La valigetta blu

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La valigetta blu
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La valigetta blu
Cleide Bartolotti Cleide Bartolotti è nata a Domodossola e vive a Modena pur mantenendo un rapporto costante con la propria terra. Ha pubblicato Nel silenzio
di quel giorno giunto alla fine (Ed. Casa Rosa 1995),
una serie di racconti come Fiorile 1798 (Rivista Ossolana 1998), La sposa (Ed Comedit 2000. 1999), il romanzo Camionabile Scutari (Ed. Comedit 2000. 1999).
Con l’editore M.me Webb ha pubblicato i romanzi Le
scarpe degli altri (2006), Una selva di passi (2007), Di’ a
fra Dolcin che s’armi (2012). Per le “Copertine di M.me
Webb”, diversi racconti tra cui Regina (1999), Gli ultimi quadri dell’Ashton (2000) e 12 ottobre 1944 (2015).
ISBN 978-88-8049-219-6
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Tutto comincia con la guerra, con il racconto della
guerra. Dal dolore da cui, tuttavia, ovunque, riluce la
vita, perché «Non c’è morte che non sia anche nascita./
Soltanto per questo pregherò» (Mario Luzi). La letteratura inizia con le corazze istoriate di lampi sotto le mura
di Troia e con uno che anela a vincere la morte. Semina
massacri, costringe alla pietà. Come può allora Cleide
setacciare una storia arcinota, quella della Seconda
Guerra, canonizzata in romanzi plastici e in epopee
cinematografiche spumeggianti? Dettando una confessione. Nella Valigetta blu – che è un po’ la camera delle
meraviglie di una bimba che si ostina a incitare al sogno
pur nel massacro – scompaiono eroi ed eroismi, trombe
retoriche o blasfemi artifici neorealisti. C’è una donna
che tende l’orecchio al lettore come fosse una stanza, e
lì versa la confessione della propria infanzia. Con tatto
spudorato e lieto. E ora, come capita in tutte le storie,
sta a noi ripetere la confessione, o celarla. Finché la ricorderemo, lei, l’autrice, colpevole di non aver omesso
uno iota dalla vita, sarà viva e le sue memorie esisteranno, autenticate.
Davide Brullo
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…Quante vergogne, quanti delitti, quante atrocità
per questo povero popolo che ha scontato così duramente
colpe non tutte sue o ben poco; ma quanti martiri,
anche, quanto valore, quanto coraggio, quanto eroismo,
sia detta la parola, in questo povero popolo
così volentieri calunniato dagli scettici di salotto.
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Da Quel nove di settembre… di Mario Bonfantini
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Prima Parte
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Le teneva la mano mentre con l’altra reggeva la valigia. Si stavano incamminando verso la stazione. La via era deserta: ai lati
la campagna, una casa colonica e il muro del macello pubblico.
Il buio era a tratti squarciato dai traccianti che illuminavano il
cielo a giorno.
Davanti camminava la nonna, quasi a voler fare scudo con il
proprio corpo alla figlia e alla nipote; aveva le braccia cariche di
cappotti e un fagotto che conteneva chissà cosa. Erano i primi
di ottobre e, malgrado cadesse una pioggia fine, quella sera non
faceva freddo.
Anche la bambina portava un suo bagaglio, una valigetta blu
di fibra nella quale aveva messo la più piccola delle sue bambole e poche altre cose; si sentiva così grande! Anche se nessuno se ne era reso conto, negli ultimi tempi aveva ascoltato
i discorsi fatti in casa e adesso anche lei stava facendo una
cosa da grande. Aveva paura di quegli scoppi nel cielo, ma la
mamma le aveva assicurato che erano fuochi d’artificio e che
non c’era da temere anche se, a ogni scoppio, le stringeva più
forte la mano.
Nessuno le aveva spiegato il perché di quel viaggio e lei, per tutto il tempo dei preparativi, era rimasta a osservare il fermento
che si era creato in casa da sotto il tavolo della cucina, dove si
rifugiava per giocare o per stare col gatto.
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Da là sotto poteva ascoltare ogni parola e vedere ogni movimento: Alinda, sua madre, che riempiva la valigia, la nonna che
riponeva in una cassetta militare, appartenuta al nonno quando l’avevano richiamato, quelle poche riserve alimentari fatte
di scatolette, acquistate al mercato nero; il nonno che, dalla
mattina, come un’anima in pena, faceva la spola dalla bottega
alla cucina, sollecitando le due donne affinché si affrettassero a
chiudere la casa.
«Allora cosa hai deciso di fare?» gli aveva chiesto la moglie, in
un momento di pausa.
«Domani, vengo domani. Ho ancora delle cose da sistema’...
c’è quel rotolo di corame che ‘un pole mica resta’ sotto il letto;
aspetto Peppino che mi dia una mano a sotterrallo nella segatura in cantina. Anche lui ci ha una damigiana di marsala da
fa’ spari’ e, se la segatura ‘un basta, dobbiamo procurarcene
dell’altra».
«Chissà dove finiremo» diceva la nonna, asciugandosi gli occhi.
La bambina ancora non capiva. Solo quando vide portare via
il suo gatto e serrare porte e finestre, cominciò a temere che
qualcosa di grave stesse accadendo e a sentire dentro un tremito
leggero, che non aveva mai provato prima.
Se ne era stata tutto il giorno zitta, zitta nel suo angolo, nemmeno in cortile a giocare era andata, ma adesso, mentre camminavano seguendo il muro del macello, chiese:
«Dove andiamo, mammina?».
«Andiamo a fare un viaggetto in treno, a trovare la tua cugina
di Varzo».
«Ma è buio e io ho sonno...».
Non le rispose.
La paura le si stava allargando dentro, impedendole di piangere. Seguiva le due donne in silenzio; in quel momento, le loro
schiene erano la sua unica certezza.
Nel piazzale della stazione c’era una folla in attesa, una massa di
gente avvolta nella spettrale luce blu dei lampioni oscurati per
il coprifuoco.
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Proprio sulla porta, per non confondersi tra la folla rischiando
di non essere visto, aspettava il nonno con la cassetta dei viveri. Tra spinte e urti, la gente cercava di raggiungere il binario
dove il treno era pronto, seppur non si potesse ancora salire
perché gli sportelli erano ancora chiusi. Nella confusione qualcuno si perdeva; una donna chiamava disperatamente «Mario,
Mario...!» con voce lamentosa, quasi di pianto.
Il treno fu aperto e la massa vi si riversò. Nella calca che si era
creata per arrivare a prendere un posto, si infilò anche il nonno,
che occupò una panca con i bagagli. Ilde aveva preso in braccio
la bambina che guardava quella folla scura che freneticamente
spingeva, sgomitava, urlava mentre, più vicini e minacciosi, i
bengala, a tratti, illuminavano la stazione.
Si stringeva al collo della nonna e nascondeva gli occhi nel cavo
della sua spalla, perché quei lampi seguiti dagli scoppi così forti, ormai la terrorizzavano. Ilde le aveva insegnato una preghiera che le faceva recitare ogni sera prima di dormire, la mormorò
tra i capelli della nonna non trovando in quel momento altre
risorse.
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Ave Maria, gratia plena, fa’ che non suoni la sirena,
fa’ che non vengano gli aeroplani
fammi dormire fino a domani.
Il nonno, che aveva combattuto non solo nella Grande Guerra
ma, per alcuni mesi, anche per quella in corso, il 14 giugno del
1940 aveva subìto, con la sua compagnia di fanti, il cannoneggiamento su Savona da parte delle navi francesi; con tutto ciò
che aveva visto e vissuto, non si faceva prendere facilmente dal
panico. Sistemate moglie, figlia e nipote, pensò che fosse arrivato il momento di chiarire le idee ad Alinda, che pensava di
concludere il viaggio a Varzo.
«O’ Alinda» disse «guarda che questo qui ‘un fa fermate fino a
Briga».
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La donna si era illusa di poter scendere prima del confine e rimanere a casa della nipote di suo marito ma, ormai, considerata
la situazione, aveva perso ogni illusione.
«Lo so papà, ci speravo, chissà dove ci manderanno…».
«Per qualche giorno a Briga poi… t’ha detto nulla la Memen?».
«Non la vedo da giorni, te l’ha detto lei?».
«Chi se no... è sul treno con la Croce Rossa, l’ho veduta e le ho
parlato, mi disse che vi cercherà appena vi avranno collocate».
La bambina osservava, ascoltava insonnolita; le parole del nonno le giungevano ovattate, frammiste alle voci concitate, al risuonare di passi frettolosi lungo la corsia del treno, al pianto di
qualche bambino smarritosi nella confusione.
Lei teneva stretta la sua valigetta anche se il sonno le stava abbassando le palpebre. I traccianti, sempre più vicini, rimbombavano nell’aria e le si ripercuotevano dentro. Si strinse alla
nonna che continuava a rassicurarla.
«Papà, vieni domani, ti raccomando. Qui non si sa cosa può
accadere, per carità non aspettare che arrivino, se la gente se
ne va vuol dire che può succedere qualsiasi cosa, sentili, sono
sempre più vicini» gli disse Alinda, preoccupata.
«Sì, sì state tranquille. Domani, appena ho sistemato le cose...».
«Chiudi bene la porta, Renato, la chiave lasciala alla mamma di
Tonino» erano le ultime raccomandazioni della moglie «e vieni
presto, vieni presto, ché magari possiamo stare tutti insieme».
I ferrovieri svizzeri avevano cominciato a chiudere gli sportelli,
lo si intuiva dai tonfi che si avvicinavano; la bambina si era appisolata, ma quei rimbombi la risvegliarono di soprassalto.
Il nonno l’abbracciò senza dire nulla; le sembrò di vedergli dei
lucciconi negli occhi ma forse era colpa del sonno. Renato abbracciò moglie e figlia e scese in fretta dal treno, appena in tempo per non farsi chiudere lo sportello in faccia. Lei continuava
a non capire perché si trovasse su quel treno, fra tutta quella
gente sconosciuta che piangeva, e non nel lettone con la mamma a dormire.
La paura diventava sempre più grande.
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Alinda aveva aperto il finestrino e si era affacciata. Il padre, rimasto sul marciapiede, aspettava che il treno si muovesse. Non
si dissero più nulla, anche le raccomandazioni non sembravano
più così importanti, tutto era già stato detto.
Quando il treno iniziò a muoversi si salutarono solo con lo
sguardo, dalle gole contratte non uscì alcun suono.
Anche nel vagone era sceso il silenzio. Non più domande da
parte della gente, non più parole, ognuno ripiegato su se stesso,
nell’incertezza di una sconosciuta prospettiva di vita. Solo silenzio, singhiozzi e null’altro.
Era il 12 ottobre 1944.
Continuava così l’esodo che, alla fine, avrebbe portato oltre dodicimila persone verso un’altra nazione.
Ma tutto era cominciato molto prima di allora.
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In un pomeriggio d’autunno, di ritorno dall’ufficio del notaio dove lavorava, Alinda si era imbattuta in un camioncino sul
quale erano stati buttati i corpi di partigiani morti in uno scontro a fuoco in valle.
Non era la prima volta che giovani civili, ancora male organizzati, davano battaglia a una postazione tedesca ma mai, per le
strade della città, si era visto sfilare un carico così tragico. Alinda era giunta a casa sconvolta, si era accasciata su una sedia in
cucina, accanto alla finestra e, tra i singhiozzi, aveva raccontato:
«Erano buttati uno sull’altro come animali, il camioncino era
tutto imbrattato di sangue…».
Sotto il tavolo, seminascosta da una tovaglia, la bambina giocava ma ascoltava ogni cosa.
Era il novembre del 1943. Erano i giorni dell’insurrezione di
Villadossola che, dopo un’accanita resistenza, solo gli Stukas
tedeschi riuscirono a piegare.
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Alinda era una giovane donna di 22 anni, con una figlia piccola,
il marito in Albania di cui non aveva notizie da oltre un anno, e
che la Croce Rossa aveva dato per disperso.
In quel periodo frequentava quotidianamente l’ospedale; assisteva il marito della sua amica Giulia, il maresciallo della Finanza Cacciola, al quale avevano amputato un arto che stava
andando in cancrena per congelamento.
Alinda, quando usciva dall’ufficio, andava in ospedale a sostituire
Giulia per sollevarla un po’. Nella corsia i letti con i feriti stavano
diventando sempre più fitti, tanto che i farmaci e i calmanti non
bastavano più. I medici passavano seguiti dalla bella suor Miradio, che prendeva nota e poi tornava con la morfina per i più
gravi che pian piano si acquietavano. Per gli altri non c’era che
qualche Veramon e la polvere di Streptosil sulle ferite, durante il
cambio delle bende. Ad Alinda rimanevano dentro, quei lamenti;
quando tornava a casa, era sempre silenziosa e malinconica.
Il pensiero che anche Tonino, suo marito, potesse trovarsi nelle stesse condizioni, la metteva duramente alla prova. Vivere
accanto al dolore degli altri la indusse, passo dopo passo, nella
direzione che avrebbe preso in seguito.
Alcune sere, rientrava a casa allorché era già scattato il coprifuoco. L’ospedale non era lontano, ma le pattuglie di ronda giravano regolarmente per le strade, soprattutto nelle periferie,
dove le milizie immaginavano fosse più facile imbattersi nelle
staffette partigiane o nei partigiani stessi, scesi in città per qualche ragione.
L’ospedale era presidiato; vi erano ricoverati alcuni partigiani
molto gravi, feriti nella battaglia di Megolo. Come falchi neri, i
militi si aggiravano senza sosta attorno ai loro letti, in attesa che
si riprendessero, per poterli poi condurre in carcere e interrogare. Alinda era conosciuta da quelli di guardia in portineria,
sapevano che andava ad assistere un maresciallo della Finanza,
e questo le dava una possibilità di movimento in più.
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Le sere in cui tardava, suo padre faceva la spola dalla cucina al
cancello di casa ma poi, una volta rientrata, non diceva niente.
Bastava guardarla per comprendere che si portava dentro tutta
la sofferenza da cui era circondata nelle ore trascorse in quella
corsia. Ognuno cercava di nascondere le proprie ansie, le paure
che diventavano, giorno dopo giorno, sempre più concrete.
La bambina aveva le bambole, il gatto, i nonni ancora giovani e
molto presenti che non le lesinavano affetto, le anatre da portare al pascolo nei prati dietro casa quando Alinda non lavorava,
tanti piccoli amici che vivevano nello stesso caseggiato e con
cui giocare nel grande cortile. Grazie ai suoi pochi anni viveva
serena.
Qualche volta le capitava di vedere sua madre in lacrime, ma le
scuse per distrarla erano sempre pronte, poi Alinda le sorrideva
e tutto finiva lì.
Il padre, per lei, non era che un ricordo fatto di parole, di promesse che, le raccontavano, si sarebbero realizzate al suo ritorno.
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I rastrellamenti in montagna non davano tregua ai partigiani,
anche in città erano iniziati i fermi ai quali erano seguiti gli arresti. La gente viveva nella paura.
Le SS, su segnalazione della polizia politica, entravano a qualsiasi ora nelle case e prelevavano chi ritenevano sospetto: uomini inabili all’arruolamento per raggiunti limiti d’età e donne
sospettate di essere fiancheggiatrici dei partigiani, staffette che
tenevano i collegamenti tra i vari gruppi di insorti portando
messaggi e, quando potevano, piccoli rifornimenti, soprattutto
vestiario e sigarette fornite dai contrabbandieri.
Verso la fine di un giorno qualunque vennero fermati e arrestati
numerosi uomini. Li radunarono in una piazza mentre camicie
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nere e polizia politica formavano un cordone tutt’intorno. Li caricarono sui camion che partirono per ignota destinazione. Confusa tra la gente assiepata intorno alla piazza, c’era anche Alinda.
«Avrei dato un occhio della testa per poterli tirare giù da quei
camion» disse alla madre, che cercava di calmare la sua agitazione.
Di giorno in giorno, la situazione peggiorava. I partigiani si erano ormai organizzati in formazioni e davano del filo da torcere
sia alle milizie che ai Tedeschi.
In ospedale non c’erano più letti disponibili, e questo fece sì
che le suore, appoggiate dai primari dei vari reparti, ogni volta
che un Tedesco veniva ricoverato, facessero sparire dalla corsia
un partigiano ferito, anche se grave.
Le monache si giustificavano dicendo che erano venuti a prelevarli i Tedeschi, che qualcuno era deceduto e i familiari, gente
sconosciuta di qualche valle, ne avevano reclamato la salma e
che, in base al certificato di decesso, tutto era in regola.
La milizia raddoppiò la sorveglianza mentre la corsia si stava
riempiendo di repubblicani e Tedeschi.
Una sera, Alinda stava scendendo gli ultimi gradini prima dell’uscita dall’ospedale. Da una porticina che dava nel seminterrato
si sentì chiamare; era una suora che le fece cenno di avvicinarsi.
«Signora, la vedo venire tutti i giorni ad assistere quel pover’uomo, dovrei proprio chiederle un piacere».
Alinda la guardò sorpresa; la suora non le stava dando del voi
com’era d’obbligo, ma del lei, come si era sempre usato fare prima della dittatura e come era rimasto in uso fra stretti conoscenti.
«Mi dica, se posso…».
«Sono la suora cantiniera» disse «abbiamo dei feriti gravi, un
po’ di caffè sosterrebbe loro il cuore dato che non abbiamo più
Coramina... lei non potrebbe procurarne un po’?».
Alinda rimase allibita. Che la corsia fosse piena di feriti lo sapeva, ma che proprio a lei chiedessero di portare del caffè per
i Tedeschi, la indignava. Guardò la suora e la sua risposta fu
molto secca:
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«Io? Non saprei proprio come».
«Il finanziere che viene ad assistere...».
«Oh no, no, avrà visto anche lei che non viene nessuno dei suoi
colleghi a trovarlo. È ammalato da tanto tempo e non credo che
abbia delle possibilità».
«E la moglie? Possibile che non si possa fidare di qualcuno?
Perché nessuno deve sapere che quei ragazzi sono nascosti
qui».
«Scusi, ma di chi sta parlando?».
La suora le fece cenno di abbassare la voce:
«Signora, non penserà che sia per quelli là... che il Signore mi
perdoni, ma quelli hanno già tutto quello che gli serve. È per
quei ragazzi nascosti nelle soffitte…».
«Oh, Signore… io credevo…» cambiò tono, le sfiorò le labbra
un leggero sorriso. Questa notizia le confermava un sospetto
che aveva da tempo: aveva sempre immaginato che ci fossero
di mezzo le suore, nella scomparsa dei partigiani, e adesso ne
aveva la certezza.
«Non so proprio cosa dirle, suora, mi ci faccia riflettere…»
adesso era imbarazzata per non poter dare una risposta immediata e rassicurare la suora che la guardava con occhi supplichevoli. Non sapeva cosa dire, cercò una via di scampo in una
vaga promessa che non avrebbe saputo come mantenere: «Mi
dia tempo fino a domani sera quando esco dall’ufficio... non le
garantisco niente però... non so, devo pensarci».
«Le raccomando la discrezione, signora».
«Non tema. Se riesco a trovarne un po’ a chi lo devo consegnare?».
«Alla suora di turno nella cucinetta; sa, siamo tutte nella stessa
barca».
Rimuginò lungo tutta la strada che la riportava a casa. Era solo
una mezza promessa ma adesso si sentiva impegnata a mantenerla e non sapeva come fare. Arrivò a casa senza nemmeno
rendersene conto, tanto era immersa in quel cruccio quasi certamente senza soluzione. Però…
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Fu un’idea che dapprima lei stessa giudicò balzana, tanto più
che avrebbe dovuto coinvolgere un’altra persona e la monaca le
aveva raccomandato discrezione. Ma valeva la pena di tentare.
Se c’era una possibilità, poteva essere solo quella.
L’unica che avrebbe potuto darle una mano, era Regina.
Regina era una cartomante molto conosciuta in città e fuori.
Usava il pendolo per cercare persone scomparse, cadeva in
trance, leggeva i fondi del caffè e del carcadè, aveva un carattere allegro e vivace; Alinda la conosceva da tutta una vita ed era
certa di potersi fidare.
Non entrò neppure in casa, andò direttamente all’uscio di lei e
le spiegò la situazione. Da quella sera iniziò il traffico del caffè.
Regina alle clienti leggeva i fondi della cicoria e per non che
se ne accorgessero, dato che erano loro a procurare la materia
prima, miscelava il surrogato con una piccola quantità di caffè;
tutto il resto finiva nel sottotetto dell’ospedale per sostenere il
cuore dei partigiani feriti.
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Alcuni giorni dopo i fatti di Megolo, una brigata nera fece irruzione nel collegio maschile Rosmini. Prelevarono gli studenti
degli ultimi anni di liceo, li caricarono su un camion e li portarono via. Nessuno sapeva dove.
Tra loro anche Ferruccio, un ragazzo di diciassette anni che abitava nella stessa casa di Alinda. Dopo qualche tempo, per vie
traverse, le famiglie vennero a sapere che i ragazzi erano stati
condotti in un campo di addestramento militare per essere poi
inviati in Germania e, in seguito, sul fronte orientale. In quel
periodo, Caterina, la madre di Ferruccio, usciva solo per la spesa; il resto delle giornate lo trascorreva in casa, pensando che il
suo ragazzo potesse tornare in qualsiasi momento.
Tornò una domenica pomeriggio di primavera.
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