felice fra l’ellenismo patinato, classicistico dell’arte ufficiale e la concezione pragmatista di una civiltà che vedeva nella ritrattistica plastica esclusivamente lo strumento per trasmettere ai posteri le fattezze dei defunti insieme ai diritti genealogici, avviene solo nel II sec., sotto Traiano, qu ando opere come la Colonna istoriata sapranno esprimere l’ideale, universalmente radicato, di un impero coeso e fiero delle proprie eterogeneità nazionali e culturali galvanizzate d alla conquista militare della Dacia, resa possibile in via esclusiva dalla superiorità strategica dell’esercito romano. Se, al la lu ce di questi elementi, diviene legitti mo sfumare la no ta ma ssima oraziana : “Graecia capta ferum victorem cepit et litteras intulit agresti Latio” nel senso di una superficiale ellenizzazione della civiltà romana per volontà delle famiglie senatorie prima e degli imperatori in seguito, che proprio nel culto della retorica classicista - emanata dal mito delle origini di Roma e dall’esaltazione dell’austera etica antica - identifi cavano un o dei principali re ferenti p er il mantenimento sociale del proprio potere politico ( si pensi all’inscindibile liaisòn stabilita fra termini come gravitas e auctoritas, spesso usati come sinonimi linguistici e concettuali ); allora, a fortiori, bisogna considerare l’intrinseco ruolo coartante esercitato da analoghi interventi storici, successivamente co ndotti attraverso metodi che ancor meno raffinate ( cfr. ad es., il “classicismo costantiniano”, imposto dalla corte imperiale in un contesto sociale ormai incamminato verso l’alto Medioevo ), nei confronti delle peculiarità espressive rivelate dai molteplici codici in formativi presenti nell’origina rio tessuto antropologico, arbitrariamente privato di ogni ufficiale rappresentatività culturale e relegato al rango di mero veicolo comunicativo popolare. Dinanzi a tali fatti, la stessa idea di “classico” dovrebbe essere sottoposta ad una attenta revisione per accertarne la reale valenza socio/culturale, riconducibile in via prioritaria alla volontà autocelebrativa dei programmi politici espressa nella messa a punto di un “arte ufficial e”, a ccur atamente depu rata, nel suo idio ma en fa ti co , da quelle pericolose inflessioni locali che avrebbero potuto incrinare la sua presunta capacità di linguaggio universale. Così, anche l’archetipo della classicità architettonica, generalmente identificato nella ricostruzione dell’acropoli ateniese alla metà del V sec. a. C., più che rappresentare in forma tangibile la vitalità culturale della coeva società ellenica (sintetizzata con maggiore effica- cia nel drammatico dinamismo plastico di Skopas rispetto alla com passata solennità dispiegata da Fidia nelle metope del Partenone), concretizza il progetto di egemonia politica avviato da Temistocle e portato a termine da Pericle nei confronti delle altre città greche al leate di Atene contro la Persia, “barbara” per antonomasia ( come ci ricorda il chiaro valore simbolico della centauromachia scolpita nel Partenone ), conferendo particolare risalto monumentale ai luo ghi di potere per legittimarne il primato economico/autoritativo a scapito del pregresso tessuto urbano, sconvolto dalla cosiddetta “colma ta persiana”. Inoltre, considerando le modalità di affermazione del classico in ambito a rchitettonico nei successivi e sempi storico/g eografici - sia no questi la Roma dei Cesari o di Sisto V, la Parigi di Napoleone III o la Londra vittoriana - ci accorgiamo di quanto esso, più che essere in di cativo del configurarsi i n senso pol itico di n uove realtà statuali, rappresenta il principale elemento legittimante “erga omnes”, per il suo fo rte impatto emotivo , del potere detenuto da i gr uppi social mente egemoni ( i senatori, i cavalieri e i liberti; il clero riformato; la nobiltà e la ricca borghesia fin-de-siècle ), i quali possono così con ferire una dimensione ideologica metastorica a i propri valori cultural i, imposti come univer sali veicoli di civiltà anche fuor i dell’Occide nte europeo ( basti pensare ai molteplici esemp i di arch itettur a coloniale diffusi nel resto del mondo ). Pur dando talvo lta origine ad instabili ibridismi o a singolari si ntesi espressive, i due linguaggi architettonici, frutto di una antitetica visione del rapporto fra potere, comunità e ambiente ( che, nel caso della classicità, afferma l’autorità e i valori culturali della classe ege mone sull’intero sistema socio/ambientale; mentre, a ttraverso l a collegialità tipica degli insediamenti non pianificati, privilegia la con servazione gestionale dei vincoli simbiotici presenti tra i termini costi tutivi del rapporto stesso ), appaiono privi di un comune ambito semantico, limitando si a co ntrappo rre i propr i r epertor i l essical i all’interno di un tessuto urbanistico stratificato e disomogeneo, contraddistinto dalla presenza di alcuni interventi imposti dall’alto in di verse epoche sto riche ( vedi gli “sventramenti” vari amente perp etrati a Roma dal XVI al XX sec. ) a scapito di quanto edificato nei secoli dagli abitanti, ridotto alla funzione di anonima massa connettiva. Questa situazione, aggravata dalla crescita incon trollata dei centri urb ani nel secondo dopoguerra, favo risce l’od ierna crisi d’identità comunita ria rivelata da lla sco mparsa di ogni modalità rela zional e fra l’ambiente e l’elemento antropico, ormai percepiti come inconci liabili realtà dicotomiche a causa della progressiva perdita del sen so di appartenenza culturale insita nel repentino stanziamento, per varie necessità contingenti, di gruppi sociali estranei alla tradizione sto rica del territorio; circostanza tragica mente foriera, pe r contra sto, di nuove marginalità collettive che, sebbene dotate di caratteri ben definiti, ripropongono il “ghetto” quale unica soluzione per con servare e tramandare le proprie radici in un contesto circostante in differente se non addirittura ostile. A ssistia mo così ad u na u lte riore frammentazione del la p resunta unità comunitaria, già decisamente compromessa dalla sintomatica affermazione dei diversi valori espressi dai singoli gruppi e dagli in dividui che la compongono, resa possibile attrave rso l’ineluttabil e comparsa di nuclei socio/culturali la cui coesione identificati va aumenta con una intensità pari allo sforzo posto in essere per non ve nire assorbiti e omologati dal contesto circostante, nei confronti del qu ale gl i scambi son o limitati a setto ri molto ristretti, come quell o econ omico, evitando scrupolo isamente di mette re in comune usi, costumi e tradizioni proprie. Tuttavia, anche un tessuto culturale fortemente coeso come il ghetto non riesce ad esprimere compiutamente le sue peculiarità nel linguaggio architettonico delle aree urbane nelle quali viene a localizzarsi, che, salvo interventi imposti dall’alto, conservano la tipologia in precedenza acquisita per via della scarsa rappresentatività decisionale comunque insita nelle comunità chiuse, aumentando il senso di estraniamento riscontrabile nel rapporto esistenziale fra l’uomo e il suo consueto vissuto territoriale, mitigato o esasperato dalla variabile osmosi dei ceti sociali. In tal senso appare evidente il ruolo svolto in antico e durante il Medioevo da una dislocazione “a macchia di leopardo” dei diversi ceti economici dei cittadini nel di segno urbanistico di Roma che, favorendo l’insediamento contiguo di “insulae ” e “domus” o di pa lazzi gentilizi e casupole ( come nel caso, ad es., delle dimore dei Manili, dei Cenci nel ghetto ebraico ), permise di attenuare quel la conflittualità oggi resa ancor più violenta dalla completa assenza di spazi condivisi caratteristica delle nostre borgate, create e alimentate attraverso la deportazione - diretta o indotta dalla speculazione edilizia - d i masse sociali e terogen ee quanto a nasci ta e provenienza geografica, benchè sostanzialmente accomunate da basso reddito e scarsa istruzione. La rigida gerarchizzazione insediativa del tessuto urbano così ottenuta costituisce una delle principali cause sottese alla odierna disgregazione della coscienza comunitaria, ormai priva di forti valori condivisi ed esposta alla devastante miscela di sradicato individualismo e pragmatica efficienza che caratterizza la convulsa quotidianità delle nostre metropoli, dove, nonostante tutto, sopravvivono inconsapevoli ritualità comunicative affidate alla estemporanea convivialità ancora garantita dalla frequ entazione di luo ghi particolari (caffè, teatri, sale da ballo, etc. ). Tuttavia, la residua capacità sociali zzante dell’agg regato urbano, sua originaria causa costitutiva, non riesce più a influire sulle dinamiche gestionali dell’abitato, o ggi esclu sivo appa nnaggio d i tradizionali decisioni politico/economiche, anche e in special modo per via della continua rimozione dei valori storici dalla memoria collettiva, che impedisce ogni progresso verso una forma di autocoscienza comunitaria volta ad affermare la propria continuità identificativa nelle scelte legate all’uso del terr itor io, spesso invece per cep ite, nella loro immediata contingenza, quale terreno di scontro per le rigide posizioni talvolta assunte da diversi gruppi di cittadini a difesa di particolari interessi. Alla drammatica crisi identitaria delle comunità in ambiente urbano corrisponde una paritetica e sintomatica caduta comunicativa del linguaggio architettonico, non più “koinè” in grado di tradurre e veicolare anche inconsapevolmente i valori costitutivi degli attori che animavano la dialettica sociale del nucleo abitato ( basti pensare al ruolo svolto in tal senso dalle corporazioni di arti e mestieri oppure dalle confraternite religiose fra il XV e il XIX sec. ), ma semplice artificio progettuale cui far ricorso al fine di verificare gli esiti dela sperimentazione stilistica tanto agognata da parte della ricerca estetica contemporanea, comunque condotta da singoli tecnici ancora ritenuti (di per se stessi o dalla comunità, in virtù della loro autorità legittimante ) depositari di qualità demiurgiche spese nella continua messa a punto di sempre migliori soluzioni funzionali, purtroppo incapaci di rispondere ai bisogni fondamentali della vita comunitaria di ogni giorno. L’arbitrarietà delle scelte soggettive operate in tal senso sugli insediamenti urbani costituisce la principale causa dei ripetuti fallimenti progettuali eviden ziati dalla recente storia sociale delle città, contrasse gnata dalla irreversibil e decadenza dei tradizio nali fattori di coesione comunitaria prima ricordati, resi più fragili dal dilagare delle varie declinaziioni assunte dall’esasperato individualismo dei nostri tempi. I valori storici nel linguaggio architettonico della società contemporanea Alla luce di quanto detto finora, appare profondamente anacronistica l’artificiosa ricerca di un linguaggio urbanistico univeersale, pure tentata ancora oggi a più riprese sulla scorta degli illustri esempi forniti dalle teorizzazioni di Gropius, di Le Corbusier e di Lloyd Wright, che sortisce l’effetto di dare vita a molteplici variazioni di un esperanto alieno ad ogni nesso con la rea ltà oggettiva, arbitrariamente reinterpretata dal progettista in base alla propria sensibilità culturale, eretta al rango di infallibile guida demiurgica, protagonista di interventi territoriali necessariamente brutali e sommari nei confronti della secolare ricchezza espressa dal peculiare contesto storico/comunitario e relazionale. Operando in un simile scenario, anche la semiologia architettonica, proposta quale fertile prospettiva d’indagine dalla critica contemporanea, si concentra esclusivamente sull’analisi del lingua ggio evidenziato dai monumenti e dalle realizzazioni delle grandi personalità, soffermandosi a valutarne gli aspetti storico/progettuali e compositivi se nza riuscire a coglie re l’ ordinar ia di men sion e lessicale della quotidianità circostante, “ex silentio” e a torto ritenuta priva di un codice comunicativo altrettanto valido e rappresentativo di fondate istanze poetiche, dimenticando così l’universalità del rapporto percetti vo/interp retativo sempre e comunqu e stabili to dall ’uomo con l’ambiente in cui vive. La verifica di questa essenziale liaisòn, espressa nel sedimentato linguaggio architettonico delle nostre città, richiede l’impiego di metodiche interdisciplinari capaci di indagare e ricomporre la poliedrica sequenza logico/composi tiva costituita dalle informazioni storiche, sociali, econ omiche e, più ampiamente, antropolog iche che concorrono a definire le coordinate spaziotemp orali degli insediamenti urbani, colti nella oggettiva complessità delle loro dinamiche genetiche e metamorfiche attraverso la sistematica indagine conoscitiva dei lessemi riscontrabili nei contesti residenziali nati al di fuori di un progetto preordinato e senza il contributo dei tecnici preposti alla pianificazione territoriale. Infatti, focalizzando le particelle elementari costituenti il racconto urbanistico della quotidianità, diventa possibile individuare le modalità attuative di un sapere architettonico inconsapevolmen te diffuso in ambito diacronico e transculturale, attraverso la sostanziale continuità ravvisabile n ella secol are persistenza di spe cifiche tip ologie edilizie e soluzioni costruttive, depositarie di un cospicuo valore canonico quali modelli universali in grado di rispondere in forma adeguata - direttamente oppure mediante le loro molteplici varianti evolutive - alle diverse necessità manifestate nel corso del tempo dagli insediamenti comunitari. In tal senso, il discorso urbanistico collettivo, lungi dal riconoscersi nelle riduttive figure retoriche identificate alla fine del XVIII sec. e po- ste a fondamento della moderna pianificazione ispirata alle teorie rinascimentali (cfr. B. Secchi, Prima lezione di urbanistica, Bari 2000, pp. 12 e ssg. ), sembra piuttosto situarsi all’interno del nesso ideale che unisce i recenti studi linguistici di H. Lausberg e N. Chomsky alle ricerche socio/filosofiche di C. E. Lindblom, permettendo una ardita sin tesi dei loro ca ratter i or iginali , prior ita riamente or ientati a chiarire le modalità d i forma ziione e conservazio ne del repertorio lessicale usato dalla comunità per codificare e trasmettere lo “usa bl e kno wl edge ” n ecessa rio a gara ntire nel tempo la pro pria coscienza identificativa. Infatti, solo considerando l’oggettiva capacità comunicativa detenuta dalle forme architettoniche e dalla loro dislocazione nello spazio quale “koinè diàlektos” visiva, diviene possibile impiegare con profitto alcune metodiche strumentali, come la distinzione lausberghiana fra “discorso di consumo” e “discorso di riuso” (cfr., per il primo, i § 11 e sgg.;per il secondo, i § 14 e sgg. in H. Lausberg, Elementi di retorica, Bologna 1969 ) oppure il generativismo chomskiano, che, pur con la necessaria cautela imposta dalla originaria pertinenza retorico/linguistica ad esse assegnata, possono essere mutuate allo scopo di agevolare una corretta esegesi semantica del tessuto urbano, finalmente percepito come pro dotto r esultativo della incessante dinamica storica stabilita fra la co munità e il terri torio ci rcostante attraverso lo “usable knowledge ” postulato da C. E. Lindblom e palesato, ad es., dalle variabili soluzioni abitative ben rappresentate nei centri antichi e in diverse periferie contemporanee. Queste situazioni, assolutamente eterogenee per quanto concerne le rispettive qualità connotanti, presentano invece profonde analogie ne ll’ar ticol azione sintatti co/le ssicale dei patterns o archetipi compositivi ricogniti da C. Alexander, basata sull’esigenza di conservare una “grammatica universale” che, parafrasando N. Chomsky (Linguaggio e libertà, Milano 2000, p. 215 ), permette di “associare suo no e significato seco ndo u n sistema preciso di regol e e principi” definiti dalla millenaria familiarità generativa tra l’uomo e il territorio, progredita fino ai nostri giorni attraverso quel processo di crescita aggregativa (dal più semplice al più complesso ) osservato per il “pattern language” dallo stesso Alexander. Il significato archetipico riconosciuto ai “ patterns” conferisce nuovo vigore ad una lettura complessa delle problematiche storico/sociali relative al perdurare, in senso cronologico e culturale, di consolidati modelli abitativi che implicano una costante riflessione comunitaria sui propri valori identificativi, svolta secondo modalità assai più articolate del mero sfruttamento utilitaristico di tipologie sempre valid e, an cor a sostenuto in recenti stud i critici escl udend o a pr iori l’eventua lità di azioni indotte dalla consapevolezza i deologica del soggetto collettivo, sentito come privo di conservativa autocoscienza storica. L’identificazione dei lessemi architettonici e urbanistici in termini di “pattern language”, p ermette di indagare l a sostanzi ale contin uità nell ’uso di so luzi oni compositi ve mu tuate dai precedenti contesti storici (si pensi alle notevoli analogie riscontrabili fra tessiture urbane antiche e medioevali ) come traccia particolarmente vantaggiosa per svelare il continuo gioco fra “langue” e “parole” che, recuperato nella classica accezione conferitagli dal De Saussure e applicato al nostro oggetto di ricerca, pone in evidenza il dinamico ruolo propositivo svolto dalla comunità nel definir e i successivi scena ri entro i quali attualizzare l e informazioni già acquisite dallo “usab le know ledge”. Continuando nell’impiego traslato degli strumenti d’indagine retori co/linguistica, questa polisemia, corrispondendo ai molteplici “signi ficanti” culturali assegnati nel tempo ad una più limitata rosa di “si gnificati” espressi dagli elementi e dalle strutture compositive, oltre a trovare immediato riscontro nella teoria generativa del linguaggio, visto come “l’insieme infinito delle frasi grammaticali in una ling ua data, costruite per concatenazione attraverso un insieme finito di re gole partendo da un insieme finito di elementi minimi o morfemi” (cfr. Dizionario Enciclopedico Universale, Milano 1995, s. v. “linguaggio” ), restituisce l’ampia fluidità metamorfica e inventiva attribuita ai va lori semantico/formali dei centri abitati dalla manipolazione colletti va dei “patterns ” entro una dimensione temporale estesa dall’antichità ai nostri giorni. Sempre in quest’ottica, i “patterns” rappresentano la più evidente testimonianza storica dell’opera svolta dalla “ self-guiding society”, già indicata da C. E. Lindblom (cfr. “Sociology of Planning”, in Economic Pl anning East and We st, a cura di M. Bornstei n, Balli nger, Cambridge, Mass. 1975 ) come modello ideale da opporre alla dominan te “scientific society”, con cretamente verifica bile n ella diacr onica trasmissione di tipologie costruttive originate dalla comunità rico rrendo a processi decisionali fondati su una concezione di oggettiva ar monia fra l’ inse diame nto e i l territorio, che, essendo naturaliter esemplata sull a teoria hab erma sian a de l “pe rfetto d ialogo” fra l e parti coinvolte, risulta per lo più scevra dei forti condizionamenti te leologici insiti nella tradizionale pianificazione imp osta dall’alto secondo decontestualizzati criteri di astratta standardizzazione quali tativa e funzionale. La dimensione metastorica e transculturale dei “patterns” permette, inoltre, di coglierne le strategiche capacità comunicative circa “quel sapere architettoni co diffu so” sopra rico rdato, ch e, pur mod ulato nel le infinite varianti idiomatiche loca li di tipo cronogeografico, h a così potuto configurarsi in un linguaggi o ampiamente co ndiviso e dotato, in virtù della sua vasta circolazione, di forza semiotica suffi ciente ad affermare la propria autonomia esistenziale contro l’este tica dirig ista de i grupp i socia li egemoni, da sempre interessati a d imporre modelli edilizi in gra do di suscitare la massima ad esion e del l’immaginario coll ettivo alla retori ca celebr azione urbanistica e monu me nta le d ei loro presup posti ide ologi ci fondamen tal i (ved i quanto accennato al riguardo nella prima parte di questa relazione). Tuttavia, il ten tativo di catturare un durevole consenso sociale, attuato impiegando gli enfatici strumenti suasori applicati nel linguaggio urbanistico della citta moderna ottocentesca e nelle più recenti teorizzazioni meccanicistiche variamente elaborate tra il ‘30 e il ‘50 nella forma utopica per alcuni aspetti concretizzata dalle esperien ze sovietiche di Milijutin, si è comunque arrestato in superficie, non riuscendo mai a permeare l’essenza identificativa del soggetto collettivo che, essendo in via eminente espressa nei “ patterns”, costituisce un codi ce comunicativo ca pace di supe rare l’ angusta con venzionalità delle figure retoriche sinteticamente evidenziate, fra gli u lti mi , da B. Secchi per deli neare una visione del la simbi osi uo mo/ambiente e ntro le categorie au erbachian e di “anticipazione” e “attualizzazione” ravvisabili nella concezione figurale alla base del senso di appartenenza comunitaria. In quest’ottica, q uindi, le ince ssanti dinamiche meta morfiche, oggettivate dalla storica definizione degli scenari culturali caratteristici di ogni contesto antropico, forniscono la ne cessaria anticipazione teoretica alla loro successiva e paritetica attualizzazione attraverso gli elementi formali, o “patterns”, del linguaggio compositivo comunitario dispiegato nei centri abitati, confermando l’inscindibile relazione generativa stabilita fra la graduale evoluzione delle consuetudini sociali e il repertorio incrementale deg li emblemi evocati dalla semiologia collettiva nella sintassi visiva e fruitiva della quotidiana ordinarietà territoriale. La puntuale indagine di questa liaisòn comporta, inoltre, la verifica delle locali mo dalità di semantizzazione del patrimonio linguistico comune, rivelate dallo specifico valore simbolico attribu ito ai “pat terns” nei diversi contesti sociali con l’intento di esprimere le contingenti esigenze di aggregazione e coesione comunitaria nello spazio abitato, fedele specchio immediato del fluido modus vivendi docu mentato dagli esempi storici supe rstiti, orga nizzati secondo criteri spesso poco comprensibili ai nostri occhi, ormai abituati a scorgere una realtà u rbana e ambien tal e modella ta in senso to p down dai professionisti della pianificazione e caratterizzata, di conseguenza, dalla consueta passività propositiva dimostrata verso il territorio da una cittadinanza confinata al rango incolore di utenza massificata. Pertanto, il ripri stino dei se col ari legami motivazionali ravvisab ili nelle scelte insediative operate dalla comunità sulla circostante situazione ambientale richiede di potenziare i processi decisionali di tipo bottom up, tradizionalmente sottesi alla composizione aggregativa dei “patterns” che animano i centri abitati sorti in forma spon tanea, attraverso la riscoperta sistemica dei valori storici posti a fondamento identitario del soggetto collettivo e la loro contemporanea osmosi attualizzata nelle odierne dinamiche abitative, requisito indispensabile per avviare una profonda riflessione circa l’esigenza di incrementare la consapevolezza degli attori implicati nella partecipativa messa a punto di strategie gestionali del territorio realmente sostenibili e condivise. Bibliografia Alexander C., Note sulla sintesi della forma, Milano 1967 Alex ander C., Ishikawa S., Silverstein M., A pattern language:towns, buildings, constructions, New York, Oxford U. 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Alexander, il ruolo di “utopia” verso cui far rivolgere soggetti di una comunità locale dal profilo non più tracciabile, poiché non riducibile, da qualche tempo presso il Lab CAAD ricerchiamo la possibilità, per questo strumento progettual e, di diventare nuova struttura di comunicazio ne che permetta agli abitanti di “raccontare”, per il futuro, la qualità del proprio ambiente di vita, come percepito attraverso libere visioni e che consenta loro di “auto – produrne” il cambiamento. Ci chiediamo invece se “A Pattern Language” possa fornire, nei processi partecipativi presenti nei nostri contesti urbani, il linguaggio del confronto o della “cooperazione antagonistica” (Friedmann, 1992) fra reti locali ed amministrazione pubblica, dove la parola mancante o l’incertezza riducono le scelte alle azioni già intraprese dai poteri forti. Come personal e ri cer ca in progre ss sull o strumento pr ogettua le specifico, lo scritto che segue insisterà innanzitutto sul valore procedurale del linguaggio dei patterns, applicabile ad ogni scala spaziale, secondo il principio dell’incrementalismo, attraverso la possibilità di regolare la crescita per parti della città, come condizione per gli abi tan ti di au to so steni bili tà ambie ntale e so ci ale (Magna ghi, 1998, 2000) in contrasto con le forme tradizionali di pianificazione. Verrà ipotizzato che, in quanto performativa ed adattabile, la procedura in evol uzione del ling uaggio dei patterns possa accogliere le informazion i d erivan ti dai nu ovi con te sti scie ntifici e tecnolo gici dell’architettura bioclimatica, attraverso modalità di aggiornamento ed integrazione dei patterns. Un’ipotesi operativa per semplicare la complessità Le questioni che si pongono attorno a partecipazione e architettura in ordine alla possibilità per A Pattern Language (APL) di diventare nuova struttura di comunicazione riguardano le qualità del sistema APL e le modali tà che noi esperti-facil itatori dovremmo utilizzare, per favorirne l’intro duzione presso le comunità urbane attuali consentendo lo sviluppo delle loro capacità progettuali. Il siste ma linguistico di APL è un formidabile strumento ca pace di dar forma descrittiva alle immagini spaziali, gli archetipi, che ognuno ha in sé ed è anche strumento progettuale in grado di risolvere attraverso forme di razionalità pratica i problemi di scarsità delle risorse che interessano l’esistenza di noi tutti. L’ utente, abitante, produttore che conosca APL diventa progettista poiché ogni intenzionale descrizione di un luogo che presenta pro- blemi tende ad identificare anche le azioni risolutive per la sua trasformazione, così come si desidera che diventi. Convinta che “compito della scienza è servirsi della ridondanza del mondo”, (Herbert Simon, 1969) cioè della sua complessità, “per descri ver lo i n mo do se mpl ice” r ite ng o che ne ll a pa rte cipa zio ne l’esperto–facilitatore debba stimolare a ricon oscere i problemi e le lor o r elazio ni, a ttra ve rso l a maie utica come attività r eciproca di scambio di informazioni, ma anche proporre ad ogni abitante o produttore locale di assumere la progettualità che è insita in ognuno rispetto al proprio contesto. Per comunicare le trasformazioni di cui le persone hanno bisogno, occorre un linguaggio semplice che esprima problemi e soluzioni in modo più soft di quanto non sia un lin guaggio tecnico di prog etto. APL traduce benissimo questa “limpida semplicità”1 . Se fondamentali per l’uso sociale di APL sono i principi economici e di coordinazione negli interventi di trasformazione, la procedura di scelta progettuale , secondo Alexander, appare troppo co mpressa fra il gruppo della comunità e l’archi tetto – costruttor e (architect – builder), perché, considerand o le difficoltà nella scelta sulle questioni urbane dei nostri contesti, noi p ossiamo non definire APL in molti casi “utopia”. In APL non è analizzato il dubbio che si pone l’ ”urbanista di parte” (Crosta, 1973) sulle condizioni di raziona lità limitata, d’incertezza, non trasparenza (Faludi, 1987) che agiscono nell’epoca attuale sulla scena politica nelle nostre città. In un processo reale, unito all’attività di human problem solving, (o individuazione delle alternative possibili), supportato da APL, interviene il momento del decision making, della scelta da compiere nelle trasformazioni, sapendo che una sola è plausibile ed economico fare. Quella diventa la scelta strategica (Friend and Jessop, 1969). Alexander immagina che la scelta di qual i p attern realizzare e quale coor dinazio ne attu are spetti ai soggetti univocamente deter minati, o l’ind ividuo o la comunità; egli considera po co la complessità dei si stemi social i, e n on stu dia a fondo l’organizza zione di quelli che meglio lavorano, nei contesti sottoposti a cr isi ambiental e, poiché sono in grado d i compiere scelte dettate da razionalità comunicativa. APL come linguaggio dovrebbe entrare in un processo progettuale più ampio, che giunge sì all’autoproduzione del cambiamento attraverso la partecipazione, ma pa ssando a ttrave rso la fase più dura della scelta operata dai gruppi sociali a confronto con l’amministrazio ne pub bl ica, l a fa se p ro bab ilmen te se gna ta dal lo sco ntro e dall ’antagonismo fra interessi diversi, in una comun ità locale dal profilo non più tracciabile, poiché non riducibile. APL da integrare con un liguaggio del confronto politico. Una procedura di pianificazione progettazione sostenibile. Pensiamo allora ad una procedura di tipo interattivo che abbia le ca ratteristiche per adattarsi ai contesti decisionali de lle nostre città e che includa APL approfondito, riguardo ad alcuni aspetti, e variato, per diventare lingua locale. Una pr ocedura che è “para digma incerto”2 (Palermo, 1992), inte rpretabile in un quadro evolutivo dei modelli teorici per la sostenibi lità e vuole contr apporsi ai pa radigmi della pianificazione tradizi onale. Come in APL che supera le distinzioni tra urbanistica e architettura, proponendo il completamento dell’organismo urbano partendo dal la piccola d imen sion e, la procedura è multiscala poiché riguard a ambiti territoriali che vanno dal locale al locale di ordine superiore, al globale. Come per un sistema linguistico i cui contenuti servono a dar forma a più modi d’espressione, individuando linguaggi specifi ci, la procedura scandisce fasi successive che si avvalgono di modalità proprie. Con la sua caratteristica di strumento multiscala per la pianificazio ne - progettazione socialmente sostenibile la procedura dunque si articola in attività di 1 - costruzione di scenari futuri, 2 - scelta delle migliori alternative progettuali e 3 - loro adattamento e verifica pro gettuale rispetto alle condizioni ambientali. Per dar vita a queste attività i gruppi sociali operanti in un contesto pa rtecipativo hanno bisog no di linguaggi che oltre a prog ettare l o spazio fisico includano anche modalità di gestione positiva dei con flitti. Per la partecipazione e lo sviluppo di contesti sociali costruttivi è es senziale imparare a dialogare insieme, affrontando la diversità del le posizioni e parlando il linguaggio del confronto politico. APL , come elemento cardine, dovrebbe integrarsi ad altre strutture comuni cative per permettere agli abitanti di produrre il cambiamento desi derato. Cosa c’é di più “e conomico” dell’ecologia? Neces sità di approfondimento del linguaggio. Nella prospettiva dell a sosten ibilità e del la d ecen tra lizzazione, è evidente che l’educazione alla gestione delle conflittualità sociali nel decidere quali trasformazioni mettere in atto debba essere unita ad una sensibilizzazione verso la possibilità che tutti abbiamo di risol vere i problemi ambientali. Ancora prima d’apprendere su quali processi intervenir e nei sistemi naturali, p er e sercitare la possibi lità dell’autogoverno, progettisti e abitanti dovremmo apprendere “l’abc del linguaggio economico” e sconfiggere “la concezione magica del mondo che noi tutti abbiamo dei meccanismi economici che regola no la nostra riproduzione” 3 (Cavallaro, 2000). L a con si derazio ne, che impr onta i p rincip i di sostenib ilità, dell o stretto l egame tra pr ocessi economici rispettosi d ell’a mbi ente e qualità urbana, dà forma a tutta la struttura di pensiero alexanderia na, che in qualche modo potremmo dire un pensiero ecologico. Affinché si realizzi la qualità Alexander ritiene che la pratica costrut tiva della “riparazione” 4 (Alexander, 1977) degli edifici di piccole dimensioni debba vincere il meccanismo della demolizione e “sostitu zione” degl i edi fici masto dontici, proprio a causa dell’ine fficienza economica di tali operazioni, in contrasto con quanto fa solitamente il mercato. Sapendo che i concetti d i riparazione, manutenzio ne, riciclo della città fan no parte del linguaggio attuale della sostenibilità, con una semplice logica, possiamo riconoscere in APL la tensione verso gli sviluppi futuri delle problematiche ambientali odierne, percepiti da Alexander trent’anni fa, anche se espressi con termini che oggi possono apparire inattuali. I concetti espressi nei pattern fanno riferimento a strategie ambientali e soluzioni tecniche che i n APL non sono appr ofondite perché solo in parte sviluppate, mentre la sua grande valenza è quella di dar forma complessiva alla struttura dell’ambiente. Ecco la ragione per cui penso che APL possa accogliere le informazioni derivanti dai nuovi contesti scientifici e tecnologici per proporsi quale sofisticato dizionario illustrato, lessico essenziale, non solo per introdurre l’educazione alle problematiche ambientali tra i gruppi sociali, ma soprattutto per l’uso che qu esti possono farne come strumento progettuale aggiornato, grammatica delle forme costruite. Questi modelli pro totipici, d i nuo va gener azi one, der ive ranno da una evoluzione di APL verso la “varietà e la complessità” così come “il genere umano ha elaborato parecchie migliaia di linguaggi distinti” (Simo n, 1969). Nel tempo i prototipi, verificati, diventeranno archetipi, assumendo il valore imprescindibile di regole della forma. I Patt erns riorientat i. Non solo aggiornamento m a anche distinzione della dimensione locale. I patterns, come sistema lin guistico, non solo an dranno rio rientati per offrire soluzioni a problemi sempre più pressanti nella realtà fisica ma andranno anche reinquadrati sotto diversi punti di vista a tradursi in linguaggi peculiar i, che hanno nella singolarità e capacità evolutiva i loro valori essenziali. Se è evidente che il nuovo strumento debba tradursi in un linguaggio teso a favorire le pratiche sociali della partecipazione, altrettanto evi dente è che le dimensioni da sp erimentare nella sua ricerca debbano essere quelle locali. Le indicazioni che Alexander rivolge a tutte le persone operanti nel processo sociale affinché “diventino gradualmente consapevoli dei loro linguaggi di pattern e lavorino per migliorarli” (Alexander, 1977) incoragg iano a ricercare una for ma lin guisti ca che i ntroduca nei contesti quelle soluzioni tecniche disponibili, intenzionalmente soft, perché adattabili, di cui le informazioni sono oggi scarsamente diffuse tra i gruppi sociali. Le disponibilità della tecnologia dovrebbero essere utilizzate per la costruzione di una più ricca e complessa “cultura dei dati” (Maldonado, 1980) favorendo nel rapporto dimensione locale – globale, la dinamicità e visionarietà del locale, che pensi già in positivo ciò che potrà realizzarsi domani. Al tempo stesso, le info rmazioni dovrebbero contribuire a ra fforzar e il terr eno dei “momenti decisionali” e permettere che il controllo della qualità nelle scelte per le trasformazioni si compia localmente. Costruiamo co sì la possibilità di dar vita all’equilib rio nel rapporto uomo – ambiente a ttraverso le informazi oni se queste diventano strategie d’uso delle risorse, con la qualità che le contraddistingue di regole della forma che sono autoprodotte dall’ambiente sociale. Regole basate su tecnologie che debbano essere parsimoniose e consapevoli, low – te ch, sviluppate attraverso il recupero da parte del p roduttore – abita nte “del se nso del tempo e del la materialità dell’esperienza”5 (Manzini, 1994). Questa pratica sociale di produzione di regole favorirà il supe ramento de ll’high – tech come r appresen tazione d i “miti e immagini della velocità e della virtualizzazione dell’esperienza” legate ad un concetto troppo astratto del rapporto uomo - ambiente. Qualit à in più della bioc lima tica l’as pirazione loc ale per un nuovo linguaggio. Dell’incrementalismo. Perché parliamo d i queste nuove regol e, patterns evoluti come di prototipi derivati dalla bioclimatica? Perché c’è un’analogia formale tra il pattern e le soluzioni tecniche attuali che regolano il rapporto uomo – ambiente. Il pattern è un modulo, un’i nterfaccia che funziona adattivamente, regolando azioni e retroazioni tra due ambienti, esterno ed interno. Poiché i co ncetti dell a bioclimatica si basano sui flussi di ene rgia che l’uomo e i suoi artefatti scambiano con l’ambiente naturale circostante e poich é l’ab itazione, secondo le riflessi oni sul rapporto uomo – salute – architettura, può dirsi, dopo gli abiti, per noi umani la terza pelle, l’abitazione e tutte le sue parti, come interfaccia tra uomo ed esterno, sono potenzialmente patterns. Dunque i presupposti fondamentali dei due sistemi scientifici, APL e bioclimatica, sono assimilabili anch e se sembra difficile accordare alle immagini semplici degli archetipi alexanderiani il linguaggio dei bioarchitetti che già utilizzano da tempo superfici vetrate per le serre climatizzate, specchi para bolici, pannelli solari e piccoli motori eolici al posto dei camini. Ma i pattern realizzati, avverte Alexander, “sono a volte incredibilmente accurati” 6 (Gabriel, 1996) perciò dobbiamo pensare “…che la parola semplicità non sia il termine adatto. C’è qualcosa che a volte incita ad essere semplici ed altre ad essere più complicati”. Nel linguaggio dei pattern, quasi una filosofia, risiedono altre qualità rispetto a quelle, importanti, delle n umerose tecniche e tecnologie “bio” “eco” “app ropri ate ” che possi amo utili zzare per la rina scita dell’ambiente. La qualità più importante di APL, e la sua non comprensione ha segnato par te del falli mento7 del la teoria di Alexander, consiste nel processo gene rativo cu i A PL può dar vita nel la co stru zi one. La “qu ali tà se nza no me ”, attrave rso le for me costr uite , si espl ica nell’equilibrio di lunga durata che APL permette di instaurare tra uomo ed ambiente. La cultura locale, che si sviluppa nel corso del processo generativo, diventa essenziale per creare i propri patterns, o regole di co – evoluzione tra ambiente naturale e ambiente antropico. Il pattern bioclimatico non è solo un prodotto dato sul mercato, ma dive nta informazio ne app resa e val idata dall ’espe rienza comune nel contesto locale, anche attraverso le reti informative più ampie di consumatori. Ciò che si auspica in un processo simile, un processo partecipativo è che i l consumatore diventi ab ita nte – produ ttore; l’abitante potrà autodeterminarsi e dar forma ad attività cooperative che, fuori dalle logiche del mercato globale, abbiano la salvaguardia dell’ambiente come obbiettivo e diano vita allo sviluppo locale autosostenibile. APL potrà essere usato direttamente nello sviluppo dei progetti con un duplice proposito. Oltre la possibilità di interfacciare uomo e ambiente, attraverso “regole autoprodotte” che rappresentino il soddisfacimento dei bisogni psicologici e funzionali che arrivano direttamente dalle persone, secondo la direzione bottom – up, APL ha la capacità, come “struttura di dati”, di essere adattato localmente in un processo linguistico, decisionale, performativo che prefigura attività di pianificazione e progettazione estese temporalmente. Al di fuori di piani - progetto omnicomprensivi, gli esiti del processo di costruzione che abbiano APL come linguaggio prevalente saranno incrementali, cioè non determinabili a priori e le costruzioni non saranno confor mi a soluzioni imposte dall’esterno, ma all’opposto autoregolate. Note 1 GABRIEL, R. P., Patterns of software. Tales from the software Community (1996). New York, Oxford University Press. Pag 65 “Alexander riscontrò un problema nell’usare la parola semplicità per riferirla all’obbiettivo fondamentale dei patterns: - Stavamo conducendo alcuni semplici esperimenti in cantiere. C’è un portico attorno al cortile dove ogni stanza che vi affaccia è pro gettata da un persona diversa. Alcune delle stanze furono disegnate dai miei colleghi al Centro (ndr. Centro per la Struttura dell’Ambiente) ed anche esse avevano questo fascino inconsueto – davvero molto singolare, ma dopo tutto non tranquillizzante. In un certo senso, non dissimile da ciò che si vede in una fattoria norvegese di quattrocento anni dove c’è un’incredibile chiarez za e semplicità che non ha nulla a che fare con l’epoca di costruzione. Ma ciò era quanto accadeva. Ecco manifestarsi questa specie di limpida semplicità dove il linguaggio dei pattern incoraggiava le persone ad essere creative e ad immaginare relazioni molto più complesse di quanto avveniva di solito.” 2 Parafrasando il titolo di un seminario tenuto a Venezia nel 1983 (vedi PA LERMO P. C., Interpretazioni dell’analisi urbanistica (1992). Milano, Franco Angeli) intorno alle problematiche di ricerca dell’area disciplinare di analisi e pianificazione urbanistica, intendo riferirmi al carattere sperimentale e prag matico del modello teorico. CAVALLARO L., nell’articolo L’economia politica a scuola. L’illusione della purezza, dal Manifesto nov. 2000 Citando a sua volta Antonio Gramsci critica il sistema educativo attuale che non fa nulla per abbattere l’ignoranza riguardo ai complessi problemi economici di uno stato moderno, espropriando infine i cittadini dalla possibilità dell’autogoverno. 4 “Lo sviluppo per blocchi intensivi e concentrati si basa sul concetto di sostituzione. La crescita per parti si basa, invece, sul concetto di riparazione. (…) Ma esistono differenze ancora più significative. Lo sviluppo per blocchi intensivi e concentrati s i basa sulla falsa convinz ione che è possibile costruire edifici perfetti. La crescita per parti si basa sulla convinzione più cor retta e realistica che gli errori sono inevitabili. Naturalmente nessun edificio è perfetto, una volta costruito. Avrà sempre delle imperfezioni, che si riveleranno gradualmente nel corso dei primi anni della sua utilizzazione. Se non sono disponibili i capitali per correggere queste imperfezioni, ogni edificio, una volta costruito, è destinato a rimanere in una certa misura inefficiente”. ALEXANDER C., Un esperimento di progettazione democratica. L’Univer sità dell’Oregon (1977) Roma Officina edizioni 5 MANZINI, E., “Un’economia sostenibile tra qualità ambientale e qualità sociale” in Architectura & Natura (1994) Torino, ed. Mazzotta. Nell’articolo Ezio Manzini propone linee di riflessione per l’aggiornamento dei temi classici del “design”, evidenziando il cambiamento dei modi di vita e pone la direzione del passaggio dell’utente da consumatore a partner per dar vita ad un modello di sviluppo sostenibile attraverso forme di partecipazione “intelligenti”, nuovi tipi di rapporti sociali. 6 GABRIEL, R. P., Patterns of software. Tales from the software Community (1996). New York, Oxford University Press pag. 66 A proposito della semplicità, vedi anche la nota 1. 7 ibidem pag. 59 “Alexander capì che… (le strutture concettuali dei suoi tre libri non avevano funzionato)…perché la geometria degli edifici non era così differente dalle geometrie standard moderne come occorreva che fosse per generare qualità. La sola risposta fu di dover considerare il processo edi lizio: il processo fondiario, il processo di zoning, il processo di costruzione, il processo di flusso di capitali nel sistema, il ruolo dell’architetto e del costruttore. Controllando il processo, si controlla il risultato, e se il controllo rimane quello dell’obsoleto, guasto sistema, il risultato sarà quello di un’architettura obsoleta e discontinua.” Bibliografia ALEXANDER, C., ISHIKAWA, S., SILVERSTEIN, M., A Pattern Language. Towns – Buildings – Construc tion (1977). New York, Oxford University Press ALEXANDER, C., Un esperimento di progettazione democratica. L’università dell’Oregon (1977). Roma, Officina Educazione / Ambiente. ALEXANDER C., NEIS H., ANNINOU A., KING I., A New Theory of Urban Design (1987). New York, Oxford University Press. CROSTA, P. L., L’urbanista di parte (1973). Milano, Franco Angeli. FALUDI, A., A decision centered view of environmental planning (1987). Oxford, Pergamon Press. (tr. It. 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Lo studio e l’analisi di queste strutture con l’ausilio anche di alcuni tra i più recenti strumenti messi a punto dall’archeologia dell’architettura, ha permesso di valutare il grado di partecipazione degli utenti alla realizzazione delle opere e di vagliarne gli esiti. 2. Cosa si intende per architettura partecipata 2.1. Quali sono gli strumenti per analizzare il grado di partecipazione che si aveva nel passato? Vi sono d ifferenti modi per indagare il passato e quindi an che per esplorare questo particolare aspetto. Uno di questi , forse il più semplice e di immediata comprensione , per il tipo di informazione che offre, è l’utilizzo della fonte scritta1 . In questi casi, si ri esce a d avere un’idea abbastanza buona d ella presenza dell’utente nella realizzazione, se si hanno a disposizione documen ti scritti i n cui vie ne attribuito un r uolo preciso ai diversi soggetti. Quando infatti nel documento si ribadisce che per una particolare scelta occorre chiedere il parere del signor X, o quando si afferma che alcune lavorazioni dovranno essere approvate dal signor Y, si può valutare in modo chiaro il grado di coinvolgimento e di incisività di chi poi usufruirà dell’opera finita (cfr. l’esperienza dell’ex seminario arcivescovile). Questo genere di fonti documentarie è solitamente li mitato solo ad alcuni edifici significativi d estinati, per lo più, ad un ceto sociale piuttosto alto. Il committente, in questi casi, anche se non è pr opriamente una “persona del me stiere ” ha comunque una certa cultura ed in virtù di questa si sente in dovere di esprimere una sua opinione e di dare le disposizioni del caso. Altre indicazioni possono essere dedotte da incongruenze tra le evidenze archeologiche materiali e i relativi documenti ed atti ufficiali conservati negli archivi. L’esempio descritto successivamente (cfr. l’esperienza di via S.Bernardo) è emblematico. In questo caso infatti l’analisi ar cheolog ica del costruito aveva e videnziato un’a bbondanza di rifacimenti di tinte ed intonaci tra il XV ed il XIX secolo. La documentazione scritta è al contrario molto scarsa; non solo per il periodo compreso tra il XV ed il XVIII secolo, ma anche per il perio- do successivo. Mentre infatti nelle epoche precedenti non si registrano particolari vincoli e procedure da rispettare per chi operava sulle facciate 2 e quindi l’assenza di documentazione può essere in parte spiegata, nel XIX secolo viene introdotta e resa obbligatoria la richiesta di autorizzazione al Comune 3 anche per questo genere di interventi. I due dati apparentemente in contrasto relativi a ciò che si registr a nella realtà e a ciò che viene pr escritto, confe rmano l’abbondanza di lavorazioni eseguite nella più ampia autonomia da chi abitava o lavorava negli edifici stessi ed una forte volontà di operare cercando di eludere ogni forma di controllo. Gli interventi realizzati ma non registrati e schedati sono numerosissimi; questo dato emerge non solo dallo studio relativo al rifacimento di facciate (con relative intonacature e coloriture), ma anche dall’analisi di interventi edilizi di piccola entità all’interno delle abitazioni stesse o di contenute sopraelevazion i ed accorpamenti. Tutti questi elementi sono stati dedotti dal confronto tra la lettura dei documenti (archivio di stato, archivio del comune ecc.) e l’”analisi archeologica degli edifici”4 . 2.1.1. Cosa si intende per analisi archeologica degli edifici? Con “ an al isi a rch eo lo gi ca d eg li e di fici ”,” an al isi ar che ol og ica del l’ele va to” , o “anal isi arche ologi ca del l’architettura” si i ntende un’analisi con metodiche e strumenti in parte mutuati dall’archeologia di scavo, ma applicati alle strutture “in elevato”, cioè a quella parte di architettura che, con diversi gradi di conservazione (da rudere ad edificio funzionante) è posta al di sopra del “piano di campagna” 5 La fonte di dati specifica dell’archeologia è “la materia” trasformata dall’uomo in diverso modo e con intensità di modifca differenti. “La finalità prima dell’archeologia dell’architettura, è la conoscenza storica relativa alle civiltà del passato”6 . O come citano i d izionari “Archeologia: scienza e disciplina che studia le civiltà antiche in base all’esame e all’interpretazione dei monumenti non letterari (architettonici, artistici ecc.) delle lavorazioni e dei prodotti materiali” . La possibili tà di stud iare archeo logicamente un edificio è qu indi strettamente legata alla capacità di “riconoscere” i materiali da costruzione utilizzati e le loro possibili modalità di assemblaggio e di posa in opera 8. L’osservazione e l’analisi stanno du nque all a base di tutti gli strumenti utilizza ti dall’ar cheo logo dell’architettura : “dalla stratigrafia degli elevati alla grande famiglia delle tipologie archeologiche (siano esse fondate sui caratteri men sur ali, formali o materia li), fino all’analisi configurazionale recentemente teorizzata da Mannoni” 9 2.2. Partecipazione, sino a che punto? L’intervento del singolo può manifestarsi a diversi livelli: dalla partecipazione più o meno attiva quale committente d’opera alla partecipazione totale quale committente ed esecutore dell’intervento stes- so. Dai dati, al momento, in nostro possesso emerge un’azione con do tta prevalentemente a livello individuale e in assoluta indipen d enza senza alcuna forma di coo rdina me nto e/o pian ifi ca zio ne, piuttosto che un’azione programmata e sistematica di gruppi di e/o di associazioni. Nel caso, ad esempio, di un coinvolgimento parziale del committen te nell’opera da eseguirsi, questi, sovente indirizza l’esecutore indicando l’effetto finale voluto; sarà compito dell’esecutore scegliere il materiale adeguato e la tecnica migliore per raggiungere lo scopo. In genere, per illustrare in maniera più chiara il risultato al quale si d eve per ven ire, si se gnala come esempio una real izzazion e gi à compiuta “…si farà la facciata come quella del signor…”10 Talvol ta il committente su ggerisce anche la tecnica più adatta p er otten ere un determinato risultato; in questo caso la responsabilità dell’esecutore verte esclusivamente sull’esecuzione . In un altro do cumento del 162312, relativo ad una casa a Moltedo13 così si legge: “…Farà il volto de canne alla sala di detta casa alto si potrà con sfe ra portionata e la imbocherà de bella imbocatura unito overamenti l imb och erà indar buserà infrascherà come pi ù pi asi erà a A gosti no…”. È il proprietario, Agostino, che deve decidere il tipo di finitura da adottare per la sala della propria villa e tale decisione verrà presa secondo il proprio gusto personale14 . Anche in un altro docu mento del 1613 si fa riferimento abbastanza di frequente al proprie tario: “…Me zzani tutti, mezz’arie sopra essi, camere e logg ia de l piano di sala, scale, baladori di esse e loggia di sotto che scende nel portico siano tutte come si è detto bene infrascate con belle cornici di quella sagoma e sagome più grandi e più piccole rispettivamente secondo la qualità delle stanze e de luoghi che saranno dati da Pao lo a gusto del quale si faranno li peducci in ogni parte li capitelli de pilastri delle logge con quelle lezene a detti pilastri e quelli risalti in dette logge e scale secondo quell o che Paolo dirà…”15 Ed ancora “…pittura della medesima qualità rispetto ai colori dell’Illustrissimo Marchese Squarciafico, e la bontà dei colori della pittura sia piutto sto migliore che inferiore…” 16 . Dagli esempi sopra descritti sembra che la partecipazione al progetto riguardi quasi esclusivamente elementi decorativi e di finitura. In realtà, anche se in misura minore, si re gistrano anche testimonianze di segno opposto, cioè co n inge renze da parte dell’utente, sulle decisioni relative ad elementi strut turali. In un documento del XVII secolo relativo all’allora costruendo Seminario Arcivescovile si dice “…tutti i suddetti lavori siino di quel la bon tà e ben l avo rati a giudizio del Sig. E man uele Brignol e da l quale ogni settimana si doverà dire quello che si dover andar facen do…”17 . Qui si parla indistintamente di “tutti i suddetti lavori…”, lasciando ad intendere anche quelli relativi alle strutture. Lo studio ar cheolog ico dell’e dificio18 ha permesso di ind ividu are qu esti inter venti del 1656, dando co nferma del l’ipotesi precedentemente fo rmulata. 3. Il caso dell’ex Seminario Arcivescovile All’epoca di costruzione del Seminario (metà del XVII sec.) mancavano le conoscenze quantitative su lla resistenza dei materiali, sul lo ro valo re li mite e sulle caratte ristiche dei te rreni di fon dazi one. Gran parte dei progetti strutturali erano così redatti direttamente in cantiere grazie all’occhio attento e vigile di un “tecnico” che control lava p ietra a pietra l ’esecuzione delle diverse stru tture e risolveva via via i problemi che venivano proponendosi. Il cantiere del Seminario non rappresenta dunque un’eccezione; né deve destare particolare meraviglia che l’esperto, a cui dover riferire ogni questione, fosse in realtà il committente stesso. Per restare sempre in ambito genovese, altre due realizzazioni, più o meno dello stesso periodo e di cospicuo impegno, quali l’Albergo dei Poveri ed il Collegio dei Gesuiti vengono impostate e portate avanti dai rispettivi committenti:.19 Nel Seminario, però, il Durazzo e il Brignole, veri ideatori dell’opera (colui che veniva chiamato architetto altri non era che un capo mastro che curava l’esecuzione materiale dell’opera) hanno rispettato i canoni imposti dagli edifici monastici e i principi dettati più dalla funzionalità che da preoccupazioni di ordine statico. Infatti il Seminario, quale edificio religioso, imponeva grandi ambienti al piano terreno, ambienti minori (le aule) serviti da un corridoio al primo piano e infine un frazionamento maggiore in piccole unità (le celle del dormitorio) al se condo. Inoltre nella collocazione delle aule i due committenti hanno disposto queste ultime verso il cortile, lasciando il corridoio verso l’esterno , anziché lu ngo le pareti interne, ove tra l’altro avre bbe rea lizzato percorsi più brevi. Quest’ ultima soluzione può essere stata dettata dalla volontà di fare del cortile il centro polarizzatore dell’intero fabbricato, ma anche da considerazioni sul clima e sul la ventosità e quindi essere l egata al la ri cerca di una migl iore esposizione per quegli ambienti in cui si doveva soggiornare a lungo. Ci ò ch e r isulta funzio nal me nte co nveni ente comporta pe rò enormi problemi dal punto di vista statico che si dovettero risolvere in corso di opera con alcuni accorgimenti esecutivi, ma che nel tempo non sempre sono risultati efficaci 20. 4. Il caso di via S.Bernardo Questa analisi e’ stata svolta come tesi per il Dottorato di Ricerca in Recupero Edilizio ed Ambientale 21 . Scopo del lavoro era, attraverso una ampia base di dati, indagare sulla possibilita’ o meno di trovare tonalita’ particolari, specifiche e differenti nella zona di Genova che potevano in qualche modo essere responsabili della caratteristica immagine di questa citta’. Inoltre si voleva capire se i materiali e le tecniche usate erano mutate nei secoli e quali le ragioni alla base delle scelte fatte (scelte econ omiche, sociali, di gusto...). Ci si chiedeva infine se si potevano cogliere effetti percettivi diversi in differenti periodi storici, se questi erano voluti o del tutto casuali e se rispondevano a leggi naturali scientificamente provate. La superficie intonacata degli edifici coincide con la struttura materiale che piu’ di ogni altro elemento dell’architettura condiziona l’apprezzamento formale del manufatto urbano ma al tempo stesso, essendo la parte piu’ soggetta ad invecchiamento e conseguenti operazioni di rifacimento, registra in modo piu’ spiccato i mutamenti (naturali e/o provocati dall’uomo) e quindi la sua e’ una storia completa e globale. Nell’affrontare un problema tanto vasto si e’ cercato di limitare l’attenzion e a d un ambito pre ci so pe r permetter ne un effi cace a pprofondimento. Come campo di applicazione si e’ quindi scelto uno degli assi viari piu’ antichi del centro storico, (quello costituito da via S.Bernardo, via di S.Donato, Piazza delle Erbe e Salita del Prione), in passato, unica percorrenza di ruolo preminente nei collegamenti tra il mare e l’interno. La sua importanza, da principale sede di aggregazioni nobiliari nel medioevo, decresce a partire dal XVII seco- lo sino ad arrivare all’attuale stato di decadenza22 . Oggi ci si trova dunque di fronte ad un ambiente piuttosto vario, dove e’ possibile ritrovare edifici nobiliari perfettamen te conservati, palazzi un tempo signorili, fortemente trasformati dagli interventi successivi di tipo popolare e costru zioni molto modeste destinate alle classi meno abbi enti . Un o spe ttro amp io , q ui nd i, ch e ha p er messo l o stu di o dell’evoluzione nei secoli e in diverse situazioni socio economiche delle superfici intonacate. 4.1 Aspetti metodologici dell’indagine: l’integrazione tra analisi stratigrafica, macroscopica e microscopica Sono stati studiati 196 campioni di superfici per un totale di 786 strati di colore classificati 23. Sono stati rilevati sino ad un massimo di 31 strati di colore e 5 strati di intonaci24 sovrapposti in periodi temporali diversi. Gli strati hanno spessori variabili da due a dieci centesimi di millimetro; in ogni strato è possibile analizzare: i prodotti del degrado della superficie, la presenza di ossalati di calcio, probabilmente derivati dalla decomposizione del latte; la distribuzione a livelli del magnesio e del calcio; e gli elementi chimici dei colori (ferro o manganese), e di loro additivi (bario) nei colori industriali precedenti al 195025 . Il metodo di ricerca utilizzato, in sostanza, si avvale di strumenti generalmente usati nelle discipline scientifico-matematiche, abbinandoli a procedure archeologiche. La realta’ fisica è stata cioè indagata con gli strumenti dell’analisi scientifica applicati ai materiali costitutivi, a lle te cni che re alizza ti ve ed alle lor o trasformazioni. I dati scientifici per poter essere utili alle conoscenze storiche sono stati interpretati tenendo conto del contesto archeologico, dal quale sono stati ricavati. “E cosi’ si e’ fatto: nell’esperienza condotta, sono stati presi in con sid erazione in un primo momento tutti i pro dotti mate riali, anche quelli giudicati general mente poco si gnificativi , perch e’ ad essi e’ stato riconosciuto il cara ttere di fonte perche’ residui materiali del passato. Successivamente ne sono stati esaminati i caratteri gene rali, le analogie e le eccezioni. Alle similitudini, agli elementi ripetiti vi ed omologanti si sono contrapposte le differenze, le anomalie, le irregolarita’; accanto alle forme compiute e singolari, si sono studia ti, perche’ di interesse analitico, il molto, il piccolo, il numeroso, il “di sordinato”, e tutte le interrelazioni, anche marginali, rinvenibili tra i fenomeni del costruito. Spesso solo di fronte ai grandi numeri, alla serie dei fenomeni riscontra ti su decin e o centinaia di camp ioni si sono ottenuti elementi chia ve ai fini della ricerca. Una volta indivi duate le classi di elementi predominanti, minoritari ed eccezionali, si e’ cercato di compr enderne il car attere vo luto o casuale, perche’ proprio in questa differenza si e’ scorta una ragione della loro indivi dualita’. Molti sono anche gli elementi che si sono ricavati dall’esa me delle eccezioni, delle trasgressioni, delle anomalie geometriche e costruttive rinvenibili nella materia e nel suo utilizzo. Sono infatti tutti segni di particolari fenomeni naturali o di atti volontari che han no rotto oppure negato presunti equilibri, e dalla loro osservazione e’ venuto spon taneo interrog arsi sulle “norme” che dovrebbero o potrebbero esserne alla base. Allo stesso modo il ripetersi di deter minate scelte, se rilevate con una frequenza superiore alle leggi del caso, indica una precisa intenziona lita’ “..Conoscere infatti con si curezza statistica un’intenzione esercitata da una scuola costruttri - ce del passato, costituisce gia’ una nozione storica, come altre che si possono ricavare dai documenti” 26. La seconda parte del metodo, di complessita’ non trascurabile, ha visto la necessita’ di dominare questa e norme mole di dati. Infatti l’e sig enza d i n on p erder e n essuna in for ma zio ne, do ve va anche conciliare l’altra istanza quella di non perdersi nella molteplicita’ delle variabili. Sono stati, quindi, messi a punto e sperimentati i seguenti strumenti che operano sintesi dei dati precedentemente raccolti e hanno lo scopo di studiarne sep aratamente l’a ndamen to nel tempo e nello spazio: - diagramma diacroni co del colore specifi co per ogn i facciata (nel tempo) ; Dia gramma diacronico: questo studi o ha lo scopo di evidenziare quali possono essere le variazioni o le persistenze del colore di un edificio nel corso dei secoli rispetto alla tinta cromatica origina le, ed in g enerale come la ti nta di ogni strato vari a rispetto a quella dello strato precedente. Il diagramma presenta in ascissa le gradazioni Munsell della tinta, luminosita’ o saturazione; in ordinata compare la successione degli strati con le rispettive sigle (AA, AB...) nello stesso ordine in cui compaiono nella stratigrafia di superficie. Si sono evidenziati solo quegl i strati che corrispondono cioe’ a diverse fasi della tintegiatura (sequenze diacroniche). L’importanza e’ duplice: e’ estremamente significativo per comprendere la storia del singolo edificio e da’ una serie di dati utili per compilare il matrix urbano descritto nel seguito.Questo strumento e’ o riginale e questa applicazione ne e’ anche la prima sperimentazione. - diagramma sincronico del colore, complessivo per l’intera via (nello spazio); Diagramma sincronico: per questo studio e’ stato messo a punto e sperimentato lo strumento originale del diagramma di sequenza spaziale relativo alla tinta. Soffermandosi separatame nte su quelle del basamento e quelle relative all’elevato e distinguendo i due lati dell’asse viario (nord e sud), si e’ riportato in un grafico l’andamento della tinta p redominan te al variare della coordinata spaziale lungo l’a sse, cioe’ al va riare del numero ci vico dell’e difici o. Scopo di tutto questo era cogliere, ove esistessero, le persistenze di determinati valori di tinta, luminanza o saturazione in posizioni particolari dell’asse viario. Con questo strumento si perde un po’ l’indicazione cronologica, ma si possono cosi’ piu’ facilmen te ritro vare particolari elementi distintivi nello spazio. - distribuzioni statistiche in relazione alla tinta, saturazione e luminanza, di tutti i dati raccolti (nello spazio). Diagrammi statistici: per ognuna delle princip ali tinte Mu nsell e’ stata riportata una matrice rettangolare che riporta in ascisse i valori di saturazione e in ordinata quelli di luminanza. Il quadretto corrispondente viene colorato differentemente a seconda della percentuale di strati rilevati con quelle caratteristiche. Si ha cosi’ un’immagine grafica della distribuzione statistica di questi colori. Ripetendo la medesima analisi su popolazioni diverse si hanno diversi diagrammi il cui confronto visivo o numerico risulta facilitato. - Infine e’ stato a messo a punto lo strumento di sintesi globale con lo scopo di condensare sia le indicazioni cronologiche che le variazioni spaziali: il matrix di sup erficie.Matrix urban o di sup erficie: in ascisse vengono riportati i singoli edifici, in ordinate le principali fasi di tr asformazione individuate; per ogni edificio ven gono riportati, con numerazione progressiva, gli strati di tinta ed intonaco ritrovati nel basamento e nell’ eleva to. Le unita’ che si tr ovano poste su di una stessa linea orizzontale sono coeve. Il matrix e’ una rappresen tazione sinottica di molte unita’ stratigrafiche e delle loro reciproche r elazioni. È qu indi uno stru me nto capace di evi denziare il muta mento dell’immagine nel tempo attraverso un tracciamento delle va riabili costituenti. Si è inoltre cercato n ei documenti il ri scontro e la motivazione de i mutamenti de i pa rametri reg istrati a l ivel lo fisico, specie i n corri spondenza dei momenti singolari di variazione rilevati nel matrix ur bano di superficie. 4.3 Le conclusioni dell’applicazione di questo metodo al domi nio scelto Data la premesso fatta nel paragrafo 2.1, sulla totale autonomia di queste scelte un po’ in tutte le epoche, i dati emersi da questa ricer ca appaiono ancor più significativi. In particolare, risulta di particolare interesse il diagramma sincronico. Si puo’ vedere come nella maggior parte dei casi, edifici adiacenti presenti no tinte dominanti diverse e relativamente dissimili, determinando cosi’ un ricercato contrasto cromatico. Inoltre si e’ riscon trata una prevalenza di tinte tendenti al giallo (parte YR e Y della no tazione Munsell) lungo il lato dell’asse viario esposto a nord (numeri civici dispari di via S.Bernardo), mentre tinte tendenti al rosso (par te R della notazione Munsel l) caratteri zzano il lato esposto a su d (numeri civici pari di via S.Bernardo ). La presenza di queste alternanze tra edifici adiacenti e diverse provenienze sui due lati e’ indi ce d i una legge non scritta, ma ben d efinita, di un criter io estetico cioe’ che uniforma e identifica questo asse viario. Si tratta di una legge radicata empiricamente negli abitanti, perche’ la scelte di queste tinte avveniva senza nessun tipo di a utori zzazi one o contr ollo d a parte delle autorita’ competenti. Questo andamento delle tinte è stato riscontrato non solo nell’elevato ma anche nel basamento dei sin goli edifici. In queste zone le intonacature e le tinteggiature veniva no rifatte molto di frequente, spesso ad iniziativa del solo commer ciante proprietario della bottega. Un altro strumento che si è verificato estremamente utile, al nostro fine , sono le distribuzioni statistich e in relazione alla tinta, satu razione e luminanza. In questo caso è significativa la differenza che si riscontra tra edifici del centro storico ed edifici dei paesi posti lungo la riviera (nei pres si di Genova). In entrambi i casi si ha una persistenza delle tinte , co me si è appena detto. Cambiano però, in questo caso, i livelli di luminanza e saturazione. Anche a parità di degrado fisico 27 e comunque già in origine nelle case dei pescatori , abbiamo tinte più sature e con luminanza minore, mentre nelle case del centro storico si re gistrano valori di saturazione minore e di luminanza maggiore. L’uso di tinte a bassi valori di saturazione e alti valori di luminanza 28 , caratteristiche delle facciate dipinte ad affresco, sono state infatti ritrovate nella quasi totalita’ degli strati esaminati nella zona del centro storico. Si puo’ quindi pensare che la grande abbondanza di fac ciate decorate presenti nel centro genovese nel periodo XVI-XVII secolo abbia imposto queste caratteristichie quali standard di fatto anche per le facciate non dipinte. E se anche ora cio’ puo’ essere in parte offuscato dagli effetti grigi dell’inquinamento o dalle pellicole pittoriche opache di questi ultimi decenni, non a caso nelle memorie del passato Genova veniva descritta come “una citta’ di marmo ...”, “palazzi che brillano ...”, “gradevoli effetti atmosferici e coloristici ...”, ecc29 . A livello microscopico si e’ trovata una puntutale spiegazione di tutto cio’ nelle cause fisiche che generano queste percezioni luminose, e che sono ad esempio l’uso di tinte composte da mescole di pigmenti dive rsi, l’aggiunta di polvere di marmo e alabastro calcareo30 e la presenza di cristalli di calcite31 e di quarzo. I diagrammi diacronici comunque hanno rilevato che fino al secolo XVII rarame nte nelle ritintegg iature ci si d iscostava dal la tonalita’ originale (sia come tinta che luminanza e saturazione), mentre per periodi successivi facil mente si registr avano sostanziali variazioni di questi parametri. Questa evidenza materica di continuita’ cromatica, confrontata con le fonti documentali, indica la radicata mentalita’ di imitazione e conservazione dell’esistente 5. Conclusioni Dagli esempi riportati si possono trarre alcune considerazioni. È indubbio che a diversi livelli e con differente incisività sulla realizzazione finale, ci sia comunque sempre stata una notevole partecipazione degl i utenti alla real izzazione del la costruzione. V olutamen te i casi ri portati sono stati scelti entr o l’a mbito urbano; n elle campagne, infatte, questo vincolo e questa unione tra l’utente e la sua dimora è sempre stato più stretto proprio perché più facilmente si ha una identità tra committente ed esecutore. In amb ito urbano, questo accade più raramen te, ma si è visto comunq ue che, anche q uando n on vi è l’identità tra committente ed esecutore, il primo esercita spesso una forte guida sulle attività effettive, ottenendone anche risulti ottimi. La seconda considerazione, riguarda appunto i risultati. Anche se è vero che in taluni casi gli effetti dell’ingerenza del committente nella realizzazione dell’opera hanno effetti non proprio posiviti (si veda a questo proposito il caso del Seminario)32 , è pur vero che in moltissimi casi i risultati sono più che positivi. Gli aspetti più legati alla percezione visiva sono quelli in cui si registra maggiormente un coinvolgimento dei diversi attori. Non è escluso però che un semplice effetto estetico porti con se un a conseguenza a livello tecnologico , strutturale ecc. Ad esempio tra il XV secolo e l’inizio del XVI secolo si registra l’utilizzo di un particolare intonaco nelle zoccolature degli edifici costituito da una malta di sottile spessore di colore grigio, composta da calce impastata, da una sosta nza carboniosa, presumibilmente di natura vegetale, da pozzolane nere di area laziale e scorie di ferriera. La superficie veniva poi stilata ad imitazione dei conci, talvolta dipingen do i giunti con line e bia nche e sug gerendo con o pportune graffiature la lavorazione a gradina e a scalpello33. L’effetto visivo è ciò che colpisce maggiormente di questo modo di operare, l’impiego però di alcune sostanze quali le pozzolane e le scorie di ferriera offrono un buon grado di idraulicità alla malta e di conseguenza erano spesso impiegate nelle strutture a diretto contatto con l’acqua o comunque in zone particolarmente umide. L’utilizzo di questo particolare impasto nelle parti basse degli edifici (zoccoli) può rientrare in questo secondo caso. Note 1 Per fonte scritta qui si intende la documentazione relativa ad un particola re edificio, in tutte le sue forme, sia come capitolato, sia come diario di cantiere, libro della fabbrica, atto notarili, richieste formali, corrispondenza varia (ad esempio tra il committente e l’impresa, tra l’impresa ed i fornitori, ecc.) 2 Qui ci si riferisce in particolare alla ritinteggiatura della facciata , per altre operaz ioni edilizie, invece, vi erano norme e vincoli anche piuttosto pressanti .”La necessità di avere a Genova una disciplina dell’attività edilizia nacque assai precocemente (almeno dal XII secolo) in difesa del porto, che era di basso fondale…e che rischiava d’interrarsi…Sistemi di vera e propria nettezza urbana mediante periodico accumulo della spazzatura in mucchi di attesa degli incaricati che la portassero via, impianti di fognature estesi in tutta la città, intercettazione dei rivi affluenti…facevano parte di un meccanismo che i Padri del Comune dovevano mantenere in perfetta effic ienza….D’altra parte almeno dal XIII secolo si manifestò la necessità di controllare l’attività edilizia privata, inrisposta alle sigenze di perequazione che i singoli esprimevano attraverso atti di denuncia…sembra che solo più tardi questo controllo si sia sviluppato nel senso della difesa del bene comune” (cfr. A.Boato , A.Decri, “L’attività edilizia di età moderna a Genova” in AA.VV. “Argomenti di architettura genovese tra XVI e XVII secolo”, Genova 1995, pp.23-44 3 O meglio in quest’ultimo periodo si chiarisce il rapporto dell’istituzione con questo particolare aspetto; rapporto che probabilmente era strutturato in questo modo già nelle epoche precedenti. Nel XIX secolo infatti viene costituita una speciale Commissione , denominata Commisione d’Ornato con il compito, tra gli altri di sorvegliare e regolamentare gli interventi sulle facciate cittadine. È già significativo il breve periodo di attività di questa Commissione: dal 1826 al 1848. Anche durante questo periodo, dalla documentazione scritta si può evincere la scarsa efficacia ed incisività del suo operato soprattutto in tema di facciate. La commissione si lamenta che i prospetti che gli vengono presentati (e già questi sono una percentuale piuttosto piccola di tutti gli interventi su facciate realizzati) non sono colorati; forse questo era un tentativo da parte di committenti ed esecutori di eludere il controllo. A più riprese, inoltre, alcuni membri della Commissione ribadiscono l’inefficacia delle loro proposte, la scarsa documentazione riguardo ai diversi interventi pervenuta alla Commissione e anche quando nel 1844 viene approvata una delibera più restrittiva in tema di coloriture di facciate. “…È stato notato che diversi fra i disegni presentati sono mancanti delle tinte da darsi alle facciate prospicienti sulla via pubblica e che sarebbe invece convenientissimo che fossero coloriti onde si avesse sott’occhi più precisamente l’effetto che produrranno messi in opera…È stato proposto che d’ora in poi tutti i disegni sottomessi al Consiglio debbano essere coloriti accichè il Consiglio possa deliberare con maggiore precisione e cognizione di causa, sull’effetto e nel complesso del prospetto. La proposizione è stata accolta con tutti i voti favorevoli” (27/8/1844) (Adunanze del Consiglio d’Ornato, 1827-’50, in ASCG (Archivio Storic o del Comune di Genov a) Ammi nis trazi one Decurionale, coll.n.682-683) Quindici giorni dopo, tale delibera viene sospesa “…Fatti nuovi riflessi in proposito, e dopo maturo esame e’ stato proposto di sospendere per ora l’esecuzione della suddetta delibera…”(10/9/1844), ibidem 4 Si fa qui riferimento ai diversi studi fatti a partire dagli anni ‘70 dall’Iscum di Genova. Un particolare ringraziamento va a Tiziano Mannoni (laurea Honoris causa in Architettura nel 2001) il cui merito indiscusso è quello di aver portato tali problematiche all’interno della facoltà di Architettura . 5 Per un approfondimento si veda: riviste di “Archeologia dell’Architettura”nn. I,II,III, IV, V, ed. All’Insegna del Giglio, Firenze; R. Francovich, R.Parenti, (a cura di) Archeologia e restauro dei Monumenti, Firenze 1988. 6 Cfr. A.Boato, “Archeologia dell’architettura, tra conoscenza, formazione e progetto” in Atti del convegno di Scienza e Beni Culturali, n.XIV, 1998, “Progettare i restauri. Orientamenti e Metodi, Indagini e Materiali”, Ed. Arcadia Ricerche, p.230. 7 Cfr. E. De Felice, A. Duro, Dizionario della lingua e della civiltà italiana contemporanea, Firenze 1974 8 Questo modo di procedere “implica la preliminare acquisizione di un baga glio di conoscenze il più possibile ampio sulle pratiche costruttive passate e presenti” cfr. A. Boato, “ Archeologia dell’Architettura …”op. cit. 9 ibidem 10 Comunicazione orale di A.Boato, esperta dell’Università di Genova di documenti riguardanti il settore edile per il periodo che va dal XV al XVII secolo. 11 In questo caso potrebbero rientrare alcune strutture rilevate nel borgo di Portofino. Lo studio è stato condotto insieme alla prof. Elena Mortola all’interno della Scuola di Specializzazione estiva. Anche la scelta di una tecnica esecutiva piuttosto che di un’altra sembra in taluni casi legata più alla volontà e al desiderio dell’utente che non alla proposta dell’impresa e del tecnico. 12 Il documento in questione n. 120/1623 è tratto da una banca-dati di docu- menti riguardanti l’edilizia redatta da A.Boato e A. Decri (Laboratorio di Archeologia dell’Architettura, Facoltà di Architettura di Genova) 13 Moltedo è una zona posta nelle vicinanze di Genova 14 cfr. A.Boato, A. Decri, “Imboccare, indarbare, indarbusare, infrascare: quattro aspetti dell’intonacare genovese nei secoli XVI e XVII”in Atti del Con vegno di Bressanone 1990, ed. Libreria Progetto Editore, Padova 1990, pp. 27-36 15 ibidem 16 Da una comunicazione personale di A. Boato relativa a studi sui documenti genovesi dal XVI al XVIII secolo 17 Documento del 13 maggio 1656 relativo all’ex seminario Arcivescovile di Genova (via Fieschi), Libro della Fabbrica p.285, anno 1656, Archivio della Curia Arcivescovile. 18 Cfr. D.Pittaluga, P.Ghislanzoni, “Il seminario arcivescovile: lettura statico tecnologica del monumento e analisi critica degli interventi di consolidamento operati nel tempo”, tesi di Laurea, relatore prof. A. Buti, correlatori proff. T.Mannoni, G.Guidano, facoltà di Architettura di Genova, 1987 19 È stato mess o in rilievo dallo studio condotto dalla dott. Luciana Muller (A.D. Raimondo, L.Muller Profumo “Bartolomeo Bianco e Genova”, Genova 1962, p.108) concordemente con quanto affermato dal Poleggi (E.Poleggi, “La condizione sociale dell’architetto e i grandi committenti dell’epoca ales siana” in “Galeazzo Alessi e l’architettura del ‘500”, Genova 1975, pp.359368) in particolare per quanto riguarda l’Albergo dei Poveri e il Collegio Gesuitico, che l’idea progettuale è quella impos ta non dall’architetto (c he in realtà è un mero esecutore) ma dal committente. Per l’Albergo dei Poveri infatti si dice: “…Primo e precipuo esecutore del grandioso progetto fu il ma gnifico Emanuele Brignole, membro della Magistratura (Cfr. in Bollettino municipale “Il Comune di Genova” “I grandi Istituti di Beneficenza: l’Albergo dei Poveri” ) Nella dizione del tempo per “esecutore” si intendeva “ideatore”. Si pensa che anche per quanto riguarda il Seminario si abbia un’analoga situazione Ad accomunare la fabbrica del Seminario all’Albergo dei Poveri, ol tre al nome dell’Emanuele Brignole, ci sono quelli dgli architetti, che, come si è già detto sono piuttosto “capi mastri”: infatti Gandolfo di Oneglia, Antonio Corradi, Gianbattista Griso (o Ghiso), Antonio Torriglia che lavorano al Seminario, sono gli stessi che insieme all’architetto Stefano Scaniglia, parteci parono alla costruzione dell’Albergo dei Poveri.. Qui infatti sembra che l’idea progettuale sia da attribuirsi non tanto all’architetto Gandolfo di Oneglia, senza dubbio esecutore materiale del progetto, quanto al cardinale Durazzo che si intendeva di architettura, e all’Emanuele Brignole. 20 Nel caso specifico il problema portato dalla presenza di muri in falso do vuti ad esigenze funzionali adotte dal Brignole, è stato risolto proprio in corso d’opera con l’introduzione degli archi di scarico nella muratura. La costruzione tuttavia presenterà problemi continui sino alla più radicale trasformazione ottocentesca. Cfr. Daniela Pittaluga, Paola Ghislanzoni, “Il Seminario Arcivescovile: lettura statico tecnologica del monumento e analisi critica degli interventi di consolidamento operati nel tempo”, tesi di laurea, 1987, relatore prof. A. Buti, correlatori proff. T. Mannoni e G. Guidano, facoltà di Architettura di Genova. 21 Cfr. Daniela Pittaluga: “Identita’ e mutamento: il colore nell’immagine urbana”, tesi di Dottorato di Ricerca in Recupero Edilizio e Urbano, V ciclo, tutors B. Gabrielli, E. Poleggi, T. Mannoni, R. Pierantoni, febbraio 1993, Uni versita’ degli studi di Genova, Napoli e Palermo e Politecnico di Torino. La tesi inoltre e’ stata redatta anche grazie all’apporto ed ai consigli del collegio dei docenti (G.Galliani, V.Di Battista, F.Brancato, G.Caterina, G.Guarnerio, P.Torsello). Si sono inoltre avuti preziose informazioni dai seguenti docenti: T.Bedarida, A. Bellini, A. Gazzola, A.Maramotti. 22 La sua urbanizzazione iniziata nel secolo XI, con un’edificazione concentrata soprattutto nel tratto inferiore, viene completata nel corso dei due secoli successivi e vede l’insediamento di famiglie nobiliari quali i Cattaneo, i Vol ta, gli Stregiaporco ed i Bufferi tra la chiesa di S.Donato ed il mare 23 Durante l’applicazione si e’ agito in questo modo: 1) Per mezzo di uno scalpello da scultore si sono prelevati i campioni. di dimensione intorno al centimetro quadrato; generalmente per ogni facciata sono stati eseguiti uno o piu’ campionamenti nel basamento e nell’elevato. 2) Tramite sfogliamento meccanico a mezzo di bisturi si sono separati e suc cessivamente posti su vetrino i diversi strati; di ognuno si sono misurati tinta spessore e colore secondo la codifica Munsell, se ne e’ osservato il tipo di materiale (tinta a calce, tinta sintetica) e la tecnica di stesura (a secco, a fre sco, a falso fresco, ecc.). 3) Si e’annotato quindi tutto cio’ in una scheda, dove gli strati individuati sul la facciata appaiono in sequenza dai piu’ recenti ai piu’ antichi (con una sigla progressiva AA = piu’ recente, AB, AC, ecc.). 4) Si e’ provveduto a datare i singoli strati, o almeno a porre alcuni punti fermi con datazioni assolute nella sequenza stratigrafica. In questa fase si so no usate ove possibile le analisi archeometriche: analisi cronotipologica del le aperture, mensiocronologia dei mattoni e dei litici, analisi e cronologia delle malte. Inoltre si e’ utilizzata l’analisi stratigrafica verticale applicata alle singole facciate e l’analisi stratigrafica orizzontale tesa ad individuare i rap porti di contemporaneita’ anteriorita’ e posteriorita’ tra edifici contigui. 5) Si sono raggruppati i singoli strati entro aree cronologiche precise cercando di organizzare l’insieme dei dati raccolti. 6) A questo punto si e’ deciso di approfondire l’indagine passando alle osservazioni macroscopiche: analisi della brillanza, analisi del colore della ma trice dei pigmenti e morfologia degli stessi. Il concetto e’ quello di condurre un esame contestuale da piu’ punti di vista: cromatico, morfologico, dimensionale. Si ricercano cosi’ a livello microscopico le cause di analogie e differenze riscontrate a livello macroscopico, con particolare attenzione all’evo luzione temporale. Questa parte della ricerca ha costituito un momento di sperimentazione piut tosto delicato, in cui sono state applicate al campo dell’edilizia urbana tecni c he di analisi usate nel pass ato in altri campi, dall’analisi mic rosc opica all’uso del calcolatore per l’elaborazione ed analisi di immagini. 24 Spesso solo lo strato più vicino alla muratura è costituito dai tre strati ca nonici: rinzaffo, arriccio ed intonachino; le sovrapposizioni superiori solitamente sono costituite da intonachino. In pass ato, solitamente, quando si erano accumulati sulla facciata diversi strati di tinte a calce parzialmente esfoliati, rendendola irregolare, si ricopriva il tutto con un intonachino (1-2 millimetri) di grassello e sabbia quarzifera finissima, colorato a fresco, che non si sa ancora perché, aderiva bene, e serviva di base per una nuova serie di tinte a calce, quando, dopo cent’anni la facciata iniziava a sbiadire. L’alto numero di rifacimenti non deve trarre in inganno sulla durabilità di queste coloriture; bisogna considerare che si hanno in un periodo di tempo piuttosto lungo, solitamente 600 anni. Le tinte a secco hanno durata minore, quelle ad affresco maggiore. Anzi quest’ultime, mediamente, hanno dimostrato un ottimo grado di resistenza agli agenti atmosferici. “…Tornando alla bicarbonatazione degli affreschi a calce, non si capisce come essi abbiano potuto so pravvivere agli agenti atmosferici per più di due secoli. Ricerche ancora in corso, basate sulle microanalisi chimiche condotte al microscopio elettroni co, hanno già dimostrato che la buona resistenza degli intonaci genovesi è dovuta in gran parte all’uso costante di una calce magnesiaca. I composti del magnesio, infatti, contrariamente alle indicazioni negative date dalla manualistica moderna, sono assai più resistenti all’acqua piovana di quelli del calcio, e formano degli strati protettivi. Si è anche dimostrato che i calcari dolomitici usati a Genova per produrre la calce, a partire dal secolo XII, non era no una scelta casuale, e le dolomie venivano usate anche nelle prealpi lom barde da quei maestri antelami che hanno operato a Genova dal XII secolo al XIX. Le analisi delle superfici affrescate hanno dimostrato che la durata dipende in parte dagli strati dei composti del magnesio, ma in parte da ragioni fisiche: più la superficie è liscia o addirittura lucida, più l’acqua piovana scorre, e non ha il tempo di penetrare ed aggredire chimicamente il supporto. Si è visto tut tavia che, mentre gli stucchi lucidi che imitano il marmo hanno delle superfici perfettamente speculari, nelle facciate affrescate vi sono delle minime ondulazioni, ma non delle asperità; lo sviluppo della superficie per decimetro quadrato di facciata è di poco superiore a quello corrispondente di uno stucco lucido, ed assai inferiore a quello di un intonaco sabbioso. Ciò permette una buona idrorepellenza fisica alla pioggia, creando una superficie brillante, ma che non riflette ordinatamente la luce come uno specchio, altrimenti con certe angolature non si vedrebbe più il dipinto…”(cfr.T. Mannoni, “ Co me se…”, op. cit.) 25 Il risultato ottenuto da queste ricerche e’ duplice. Infatti da un lato si puo’ cogliere l’estrema complessita’ che vi e’ dietro una tinteggiatura, per cui non basta scegliere il tipo di terra adatto per ottenere un determinato effetto ma bisogna mettere in conto gli effetti di riflessione, diffusione, chiarezza e trasparenza; questi dipendono dalla granulometria alla quale la terra e’ macinata e setacciata, dal rapporto terra - latte di calce, dalla densita’ della miscela, dalla tiratura finale della superficie e dal rapporto calcio magnesio della calce impiegata. Anche le granulometrie dei colori, in maniera empirica, erano tali da ottene re specifici effetti. Le granulometrie dei colori forniscono delle curve gaussiane con medie intorno ai quattro millesimi di millimetro, misura che è la mi- gliore per il buon rendimento cromatico dei colori: dimensioni inferiori cominciano ad interferire con le lunghezze d’onda della luce; quelle maggiori diminuiscono la superficie cromatica e rendono più difficile l’inglobamento dei granuli nel legante carbonatico. Infatti il distacco lento ma progressivo dei granuli di colore, (che porta ad uno scolorimento progressivo ) dipende dal fatto che essi sono inglobati fra i microcristalli di calcite, che si sono formati durante la carbonatazione del grassello che costituiva il supporto durante la coloritura a fresco. Essendo la calcite soggetta alla bicarbonatazione da parte dell’anidride carbonica presente nell’acqua piovana, si trasforma quindi in un composto molto solubile, liberando così i granuli di colore che vengono asportati dalla pioggia battente, e dal suo conseguente ruscellamento sulla facciata. 26 Cfr. D.Pittaluga, “Nuovi sviluppi interdisciplinari nell’analisi stratigrafica delle superfici intonacate: esperienze e prospettive”, in Atti del convegno di Bressanone, 1994, ed.Libreria Progetto, Padova 1994, pp.123-133 27 Per il degrado fisico legato a fattori ambientali le case del centro storico, addirittura, mediamente risultano essere in condizione migliore. Quindi a parità di epoca cronologica, l’eventuale dgrado che potrebbe far diminuire i valori di saturazione, qui dovrebbe essere, al contrario, meno spinto. 28 Un’altra caratteristiche riscontrata in queste tinte riguarda il perfetto accordo cromatico che hanno con l’ambiente naturale. Una ricerca sul colore delle terre naturali in provincia di Genova, (condotta da Piero Fantoni e Sandra Gatti), ha riscontrato una grande varieta’ cromatica delle terre genovesi, con caratteristiche simili alle piu’ famose ocre provenzali, terre veronesi e senesi. È comunque improbabile che queste potessero in `qualche modo soddisfare il fabbisogno della citta’, anche perche’ non vi sono formazioni di cappellacci sufficientemente potenti da fornire materiale per la fabbricazione di pigmenti in abbondante quantita’. Tuttavia appare interessante la presenza di particolari cromie nell’ambito naturale intorno alla citta’, soprattutto in relazione all’inserimento delle costruzioni. 29 Cfr. E.Poleggi, “Iconografia di Genova e delle riviere”, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, Genova, 1976; ed il capitolo 5 della tesi di dottorato, Pittaluga Daniela, “Identita’..”,op.cit. 30 Nei capitolati si giustifica questa aggiunta di marmo e alabastro calcareo con la necessita’ di conferire agli intonaci una maggiore resistenza alle intemperie, (a Genova in particolare la pioggia di “stravento” e’ un fenomeno piuttosto frequente). È da notare quindi non solo una preoccupazione di ordine estetico, ma anche funzionale. 31 Secondo il prof. Bedarida, grande esperto di crescita dei cristalli interpel lato al riguardo, non e’ da escludersi la possibilita’ che il pelo del pennello, durante la stesura della tinta a calce, orienti il cosidetto “germe di cristallizzazione” e quindi la c ristallizzazione successiva. “…Al velo di calcite che contiene i colori sono anche dovute , però, importanti caratteristiche ottiche ed estetiche delle facciate affrescate. La maggior parte dei granuli di colore non sono applicati, come si è detto, sulla superficie, a contatto diretto della luce, ma si vedono attraverso la trasparenza dei cristalli di calcite. Questi sono orientati casualmente, per cui la loro superficie riflettente cambia secondo il punto di osservazione:perciò la superficie affrescata appare brillante, e assai trasparente da qualunque posizione la si osservi. La calcite è anche uno dei minerali più anisotropi, nel senso che ha indici di rifrazione molto differenti nelle tre direzioni cristallografiche, per cui i colori appaiono finemente cangianti quando si cambi la posizione di osservazione, come può avvenire con certi tessuti.....”( cfr. T. Mannoni, “Come se fosse architettura vera”, in “Eurocoat 96, International congress Uatcm, Genova 1996, pp.45-51) 32 Anche nel campo “s tatico”, cioè con decisioni riguardanti le strutture da parte degli utenti, si registrano in passato esempi, al contrario di quello riportato in questo testo, con risultati positivi 33 Per approfondimenti si veda F.Bonora, “Per uno studio storico ed una tutela delle facciate nell’edilizia genovese”, in AAVV., “Fac ciate dipinte”, Sagep, Genova 1982, pp.237-239 Da linguaggio architettonico a forma mentis sostenibile Marco Felici Università Roma Tre Dottorando in Sviluppo Urbano Sostenibile e-mail: [email protected] Abstract Il linguaggio è una strategia di elaborazione delle informazioni, ed in quanto tale incide in modo determinante sulla forma mentis dell’uomo. Per estensione un linguaggio architettonico può essere definito sostenibi le se co stituisce un adeg uato strumento pe r sviluppa re processi logici sostenibili, se par tecipa dunqu e alla costru zione di una nuova forma mentis aperta, incrementale e condivisa, in giusta osmosi tra globale e locale. Guardando a l panorama architettonico co ntemporaneo, l’opera di maestri tra i più vari potrebbe essere raggruppata secondo quattro categorie di appr occio nel modo di esprimere un rapporto tra ambiente antropizzato e naturale: - Tecnologia, ricerca e innovazione (R. Rogers, R. Piano, T. Herzog); - Forme organiche, simbolismo cosmico, mimetismo (P. Soleri, I. Makovecz, E. Ambasz); - Sociologia e partecipazione (C. Alexander, L. Kroll, P. Hubner); - Concettualità e comunicazione (J. Wines, J. Nouvel, Toyo Ito). Un’analisi semiotica di questi linguaggi, che intende metterne in risalto pregi e difetti in termini di strumenti sociali per uno sviluppo urbano sostenibile, può inoltre determinare una rilettura tematica dell’evoluzione dell’Architettura nel XX secolo, ed individuare le connessioni tra rappresentazione architettonica e forma mentis collettiva. Relazione Nell’uomo il linguaggio, oltre che forma espressiva, costituisce uno strumento di organizzazione, gestione e comunicazione di dati e ragionamenti. Si determina dunque un importante legame tra le possi bili tà “costruttive ” d el ling uagg io i n u so , e la ca pacità men ta le dell’uomo di elaborare le informazioni i n ragionamenti più o meno complessi. Ampiamente diffuse sono ormai le riletture dell’evoluzione del pensiero in funzione delle conquiste tecniche nei media. I filosofi antichi potevano elaborare ragionamenti basati sugli strumenti mentali disponibili al tempo, come lo schema simulato della casa dalle stanze colorate dove collocare un concetto in ogni locale per consentirne la rintracciabilità mnemonica. La successiva disponibilità di carta per tracciare una sequenza di concetti, consentendo di rivedere linearmente il costrutto, ha modificato radicalmente le forme esistenti di ragion amento, passando d alla concettualità deduttiva p untua le a quella lineare e ripercorribile. Il principio razionale attuale è l’alfabeto, ma il concetto di ipertesto, con la sua percorribilità multidirezionale , apre nuove ed importanti potenzialità che fa nno prevedere una nuova rivoluzion e nella fo rma-menti s. Già i media attuali, per come analizzati da Mc Luhan prima, e De Kerckhove poi, hanno determinato significativi mutamenti delle cornici mentali, al punto di distinguere in modo fondamentale gli attuali bambini dai loro genitori. Tema ampiame nte dibattuto è qui ndi la rivoluzione infor matica in corso, e le implicazioni che ne deriveranno in settori importanti come l’architettura e l’industria. Ma nonostante il “popolo di Seattle”, la tendenza dominante nella trattatistica rimane i mpostata su di una lettura dell’evoluzio ne di tipo globalista. Si esalta la possibilità dei media di presentare anche l’ambiente come fatto di informazione: tutto si può sapere, la visione globale delle conseguenze della gestione dell’ambiente diventano controllabili. La perdita di distinzione tra l’io naturale e le estensioni cyber porta a liberarsi del legame univoco con luogo e tempo; cade la distinzione tra dentro e fuori, e dunque anche tra io ed ambiente. Guardando ad un’immagine satellitare della Terra si determina la condizione “io sono la Terra che guarda se stessa”. Attraverso i media ci appropriamo della Terra, la nostra percezione dell’io si espande aldilà della percezione della nostra immagine corporea… È una le ttura che proietta l’evoluzione verso un nu ovo sa lto nella teoria di Ilya Prigogine, uno scatto in avanti che sembra assecondare istanze di sosten ibilità e colo gica para dossalmente compatibili con una presunto destino positivo. Purtroppo non appare però chiaro il nesso tra ne cessità e desiderabilità nel continuare a dirige rsi verso ta le rivoluzione con esclusivo senso di ineluttabil ità. An che volendo evitare atteggiamenti reazionari, permane comunque il bisogno di confrontare tale evoluzione con le istanze desiderabili della sostenibilità. Nasce qui la distanza tra tale trattatistica sull’era digitale, e le teorizzazioni ambien ta liste. Se la rivoluzione in for ma tica sta apr endo nuove potenzialità, di fatto l’evoluzione dell’insediamento antropico non ha ancora mostrato segni di beneficio. Così lo sviluppo urbano prosegue su due binari, di cui uno p ortan te, qu ello d egenerativo, che per la legge dei g randi numeri rende vana o gni speranza, ed uno sperimentale, q uello coscientemente sostenibile, ch e comunqu e del ude p er le car enze di q ual ità urb an a e p er la pa rzia lità dell’impostazione. La verifica di sostenibilità del linguaggio progettuale dunque si pone come passo cruciale nell’evoluzione. Questo perché, per quan to detto, il linguaggio è uno strumento determinante per la forma men- tis, e volendo parla re di forma mentis collettiva d i una comunità, il linguaggio architettonico ne costituisce la principale forma espres siva, nonché la matrice dell’insediamento identificante la comunità stessa. Urge dunque un passo indietro, la rinunzia a discutere di massimi si stemi, per andare ad analizzare concretamente le forme espressive correnti. Accettando di confrontarsi con schemi mentali precedenti l’a pertura ipertestuale, si po trebbe riprendere alcuni assunti di u n testo di taglio strutturalista, che molto ha detto in termini di metodo per un’analisi semiotica dei linguaggi architettonici, “La struttura as sente” di Umberto Eco. Particolarmente interessante risulta la trat tazione sul tema dei cicli di dissociazione tra significante e significa to; la riflession e generale su l valore di un codice architettonico, in merito alla necessità di denotazioni variabili e connotazioni aperte, sembra adattarsi particolarmente bene alle istanze di sostenibilità. Questo può essere lo spunto da cui partire nell’impostare un’analisi semiotica dei codici architettonici tesa a comprenderne pregi e difetti in termini di strumenti sociali per uno sviluppo urbano sostenibi le. Ciò significa escludere in partenza che si possa approdare all’in d ividua zi one di uno “stile de lla soste nibi lità”: imma ncabil me nte quando l’espressione si risolve in stilismi si creano vincoli che limitano la risoluzione dei programmi, inibiscono le potenzialità evoluti ve, e nel tempo creano distacco elitario. Mentre un linguaggio archi tettonico può essere definito sostenibile se costituisce un adeguato strumento per sviluppare processi logici sostenibili, se partecipa alla costruzione di una n uova forma mentis aperta, incrementale e condivisa, in giusta osmosi tra globale e locale. Pe r evitare di partire con un quesi to erroneo, occorre tene re pre sente inoltre che l’oggetto di questa analisi non potrà essere esclu sivamente la linguistica dell’architettura, bensì il rapporto tra forme espressive ed effetto urbano. Assumendo che uno sviluppo sostenibile possa e ssere perseguito solo attraverso una presa in carico del territorio da parte degli abitanti, gli aspetti qualitativi dell’effetto urbano tornano dunque ad essere fondamentali tanto quanto le ovvie questioni di ecocompatibilità tecnica. E non si esclude la necessità di pluralità espressiva, e di ricerca ar chitettonica, a volte anche elitaria. L’autoidentificazione di u na comunità avviene attraverso l’habitat che si è saputa costruire, ma an che attraverso i ca mpani li che ha or gogliosame nte eretto . La ne cessità di “campanilismo” reintroduce dunque anche gli aspetti formali come importante componente di un’architettura promotr ice di sostenibilità. Analizzare i codici architettonici contemporanei risulta alquanto dif ficile nella complessità di un epoca densa di poetiche personali. In base al target della presente trattazione occorre dunque organizza re le idee: l’opera di maestri tra i più vari potrebbe essere raggruppata secondo quattro categorie di approccio nel modo di esprimere un rapporto tra ambiente antropizzato e naturale. - Te cnolog ia, ricerca e in novazione (R. Rogers, R. Piano, T. Her zog) Ap proccio alla progettazione basato su un a fede ottimistica nell a cultura scientifica. L’e spressio ne second o un’este tica tecn ologicamente ind ustrializzata rappresenta l’esito di una ricerca di funzionalità innovative nei processi costruttivi e nel comfort ambientale, che in molti casi coin volge concetti di ecocompatibilità. Comprende tendenze refe renti du e pri ncip ali scuole di pensiero: l’High Tech inglese, e la Bioarchitettura tedesca. - Forme org anich e, simbolismo cosmico, mimetismo (P. Sole ri, I. Makovecz, E. Ambasz…) Approccio alla progettazione che considera l’insediamento antropico come atto naturale. L’espressione prevalentemente simbolica si accompagna in genere ad impi anti filosofici di notevole co mplessità, dove i problemi di sostenibilità risulterebbero intrinsecamente risolti. Originato dall’architettura organica, sopravvive trasversalmente in scuole “fuori-circuito”. - Sociologia e partecipazione (C. Alexander, L. Kroll, P. Hubner…) Approccio alla progettazione basato sulla capacità innata nell’individuo di autodeterminare il proprio insediamento abitativo. L’espressione a tratti vernacolare, ed in genere anarchica, nasce in antitesi con il distacco elitario dei progettisti tradizionali, ed è considerata sostenibile in quanto catalizzante per processi bottom-up. Metodo di fatto collegato con l’ampia tradizione di autocostruzione premodern a o periferi ca, persiste amp iamente diffuso in diverse condizioni teoriche ed economiche. - Concettualità e comunicazione (J. Wines, J. Nouvel, Toyo Ito …) Approccio alla progettazione basato su un’interpretazione artisticoconcettuale della contemporanea era dell’informazione. L’espressione si presenta secondo diverse poetiche allo stato pionieristico, che in alcuni casi esprimono didascalicamente intenti neoecologisti, ed in altri rivelano un’interessante sensibilità ai flussi naturali. In genere non costituiscono un’immediata risposta alle istanze di sostenib ilità ma rappresentano un’imp ortante germe per forme espressive contemporanee coscienti del contesto ambientale. Le prime tre modalità dette possono rappresentare l’evoluzione di movimenti che hanno caratterizzato il XX secolo, e di fatto dal punto di vista linguistico possono anche essere interpretate come correnti che tendono ad incontrasi negli sviluppi più a ttuali. Notevole successo tra un pubblico anche laico sembrano avere, ad esempio, le semplificazioni apparenti perseguite nelle opere di Renzo Piano, dove con una capacità tutta italiana si sposano comunicativi tà di un’idea for te, gar anzia di una sensazion e tattile tradi zional e, prome ssa di un comfort tecnol ogico. Insomma , se l’ uma nizza zi one dell’High Tech avvicina il Moderno all’Organico, il Centro Culturale Tjibaou di Piano, in Nuova Caledonia, ormai li riunisce. Ma persiste una differenza radicale, che va a determinarne il diverso potenziale rivoluzionar io in termini di li nguaggi o “sosten ibile”. Detti tre ap procci potreb bero essere associati a diversi modelli di fo rma mentis co llettiva, a fferenti macroscopiche categor ie d i società antropiche. La prima categoria raccoglierebbe le civiltà di impostazione cosiddetta maschile, basate sul concetto di “dio-padre”, modello impositivo ed economista a confronto con quello pacifico e cul tural e di “madre-terra”, Ga ia, in cui si potrebbe collocare il secondo approccio. Il terzo coll ocherebbe invece a simbolo centrale l’uomo, il “libero arbitrio”. Meccanismi sociali su cui si può discutere infinitamente, vi sti anche gli esiti a lte rni dell e o rma i consol idate esp erienze. Rima rrebbe dunqu e da investiga re, secon do qu esto punto di vista, il quarto approccio detto. Interessanti le potenzialità nel costruire un nuovo model lo sociale: i l cyberspazio, nuova dimensione nata con l’avvento di Internet e del World Wide Web, può generare una nuova forma menti s collettiva, supportata da un linguaggio che deve favorire l’intelligenza connettiva, la libera riunione e separazione delle menti nel collaborare socialmente. I linguaggi della città sostenibile Barbara Del Brocco Università Roma Tre Dottoranda in Sviluppo Urbano Sostenibile e-mail: [email protected] Il paradigma della sostenibilità ha stimolato negli ultimi anni la produzione edilizia europea e ha portato a una sperimentazione anche nell’ambito insediativo. L’interesse si sta infatti spostando daI singolo edificio a complessi insediativi più ampi, proprio perché ci si sta convincendo che lo sviluppo sostenibile non può realizzar si attraverso azioni puntuali sul territorio, ovvero edifici-monumento che esprimono se stessi senza avere un rapporto reale con il contesto. L’edificio ecologico che ottimizza attraverso il suo disegno architettonico le relazioni con l’ambiente naturale è stato superato; la questione energetica risulta essere uno degli attributi della sostenibilità che non può pertanto risolversi attraverso unità architettoniche indipendenti. No n si tr atta più di affrontare un prob lema mon odimension ale e quindi di dare una SOLA risposta; la sostenibilità è un concetto complesso che non può essere affrontato da un unico punto di vista né tanto meno trovare espressione attraverso un’interpretazione meramen te tecnologi ca della questione energ etica. Negli ultimi anni stiamo assistendo in Europa a un proliferare di interventi di trasformazione del territorio che coinvolgono interi quartieri. Pensare la città come ecosistema ci induce a riconoscerla come un sistema in movimento, il cui obiettivo non è quello di conservare la stabilità ma di costruire nuove stabilità; significa anche riconoscere al suo interno dei sottosistemi (mobilità, spazi aperti, ciclo delle acque, rifiuti…). L’intervento intende approfondire le modalità compositive e gli esiti di alcune esperienze di insediamenti ecologici e porre in evidenza le diverse espressioni dell’architettura sostenibile. All’interno di u no stato dell’arte molto articolato sono stati selezionati quei casi ritenuti particolarmente esemplificativi per l’approccio e pe r i risultati otten uti ; in particolar e il solar villag e “P arc-Bit” di Maiorca, la “Solar-Ci ty” Linz a Linz - Pichling , Ecolonia ad Alphen aan den Rijn in Olanda, il Greenwich Millennium Village a Londra, il Solar Village n.3 ad Atene e infine il complesso residenziale a Osuna, nei dintorni di Siviglia. I progetti scelti si caratterizzano per - essere esperienze pilota; - avere un approccio olistico, come si conviene alla sostenibilità; - possedere qualità architettonica; - recare la firma di architetti che si distinguono nel contesto internazionale per il loro interesse in ambito sostenibile. Complessivamente si può anticipare un’oscillazione degli interventi che va da una sperimentazione spinta delle tecnologie a un ritorno a linguaggi architettonici più legati a immagini tradizionali. Per una trattazione esaustiva dell’argomento si rimanda alla tesi di dottorato in corso di redazione. Il solar village “Parc-BIT” di Ma iorca, p rogettato dall o studio inglese Richard Rogers Partnership, è il risultato di un concorso internazionale di progettazione bandito dal Governo autonomo delle Isole Baleari nel 1994 con l’obi ettivo di cr eare u na comunità di ci rca 8.000 abitanti che si avvantaggiasse delle nu ove tecnologie informatiche. Il nome è infatti l’ acronimo di Balearic Parc fo r Telematic Innovation. La comunità è stata strutturata in una serie di nodi urbani di 2.000 abitanti; la dimensione è stata calibrata per essere comodamente a portata di pedone e di bicicletta Si vuole evidenziare l’uso appropriato delle risorse umane e materiali con le parole dello stesso progettista: “Gli edifici furono disposti in modo tale da utilizzare appieno gli elementi naturali per ombreg giare e rinfrescare strade e cortili, dando forma all’ambiente costrui to in modo che potesse beneficiare di ogni singola favorevole con dizione ambientale. Il percorso e il disegno delle strade furono stu diati per incoraggiare il camminare e la convivialità. L’insediamento di Majorca intendeva inoltre fare il massimo uso delle risorse locali, in particolare quello della mano d’opera, al fine di creare un insedia mento a bassi costi di costruzione e di gestione, capace di promuo vere un sano e socievole tenore di vita per la comunità. Uno svilup po sostenibile a queste dimensioni rispecchia in vari modi il proces so originario di formazione degli insediamenti tradizionali” 1 “Quello che stavamo cercando di fare con il progetto di Majorca era di sfruttare le stagioni dodici mesi all’anno e non solo sei mesi all’an no…”2 Rogers si riferisce al principale problema dell’area di Palma, ovve ro l a di soccupazione diffu sa a cau sa del tu rismo stagi onale che, unitamente alla questione della carenza idrica, sono gli obiettivi che il programma si è posto di risolvere. L’acqua è infatti parte integrante del progetto: raccolta durante i mesi invernali, serve per l’irrigazione dei campi nei mesi aridi e diventa lago ornamentale. Ci preme inoltre porre attenzione sull’architettura costruita e sul rapporto che essa instaura con l’ambiente naturale: le altezze degli edifici in tu tte le di rezioni decr escono e scompaiono nel paesaggi o. L’architettura crea così un sin golare rapporto con l’ambiente collinare, nel quale gradatamente si annulla. Da notare la conformazione dello spazio aperto, configurato per offrire riparo dalla calura estiva e per essere uno spazio vitale per promuovere attività sociali. La Solar-City Linz a Linz - Pichling è un nuovo distretto urbano di circa 25.000 abitanti che fa uso delle risorse rinnovabili, voluto dalla stessa città di Linz e finanziato dalla UE. Pe r la prog ettazione delle prime 630 abitazioni la città di Linz h a coinvolto Sir Norma n Foster and Partners, Herzog+Partners e Richard Rogers Partnership, che hanno formato un gruppo di lavoro den omi nato R.E.A .D. (Rene wab le E nergie s in Architectur e and Design), con l’obiettivo di promuovere le tecniche costruttive a basso consumo energetico. Il complesso è stato strutturato in una serie di nodi urbani compatti di circa 5.000 abitanti dimensionati sulla base della distanza massima percorribile comodamente a piedi da una piazza centrale, fulcro di ogni insediamento, ovvero 300 metri. Nel progetto si è tenuto con to della massima densità possibile e sono stati osservati i parametri per l’edilizia sociale a basso costo. La diversità costituisce per i progettisti un elemento indispensabile per la creazione di un sistema di vita urbano vitale e per la riduzione del movimento di traffico. Il progetto si caratter izza infatti pe r la va rietà degl i all oggi e dell a sperimentazione sull’edilizia a basso costo. Non solo gli architetti si sono confrontati sulla definizione di un masterp lan, ma ognuno di loro si è poi cimentato nella progettazio ne dei singoli lotti. Sebbene accomunati dallo stesso atteggiamento progettuale in cui la tecnologia gioca un ruolo dominante, i singoli progettisti hanno af frontato sperimentazioni diverse, creando una sorta di repertorio di soluzioni possibili per edilizia residenziale a basso costo. Sono altrettanto significative le singole strategie compositive al fine del risparmio energetico, da l momento che Rogers, Herzog e Foster si sono confrontati sulla progettazione di edifici con differenti tipologie e orientamenti. Herzog ha affrontato un impianto all’apparenza più tradizionale, sfi dandosi nella progettazione di blocchi con una profondità del corpo di fabbrica di 13 metri, oppure, nel caso delle abitazioni per single o coppie di giovani, con una profondità di 4 metri. Il linguaggio che usa l’architetto tedesco è molto asciutto: l’appara to tecnologico è di fatto alquanto ridotto. Foster, al contrario inventa delle vere e proprie “macchine”: gli edifici presentano un singolare sistema a muri di Trombe. Rogers si è occu pato dell’area più a nord e si è confrontato con la progettazione di piccole schiere disposte secondo strisce sinuose. È proprio la mancanza di spigoli la caratteristica del progetto dell’ar chitetto inglese. Grande importanza è stata data alla definizione dello spazio esterno tra le case, il cosiddetto “space-between”. Alcune strutture pubbliche in cui trovano spa zio le zone lavatoi e i magazzini sono collocate lungo le strade interne, dove sono collo cati aree di gioco, piccole piazze di quartiere e giardini da affittare.3 È nella cura dello spazio pubblico che trova espressione l’abitante, al quale ve ngono a ffidati giard ini da co ltivare con l’obietti vo di re sponsabilizzarlo nei confronti della comunità. Ecolonia (ecologia+colonia), iniziata nel 1991, fa parte di un piano di espansione della città di Alphen aan den Rijn, nel “cuore verde” dell’Olanda tra Amsterdam, L’Aia, Rotterdam e Utrecht. Il progetto consiste in 101 abitazioni, e si colloca all’interno di un più ampio pro gramma di espansione di 6000 unità.4 È un prog etto dimostrativo promosso dal NMP - National Envir onmen t Poli cy Plan - e d alla Novem - Ne derl andese Ord ernemin g Voor Energie – che si colloca nel quadro del Piano Nazionale di po - liti ca amb iental e. L’iniziativa è stata fi nanzia ta dal Bowfonds Woningbouw, so cietà pe r l’investimento immob iliare o landese , con il sostegno dei ministeri dell’Economia e della Ricerca. Gli o biettivi del progetto erano dimostrare e an ticipare le pr atiche costruttive relative all’edilizia sostenibile, mostrare le tecnologie per il risparmio energetico e sviluppare comunità sostenibili. Conservazione dell’energia, gestione integrata dei cicli di risorse e migliora mento della qualità dei prodotti sono i tre temi di partenza per lo sviluppo di Ecolonia, ulteriormente disaggregati in altri sottotemi che sono stati il riferimento specifico per gli interventi progettati da no ve architetti diversi nell’ambi to del prog etto urban istico redatto da Lucien Kroll. Piuttosto che analizzare i singoli interventi ci interessa approfondire il progetto di Kroll. Il piano guida di Ecolonia è basato su un repertorio di “componenti”, elementi urbani e forme architettoniche che sono diventati un codice linguistico condiviso dagli urbanisti e dai diversi architetti che si sono occupati della progettazione dei singoli interventi. Ed è proprio la partecipazione sociale al lavoro di progettazione uno dei caratteri paradigmatici dell’esperienza di Ecolonia. I principi che hanno guidato la redazione del progetto urbano si fondano su alcuni concetti chiave: - la crescita naturale a effetto spontaneo attorno agli spazi pubblici, come è avvenuto nel passato per i centri storici. Kroll intendeva favorire una forma di sviluppo urbano capace di creare relazioni tra gli abitanti; - la posizione centrale del lago, che riveste un ruolo importante sia per gli aspetti ricreativi sia per quelli ambientali. - gli spazi all’aperto costituiscono un elemento fondamentale di Ecolonia, ove alcun e piazze di quartiere sono state progettate direttamente dagli abitanti. - la varietà, intesa come differenziazione delle architetture, che Kroll avrebbe voluto diverse le une dalle altre secondo il principio della riconoscibilità dell’alloggio. Il complesso residenziale a Osuna, un sobborgo di Siviglia, progettato da un gruppo gui dato da Jaime Lopez de Asiain, è un progetto fondato sullo sviluppo di un prototipo di casa isolata a due piani, che è stata monitorata per 18 mesi.5 L’obiettivo princip ale consisteva nel costr uire un complesso insediativo con delle abitazioni autosufficienti dal punto di vista energetico, capaci di sfruttare integralmente l’energia solare e adattate alle condizioni del luogo, della cultura e della storia della città di Osuna. Alberi a foglia caduca sono stati sistemati tra le abitazioni per fornire ombra in estate e per garantire il soleggiamento invernale e l’isolame nto acustico. Una pergola orizzontale è fissata sulla facciata sud di ognuna delle abitazioni per ombreggiare sia gli spazi privati del piano superiore sia le finestre del piano terreno. Le pareti sono intonacate di bianco per evitare il surriscaldamento nei mesi estivi; possiedono inoltre una elevata inerzia termica per immagazzinare una ade guata quantità di calore. Lo schema delle abitazioni permette una ventilazione naturale delle stanze: l’aria calda sale al primo livello e fuoriesce in corrispondenza del tetto. Ciò che risulta evidente è il legame con la tradizione, che si esprime sia a livello tipologico, con il ricorso a delle case a patio, sia come immagine complessiva dell’intervento, che rimanda al villaggio tipico andaluso. Il Solar Village n.3 a Lykovryssi in Grecia, 18 km a nord di Atene, nasce da una politica intergovernativa tra Grecia e Germania. Quando nel 1978 la Greek Workers Housing Agency (OEK) avvia la pianificazione di un complesso insediativo per lavoratori e impiegati nella periferia a nord di Atene, si coglie l’occasione per farne un progetto dimostrativo sull’uso del energia solare. Il progetto è stato sviluppato congiuntamente per la parte architettonica dallo studio MeletitikiTombazis ass. e per le questioni energetiche dalla Interatom. Il complesso per 435 famiglie è organizzato in 4 unità all’interno delle quali alle automob ili è consentito solamente i l parcheggio. Ogni unità si sviluppa attorno a spazi di gioco all’aperto e include differenti ti pi e dilizi. L’insedi amento p resenta d iffer enti fun zio ni oltre quella abitativa, in particolare le funzioni pubbliche sono sistemate attorno a una piazza centrale ribassata per creare intimità e senso di appartenenza. Il movimento in questa area si sviluppa su due livell i. Nell a piazza centrale sono presenti deg li alb eri che garantiscono comfort estivo e mimano la tipica piazza greca. Alcune unità da 100 mq sono organizzate in edifici a schiera a due piani, con il soggiorno al piano terra che si apre su un giardino privato esposto a sud; e le tre camere da letto al secondo piano. L’accesso a tutti gli edifici è posizionato a nord. Nelle restanti unità gli appartamenti sono organizzati attorno a una scala centrale che dà accesso a due appartamenti per piano che sono orie ntati nor d-sud, cosa che pe rmette di avere ve ntilazione incrociata. I balconi ombreggiati a sud rappresentano uno spazio di soggiorno all’aperto ulteriore, cosa molto importante in Grecia. Gli appartamenti al piano terra sono traslati verso sud sia per ragioni estetiche sia per r icavare uno spazio esterno coperto per il parcheggio delle automobili private e avere spazio per i balconi a nord. Per minimizzare i costi e garantirsi il gradimento degli utenti tutti i materiali da costruzione e i metodi costruttivi sono di carattere convenzionale – a parte i sistemi solari, che in generale sono piuttosto semplici, in special modo quelli passivi. Il Greenwich Millennium Village nell a Greenwich Peninsula nasce nel 1997, quando Ralph Erskine insieme al consorzio londinese Greenwi ch Millenn ium Village Ltd. vincono il concorso internazionale per la progettazione di un villaggio che sia una dimostrazione delle più innovative idee sostenibili in campo architettonico, urbanistico e tecnologico. Il vil lag gio, di gra ndi di mensio ni, co mp ren der à 1 377 ab itazio ni (1079 apparta menti e 298 case) oltre agli sp azi commercial i, una scuola, uffici…. La forma di comunità ideale di Erskine è modellata sull’astrazione del villaggio inglese, che si forma attorno a spazi comuni e attorno a spazi interclusi come nelle città europee, con tappeti di strade e piazze e con un chiara gerarchia degli spazi, dal privato, al semi-pubblico al pubblico. 6 Un parco ecologico con un lago artificiale è parte integrante del progetto urbano. Al momento sono stati realizzati solamente due blocchi, con 450 appartamenti, organizzati attorno ad una piazza verde. La cifra stilistica di Erskine è molto evidente per l’uso di colori e texture diverse. Da notare i differenti trattamenti di facciata a seconda dell’esposizione. Alcune conclusioni Tutte le esperienze presentate, sebbene alle volte lontane geograficamente o cronologicamente, presentano interessanti elementi di contatto: 1. desiderio di creare comunità, 2. spinta a risolvere le questioni relative al risparmio energetico, 3. un margine di intervento riservato agli abitanti. Spesso lo “spazio tra” possiede un carattere non-finito per permettere una definizione ulteriore degli stessi utenti. La molteplicità dei linguaggi è in ogni caso il carattere dominante dei singoli interventi selezionati; l’architettura costruita risulta infatti essere una mediazione tra linguaggio proprio del progettista e risorse umane, materiali e ambientali del contesto locale di riferimento. Note: 1 Roger s Ri chard, Gumuc hdj ian Phi lip, Città per un pi cc ol o pianeta, Erid’A/Kappa, 2000, p.52. 2 GA Document, n.2, 1996 Richard Rogers. 3 Herzog Thomas, Arkitectur+Technologie Architecture+Technology, Muni ch/New York, Prestel, 2001, p.106-109. 4 Kroll L., Ecologie Urbane, FrancoAngeli, Milano, 2001. Lopez de Asiain J., Vivienda social bioclimatica – Un nuevo barrio en Osu na, Sama, Sevilla, 1996. 6 “Eco Urbanity” in The architectural Review, January 2002, p.41-45. 5 Bibliografia: HERZOG Thomas, (a cura di), Solar energy in architecture and urban planning, Munich/New York, Prestel, 1996. RUANO Miguel, Ecourbanismo. Entornos humanos sostenibles: 60 proyec tos, Barcelona, Gustavo Gili, 1999. La rete internet può favorire la nascita di una nuova forma di Comunità? a quali condizioni? Esistono processi di progettazione partecipata in rete atti a facilitare il dibattito collettivo e l’apprendimento sociale? Come utilizzare la rete per comunicare ed elaborare proposte progettuali capaci di migliorare la sostenibilità ambientale e la qualità dello spazio architettonico? La progettazione ha bisogno della rete? Elena Mortola Università Roma Tre DipSA [email protected] La nascita del CAD: il passaggio dalla carta ai dati digitali Il grande cambiamento è avvenuto negli anni 60 quando la tecnologia ha iniziato il suo esplosivo sviluppo, Divenne subito chiaro che l’informazione digitale avrebbe trasformato radicalmente i processi di progettazione e costruzione. L’idea di CAD era nata. I primi sistemi CAD funzionavano su grandi elaboratori; essi costituivano un grosso investimento il cui costo poteva essere giustificato solo all’interno di grandi società di progettazione con elevati volumi di lavoro progettuale ripetitivo. Negli anni ‘70 la tecnologia CAD finalmente si è adattata a una nuova generazione di minicomputer meno costosi, la sua popolarità è cre sciuta e si è sviluppata un’industria CAD importante. Negli anni ‘80, con la rivoluzione dei PC, la tecnologia CAD è diventata abbastanza economica da poter essere acquisita anche da piccole società di progettazione ed h a conquistato un consenso sempre più generalizzato . Workstation Unix collegate in rete locale (LAN - Local area networks) non solo potevano supportare operazioni CAD ma anche trasferimenti elettronici di informazioni pr ogettuali da una workstation all ’altr a e la veloce condivisione dell’informazione tra i membri dei gruppi progettuali. Ma alla fine degli anni ‘90 le differenze tra PC e workstation scompaiono. Le reti LAN vengono sostituite dalla rete globale di internet e i gruppi di progettazione si abituano a lavorare in ambienti CAD in rete. La carta non sparisce, continuano a esserci plottaggi, schizzi, stampe sulle pare ti degli stud i. Ma nel la maggio r par te degli ambienti l’informazione digitale che scorre nella rete dei computer, viene immagazzinata sui dischi e manipolata da sistemi CAD, diventa la principale e definitiva informazione nei processi di progettazione e costruzione. Le funzioni e i benefici del CAD e CAD/CAM I primi sistemi CAD di successo da un punto di vista commerciale si basano sul disegno bidimensionale. In altre parole essi rimpia zzano i tr adiziona li tavoli da diseg no, gli strume nti tradi zionali di disegn o, con i p rogrammi di disegno, con strumenti d i edi ting e fo rmatting, con l’archiviazione digitale e gli strumenti di plottaggio. L’informazione viene memorizzata sui layer che prendono il posto dei lucidi. Queste nuove tecniche hanno il vantaggio di ridurre gli errori di routine e di migliorare la produttività. Fin dall’inizio è chiaro ai progettisti di sistemi CAD che il valore dei databases per il CAD - e quindi la giustificazione per investire tempo e sforzo per costruirli - doveva crescere proporzionalmente con il numero di operazioni utili che potevano essere possibili all’interno dei sistemi stessi. Furono implementate funzioni come ordini di materiali e componenti, stime dei costi, generazione di disegni al plotter. Meglio ancora se potevano essere prodotte visualizzazioni, analisi energetiche e altre simulazioni. Parallelamente allo sviluppo della tecnologia CAD fu fatto uno grande sforzo per integrare una grande varietà di altre funzioni. I data base dovevano essere organizzati come modelli 3D che senza ambiguità specificassero la geometria di un progetto e consentissero la definizione delle proprietà dei materiali (Mitchell and McCollough, 1995) . I data base 3D rappresentano una base appropriata per visualizzazioni, simulazioni, analisi e consentono viste 2D tradizionali. Il CAD 3D è molto più difficile da implementare che il CAD 2D, richiede hardware più potente. Diventa sempre più popolare durante gli anni ‘90. Si assiste a una grande proliferazione di prospettive generate dal computer, rendering e animazioni. Ma la direzione di sviluppo più interessante del CAD 3D è l’applicazione in campo architettonico delle macchine a controllo numerico. In altre parole, l’informazione digitale CAD può essere usata direttamente per costruire. Sotto il controllo del computer, si può tagliare e curvare metalli, ritagliare fogli di metallo, compensato, vetro, lavorare la pietra e altro ancora. Possono essere impiegate altre tecniche che utilizzano il laser, la robotica per assemblare componenti complessi sul posto. Gli effetti del computer aided design e del computer aided manufacturing (CAD/CAM) è rivoluzionaria; la tradizionale documentazione per la costruzione è destinata ad essere eliminata. La flessibilità dei processi CAD/CAM consentirà agli architetti una grande libertà progettuale. Il Museo Guggenheim di Frank Gehry a Bilbao, progettato e costruito alla fine degli anni ‘90 è la dimostrazione lampante della capacità del CAD/CAM di produrre edifici molto complessi a un prezzo accettabile. Gli strumenti informatici per potenziare l’efficienza del lavoro dell’architetto Il c ambiamento nel processo progettuale prodott o dai nuovi strumenti informatici L e p otenziali tà d ell’i nformatica per la formazion e d ell’ architetto sono anco ra poco svi luppate. Attua lme nte i co mpu ter sono uti lizzati prevalen temente per risp armiare tempo e dena ro. I prog rammi pe r la ge stione del di seg no, per l’a rch ivi azi one di documen ti e i mmagin i, per l’ elabor azi one di co mpu ti, per la presen tazion e d i p rog etti , son o str umenti or ma i noti a tutti, e mi gli oran o sicura mente l’ efficienza de l lavoro d ell’architetto. Il comp ute r è uno stru men to, la pro gettazione a rch ite ttonica assi stita d al co mpu ter ( dall’in glese Co mputer Ai ded Architectur al De sign, CA AD) è una di sciplin a, insegn ata or mai in tutte le uni ver sità eur opee ed extra -europe e. Wil lia m Mitchell , un o dei mag gior i esper ti mon dia li di CAAD, è p reside della Facoltà di Architettura de l MIT. Il pr eside della Ar chitectu re and Buidi ng Science Faculty della Strath clyde Uni ver sity di Gla sgo w, il prof. Tom Maver, è un pionie re di questa disci p lina e ha fon dato molti anni fa l’ECAADE (Euro pean Comp ute r A ide d De si gn in Ed ucation ), asso ci azion e ch e rag grup pa i do centi di CAAD delle Facoltà di Architettura e Ingegn eria di tutta E urop a che , in un a con fe renza an nuale , si scambi ano le espe ri enze dida ttiche e d i ricerca. A li vel lo didattico no n si tratta dun que so lta nto di in se gnare agl i studenti ad utilizzar e in modo efficiente AUTOCAD, 3D STUDIO, P HO TO SHOP o altri p rogr ammi p erché po ssan o “ diseg nare a l computer” i loro pr ogetti , ma di aprire la loro me nte alle po ten zia li tà del CAAD a nch e i n r apporto alla fase di concezione del pro g etto, con tutte le cau tele del ca so. So no or mai numerosi gl i stu d i sui modi in cui il CAAD e l’ICT influe nza no la concezione de l p rogetto , i n te rmi ni neg ativi e positi vi. P ersonal men te ri te ngo ch e gli stud i sul la gene razione di nu ove forme siano importanti, ma non l ’aspetto più impo rta nte de ll’ap p licazione de l CAA D e del l’ICT. Il Colla bora ti ve Design, la Pro g ettazione interattiva , le possib ilità o fferte dai nuovi strumenti d i comu nicazio ne e pa rtecip azion e, p ossono d iventar e uno stru mento formidabile p er la conosce nza de l ter ritorio e per il coin vol g imen to dei citta dini ne l processo di costr uzi one de ll’ambiente i n cui vivono. Il n ostro A te ne o, tr a l’a ltro , h a attivato u n Master d eno mina to “P rogettazi one Interatti va Sosteni bile e Mu lti med ialità” (P ISM) i n coll abora zi one co n alcune uni ver sità eur opee (Ei ndho ven , Gla sgo w, Br uxell es, e cc.) nel l’a mb ito del p rog ramma den omina to “ Meta- Unive rsity - Bui lt En vi ro nmen t” ch e fa capo a l pr oge tto ERASMUS. La nostra Facoltà h a sotto scritto la domanda di atti vazio ne di qu esto cor so , che il no stro r etto re ha contro fi rmato. Tra le discipline fo ndanti de l corso figurano , o ltr e al CAAD, Desi g n Methodolo gy, Di gita l Imaging, Graphi c Desig n Imaging, We b P age Desig n, In te rne t Desig n, Co mp uter Ba sed Pre sentatio n, Terra in Mode lling, Dig ital Modell ing, An ima tion . (per un tota le d i 1 5 crediti). Il pr ogetto “Meta- Uni ver sity” pre ved e che al cuni corsi siano svo lti congiu nta men te e scambiati in r ete . In par ticola re l a n ostra Facoltà ha offerto un “Intensive Civic Workshop” , di un a setti man a a Por tofino in ling ua i nglese che consente di o ttener e tre cre diti e u n altro “In ten sive Civic Worksho p”, di u na/due setti mane A Roma, sempre i n lin gua i nglese che co nse nte di ottene re 3/6 crediti. “La visualizzazione tramite computer ha allargato la nostra capacità di visualizzare strutture simboliche astratte come immagini fisiche. Il computer aiuta a trasformare le ide e in cose”. Il computer è uno strumento che consente una diretta relazione tra visualizzazione e attuazione . “Il processo trial -and-error, come successione di dise gni su fogli di carta, comporta una pre-concezione, o alcune esplici te specificazioni quantitative, al con trario un p rocesso esplorativo co nti nuo co me la reali zzazione in temp o r eale di sup erfici curve “spline” si basa di più su una ricerca e una scoperta di tipo qualitati vo. Sebbene la realizzazione tecnologica della visione è completa men te e ster nal izza ta , l a sua cap aci tà d i col pir e ri ma ne i nte r na……Questa capacità di sviluppare un’immagine nell’occhio della mente dalla quale dare forma agli oggetti nel mondo esterno, attra verso appro priati momenti di scoperta, di materiali continuamente mani pol ati, d ovre bbe esser e u n aspetto molto meg lio val utato dell’arte elettronica, dell’artigianato digitale e della progettazione ar chitettonica assistita. Non siamo ancora al punto in cui è possibile con il computer un feedback immediato tra mente, mano e oggetto, ma sono stati fatti sforzi importanti in questa direzione dai sviluppa tori di software, attraverso programmi di modellazione che consen tono la visualizzazione e la manipolazione di immagini tridimensio nali” (McCullough M., 1996). Per il nuovo museo a Bilbao, lo studio di F.Gehry ha usato un programma – Catia – che era stato usato dall’ingegneria aereospaziale per la progettazione d i complesse forme tridimensonali. Questo programma consente la digitalizzazione di modelli plastici complessi; i mode lli digitalizzati costituiscon o la base per lo sviluppo ingegneri stico e la costruzion e. Questo p rocesso, ha consentito una stretta relazione tra ingegneria e “progettazione della forma” fino al punto che gli ingegneri sono capaci di consentire una tolleranza di +/- 300mm nel posizionamento finale degli elementi strutturali per con sentire agli arch itetti di fare pi ccoli aggiustamenti al la fine del proce sso proge ttuale (Le Cuyer A., 1997). È e vidente che questo processo tende ad una relazione più fluida tra progettazione, ingegneria e costruzione. Altre innovazioni consentono di modificare un ambiente virtuale tridimensionale stand one a ll’interno. Altr e inn ova zion i ancora consentono ai costruttori di vedere sul posto la rappresentazione tridimensionale della prossima fase di costruzione, proiettata sull’edificio stesso. “Il fatto che l’intervento –unico- sia economico e facile da realizzare come l ’intervento ripetitivo muta al cune sempliciste as sunzioni del moderniso e suggerisce le potenzialità di un nuovo pa radigma, post industriale basato sulle capacità creative consentite dagli strumeti informatici piuttosto che basato sugli strumenti mec canici” (Slessor C., 1997). Queste tecniche richiedono la conoscenza dei sistemi fisici e matematici che stanno dietro le forme – il tipo di conoscenza che era degli artigiani tra dizionali . È possibil e tuttavia , come suggerisce McCullogh, che questa conoscenza possa essere incorporata nei programmi/sistemi che vengono utilizzati dai progettisti e dai costruttori. Programmi questi, che potrebbero potenziare il processo intuitivo del progettista, riunendo molte parti differenti del processo di produzione quali: progettazione e uso dei materiali, schemi funzionali/prestazionali e ingegneria, progettazione e realtà virtuale, e dovrebbe- ro inoltre demistificare l’attuale cultura della progettazione (se non demistificare la cultura dei computer!) (Friedman Z., 1995) Lasciar prosperare il flusso e l’integrazione fra le persone e le attività “…Nella società occidentale in genere stiamo assistendo ad un pro gressivo riorientamento verso la lentezza, la semplicità, la sincerità, la spiritualità e la soste nibilità, nel tentativo di ristabilir e i coll ega menti che negli ultimi secoli sono stati recisi tra anima e corpo, tra uomo e natura, tra persona e persona…”….. …negli architetti e negli urbanisti vi è una ricerca di modelli propri sia dell’ecologia sia delle nuove tecnologie informatiche, per esempio il web, il network, il world wide web (www), internet…”L’urbanistica in tegrale si limita a convalidare la nostra propensione intuitiva di co me dovrebbe essere un luogo. Le città sono sostenibili quando le in terdipendenze tra le persone e le attività vengono lasciate prospe rare. … ..L’ur banistica integra le o ffre una guida e un’aspir azio ne verso l’integrazione e il flusso” (Nan Ellin, 2001”Slash city” in Lotus 110). L’urbanistica integrale presta attenzione ai confini, ai limiti e considera importantissimi i processi, propone interventi puntuali che contribuiscono ad attivare i luoghi (migliorare il flusso) creando collegamenti, prendendosi cura di spazi intermedi, dimenticati e abbandonati. Questi interventi catalizzano altri interventi in un processo continuo e senza fine. Questo approccio potrebbe essere considerato una sorta di ‘agopuntura urbana’ (secondo Ignasi de Sola Morales: interventi catalitici su piccola scala, realizzabili in perio di di tempo rel ati vamen te br evi e in gr ad o di otte ne re il ma ssimo imp atto sull’ambiente imme diatamente circosta nte). Ai mo delli line ari, gerarchici e statici si preferiscono modelli olistici, multicentrici, non gerarchici, la metafora della rete contrapposta alla metafora dell’albero. Per lo sviluppo urbano il passaggio è quello dal modello di città centr ale a l mo de llo p ol icen trico e in teg rato (d al l’a rti co lo d i C. Alexander The city is not a tree, 1965) fino all’attuale considerazione della città come rete (Roberts e altri 1999). Nell a teoria architettonica le tecnologi e informatich e consentono una convergenza dei metodi e dei prodotti umani e naturali. Al posto delle forme ideali della geometria euclidea classica, i computer possono emulare le fome ‘inesatte’ (imperfette, simili ma non identiche) che si trovano in natura, ‘geometrie fluido/topologiche’ o ‘frattali’ che si svolgono nel tempo oltre che nello spazio. (“Con l’aiuto dei com puter, oggi possiamo rappresentare frattali (geometria dell’irregola re), onde, curve, ondulazioni, angolature, vortici e altro ancora” El lin, 2001”Slash city” in Lotus 110). L’urbanistica integrale mira ad affrontare la d ispersione e la frammentazione generata dall’uso dell’automobile per mezzo dell’ibridismo e della connettività. “Mira a recuperare il sapere dell’urbanisti ca del passato e ad ad attarlo alle tecnologie e agli stili di vita con temporanei come al paesaggio creato negli ultimi cent’anni “ (Nan Ellin, 2001). Lo spostamento dell’attenzione verso i confini può essere attribuito al declino del pubblico e alla conseguente esaltazione del privato. In un’urbanistica integrale i confini, i limiti e i connettori non si limitano a collegare tra loro destinazioni: collegano ciò che si trova accanto a loro preservandone le rispettive integrità/distinzioni. I confini anzi- ché separatori sono membrane dinamich e attr aver so le q uali a vvengono interazioni e trasformazioni. “In termini ecologici, il limite è sempre il luogo più vivace e ricco perché è lì che gli occupanti e le forze di un sistema si incontrano e interagiscono con quelli di un al tro sistema” dove possono avvenire trasferimenti multidimensionali ed effetti di rete”(Nan Ellin, 2001). In contrasto con una città ipe rpianificata, divisa in zone funzionali, caratterizzata da edi fici isolati collega ti da superstrade, un’urbanistica integrale sottolinea la connessione, la comunicazione e la socialità. Integrare il progetto alla natura, il centro alla periferia, il processo al prodotto, il carattere locale alle forze globali, unisce le persone (au me nta la pa rtecipazion e d ei cittadi ni). L e con ve rgenze (ecologich e, di persone, di attività comme rciali) nello spazio e nel tempo g eneran o nu ovi ib ridi, che a loro volta consentono nuo ve convergenze. Per raggiungere questi obiettivi: - RETI e non confini - RELAZIONI E CONNESSIONI, non oggetti - INTERDIPENDENZA, non indipendenza o dipendenza - COMUNITÀ NATURALI E SOCIALI oltre che individui - TRASPARENZA, non opacità - FLUSSO, non stasi - PERMEABILITÀ, non permanenza - MOVIMENTO DA LUOGO A LUOGO, non stabilità - CONNESSIONE CON LA NATURA, non controllo della natura - CATALIZZATORI, ARMATURE, CORNICI, PUNTEGGIATURA, non prodotti finiti o utopie Rem Koolhaas invoca un’urbanistica che “non sarà basata su ordi ne e o nnipotenza, sarà la messa in sce na de ll’incertezza, non si preoccuperà di organizzare oggetti più o meno permanenti, ma di ir rigare di potenzialità i territori, non configurazio ni stabili, ma crea zione di campi di possibilità”. La questione non è se utlizzare le nuove tecnologie, ma come usarle meglio. Allon tanare la monocultura a favore della policultura, la divisione in zone funzionali a favore di usi misti. Crescente attenzione per la politica locale, le nuove collaborazioni tra professioni e tra queste e l’accademia. La città dei bits di William J. Mitchell “Oggi, la telepresenza estende e a volte sostituisce la presenza fisi ca e, con il progressivo trasferimento degli affari e delle interazioni sociali nel cyberspazio, ci rendiamo conto che l’accessibilità dipen de sempre meno dalla prossimità e che la comunità si distacca sem pre di più dalla geog rafia. Le nostre connessioni in rete stanno di ventando altrettanto importanti delle nostre ubicazioni corporee…” (Mitchell, 1997). Secondo Mitchell per i progettisti e gli urbanisti, il compi to del duemila consiste rà nel costruir e la “bitsfera” , un a mbiente mondiale, mediato elettronicamente, in cui le reti sono ovunque, e la maggior parte dei manufatti “avrà capacità di intelligenza e di telecomunicazione”. La bitsfera si sovrapporrà ai paesaggi agricoli e industriali. La bitsfera del Duemila richiederà un crescente numero di luoghi di incontro, di scambi e di divertimento virtuali per la sua po polazione colle gata . “Come gli a rchi tetti hann o tradiziona mente pr ogettato scuol e, ospedali e altre struttu re d i servizi, per soddisfare i bisogni delle zone circostanti, i progettisti della bitsfera struttureranno i canali, le risorse e le interfacce dei sistemi scolasti ci, educativi e medici per gruppi sempre più estesi”. Forse vi sarà un diritto specializzato del cyberspazio, il contesto avrà confini più am pi, i diritti e doveri cambieranno, le nazioni investiranno in progetti di infrastrutture informatiche nazionali. Gli ideali democratici suggeri scono di assicurare un accesso universale: un servizio a larga banda, conveniente e capillare, a servizio di tutti i cittadini. “Se si tengo no presenti l’uguaglianza delle opportunità e la simmetria della par tecipazione, allora tutte le classi di utenti (e non solo gruppi privile giati e istituzioni) saranno in grado di creare e di ricevere informa zioni; questo significa che l’infrastruttura deve fornire linee digita li bidirezionali e consentire a chiunque di installare un server. Per in coraggiare gli sforzi di sviluppo della comunità e l’iniziativa impren d ito riale , l’in fr astru ttura de ve avere un’ architettu ra aperta; d eve consentire un’ampia gamma di società d’informatica, sviluppatori di software, provider di servizi di rete, fornitori di contenuti e utenti, di produrre e integrare i componenti che ampliano e aggiungono valo re al sistema.” Questa infrastruttura costerà e bisognerà decidere se sarà pubblica o pri va ta . Co sa succe derà all e città? Sopra vvivera nno, come si ad atteranno al cambiamento? “Continuerà a e ssere importante i l luogo dove ci troviamo” e continueremo ad aver bisogno degli altri. “Le città e i paesi probabilmente troveranno occasioni per ristruttu rarsi, raggruppando i luoghi di abitazione, i luoghi di lavoro e i servi zi in quartieri di piccole dimensioni (contemporaneamente urbani e rurali), efficacemente connessi mediante forti legami elettronici con il vasto mondo, ma al tempo stesso valorizzeranno le loro differen ze rispetto agli altri, le loro istituzioni locali, i loro ambienti locali e le lo ro specifi che usanze . La capacità di una comuni tà di colle garsi globalmente può generare rinnovate opportunità per i suoi cittadini (l iberati dal b isog no d i trovare lavo ro e servizi in cen tri urba ni di stanti) di conoscere i propri vicini e di partecipare agli affari locali.” La sfida ma ggiore n ella costruzione della bitsfer a sarà fornire accesso secondo principi di equità sociale, evitando che aumentino i privilegi solo di chi è collegato, emarginando di più gli altri. L’era dell’informazione Il declino delle più tradizionali industrie pesanti ha registrato l’emer genza di ampi spazi abbandonati e la crescente ri duzione dell’impiego e dell’impoverimento sociale. Contrariamente alle iniziali pre visioni, la crescita delle nuove tipologie di industria non ha portato a una migrazi one di ma ssa verso abitazioni in campagna legate d a superstrade elettroniche. Inevitabilmente , l’information technology ha consentito una maggiore flessibilità in termini d i localizzazione, specie per funzioni secondarie, ma ha indotto nuove concentrazioni urbane per attività frontali. I nodi principali dell’attività economica, specie le attività principali sono rimaste all’interno delle città “centri di comando e controllo” dove la comunicazione è più facile (Caslel ls M. (1996). La crescente attenzione per le tecnologie pulite porta a riappropiar si di un ambiente urbano che offre una maggiore qualità dela vita per la maggioranza delle persone, dove la gente vuole vivere. La separazione tra lavoro e abitazione non è più un imperativo, e più stretti legami possono essere trovati tra le diverse componenti di vi ta della città. Attività residenziali, commerciali e di divertimento possono trovare luogo in un unico edificio o stare vicine in una stessa area, consentendo una nuova sinergia tra usi e utenti. L’opzione più sostenibile è quella di concentrare gente, case e lavoro nel cuore delle aree urbane, per ridurre i consumi energetici ed evitare il consumo del territorio agricolo. La “Progettazione Interattiva” La progettazione interattiva coniuga due concetti della progettazione: gli aspetti comunicativi, gli aspetti partecipativi e di condivisione con la possibilità di utilizzare la rete e gli strumenti multimediali per potenziare la comunicazione e la partecipazione. Questo comporta che lo scambio di informazioni tra progettisti ed esperti, ma soprattutto tra progettisti e attori coinvolti nel processo progettuale e cioè amministratori, finanziatori, citta dini interessati, possa avvenire anche nello spazio virtuale e cioè in rete. Ciò comporta un allargamento dei partecipanti al processo progettuale comprese associazioni organizzate e singoli cittadini, in qualche modo investiti dal progetto in questione. L’a sp etto pi ù importan te è la cond ivision e d ell e i nformazio ni in un’area della rete dove possono essere disponibili lo stato dei lavori e le informazioni in continuo aggiornamento da parte dei partecipanti coinvolti con diversi ruoli e responsabilità. La visibilità del progetto in evoluzione dovrebbe essere possibile da parte di coloro che sono coinvolti a diverso titolo e con diverse responsabilità. Anche i singoli cittadini devono avere sulla rete un server, uno spazio a disposizione dove poter inserire osservazioni, idee e, perché no?, anche suggerimenti progettuali. La progettazione interattiva è per definizione “democratica” e incremetale. Incrementale significa che la trasformazione dell’uso dello spazio, e la sua configurazione avviene per interventi che si susseguono nel tempo ma in modo correlato e coerente. La Diagnosi (la mappa della) e la tecnica del Visioning sono strumen ti che consentono questa correlazion e deg li i nter venti incrementali nel tempo. La mappa della Diagnosi, così come è proposta da Alexander, dovrebbe essere elaborata dai cittadini, cioè dalla comunità locale nei Laboratori di quartiere, dovrebbe rappresentare i problemi, espressi dalla comunità e le potenzialità, espresse dai cittadini o loro rappresentanti, con il contributo di tecnici, progettisti, facilitatori locali e amministratori. Questa mappa dovrebbe essere visibile a tutti, nel Laboratorio di Quartiere e anche sulla rete, per coloro che lavorano full time e non possono partecipare alle attività di laboratorio. Questa mappa dovrebbe essere sempre aggiornata. È difficile prefigurare una forma d i questa mappa: potrebbe essere una carta topografica con dei commenti ma anche un ipertesto su rete sempre aggiornabile, potrebbe essere anche il risultato di riunioni periodiche, e anche una conferenza interattiva in rete con esperti che individuano problemi e suggeriscono direzioni da percorrere. Il Visioning è una tecnica che prefigura il futuro in tempi abbastanza lunghi (da venti a trenta anni), consente di chiar ire prob lemi di fondo, cioè quei problemi a lungo raggio, che non svaniscono rapidamente, consente di fare progetti di massima, facilmente comunicabili e facili da capire perché espressi sotto forma di racconto (un tecnico, un cittadino racconta l’area dove vive venti/trenta anni dopo e con l’i mmaginazione “ve de” un futur o possibile). Il Visio ning può essere un racconto ma potrebbe anche essere una simulazione virtuale sotto forma di animazione o di film. Il Visioning potrebbe essere fatto anche da un grande artista e raccontato anche con disegni e forme nello spazio. Il Visioning o i Visioning, dovrebbero essere condivisi o rimanere come prospettive alternative. Il Visioning è utile se riesce a identificare problemi, aree di decisione e proposte, suggerimenti da realizzare nel tempo. La fase dell’identificazione delle aree di decisione e delle proposte può essere affrontato con altri metodi come ad esempio Action planning, EASW,adottato dalla Comunità Europea, o Planning for Real, o Strategic Choice, a seconda della complessità dei problemi da affrontare e della sensibil ità del contesto (p er approfondimenti consul ta il sito we b http://rma c.arch.uniroma3.it/r icer ca/urr3 _it/2_ dinam/2vision/0vision.html Un altro strumento molto importante è il Pattern Language, sviluppato da C.Alexander e altri. Attraverso l’utilizzo del Pattern Language è possibile affrontare il processo progettuale incrementale che tenga conto del contesto l ocale. In teoria tutti possono prog ettare con l’aiuto di un Pattern Language condiviso. Se un gruppo di abitanti o frequentatori abituali di un sito sente la necessità di migliorare uno stato di fatto può avere inizio il processo. Il gruppo di abitanti chiama un gruppo di architetti facilitatori che siano in grado di assisterli. Insieme cerca no di individuare que i “pattern ” o “archetipi” g uida che ca ratterizzano i l contesto e possono aiutar e a risol vere i pr oblemi precedentemente individ uati. Inoltre ogni pattern, descritto con una scheda, presenta dei link a pattern di livello superiore e link a pattern di livello inferiore. Questa indicazione è mo lto importan te perché è necessario garantire la coerenza anche del più piccolo intervento. Quando si progetta (soprattutto se si interviene in un contesto storico con molte stratificazioni), bisogna sempre tener conto della complessità del contesto in questione, senza cadere in facili semplificazioni, e avere coscienza che un intervento incoerente, che non tenga conto dei valo ri locali e delle esigenze profonde di chi ci a bita, può provocare danni all’intero sistema. Occorre avere una grande sensibilità e competenza per identificare i pattern guida, e non è detto che questa sensibi lità si a una car atteristica d egli architetti. Chi non frequenta abitualmente un luogo, difficilmente potrà fare proposte che tengano conto della complessità del contesto e risultino coerenti con esso. D’altra parte è anche difficile capire le esigenze profonde di chi abita e frequenta un’area. Spesso emergono ragioni egoiste e parziali quali esigenze di un numero sempre crescente di parcheggi o fastidi nei confronti di soggetti indesiderati perché “diversi”. Indagare le esigenze profonde significa cercare di capire, di far emergere le esigenze fondamentali, che riguardano l’intera comunità, e che possono diventare una spinta collettiva per raggiungere obiettivi condivisi e che migliorano la qualità della vita di tutti. È molto utile collegare stretta mente il Visioning, la prefigurazione coll ettiva di un futuro possib ile, la Map pa de lla Diagno si, l’analisi puntuale dei problemi e delle potenzialità di un’area e il Pattern Lan guage locale, cioè una lingua locale, costituita da pattern esistenti, pattern nascosti che p otreb bero e ssere migli orati e nuovi pattern che potrebbero collegarsi coerentemente a quelli già presenti. Naturalmente, come osserva Alexan der, bisogn a costruire, se non è già prese nte, la struttur a dei pattern locali, col legandoli coeren temente. La costruzione di nuovi pattern o la messa in evidenza di pattern nascosti deve esser e costruita in coerenza con la struttura di pattern esistente. Queste considerazioni sono particolarmente importanti se si agisce in un contesto con un tessuto storico sedimentato. La produzione di prodotti di qualit à che possono essere c ostruiti in grande quantità La progettazione e la costruzione incrementale, che tengono conto della sedimentazione storica, sono contrarie al concetto di - costruzione per elementi ripetibili per contenere i co sti – del modo di costruire moderno. Per rispettare l’unicità delle comunità e dei contesti d al 196 0 archi te tti come Lucie n Krol l, Joh n Abra ken e Ch ristoph er Ale xande r hann o tentato di sviluppare sistemi attrave rso cui gli individui potrebbero diventare responsabili di progettare i loro stessi alloggi, pe r svilupp are questa unicità nel contesto di u n più ampio sistema collettivo di produzione. In pochi progetti finora si è tentato di progettare con le comunità cercando di rispondere a tutte le loro esigenze. Questi progetti hanno dovuto svilupp arsi all’interno di sistemi esistenti d i proge ttazio ne, produzione e finanziamento. Negli Stati Uniti molti di questi progetti sono sponsorizzati da gruppi locali più che dall’amministrazione governativa. Gli esempi più interessanti (Davis, 1999) sono quelli dove è stato raggiunto il coinvolgimento della maggior parte degli attori. Un esempio interessante è la produzione di case ad opera dell’architetto Michael Pyatok in Oakland nel 1997 (vedi fig. pag 263 - Davis , 1999). Pyatok lavora con organizzazioni produttive, con finanziarie comunitarie, con le comunità, con banche, fondazioni e organizzazioni no profit cercando di ottenere buona qualità con bassi costi. La produzione edilizia automatizzata Un altro aspe tto molto importante del la prod uzion e di qualità che tenga conto delle unicità dei bisogni e dei contesti è rappresentato dalla produzione edilizia automatizzata. I processi controllati dai computer per la realizzazione di prodotti differenti, assemblabili in una linea automatica di produzione, rappresentano una prospettiva che è già stata sperimentata. Corte del Hismen Hin-nu Terrace, una residenza Progettata da M.Pyatok con gli abitanti (1997) forma finale del progetto, al massimo la partecipazione fa emergere gli scenari, le visioni che sono già nella mente dei partecipanti. Non si realizza ancora quell’interazione che trasforma e produce un nuovo progetto. La scuola di Eshin a Tokyo, risultato di una progettazione partecipata Elementi in legno prodotti da una macchina a controllo numerico consentono di ottenere una grande varietà di pezzi personalizzati (1995) Questi processi consentono di avere allo stesso tempo dettagli co struttivi tradizionali e una produzione che varia da edificio ad edifi cio. Questi processi richiedono molto capitale e non possono essere ancora “locali”. Vanno però nella direzione della conformazione in divi duale dell’edi ficio e si r elazionano alle tecniche tra dizio nali. Tutto ciò non rappresenta che una mini ma parte della rivoluzion e informatica preconizzata dai teorici del CAAD degli anni ‘60. L a tecno logi a d ei co mputer potre bbe affrontar e p robl emi mo lto complessi, quelli che “altrimenti non potrebbero essere affrontati”. Il feedback tra mente, mano e oggetto è favorito dall’uso del compu ter. Molto ancora deve essere sperimentato per la visualizzazione, la manipolazione di immagini tridimensionali. Ma oltre gli aspetti visuali esistono altri aspetti relativi alla concezione e alla valutazione de i prodo tti ar chitettonici che non consentono solo di risp armiar e tempo e denaro ma di approfondire il processo progettuale. Nel progetto della scuola di Eshin a Tokyo Alexander e i suoi associati arrivano a realizzare un insediamento che tiene in gran conto una visione architettonica collettiva. Il dibattto con i futuri utenti e committenti è durato 6 mesi e ha coinvolto molte persone: l’amministrazione, i docenti, i familiari, gli studenti, gli esperti di paesaggio, ecc. La discussione ha riguardato non solo gli aspetti misurabili della vita nella scuola, ma anche la forma degli edifici, degli spazi aperti, delle stanze, che potevano essere tradotti in immagini verbali. Queste immagini, raccolte insieme, venivano a formare una visione del progetto che guidava lo sviluppo del progettazione tecnica. Questa visione collettiva garan tiva che ogn uno, coinvolto nel progetto, fosse in grado di vedere le stesse cose e che i vari desiderata degli abitanti si trasformassero in edifici. Una potente visione architettonica, consonante con la vita degli abitanti, costituisce la base mentale (mental framework) di un luogo che guiderà il progetto e la sua realizzazione. Il programma del progetto non è stato affidato, dopo le prime fasi, nell e mani dell’architetto. Il programma è stato realizzato insieme. È stato fatto anche un programma per il progetto del sito. La pianta del progetto è stata collocata con delle bandierine sul sito ste sso. Questo lavoro ha consentito ai partecipanti di immaginare insieme gli edifici sul posto, rispondendo alle esigenze e ai vincoli locali che via, via si incontravano. Que sto processo di programmazione e progettazione sul sito è una variante del processo artigianale, richiede una grande sensibilità e capacità di risposta alle reali esigenze delle persone e del luogo. Nuove prospettive della progettazione interattiva Prospettive di progettazione interattiva a Centocelle Vecchia La proge ttazi one in terattiva incrementa le richiede un mutamento del quadro di riferimento professionale della produzione e delle fonti di finanziamento. Per quanto riguarda gli aspetti professionali il nuovo architetto deve saper utilizzare tutti gli strumenti informatici per avviare un proces so progettuale interattivo partecipativo di tipo incrementale che sap pia coinvolgere, utilizzando tutte le tecniche di simulazione, gli atto ri nel processo progettuale. Per poter rispondere a queste esigenze progettua li devono prevedersi cambiamenti anche nel campo della produzione, i due esempi ch e a bbi amo fatto p rece den te mente il caso di Pya to k e qu ell o dell’unicità dei prodotti edilizi automatizzati possono rispondere meglio ad esigenze locali contestualizzate. Le fonti di finanziamento dovrebbero far riferimento a banche locali, estranee ad interessi globali non trasparenti, facciamo riferimento, ad esempio, alle banche etiche. Un’ottica di sostenibilità a cui fa riferimento l’intero p rocesso progettual e-produttivo richiede infin e un’organizzazione del lavoro fondata sul no-profit. Per quanto riguarda gli aspetti della partecipazione è difficile trova re esempi nei quali la partecipazione abbia inciso veramente nella Per chia rire megli o che cosa i nten do pe r nuove prospettive d ella prog ettazion e in te rattiva farò riferimento al si stema d i strumenti informatici di sostegno alla progettazione partecipata che sono stati utilizzati per la elabora zione del Piano di Recupero a Centocelle Vecchia in corso di svolgimento. In particolare sono state sperimentate forme interattive di progettazione con gli abitanti per arrivare a determinare la loro disponibilità ad intervenire sulle loro abitazioni, sugli spa zi verdi di pertinenza, sugli sp azi pubblici e sulla mobilità utilizzando un processo ciclico di Visioning - Strategic Choice – Pat ter n Langu age. Durante lo svlgimento del processo partecip ativo che è durato due mesi circa sono stati utilizzati i seguenti strumenti informatici: 1. Data base dei lotti minimi di analisi 2. Mappe di visualizzazione dei dati 3. Modello tridimensionale dell ’area considerata pe r studiare l’illuminazione delle facciate nelle varie ore del giorno e nei diversi periodi del’anno. 4. Modelli tridimensiona li d ello stato d i fatto e del progetto come strumento di comunicazione con i partecipanti 5. Data base dei pattern (pattern language locale) 6. Server Web con il progress dell’analisi – aggiornamento dei risultati del gruppo di lavoro – resoconto delle sedute di progettazione partecipata Per sapere di più visita i siti http://www.caad.uniroma3.it/ricerca/urr3_it/2_dinam/1process/00p roces.html) (processo di progettazione e pianificazione strategica) http://www.cityuni.uniroma3.it/9_ProInt/100celle/100CELLDB.html (progettazione partecipata a Centocelle). La ricerca di un pattern language locale – un parallelo impossibile tra Centocelle Vecchia e Portofino Il parallelo nasce dal fatto che in entrambi i contesti è chiaramente identificabile un processo di crescita “spontaneo”, di natu ra incrementale, nel quale è evidente la partecipazione degli abitanti nella configurazione della forma urbana (vedi Cenni storici dell’Album n.1 della Relazione di concorso di Ce ntocelle Vecchia, pe r quanto riguarda Po rtofino si vedano gli scr itti sul sito web www.arch.uniroma3.it). La scelta di Portofino come termine di paragone può essere illuminante. Portofino è all’interno di una rete globale del turismo d’élite, sono presenti pochi ma famosissimi alberghi, ristoranti e bar rinomati, l e vetr ine de lle firme pi ù quotate a livello mondi ale, ville abitate dalle persone tra le più note a livello internazionale, natanti di lusso, navi da crocier a, provenienti da tutte l e parti del mondo, ecc. Per le famiglie importanti, italiane e straniere che hanno abitato le ville sulle colline che circondano il borgo dagli anni ’30 e in qualche modo l’hanno protetto anche se per fini personali (cercare di conservarlo come luogo esclusivo), Portofino non è più lo stesso, “non è più nostro” p arafrasava un’a ntica (si defini sce un’e xtrater restre d i più di cent’anni) ma sempre giovane signora tedesca sbarcata a Portofino prima dell’ultima guerra e li rimasta fino ad oggi. Oggi tutti vengono a Portofino, d’estate sempre e d’inverno nei fine settimana. Oggi Portofino è anche meta di un turismo di massa, anche se per poche ore. Portofino ha ancora il suo Monte, quasi intatto, un miracolo botanico, protetto dall’Ente Parco del ’35 (vedi storia del Parco nel sito web sopra citato) e un mare, forse più compromesso, protetto adesso, almeno nelle intenzioni dichiarate, da un Ente Parco Marino. Portofino offre però molto di più per chi sa viverlo e guardarlo con attenzione. Io sono di quelle parti, mio nonno era un navigatore e un piccolo armatore camogliese, mio padre ha navigato come comandante nel periodo tra le due guerre mon diali e d ha amato mol to il Monte di Portofino (vedi le sue memorie in corso di pubblicazione). Io sono a metà romana e a metà ligure, mia nonna è nata in una casa che io vedo dalle mie finestre a Portofino. La casa (forse sarebbe meglio dire il palazzo) dove si trova il mio piccolo appartamento era di proprietà dei miei bisnonni e trisavoli materni. Posso quindi parlare come se fossi un a “locale”, un’indi gena, anch e se d’inverno ho sempre vissuto a Roma. Stare a Portofino è come avere un’esperienza diretta dei pattern. Si possono studiare i pattern esistenti, cercare di applicarli dove la crescita organica si è arrestata o alterata, proporre nuovi pattern più attuali, ecc. La scoperta del Pattern Language di Portofino può essere fatta gradualmente, io consiglio di iniziare dalla Salita S.Giorgio (vd. allegato A). Ai corsisti del Master PISM (Intensive Civic Workshop a Portofino) noi proponiamo questo esercizio: sulla base dei 250 pattern elaborati da Alexander 1. Individuare i pattern nel Borgo di Portofino e utilizzarne alcuni per pro getta re l a r iqual ifi cazio ne d i P iazza del la L ibertà (FERMA TA DEL L’A UTO BUS (92 ), S TRA DA P EDONAL E (10 0), PICCOLE AREE DI PARCHEGGIO (103 ), PO RTICI, P ERCO RS I E METE (120), FORMA DEL PERCORSO (121), PICCOLE ATTIVITÀ (124) ANGOLI ASSOLATI (161), PUNTI DI SOSTA, MURETTO PER SEDERSI( 243), PERCORSO PERGOL ATO (1 74), P ENDII A TE RRAZZA (169) , STRUTTURA CHE RIS PECCHIA GLI SPAZI SOCIALI (205), SPAZIO ESTERNO POSITIVO (106), MATERIALI DI BUONA QUALITÀ (207), PICCOLE SEDUTE (241), AIUOLE PROTETTE (245), RAMPICANTI ( 246), PAVIMENTI CON FESSURE TRA LE PIE TRE – Risseu - (247), COLORI CALDI (250) , VIS TA ZEN (134), ecc) . 2. Individuare il pattern che meglio corrisponde complessivamente all’og getto che si ha in mente di progettar e. Questo è il patter n di partenza o pattern-guida. 3. Tornare al pattern di partenza e leggerlo. I pattern riportati all’inizio ed alla fine della descrizione del pattern considerato (vedi Schede dei pattern nell’allegato B) sono dei candidati potenziali del linguaggio. Quelli elencati all’inizio riguarderanno in genere una scala più alta di quella del progetto. Non non vanno inclusi nell’elenco, a meno che non si abbia la possibilità di contribuire a realizzare questi pattern, quantomeno per una piccola parte, nelle zone più vicine a quelle del vostro progetto. Quelli elencati alla fine si riferiscono alle scale inferiori. Questi pattern sono tutti importanti: bisogna inclu- La scuola di Eshin a Tokyo derl i tutti, a meno che non si abbia qualche motivo particolare p er non volerli includere 4. Se si è in dubbio circa un pattern, è meglio non includerlo. La lista potrebbe diventare troppo lunga e dunque caotica. L’elenco sarà di per sé alquanto lungo, anche se includono soltanto i pattern che in teressano maggiormente. 5. Se ci sono cose che si vuole includere nel progetto ma che non sono state trovate nei pattern, è bene annotarle in un punto appro priato de lla sequenza, vicino ai pattern che riguardano cose all’ incirca della stessa dimensione ed importanza. 6. Se si vuole cambiare qualche pattern, ovviamente è bene cambiarlo. Ci sono spesso dei casi in cui si vorrebbe una versione per sonale, più realistica e più adatta del pattern considerato. In questo caso è bene esercitare il massimo del “potere” sul linguaggio, ren de ndolo p ersona le, apportando le ne cessar ie modifiche nei punti più appropriati della sua descrizione. Queste modifiche saranno più chiare ed evidenti se si cambierà anche il nome del pattern. Durante la scuola estiva a Portofino nel 2000 e 2001 nell’ambito del corso di perfezionamento PISM sono stati elaborati due progetti sulla ristrutturazione di P.zza della Libertà basati sull’applicazione del Pattern Language. A Centocelle il problema è diverso ma concettualmente non così distante. Anche a Centocelle c’è stato un processo di crescita incre mentale (vedi quaderni del Concorso Inu-WWF “Alla luce del sole”Relazione storica). Anche nel caso di Centocelle bisogna identificare il linguaggio d ei pa ttern lo cale, i dentificare i pattern esistenti, quelli compromessi, quelli nuovi che potrebbero essere introdotti. Il tipo di insediamento è quello di un quartiere a villini e a palazzine a bassa densità con molto verde. I pattern da identificare prioritaria mente sono quelli a livello di quartiere. Il carattere di quartiere verde ggiante a bassa de nsità va conserva to. L a ristruttura zio ne de l Parco di Centocelle vicino, le future stazioni della Metro a Piazzale Mirti e in via Casilina, davanti al Parco renderà sempre più appetibi le questo quartiere. L’eventu ale demolizione e sostituzione dovr à conservare le tipologie tradizionali a schiera e a villino con il verde i ntorno . Il r appo rto con la strada pa ssa attraverso un muretto e un’i nferriata. Il marciapied e, dove sarà possibile, d ovrà essere a lberato possibilmente con piante di limoni o alberi profumati. Bibliografia 1. Alexander C e altri (1976), A Pattern Language, Oxford Press 2. Caslells M. (1996) The Information Age: economy, society and culture 3. Davis H. (1999), The Culture of Buildings, Oxford University Press 4. Friedman Z., ed., “Model making: A model of practice”, Progressive Architecture , May 1995, 78-83 5. Herzog T.(2001), Catalogo della mostra di Prestel 6. Irace F. (2001), Dimenticare Vitruvio, il Sole 24ORE, Milano 7. LeCuyer A., “Bui lding Bilbao”, Arc hitec tural Review 202, no.1210 (dec.1997) 8. McCullough M. (1996), Abstrac ting Craft:T he practiced Digital hand, Cambridge MIT Press 9. Mitchell W.J. (1997), La città dei bits, Electa, Milano 10. Negroponte N. (1995), Essere digitali, Sperling&Kupfer editori, Milano 11. Rheingold H. (1994), Comunità virtuali, Sperling and Kupfer 12. Slessor C., “Atlantic star”, Architectural Review 202, no.1210 (dec.1997) ALLEGATO A (E. Mortola “L’architetto ha bisogno della rete?) Ese mpi o di una seq ue nza d i p atte rn : l a Sa li ta S .Gi or gi o a Portofino Per applicare il linguaggio dei pattern a una situazione reale bisogna innanzi tutti costruire il linguaggio dei pattern locale, che può essere ancora vivo all’interno della comunità quale patrimonio di alcune persone o di tutta la comunità. Nel caso di Portofino, costruito probabilmente dagli abitanti locali, prevale ntemente pescatori, la teoria del pattern lan guage trova una materializzazione molto efficace. Per secoli gli abitanti di Portofino hanno continuato il processo di progettazione/costruzione incrementale, mantenendo un carattere unitario e costante nel tempo che dipende fondamentalmente dall’ integra zi one con il contesto n aturale , dal l’uso di materia li locali (principalmente ardesia e pietra locale) e dall’uso delle “facciate dipinte” che in Liguria hanno cominciato a diffondersi a partire dal XVI sec.1. Nella Salita S.Giorgio il processo di progetta zione incrementale ha continuato anche nel XX sec. Nel suo aspetto attuale la Salita rappresenta un buon esempio di sequenza di pattern. Il patternguida è rappresentato da PERCORSI E METE (120). La meta princi pale del percorso (il motivo pe r cui è stato costruito nella seconda metà del XVII sec.) è la Chiesa di S.Giorgi o A ll’inizio della Salita incontriamo un certo numero di pattern sovrapposti e integrati che creano un piccolo spazio molto accogliente e gradevole, uno spazio di interfaccia tra lo spazio pubblico della Piazza dei Martiri dell’Olivetta e le singole abitazioni. I pattern identificabili sono FAMIGLIA DI INGRESSI , PICCOLE ATTIVITÀ, FORMA DEL PERCORSO, TERRAZZE PRIVATE, GIARDINO SEMINASCOSTO, PICCOLI NEGOZI ALIMENTARI, NEGOZI DI UN SINGOL O PRO PRIETA RIO, GRADINI PE R S EDERS I, P ARETI VERDI, PAVIMENTO PERMEABILE IN PIETRA (risseu), MERCI SULLA STRADA. Questo insieme di pattern rappresenta la prima META del percorso oppure la PORTA del percorso, una specie di strettoia ricavata tra le pareti delle case e la parete di puddinga. Proseguendo per pochi metri in salita incontriamo un’altra serie di pattern FAMIGLIA DI INGRESSI, PARETE VERDE, FORMA DEL PERCORS O, PAV IMENTAZIONE PE RMEAB ILE IN P IETRA (acciottolato, lastre e mattoni)2 , PARETI DIPINTE. Proseguendo il percorso in salita incontriamo un altro slargo con una pavimentazione più ricca (risseu decorato) che preannuncia un’altra me ta, un altr o a ggregato di pattern molto inte ressante PUNTO IN ALTO, ACCESS O VISIVO A L MARE, MURETTO PER SEDERSI, LUOGO SACRO (piccol o monumen to ai caduti della I guerra mondiale), PENDII A TERRAZZE, oltre naturalmente PAV IMENTAZIONE PE RMEABILE IN PIETRA (acciottola to, lastre e mattoni) e FORMA DEL PERCORSO. Questa meta rappresenta il punto di transizione tra la zona abitata e un’area più naturalistica. Continua il percorso con la sua forma sinuosa costeggiato sulla sinistra da un parco-museo delle sculture all’aperto, che rappre- Portofino: processione del Corpus Domini (1870) senta un’altra meta. POSTO IN ALTO e ACCESSO VISIVO AL MARE filtrato dal verde accompagnano il percorso fino alla meta più ricca e importante: LUOGO SACRO (la piazza che fronteggia la chiesa di S.Giorgio e la chiesa stessa) STANZE PUBBLICHE ALL’APERTO con doppio affaccio sul mare, POSTO AL SOLE, MURETTI PER SEDERSI, POSTO IN ALTO, ACCESSO VISIVO AL MARE, PAV IMENTAZIONE IN PIETRA (ri sseu d ecorato) , PARETI IN PIETRA, PARETI DIPINTE. Un altro LUOGO SACRO, il bellissimo cimitero sul mare conclude il percorso. Elenco dei pattern considerati o PERCORSI E METE(120) (pattern guida) o Luogo sacro (24) o Accesso all’acqua (25) o Graduazione di spazi pubblico-privati (36) o Aree verdi accessibili (60) o Stanza pubblica all’aperto (69) o Cimiteri (70) o Acque tranquille (71) o Negozi di un singolo proprietario (87) o Piccoli negozi alimentari (89) o Complesso di edifici (95) o Famiglia di ingressi (102) o Spazio esterno godibile (106) o Illuminazione naturale degli edifici (107) o Giardino seminascosto (111) o Forma dei percorsi (121), o Fronti degli edifici () o Piccole attività (124) o Gradini per sedersi (125) o Sequenza di spazi di seduta (142) o Pendii a terrazze (169) o Giardino selvatico (172) o Parete giardino / verde (173) o Percorso pergolato (174) o Panca nel giardino (176) o Orto (177) o Sedute (241) o Pavimentazioni con fessure tra le pietre(247) o Colori caldi (250) Note 1 Le tracce di quadrifore medioevali sulla palazzata di Portofino inducono a datare la parte porticata almeno ai secoli XII e XIII (vedi il Palazzo dei Fiesc hi a S. Salvatore vicino a Lavagna. L’edificio fu costruito nel XIII secolo e la misurata composizione della facciata si avvale del positivo apporto di due magistrali quadrifore). La soluzione delle facciate dipinte è posteriore ed inizia non prima del XVI sec. Questa soluzione di facciate dipinte è quella che caratterizza la Portofino attuale e viene descritta dalle foto del 1870 di A. Noack. Un’idea di come doveva essere Portofino nel XVIII secolo la dà un disegno dello stesso periodo di S.Margherita lig. (Archivio di Stato di Genova). Una palazzata costituita da tipi di due piani sopra un ampio porticato. 2 Sulla base della carta del Marengo del 1794 la Salita era una cordonata. Workshop a Portofino (2000) Una sequenza di pattern (Salita S.Giorgio a Portofino) Inizio del percorso (a) In mezzo al percorso (b) La fine del percorso (c) Mappa del Marengo del 1792 ALLEGATO B (E. Mortola “L’architetto ha bisogno della rete?) Portofino prima della costruzione della strada (1870) Veduta di Portofino secondo Kandinsky (1906) TEATRINO di PORTOFINO 12 aprile 2001 VISIONING (Portofino 15 aprile del 2020) “A ncora l’a cqua alta, Po rtofino come Venezia!” osserva Chiar a g uar dan do d all a fine str a che affaccia su l por to. Qua ndo c’ è l’acqua alta non può uscire sul molo. Qualche anno fa aveva suggerito in una riunione di laboratorio al Teatr ino di realizzar e una scaletta esterna per uscire sul vico lo Ba rbagela ta. Do vrà ri fare l a p roposta , l’acqua alta si presenta troppo spesso . Da qualche anno il livello del mare si è alzato di circa dieci centimetri e quando viene il libeccio l’acqua sommerge i due moli e pa rte dei portici. Se l’acqua alta dura per qualch e gi orno vengono messe del le pedane di le gno, p roprio come a Venezia. Il laboratorio a Portofino funziona così: i singoli cittadini fanno le loro proposte che vengono discusse dai diretti interessati e da un architetto dell’Ufficio Tecnico. Le proposte sulle quali si raggiunge un accordo vengono portate in Consiglio Comunale, discusse ed eventualmente finanziate. In seno al laboratorio sono state stud iate con a lcuni te cn ici lo ca li pr otezio ni stagn e da coll ocar e davanti ai portoni e ai negozi per evitare che l’acqua entri. Quando l’acqua abbandona il molo il Borgo si anima di nuovo. Per fortuna Portofino ha perso quel carattere di paese finto da jet set ed è diventato più vero. Due grandi eventi lo hanno reso più appetibile d’inverno. Molti preferiscono svernare al mare per evitare l’inquinamento da gas e polveri che soffoca le grandi città. Sono aumentati i rischi ecologici. Un’inchiesta sull’aumento dei casi di cancro ai polmoni e al siste ma immunitario ha convinto i più ad abba ndonare l e metropoli per buona parte dell’inverno. L ’altro evento è l’aumento del telel avo ro. A lcu ni professi onisti han no p reso l’abitudine di passare un paio di mesi a Portofin o lavorando al computer o in teleconferenza. Le case che in inver no vent’anni fa rimanevano tristemente vuote vengono ora affittate per qualche settimana o per qualche mese a studiosi e profes sionisti. Una agenzia immobiliare specializzata in questo settore ha avuto molto successo, grazi e a nche ag li ince ntivi fiscali a fa vore de i pr oprietari. Sono cresciuti i bar con posti a sedere al coperto, sempre molto animati. Il castello Brown, dopo il restauro, è diventato sede di rappresen tanza dell ’area pr ote tta ma rina, e anche un importante ce ntr o co ngr essi, so pra ttu tto gra zi e al l’u so pub bli co del l’a sce nsor e costruito a suo tempo per le vicine ville private. La tristemente famosa villa Al tachiara è diventata un centr o d i ricerche marine con studiosi che vengono da tutto il mondo. Ma il grande cambiamento è avvenuto con il nuovo piano del traffico. La meravigliosa costiera è ora solo percorsa da piccoli bus elettrici, taxi, taxi-bu s, b iciclette, carrozzelle e soprattutto da pedoni, Portofino (1903) finalmente sicuri e tranquilli perché non si possono superare i 25 km/h. Santa Margherita è anche raggiungibile con taxi boat da sei posti con motori elettrici. Il parche ggio serve solo i residenti e i commercianti che possono entrare e uscire solo a orari prestabiliti. La sede del Comune è ritornata al suo posto ed è più accessibile grazie ad una piccola cremagliera vicino al baretto. La zon a d el Fonda co è cambia ta radi calmente dopo il fa moso bando di concorso internazionale . È cambiata anche l’ex piazza del parchegg io, ogg i p iena di portici, di verde , di persone che chiacchierano sedute vicino ai chioschi di giornali , pubblicazioni multimediali e articoli vari. Il “vico drito” è pieno di negozietti artigian i dell ’arde si a, d ei modell i di bar ch e, de i pizzi al tomb olo. Inoltre, c’è anche un vero mercato di frutta e verdura con bancarelle il mercoledì mattina. Pr ima di mezzo gi or no , a ro tazi o ne , mo l ti si a ffacci a no a l Teatrino, sede del laboratorio, dove stanno discutendo due gruppi di lavoro: il primo affronta il problema degli incentivi per l’ulteriore riduzione dei rifiuti. È ormai diffuso il compostaggio nelle ville e ci son o al cuni centri di raccolta del vetro, della ca rta, protetti dal verde ch e vengo no svuotati p eri odi ca me nte. Ogg i si discute come riciclare i rifiuti or ganici. Il secondo gr uppo discute sulla proposta di realizzare un impianto di fitodepurazione delle acque piovane e grigie nell’area del fondaco. “Non si può continuare a sprecare l’acqua potabile!”, osserva Giorgio, l’ecologo, che lavora al centro di ricerche marine e vive ormai da due anni a Portofino con la sua famiglia. Ne l pomeri ggio ci sarà un a riun ione p er discutere con al cu ni esperti del settore la possibilità di realizzare un manuale sull’uso dei materiali, dei colori e delle decorazioni delle facciate e delle tecniche edilizie tradi zionali per sen sibilizzare maggiormen te gli utenti. È l’ora del tramonto, l’ora più struggente per Portofino. I bar sono pieni di giovani e non più giovani che parlano dei loro studi e dei loro progetti. Si sente parlare dei coralli che crescono, dei delfini che sono tornati in massa e dei loro segreti modi di comunicare e .......ancora dell’acqua alta. (EM) Antica mappa di Portofino Comunità virtuali, agire collettivo e media-ambiente Marco Nardini [email protected] Il nostro modo di vedere le cose è influenzato da ciò che sappiamo e crediamo, ed è evidente che il punto di vista sui rapporti tra reale e virtuale è molto cambiato negli ultimi cento anni. Nella cultura scientifica e tecnologica i concetti di materiale e immateriale sono andati progressivamente mutando. Così l’insorgere della consapevolezza non solo di “abitare” in una comunità virtuale “...ma anche che la comunità virtuale abita nella nostra vita...” (Howard Rheingold, Comunità virtuali, 1994) ha condotto alla formulazione di un concetto evolutivo di comunità, unita da interessi comuni (non solo istituzionali o territoriali) e da una visione individuale e collettiva del mondo mediata dal virtuale. Questa nuova consapevolezza non poteva non influenzare i comportamenti, le forme, i “modi di produzione” dell’architettura, oltre che il suo linguaggio. Partendo da questa riflessione anche il concetto di partecipazione, forse, necessita di essere esplicitato rispetto alla n ozione di glocality, rapporto tra dimensione locale e sfera globale, che ricollochi le forme dell’agire collettivo all’interno della fenomenologia complessa del networking. A. Cosa c’è di nuovo nella comunità La diffusione di nuove forme ed in generale di un concetto evolutivo di comunità ci porta a fare alcune riflessioni sul significato di questo termine. Intanto chiariamo alcune diffe renze evidenti tra comunità reali e virtuali. Nel cyber-spazio abbiamo la sensazione e la percezione di un mondo più esteso. Questo spazio è anche più aperto e meno vincolato. A differenza di una comunità reale, radicata per lo più in un luogo, la comunità virtuale si radica soprattutto nelle idee e negli interessi che porta avanti. Senza voler esprimere a tutti i costi un giudizio di valore si può dire che il cyber-spazio ci abitua ad una nozione di spazio concettuale vissuto come luogo. Una comunità virtuale è dunque una comunità a tutti gli effetti; peraltro piuttosto eterogenea (in alcuni casi meno omogenea di una reale). É motivata ad aiutarsi reciprocamente e in essa le differenze di luogo, di tempo (e di status sociale) sono in parte compensate dalla telematica. Tuttavia richiede un certo grado di accettazione della diversità proprio perché la mediazione operata dalla tecnologia non si preoccupa di distillare gli aspetti superficiali, diciamo percettivi, della contiguità. Uno dei ruoli primari de lla comunità è quello di fare da filtro, per i suoi membri, all’eccesso d’informazioni. Pierre Levy afferma che questo tipo di co munità ri sente meno dei fattori di territorialità ed è meno condizionata d alle istituzio ni (Pierre Levy, Il virtuale, 199 7). Si potrebbe dire che il fatto di poter esistere, senza esserci fisicamente, permette di ampliare il concetto di comunità. Una siffatta comunità, proprio per le sue specificità orizzontali, può esercitare un certo peso decisionale non solo localmente ma anche a livello globale. B. Caratteri delle comunità virtuali S pieg hiamoci me glio con deg li esempi. Un ca so in te ressante è que llo delle comunità di consumatori-ci ttadini ( citizenship) che, i n particolare negli Stati Uniti, esercitano un peso decisionale notevo le, sopratutto nella denuncia di episodi concreti a danno dei consu matori, per i quali rivendicano (spesso anche in sede legale) i diritti violati sia del singolo che della comunità. Oppure nella formulazione d’indirizzo genera le riguar do alle politiche su temi rico nducibil i agli interessi del cittadino (sofisticazione degli alimenti, sicurezza, qualità dei servizi offerti, trasparenza e quant’altro). Queste comu n ità, un ite da un intere sse comune che va a l di là, o vvia me nte, d ell’ambito locale (visto che numerosi p roble mi possono esser e ampiamente condivisi), si avvalgono e si sono avvantaggiate delle opportunità di contatto offerte dalla rete al fine di fornire l’assistenza e il confronto di tutta la comunità con ogni singolo soggetto. Si tratta della cosiddetta sussidiarietà orizzontale, che è una caratteristica ti pica di una comunità virtuale. In questo modo, forse meglio che in una comunità reale, si riesce ad instaurare un dialogo aperto e pro positivo. Le comunità di consumatori sono un esempio interessante anche perché la definizione dell’ambito d’interesse è molto variabi le. Il consumatore-cittadino in effetti è un’entità complessa che può interessarsi di o.g.m., d i inquina mento atmo sferico, d i problemi d i traffico, di questioni legate al lavoro, alla salute, alla vita del proprio qu arti ere ( città, te rrito rio). E può far lo in varie forme: di scutendo, elaborando proposte, fornendo consulenze, suggerendo esperien ze; senza vincoli di tempo e di luogo. Può farlo, come comunità, a tutto vantaggio del soggetto che ha sempre a che fare con un mo dello customizzato (cioè adattato) sulle sue proprie esigenze e ne cessità. Inoltr e una co munità del ge nere pu ò esse re un referente per la global policy, proprio perché la sua articolazione può portare pareri qualificati in una data materia. Un altro caso interessante è quello del file shari ng lanciato da Napster: il sistema di condivisione di brani musicali inventato tre anni fa e diventato u n fenomeno di dimensioni gigan tesche. Og gi, dop o l’oscuramento avvenuto nel giugno 2001, i “successori” di Napster viaggiano su un numero di tre milioni di utenti al giorno che comunicano, scambiano, dialogano. La diffusione della musica tramite internet ha modificato, su scala planetaria, le modalità di condivisione di questo tipo di informazioni, dando un contributo alla revisione, tuttora in atto, delle forme di protezione del diritto d’autore e della proprietà intellettuale. Nei fatti la possibilità reale di controllo (e dominio), ad esempio, da parte delle majors discografiche si è dimostrata assai limitata se, come è avvenuto, anche dopo l’oscuramento di Napster il fenomeno di file sharing (la condivisione di file) non si è fermato ne si è ridimensionato ma anzi, ha portato alla diffusione di nuovi servizi, non solo nel campo musicale ma anche, ad esempio, nel settore cinematografico, con la possibilità di scaricare film gratis o con costi estremamente bassi. É chiaro che la comunità di musicofili, con la semplice esistenza e con l’attività di condivisione esercita un “peso” nelle scelte politico-economiche del settore. É diventata, in qualche modo, un referente con cui fare i conti. Da questo punto di vista si deve considerare che il successo di Napster è legato anche all’efficacia e semplicità del sistema software che lo gestiva. In realtà questo problema, quello dell’efficacia, ergonomicità e funzionalità del sistema, nel le comunità virtuali, rappresenta un fattore fondamentale per i l successo o meno dell’attività di scambio e di condivisione. Questo ci introduce ad un altro fenomeno interessante, in qualche modo legato al file sharing e alle comunità virtuali. Quello dei sistemi so ftwar e open source , cioè di quei siste mi “liberi” da costi e licenze e “aperti” alle modifiche perché i sorgenti dei programmi sono di pubblico dominio. Questi sistemi si sono diffusi in modo capillare e rapido in tutta la rete, creando numerose comunità di realizzatori di soluzioni software in ambienti aperti. Lo stesso Napster, in effetti, è un sistema nato grazie a software o.s. (open source), ma se ne potrebbero citare anche di più “importanti” come il sistema operativo LINUX, o il recente LINDOWS (incrocio tra Linux e Windows). La filosofia delle comunità open source è quella di dare accesso libero ai sorgenti dei software, permettendo agli sviluppatori d’inventare nuove a pplicazioni. É quello che è successo con inter net: se l’html o java non fossero stati pacchetti open source probabilmente il web non si sarebbe diffuso come ha fatto. Creando una polarizzazione sui servizi per gli utenti, invece che sulle applicazioni software a pagamento. Quell o che vo glio dire è che, indubb iamente, qual che contenuto nuovo è riconoscibile in queste forme di comunità. Andando oltre la generica critica alla prevalenza dell’individualismo o l’obiezione sul fatto che questo genere di comunità, essendo piuttosto omogenee, abbiano una scarsa dinamica interna e tendano quindi ad essere autoreferenziali (Tomas Maldonado, Critica della ragione informatica, 1997). Questo è vero solo in parte, e non considera il fatto che tali comunità non formano un sistema chiuso (come spesso accade nelle comunità reali), ma sono parte di una collettività rappresentata dalla rete nel suo complesso. Caratterizzata dal segno dell’accogli enza ri spetto al sogg etto, e che p resen ta u n co ntin uo rin vio dell’uno agli altri in un percorso che non è mai chiuso in se stesso. Come architetti siamo portati a trascurare i fenomeni finora delineati, ma studiando il significato, la forma e le caratteristiche delle comunità che usano la rete per diffondere culture, legami, informazioni, possiamo forse imparare qualcosa di utile anche per la nostra disciplina: possiamo sintetizzarlo in tre punti fondamentali: - La sussidiarietà orizzontale, cioè la possibilità di mettere a disposizione di ogni soggetto le conoscenze della comunità, senza limiti gerarchici e su una base paritaria; - Una tendenza ad essere referenti per le politiche globali, in un certo settore, la cosiddetta global policy; - L’adattabilità del modello alle diverse esigenze, espresse sia singolarmente sia collettivamente. C. Qualcosa cambia nell’agire collettivo I comportamenti, in particolare quelli sociali, sono in continua modificazione, ed è molto difficile riportarli a una struttura logica determinata (o pre-determinata) senza cadere in contraddizioni e semplificazioni. Riflettiamo sul fatto che le forme dell’agire collettivo, come si è visto anche da quanto finora esposto, non sono un dato statico. In un certo senso questo vuol dire che anche il concetto di ambiente (il luogo dell’azione) si sta modificando, sotto la spinta di una tecnologia che si “cellularizza” sempre più, in modo rapido e continuo. In un certo senso sono le modalità d’uso che cambiano e, con esse, i concetti di op portunità, di utilità e di valore estetico. La domanda che ci si pone è se vi siano delle differenze, negli aspetti salienti che contraddistinguono l’agire collettivo, oggi rispetto a ieri e di che genere siano. Il centro del problema sembra proprio riguardare, nel nuovo rapporto tra località e comunità globali, il diffondersi delle conoscenze e il modo di condividerle. Proprio grazie alle nuove forme di comunicazione alcune qualità diminuiscono d’importanza ed assumono maggior significato altri valori strategici: in primo luogo quelli rigurdanti la condivisione. La possibilità di condividere conoscenze è un fattore molto importante (più importante che nel passato) per l’agire collettivo, anche perché la mole delle informazioni che circolano è molto maggiore ed è in continua evoluzione. Si è calcolato, ad esempio, che esistono attualmente, nel web, 600 miliardi di “pagine”. Seicento miliardi è un numero davvero enorme e se non ci fossero dei modi per setacciare le informazioni si potrebbero passare milioni di anni a cercare a ca sa ccio (come sann o b ene alcuni navigator i). In qualche modo l’opera di condivisione costituisce di per se un filtro; uno dei più apprezzati e richiesti perchè molto attendibile. Spingendosi un po’ oltre nel ragionamento un aspetto, che coinvolge la comunità radicata nel territorio, è il fatto di essere messa in discussione rispetto alla validità e fungibilità dell’azione di condivisione che spesso è chiamata ad avere. Non è detto, infatti, che le conoscenze ricerca te si ano disp onibili in locale; ma è invece molto probabile, visti i numeri, che lo siano nella rete globale. In certe situazioni il pote r far appello ad i nformazioni, avverte nze, o pinioni, “altre”, rispetto all’ambito locale, è un fattore fondamentale; che permette di superare limiti concettuali e pratici vissuti all’interno delle comunità radicate nei luoghi. É per questa molla, tra l’altro, che così tante persone adeririscono a comunità virtuali. Dove la percezione “locale” è inadeguata e, in certi casi, oppositiva, la co muni tà ampliata può consentire una ma ggiore orizzontalità, una più grande apertura, un a minore ghettizzazione del le opinioni diverse dalla “doxa”. Inoltre le comunità globali esercitano un “peso” notevole nella mod ifica de i comportamenti, a nche risp etto all ’ambiente cond iviso. Ambiente che richiede, p er essere r ealizzato, il massimo possibile di democraticità e un forte coinvolgimento degli utenti che ne diventano “diretti produttori”. Bisogna chiedersi, a questo punto, chi sono gli utenti. Se sono coloro che fisicamente risiedono in una data area o coloro che condividono e utilizzano (o intendono utilizzare) un dato ambiente, fisico o virtuale che sia, rendendolo, con la loro esperienza, più ricco, interessante utile alla collettività. C’è un esempio di questo concetto di utenza, abbastanza interessante e recente. In alcuni paesi del mondo esistono precise restrizioni all’accesso ad internet. L’ingresso a molti siti è bloccato da sistemi di protezione istallati sui provider (i computer che danno accesso alla rete ). Na tura lmen te ad essere ce nsura ti so no i siti dei gruppi d’opposizione o le agenzie indipendenti d’informazione. Per evitare queste limitazioni la AAAS (American association for the advancement of science) ha proposto di adottare un programma (chiamato, oppo rtunamente, pe eka booty, ci oè “sb ircia i l tesoro” ) che permette di aggirare il problema, su un modello simile alla condivisione dei file di Napster. Ora la domanda è: qual’è la comunità che detiene le gittimamante l’au torità in questo settore, quella politicosociale, localizzata, che impone una censura o quella virtuale che l’aggira per accedere alle informazioni che sono disponibili. Lascio aperto l’interrogativo all’opinione di ciascuno. D. La comunità internalizzata nella vita Non si può negare che tutti, perlomeno tutti coloro che utilizzano internet (inviano mail, navigano nel web, scaricano programmi) siano parte di una comuni tà. Questa comunità possiede molte caratteristiche discor di, come si è visto, rispetto alle comunità tradizio nali. Ha, inoltre, un carattere di opportunità particolare proprio perché, in primo luogo, collega (cioè congiunge e mette in relazione) milioni di persone diverse, che si trovano in luoghi diversi e possiedono culture diver se. Oltre alla n ecessi tà, ovvia e irrinunciabile, di garantire un’accessibilità ad un numero sempre maggiore di persone (evitan- do limitazioni dovute a fattori religiosi, politici, economici) va sottoli neato come la presenza di tecnologie aiuta ad evitare lo scontro di retto, perché possono diffondersi valori etici rispetto a valori pur amente materiali e perché il confronto delle culture è il principale fat tore evolutivo della società . Se non prevalessero le ragioni di un o sviluppo condiviso, e condivisibile, potrebbero assumere preminen za valori oggi ritenuti negativi, come ad esempio la forza come fat tore di superiorità. I cambiamenti di comportamento nelle strutture sociali creano, poi, nuovi referenti che “rappresentano”, anche con le loro azioni, la co munità globale nell’ambito locale. Queste “potenzialità” della tel ematica au torizzano a pensare che il ce ntro della vita dell’individ uo sarà, in futuro, sempre di più l’informazione e la comunicazi one. Non solo nel senso che la necessità di nuove conoscenze crescerà sempre di più (creando, in chi non può accedere alle informazioni, un senso di spaesamento e di emarginazione, dividendo la società in “ricchi” e “poveri” d’informazione) ma anche perché la valorizzazion e de lle si ngole esperi enze, rispetto alla co mun ità, costituir à sempre di più un valore sociale per l’individuo. Le persone che han no informazioni sono più interessanti delle sole informazioni. Sono persone diverse da quelle frequentate nella realtà quotidiana e per questo abituano ad un atteggiamento più disponibile nei confronti deg li altri; renden do l’ind ividuo più aperto alle diversità e più con centrato su aspetti non solo esteriori degli altri. Le comunità virtuali sono nuclei sociali che sviluppano, nei loro membri, comportamen ti differenziati rispetto ai comportamenti sociali dominanti che si rea lizzano nella comunità reale. Nel processo di acquisizione, dall’esterno, di dati e riferiementi, en tra in gioco un fattore di “internalizzazione” che fa dell’individuo non tanto un “terminale informativo” quanto un operatore attivo nel pro cesso di diffusione e di scambio. Questo può essere un forte fattore di coe sione sociale: più forte di qualsiasi collante ideologico, ge ografico o politico. Pierre Levy lo chiama “movimento di virtualizzazione” (Pierre Levy, Il virtuale, 1997) e ne indica alcune caratteristiche salienti: l’aspetto partecipativo, il valore delle relazioni interper sonali, l’in ternalizzazione nella vita q uotidian a. Aspetti che, a be n guardare, rappresentano i caratteri dominanti di una cultura partecipativa, non monolitica né dogmatica, ma estesa e plurale. In una di mensione allargata e più disponibile verso gli altri. Tutto il contrario dell’individualismo. E. L’ambiente fisico-virtuale Anche se il desiderio di avvicinare ciò che è real e e materiale con l’immateriale è sempre stato pre sente ne llo sforzo umano d’interpretare il mondo, il concetto di realtà e quello di virtualità, per gran parte della gente, erano n ettamente separati prima dell’avvento di internet. La rete, per prima, ha messo sotto gli occhi di tutti l’effetto di un’interazione forte tra reale e virtuale in uno stesso contesto. Fino a ll’espansione delle tecnolo gie d ell’informazione ( tele visione, computer, telematica) gli ambiti di azione di reale e virtuale erano tenuti abbastanza separati. Dagli anni ‘80 del novecento, con il diffondersi della multi-medialità, il virtuale ha iniziato a simulare efficacemente il reale, ad assomigliargli sempre di più, non solo dal punto di vista visivo, ma anche come “sostituto parziale” della realtà. All’inizio questa rilettura del reale nel virtuale avveniva in modo sporadico, per punti. Oggi, superata la fase pionieristica della multi-medialità, il con nettivo tra realtà e virtualità sta di vene ndo una l ocal ità, cioè un’area di collegamento e di sovrapposizione in cui le percezioni fisiche, le concezioni sociali e le modalità di scambio nelle cultu re sono amalga mate nella massa d’informazioni che cir col ano nella rete. Questa, che si può chiamare “località virtuale” (con un apparente bisticcio di parole) è una macchina virtuale che combina processi digitali ed analogici, sovrapponendo reale e virtuale in ambienti dove l’esperienza è tanto percettiva quanto cognitiva e dove l’ambiente reale e quello virtuale non sono distinguibili nè separabili. Oggi l’esperienza dello spazio reale si avvale del virtuale per aumentare la realtà, per avere più prestazioni sul piano cognitivo. Le tecniche hyper-mediali, quelle cioè che uniscono differenti elementi mediali, imitano e somigliano, in parte, al reale. Tuttavia tendono a creare un ambiente nuovo e inedito. Quindi le manifestazioni delle due entità sono fondamentalmente separate e nessuno, o quasi, le confonde. Quando, però, la macchina virtuale diventasse invisibile si ar riverebbe ad un’unificazione d ell’esper ienza tra reale e virtuale e quello che oggi è definito come “realtà” sarebbe, in effetti, il risultato della sovrapposizione di reale e virtuale. Questo nuovo spazio-ambiente ha implicazioni teoriche, estetiche, culturali e sociali estremamente vaste, e rappresenta forse uno dei con cetti più affasci nanti del mondo d ei media. Un’esperien za del mondo differente, che utilizza le potenzialità dell’intelligenza condivisa in una consonanza tra tecnologie e habitat. Così oggetti, spazi, edifici e territori digitali possono (e in futuro potranno ancora di più), costituire un nuovo paradigma della comunità. Essi daranno luogo a nuove forme dell’agire collettivo e a nuovi concetti architettonici. Il media-ambiente, area di collegamento e di sovrapposizione tra rea- le e virtuale, in cui percezioni fisiche e informazioni sono fuse insieme, potrebbe divenire il territorio d’elezione del fare per la comunità, “...definito per il numero e le caratteristiche dei servizi che offre, per la capacità di trasformarsi e di accogliere...” (Federic Nantoy, 1997). Virtual Environments for Collaborative Design Jelena Petric, Tom Maver ABACUS, University of Strathclyde Glasgow, UK [email protected] [email protected] Abstact The issue of user participation in the processes of building and ur ban design is e njoying renewed atte ntion fol lowing its r elative ne glect over the last 20 years due, in large measure, to significant advances in emerging information technologies, particularly multime dia, virtual reality and internet technologies. an algorithmic process in which the desired conclusion can be reached by the application of step-by-step procedures - first finalising this aspect, then that. It is a fluid, holistic process wherein at any stage all the major parts have to be manipulated at once. In this sense, it is less like solving a logical puzzle and more like riding a bicycle, blindfold, whilst juggling. This pape r re-establish ed the theoretical framewor k for participa tory design evolved in the late sixties and early seventies as part of the movement towards a more explicit design methodology and at tempts an explanation of why the concept failed to gain commitment from the architectural and urban design professionals. Despite the complexity of the design decision-making process the emerging new generation of computer-based models is already having an impact on how design is performed and, hence, on the quality of design. The impact stems from the fact that the new models, as opposed to paper-based plans and elevations or other conventional forms, are predictive rather than descriptive; dynamic rather than static; explicit rather than implicit and, above all, permit a moreor-less continuous and interactive assessment of the effects of a developing design on cost and performance. The paper then gives an account of two significant developments in the evolution of the application of information technologies with which the authors have been engaged. These are: i. a resp onsive and in teractive interfa ce to wholly immersive an d realistic virtual reality representations of proposed buildings and ur ban neighbourhoods. ii. an intuitive and platform-independent VR modelling environment allowing collaborative evolution of the scheme from within the virtual world. The impact of these IT developments is demonstrated in the context of the design of a leisure facility for a community of users with physi cal impairment. Evidence is growing of the advantages offered by the application of computers in design, and these can be summarised as follows: Widening the Search for Solutions Access to programs which dynamically predict the cost and performances characteristics of opti onal design proposals can increase the scope of search for good solutions by as much as ten-fold. Not only is the search coverage extended, it is also more purposefully directed because de signe rs are able to compa re the quality of any one tentative solution against the quality of all previous solutions. Design Decision Making Greater Integration in Decision-Making Architectural design is a multi-faceted occupation which requires, for its successful performance, a mixture of intuition, craft skills and detailed knowledge of a wide range of practical and theoretical mat ters. It is a cyclical process in which groups of people work towards a somewhat il l-defined g oal in a ser ies of successive approxima tions. There is no ‘correct’ method of designing and, although it is re cognised that the process can be divided into separate phases, there is no generally accepted sequence of work that might guide desig n teams in th e di rectio n of ach ieving a satisfactory solution . In deed, there are no solutions to design problems in the way that the re are solutions to mathematical problems: the best that can be ho ped for is an outcome which satisfies the maximum number of con straints which bound the area of concern. Furthermore, design is not In conventional working, a great deal of design time is lost as proposals are passed to and from between the architect (who tends to be the originator) and the other specialist members of the design team (who tend to the “checkers”). Quite frequently the scheme on which the architect has lavished time and effort is found by one or other of the specialists to be infeasible. With access to appropriate appraisal techniques embodied in computer programs, it is possible to check a proposal against a wide range of criteria from the outset of the design activity. Moreover, it is entirely practical (though not yet a widespread working method) for all members of the design team to have access to, and operate o n, the common design model wh ether or not the y sh are a design office . The mo dels, then , ca n p rovide a strong integrating force in design team working. Improving Design Insights Apart from the use of appraisal programs to search for better designs, the programs can be used in a research and development context to provide insights into the way in which particular design decisions affect cost and performance. Typically, a designer working in this mode would select an existing building for study, then, keeping all other design variables constan t (insofar as this is possible), systematically vary one factor while reco rding the cost/perfo rmance output from the program. In this manner, the architect can establish sets o f ca usa l re lationships wh ich pro vid e p owe rfu l i nsi ghts into structure of design decision-making. Differentiation of Objective and Subjective Judgements Contrary to the ear ly fears of many architectural p ractitione rs, the use of CAAD techniques focuses increased attention on subjective value judgements rather than less. As measurable attributes of optional designs are ma de more explicit, the necessary value judgements are forced to the surface of design activity and thereby, themselves become more explicit. The effect of this is to make it clear to designers and their clients, which judgements are based on quantifiable criteria and which on subjective and intuitive concepts. Evidence of the degree to which computer-gen erated cost/performance information promotes effective value judgement, throws into sharp focus the crucial question: whose value judgement? This question was, for the first time, seriously addressed in the Design Participation Conference in Manchester in 1971 (1). At that time, however, the human-machine interface was too primitive for the concept of useful participation by the users of buildings to be achieved. The new technologies of VR and Multimedia give real prospects for participation. Virtual Reality The present use of 3D simulations or more effective virtual worlds has provided the designer and user participants with new media capable of storing several levels of in formation traditionally obtained only with the help of multiple media, usually more time and resource-consuming. Virtual models in particular can store information about planning issues, geometric design, material choices or even furniture and lighting con ditions. This level of representation provides the designer with a ll the necessary to ols to represent an architectural envi ronment and facilitate the research of potentially good design solutions. The use of V irtua l Reality (VR) with in the desig n process has not only enabled the designer to store more information than with the use of the traditional media and to check the design solutions more efficiently but furth ermor e it ha s enhanced the level of simulation providing: - Immersion: Users are completely surrounded by the environment. - Presence: Being surrounded the participant has actually the sensation of being in the environment. The Virtual Environment becomes then a place on its own and its perception is similar to real environments. - In tera ctivity: This is surely the most imp ortant feature provided by VR: the en viro nmen t allows the par ticipan t to be i nvol ved and the result o f the actio ns don e by the par ticipant is visualized in the VE. - Autonomy: Par ticip ants are nei the r constrain ed in p aths nor in views preset by others but have the freedom and autonomy to explore any single part of the environment. - Collaboration: Multiple users are able to take part and to interact in the same VE. The use of VR can also broad en the boundaries of traditional perception to give the experience of worlds not necessarily real or material and to give the freedom to safely simulate da ngerous or expensive conditi on for training purposes. In fact some applicati ons can simulate something completely different from anything we have ever directly e xperienced such as the visual isation of the e bb and flow of the world’s financial markets or the information of a large corporate database. O ther applications provide ways of viewing from an advantageous perspecti ve not possible or too expe nsive in the real world, like scientific simulators, tele-presence systems and air traffic control systems. The speed at whi ch technology is evolving is making the appl ication of VR within the design professions a feasib le approach. AEC companie s have already started to evaluate how time consu ming the tr ad iti ona l pr ese ntati on p ath ca n be whe re a ni matio ns or walkthroughs a re used to show de signs solutions to thei r clients. In fact tr aditiona l CAD/CA AD systems are used as re nderi ng too ls more tha n design tools. Any change on design solutions is subject to the inevitable delay of having to step back to the CAD/CA AD systems and then the result must be r endered again to be eventu ally visualized. This approach is obvi ously not only inconvenient but time consuming and therefore costly. The consequence of these issues is that some design and manu factu ring companies have already started to investigate how VR can be used within the de sign process. The JCAD-VR Prototype In the Department of Architecture and Building Science at the University of Strathclyde, the ABACUS group has been building a prototype design decision support system known as JCAD-VR (2). The idea upon which the JCAD-VR framework is founded is to anticipate th e use of V R within the creation phase thus ta king full advantage of VR technology. The system in fact allows the creation of simp le vi rtua l en viro nme nts th ro ug h a u ser -fr ien dl y i nter face without forcing the user to model it with traditional CAAD packages. The use of CAAD packages is therefore left to the final stage of the project, where further refinements are needed. It creates simple parametric 3D-shapes directly in a co-edit VR environment, thus allowing the design to be shared as it evolves. To all ow co nstant collabor atio n between several use rs th e entire project is based on client-server architecture where every user accesses the virtual world, interacts with the VE and shares design tasks. The wh ole fr ame wor k is or ganised in an object-orie nte d fa- Figure 1. Traditional Schema. Figure 2. JCAD-VR Schema. Figure 3. The JCAD-VR framework schema shion, where each module fulfils a certain task and it is independently coded. This approach has allowed the delivery of an initial functioning core of the system, whose capabilitie s will be expanded in the near future. From the implementation point of view JCAD-VR handles the VE through two closely connected sections: a 3D engine and a services unit each made of several modules. 3D engine unit Th e 3 D en gine h andl es a ll th e i nformatio n rega rdin g th e visu al aspects of the VE. It includes the code necessary to create and modify geometric entities (geometry core), to run the 3D-interface ( interface core) and to deal with several different output devices (visual core). The first module of the geome try core handles the cre ation of 3D objects: both geometric primitives (cones, boxes, spheres etc.) and architectural entities (walls, slabs etc.). To the architectural entities some extra properties were provided such as: information on internal and external faces or windows and doors attached to them. The geometry module will also provide the means for attaching materials to objects and add lights and objects from a library to the virtual world through the database module. The interface core does not implement a traditional graphic user interface (GUI): JCAD-VR has been provided with a 3D interface that is an integral part of the virtual world itself. The idea behind it is that instead of the traditional menus and toolbars the UI is immersed in VE pr ovid in g th e me an s for the i nter actio n: 3D me nus po p u p showing 3D icons and the 3D menus themselves can be moved for the convenience of the user. Visual feedback is provided in the form of rulers showing the size of objects or 3D icons helping the user in the operations to be done on the objects. The visual core is the part of the framework that allows the interfacing with the visualization devices. The client application has been implemented in order to be used on PCs as well as on SGI superco mp uters. The fo rmer are normal PCs who se video -card is d isplaying the virtual world only on a traditional window at full screen, the latter is a 12-processors 6Gb Ram SGI Onyx2 system running a Reality Centre. When JCAD-VR is launched on the system running the Reality Centre it can take advantage of the increased computational power stretching its visual output on a 5 metre wide 2 metre high tassellated screen where 3 projectors create a 160 degree panoramic image. For th e sake of flexibility the entire system is coded in Java’. The choice, even if less e fficient in terms of performances if compared with some other languages, offered indeed great flexibility, true scalability and last but not least fully multi-platform support. Moreover the use of Java’ programming lan guage b ecame a natural choice when its 3D suite was released (Java3D’). This choice has provided the flexibility necessary to deliver i mages for a ra nge of viewing d evices and the internal architecture of the visual core is such th at modu les migh t be easily ada pted to allow use of di fferent V R devices such as CA VEs or He admou nted Displays. Services unit The service s unit handl es all the ci rcula tion of data within the system. It is the backbone of the interconnection between users: it manages network connecti ons, it e xchanges data be tween users (network core) and it keeps track of the state of the virtual world through a database fr om which i t also retrieves o bjects information (database core). The services unit is based on a client/server architecture therefore it is implemented across two independent packages of the framework the client and the server and the network core allows the transmission of data between them. The network core is thus based on a multi -clie nt se rver, several clients and the network allowing the communication. The server is the data-delivering unit that looks after the information to be broadcast. The clients are the users themselves who perform actions and queries, when active, and when passive, rel y on the server for receiving data update. The intrinsic multiplatform nature of JCAD-VR, inherited from the language used, allows the server to transmit data to a broad rang e of machines a cross several operating systems. The communication chan nel ensures the link be tween serve r and clients through a TCP/IP network. As an independ ent part of the framewo rk the server has a simple and autonomous interface that provides primarily information about the network system. At the present stage the network module supports: - Broadcasting of new geometries in the VE - Notification of creation of new geometries in every user’s internal database and broadcasting of their numerical information - Broadcasting of modificati ons app lied on geometries in the VR scene - Notification of changes on geometries in every user internal database - Ch ecking for user prio rity on the obj ects th roug h a di stri buted locking mechanism - Avatars representing multiple clients in the VE - Interaction between users through a chat system and a whiteboard for freehand sketching in 2D. It will be soon expanded to include new functionalities such as the transfer of voice and video across users. The database core includes an internal database, that keeps track of the numerical parameters of the geometries created or modified withi n the virtual scene, and an exte rnal datab ase through whi ch users will be able to retrieve more complex 3D shapes, AEC objects, materials, lights etc. The internal database is closely coupled with the network core. Not only it keeps track of what it is happening in the user’s virtual world but also, most importantly, it receives, through the network, information sent by other users’ internal databases. If a new object is created or its geometric parameters are changed the system will upgrade the internal database of each user no matter who is doing the action. For the convenience of the user an I/O module supports loading of external files thus allowing import from traditional CAAD packages. Figure 4. The client/server architecture of JCAD-VR where the server broadcasts to several clients including the Reality Centre Initial Trials The current prototype version of JCAD-VR is starting trials of its si multaneous use at the Technical University of Eindhoven and th e University of Strathclyde. Howeve r, an earli er version was pilote d with a group of students in the BSc (Architectural Studies) at the Uni versity of Strathclyde. The br ief for the design project associated with the workshop was quite demanding: A Sailing Club for the Disabled located on a canal site in Glasgow City Centre. A real client community agreed to be in volved in the project and in the assessment of its outcomes (3). Within the overall JCAD-VR system, students were encouraged to use initially a standard CAAD package for initial creation of the geo metry and the n to r efin e the d esig n using VRML. Event manage ment in th eir virtual worlds was done through the user of sensors and connectivity. These include touch sensors, proximity sensors, time sensors and anchors. The design outcomes The outcome of the experiment – although not statistically measu rable – was nonetheless considered to be remarkable by both the tutors and the client community. One second year student in parti cular made the most effective use of the full range of functionality of the system. In relation to the site and exterior of the building these were: - Good balance between modelling of 3D geometry and texture mapping to provide a thoroughly convincing, large scale model of the site, which includes existing buildings of importance to the intervention as well as the wider urban issues such as the adjacent motorway. - Ability to approach the site, as would a user, by sailing alo ng the canal or, a s a whee l chair user, to open gates a nd whee l along foot-paths to the building entrance. - Understandin g of the urba n site b y “fl yin g” n earer or fur the r from the adjacent motorway (along which cars are speeding) to check the attenuation of noise pollution. In relation to the building itself, the contribution of the student’s ability to “visit” his design, during the evolution, as would a wheelchair user, was clearly evident in the quality of the design solution and was manifested in a number of subtle but important ways, for example: - The approach from the can al footpath and the carpark to the front door was carefully considered in terms of slopes and angles. - The door access and view lines of wheel chair users, on entering the facility (including signage) were completely thought through. - The elegance of articulation of the building into two zones - wet and dr y - wa s the eviden t re su lt of:- th e B oole an oper ations performed by the student o n the vol ume s;- the immed iate testing of these in the virtual environment. - The unparalleled level of detail presented by the student in response to user requirements, was exemplified by :- the transparency of the balustrades on the ramps and the sophisticated louvre system on the external glazing - a direct result of the designer’s perception, from the user viewpoint - of what is important to someone in a wheelchair. Through every window in the building the student was able to show the appropriate view from the building. - concern an d commitment to the real experience for a wheelchair user. The sliding door towards the canal could be opened and the user wheeled out into a mesh deck in order to get a firsthand experien ce of bei ng “ on” the water before perh aps, two ramps down, actually getting into a canoe, the mechanism illustrated by an elegant animation. The client community group were presented with the work of the students, a nd were impressed by the sensitivity with which the brief was addresse d. Th ey are featurin g the outcome o n their web site (http://www.fcccp.org.uk). Conclusions and future aspirations As in the earliest days of the introduction of computers into architectural design, the quantum jump is made by students. The work re- Figure 5. Sailing Club for the Disabled at Spier’s Wharf, Glasgow. ported here, and which will be shown during the conference is, we believe, the epitome - in the current state of the art - of excellent practice. It makes a breakth rough, we b elieve, in the evo luti on of good design ideas, modelled offline but appraised interactively and offers a real prospect for user participation. There is some way to go, of course, to design interactively in a virtual environment. The next step which we envisage is to link to the 3D model the emerging and sophisticated software for the thermal, lighti ng and acoustics properties of the buil ding. Th is would allow the user to visualise, dynamically, airflow, temperature gradients, lighting levels and to experience the actual acoustic characteristics of the space as she/he moves through it. The o the r exci tin g de vel op men t i s fo r re pr ese nta tive s o f th e client/user group to “join” the designer within the virtual environment and to participate directly in the evolution of the design concept. The recent development of a wheel-chair motion platform for immersive virtual environments (4) will allow the future users of bu ildings like the S ailing Cl ub for the Disabled to navigate themselves, i n their own wheelchair, through the virtual building. References 1. Nigel Cross, Design Participation. Proceedings of the Design Research Society, Academy Editions (1971) 2. Guiliana Ucelli et al Real Experiences of Virtual Worlds. Design 2002, In ternational Design Conference, Dubrovnic (2002) 3. Jelena Petric et al Educating the Virtual Architect. Promise and Reality. Proceedings of ECAADE Conference, Weimar [Ed Donath, D] 4. Tom Maver et al Virtual Environments for Special Needs. Proceedings of CAAD Futures 2001, (2001) La rappresentazione come strumento di costruzione della comunità e della partecipazione. Il caso di: Università nella città. Micol Ayuso Università Roma Tre Dottoranda in Sviluppo Urbano Sostenibile e-mail: [email protected] Il mio intervento in questo seminario su Architettura, comunità e p artecipa zio ne, vu ole essere u n’op portuni tà p er rag iona re su alcuni temi oggi al centro del dibattito sui linguaggi architettonici e sulle pratiche di pianificazione strategica. In particolar e, tratte rò delle relazioni intercorrenti tra strumenti e processi partecipati di pianificazione e progettazione. S vi lup per ò questa mia r iflession e attraver so l’il lustra zi one d i un’esperienza che vede la nostra università Roma Tre assumere un ruolo attivo nello sviluppo sostenibile del territorio in cui sono insediate le sue strutture. Il progetto di sviluppo di ateneo: Università nella città Il progetto di sviluppo di ateneo Università nella città, iniziato nel 2 001 e coordi nato dalla Facoltà di Ar chi te ttura e da q uella d i Economia, intende rafforzare e attivare le reti locali composte dai d iver si soggetti presenti sul terri tor io, qu ali abitanti, i stituzi oni, associazioni, imprese, al fine di elaborare e realizzare dei progetti orientati verso uno sviluppo ambientale, sociale, culturale ed economico sostenibile. Ta le pr og etto ha i stitu i to pr esso la Fa co ltà d i E con omi a i l Laboratorio per lo Sviluppo Locale Sostenibile (Laslo) il cui com pi to pri ncip ale è quello di favorire lo svi luppo di tali reti locali, ossia di strutture formali e informali che si costituiscono in funzio ne della prossimità territoriale dei soggetti che sono interessati a migliorare la sostenibilità dei luoghi in cui vivono e/o lavorano. I nodi di queste reti saranno costituiti da gruppi multidisciplinari di giovani afferenti all’Università Roma Tre, interessati a collaborare con gli attori locali presenti nei quartieri in cui l’Università è inse diata. La loro azione sarà finalizzata non solo al riconoscimento e all a valorizza zione delle risorse ambien tali e so cio-economich e d el te rritorio , ma anche alla mobi litazione e al po te nzi ame nto della capacità locale di auto-attivazione in un contesto partecipativo e partenariale. La ridefinizione delle relazioni intercorrenti tra risorse fisiche e culturali, che caratterizzano stabilmente i luoghi di una società locale fo ndandone l’identità o milieu, costituisce l’approccio strategico alla base della loro azione. Personalmente, ho l’opportunità di partecipare al gruppo di ricer ca del progetto. L’ambito delle mie responsabilità riguarda il sistema associa tivo dei q uar ti eri O stie nse, Gar batel la e Va lco S. Pa olo e il mio co mpito è quello di occuparmi della rilevazione, ra ppresentazione e attivazione delle organ izzazioni e delle reti territoriali locali. Riflettere a partire da questo caso di studio offre l’occasione per trarne elementi e spunti di confronto e di arricchimento su temi rilevanti come la partecipazione, la rappresentazione, la visione di comunità e il ruolo del agente di sviluppo locale. L’agente di sviluppo locale In un processo di sviluppo locale esiste una figura che può svolgere il ruolo di agente di sviluppo? Gli appartenenti alla comunità scientifica, le professionalità specialistiche, gli operatori sociali, i nuovi soggetti multidisciplinari? L’agente ha u na p osizione presta bil ita r ispetto a lla co mu ni tà ? Inter na? E stern a? A q ueste domande il progetto Università nella città cerca risposte istituendo il Laslo e un legame con il territorio in cui l’università è chiamata a mettersi in gioco svolgendo il ruolo di soggetto capace di attivare processi innovativi di sviluppo locale e di promuovere circuiti virtuosi in grado di catalizzare le risorse, anche latenti, presenti nel territorio. In tal modo, Università nella città si ascrive a quella concezione dell’agente di sviluppo locale che ne fa un facilitatore, un catalizzatore e co ntempo ran eame nte un a nimato re de lla d oman da sociale. Nel ruolo di facilitatore egli legge e interpreta gli aspetti problematici del sistema locale, stabilisce in concertazione con gli attori locali delle priorità, coinvolge questi nell’individuazione delle competenze, locali e non, che serviranno di supporto per azioni specifiche, e sensibilizza la realtà locale in generale (A. Bonomi G. De Rita, 1998) Nel ruolo di catalizzatore, egli ricerca non tanto combinazioni ottimali per risorse e fa ttori p roduttivi dati, quanto suscita e mobilita risorse e capacità nascoste, disperse, o malamente utilizzate (A. Hirschman, 1983). Per ultimo, come animatore della domanda sociale, egli si adopera per rafforzare le relazioni positive intercorrenti tra gli attori locali, favorendo l’aggregazione e il l avo ro co ng iu nto a i fin i di un p ro ge tto col letti vo (R. Chambers, 1983). Questo “agente”, concepito come tale in coerenza con il suo carattere attivo e una visione costruttiva della realtà (A. Sen, 2000), ha un rapporto interno-esterno ai soggetti territoriali: interno, in quanto partecipe di comuni interessi e obiettivi; esterno, in quanto portatore di capacità, conoscenze e professi ona lità specifich e e mu ltidi scip lin ari, di tip olo gia di versa rispetto a quelle locali. Significativamente il gruppo di ricerca di Università nella città riunisce discipline e saperi diversi, quali professionalità economiche, architettonich e, di comunicazione multimediale e della pianifica- zione partecipativa. Esso, inoltre, non si propone come un luogo “chiuso” di ricerca accademica e di elaborazione specialistica ma, piuttosto, come un laboratorio aperto all’integrazione e alla collaborazione con ambiti conoscitivi più va sti e p ratiche mo ltepl ici, interni ed esterni all’università, in grado di superare la visione settoriale dei problemi e la frammentazione delle competenze, stabilendo un confronto con la pluralità delle dimensioni dello sviluppo. Università nella città costitui sce, in tal modo, una verifica della tesi che vede nell’agente di sviluppo una figura non predeterminata e special istica , standardi zzabile al di là della dive rsità dei contesti di sviluppo, ma piuttosto una figura idealtipica che assume determinazione unicamente in riferimento alla va rietà de lle domande che esprime il locale e la azione delle soggettività. Partecipazione Ampio è il dibattito nella comunità scientifica sull’importanza della partecipazione degli abitanti nelle trasformazioni spaziali e nella elaborazione di strategie di pianificazione dei loro ambiti urbani. Essa costituisce la dimensione qualificante di uno sviluppo incentrato sulla persona, capace di assolvere funzioni cognitive, sociali, strumentali e politiche. La partecipazione segna la trasformazione dell’abitante-utente in abitante “p roduttore di ter ritorio ”, cioè in sog getto a ttivo nel la co stru zio ne e nel la manuten zio ne del p ropr io qua rti ere, deg li spazi pubblici, dell’ambiente e della produzione locale (Magnaghi, 1999). In particolare, la pro gettazione parteci pata promuove la costruzione di sistemi collettivi di appartenenza, incrementa l’uso delle riso rse, modifica le forme di p roduzi one dello spazio e la cur a dell’ambie nte . In altre parole , come a fferma Ra nhema la partecipa zi one è un a ppro ccio che “coi nvolge i pa zi enti nel la cura” (M. Ranhema, 1998). Perché la partecipazione sia reale e non solo una figura retorica o peggio ancora manipolatoria è necessario individuare capacità e strumen ti che possa no sostenerne i processi. Il riconoscimento dell’impo rtanza della partecipazi one in sé, lascia infatti irrisolti i problemi fondamentali legati all’individuazione di forme, capacità, metodi e strumenti chiamati a rendere reale tale partecipazione. Università nella città ha affrontato alcuni di tali problemi, individuando nelle reti territoriali, in quanto capitale relazionale, strutturato sia orizzontalmente che verticalmente, uno dei principali strumenti di r afforzamento de lla pa rtecipazio ne e della sostenibilità dello sviluppo locale. Il progetto si è posto fin dall’inizio l’obiettivo dell’iden tificazio ne della dimensione associativa locale, sing ole organizzazioni e reti, come avvio del processo di attivazione delle risor se territor iali. Meto dologicamente, verifica re l a pr esenza di sogg etti loca li p reoccupati o già impe gnati ne lla valor izzazione del patrimonio locale e nella costruzione di reti; costituisce la premessa per riuscire in un secondo momento a valorizzarli, rendendoli visibili, inserendoli in reti più vaste e favorendo la loro crescita (A. Magnaghi, 1999). L’obiettivo specifico era l’individuazione e cl assi ficazione d ei gr uppi a ppa rtenen ti a l terzo setto re come occa si one p er avviare i l processo di a ttivazio ne del ter ritor io ve rso un’azio ne di re interp retazione d ei valor i e d elle r isorse poten zi almen te u ti lizzabi li in u n processo di svil uppo u rba no sostenibile. Mediante una ricerca sul campo, consistente in interviste a testimoni privilegiati e ad alcuni membri di associazioni è stata realizzata una indagine che ha permesso, inoltre, l’individuazione delle org anizzazioni mag gior men te sen si bili ai temi del ter ritorio , e delle reti locali. I d ati ra ccolti fino a questo momento sono stati orga nizzati in forma ipertestuale e inseriti in rete nel sito del progetto. (vedi figure in Appendice) Rappresentazione La crea zione di queste pagine ipertestuali vuole rappresentare, nella logica di Università nella città, uno strumento di conoscenza del territorio e, contemporaneamente, di promozione di sinergie tra gli attori individuati. La fase successiva dell’indagine, appena avviata, prevede la rilevazione e la rappresentazione delle risorse fisiche del territorio secondo un’ottica che privilegi le potenzialità, le progettualità e le possi bilità late nti di trasformazioni sostenibi li. Essa è ori enta ta a ll a costi tuzi o ne d i u n ar chi vi o do cume nta le da re al izza re mediante un appr occio dia gnosti co pro posi tivo che costituisca uno strumento di supporto per futuri processi partecipativi di pianificazione. In tale fase assumerà un ruolo centrale la reinterpretazione dei valori e delle risorse potenziali utilizzabili dagli attori locali, nell’ottica di uno sviluppo sostenibile basato sull’inco ntro fra i soggetti e la valorizzazione del patrimonio territoriale locale. A tal fine, saranno elaborate in modo partecipato mappe tematiche, mappe di diagnosi, mappe di percezione, come strumenti di rappresentazione importanti per la conoscenza e la concertazione decisionale. In tal e modo la ra ppresentazione si con ferma come u no degli strume nti che p osson o re nde re r eal e la p arte ci pa zi on e e la costruzio ne d i comu nità. Tale visione del la ra ppresentazione si inserisce in quell’area di studio il cui obiettivo è rappresentare i differenti aspetti del patrimonio territoriali che sono alla base del nuovo modello di sviluppo people-oriented. La individuazione dei val ori e de lle risorse potenzial i e scar samente u tilizzate comporta la rilettur a d ei cara tteri identitari dei siste mi ambi entali e de i si stemi territor iali; del le reti, mi lieu e modelli socioculturali; degli attori della trasformazione (Magnaghi, 1999). Rappresentare questi aspetti, non è un compito da assolvere attingendo ai sistemi di rappresentazione tradizionale. Il percorso che p orta al l’e labo razio ne di u n siste ma co mp lesso di conoscenze territoriali è centrato, piuttosto, sulla costruzione di forme e mezzi di de scrizione, raffig urazione, comunicazione e racconto de l terri tori o colto nella sua multi dime nsi onalità. Tale sistema informativo dovrà integrare sistemi di rappresenta zione premoderna e sistemi informatizzati per arr ivare a costruire un ritratto del territorio che non si limiti ad informare ma faccia esso stesso parte della costruzione partecipata di uno sviluppo sostenibile. Alcune recenti rice rche, ci riferiamo a quella sugli Atla nti, sono state guidate dal proposito di studiare nuovi strumenti per rapprese nta re l e d ive rse di men sio ni di u n te rr ito ri o sp eci fico (A . Giangrande, 2001). Oggi, questo filone di ricerca si interroga su come la rappresentazione possa svolgere un ruolo interattivo di conoscenza e interpretazione, orientato verso progettualità e tra sformazioni maggiormente sostenibili (A. Mansor, 1999). La riflessione si concentra sulla messa a punto di tecniche e strumenti propri di una rappresentazione del territorio non più di tipo siste mico-fu nzion ale ma capace d i eviden ziare le din amiche ch e l o caratterizzano, in particolare: nodi e reti; p atrimoni a mbientali e storici; relazioni fra aspetti spaziali e percezioni e comportamenti instaurati fra luoghi e abitanti. La capacità di individuare strumenti e tecniche di rappresentazio n e adeg uati assume un ruo lo fonda me ntale an ch e all’ intern o delle strategie generali di progettazione. Per il superamento del p ian o inte so co me mo mento on nico mp ren sivo di d efini zion e dell’insieme delle regole e delle scelte attuative, e l’adozione di un a visione che preceda e accompagni una strategia general e per il territorio e i singoli processi progettuali, risulta decisiva la capa cità di rap presentare le di ver se “op portunità stra te giche”, re ndendo possibile la negoziazione e la condivisione. S i tratta non solo di raffigurare ma anche di comunicare, di farsi capire, di riuscire a esplicitare i diversi punti di vista e i diversi approcci sogg ettivi evid enziand one le d iffer enze (G. De ma ttei s, 1999 ). L a sfi da è que lla di r iuscire a conne ttere le territorialità so ggettive all’interno di una volontà condivisa e la rappresentazione è uno strumento decisivo per raggiungere tale interazione. La comunità come costruzione Come si trasforma una comunità che partecipa ad un processo di svil uppo? L a domanda ci porta ad interrogarci sui cambiamenti che investono la comunità e il suo concetto in una fase di gloca lizzazione (U.Beck, 2001), cioè di complessa e crescente ridefini zione delle relazioni locali, nazionali e internazionali. Ancora agli albori della modernità, la comunità sintetizza relazioni sociali basate su un’appartenenza affettiva o tradizionale, organi ca e omogen ea, che pre su ppone un a residenzial ità d efi nita – comunità di vicinato, comunità domestica, villaggio. Più tardi, la comunità individua un agire sociale supportato da interessi razio n almente concer ta ti . Og gi, la glo bali zzazio ne, accompagn ata dalla intensificazione e po tenziamento dei flussi di informazioni, immagini, conoscenze, idee, oltre a quello dei flussi di capitali, merci e persone fisich e, modifica i trad izi onali rap porti fon dati sulla contiguità territoriale e instaura nuove relazioni tra locale e il sistema mond o (so cie tà comunicazion ale – C. Cipolla , 199 7). Modifica lo spazio sociale a favore di nuove funzionalità sistemiche e culturali, attraverso l’annullamento della geografia e la rior ganizzazione dei rapporti sociali sulla base di reti lunghe articola te sulle grandi distanze. (A. Giddens, 1994). Tutto ciò porta ad un p articol are , comple sso e teso coe si ste re e sovrap por si d ell e diverse forme di comunità emerse nel tempo: comunità di appar tenenza, “cerchi caldi ” og gi riarti colati intorno ad appartenenze etniche, linguistiche, religiose; comunità di interessi, tenute insieme da comunanze di categoria e mutuo aiuto; comunità “costruite”, espressione nascente di interessi e di sentimenti, diversi ed eterogenei, legati da una logica non d’identificazione ma di partecipazione e di negoziazione difficile e in progress di obiettivi condivisi (Z. Bauman, 2001). È quest’ultima con le sue tensioni e le sue problematicità, la sola ad offrire risposte alle sfide di territori loca li sempre più etero genee per “stili di vita, modi d’uso degli spazi, comportamenti culturali e di consumo, desideri e aspettative”. Il percorso avviato dal progetto di sviluppo “università nella città” tende precisamente a costruire una comunità di questo tipo: aperta, in trasformazione, unita nella negazione della differenza come disvalore, in cui l’università svolge una parte attiva a favore della riqualificazione urbana e sullo sviluppo strategico del territorio. A mo’ di conclusione Lo stu dio di caso da me pr ese ntato co stitui sce un i nte rvento ancora in corso: rappresenta un laboratorio nel quale continuare a sperimentare e sottoporre a verifica temi all’ordine del giorno della ricerca teorica. Analogamente, il mio intervento ha cercato di “tene re assieme” riflession e teorica e r icerca empi rica. Esso non offre conclusioni, ma più modestamente, pretende di intervenire nel dib attito evid enzi ando alcuni degli aspetti d i magg iore proble maticità e a pportando ele menti di possibile riflessione e confronto. Bibliografia Bauman Z. (2001), Voglia di comunità, Roma-Bari, Editori Laterza. Beck U. (2001), Che cosè la globalizzazione, Roma, Carocci. Chambers R. (1983), Rural development: putting the last first, London, Longman Group. Cipolla C. (1997), Epistemologia della tolleranza, Angeli, Milano, 5 voll) Dematteis G. (1999), Le descrizioni cambiano il territorio. Reti e sistemi territoriali locali, in Marson A. (a cura di), Rappresentanza e rappresentaz ione nell a pianific az ione territoriale – Atti del seminario, Dipartimento di analisi Economica e Sociale del Territorio, IUAV. Giangrande A., una diversa concezione di Atlante, obiettivi della ricerca: Per uno sviluppo locale autosostenibile: teorie, metodi ed esperienze, http://rmac.arch.uniroma3.it/ricerca/index.html. Giddens A. (1994), Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna [ed. orig.: 1990]. De Rita G., Bonomi A. (1998), Manifesto per lo sviluppo locale, Torino, Bollati Boringhieri. Hirschman A. O. (1983), Ascesa e declino dell’economia dello sviluppo e altri saggi, Torino, Rosenberg & Sellier. Magnaghi A. 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(Roma, 28 settembre 2001) Angelica Fortuzzi Università Roma Tre Dottoranda in Sviluppo Urbano Sostenibile e-mail: [email protected] ABSTRACT Alcuni sostengono che il senso di comunità, l’essere abitante di una città ovvero cittadino/a di un luogo, nel senso antico della parola ossia “partecipe di un a comunità , di u na convive nza anche ideale”, siano andati perduti. Che oramai pr evalga l’individualismo. Per rispondere a ciò vogliamo riportare un’esperienza in fìeri di una comunità che, invece di abbandonarsi a questa apparentemente ineluttab ile corr ente di disgreg azio ne, ha deciso di riu nirsi e di ricostruire una trama di relazioni sociali e di sinergie. E, a nostro parere, rappresenta un sintomo di una rinata e diffusa volontà di partecipare che lentamente si sta risvegliando e di cui si avvertono i sintomi nella realtà urbana. Naturalmente non si può rimanere legati a vecchi schemi e concetti di comunità, ma occorre scoprire le nuove modalità di produzione di socialità con cui oggi l’”essere con gli altri nella città” si manifesta. Esplorare quindi le potenzialità legate ai nuovi strumenti di collaborazione, quali Internet e l’evoluzione delle pratiche di partecip azione. Tutto ciò po rterà a ricostituire un nuovo linguaggio sia tra gli individui di una comunità sia nella produzione di architettura e spazi urbani condivisi. Nascita della rete sociale La Rete Sociale Monti si è formata in modo quasi spontaneo tra alcune realtà associative del Rione Monti, in reazione ad una tendenza oramai chiara di perdita di quel forte senso di identità che ha caratterizzato Monti risp etto agli altri rioni del centro storico. Il primo passo è stato l’incontro tra un gruppo di associazioni locali, sensibili ai cambiamenti che stavano avvenendo, per un confronto sulle reciproche esperienze rispetto alla realtà locale. Risultato di questi incontri è la formulazione di un manifesto comune che foca lizza alcuni te mi condivisi, il cu i sloga n er a gi à molto chiaro “Essere villaggio dentro la città”. Il manifesto viene sottoscritto da quindici associazioni presenti nel territorio - tra cui anche l’Università Roma Tre con il progetto di Ateneo “Unive rsità n ella città”, www.cityuni.uniroma3.it. Nel Mani festo si affermano i seguenti intenti: «Lanciamo l’idea di costitu ire nel Rion e Monti u n sorta d i Cantiere o L aboratorio che metta in relazione diverse espressioni e differenti realtà del nostro Rion e per va lorizzarne la ricchezza individuand o temi o concrete iniziative legate al suo tessuto sociale. Solo riscoprendo l’importanza di “agire e pensare insieme”, ciascuno con le sue caratteristiche, potremo superare la frammentazione che segna la nostra comunità territoriale e continuerà a segnarla finché gli interessi individuali non si ricompongano dentro un’idea di Rione come casa comune». La rete d efin isce anche o biettivi e i l suo ruolo nel te rritorio co me componente aggregativa, elemento promotore per iniziative di confronto su temi di interesse comune, ma anche di occasioni di scambi e di crescita culturale; come interfaccia, canale di comunicazione, tra la comunità locale e l’Amministrazione. Non manca l’aspetto della valorizzazione delle realtà locali economiche e sociali in termini di promozione e creazione di nuove possibilità, favorendo scambi e sinergie, sviluppando quindi una maggiore trama di relazioni nella comunità. L’intento della rete comunque è anche quello di essere un attore propositivo, progettuale, rispetto alle questioni del rione, con l’obiettivo finale di tendere ad un miglioramento della qualità della vita. La volontà di elaborare azioni, programmi e progetti tramite la partecipazio ne vie ne più volte r ibad ita ne i var i p unti d el Ma nifesto , espressi qui in sintesi. Per manifestare la propria costituzione la rete ha organizzato un incontro nel mercato rionale di via Baccina, avvenuto il 28 settembre del 2001, a cui hanno partecipato anche esponenti della Municipalità e del Comune. S ono stati discussi alcuni dei temi che toccano maggiormente la realtà del quartiere e che hanno successivamente costituito una base per le ri flessi oni de i grupp i di lavori costituitisi successivamente. I problemi Riportiamo alcuni esempi concreti dei problemi e delle questioni più sentite a Monti: la questione del Mercato coperto di via Baccina: una volta pieno di banchi e di gente, vero luogo d’incontro della vita locale. Oggi ha pochi banchi aperti e poca gente lo frequenta. Ciò, ad una prima analisi, si può ricondurre a due cause principali strettamente connesse tra loro: la scarsa frequentazione degli abitanti, probabilmente causata dai cambiamenti profondi in atto nel tessuto sociale, per cause molteplici quali gli sfratti già avuti e in atto, l’aumento degli affitti e dei costi delle case - l’area è ormai inclusa nei rialzi e nelle costose valutazioni di tutto il centro storico - le diverse abitudini e il minor radicamento al rione dei nuovi residenti rispetto alla precedente comun ità, si combina no con la conseguente perdita d ella varie tà dell’offerta commerciale prima esistente, che determina quindi una progressiva minore concorrenzialità e attrattiva del luogo. Questi fattori hanno inciso sul mercato rionale e stanno cambiando anche la vita che prima animava le varie strade del rione, segnando la perdita sia di vecchie botteghe e piccoli negozi di vendita al dettaglio, sia di negozi più grandi, in favore di un fiorire di bar, pizzerie e ri storanti. Conse guenza è la perdita di quell a ricchezza di o fferta che caratterizza ogni quartiere realmente vissuto e vivibile, per av viarsi verso l’imbalsamazione e la museificazione, che caratterizza alcuni centri storici, trascurando il fatto che una città è tale perché è urbs ma anche civitas, un inscindibile tutt’uno “costruito e sociale”, frutto uno dell’altro. Si tratta comunque di un fenomeno di abbandono iniziato negli anni sessanta e che, lentamente, sta cambiando il volto di un Rione, un tempo fortemente connotato. Al tre questio ni sono l’occupa zione abusiva del suolo pubblico d a parte di numerosi esercizi commerciali; il rione non è immune neanche al problema del traffico e delle macchine che divora la vivibilità del quartiere e con essa anche i suoi spazi, costruiti a dimensione pedonale. Traffico che è pure una necessità, a volte di vitale impor tanza, di collegamento al resto della città e di servizio a botteghe ar tigiane e negozi, scatenando così una contraddizione tra vivibilità e ne cessi tà di mobili tà e accessibilità. Altra questione è il re cuper o dell’uso di luoghi importanti e di prestigio quali la Villa Aldobrandini, Vil la Rivaldi, l’Istituto Angelo Ma i, nonché di alcuni sp azi e piazze ab bandonate al degrad o, come piazza degli Zingari . Per finire, l a presenza difficile della comunità di ucraini, verso la quale il rione è spaccato in due tra accoglienza e rifiuto. Gli incontri e i gruppi di lavoro Alla presentazione della rete hanno fatto seguito una serie di incon tri successivi in cui sono emersi non solo i malesseri ma anche pos sibili soluzioni e prospettive, anche se in modo poco strutturato. Si sono costituiti allora dei gruppi di lavoro tematici: sugli spazi urbani, il loro recupero verso una dimensione più vivibile prevedendo progetti di pedonalizzazione, riorganizzazione della mobilità e del ser vizio pubblico. Altro tema è quello della promozione della realtà ar tigianale presente nel rione, attraverso azioni e iniziative che la pos sano rendere maggiormente visibile e connessa all’identità e imma gine del Rione Monti. Risultati e prospettive Frutto delle riunioni sono state un progetto di pedonalizzazione, la proposta di tempi e percorsi alternativi per il trasporto pubblico, al - cu ne attività cu ltu rali incen tra te nei lu oghi iden ti ficati dall a Rete Monti come quelli da recuperare a beneficio di un uso collettivo. E infine l’organizzazione di un ciclo di incontri, attualmente in corso, allo scopo di formare una base di conoscenze comuni sui temi della progettazione partecipata in vista di un workshop vero e proprio dove i componenti della r ete, g li abi tanti e tutte le re altà interessate possano riflettere e progettare concrete azioni per il futuro del Rione. Il ciclo di incontri e il workshop aiuteranno a superare quello che sinora è stato il limite dell’agire all’interno dei gruppi di lavoro. Finora infatti la partecipazione è avvenuta in modo non organizzato, senza seguire alcuna metodologia partecipativa e ciò ha causato talvolta una dispersione di energie, che potevano essere convogliate verso azio ni mirate al gradual e ragg iungimento di obiettivi pr efigur ati in una visione globale comune del rione. In questo scenario sicuramente la rete Internet può giocare un ruolo maggiormente importante, come strumento per la condivisione di informazioni e azioni. La Rete Monti basa già molta della sua comunicazione interna sulle tecnologie Internet. In questo è già una comunità virtuale in crescita . Esiste a nch e u n sito del la Rete Socia le: www.ri one- mo nti.i t. Quello che in futuro si dovrà sicuramente sviluppare sarà un sito che costituisca una memor ia, un fondo di con oscenza comu ne, riferimento non solo per gli appartenenti alla Rete Monti ma anche per gli abitanti del Rione stesso. In cui attingere approfondimenti e conoscenze sull’area, ma anche che possa essere il mezzo per sviluppare nuove sinergie non solo all’interno di Monti ma anche con altre realtà territoriali di Roma. Il workshop stesso potre bbe avere due connotazioni: una “reale” e l’altra on-line. Questo per avvalersi delle potenzialità di Internet e aumentare così le possibilità di partecipazione con nuove modalità, seppure digitali. Bibliografia Alexander C., Ishikawa S., Silverstein M., A Pattern Language, Oxford, 1977. Choay F., L’allegoria del patrimonio, Roma, 1995. Choay F., L’orizzonte del posturbano, Roma, 1995. Fortuzzi A., Giangrande A., Mecarelli F., Un processo di pianificazione e progettazione sostenibile, in “Per uno sviluppo locale autosostenibile: teorie, metodi ed esperienze”, www.caad.uniroma3.it/ricerca, 2001. Magnaghi A. (a cura di), Il territorio dell’abitare, Milano, 1991. Magnaghi A., Il patrimonio territoriale: un codice genetico per lo sviluppo locale autosostenibile, in “Il territorio degli abitanti. Società locali e autosostenibilità”, (a cura di) Magnaghi A., Milano, 1998. Il GIS e la rete: strumenti per la partecipazione pubblica Flavia Serafini Università Roma Tre Dottoranda in Sviluppo Urbano Sostenibile e-mail: [email protected] Si afferma spesso che ogni processo partecipato necessiti, più che di buoni urbanisti e progettisti, di insegnanti capaci e di strumenti che possano effettivamente aiutare il pubblico a comprendere il lessico della progettazione traducendo in soluzioni progettuali i bisogni della comunità. Il divario di conoscenze e di linguaggio tra cittadini, amministratori e tecnici e la difficolta’ di trasmettere al pubblico l’informazione necessaria a comprendere la complessità dei temi trattati e le articolate relazioni che regolano tutti gli aspetti della realtà urbana, rende, infatti, spesso difficile avviare un confronto. L’assimilazione di questo bagaglio di conoscenze, inoltre, per vastità e varietà di argomenti, non puo’essere immediata, ma richiede piuttosto un processo educativo lento e continuo; sembra, dunque, necessario, nei programmi di partecipazione pubblica, puntare alla costituzione di un’infrastruttura civica utile a sostenere il supporto pubblico nel tempo; un centro permanente di conoscenza e di confronto che aiuti il cittadino ad interpretare la complessità della città contemporanea scoprendone i caratteri e le risorse e, attraverso un effettivo coinvolgimento nei processi progettuali, lo trasformi in un soggetto partecipe e responsabile delle sue trasformazioni. modalità diverse di comunicazione che possono cosi’ essere riassun te: p re senta zion e del l’ in fo rma zi on e al pu bbl ico , ri cezio ne dell’informazione dal pubblico, scambio di idee e opinioni formatesi in base all’informazione condivisa man mano che il processo evolve (Dandekar); quest’ultima modalità è quella che stimola la formazione della conoscenza e delle capacità necessarie per entrare nel merito delle questioni progettuali, per valutare ed elaborare le proposte. In conseguenza del maggiore interesse a coinvolgere il pubblico nei processi decisionali anche i siti inte rnet si stanno rinnovando , trasformandosi lentamente da strumenti pensati solo per fornire informazio ne (comunicazione unidirezional e) in luog hi di discu ssione pubblica (comunicazione bidirezionale). A tale scopo sono stati inseriti spazi interattivi per dialogare con le Amministrazioni ed nuove tecnologie che permettono modi più efficaci di acquisire ed indagare l’informazione. Vediamo in cosa si sta facendo. L’informazione Internet Tra gli strumenti adatti da utilizzare allo scopo la rete internet rappresenta una delle alternative con maggiori potenzialità; l’introduzione di nuove forme di partecipazione basate sul Web può avvalersi, infatti, delle proprietà della rete di: elaborare, memorizzare, reperire e comunicare l’informazione indipendentemente dal formato, orale, scritto o visivo, con cui si presenta, senza limiti di distanza, tempo e volume; e di eliminare i problemi intrinseci alle forme “tradizionali” di partecipazione svincolando gli incontri da un orario fisso, offrendo la possibilità di intervenire mantenendo un certo grado di anonimato ed evitando lo scontro dialettico per favorire, invece, l’espressione di chi solitamente viene sovrastato o intimidito da individui maggiormente chiassosi. In effetti le Amministrazioni comunali hanno cominciato a testare i modi più efficaci d i utilizzare questa tecnologia e lo hanno fatto in modi diversi attraverso reti civiche, siti dedicati e città virtuali. Le reti civiche per la struttura più articolata e completa offrono, probabilmente, un esempio migliore per comprendere gli sviluppi in atto. Le reti civiche La partecip azione del pub blico ai piani e ai programmi urbani può aver e differenti l ivel li di coinvolgimento che rich iedono ci ascuno, La partecipa zio ne p ubbli ca aumenta co n i l li vel lo d ’acce sso alle informazioni. Il primo obiettivo e’, quindi, quello di raccogliere la grande quantità e varietà di documenti necessari e di semplificare il linguaggio tecnico che li contraddistingue, facilitandone, in tal modo, l’acquisizione da parte del pubblico. La possibilità di rendere questo percorso di apprendimento più efficace e stimolante, passibile di essere adattato e personalizzato per seguire le esigenze di ognuno, dipende dall’adeguatezza del media utilizzato e dal livello di interazione con esso possibile. La natura dei temi affrontati rende preferibile la visualizzazione delle informazioni qual e modo mi gliore per facil itar ne l a comprensione; immagin i e mappe sono quindi indispensabili e forniscono allo stesso tempo un modo accattivante e immediato di comunicare, adatto all’utente non specializzato. strumenti: gli strumenti impiegati per diffondere le informazioni sono in genere: testi, foto, raster di planimetrie e immagini 3D con aree sensibili selezionabili; recentemente sono state introdotte le tecnologie del GIS e della Realtà Vir tuale che, attr averso un linguaggio più immediato e dinamico, dovrebbero favorire una visione multipla ed una interpretazione analitica dell’informazione. temi trattati: riguardano notizie sui servizi, la storia, l’arte e la cultura della città; a volte e’ possibile approfondire la conoscenza visiva dei luoghi percorrendo un vero e proprio tour virtuale, attraverso gli itinerari di maggiore valore. Accanto a questo tipo di informazioni di interesse generale vi sono poi approfondimenti più tecnici sulla ge stio ne del terri torio; la documentazio ne spesso molto ampia comprende: gli strumenti di pianificazione, le carte tecniche ed ambien tali, mappe catastali, fotografie aeree e bollettini sullo stato di salu te dell’ ambiente. In queste sezioni rar amente vien e tracciato u n quadro delle trasformazioni in atto o si presentano in maniera detta gliata progetti in corso di realizzazione (un’eccezione interessante e il sito sul Progetto Periferie del Comune di Torino – fig. 1) e’, invece, solitamente privilegiata la descrizione dello “stato di fatto” metropo litano, a testimonianza di un atteggiamento comunque ancora restio a coinvolgere effettivamente il pubblico nella definizione dell’asset to presente e futuro della città. interazione con l’informazione: l’utilizzo di questi strumenti può essere istintivo ed immediato, come nel caso delle foto e dei raster, o richiedere un maggiore grado di dimestichezza con la rete e le tec n ologie informatiche. Nei SIT (Sistemi Informativi Territori ali), i n particolare, realizzati con la tecnologia GIS, si stanno progressiva mente implementando i modi di interazione con l’utente: e’ possibi le attualmente “personalizzare” la mappa - selezionando gli argo menti da visualizza re, ingr andire o r imp icciolir e l’i mmagine , spo starsi su di essa (pan), misurare distanze e superfici , scaricare o stampa re la selezione – o passare da un media all’a ltro diversifi cando il tipo di comunicazione (sono un esempio le mappe con aree sensibili che si collegano a foto e filmati). Visibilità dell’informazione: in ultima analisi e’ da considerare in che modo viene dato rilievo a questa documentazione all’interno del si to e quanto sia facile poterla reperire. In linea di massima le notizie per così dire turistiche sono presentate e pubblicizzate con rubriche ed immagine sulla home page e godono di una notevole visibilità, di versamente le informazioni più tecniche, di approfondimento, rele gate in sezioni dai nomi troppo specialistici per attrarre un “normale” visitatore mite lo strumento del testo; anche quando la discussione verte su tematiche pr ogettual i, non c’e ’ possibilità d i visualizzar e le documentazioni grafiche e fotografiche dei luoghi interessati e delle proposte presentate, ne tanto meno di accedere rapidamente ad approfondi menti te cni ci o normativi. Tutto q uesto influen za direttame nte la qua lità d elle informazioni che l’amministrazione riceve qualunque sia il tipo di contributo richiesto. Il livello di dettaglio e di consapevolezza delle risposte inviate dipen de, infatti, unicamente dalle capacità del singolo utente, dal proprio bagaglio di conoscenze personali e dalla propria abilità di immaginare le situazioni e valutare gli effetti delle proposte suggerite. Per questo motivo, in modo q uasi automatico, il dibattito si restringe a chi possiede già un certo livello di conoscenze e di capacità espressive; mentre, la difficoltà di contestualizzare il problema all’interno di più complesse relazion i, fa si che i suggerimenti inviati siano semplici indicazioni e non vere proposte progettuali. visualizzazione nel sito: gli strumenti di partecipazione sono considerati come un aspetto innovativo, per tecnologia e contenuti, all’interno del sito; sono per questo organizzati in sezioni dedicate ben visibili nella homepage. L ’utilizzo di qu esti strumenti, che spesso richiedono software non di uso comune, viene, nei casi migliori, agevolato attraverso un accesso facilitato alle pagine di download dei programmi ed e’ incentivato tramite compagne di promozione della rete in ter net che prevedono anche riduzioni dei costi di allacciamento. Il coinvolgimento del pubblico L’”Urban Centre” di Torino strumenti: la sezione rivolta alla partecipazione e’ spesso assente o po co svilup pata ; nei siti più i nnovativi vien e gestita attr aver so: l a semplice casella postale, l’accesso diretto con gli uffici pubblici, i fo rum tematici, i gruppi di discussione libera o gli strumenti della de mocrazia ele ttronica come i referendum consultivi. La tecnologi a impiegata e’ sempre quella dell’e-mail. temi trattati: riguardano un po’ tutti gli aspetti della vita urbana; dalle questioni sociali della convivenza multietnica a quelle politiche e gestionali dell’attività svolta dall’amministrazione comunale. I cittadini sono anche coinvolti sui temi dell’assetto fisico della città e della ge stione dei suoi servizi (ex. forum sull’illuminazione stradale, le piste pedonali, le sistemazioni degli spazi pubblici). tipo di partecipazione: le reti civiche comunali non presentano ancora processi di progettazione partecipata in atto che mirino effettivamente a definire con un certo grado di approfondimento gli inter venti progettuali. Il coinvolgimento pubblico ha spesso solo caratte re consultivo e viene richiesto per esprimere approvazione o disap provazione su piani e programmi già definiti, più di rado per sugge rire proposte di interventi futuri. La richiesta d’informazioni da parte dell’Amministrazione e la risposta dei cittadini avviene sempre tra - Un interessante tentativo di migliorare la comunicazione e l’efficacia dell’informazione viene condotta dall’amministrazione torinese con il progetto Officina Città Torino. L’obiettivo e’ quello di realizzare un centro permanente nel quale i progetti per il territorio vengano raccolti ed esposti al fine di instaurare un rapporto nuovo con la cittadinanza e favori re la concertazione e la p artecipazione sui temi e i progetti urbani. I molti interventi in corso o in programma per la città (gli interventi per le Olimpiadi del 2006’, il Piano Strategico Torino Internazionale, i Progetti Speciali Comunicazione, Spina Centrale e Riqualificazione Periferie) forniscono già una vasta piattaforma su cui avviare il confronto. Gli eleme nti innovativi di questo portale – ancora ai pr imi stadi di realizzazione - vanno ricercati, innanzitutto: - nella sua duplice concezione di spazio pubblico, con l’ubicazione fisica all’interno dell’ex complesso delle Grandi Officine Riparazioni, e di spazio virtuale all’interno della rete internet attraverso la realizzazione di un sito, progettato coerentemente con il sistema complessivo come l’alter ego virtuale del centro, che sfrutta lo spazio telematico per potenziare le possibilità di diffusione dell’informazione, degli strumenti e dei servizi (fig. 2) In pratica possiamo dire che la struttura di questi portali riflette, i genere, lo scarso interesse ancora presente a coinvolgere il pubblico nella gestione della citta; informazione e partecipazione sono consi derate sepa rateme nte e le sezioni “in ter attive” si vanno ad aggiungere a quelle divulgative senza veramente integrarsi con esse; anche le tecnologie di rappresentazione piu’ nuove sono per questo non pienamente sfruttate. - nella messa a punto di una struttura finalizzata ad un’acquisizione più immediata ed intuitiva dell’info rmazione: il sito e’ suddiviso, infatti, in quattro sezioni che permettono una lettura trasversale della documentazione fornita secondo percorsi diversi e personalizzati: i luoghi, in cui si raggiunge l’informazione interagendo con una mappa che colloca gli oggetti nella loro dimensione geografica; i temi in cui le stesse informazion i sono ra ggruppate per categorie tematiche; le relazioni un sistema di mappe concettuali attraverso le quali vengono evidenziate le relazioni tra le diverse informazioni presenti e gli strumenti in cui sono previsti sistemi di partecipazione online. - e nell’utilizzo di tecnologie all’avanguardia (WebGIS e RV) per la comunicazione dell’informazione: e’, infatti, in fase di realizzazione un modello tridimensionale della città di Torino realizzata sulle cartografie del sistema informativo comunale che dovrà fornire un impatto visivo immediato dello spazio urbano nel quale tradurre e contestualizzare elaborati urbanistici ed architettonici. Sistemi Geografici Informativi online Ma in che modo l’ utilizzo di questi nuovi strumenti può facilitare la comprensione dei piani e dei programmi urbani? Quasi tutte le informazion i essenziali pe r acquisire la conoscenza necessari a a d avvi are un pr ocesso p rog ettu ale po ssi edon o un orientamen to spaziale, non solo le re altà fi siche d el territorio, ma anche i dati sociali, economici e ambientali sono relazionati a specifiche localizzazioni spaziali come regioni o città; la tecnologia GIS è stata pensata proprio per mappare e lavorare questi dati e per facilitare l’accesso ad informazioni complesse attraverso l’integrazione e la correlazione di realtà difficili da associare per la loro natura eterogenea. Queste capacità possono essere vantaggiosamente sfruttate nella partecipazione per introdurre il cittadino ad un’analisi più approfondita della realtà urbana e delle proposte di progetto. Letto in quest’ottica il loro potenziale e’ tale da far pensare che in futuro il loro utilizzo non sara’ tanto quello di preparare piani e progetti in un contesto strettamente professionale, ma di educare l’intera comunità alle problematiche della progettazione (Smith). Si stanno sperimentando a tal fine sistemi che attraverso l’elaborazione di intefacce più semplici ed intuitive o l’integrazione con tecnologie differenti (app licazioni multimedi ali: testi, mapp e i nterattive, au dio, vid eo ecc.) ne permettano un utilizzo più semplice. L’uso di differenti linguaggi visuali, può essere, in particolare, un modo per accorciare la distanza tra il modello mentale dell’utente e le complesse funzionalità del sistema, catturando simultaneamente la componente topologica e qu ella tematica dei dati terr itoriali rappresentati. L’utilizzo della realta’ virtuale permette, inoltre, di superare alcuni limiti relativi alla modalità di raffigurazione dello spazio urbano. La rappresentazione a due dimensioni tradizionale dei Sistemi Geografici Informativi, infatti, per quanto fornisca informazioni ricche e dettagliate, non necessariamente aumenta la conoscenza spaziale del pubblico riguardo gli interventi proposti e il loro possibile impatto visivo; i cittadini manifestano, anzi, spesso difficoltà nel comprendere le relazioni spaziali rappresenta te sulle ma ppe. Il disegno bidi mensionale presuppone, infatti, che la mente di chi lo osserva costruisca prima un modello concettuale del rilievo, operazione che può risultare difficile per una persona non allenata; anche l’utilizzo dei tradizionali modelli CAD che simulano in tre dimensioni l’ambiente urba- no, d’altronde, può essere ugualmente criticato; se, infatti, le mappe GIS forniscono una rappresentazione ed una si mulazione astratta dei processi e della struttura urbana, le rappresentazioni CAD producono icone digitali con limitate funzionalità. La possibi lità di estrude re forme tridimensionali dalle plan imetrie GIS a due dimensioni permette di sup erare i li miti di e ntra mbi gli strumenti, fornendo ai cittadini un potente mezzo per esplorare e visualizzare gli scenari possibili per la propria comunità. Ancora di più le tecnologie della Realtà Virtuale, attraverso caratteristiche di sempre maggiore dinamicità ed interazione, aiutano la visualizzazione nei processi di progettazione attraverso un impatto visivo più forte e la maggiore capacità persuasiva. Un’immagine dinamica è in definitiva molto più impressionante di un disegno statico, offre molti più punti di vista e possiede un più forte impatto psicologico. Sono presentati di seguito alcuni esempi che illustrano l’utilizzo differente di queste tecnologie come strumenti di supporto di processi partecipati e ne delineano i futuri sviluppi dimostrandone l’utilità per fini di versi e in abbinamento con tecniche di partecipazione p iù o meno sofisticate. Virtual Slaithwaite Il sistema utilizzato per questo progetto e’ uno dei primi messi a disposizione del pubblico in un vero processo di progettazione partecipata; in particolare, in questo esempio il GIS e’ impiegato per riprodurre online le condizioni tipiche di un processo partecipato tradizionale. A partire dal novembre del ‘97 la comunità di Slaithwaite viene coinvolta in un esercizio di “Planning for Real” per discutere di problemi di traffico, di accesso ai siti industriali e di uso potenziale degli spazi verdi. Parallelamente a questa esperienza viene avviata la sperimentazione di un simile esercizio condotto via internet con l’intenzione di estendere il coinvolgimento ad una popolazione più vasta e di verificare il funzionamento della rete come strumento di supporto ai processi di progettazione partecipata. I problemi di visualizzazione dei contesti analizzati e di di stribuzione delle informazioni necessarie sono stati risolti attraverso l’utilizzo di una mappa GIS (fig. 5). Il sito e’ stato cosi organizzato in quattro frame differenti ognuno dei quali contiene documenti diversi. L’utente e’ messo in condizione di navigare sulla mappa spostandosi su di essa, ingrandendola e rimpicciolendo la e d in ter rogando gli ele menti vi sua lizzati con un semplice click; una finestra compare allora con tutte le informazioni necessarie e con uno spazio destinato all’inserimento dei commenti. Nel complesso i cittadini hanno dimostrato di saper prendere rapidamente dimestichezza con questo strumento e di gradire, in particolare, la possibilità di disporre di maggiore spazio per inserire le proprie riflessioni. Ulteriori vantaggi son o derivati dal risparmi o di tempo necessario a raccogliere ed inserire i commenti del pubblico nella banca dati e dalla facilità con cui il sistema poteva essere via via aggiornato. Elaborazione di immagini valutative – Comunità di Pilsen, Chicago Questo progetto sviluppato dall’Università dell’Illinois a Chicago in collaborazione con la comunità di Pilsen e’ stato uno dei primi ad utilizza re il GIS non solo per pe rmettere al pubb lico di “con sumare” informazioni spaziali, ma anche per “produrne”, un modo nuovo di sfruttare questa tecnologia, solitamente impiegata per offrire infor mazi one (comunicazione unid irezionale) ed ora utilizzata, invece, per riceverne (comunicazione bidirezionale). Lo scopo del progetto era quello di studiare come i cittadini di Pilsen percepissero lo spa zio della propria città e i suoi diversi ambiti, domandandogli cosa in pa rticolare gradi ssero e cosa disappro vasse ro, e di ind ivid uare i l modo per raccogliere e visualizzare queste conoscenze spaziali da riutilizzare poi come linee guida per le decisioni future in materia di valorizzazione dell’aspetto urbano. L’impiego del GIS non riguarda tutte le fasi della sperimentazione: sono state, infatti, realizzate inizialme nte delle mappe “sensibili” attraverso le quali i residenti p otessero esprimere apprezzamento o avversione per le differenti zo ne della città (fig. 3 e 4); un programma GIS e’, invece, utilizzato nella fase finale della sperimentazione per accorpare i dati ed integrar li con altre immagini ed informazioni. Sono state create, quindi, due mappe (GIS) con le aree “si” e le aree “no”, nelle quali sono raccolti e localizzati anche i commenti inseriti dai residenti. È utile sottoli neare che il progetto - realizzato in due fasi, in ognuna delle quali e’ stato possibile mettere a disposizion e della cittadinanza materi ale cartografico diverso, relativo a porzioni più o meno estese della città - ha messo in e videnza come informazioni più o meno de ttagliate producano risposte qualitativamente differenti. Nella prima fase, in fatti, grazie alla minore estensione della zona oggetto d’indagine (il centro urbano) e alla relativa facilità nel reperire informazioni, e’ stato possibile fornire supporti visivi (foto e filmati) molto dettagliati, al la scala delle singole strade che hanno messo i cittadini in condizio ne di approfondire ulteriormente la conoscenza del luogo e di forni re in risposta commenti più specifici e dettagliati. Il gruppo CASA dell’University College di Londra è stato chiamato a parteci pare a d un progetto di recupero degli isolati di Woodberry Down nella città di Hackney per sperimentare nuovi modi di coinvolgimento del pubblico. Viene progettato a tale scopo un sito internet completamente interattivo, accessibile ad una trentina di residenti a cui viene chiesto di esprimere opinioni o proposte sull’assetto futuro dell’isolato. La dibattito ha luogo nei forum online, ma, soprattutto, all’interno dei “comitati di sviluppo” che si riuniscono settimanalmente e offrono alla comunità locale un modo per dibattere ed intervenire realmente nel processo decisionale. Queste discussioni sono “pre par ate” attr averso la co ndivisio ne, a ll’i nterno de l sito, di un’ampia documentazione sul programma di sviluppo tracciato dalle amministrazione e grazie all’utilizzo di una serie di strumenti tecnologici con i quali l’utente può approfondire la conoscenza del luogo, verificand one visivamente l o stato attuale: foto pa noramiche, immagini fisheye; mappe Gis e modelli virtuali permettono, invece, di speri mentare, a ttraverso una simula zion e dei proge tti, l’effetto delle varie ipotesi di intervento proposte dai tecnici del co mune e dell’università (fig. 6). Bibliografia Howard D. – Geographic Information Techonologies and Community Planning: Spatial Empowerment and Public Paricipation - 1998 Kheir Al Kodmany – Ondine tools for public paticipation –Government Information Quarterly – 2001 Kingstone R., Carver S., Evans A., Turton I. – Web-based public participation geographical; information system: an aid to local environment decision-macking – Computers, Environment and Urban Systems - 2000 Indirizzi Web Woodberry Down - Hackney Questa esperienza rappresenta uno stadio più recente ed avanza to d ella ricerca. L’elemento di maggio re innovazione e’ dato dall a p ossib ilità offerta a ll’u te nte di acqu isire in ma nier a d ive rsificata l’informazione attraverso rappresentazioni complementari del contesto locale che utilizzano un’ampia gamma di tecnologie. SIT del Comune di Bologna - http://sit.comune.bologna.it/ Progetto NUME - http://www.cineca.it/nume/ SIT del comune di Torino - http://sit.comune.torino.it/JSSIT/Sit.html Urban Center Torino – http://www.oct.torino.it Woodberry Down – http://www.onlineplanning.org Pilsen Community Project – http://g015.cuppa.uic.edu/gridFeedbak/final/index Virtual Slaithwaite – http://www.ccg.leeds.ac.uk/slaithwaite/ Fig. 1 – Quello del comune di Torino è un raro esempio di SIT utilizzato per diffondere anche l’informazione sulle trasformazioni urbane in atto. Fig.4 – Interfaccia del second o progetto per il coinvolgimento della comunità di Pilsen – terzo livello di ingrandimento. Fig.2 – Il sito internet dell’Urban Center di Torino Fig. 5 – Virtual Slaithwaite Fig.3 – I nterfaccia del secondo progetto per il coinvolgimento della comunita’ di Pilsen – primo livello di ingrandimento. Fig 6 – Sito web del progetto Woodberry Down A Pattern Language on web : progettazione partecipata sostenibile in rete Tatjana Todorovic, Francesco Ruperto e-mail: [email protected], [email protected] Introduzione A Pattern Lang uage è stato elaborato negli anni ‘70 da Cristo pher Alexander e dai suoi collaboratori, come un insieme di regole (pat tern) “pronte per l’uso” per pianificare e progettare gli spazi di vita di una comunità locale; in esso sono descritti 253 pattern, strutturati in modo reticolare, ordinati secondo la misura di intervento, da quelli a grande scala (regioni e città), attraverso i pattern di quartiere, per finire con i dettagli delle costruzioni. Ogni pattern rappresenta la so luzione paradigmatica (archetipa) di un problema che richiede un in tervento di trasformazione dello spazio antropico e che appartiene a una specifica categoria e classe (o livello). Le categorie sono tre: -Towns: pattern per progettare gli spazi e le funzioni di una regione, città o comunità; -Buildings: pattern per progettare edifici e gli spazi tra di loro; -Construction: pattern per costruire un singolo edificio e le sue parti. Ogni pattern ha un titolo, un numero d’ordine ed è descritto secon do un formato standard. Nella sua versione attuale si configura come una libreria aperta, che può essere ampliata, di soluzioni particolari ed aderenti alla specifica realtà locale. Comunicazione ed Interattività La convergenza al digitale di diversi media e il contemporaneo svi luppo della rete Internet consente di disporre di una piattaforma unica, per elaborare informazioni diverse per origine e tipo. Gli elabo ratori elettronici quindi, offrono metodi e tecniche che consento no una ottimizzazione del flusso delle informazioni. Comunicazione ed interazione, intese in questo contesto, assumono un valore signifi cativo ed innovativo. A Pattern Language è, una delle procedure di processo di pianifica zione e progettazione sostenibile, di tipo interattivo e incrementale, collegata con le altre due (Visioning e Strategic Choice), in modo ciclico. La su a interattività (considerata un attributo di comunicazione) d ipe nde d alla modali tà di parte cipa zione degli atto ri. Appare allor a fondame ntale la creazione di un processo di comunicazione di namico, basato sulla possibili tà da p arte dell’ utente di modificare l e informazioni immesse in conseguenza delle scelte degli altri parte cipanti. In questo caso le informazioni da tenere in considerazione possono provenire dalla sessione in corso, le sessioni precedenti o dalle procedure di Visioning e Strategic Choice. I gruppi di lavoro sono formati da tutti i soggetti coinvolti dal processo di trasformazione del progetto. Il numero di partecipanti dipende dalla dimensione dell’ambito territoriale e dalla complessità del conte sto decisi onale. La comunicazion e viene org anizza ta per pacchetti che possono essere scambiati anche in tempi successivi. Si alterna così tra, da pochi a molti (faciltatori/progettisti-utenti) dando orig ine a una co mu nicazion e di tipo verticale , e da mo lti a molti (utenti – utenti) in cui diventa di tipo circolare. La re te, pe r definizione, è un “ spazio” della comunicazione circolare . In altre par ole ogn i i ndivid uo presen te sull a r ete p uò fa ci lme nte a lte rare il pro prio sta tu s tra quell o che riceve le notizie a quello che le diffonde. Torna ndo al nostr o caso, la comunicazione cir colar e ed inte rattiva deve avvenire in modo coordina to ed al l’inte rno di un ambie nte “ protetto” nei confron ti de l r esto del la rete (parteci pano solo i g ruppi ed individui autorizzati) ma che comunque garan tisce l e fasi cicli che di confronto tr a partecipa nti stessi e tra partecipa nti e progettisti, a ll’inizio e dur ante gli stati di avanzamen to de l progetto . Database on web La creazione di un database ci consente di gestire la comunicazione attraverso un protocollo di comunicazione, comune agli attori e continuamente consultabile e aggiornabile. Ogni pattern allora è descritto attraverso una scheda (record) di dati (campi).(Fig. 1) Fig. 1 – La “scheda tipo” di ogni pattern. La “scheda tipo” di ogni pattern contiene i seguenti campi: - numero del pattern (code); - un’immagine fotografica che mostra una soluzione esemplare realizzata del pattern (foto); - un paragrafo introduttivo che colloca il pattern nel suo contesto e spiega come utilizzarlo per completa re i pattern di scala superiore ad esso collegati (intro); - un titolo che spiega in poche frasi il problema (statement); - una descrizione dettagliata (explanation) del problema stesso che illustra la base empirica del pattern, ne dimostra la validità, elenca una gamma di modi differenti in cui esso può manifestarsi nel contesto ecc; - una breve descrizione della soluzione (prescription) , ovverosia il “nucleo” (core) del pattern che illustra il campo delle relazioni fisiche e sociali che occorre prendere in considerazione per risolvere il problema; - un diagramma che mostra la soluzione sotto forma di schema, con scritte che ne identificano le componenti principali (diagram) - un paragrafo finale che elenca i pattern di scala inferiore che sono collegati al pattern e che lo completano (conclusions) Questa impostazione permette: - di gestire più progetti diversi; - di confrontare i risultati; - di elaborare le statistiche; - di gestire i pattern (da suggerire, da lasciare a disp osizione o da escludere come non compatibili con il progetto); - di archiviare facilmente il materiale prodotto durante le sessioni; - di avere una veloce gestione e disponibilità di progetti conclusi ed archiviati; - la possibilità di gestire ed ampliare il contenuto delle schede. Introducendo per esempio, gli indici omogenei di sostenibilità ambientale, sociale e di efficienza economica oppure l’indice di sostenibilità genera le, si faciliterebbe la va luta zio ne de l gra do di sosteni bilità dell’intervento, consentendo la “contabilizzazione”, ai fini di una verifica del bilancio ambientale approvato dalla amministrazione locale. - di viaggiare con facilità attraverso la struttura retticolare dei pattern (da ogni pattern preso in visione si può collegare con dei pattern collegati ad esso sulla scala superiore o inferiore). Fig. 3 – La Home page. La Home page (Fig.3) è concepita come un ambiente di interazione tra tutte e tre procedure di processo di pianificazione e progettazione sostenibile – le fasi di elaborazione di progetto insieme agli aggiornamenti di risultati parziali di Strategic Choice, ed i risultati di Visioning entrambi indispensabili per un coretto svolgimento di questa fase. I partecipanti autorizzati possono accedere nell’ambiente a loro riservato per suggerire le modifiche o effettuare e correggere le proprie scelte progettuali. A questo proposito gli sarà fornito un User ID ed una password che sarà esclusiva solo per il progetto in corso. Nel caso dovessero partecipare a più progetti dovranno fornirsi di altrettante autorizzazioni per accesso. Il codice d’accesso differente fa sì che loro vengono automaticamente indirizzati all’ambiente dedicato al loro gruppo di p rogettazione e diviso per singoli partecipa nti nella gestione separata dei progetti. Pur essendo appartenente ad un gruppo di progettazione ogni partecipante effettua da sé le proprie scelte. Nel suo “ambiente di lavoro” gli verranno messi a disposizione tutti i pattern compatibili (per scala e destinazione) (Fig.4) con il progetto. È possibile distinguere quelli suggeriti dai facilitatori. Nell’arco di tempo prestabilito potrà valutre le schede, riflettere sulle proprie scelte e discuterne con colleghi ed altri membri dello stes- Web usability Nell ’affrontare la creazione dello schema funzionale (Fig.2) sono stati seguiti i due principi guida: garantire un flusso circolare ed interattivo delle informazioni in un ambiente che, se sarebbe troppo pretenzioso chiamarlo user-friendly, almeno dà la sensazione di qualcosa di “già visto”, cioè conosciuto dall’utente internet. L’impatto di questa “interfaccia per progetta re” è del tutto simile all’affrontare una qualsiasi navigazione web. Il fatto che alla base c’è un database che coordina il sito, è del tutto trasparente per l’utente. L’interfaccia grafica della Home page da dove partono tutti i progetti ha tutti gli attributi di un accesso protetto ad un servizio di e-mail on web. Tutti i p assag gi fun zion ano co me l ink, le scelte d a e ffettuar e come click&buy in un qualsiasi negozio e-commerce, modalità queste ormai consolidate per gli utenti internet, consentendo così quella usabilità del sito che dovrebbe essere alla base di ogni progetto web. Fig. 4 – La scheda di un pattern. Fig 2 – Lo schema funzionale. Fig. 5 – La pagina di pro memoria dell’utente. Fig. 6 – La pagina di riepilogo del gruppo. so gruppo di partecipazione. Può anche consultare le pagine di riepilogo per vedere le statistiche già effettuate dai suoi colleghi o vedere le soluzioni e statistiche dei progetti già compiuti. Una volta effettuate, le scelte saranno memorizzate alla pagina di riepilogo dove rimarranno come pro memoria dell’utente (Fig.5). Da lì, insieme a brevi note di commento di max 250 parole, verranno inviate ed aggiunte alle scelte di altri membri del gruppo consultabili sulla pagina di riepilogo del gruppo (Fig.6). Il capogruppo provvederà a inviarle al team di p rogettazion e. Le statistiche delle scelte di tutti i gruppi sono consultabili sulla pagina del riepilogo del progetto. Immutato e fondamentale rimane il ruolo dei progettisti che oltre a dare un riassunto del progetto, fornendo le piante, prospetti, sezioni e forse un 3d, devono presentare le loro soluzioni specifiche con dei pattern studiati ad hoc per il progetto. Pattern che assumono quindi, carattere di precisa formulazione di un compito progettuale. Il team progettuale deve così, rispondere al quesito proponendo le proprie soluzioni come aggregazioni tra i pattern e connessioni tra essi. Questo modo di rappresentazione al nostro avviso faciliterà la comprensione dell’insieme, la verifica dei risultati raggiunti e renderà più precise le indicazioni sulle correzioni da proporre. Il confronto tra i progettisti ed i partecipanti verrà ripetuto per ogni fase di avanzamento / miglioramento del progetto fino alla sua approvazione. Rappresentazione versus Virtualizzazione 1 Maurizio Unali e-mail: [email protected] “O gni immagine ha un destin o d’i ngrandi mento” (Gaston Ba che l ard ), e le immag ini di gital i, so prattutto que lle con fi gur anti un a “realtà virtuale”, propongono oggi grossi cambiamenti di pensiero e d i azion e ri spe tto all’impostazione tr adizional e, contribuen do a d ampliare il concetto stesso di rappresentazione; ciò accade soprat tutto nel settore della “produzione iconica” delle immagini e nella co municazione ipertestuale 2 del pensiero architettonico. “È ancora utilizzabile l’idea (…) di una semiotica visiva planare, os sia di una semiotica che studia la rappresen tazione i conica su u n supporto planare, bidimensionale, insomma: su un piano? Come si concilia questa tesi con l’attuale irruzione dello spazio virtuale inte rattivo che viene, in fin dei conti, a volatilizzare il supporto planare, a cancellare per tanto la membrana che separa lo sp azi o davanti e quello dietro (...)? Qual è lo statuto semiotico, se ancora fosse pos sibile sta bilirlo, di una rappresentazione così congegnata, ovve rosia di una rappresentazione in grado di figurare uno spazio di altis sima fedeltà realistica, nonché virtualmente pe rcor ribile da parte dell’osservatore?” 3 . I confini della r appresentazione se mbrano così tendere a un pro gressivo ampliamento. L a ra ppresentazione non è so lo equivalen te al pensier o. L’i dea, contaminata dal medium comunicativo-espressivo, è costantemente alla ricerca di nuove forme; le immagini digitali del progetto pos sono rappresentare l’idea come “movimento” e quindi riprodurre vir tualmente l’azione e simulare la percezione. Considerato da questo punto di vista, il destino delle immagini digi tali è “ingrandire la visione”. Ed è proprio in questa “visualizzazione generalizzata”, o meglio “percezione ipermediale”, che è compreso l’a spetto significativo del fenomeno oggi chiamato “virtua lizzazio ne”. In questo se nso pu ò e ssere an ch e ri guar dato i l fen omeno dell a realtà virtuale , che non è più “solo” rappresentazione di un evento ( già man ifesto o che deve ma nifestar si ), ma ne anche sempli ce mente la sua riprodu zione. È forse la rapprese ntazione di un mo dello mentale del mondo reale, riproduzione istintiva delle idee, che investe tutti i sensi ed è esplorabile in più dimensioni. Una simulazione altamente definita tanto da essere “l’altro di un altro” 4, insieme evocato e cancellato dalla rappresentazione. A tale proposito, viste le possibili implicazioni che il fenomeno della realtà virtuale potrebbe comporta re in gener ale nel pro cesso della conoscenza - e non soltanto nel campo dell’architettura -, torna alla mente un pensiero di Tomás Maldonado espresso nel ‘92 dove l’autore, r ifer endosi al le possibili applicazioni delle nuove tecnologi e informatiche, rileva che “... dipenderà (…) da noi se, nel futuro, vor- remo fare di questi mezzi, in nome di una ideologia della dematerializzazione universale, un uso alienante, oppure farne invece, come io ritengo che si dovrebbe, un uso che sfrutti al massimo il formidabile potenziale di interfaccia conoscitivo progettuale e creativo dell’uomo con il mondo. Non una fuga mundi, ma una creatio mundi” 5. Virtualizzazione “Il virtuale possiede piena realtà in quanto virtuale”. Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione 6 La creatività e l’esperienza che da architetti possiamo attingere dal for mida bile p oten ziale di interfa ccia conosciti vo progettuale d erivante dalla “cultura digitale” è, dunque, innanzi tutto l’amplificazione della visione e della percezione delle “apparenze del mondo reale”. Amplificazione e ingrandimento, alle volte inaspettato e alternativo, delle informazio ni “i nvisibil i” ai nostri occhi, ma pr esen ti nel DNA delle “cose reali”. Il vero progetto della cultura digitale, ed è qui la grande opportunità, è di contribuire ad ampliare le capacità dei nostri sensi, per vedere la rea ltà quotidiana o i nostri sogni inco nsci, per prevede re e progettare il mondo che verrà. In altre parole, ampliare il “campo del visibile”. In effetti è proprio in questa nuova e potente “visualizzazione generalizzata” che possiamo ricondurre l’aspetto più significativo del fenomeno oggi chiamato “virtualizzazione”. Ma il proce sso di “virtu alizzazione” che ca ratterizza la cultura del nostro presente, si estende alle modalità della rappresentazione digitale, suscitan do r ifl ession i e interro gativi a partire dal co nce tto stesso di virtuale. Iniziamo, allora, ricercando un possibile chiarimento: cosa intendiamo, in architettura, con il termine virtuale? Proviamo a rispondere partendo dalle osservazioni di Pierre Lévy 7, filosofo francese definito “cartografo della mappa del virtuale”, per il quale il virtuale non è affatto il contrario del reale. L’origine della parola virtuale non è certa nè univoca; proviene dal termine latino medievale virtualis, a sua volta derivato da vis (forza, vigore, potenza), ed indica ciò che esiste solo in potenza e non in atto. Nella filosofia di Lévy “il virtuale tende ad attualizzarsi, senza essere tuttavia passato a una concretizzazione effettiva o formale. L’albero è virtualmente presente nel seme” 8. Seguendo questo ragionamento il virtuale è il germe di un diverso modo di essere del reale e, come tale, non sempre costituisce una fuga dalla realtà, ma un potenziamento di questa. È per queste rag ioni che Lévy sostiene che il virtuale non si contrappone al reale ma all’attuale: “virtualità e attualità sono solo due diversi modi di essere”. A questo punto Lévy, ricordando il pensiero di Gilles Deleuze 9 , introduce la distinzione tra possibile e virtuale: “il possibile è già interamente costituito, ma rimane nel limbo. Si realizze rà senza cambiare nulla della sua determinazione e della sua natura; è un reale fantasmatico, latente. Il possibile è esattamente come i l reale : gli manca solo l’esistenza. La realizzazione di un possibile non è una creazione, nel se nso pieno d el termin e, poiché la creazione comporta anche la produzione innovativa di una forma o di un’idea. La differenza tra possibile e reale è dunque puramente logica” 10. Anche il lavoro teorico di Peter Eisenman 11, tra i primi ad utilizzare il digitale in architettura, si muove da posizioni simili, con l’obiettivo di rileggere il “virtuale come presente ancora assente nell’ambiente fisico”. Nei progetti di Eisenman il concetto di virtuale può anche esse re indi vi duato come u na fo rma d i e nerg ia potenzia le, p ropr ia dell’atto creativo, svincolata da ogni costrizione materica, fisica, di forma (the Unform): “l’attualizzazione del virtuale, la sua formale definizione, sono indipendenti dalle limitazioni geometriche, dalle proporzioni e dai vincoli architettonici “ 12. Considerato in questa ottica, nel senso di “potenziale possibile”, virtuale è anche il progetto d’architettura; in quanto “simulazione” libera, “modello”, “rappresentazione”. È so prattutto la “vi rtua lità” che rende il progetto affine allo spazio fluido digitale. Entrambi i tipi di spazio necessitano di essere visualizzati, entrambi utilizzano i codici della rappresentazione per “esistere”. Solo chi riesce a rappresentare le idee dà forma visibile al pensiero. Anche la locuzione “realtà virtua le”, formata da due termini apparentemente di si gnificato contrar io, sintetizza pie namente n el suo dualismo l’attualità de l nostro quotidiano, interpretando il del icato passaggio epocale che sta percorrendo l’architettura. Non si tratta di scegliere tra il reale o il virtuale, ne tanto meno di vivere il reale in forma virtuale o viceversa, ma di accettare consapevolmente l’opportunità di utilizzare una nuova chiave di lettura delle cose. Un grimaldello con il qu ale forzar e la realtà per capirl a, leggerla, e poi comunicarla: in una parola, rappresentarla. La novità è costituita dalla molteplicità dei modi in cui possiamo perce pire e co mun icare l’og getto de lla rapp resentazione , le nostre idee. L’elaboratore (uno straordinario strumento di rappresentazione) ci consente di ampliare le nostre capacità comunicative ed espressive, superando la bidimensionalità tradizional e del suppor to cartaceo e la nozione di spazio cartesiano, mettendo in azione contemporaneamente molti dei nostri “senso ri per cettivi”; po ssiamo così ved ere, “toccar e”, udir e, mu over ci, modi ficare in tempo reale ciò che abbiamo prima costruito nella “rappresentazione”. Diciamo subito, allora, che gli architetti che pensavano, di li a pochi anni, di muoversi ed esplorare gli spazi del loro “ciber-progetto”, sono rimasti in pa rte delusi. Certo, a livello teorico e in alcune esperienze dimostrative, in parte quelle aspettative hanno trovato oggi conferma, ma nella pratica il progresso tecnologico si è diretto, soprattutto per scelte economiche di natura commerciale, ve rso altri settori di investimento e sviluppo come, ad esempio, quello militare o nella ricerca scientifica in campo medico. Se voglia mo oggi acquisire u n’esper ienza sen soriale diretta degli ultimi risultati raggiunti dalla “realtà virtuale”, possiamo verificare la qualità dei nuovi videogame in commercio; entrare in una aggiornata sala di giochi elettronici, metterci casco e guanti e pilotare un aereo in un simulatore di volo o guidare una veloce auto di Formula 1; in queste installazioni lo spettatore vive in simulazione gli spazi che attraversa virtualmente. Se vogliamo, invece, verificare un modello di città in rete, possiamo navigare in Active Wor lds (www.activeworlds.com), un immen so ambiente digitale interattivo in 3D vivibile nel Web, popolato da migliaia di “abitanti”, e composto da oltre 300 “mondi” 14. Spingendoci oltre nel settore dell’illusione, in alcune sale cinematografiche appositamente progettate, il movimento delle poltrone segue la conformazione del suolo e del paesaggio percorso e, attraverso la proiezione di immagini percepite grazie ad appositi occhiali, lo spe ttatore si immerge totalmente in una visione virtuale tridimensionale a 360 gradi. Se vogl iamo, a ncora, ren derci conto di co me p otrà evolversi la realtà virtuale nel futuro, basta guardare la televisione - dalle sigle dei va ri TG alle b ellissime pubblicità - oppure anda re al cinema pensiamo, ad esempio, al film di Andy e Larry Wachowski Matrix, ad eXistenZ di David Cronenberg, a Final Fantasy, film firmato dal mago dei vi deogame Hir onobu Sakaguchi, in tera men te gener ato al computer (attori compresi). Ricordiamo anche l’incredibile effetto provocato dalle immagini laser tridimensionali, nella tecnica dell’ologramma, nella simulazione di oggetti e spazi, percepiti come copia, come vero e proprio doppio, di realtà esistenti. Ancora oggi i costi necessari per poter commercializzare una stazione informatica, capace di gestire immagini di una architettura e stimolare simultaneamente i nostri sen si in modo interattivo, sono talmente alti che di fatto rendono poco praticabile il progetto. Possiamo qui ndi osservare che la real tà virtuale, nel settore della rappresentazione dell’architettura, almeno per il momento, riveste soprattutto un’affa scinante “realtà” te orica aperta alla sperimentazione. Un pensiero espresso da Franco Purini, ben rappresenta un punto di arrivo rispetto ai temi trattati e, allo stesso tempo, apre nuovi ed interessanti spunti di ricerca sui quali lavorare: “...la realtà virtuale non è una rappresentazione della realtà reale né una sua anticipazione. Essa è reale solo nella sua virtualità” 15. Realtà virtuale e ciberspazio L’ottimismo e l’entusiasmo 13, riscontrato da più parti in questi ultimi anni, in merito agli sviluppi e agli esiti possibili che la “realtà virtuale” (considerata in tutte le sue forme) o più in generale il ciberspazio sembravano offri re n el settor e del la conoscenza ed espressi one dello spazio architettonico, oggi, alla luce di quanto di fatto è accaduto, possono essere valutati più serenamente. Ipervirtualità In modo critico nei confronti delle “realtà virtuali”, Maldonado pone un interrogativo: “È giusto sostenere che l’emergente cultura della virtualità (o, se mi si consente, dell’ipervirtualità) debba prefigurare sempre e comunque una sorta di irreversibile straniamento nel no- stro rap porto con i l mondo reale?” 16 . L’autore si domanda se si a corretto escl udere, in linea di principio, “… che la fre quentazion e delle realtà virtuali sia in grado di contribuire a un arricchimento, e non sempre a un impoverimento, del nostro rapporto conoscitivo e in ultima analisi operativo con il mondo reale?”. Si tratta, in altri ter mini, di capire se “… la produzione computazionale di immagini ad altissima fedeltà” siano effettivamente capaci di ampliare la nostra e sp eri enza, “ … a nzi di fo rnir ci p iù esper ienza di qu ella che no i avremmo potuto raccogliere, senza la mediazione dell’immaginale, in un rapporto, diciamo, empirico con la realtà”. Lasciando aperte al dibattito tali interessanti e precise questioni, e spostando l’a rgomento nei suoi aspetti più generali, possia mo anche semplicemente osservare che il computer non sia più solamen te un a “macchina” pe r consultare ed elaborare mol teplici informazioni, ma una “macchina per vedere” che opera degli ingrandimenti della realtà in grado di ampliare la nostra esperienza. Si tratta di per cezioni e vision i ulteriori e diverse (alternative), ma non sostitutive del nostro rapporto con il mondo reale. Chiudiamo queste brevi note, che aprono per noi architetti diversi scenari su cui lavorare, ricordando che il progetto di un nuovo spa zio (ciberspazio) rappresenta emblematicamente l’interesse comune del fenomeno architettura e dell’utopia tecnologica digitale. Riflettendo su alcune di squisizioni teoriche dei più noti cyberspa ceians, Maldonado rileva che molti dei temi cari a questa cultura, richiamano i l pensiero di ill ustri a ntenati, come ad esempio Plotin o nelle Enneadi: “l’idea (…) di una realtà virtuale intesa come una fu ga dal reale verso il virtuale può essere interpretata come una fuga ascendente, liberatoria verso l’assoluto. Soprattutto se questo vie ne teorizzato come qualcosa che accade tramite una decorporalizzata se nsorialità umana ( …), ossia tramite un a sensorialità che le tecnologie digitali avanzate hanno reso autonoma r ispetto al cor po” 17. Note 1 Il saggio sviluppa alcuni argomenti da me trattati in Pixel di architettura, ed. Kappa, Roma 2001. 2 Cfr. G. Bettetini, B. Gasparini, N. Vittadini, Gli spazi dell’ipertesto, ed. Strumenti Bompiani, Milano 1999. 3 Tomás Maldonado, Reale e Virtuale, Feltrinelli ed., Milano 1992, pag. 61. Per approfondire l’argomento cfr. Tomás Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli ed., Milano 1998. 4 Fernando Gil, voce rappresentazione, in “Enciclopedia Einaudi”, Torino 1980, vol. II, pag. 546. 5 Tomás Maldonado, Reale e Virtuale, op. cit. 6 Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, tr. It. Il Mulino, Bologna 1972 (I ed. 1968). 7 Pierre Lévy, Il virtuale, ed. Raffaello Cortina, Milano 1997 (I ed. 1995). 8 Ibidem, pag. 5. 9 Ibidem, pagg. 169-176. 10 Ibidem, pag. 6. 11 Cfr. P. Eisenman, Oltre lo sguardo. L’architettura nell’epoca dei media elettronici, in “Domus” n. 734, 1992. Cfr. anche Alberto Sdegno, e-architec ture, in “Casabella” n. 691, pp. 58-67. 12 Luca Galofaro, Eisenman digitale, ed. Testo & Immagine, Torino 1999, pagg. 40-41. 13 L’indispensabile e necessario ottimismo nei confronti dell’informatica de- riva soprattutto dal fatto che “...il mondo digitale porta a un potenziamento delle capacità umane. La facilità di accesso alle informazioni, la mobilità e la possibilità di indurre cambiamenti è ciò che renderà il futuro tanto diverso dal presente”. Nicholas Negroponte, Essere digitali, Sperling & Kupfer ed., Milano 1995. 14 Per partecipare a ques ta comunità in rete e per vivere in un “Virtual Worlds”, realizzato grazie al linguaggio di modellazione VRML (Virtual Reality Modeling Language), è molto semplice. Attraverso la registrazione al sito diventerete “cittadini” di uno dei mondi digitali, potrete scegliere un “terreno” sul quale “edificare” la vostra casa, progettare gli arredi e altri oggetti non modificabili da altri utenti. Ma per prima cosa dovrete scegliere la vostra nuova identità (nome e rappresentazione grafica), in quanto sarete un avatar (il vostro alter ego digitale) che potrà assumere varie sembianz e. Divenuti membri di questa comunità digitale potrete interagire con altri utenti, comunicare, vedere cosa hanno a loro volta realizzato, percorrere strade, visitare altri mondi, ecc. Per parlare con gli altri avatar dovrete scrivere il messaggio nel box di dialogo (chattare) e il testo apparirà sopra la vostra testa con il vostro nome. Prezzo: freeware in modalità “turistica”, circa 20 dollari all’anno per la registrazione come “cittadino”. Per approfondire l’argomento: Martin Dodge, Rob Kitchin, Atlas of Cy berspace, Addi15 15 Franco Purini, Tre divagazioni al margine, in: “XY, dimensione del disegno” nn. 23/24/25, gennaio-dicembre 1995, pag. 15. 16 Questa citazione e le seguenti sono tratte da: Tomás Maldonado, Reale e Virtuale, op. cit. pag. 57. 17 Ibidem, pag.56. DIDASCALIE FIGURE Fig. 1. Cristiano Pintaldi, Aliens, 1998. Acrilico su tela, cm 170x230. La ricerca pittorica di Cristiano Pintaldi si fonda sulla ricostruzione dello spazio visivo ottenuta attraverso un procedimento analogo a quello della formazione dell’immagine video. I suoi quadri sono infatti dipinti secondo la logica di scomposizione che è propria delle immagini di tipo elettronico, dove l’unità elementare dell’informazione visualizzata sullo schermo è il PIXEL, ovvero una sorta di “molecola cromatica” composta da tre punti di colore diverso (rosso, verde e blu), unità informatica della rappresentazione video. Attraverso questo processo di discretizzazione del visibile filtrato dall’occhio tecnologico, l’artista elabora una metamorfosi dell’immagine mediante la sua scomposizione in colori primari racchiusi in innumerevoli pixel dipinti a mano: le figure si sgranano sulle grandi superfici dei quadri, in una sorta di “cromo-luminarismo” di specie digitale. Un lav oro pittorico che richiede una estrema meticolosità e un tempo di realizzazione paradossalmente lungo rispetto alla velocità con cui il pixel costruisce l’immagine nello spazio video. Utilizzando strategie narrative parallele, Pintaldi opera una campionatura di soggetti che rappresentano il processo di azzeramento temporale in atto nella nostra epoca. Le immagini dei suoi quadri oscillano molto spesso tra due oppos ti livelli di civiltà: pre-umana, rappres entata dalla figura del pigmeo ignaro della civiltà tecnologica esistente oltre i confini della foresta; post-umana, che ci guarda allo stesso modo in cui noi guardiamo i pigmei. Sono civiltà distanti nel tempo relativo delle rispettive realtà culturali, ma coincidenti in quello assoluto della realtà virtuale, dove “virtuale” non vuole tanto indicare uno spazio illusorio e parallelo a quello concreto (cosiddetto reale), quanto un luogo effettivo che penetra nella nostra vita trasformandola metaforicamente al livello di sub-realtà. Le opere di Pintaldi rappresentano il nuovo tipo di visione stimolato dalla realtà “virtuale”, spesso più presente e pervasiva di quella “reale”, con l’obiettivo di evidenziare che l’immagine digitale non è affatto infinita come quella “reale”, bensì riducibile al pixel, il componente luminoso elementare oltre il quale non c’è più niente. Fig. 2. M. Unali, Paesaggi contemporanei, 2000 (cfr., dello stesso autore, Pixel di architettura, ed. Kappa, Roma 2001, pp. 20-29). Fig. 3. Play # 1. Idea di G. Salimei e M. Unali (cfr. Pixel di architettura, op. cit., pp. 30-35). Fig. 4. M. Unali, sezione del progetto The blob, 2001. Fig. 5. M. Unali, The blob, 2001. Fig. 6. Facoltà di Architettura di Pescara, Laboratorio di Rappresentazione digitale, prof. M. Unali, allievo A. Luigini. Digital tectonics # 3. Sequenza di spazialità architettoniche ottenute attraverso la manipolazione di superfici NURBS e l’uso di modellatori digitali. Fig. 4 Fig. 1 Fig. 2 Fig. 5 Fig. 3 Fig. 6 Finito di stampare nel mese di luglio del 2003 dalla tipografia « grafica 891 S.r.l. » di Roma per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma