1 - Cinecircolo Romano

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1 - Cinecircolo Romano
CINECIRCOLO ROMANO
STAGIONE CINEMATOGRAFICA 2009/2010
DOSSIER ASSOCIAZIONE
•
L’attività culturale è il luce, gli aspetti
economici in ombra
•
•
Rubrica Festivaliera del Cinecircolo
•
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La Mostra d’Arte 2009
CineCortoRomano 2009
SCHEDE FILMOGRAFICHE con le biografie
dei registi
Il Premio Cinema Giovane
✓ la V Edizione
✓ la VI Edizione: dal 22 al 27 marzo 2010
Appuntamenti di programma e calendario
Nella foto di Mauro Crinella, i vincitori del Festival internazionale del film di Roma 2009 - da sinistra, con il Premio
Marc’Aurelio: Andrew Lang, Martin Koolhoven, Sergio Castellitto, Helen Mirren, Giorgio Diritti e Nicolò Donato
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L’ATTIVITÀ CULTURALE È IN LUCE,
GLI ASPETTI ECONOMICI IN OMBRA
del Presidente Pietro Murchio
La appena trascorsa stagione ha avuto riscontri di
apprezzamento notevoli come ad esempio il gradimento del programma nonché la concessione di contributi
da parte della Regione Lazio al Premio Cinema
Giovane, il quale è ormai un evento di risonanza regionale e nazionale.
Il programma cinematografico della stagione è stato
stilato ponendo grande attenzione sia alla qualità che ai
gusti prevalenti dei soci e prevede ben 42 titoli (1 prologo + 29 titoli in locandina + 2 film per ragazzi + 10
film durante la settimana culturale) per ben 204 proiezioni. La selezione ha orientato la scelta verso il genere
commedia (ca. 50%) ed i titoli di film italiani sono oltre
il 40%.
La manifestazione Premio Cinema Giovane ha dato ai
soci l’opportunità di incontrare numerosi artisti, cosi
come in occasione dell’evento straordinario di maggio
2009 con la proiezione del film Focaccia Blues che ha
visto la partecipazione del produttore e del regista che
hanno raccontato gustosi aneddoti inerenti la realizzazione del film. Grande successo ha ottenuto la Mostra
concorso di arti figurative che, con una formula rinnovata, ha visto la partecipazione di ben 97 artisti con 180
opere. Bene anche la qualità del CineCortoRomano
che ha visto la partecipazione di noti cineasti come
Carlo Delle Piane e Peppino Mazzotta.
In occasione della prossima settimana culturale, che
sarà preceduta da una conferenza stampa di preannuncio alla casa del Cinema , i soci avranno nuovamente
modo di incontrare numerosi artisti che interverranno
alle proiezioni per il dibattito con il nostro pubblico.
L’acquisizione dello status di associazione giuridicamente riconosciuta ci ha consentito per la prima volta
quest’anno di chiedere ai soci e simpatizzanti la sottoscrizione del 5%°, ma i risultati si conosceranno solo tra
un anno.
L’inizio di questa stagione è stato caratterizzato da un
evento nuovo: il prologo della stagione con la presentazione video in sala del palinsesto della stagione e dei
corsi organizzati dall’Upter presso i locali della nostra
Associazione, seguiti dalla proiezione dell’ultima commedia di Pupi Avati.
Negli ultimi quattro anni il tesseramento, complice
anche il problema dei parcheggi, è diminuito del 30%,
mentre l’importo unitario delle quote- con la speranza
di incentivare la fedeltà alla associazione- è aumentato
di molto meno. Ne consegue che pur essendo intervenuti per ridurre i costi, gli ultimi esercizi sono risultati
in disavanzo. Le riserve patrimoniali hanno finora consentito di assorbire tali disavanzi, ma con il nuovo esercizio in perdita si presenta il problema di assicurare la
continuità della attività di programmazione, che intendiamo affrontare con una azione decisa su due fronti:
modalità di tesseramento che favoriscano la fidelizzazione ed importi delle quote che garantiscano il pareggio di bilancio.
Ovviamente in tale congiuntura anche per questa stagione verranno poste in essere ulteriori azioni volte al
risparmio come ad esempio il nuovo formato della rivista, che pur mantenendo i soliti contenuti informativi ha
una struttura tipografica più economica.
Le convenzioni con altri enti hanno avuto nuovo impulso, come ad esempio quella con l’Upter, ma nonostante
la azioni di promozione intraprese le adesioni languono
o meglio sono troppe le persone che non danno continuità al tesseramento. Stiamo lanciando un sondaggio
strutturato per capire meglio le motivazioni del fenomeno per poi quindi apportare eventuali correttivi, sempreché siano alla nostra portata.
La necessità di dare alle finanze della Associazione un
assetto di stabilità nel tempo, tenuto conto che la buona
parte dei costi è di natura fissa e strutturale (affitto sala,
affitto sede , costo del personale, costi amministrativi,
noleggi film, costi SIAE, etc ..) implica che - stante il
numero di soci registrato questa stagione - è ineludibile
l’incremento dell’importo delle prossime quote associative. Questo argomento assieme ad una modalità di versamento delle quote che favorisca la fidelizzazione,
saranno oggetto di riflessione anche durante la prossima assemblea dei soci, che si terrà il prossimo 9 di
dicembre.
La situazione generale in cui naviga la nostra
Associazione culturale è difficile soprattutto per la congiuntura economica sfavorevole che fatalmente pone
restrizioni ai soggetti con minore potere contrattuale: da
cui i tagli ai fondi di supporto alla cultura ed allo spettacolo sia a livello nazionale che locale, cionondimeno
stiamo perseverando nella difficile ricerca di fonti supplementari di finanziamento.
Nella speranza che i soci si sentano partecipi dei problemi della Associazione, ricordiamo che uno dei modi per
migliorare la situazione è proprio
quello alla portata di ognuno di
noi: fare proseliti per il nostro
Cinecircolo.
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PASSEGGIANDO TRA I FESTIVAL
Rubrica Festivaliera del Cinecircolo a cura di Pietro Murchio
La nostra rubrica sui festival più importanti e più
vicini, Cannes-Venezia e Roma, giunge al quarto
anno di edizione strutturata, con una eccellente disanima qui elaborata dai nostri inviati “volontari”.
I nostri instancabili critici cinematografici sono
riusciti a catturare quasi tutti i film in concorso ed
raccontarci con grande sintesi il meglio della stagione festivaliera, anche in funzione utile alla formazione del nostro programma sociale.
Ricordiamoci che questa attività di “scouting” nei
festival ci consente di rendere il nostro programma
stagionale più” fresco” inserendovi titoli di buoni
film ancor prima della loro uscita nelle sale.
Elemento positivo e comune ai tre eventi è una ripresa confortante del livello medio qualitativo, non si
smentisce però la realtà che le opere da festival si
rivolgono prevalentemente al genere drammatico seppur con la presenza di alcune buone commedie, fatto
che non sempre è successo.
Altro elemento caratterizzante è la riduzione dell’aspetto “glamour” - meno paillettes - a favore della
esaltazione di personaggi che nel cinema contano
sopratutto per meriti artistici!
Anche i tre premi alla carriera sono stati conferiti a
artisti di grande spessore seppur con motivazioni
molto diverse: Alain Resnais a Cannes, Silvester
Paz Vega
Stallone a Venezia e Meryl Streep a Roma. In verità
queste scelte contribuiscono a rilevare che il Festival
di Roma si è sdoganato e ciò anche per merito della
saggia guida di Gian Luigi Rondi.
I premiati di Cannes sono stati validi ma non del tutto
condivisibili, ci sembra infatti che alcune scelte siano
state condizionate da criteri geopolitici.
I premi di Venezia hanno avuto l’unico torto di assegnare la coppa Volpi ad una seppur brava Ksenia
Rappoport, strappando il trofeo ad una strepitosa
Margherita Buy, di ben altra classe, che avrebbe meritato la coppa.
I premi di Roma sono a nostro avviso condivisibili
anche se il Marc’Aurelio più importante è andato al
film “Broderskab”, buono ma non eccellente, che avrà
sicuramente meno successo di altri in sala.
Ancora su Roma mi fa piacere rilevare che le nostre
critiche relative alla scorsa edizione circa alcuni aspetti organizzativi sembrano essere state recepite: sia gli
accessi agli spettacoli che i tempi di attesa sono
migliorati! A conferma della buona qualità dei film
presentati a Roma, i titoli papabili per la nostra locandina erano più di quelli attualmente inseriti e solo i
tempi stretti di edizione del programma ci hanno spinto a rinviare la loro selezione, e cioè quando la distribuzione li metterà a disposizione del mercato italiano.
... il Festival è concluso!
Arrivederci alla prossima edizione
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Amanda e Stefania Sandrelli
PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS
62° FESTIVAL DI CANNES
di Paola Dell’Uomo
l’unico rappresentante del nostro cinema nella
Tempi di austerity anche sulla Croisette. La 62°
sezione principale, ma non ha avuto il riconosciedizione del Festival di Cannes, si è svolta in un
mento che ci si aspettava, nonostante i pronostici
clima di ristrettezze. Pochi i divi in passerella,
favorevoli della vigilia.
posti liberi negli alberghi, tempi di magra. I granLa giuria, presieduta da una bellissima Isabelle
di divi non si sono visti. All’ormai scontata coppia
Huppert è stata molto ferma, e le polemiche, come
Brad Pitt, Angelina Jolie, si sono alternate nuove
è d’uopo attendersi, non sono mancate. Così,
star del cinema internazionale. Il pubblico femmiall’annuncio del vincitore della Palma d’Oro, i
nile ha mostrato di apprezzare nuovi volti, come
giornalisti hanno subito parlato di “conflitto di
quello del palestinese Saleh Bakri, protagonista di
interessi” perché Michael Haneke, regista del film
“The time that remains” di Elia Suleiman, o come
Palma d’Oro, “Il Nastro Bianco”, era stato l’artequello del ricercatissimo Filippo Timi, volto prefice del riconoscimento come migliore attrice per
stato al giovane Mussolini del film “Vincere” di
la Huppert proprio a Cannes nel 2001 con “La piaBellocchio, mentre gli uomini hanno potuto amminista”. Quest’anno il riconoscimento come migliorare la bellezza tutta mediterranea di Ronit
re attrice è stato dato Charlotte Gainsbourg, per la
Elkabetz in “Cendres et sang” di Ardant, o la più
sua interpretazione nel sanguinario “Antichrist” di
nordica Melanie Laurent, di “Inglourious
Lars von Trier. Il premio come migliore interpreBasterds”.
tazione maschile è andato a Christoph Waltz, per il
La penuria di grandi star non ha impedito di vedesuo ufficiale tedesco nel film di Tarantino.
re dell’ottimo cinema nelle sale. Due i film che
Un vero e proprio omaggio alla cinematografia
hanno entusiasmato il pubblico, anche se non
Francese e alla sua Nouvelle Vague, è stato il prehanno
collezionato
premi;
“Inglourious
mio speciale per l’ottantasettenne Alain Resnais,
Basterds”di Quentin Tarantino, che ancora una
che con la sua commedia d’autore “Les herbes folvolta si diverte a contaminare generi cinematograles” tornava a Cannes a distanza di 50 anni da
fici differenti. Questa volta va ad “aggredire” il
“Hiroshima mon amour”.
genere dei film dedicati alla seconda guerra monMa questo è stata anche l’edizione forse più splatdiale ed al nazismo. L’altro è il nuovo film di Ken
ter degli ultimi anni. Oltre alla sanguinaria prova
Loach “Looking for Erich”. Con quest’opera
di Von Trier, hanno fatto tremare i polsi e gli stoLoach torna alla commedia, la sua commedia,
machi del pubblico anche “Drag me to the Hell” di
quella ambientata nei sobborghi inglesi, dove
Sam Raimi, che dopo la parentesi di Spider Man,
anche un idolo del calcio, può diventare un comtorna la suo amato genere horror, così come
pagno di vita e fonte di ispirazione. Il ritorno è
“Kinatay”
di
Brillante
quello di un grande, accanto
Mendoza, o il coreano
all’ex campione di calcio
“Thrist” di Park Chan-wook.
Erich Cantona, che è sembraCannes è stato il primo della
to perfettamente a suo agio
stagione in ordine temporale,
nelle nuove vesti di produttoma gli altri appuntamenti
re ed attore.
importanti, come Venezia e
L’Italia, ancora una volta
anche Roma, hanno seguito
nella terra gallica, è rimasta
tutti una stessa linea di
molto ai margini della
sobrietà, poche paillettes, ma
Croisette.
Il
film
di
Alain
Resnais
ottimo cinema.
Bellocchio “Vincere” è stato
Palma d’oro alla carriera
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PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS
IL LEONE RIPRENDE A RUGGIRE
di Catello Masullo
Il più antico e blasonato degli appuntamenti mon“Women without men”. Pur riconoscendo al
diali di cinema, la Mostra Internazionale d’Arte
primo una grandissima originalità nella scelta di
Cinematografica di Venezia, è arrivato alla sua
ambientare l’intero film nel ristretto e claustrofo66-esima edizione. Dopo la “raucedine” che
bico ambiente dell’interno di un carro armato, ed
avevo appioppato per la deboluccia passata edial secondo grandi doti visive e una buona sensizione al ruggito del celeberrimo Leone, simbolo
bilità femminile, la scelta pare giustificata più da
icastico della kermesse, devo registrare con piaconsiderazioni di tipo geo-politico, distribuendo
cere che questo anno è di livello nettamente supepremi a Israele e Iran, gli opposti poli che potrebriore. La consolidata gestione di Marco Muller
bero scatenare la terza guerra mondiale, che da
matura con gli anni, come il buon vino di annata.
valori cinematografici nettamente prevalenti su
Un festival diventa e resta grande quando può
quelli degli altri concorrenti. Di livello, ed
contare su uno staff dirigenziale certamente capaagguerrita, la pattuglia dei tanti film italiani prece, ma anche di lunga data nell’incarico (vedi
senti a Venezia. A cominciare dall’ultimo, grande
Cannes). Alta la qualità generale dei film. Con
film di Giuseppe Tornatore, “Baarìa”, che è stato
tante eccellenze. Primo tra tutti, il mio personale
scelto, meritatamente, come film d’apertura. Ed
Leone d’Oro, il nuovo, strepitoso documentario
erano oltre 20 anni che non succedeva ad un film
di Michael Moore, “Capitalism : a love story”. Il
italiano. Proseguendo con i solidi e toccanti “Lo
suo pamphlet è il più efficace ed icastico atto di
Spazio Bianco”, di Francesca Comencini, “Il
accusa contro il sistema finanziario e politico
Grande Sogno”, di Michele Placido, che ha conamericano che è stato messo a punto negli ultimi
sentito a Jasmine Trinca di vincere il Premio
decenni. Analisi spietata dei crimini del grande
Marcello Mastroianni per attrice emergente, e
capitale, che fa sì che negli USA il 99% della
“Tris di donne & Abiti Nunziali”, di Vincenzo
popolazione ha sempre meno e l’1% sempre di
Terracciano, che ricompone la magica coppia di
più. Il film è brillantissimo, con un uso dell’iro“Ricette d’Amore” : la deliziosa Martina Gedek
nia e del sarcasmo sublime. Con un montaggio da
ed il grande Sergio Castellitto. Nutrito, e sorOscar, che utilizza sapientemente una serie di
prendente, il numero di opere prime italiane. Lo
chicche stupende. Grande ritorno di Werner
spettacolare “La Doppia Ora”, di Giuseppe
Herzog, presente addirittura con due film a
Capotondi, che ha consentito alla protagonista, la
Venezia, con uno strepitoso remake de “Il Cattivo
superlativa Ksenia Rappoport, di vincere la
Tenente”, con la migliore interpretazione di semCoppa Volpi come miglior attrice. I delicati, intipre di Nicolas Cage. Uno straordinariamente
misti, “Dieci Inverni” di Valerio Mieli e
affascinante e visionario “Mr. Nobody” di Jaco
“Cosmonauta”, di Susanna Nicchiarelli, Premio
Van Dormael. Divertentissimi “Soul Kitchen” di
per il miglior film della nuova sezione
Fatih Akin, Premio Speciale della Giuria,
Controcampo Italiano. E un’altra grande inter“L’uomo che fissa le capre” di Grant Heslov, con
pretazione di Valerio Mastandrea per l’esordio di
George Clooney e uno straordinario
Claudio Noce in “Good Morning
Jeff Bridges, che gli ruba la scena, e
Aman”. Anche questo anno i “caccia“The
Informant”
di
Steven
tori” inviati del Cinecircolo tornano
Soderbergh, con un grande Matt
da Venezia con la bisaccia piena. Tre
Damon. La giuria presieduta da Ang
dei grandi film proiettati al Lido
Lee, di cui hanno fatto parte Sergey
fanno parte del programma : “Mr.
Bodrov, Sandrine Bonnaire, Joe
Nobody” di Jaco Van Dormael, “Soul
Dante, Anurag Kashyap e gli italiani
Kitchen” di Fatih Akin e “Lo Spazio
Liliana Cavani e Luciano Ligabue, ha
Bianco” di Francesca Comencini. E
assegnato il Leone d’Oro come
sono convinto di non sbilanciarmi
miglior film a “Lebanon” del regista
troppo nell’anticipare che anche il
israeliano Samuel Maoz , ed il Leone
nostro Premio Cinema Giovane, della
d’Argento per la miglior regia all’ira- Samuel Maoz, Leone d’Oro prossima primavera, beneficerà di
niana Shirin Neshat per il film
qualche opera prima da Venezia.
per “Lebanon”
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PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS
FESTIVAL DI ROMA: RONDI PROMOSSO A PIENI VOTI
di Paola Dell’Uomo e Catello Masullo
George Clooney ha portato a Roma un film di spessore,
Arriva alla sua IV Edizione il Festival del Film di
“Tra le nuvole”, diretto da Jason Reitman, che aveva
Roma, quella che può essere considerata la prima diretvinto proprio questo Festival con il delizioso “Juno”.
ta da Gian Luigi Rondi a pieno titolo. Lo scorso anno,
Riflette sulla attuale catastrofe umana americana con la
dopo il cambio di management in corsa, a seguito della
perdita di tanti posti di lavoro che devasta vite e famiconquista del Campidoglio da parte di Alemanno, aveglie. Ma lo fa con una sublime ironia. Di grande impatvamo “rimandato ad ottobre” il decano Rondi, che
to e valore cinematografico il film d’apertura, “Triage”
aveva accettato la sfida. Promosso a pieni voti, per quedi Danis Tanovic, alto grido contro tutte le guerre.
sta edizione : un grande Festival, che ha visto meno
Molto commovente e delicato “Hachico : a dog story”,
stars e più cinema. Il livello delle pellicole è stato sicucon un grande Richard Gere. Di assoluto interesse il
ramente molto alto, di gran lunga migliore della passafilm vincitore del Festival, “Broderskab” del danese
ta edizione, e la presenza di due splendide signore del
Nicolò Donato. Grande la prova attoriale di due monucinema Helen Mirren, che ha ottenuto il riconoscimenmenti del cinema, Christopher Plummer (protagonista
to del Marco Aurelio, come miglior attrice protagonista,
anche di Parnassus) e la ricordata vincitrice del premio
e la incantevole Meryl Streep, premio alla carriera,
per miglior attrice, Helen Mirren, nel poderoso film stohanno collaborato a mantenere alto il tono del red carrico “The Last Station”. Non è da meno Meryl Streep
pet. Che ha raggiunto la temperatura più alta con la prenella gustosa commedia “Julia & Julia”. Si è difeso
sentazione di 20’ minuti dell’attesissimo “Twilight New
bene il cinema italiano. Con la grande opera seconda di
Moon”; evento che, nonostante la pioggia, ha visto frotGiorgio Diritti, “L’uomo che verrà”. Che ha meritatate di adolescenti in delirio ai margini del tappeto rosso.
mente vinto il secondo premio, il Marco Aurelio d’arQuest’anno esaltato anche da George Clooney. La grangento. Ed a tenere alto l’onore degli attori nostrani ci ha
de forza di questo Festival sono le sue molte sezioni e
pensato lo strepitoso Sergio Castellitto di “Alza la
le sue molte anime. Oltre alla selezione ufficiale, veri
testa”, di Alessandro Angelini. A sua volta alla sua
pilastri continuano ad essere “L’Altro Cinema/Extra”,
opera secondo, dopo “L’aria Salata”, con il quale, curiosempre mirabilmente curata da Mario Sesti, ed “Alice
sità, aveva portato Giorgio Colangeli a vincere il prenella città”, dedicata ai film per le giovani età. Lo spetmio come miglior attore alla prima edizione del festitacolo che si vede ogni mattina nell’area
val, e che ha lasciato il “testimone” al grande Sergio
dell’Auditorium di Roma, nel periodo del Festival, con
nazionale. Non hanno sfigurato neppure il duro
decine di torpedoni che portano al cinema centinaia di
“Marpiccolo”, di Alessandro di Robilant, l’intrigante
studenti di ogni ordine e classe, è entusiasmante.
“Viola di Mare”, di Donatella Maiorca, con le giovani
Visionaria missione, che forma ed educa alla cultura
strepitose Valeria Solarino e Isabella Ragonese, il divercinematografica gli spettatori di domani (e anche di
tente “Oggi Sposi”, di Luca Lucini, scritto dai campiooggi). Molte le pellicole di gran classe. Con alcune
ni italiani della commedia brillante, Fausto Brizzi e
punte di diamante. Come “Parnassus - L’uomo che
Marco Martani, nonché Christine Cristina, di Stefania
voleva ingannare il diavolo”, di Terry Gilliam, che ci da
Sandrelli, al suo debutto da regista. Una menzione specon questo film una lezione di cinema. In epoca di forciale, inoltre, meritano due magistrali documentari, “Le
tissima omologazione, nella quale quasi tutti i film si
Rupi del Vino”, del maestro Ermanno
uniformano a codici consolidati. In cui
Olmi, e “Sotto il Cielo Azzurro” di
tutto o quasi è prevedibile. Nulla o quasi è
Edoardo Winspeare. Ci piace segnalare
veramente originale. Ci regala un film
infine il film vincitore della sezione deditotalmente fuori dagli schemi. Oppure “Il
cata ai documentari, l’inglese “Sons of
Concerto” di Radu Mihaileanu, piccolo
Cuba”, di Andrew Lang, un doloroso
gioiello di grande cinema. Si ride, tanto, ci
omaggio alle speranze delle giovani prosi commuove, ci si emoziona. Lo spettatomesse del pugilato nell’ultimo baluardo
re viene avvolto in una girandola di trovadel socialismo reale. Un documentario
te esilaranti, a tratti irresistibili. Per poi
che si fa film e rende film le vite reali dei
essere rapito dalle emozioni della musica
ragazzi di Cuba. Anche da questa edizio(provate a trattenere le lacrime durante
ne il Cinecircolo Romano prende due
l’esecuzione finale del concerto per violiperle per il programma di questo anno: “Il
no di Čajkovskij, se ci riuscite…), passando attraverso la commozione del melo- Meryl Streep, Marc’Aurelio Concerto” di Radu Mihaileanu, e “Tra le
nuvole”, diretto da Jason Reitman.
dramma. La stella di prima grandezza
alla carriera
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PREMIO CINEMA GIOVANE & FESTIVAL DELLE OPERE PRIME
a cura di Pietro Murchio
Il Cinecircolo Romano ha programmato, a partire dalla stagione 2004/2005, di organizzare una manifestazione
celebrante il cinema giovane italiano, istituendo un Premio nell’ambito di un festival.
Il Premio Cinema Giovane è dedicato agli autori di opere prime ed ai giovani interpreti (attori ed attrici) del cinema italiano della più recente stagione, ed è caratterizzato dal giudizio espresso dal pubblico cinefilo. Lo scopo
quindi è quello di dare annualmente un riconoscimento a personaggi emergenti del panorama del giovane cinema
italiano, dando visibilità al giudizio del pubblico ospite e dei Soci dell’Associazione.
ESITI DELLA V EDIZIONE: MARZO/APRILE 2009
La rassegna che festeggia il cinema italiano ha registrato anche per quest’anno il tutto esaurito in sala durante le proiezioni per un totale di circa 10.000 presenze.
Mirata alle opere prime del 2008 (24 opere) la manifestazione si è tenuta dal 30 marzo al 4 aprile 2009 con la presentazione di 10 titoli del cinema giovane italiano su 19 proiezioni.
Tra gli eventi della manifestazione, hanno suscitato l’interesse del pubblico le numerose interviste agli artisti intervenuti alle proiezioni, condotte dal nostro critico cinematografico Catello Masullo.
Tre le opere prime italiane del 2008 (Machan di Uberto Pasolini, Pa-ra-da di Marco Pontecorvo e Pranzo di Ferragosto
di Giovanni Di Gregorio) e sette i film italiani del 2008 (Diari di Attilio Azzola, Non c’è più niente da fare di Emanuele
Barresi, La velocità della luce di Andrea Papini, La rieducazione del collettivo Amanda Flor - D. Alfonsi, A. Fusto, D.
Guerrini, D. Malagnino, Si può fare di Giulio Manfredonia, Tutta la vita davanti di Paolo Virzì e Galantuomini Edoardo
Winspeare), presentati all’ Auditorio San Leone Magno dal Cinecircolo Romano nella V edizione del Premio Cinema
Giovane & Festival delle Opere Prime. I film hanno concorso per aggiudicarsi i quattro Premi in palio: Premio Opera
Prima, Premio Migliore Attore, Premio Migliore Attrice e il Premio Migliore Attrice Non Protagonista (Novità 2009).
La sera di venerdì 3 aprile sono stati consegnati i Premi ai Vincitori della V edizione. Hanno consegnato i Premi
l’Assessore alla Cultura, Spettacolo e Sport Della Regione Lazio Giulia Rodano e la responsabile dell’area Cinema,
Audiovisivi e Programmi Europei della Regione Lazio Cristina Crisari:
– il Premio Opera Prima è stato assegnato al film PA-RA-DA di Marco Pontecorvo;
– il Premio Miglior Attore è stato assegnato a Beppe Fiorello per Galantuomini di Edoardo Winspeare;
– il Premio Miglior Attrice è stato assegnato a Donatella Finocchiaro per Galantuomini di Edoardo Winspeare;
– il Premio Migliore Attrice Non Protagonista è stato assegnato a Micaela Ramazzotti per Tutta la vita davanti di Virzì.
La serata è stata impreziosita dalla presenza di tutti i registi ed attori candidati ed è stata presentata da dal giornalista critico cinematografico Maurizio di Rienzo .
Durante la manifestazione, si è svolto un interessante Forum sul tema “Il cinema giovane italiano: segni di crescita” al
quale hanno partecipato: Catello Masullo, Enzo Natta, Andrea Papini, Artura Paglia, Carlo Brancaleoni, Fausto Brizzi,
Elio Girlanda e Pietro Murchio. Nel dibattito è emerso che per rilanciare la distribuzione delle opere prime può risultare importante il ruolo dei cineclub. A corollario dell’evento, nel foyer dell’Auditorio, si è svolta una mostra concorso di
arti figurative, non commerciale e competitiva.
Beppe Fiorello
e Donatella Finocchiaro
Micaela Ramazzotti
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Marco Pontecorvo
PREMIO CINEMA GIOVANE VI EDIZIONE: MARZO 2010
La manifestazione è pur sempre caratterizzata dal giudizio espresso dal pubblico di soci ed ospiti, con il coinvolgimento
di numerosi giovani, dei “cineasti” protagonisti nonché delle risorse culturali del territorio, ampliando l’offerta culturale e la promozione, in modo da dare all’evento un più vasto respiro a livello regionale e nazionale.
La manifestazione si svolgerà dal 22 marzo al 27 aprile 2010 presso l’Auditorio San Leone Magno di Via Bolzano 38 la
cui sala ospiterà le proiezioni cinematografiche, il Forum su “Il Cinema Giovane Italiano: come aiutarlo?” e la
Premiazione; contemporaneamente nell’elegante foyer si svolgerà una mostra concorso di opere di arte figurativa, competitiva non commerciale.
Una Commissione di esperti, appositamente nominata composta da membri altamente qualificati del mondo della cultura
e stampa cinematografica, sta effettuando una selezione di film italiani opere prime, di genere fiction, distribuiti nel corso
del 2009: ad oggi ben 30 opere sono state censite.
Per la selezione dei migliori interpreti giovani la commissione si avvale anche del parere di due registi esperti.
La rassegna finale del Festival si terrà presso l’Auditorio San Leone Magno in occasione della annuale settimana culturale. I tre film nominati verranno proiettati tre volte, in tre orari diversi (16.00, 18.30, 21,15) nei giorni 22,23 e 24 marzo,
raccogliendo su apposita scheda i giudizi del pubblico spettatore, inoltre negli stessi giorni in orario mattutino si terranno
le proiezioni per i giovani studenti delle medie superiori del Comune di Roma. Durante la settimana culturale verranno
proiettati anche altri 7 film selezionati dal Cinema Giovane Italiano, di cui 3 selezionati per la presenza di interpreti candidati (ad es.: Ex, Il grande sogno, Fortàpasc). Complessivamente, nella settimana, sono previste 19 (di cui 3 mattutine
per giovani studenti) proiezioni ad inviti gratuiti per i soci e per il pubblico ospite, come avvenuto nelle cinque precedenti edizioni.
Il 26 marzo 2010 verrà effettuata la premiazione. I “Premi Cinema Giovane”, assegnati all’autore della migliore opera
prima ed ai migliori giovani interpreti, consisteranno in un oggetto di fattura originale appositamente inciso e personalizzato. Agli autori degli altri due film in concorso verrà consegnata una speciale targa in argento. Agli autori di tutti gli altri
film selezionati per la rassegna verrà consegnata, al momento del loro intervista in sala, una targa personalizzata di partecipazione.
Per l’occasione la prestigiosa rivista del Cinecircolo “Qui Cinema” dedicherà un numero speciale alla manifestazione. Il
Cinecircolo provvederà a divulgare la rassegna oltre che con locandine, depliants di programma ed inviti personalizzati,
con comunicati alla stampa quotidiana, periodica, e ai media radio-televisivi, nonché alle Istituzioni Pubbliche e agli Enti
Patrocinanti.
La manifestazione usufruisce, tra gli altri prestigiosi, del Patrocinio con collaborazione dell’Assessorato alla Cultura della
Regione Lazio e sarà preannunciata da una apposita Conferenza Stampa che sarà tenuta 6 o 7 giorni prima dell’inizio,
presso la Casa del Cinema.
E’ pianificato per il 30 marzo, come evento di promozione culturale post-festival, la proiezione con dibattito con gli artisti del film vincitore del Premio presso una sala-teatro comunale in Provincia di Latina, località che verrà precisata in
occasione della conferenza.
Le notizie della manifestazione verranno divulgate tramite Radio Cinema (ente collaborante) anche in appositi spazi radiofonici su rete nazionale.
Infine, le notizie sul programma della manifestazione saranno altresì pubblicate nel sito internet del Cinecircolo
(www.cinecircoloromano.it), nonché in altri siti convenzionati come: www.upter.it; www.radiocinema.it, www.
Cinemonitor.it, e sul sito del Festival del Cinema di Roma, etc.
Premio Cinema Giovane V edizione: il palco con i premiati
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Peppino Mazzotta vincitore
del CineCortoRomano
CONCORSO CINECORTOROMANO 2009
a cura di Maria Teresa Raffaele
Nell’ottica di promozione e valorizzazione di una forma artistica cinematografica che sta incontrando molto interesse, quella dei Corti, anche quest’anno il Cinecircolo Romano ha promosso il Concorso per la realizzazione di un cortometraggio originale rivolto ai Soci e non. La Manifestazione, arrivata ormai alla sua ottava edizione, ha cercato ancora una volta di offrire occasione di visibilità a quanti, professionisti o semplici dilettanti, hanno dato ascolto all’impulso creativo da cui prende
vita quel magico esercizio di sintesi e di espressività che è alla base di un corto. E spesso anche con sperimentazioni di linguaggio originali e coinvolgenti.
Tutto questo si è potuto riscontrare nei corti presentati al CINECORTO di quest’anno che hanno ottenuto anche il sostegno
dell’ UPTER, Università Popolare di Roma che generosamente ha partecipato all’arricchimento del “monte premi”.
I premiati di quest’anno sono stati:
PREMIO CINECORTOROMANO 2009: ECCE HOMO su soggetto e sceneggiatura di Peppino Mazzotta liberamente
tratto da “La morte di Ivan Il’ic” di Tolstoj;
Menzione speciale della commissione di valutazione a:
ANNUNCIAZIONE di Davide Alfonsi e Denis Malagnino, del Collettivo Amanda Floor;
OGNI GIORNO di Francesco Felli, interpreti Carlo Delle Piane e Stefania Sandrelli;
REQUIEM PER GAZA di Francesco Fazioli, un drammatico montaggio di immagini su musica di Mozart (fuori concorso);
PREMIO MIGLIORE INTERPRETE: Carlo Delle Piane per OGNI GIORNO di Francesco Felli. L’attore, presente in
sala, ha ritirato il premio e risposto alle domande del pubblico.
MOSTRA D’ARTE 2009
Anche quest’anno il Cinecircolo Romano ha arricchito la sua Settimana Culturale con l’allestimento della Mostra d’Arte, tradizionale evento riservato ai Soci ed ospiti, che con le loro capacità artistiche trovano in questa manifestazione annuale la loro
vetrina qualificata e qualificante. Manifestazione che il Cinecircolo sostiene fin dalla sua fondazione e che nasce dal confronto
tra il Cinema e le altre forme di arti visive in una sorta di sodalizio volto a perseguire sinergie, le più varie, fra i diversi linguaggi
dell’Arte.
Quest’anno la Mostra ha annoverato, tra professionisti ed amatori, un notevolissimo numero di partecipanti, ben 97 artisti con
180 opere, grazie anche all’apertura ad artisti affermati provenienti dalle Associazioni Pittori di Via Margutta ed Inarte e da allievi e docenti dell’UPTER, Università Popolare di Roma con la quale il Cinecircolo ha iniziato un’interessante collaborazione
culturale e che ha sostenuto l’evento anche in modo concreto conferendo il Premio Acquisto, per la migliore opera a tema. Tutto
ciò ha contribuito a creare un interessante e stimolante clima di competitività a sicuro vantaggio della qualità.
Qui sotto sono riportati la formazione della Giuria e l’elenco dei premiati.
Giuria di esperti in arti figurative
Ugo Bevilacqua - docente arti figurative
Carlo Fabbrini - antiquario
Ferruccio Fantone - giornalista
Claudio Guidi - architetto
Elio Morbiducci - architetto
PITTURA sezione professionale
Primo premio: Bambina di Nadia Petraitiene
Secondo premio: Luisa guarda il fuoco di Giulia Zingali
Terzo premio: Pennichella di Germana Ponti
PITTURA sezione amatoriale
Primo premio: Scuola di nudo di Dalma Cimino
Secondo premio: Riflessione di Oreste Tintori
Pittura sezione professionale
Terzo premio: Baite sulla neve di Adriana Ginanneschi
Primo premio “Bambina” di Nadia Petraitiene
CERAMICA
Primo premio: Roma sparita di Pierina Palmerini
Secondo premio: Madonna con bambino di Patrizia Tanda
SCULTURA
Primo premio: Maternità di Bruna Viganotti
Secondo premio: Deposizione dalla Croce di Renato Peppoloni
PREMIO ACQUISTO per un’opera ispirata al rapporto tra Goethe e Roma:
L’incantesimo eterno di Roma da Goethe ad oggi di Stefania Tanca
M.T.R.
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L’OSPITE INATTESO di Thomas McCarthy
28-29-30 ottobre 2009
Thomas McCarthy. Nato nel New Jersey nel 1966, studia presso la New Providence High School e successivamente si diploma al Boston
College nel 1988; inoltre studia alla Yale School of Drama. Debutta come attore nel 1992 nel film Oltre il ponte. Nel corso della sua carriera prende parte ai film Good Night and Good Luck., Flags of Our Fathers, Michael Clayton e alle serie televisive Boston Public e The
Wire. Debutta alla regia nel 2003 con il film Station Agent, che si aggiudica numerosi riconoscimenti, tra cui il premio John Cassavetes,
l’Independent Spirit Award per la miglior sceneggiatura d’esordio e il BAFTA alla migliore sceneggiatura originale. Nel 2007 torna dietro la macchina presa dirigendo Richard Jenkins ne L’ospite inatteso, film presentato con successo al Toronto International Film Festival.
Interpreti: Richard Jenkins (Prof. Walter Vale), Hiam Abbass (Mouna Khalil), Haaz Sleiman (Tarek Khalil), Danai Gurira (Zainab),
Marian Seldes (Barbara), Maggie Moore (Karen), Michael Cumpsty (Charles), Bill McHenry (Darin), Richard Kind (Jacob), Tzahi
Moskovitz (Zev), Amir Arison (Sig. Shah), Neal Lerner (Martin Revere), Waleed Zuaiter (Omar), Laith Nakli (Nasim), Earl Baker Jr.
(Lester James)
Genere: Drammatico/Romantico
Origine: Stati Uniti d’America
Soggetto: Thomas McCarthy
Sceneggiatura: Thomas McCarthy
Fotografia: Oliver Bokelberg
Musica: Jan A.P. Kaczmarek
Montaggio: Tom McArdle
Durata: 103’
Produzione: Groundswell Productions, Next Wednesday Productions, Participant Productions
Distribuzione: Bolero Film
SOGGETTO: Tornato a New York, il professor Walter Vale, docente di economia, trova insediata nella sua casa una coppia di giovani clandestini, il siriano Tarek e la senegalese Zainab. Dopo il primo momento di sorpresa, li invita a restare, almeno finché non avranno trovato un’alternativa. Tarek fa emergere nel solitario Walter una passione per la musica africana ma un giorno, mentre sono insieme nella metropolitana, il giovane viene fermato per un banale motivo. Scoperto che è clandestino, viene rinchiuso in un carcere in
attesa del rimpatrio. Walter prende a cuore la situazione, vuole evitare l’espulsione. A New York arriva anche Mouna, la mamma di
Tarek, che a sua volta é accolta a casa del professore. Insieme i due fanno l’impossibile per salvare la situazione. Ma il fatto che la
mamma non abbia dato risposta tempo prima all’ingiunzione di rimpatrio rende tutto inutile. Tarek torna in Siria. Walter accompagna
la donna all’aeroporto.
VALUTAZIONE: Notevole la capacità di affrontare problemi grossi senza strepitare, senza alzare la voce ma anzi con misura e estrema sensibilità. Indimenticabile il ritratto che del professor Vale costruisce Richard Jenkins, fin qui caratterista di rango e ora protagonista a tutti gli effetti: un uomo qualunque, grigio e disilluso, che riscopre all’improvviso la voglia di interessarsi a ciò che gli succede
intorno. Un cambiamento tutto costruito dal di dentro, che esplode solo in carcere davanti alla guardia e al rispetto implacabile e per
lui irrazionale delle regole. C’é denuncia, netta, lucida, ma con la consapevolezza che certe leggi non vanno stravolte, e che la severità in certi casi va mantenuta.
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LA FELICITÀ PORTA FORTUNA di Mike Leigh
5-6 novembre 2009
Mike Leigh nasce il 20 Febbraio 1943 a Salford, Greater Manchester, Inghilterra, Gran Bretagna. Lavora principalmente come regista a
numerosi lavori per il grande e il piccolo schermo. Nel 1971 realizza il primo lungometraggio, che ottiene subito un riconoscimento al
Festival di Locarno, ma non incontra un significativo riscontro di pubblico. Negli anni successivi Leigh gira diversi cortometraggi per la
televisione affinando il suo stile e facendosi un nome nel settore. Ma è solo alla fine degli anni ottanta che ritorna al cinema con Belle speranze. Da questo momento in poi diventa un regista di riferimento del cinema inglese con le prove di grande intensità offerte da film come
Naked - Nudo, Segreti e bugie e Il segreto di Vera Drake, film che lo designano come uno dei massimi esponenti del realismo inglese.
Interpreti: Sally Hawkins (Poppy), Alexis Zegerman (Zoe), Andrea Riseborough (Dawn), Sinéad Matthews (Alice), Kate O’Flynn
(Suzy), Sarah Niles (Tash), Eddie Marsan (Scott), Sylvestra Le Touzel (Heather), Nonso Anozie (Ezra), Joseph Kloska (Amico di
Suzys)
Genere:Commedia
Origine: Gran Bretagna
Soggetto: Mike Leigh
Sceneggiatura: Mike Leigh
Fotografia: Dick Pope
Musica: Gary Yershon
Montaggio: Jim Clark
Durata: 118’
Produzione: Thin Man Films, Film4, Ingenious Film Partners, Potboiler Productions, Summit Entertainment, Uk Film Council
Distribuzione: Mikado
SOGGETTO: Londra non è solo pioggia e toni cupi ma ha anche un lato solare e colorato, quello rappresentato alla perfezione da
Pauline, una giovane maestra elementare che solo a guardarla mette allegria. Poppy, così la chiamano tutti, è uno spirito libero, ama
i vestiti kitsch e vive con l’amica del cuore, anche lei insegnante, in un piccolo delizioso appartamento nel nord della città. Passa le
sue giornate preoccupandosi più del presente che del futuro e tra lezioni a scuola, lezioni di guida e lezioni di flamenco, Poppy ha
raggiunto il perfetto equilibrio con se stessa e con gli altri. Non vive nelle fiabe ma tiene i piedi saldamente per terra senza mai perdere di vista la realtà, affrontando la vita quotidiana con un pizzico di ottimismo, con autoironia e spontaneità. Si sa, cuor leggero,
Dio l’aiuta.
VALUTAZIONE:
Filmmaker britannico tra i più apprezzati e controversi del cinema europeo, Mike Leigh sceglie la commedia per tentare di alleggerire
i toni della seriosa Berlinale e portare a casa l’unico premio che manca ancora nella sua bacheca. A quattro anni dal pluripremiato Il
segreto di Vera Drake il regista torna a parlare di donne e vita vissuta con un personaggio a tinte forti, adorabile e goffo allo stesso
tempo, che probabilmente in mano ad un’altra attrice avrebbe finito per risultare eccessivo. Sally Hawkins invece è straordinaria, e rapisce l’attenzione dal primo all’ultimo secondo, saltando insieme ai suoi rumorosi braccialetti da un siparietto ad un altro senza pause.
La sua interpretazione, fatta di buffe smorfie e battute a raffica, strappa più di qualche applauso e rimarrà certamente nella memoria e
nella storia di questo festival. Si ride, e anche molto, ma i momenti seri sono in agguato dietro l’angolo, narrati da Leigh con il suo
solito humor e con una saggezza fuori dal comune. Un film contemporaneo Happy-Go-Lucky, realista e che invita al buonumore e alla
riflessione, la storia di un piccolo universo di felicità che riconcilia con il Cinema.
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TI AMERÒ SEMPRE di Philippe Claudel
12-13 novembre 2009
Lo scrittore e sceneggiatore Philippe Claudel nasce a Dombasle-sur-Meurthe (Francia) il 2 Febbraio 1962, professore di letteratura e antropologia culturale all’università di Lione è conosciuto per il suo racconto Grey souls del 2003, vincitore del prestigioso
premio Prix Renaudot. Nel 2002 scrive il soggetto del dramma musicale di Yves Angelo, My finger tips, seguito nel 2005 dalla sceneggiatura del drammatico Les ames grises, sempre del regista Angelo. Nel 2007 scrive il primo episodio della serie tv Chez maupassant e l’adattamento di una puntata della serie Miss Harriet. Dopo aver completato il romanzo ambientato durante l’olocausto
Il rapporto Claudel decide di esordire come regista e sceglie un racconto tutto al femminile.
Interpreti: Kristin Scott Thomas (Juliette), Elsa Zylberstein (Léa), Serge Hazanavicius (Luc), Frédéric Pierrot (Capitano Fauré), Laurent
Grévill (Michel), Lise Ségur (P’tit Lys), Jean-Claude Arnaud (Papy Paul), Mouss Zouheyri (Samir), Souad Mouchrik (Kaïsha),
Catherine Hosmalin (Insegnante), Claire Johnston (Madre di Juliette e Lea), Olivier Cruveiller (Gérard), Lily-Rose (Emélia)
Genere: Drammatico
Origine: Francia/Germania
Soggetto e sceneggiatura: Philippe Claudel
Fotografia: Jérôme Alméras
Musica: Jean-Louis Aubert
Montaggio: Virginie Bruant
Durata: 115’
Produzione: Ugc Ym, Integral Film, France 3 Cinéma, Ugc Images
Distribuzione: Mikado
SOGGETTO: Juliette viene rilasciata dopo aver trascorso quindici anni in carcere, durante i quali non ha avuto alcun rapporto con la sua
famiglia. Al momento del ritorno in libertà la sorella più giovane di Juliette, Léa, decide di aiutarla e di accoglierla in casa sua, con il marito e le loro due figlie adottive. Il rapporto tra le due sorelle é da subito difficile e complicato, per la differenza d’età ma soprattutto per il
drammatico reato di cui si é macchiata Juliette, che quindici anni prima aveva ucciso il figlio di sei anni. La decisione di aiutare chi ha compiuto un simile gesto é naturalmente difficile non solo per Léa, ma anche per suo marito Luc e gli amici che frequentano la casa. Il rapporto tra le sorelle, nonostante la lancinante tensione affettiva, si rivela intimo, profondo, indistruttibile, in un crescendo emotivo coronato dallo
svelamento del vero motivo che ha portato Juliette a compiere il terribile gesto…
VALUTAZIONE: Scrittore noto in madrepatria, appassionato di pittura e cinema (durante l’Università ha realizzato diversi cortometraggi,
è già stato sceneggiatore), con un’esperienza di lezioni tenute in carcere – per una decina d’anni - oltrechè in ospedale, e in un istituto, a
bambini malati e con handicap fisici, Philippe Claudel riserva l’esordio dietro la macchina da presa alla forza delle donne e alle relazioni tra
genitori e prole. Nella lavorazione, l’autore si è concentrato sui due personaggi femminili – Scott Thomas ha ottenuto il premio come miglior
attrice agli European Film Awards e la candidatura al Golden Globe - e ha intrecciato i loro contraddittori stati d’animo con un’attitudine
espressionista e attenta alle sfumature, ridotto i dialoghi, assecondata la lentezza dei processi interiori; si è servito inoltre di una musica semplice di chitarra, procedendo per giustapposizione piuttosto che linearmente e passando dal freddo grigio, dalla macchina da presa stretta su
Juliette ad una maggior morbidezza e apertura. Il peso di un potente segreto, la solitudine, la vecchiaia, la possibilità di ricostruzione di legami e di una nuova esistenza insieme ad anime simili si piazzano come elementi paralleli all’idea che l’identità sia differente da quanto è dato
vedere, e infatti il principale dubbio da pubblico è che forse - rispetto all’immagine – l’elemento letterario avrebbe reso più giustizia alle psicologie.
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Il Corriere della Sera - Maurizio Porro
Il titolo francese coniuga il verbo al passato (“ti amo da molto
tempo”), quello italiano punta sul futuro. E il film è un magnifico esempio di cinema europeo, con azione interiore, molto
francese, analisi psicologica raffinata e sofferente ma anche
con due sorprese, una dopo 30 minuti; l’ altra straziante, in fine.
Riveliamo solo che si tratta dell’ incontro di due sorelle, nella
provinciale Nancy: Juliette, dopo 15 anni di prigione, torna
dalla sorella insegnante Lèa che la ospita in casa col marito
tifoso, due figli adottivi, il suocero muto per malattia e incomunicabilità, un quadro familiare tipo il Tram che si chiama
desiderio di Williams. Nella ragnatela dei rapporti e della vita
che ricomincia si inseriscono un commissario, un prof., un
dott., una famiglia didascalicamente irachena. Al mondo si
risponde senza parole, i bilanci emotivi son difficili da quadrare: segreti, bugie, sussurri e grida, sorellanze e le affinità elettive; ondate di memoria e foto ingiallite, l’ importanza proustiana del passato remoto. Una storia virata al femminile senza
vezzi ma con gran sensibilità. Philippe Claudel vuole omaggiare la forza delle donne nel rimettere a posto i pezzi di vita, loro
e altrui. Una straordinaria Kristin Scott Thomas (nomination
all’ Oscar) percorre il film guardandoti negli occhi gelidi dentro cui ribolle una insofferenza, un rimorso svelati nella scena
madre; le dà risposta pure in silenzio l’ attrice di rara sensibilità Elsa Zylberstein, ma sono da citare anche tutti gli apporti
maschili, vari e perfetti. Thriller moral giudiziario con mini
lacune di verosimile ma una tessitura drammatica di forza eccezionale, capace di accendere un ‘divertimento’ emotivo intellettuale continuo. Il Libro (la notte sta di conforto sul letto)
risulta al centro dell’ attenzione e le citazioni di Dostoevskij e
Leopardi non casuali, mentre si dice che Rohmer è il nostro
Racine, dalla parete occhieggia un poster di Lubitsch.
Bellissimo film cui vince su tutti la Parola che nel cinema può
essere un Silenzio: fidatevi.
ora soffocandola ora facendole quasi da specchio, che avvince e
emoziona. Un poliziotto mite e loquace, ma più disastrato di lei;
un estraneo rimorchiato e liquidato al volo (scena impagabile);
una nipotina invadente; la madre affetta da demenza che la tratta da bambina. Mentre le inevitabili spiegazioni circa quel delitto d’amore suonano meno intonate. Forse perché il cuore del
film è altrove. Non nei fatti, ma nella trama impalpabile delle
loro conseguenze. Nella distanza invalicabile che separa Juliette
dal resto del mondo e forse da se stessa (solo un professore che
per anni ha insegnato in carcere, come Claudel, sembra capire
senza giudicarla). Non era facile calarsi in questa dimensione.
Claudel e le sue attrici lo fanno con coerenza e coraggio.
Facendosi perdonare un paio di scivolate. E un’insistenza contro Parigi e le sue mode che a tratti, vedi il pretestuoso ‘processo’ a Rohmer, sfiora la retorica.
La Stampa - Lietta Tornabuoni
Una donna, condannata per aver ucciso il figlio malato senza
speranze di guarigione, esce di prigione dopo quindici anni di
detenzione. La sorella le offre ospitalità nella casa a Nancy
dove vive con il marito, due bambine vietnamite adottate, il
suocero ammutolito da un attacco cerebrale (la madre delle
sorelle, malata di Alzheimer, è in una casa di cura).
Lentamente, le due donne ritrovano la reciproca complicità e il
comune passato, la ex detenuta recupera il gusto della vita, la
fiducia in se stessa e negli altri, i gesti della serenità, in un film.
impressionista paziente e suggestivo. È l’opera prima dello
scrittore francese di numerosi romanzi di successo Philippe
Claudel, 46 anni, che in passato ha insegnato in prigione per
undici anni e in ospedale per bambini malati o disabili per quattro anni, già esperto sceneggiatore per il cinema. Qui soggetto,
sceneggiatura, regia, tutto è suo: non c’è da stupirsi che il film
abbia toni letterari; ha pure grande cura, attenzione anche ai
minimi particolari, piccole storie divertenti, grande intensità.
Kristin Scott Thomas è molto brava: la sua trasformazione fisica e psicologica dal momento dell’uscita di prigione è raffinata, eloquente.
Il Messaggero - Fabio Ferzetti
Una donna segnata da una colpa terribile torna dalla sorella
dopo esser stata quindici anni in prigione. In comune hanno solo
ricordi. Quando la primogenita è andata dentro, l’altra era quasi
una ragazzina. Ora tutto è cambiato. La più giovane, Léa (Elza
Zylberstein, perfetta) ha un marito, un suocero che non parla,
due figlie adottive. ‘Non è che non potessi avere bambini, è che
non mi sentivo di averne uno dentro la pancia’. Si capisce: la
sorella è stata condannata per aver ucciso il figlio di sei anni.
Nel frattempo è stata annientata dal dolore, dalla famiglia, che
ne ha cancellato ogni traccia, dalla società che oggi la rifiuta.
Ma tutto questo lo scopriamo poco a poco. Quello che vediamo
all’inizio è soprattutto il nulla, il vuoto, l’abisso che si porta
dentro Juliette (una Kristin Scott Thomas assolutamente prodigiosa). Un abisso che il film lentamente esplora e prosciuga,
come una palude. È il lato migliore dell’esordio di Philippe
Claudel, scrittore già molto noto (il suo romanzo più famoso è
‘Le anime grigie’, ed. Ponte alle Grazie), arrivato al cinema per
raccontare una storia cui la pagina andava stretta. Ed è proprio
la partitura di tempi, incontri, falsi movimenti in cui si iscrive la
lenta rinascita di Juliette, il coro di personaggi che la circonda
La Repubblica – Roberto Nepoti
Libera dopo quindici anni di prigione, Juliette riappare nella vita
della sorella e trova ospitalità presso di lei; rischiando di farne
vacillare l’ equilibrio famigliare. Tormentata da un segreto atroce, Juliette è una donna che ha rinunciato a sedurre e che rifugge dai contatti umani. Non tutto è perduto, però: Ti amerò sempre, esordio nella regia del romanziere Philippe Claudel, è la
storia di un lento e laborioso, ma anche dolce, ritorno al mondo.
Pian piano la donna riuscirà a venir fuori anche da un altro carcere - senza sbarre - in cui era ancora rinchiusa dopo l’ uscita
dalla cella. Non diremo qui il motivo della lunga reclusione di
Juliette. Ciò che interessa davvero il neo-regista, in realtà, non è
sorprenderci: è mostrarci l’ evoluzione di un personaggio femminile devastato ma pudico, infelice eppure sobrio, interpretato
con grande finezza da Kristin Scott-Thomas. Senza un filo di
trucco, l’ attrice si espone a una serie di primi piani rischiosi.
Certi dialoghi sono un po’ troppo “scritti”, però le espressioni
del suo volto, quando tace, dicono molto di più.
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MILK di Gus Van Sant
19-20 novembre 2009
Gus Van Sant Jr. (Louisville, 24 luglio 1952). Dopo il diploma alla Rhode Island School of Design si trasferisce ad Hollywood dove inizia a lavorare con Ken Shapiro. Si è dichiarato gay e il suo regista preferito è Stanley Krubrick. Fa parte di una band musical chiamata
Kill All Blondes. Si fa notare nel 1985 con il suo primo film Mala Noche, premiato con il Los Angeles Film critics Award come miglior
film indipendente e sperimentale (1987). Viene premiato dalla critica a Venezia con il film Belli e Dannati. Ha scritto e diretto Drugstore
cowboy (1990). Nel 1993 è il regista di Cowgirl - Il nuovo sesso e ottiene un Golden Globe con Da Morire. Nel 1997 vince due Oscar
con Will Hunting - Genio Ribelle, mentre di recente ha firmato il remake di Psyco. Nel 2000 è regista di Scoprendo Forrester e Brokeback
Mountain. Nel 2003 scrive e dirige il controverso Elephant, Palma doro e premio come migliore regia al Festival di Cannes. Festival, che
gli conferisce altri due premi per il miglior film, nel 2005 per Last Days, ispirato agli ultimi giorni di Kurt Cobain dei Nirvana, e per
Paranoid park nel 2007.
Interpreti: Sean Penn (Harvey Milk), Emile Hirsch (Cleve Jones), James Franco (Scott Smith), Josh Brolin (Dan White), Diego Luna
(Jack Lira), Brandon Boyce (Jim Rivaldo), Kelvin Yu (Michael Wong), Lucas Grabeel (Danny Nicoletta), Alison Pill (Anne
Kronenberg), Victor Garber (Sindaco George Moscone),
Genere: Biografico/Drammatico
Origine: Stati Uniti d’America
Soggetto: Dustin Lance Black
Sceneggiatura: Dustin Lance Black
Fotografia: Harris Savides
Musica: Danny Elfman
Montaggio: Elliot Graham
Durata: 128’
Produzione: Focus Features, Groundswell Productions, Jinks/Cohen Company
Distribuzione: Bim
SOGGETTO: San Francisco, dove i due aprono un piccolo negozio di fotografia nel popolare quartiere Castro. Ben presto i due diventano il punto di riferimento per gli omosessuali della zona, e della città. Intenzionato a reagire a reiterate situazioni di discriminazione da parte
di molti cittadini, Milk diventa un militante sempre più convinto del movimento ‘gay’. Chiede pari diritti e opportunità per tutti, si guadagna molte simpatie e capisce che è il momento di dare una forma ‘ufficiale’ a questo suo impegno. Dopo qualche tentativo fallito, nel 1977
viene eletto ‘supervisor’ (consigliere comunale) a San Francisco. Milk si impegna molto nel suo incarico, fino ad entrare in aperto conflitto
con il suo collega Dan White.
VALUTAZIONE: Dopo la trilogia della morte (Gerry, Elephant e Last Days) e l’acclamato Paranoid park, Gus Van Sant ritorna ad utilizzare un linguaggio più “tradizionale” per raccontare gli ultimi otto anni di vita di Harvey Milk, il primo americano gay dichiarato ad essere
eletto per un ruolo pubblico (consigliere comunale di San Francisco nel 1978). Una scelta, quella di seguire passo passo una sceneggiatura
ricca di dialoghi e abbastanza serrata se si confronta con i quattro film precedenti, fatta perché ad emergere sia la “storia” anziché l’autore.
Van Sant mette Harvey Milk davanti a tutto: che lo si conosca, che si comprenda ancor oggi quanto sia stato importante per la parità di diritti, che il suo nome continui a circolare come esempio di coraggio anche nelle nuove generazioni. La passione con cui il regista si è approcciato al progetto è riscontrabile proprio nella sua volontà di diventare invisibile, di mettere in luce gli aspetti migliori della vita del politico
tralasciandone le parti più equivoche, facendo sì che la macchina da presa riprenda l’intimità del suo protagonista trovando il giusto equilibrio tra pudore e onestà.
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La Repubblica - Roberto Nepoti
Tra i migliori registi in attività oggi, Gus Van Sant alterna film decisamente indipendenti con produzioni mainstream, più tradizionali e
interpretate da star. Quel che è certo, è che non fa mai cose banali.
Come in questo Milk, biografia dell’ attivista gay “nominata” all’
Oscar (e prima ai Golden Globes), sia come miglior film sia per l’
interpretazione (davvero notevole) di Sean Penn. Compiuti da poco
i quarant’ anni, Harvey Milk si trasferisce con il compagno Scott
nel quartiere popolare di Castro, San Francisco, che sta diventando
porto franco per gli omosessuali, all’ epoca apertamente perseguitati, picchiati, additati al pubblico disprezzo come pericolosi pervertiti. Gradualmente, si scopre una tempra di combattente e un
forte istinto politico, un carisma di eroe per caso che lo obbliga a
farsi paladino dei diritti della comunità gay. Bocciato più volte alle
elezioni non si tira indietro, ma ritenta fin quando, nel 1977, è eletto nel “board of supervisors” (i consiglieri comunali) di Frisco,
amministrata dal sindaco George Moscone. Da lì, promuove una
battaglia civile per difendere i cittadini dai licenziamenti per orientamento sessuale; inoltre, deve parare i colpi dell’ integralismo religioso rappresentato da Anita Bryant (una specie di Sarah Palin dell’
epoca) e battersi contro un referendum statale che mira a cacciare
dalle scuole gli insegnanti gay e chi li sostiene. Abile oratore, Milk
affronta bene i dibattiti televisivi; ma soprattutto sa mobilitare le
piazze, con l’ aiuto di un gruppo di giovani militanti che ha convinto a sposare la causa. Anonimamente minacciato di morte, non
sa che il vero pericolo viene da un collega, Dan White, altro consigliere eletto insieme a lui dietro la cui “normalità” di padre e marito esemplare si cela la follia. Nei casi di biopic basati su vicende
reali, è uso compiacersi se il regista non fa il santino del protagonista. In Milk, però, c’ è parecchio di più. Van Sant immerge lo spettatore in un perfetto contesto d’ epoca, mischiando la pellicola
nuova (trattata con colori anni ’70, alla “Woodstock”) a riprese di
repertorio, con l’ aggiunta di idee originali: come lo split-screen, il
mosaico visivo che suddivide lo schermo in tanti piccoli schermi, a
restituire il corrispondente visivo del “passaparola”. Altro merito,
quello di non enfatizzare o additare troppo gli elementi già “forti”
del film: come la trasformazione della politica in spettacolo, per la
quale gli anni ’70 furono decisivi, o una sorta di fatalismo drammatico implicito negli eventi (alcuni degli amanti di Milk si tolsero la vita). Saggiamente, il regista sceglie la via del dramma a freddo, mentre delega l’implicita essenza melodrammatica alle note di
“Tosca”, opera molto amata dall’ attivista. Quanto a Penn (ma ai
Globes gli è stato preferito Rourke), si cala nel personaggio con l’
intensità dolente degli adepti del “metodo” Actor’ s Studio, tirando
fuori la parte femminile che è in lui, come in ciascun uomo. Lo contrasta bene Josh Brolin, che abbiamo appena visto nella pelle di
George W. Bush.
Per raccontare la parabola di Harvey Milk, il leggendario attivista
gay e poi consigliere comunale di San Francisco che negli anni ‘70
segnò una svolta storica nella lotta per i diritti degli omosessuali
fino a quando fu ucciso da un collega nel novembre 1978, Gus Van
Sant sceglie una strada meno spericolata di quella di “Elephant”,
“Last Days” o “Paranoid Park”, ma evita con cura le lusinghe più
spettacolari del genere. E non rinuncia alla libertà di tono che
rende il suo cinema sempre così caldo e personale. Ecco dunque
Milk, gay ancora ‘invisibile’ nella New York del 1970, trasferirsi
col neocompagno Scott (James Franco) nella più aperta e tollerante San Francisco. Eccoli aprire un negozio di macchine fotografiche nel sobborgo popolare di Castro, tradizionalmente abitato da
morigerati cattolici irlandesi, gettando le basi di quello che diventerà uno dei quartieri gay più famosi d’America. Ecco, mentre si
scontrano con l’intolleranza quotidiana dei vicini e con arresti e
pestaggi continui, prendere forma una carriera politica e un destino. Che Gus Van Sant dettaglia a piccoli tocchi, usando la geniale
e sempre imprevedibile illuminazione del fido Harris Savides, ma
anche salti di tono e digressioni che mantengono il film in sapiente equilibrio fra politico e quotidiano, vita pubblica e vissuto individuale. È una strada rischiosa, ma è quella che consente al film di
evitare le trappole della celebrazione, malgrado qualche lentezza
nella parte centrale. Milk combatte e vince molte battaglie ma ci
mette un po’ a essere eletto, e Van Sant racconta anche questo.
Sullo schermo non c’è solo la lunga e difficile lotta contro la temibile proposition 6 (avversata perfino da Reagan), che mira a ‘ripulire’ le scuole dagli insegnanti gay. Ci sono anche le retrovie, gli
intrighi, le astuzie, il piccolo cabotaggio. E gli alti e bassi della vita
privata di Milk, il suo staff, le amicizie, gli amori, le esaltazioni e
le depressioni.
Fino a quella morte assurda, una scena che vale da sola il film.
Perché nessuno come il regista di “Elephant” sa filmare il momento così ‘americano’ in cui la normalità trapassa in follia, la rabbia in
delitto. E di colpo, come ci ricorda il nastro-testamento inciso da
Milk quando iniziò a temere di venir ucciso, per milioni di persone
diventa impossibile dire ‘noi’.
La Stampa - Lietta Tornabuoi
Sean Penn, che ha adesso 48 anni, diventa sempre più bravo,
coraggioso e maturo, come attore e regista, come persona: davvero per questo Milk di Gus Van Sant dovrebbero premiare con
l’Oscar una sua interpretazione eccellente. Milk è Harvey Milk,
primo gay americano ad avere un incarico pubblico notevole a San
Francisco, popolarissimo attivista del movimento per i diritti degli
omosessuali, ammazzato a colpi di pistola (per intolleranza, per
invidia) nel 1978 a 48 anni, insieme con il sindaco della città
George Moscone. … Milk è un film bello, importante, appassionante: e non soltanto perché è uno dei pochi in cui i gay non vengano rappresentati come vittime tragico-sentimentali o come personaggi comico-grotteschi. Il regista Gus Van Sant sa stabilire un
equilibrio tra vita pubblica e privata, tra militanti e amanti; sa evocare il movimento gay americano dei Settanta non soltanto con
esattezza storica, ma con assoluta mancanza di manierismi; sa presentare le battaglie gay contro il pregiudizio come lotte sindacali e
insieme come avventure umane, non ancora concluse. E Sean
Penn, spiritoso, leggero, amoroso, senza alcuna retorica, ricco di
ardire, recita un personaggio bellissimo.
Il Messaggero - Fabio Ferzetti
Un ritratto insolito quanto straordinario, dominato da un Sean
Penn oltre ogni elogio. L’impagabile spaccato di un’epoca, rievocata dal punto di vista eccentrico e rivelatore di una minoranza.
Una testimonianza commovente e insieme fuori dagli schemi che
vale anche come monito per la difesa di tutte le minoranze e dei
loro diritti. Oggi come ieri. Otto nominations non sono troppe: il
“Milk” di Gus Van Sant è tutte queste cose insieme. Ma non pensate a un facile biopic d’autore, o a un santino della controcultura.
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SOLO UN PADRE di Luca Lucini
26-27 novembre 2009
Luca Lucini .Nato a Milano nel 1967, dal 1993 al 1997 lavora come assistente alla produzione per un programma televisivo di Super
Channel London. Nello stesso periodo realizza numerosi video musicali per molti artisti italiani. Seguono negli anni successivi la
regia di spot pubblicitari e programmi televisivi. Nel 2002 realizza il cortometraggio Il sorriso di Diana, prodotto da Cattleya e
Cinecittà Holding. Nel 2003 firma la regia del suo primo lungometraggio, Tre metri sopra il cielo, tratto dall’omonimo romanzo di
Federico Moccia.
Interpreti: Luca Argentero (Carlo), Diane Fleri (Camille), Fabio Troiano (Giorgio), Anna Foglietta (Caterina), Sara D’Amario
(Eleonora), Alessandro Sampaoli (Oscar), Michela Gatto (Sofia - Fagiolino), Fabiana Gatto (Sofia - Fagiolino), Claudia Pandolfi
(Melissa), Francesca Vettori (Silvia), Gianni Bissaca (Padre di Carlo), Elisabetta De Palo (Madre di Carlo)
Genere: Commedia/Sociale
Origine: Italia
Soggetto: Nick Earls (romanzo), Giulia Calenda, Maddalena Ravagli
Sceneggiatura: Giulia Calenda, Maddalena Ravagli
Fotografia: Manfredo Archinto
Musica: Fabrizio Campanelli
Montaggio: Fabrizio Rossetti
Durata: 93’
Produzione: Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini, Marco Chimenz per Cattleya, Warner Bros. Pictures
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia
SOGGETTO: A Torino, oggi. Carlo, trentacinquenne, è titolare con altri amici di un avviato studio di dermatologia. L’attività professionale va bene, eppure Carlo vi si dedica ogni giorno con una inesauribile preoccupazione dentro. Deve infatti accudire sua figlia
Sofia, di appena dieci mesi, inventandosi ogni giorno la capacità di andare incontro ai bisogni della piccolina. La moglie Melissa é
morta di parto, l’aiuto dei genitori è importante e Carlo tuttavia vuole provare a cavarsela da solo, trasmettendo quel calore affettivo
che sente dentro di sé. La conoscenza occasionale di Camille, giovane francese arrivata a Torino per lavorare all’università, lo aiuterà
nei momenti più difficili, ma diventare un padre vero diventa la scommessa da vincere, il traguardo autentico da raggiungere.
VALUTAZIONE: Ispirato al romanzo inglese “Perfect Skin” di Nick Earls (pubblicato in Italia come “Avventure semiserie di un
ragazzo padre”), il copione affronta con bella grinta e risvolti romantici un tema difficile, quasi scomodo, spesso risolto dalle fiction
nostrane (cinema e tv) in forme sbrigative e prevedibili, volentieri tendenti al negativo. Qui Lucini (nato a Milano nel 1967, messosi
in evidenza con Tre metri sopra il cielo ma soprattutto con L’uomo perfetto e Amore, bugie e calcetto) ha il coraggio di recuperare il
significato della paternità nei suoi aspetti etici e interiori, mettendo in primo piano l’amore per la vita che comincia. Il regista aggredisce il racconto con una scrittura incisiva e originale, riuscendo ad equilibrare dramma e commedia, e a tenere sotto controllo il rischio
di qualche sentimentalismo di troppo. Molti elementi interni alla storia (il rapporto con la moglie, gli amici e le amiche, il lavoro...)
rendono l’insieme denso di sfumature e di contrasti caratteriali.
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Il Corriere della Sera - Maurizio Porro
Ecco finalmente una commedia borghese sentimentale piacevole,
intelligente e non piagnona, che investe il problema di un papà single e vedovo e il rapporto con la sua neonata. Luca Lucini, appassionato di storie di giovani mariti nel solco tracciato da Bolognini,
racconta la vita difficile di Carlo, dermatologo di successo (metafora della seconda pelle, se ci sei batti un colpo) che deve riorganizzarsi la vita e scopre una dose incommensurabile di tenerezza.
La vera trovata del film, tratto dalle «Avventure semiserie di un
ragazzo padre» di Nick Earls, Sonzogno, è lo snodo imprevedibile della sceneggiatura che manda in libera uscita psicologica ogni
preavviso retorico e romantico. Arioso e misurato, senza un grammo di volgarità, il film rivela il talento di Luca Argentero che
sostiene il ruolo con una pensierosa animazione interiore e con un
certo sorriso che lascia scoprire sfumature anche alla sua quasi
amata Diane Fleri.
“Solo un padre” non è certo un film che dispiega effetti speciali a
gogo. Anzi è piuttosto teso al risparmio, intervallando all’azione
crepuscolari paesaggi torinesi, tra i quali è stato prevalentemente
girato, percorsi dal lungo fiume tranquillo. Lucini parla della
nostra vita con i suoi affetti, le sue afflizioni, le incomprensioni
anche coniugali, non trascurando però le intime gioie che talvolta
sopravvengono, senza inopportune leziosità, anzi con un poco di
divertimento dentro le amarezze.
Qualche abbandono al sorriso in primo piano non nuoce, perché la
vita qui c’è proprio tutta, dalla nascita alla morte, come in un gioco
di jongleur (che chiude simbolicamente il film). Gli attori, per lo
più giovani, ce la mettono tutta, talvolta sotto sforzo. D’altronde
non si poteva pretendere di più di un impegno appassionato, tutto
sommato commendevole (comprese le due gemelline Michela e
Fabiana Gatto, che si alternano con buona volontà, tra una pappa
e l’altra, nella parte di Sofia).
L’Eco di Bergamo - Franco Colombo
Viva le mamme! Ma, perbacco, viva anche i papà, almeno quando
si uniscono, non senza difficoltà, i ruoli di papà e mamma nella
stessa persona. Il cinema ha rappresentato spesso le mamme, ci
mancherebbe, ma assai poco i papà-mamma, giusto in “Kramer
contro Kramer” (1979), con Dustin Hoffman marito separato con
bambino da accudire, e nel recente “Caos calmo” , con Nanni
Moretti vedovo in ansiosa attesa della figlia di dieci anni, tutte le
mattine davanti alla scuola.
Il ‘ragazzo padre’, come lo cantava l’impareggiabile Enzo
Jannacci in uno dei suoi motivi più noti (‘Sono un ragazzo padre /
chiedo la carità / io sono un peccatore / per questa società’) torna,
con toni fra la rattenuta commozione e il pacato realismo, in questo film dal titolo esplicito, “Solo un padre” , in cui il regista Luca
Lucini, classe 1967, al suo terzo film (ma questo è il più riuscito)
dimostra grande concretezza, sensibilità e misura. Pertanto questo
è un film italiano da non perdere.
Il denominatore comune è l’amore, paterno, filiale e, ma in sottofondo, tra uomo e donna. L’amore, soprattutto, è quello di un
padre, il trentenne Carlo (Luca Argentero, un po’ una sorpresa)
che, rimasto vedovo (la moglie è morta durante il parto), si trova a
dover assistere, tra pappe, pannolini e pipì, la neonata Sofia, detta
amorevolmente ‘Fagiolino’, sulla quale riversa tutte le sue possibilità affettive. È la sua consolazione. Lo sostengono, oltre ai disponibili genitori, i colleghi dello studio medico di dermatologia in
cui lavora, e dove esercitava pure la moglie scomparsa (nel film
torna di quando in quando nei ricordi). A rincuorarlo di più arriva
la francesina Camille (la simpatica Diane Fleri), ricercatrice universitaria conosciuta per puro caso.
Quando due vite in bilico s’incontrano si capiscono subito, soprattutto negli sguardi e nelle parole non dette (ma pensate). Lei si
offre di assistere ‘Fagiolino’, e lo farà con scrupolo, lui la salverà
quando il suo squinternato appartamento, affittato a basso costo,
prenderà fuoco e lei rischierà di morire soffocata. L’amore prevalente resterà quello di papà Carlo per la sua ammiccante bambolina che, alla fine del film, compie un anno, con tanto di candelina
sulla torta. Non è escluso che la generosa Camille abbia trovato il
giusto posto nel cuore di Carlo. È stato un eccellente ‘mammo’,
ma una donna...
Il Giornale di Brescia - Alberto Pesce
L’ha già dimostrato con “Amore, bugie & calcetto”, anche meglio
in “Tre metri sopra il cielo” e “L’uomo perfetto”. Luca Lucini è un
giovane regista che ci sa fare, scivolando leggero da una scenetta
all’altra in un andirivieni di approcci agrodolci, cattiveria, magari
restando stilisticamente a mezzo, un po’ commedia, risvolti di
dramma, in cui gli va bene quando gli interpreti non restano stretti nel loro cliché.
È quello che accade in “Solo un padre”, da un romanzo di Nick
Earls ‘Avventure semiserie di un ragazzo padre’, commedia che
rischia scene di prevedibile turgore sentimental-brillante tra patetiche stereotipie di genere, impacciate striature grottesche, manierismi di comprimari a schizzo quasi televisivo. Diane Fleri, aperta, sorridente, solare, di una cordiale spontaneità, nel film è
Camille, ricercatrice francese appena arrivata a Torino, presa dai
suoi studi sul cervello, che tra un jogging e l’altro fa da umanissimo contrappunto a un dermatologo trentenne, Carlo, cui Luca
Argentero dà un appiombo tra il gentile e il distaccato.
Carlo sarebbe fatto per la serena routine, ma da qualche mese è un
ragazzo padre, ha una bimba Fagiolino cui, in assenza dei nonni,
egli deve badare, e lo fa con tale passione da farsene assorbire,
magari inesperto, ma deciso a dedicarvisi, forse anche per un lontano complesso di colpa (la mamma è morta di parto). Carlo non
riesce a stornare l’entusiastica vicinanza di Camille, e finisce per
lasciarsi coinvolgere da nuovi desideri.
City – Alessio Guzzano
Rimasto vedovo di Claudia Pandolfi, morta di parto, il dermatologo Luca Argentero alleva con dedizione la neonata ‘fagiolino’. Il
suo presente è tormentato da notti insonni, bisogno di attività fisica scacciaricordi, amici/colleghi vogliosi di pastasciutta e partite a
“Silent Hill” e da una corteggiatrice molesta con gatto più che
molesto. Il destino e la sceneggiatura dicono forte e chiaro cosa gli
riserva il futuro, facendogli incontrare a ripetizione la graziosa
Diane Fleri che per studio mappa il cervello e, in attesa di scandagliare il cuore, gli sta vicino in veste di baby sitter. Cosa sia accaduto in passato, prima del concepimento e durante, è la sorpresa
che fa decollare il film infondendogli delicatezza drammatica
dopo un garbato percorso da commedia.
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FROST/NIXON - IL DUELLO di Ron Howard
3-4 dicembre 2009
Ronald William “Ron” Howard (Duncan, 1º marzo 1954). Suo fratello minore e sua madre Jean F. Speegle, sono anch’essi attori, così
come sua figlia Bryce Dallas Howard. Nel 1959, all’età di soli 5 anni, recita ne La giostra, episodio della famosa serie Ai confini della
realtà. Guadagna poi maggiore attenzione grazie al ruolo di Winthrop Paroo. Nel 1963 compare in Una fidanzata per papà. Nel frattempo frequenta la USC School of Cinema-Television della University of Southern California, ma non si diploma. Nel 1974 diventa celebre
in tutto il mondo, quello di Richie Cunningham, telefilm Happy Days. Nel 1976 prende parte al film Il pistolero. Nel 1977, mentre è ancora una delle star di Happy Days, dirige il suo primo film Attenti a quella pazza Rolls Royce. Dopo aver lasciato il set di Happy Days nel
1980, dirige diversi film per la televisione. Il suo primo grande successo sul grande schermo arriva nel 1982 quando dirige la pellicola
Night Shift - Turno di notte, Da allora ha diretto numerosi film di successo, tra i quali Splash, una sirena a Manhattan (1984), Cocoon,
l’energia dell’universo (1985), Apollo 13 (1995) nominato a diversi premi Oscar) e A Beautiful Mind (2001), per il quale ha ricevuto
l’Oscar al miglior regista.Nel 2005 Howard dirige il film Cinderella Man al quale seguono Il codice da Vinci (2006) Frost/Nixon - Il duello (2008) e Angeli e demoni (2009).
Interpreti: Frank Langella (Richard Nixon), Michael Sheen (David Frost), Kevin Bacon (Colonnello Jack Brennan), Rebecca Hall (Caroline
Cushing), Toby Jones (Irving ‘Swifty’ Lazar), Matthew Macfadyen (John Burt), Oliver Platt (Bob Zelnick), Sam Rockwell (James Reston
Jr.), Patty McCormack (Pat Nixon), (Janet), Eve Curtis (Sue Mengers)
Genere: Drammatico
Origine: Stati Uniti d’America
Soggetto: Peter Morgan (opera teatrale)
Sceneggiatura: Peter Morgan
Fotografia: Salvatore Totino
Musica: Hans Zimmer
Montaggio: Mike Hill, Daniel P. Hanley
Durata: 122’
Produzione: Imagine Entertainment, Working Title Films
Distribuzione: Universal
SOGGETTO: In seguito allo scandalo Watergate, che lo costrinse a dimettersi dalla carica di Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon,
rimase in silenzio per tre anni. Passato questo periodo di tempo, l’ex presidente sorprese tutti accettando di rilasciare una serie di interviste
televisive per lo show condotto dal giornalista britannico David Frost, durante le quali parlò dell’esperienza del suo mandato e dello scandalo che appunto vi mise fine....
VALUTAZIONE: I fatti, com’è noto, sono autentici. Richard Nixon è morto nel 1994, mentre David Frost ha oggi 77 anni e lavora per la
versione inglese della TV araba Al Jazeera. Le quattro puntate furono trasmesse e cambiarono, per molti, il modo di fare giornalismo televisivo. La particolarità derivava anche dal fatto che David Frost, inglese che lavorava tra Londra e l’Australia, era conosciuto solo per alcuni
talk-show di successo, tutt’altro che di taglio politico. Il recupero di quel materiale televisivo ha dato luogo ad un testo teatrale, scritto da Peter
Morgan, che ha poi curato anche il copione per il grande schermo. Ma qui certo entra in ballo l’occhio acuto di Ron Howard, e a lui, alla sua
regia solida, robusta, essenziale, senza fronzoli ma implacabile va il merito di aver diretto una storia accaduta oltre 30 anni fa ma resa viva,
palpitante, attuale. Il tema della verità che deve guidare il rapporto tra le cariche pubbliche e i cittadini è riproposto in tutta la sua urgenza, e
nell’umiliazione cui arriva Nixon ammettendo le colpe non c’è voglia di rivincita ma solo la constatazione di un passaggio inevitabile per dare
ancora un senso alla parola democrazia. Senza ideologia né pregiudizi, il racconto si fa lucida pagina di impegno civile e sociale.
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Il Corriere della Sera - Tullio Kezich
Apprendo dalla tavola rotonda dei divi oscarizzabili pubblicata da
Newsweek che Frank Langella, per tutti i 32 giorni della lavorazione di “Frost Nixon - Il duello”, si era talmente compenetrato
nella parte del famigerato ‘Tricky-Dicky’ da gradire che lo chiamassero Mr. President. Altrove ho letto che l’attore candidato
all’Academy Award aveva esitato nell’accettare di ripetere nel film
il personaggio recitato per ben 352 volte sul palcoscenico perché
l’immagine ravvicinata impone una somiglianza che non c’era
proprio. Poi scoprì che gli veniva naturale di muoversi come
Nixon, di alzare le spalle, buttare i piedi in un certo modo, sorridere, insomma sentirsi nella pelle di ‘quell’ altro’. Al punto di capire le sue umane debolezze e perversità: senza cambiare il giudizio
su una delle figure più negative della storia americana (fu il primo
di 37 presidenti costretto a dimettersi), ma provando dopo la caduta un sentimento di pietà. Il che, avallato dall’ottimo copione di
Peter Morgan, costituisce l’aspetto prezioso dell’operazione.
Ricordavo bene come Nixon, scampato per la grazia generosamente concessa dal suo successore Gerald Ford al processo che
l’opinione pubblica richiedeva, fu inchiodato alle sue responsabilità nel 1977 attraverso uno storico dibattito in TV con un sagace
e implacabile intervistatore chiamato Robert Frost. A questo nome
però associavo, sbagliando, una connotazione di importante giornalista politico, mentre si trattava (anzi si tratta, perché sta ancora
lavorando) di un brillante factotum del video. Come dire, cercando un esempio nostrano, un Chiambretti in versione britannica.
Ecco, immaginiamo cosa sarebbe successo se il senatore Andreotti
(faccio un esempio a caso) mondato di ogni colpa dai tribunali
avesse accettato di ridiscutere i suoi trascorsi faccia a faccia con
Pierino. Probabilmente non sarebbe successo niente, il divo Giulio
è un personaggio troppo accorto per rivangare in pubblico situazioni scottanti; ed è proprio quello che Nixon spera di fare, menare il can per l’aia spicciolando amenità, quando tentato da una
grossa offerta di denaro accetta la sfida di Frost. Il quale, sotto
l’apparenza frivola che ritroviamo nella personificazione di
Michael Sheen, è un mastino risoluto a non mollare. Tutt’altro che
un crociato e anzi privo di idee politiche, non si batte per la verità
bensì per se stesso e per gli ascolti. Soprattutto per coprire il
rischio assunto di produrre a proprie spese il programma quando
tutte le grandi emittenti e molti sponsor si sono tirati indietro.
Diretto magistralmente da Ron Howard (altro candidato all’Oscar
insieme con il film, la sceneggiatura e il montaggio), “Frost
Nixon” non denuncia l’origine teatrale ma è un bellissimo film,
drammatico, bizzarro, appassionante, tale da non far cedere l’attenzione neanche per un minuto. Se uno poi ci vuole imbastire una
riflessione che vada al di là dell’evento si può dire che in questa
ricostruzione drammatica assistiamo al grande scontro della
modernità: fra una politica ancora concepita secondo retorici
accorgimenti ottocenteschi e la tangibile, indiscreta, penetrante
realtà della TV divenuta una macchina che legge nel pensiero. Nel
caso di Nixon quello che non hanno saputo o potuto fare i giudici,
lo ha fatto il video. Pensiamo a che cosa avrebbe potuto portare nel
passato, remoto e no, la possibilità di utilizzare un simile strumento. Tanti casi rimasti in sospeso, tanti misteri della cronaca si sarebbero chiariti avendone sotto tiro i protagonisti e i testimoni. Come
contropartita, c’è piuttosto il rischio che una TV manovrata cambi
in tavola le carte della realtà. E non è questo che succede continuamente sotto i nostri occhi?
Il Giornale - Maurizio Cabona
Richard Nixon riconobbe la Cina comunista; ammise che la guerra di John Kennedy nel Vietnam era persa; autorizzò l’Egitto a
limare le unghie di Israele nel Sinai; rovesciò Marcelo Caetano,
l’erede di Salazar, in Portogallo; ‘consentì’ all’Eta d’uccidere
l’ammiraglio Carcero Blanco, futuro erede di Francisco Franco in
Spagna. Manca tutto ciò in “Frost/Nixon: il duello”, di Ron
Howard, ma è bene saperlo prima di vederlo, per cogliere come
dal film emerga la differenza di calibro fra Nixon (uno straordinario Frank Langella) e altri presidenti americani di miglior fama,
ma minor spessore. Si parte come uno dei tanti film moralisti e
progressisti, cioè con una prospettiva da buco della serratura: l’intervista tv che Nixon, lasciata la Casa Bianca, concesse per denaro - non era ricco come Kennedy e i Bush - a un giornalista inglese (Michael Sheen). L’intento del giornalista - o meglio del televisionista - non è valutare il ruolo storico di Nixon, ma farsi un nome
non solo come intrattenitore inchiodandolo alle responsabilità per
il caso di spionaggio elettorale noto come scandalo Watergate, dal
nome del palazzo di Washington dove avvenne. Infatti Nixon s’era
dimesso prima della fine del secondo mandato presidenziale, ma
senza ammettere errori o crimini. E senza chiedere scusa, quest’ossessione della politica che s’ammanta di moralismo per celare la sua astuta pochezza. Sembra quasi impossibile che adulti
smaliziati come giornalisti e politici credessero che un politico non
debba mentire, quando ogni politico mente come respira. Ma tant’è: i sistemi politici più machiavellici sono quelli che più negano
di esserlo. La bravura di Peter Morgan, lo sceneggiatore, e di Ron
Howard, il regista, è di lasciare lentamente al personaggio di
Nixon prendere il sopravvento, concedendo all’ipocrisia americana (e non) le ammissioni finali di Nixon solo dopo averne fatto
emergere che, rispetto a chi lo circondava, era un gigante, come
coglie con giustificata rabbia il personaggio di Kevin Bacon, che
era stato suo consigliere militare alla Casa Bianca. Nel contorno si
nota Rebecca Hall, fra le più belle e meno volgari donne apparse
sul grande schermo nell’ultimo decennio.
La Repubblica - Roberto Nepoti
È un combattimento pieno di sorprese, allestito con un montaggio
che ribadisce la metafora del ring il film sull’ intervista del ‘ 77 all’
ex-presidente americano Nixon da parte dell’ inglese David Frost.
C’ è una ricca “borsa” in palio (l’ intervistatore s’ è impegnato a
versare una cifra con parecchi zeri); ci sono gli allenamenti e i
round (quattro); c’ è, volta a volta, chi colpisce e chi incassa. Dopo
il Watergate, Nixon intende cogliere l’ occasione per dimostrare al
mondo che si è comportato, malgrado tutto, da statista; Frost vuole
lo scoop: fargli ammettere di aver agito oltre la legalità. Il drammaturgo e sceneggiatore Peter Morgan (“The Queen”) introduce
una telefonata notturna tra i due che contribuisce a conferire a
Nixon una complessità superiore al previsto. Ormai largamente
dimostrata, l’ idea che oggi la politica sia soprattutto una questione d’ immagine personale assume qui una totale evidenza.
Mostruosa la bravura di Frank Langella: tra lui e gli altri candidati all’ Oscar, quest’ anno, si prospetta davvero un bel match.
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7 GIULIA NON ESCE LA SERA di Giuseppe Piccioni
10-11 dicembre 2009
Giuseppe Piccioni (Ascoli Piceno, 2 luglio 1953) frequenta agli inizi degli anni ‘80 la Scuola Cinematografica Gaumont, fondata da
Roberto Rossellini, e si laurea in Sociologia all’Università di Urbino. Realizza alcuni cortometraggi e lavora in campo pubblicitario, poi,
dopo aver fondato la casa di produzione Vertigo, debutta nel 1987 con il suo primo lungometraggio, Il grande Bleck. Con Chiedi la luna,
nel 1991, Piccioni vince la Grolla d’Oro per la miglior regia. Seguono Condannato a nozze e Cuori al verde. Nel 1999 realizza Fuori dal
mondo. Nel 2001 Piccioni partecipa alla 58esima Mostra del Cinema di Venezia con Luce dei miei occhi. A Sandra Ceccarelli dedica un
documentario Sandra, ritratto confidenziale, che replicherà anche con Margherita Buy, Margherita, ritratto confidenziale, due delle sue
attrici feticcio. La prima ritornerà anche nel film La vita che vorrei.
Interpreti: Valerio Mastandrea (Guido Montani), Valeria Golino (Giulia), Sonia Bergamasco (Benedetta Montani), Domiziana Cardinali
(Costanza Montani), Jacopo Domenicucci (Filippo), Jacopo Bicocchi (Enrico Giussi), Sara Tosti (Sofia), Chiara Nicola (Viola), Fabio
Camilli (Eugenio), Sasa Vulicevic (Padre Rosario)
Genere: Drammatico
Origine: Italia
Soggetto: Giuseppe Piccioni, Federica Pontremoli
Sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Federica Pontremoli
Fotografia: Luca Bigazzi
Musica: Francesco Bianconi (Le musiche sono eseguite ed interpretate dai Baustelle)
Montaggio: Esmeralda Calabria
Durata: 105’
Produzione: Lionello Cerri per Rai Cinema, Lumière & Co.
Distribuzione: 01 Distribution
SOGGETTO: Scrittore di successo, Guido conosce, nella piscina dove accompagna la figlia adolescente, Giulia, donna molto enigmatica.
Mentre è alle prese con gli impegni relativi all’ingresso del suo romanzo nella cinquina di un importante premio letterario, Guido rivede più
volte Giulia. E infine apprende che la ragazza ha un permesso giornaliero per fare l’istruttrice di nuoto, ma la sera deve rientrare in carcere,
dove sta scontando una condanna per omicidio. Tra i due nasce una relazione e Guido, nell’intenzione di aiutare la donna, riesce a combinare un incontro tra lei e la figlia, ormai divise da anni. L’esito è però negativo. Giulia cade nella depressione e... la serata finale dell’assegnazione del premio letterario diventa un avvenimento del tutto secondario.
VALUTAZIONE: Film sulla realtà della tragedia che ti scorre accanto ed in cui puoi imbatterti in ogni momento. I personaggi di questo film sono più soli che mai. Da una parte la crisi professionale di Guido che si trova a dover fare i conti con il blocco che lo ha inchiodato all’inizio del suo nuovo romanzo; dall’altra la solitudine di Giulia, la misteriosa insegnante di nuoto di sua figlia. Le due anime,
apparentemente così diverse si incontrano per curiosità. Guido incomincia a studiare Giulia per trovare il bandolo della disillusione che
mostra; Giulia che si lascia trasportare nelle speranza che la vita possa avere ancora un nuovo inizio. Guido si accorge che la sua normale vita sembra quasi collassare di fronte al pozzo senza fondo che è quella di Giulia. Giuseppe Piccioni racconta vite come se fossero semplici album di fotografie, senza contaminarne la scena, semplicemente guardandole scorre come sull’acqua in cui Giulia sembra
trovare pace. Un film misurato, scarno nella sua semplicità, nel suo modo di raccontare tragedie che si nascondono dietro la normalità
del quotidiano, del susseguirsi di lezioni di nuoto, senza scadere nel melodramma, guidati da un filo di sorriso che il bravissimo
Mastandrea riesce sempre a strappare.
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Il Mattino - Alberto Castellano
Al suo ottavo film, Giuseppe Piccioni continua a parlare di sentimenti e ad esplorare l’animo umano. “Giulia non esce la sera”
mette in corto circuito affettivo ed esistenziale un uomo e una
donna dalle vite e dalle aspettative molto diverse tra loro. Guido è
uno scrittore di successo il cui ultimo libro è entrato nella cinquina dei finalisti di un prestigioso premio letterario. Giulia è la sua
insegnante di nuoto. Tra i due nasce ben presto una relazione non
priva, però, di zone d’ombra. La donna in realtà vive una doppia
vita perché di giorno lavora in piscina e la notte è costretta a restare a casa in quanto detenuta in semilibertà. Il rapporto tra Guido e
Giulia diventa gradualmente uno scambio di esperienze sentimentali tra lei che nasconde un passato misterioso e lui che è proiettato nella dimensione della celebrità con tutti gli impegni che comporta. E l’amore è cementato dal bisogno che hanno l’uno dell’altra. Giuseppe Piccioni conferma di essere autore capace come
pochi (della sua generazione) di fondere personaggi, atmosfere e
contesto e di uscire ed entrare nella realtà (e nel realismo) con una
sospensione dei dubbi, delle riflessioni, delle inquietudini. Valerio
Mastandrea e Valeria Golino si calano nella coppia con intensità
espressiva e pregnanza fisica, comunicando con sguardi e sfumature anche i silenzi e il mistero.
sione di non saper esprime appieno. L’intellettuale che conosce i
suoi limiti e la popolana che paga la forza dei propri sentimenti era sposata e aveva una figlia, lasciati da un giorno all’altro per
un uomo rivelatosi sbagliato - quei due personaggi, dicevo, finiscono per sbarazzarsi di tutto il resto e affrontano di petto quello
che mi sembra il tema centrale del film: il coraggio o meno di
accettare le conseguenze delle proprie azioni. Giulia l’ha avuto,
Guido no. Entrambi hanno voglia di chiedersi se ne valeva la
pena. E chi sta loro vicino ne paga pesantemente le conseguenze,
a cominciare dalle due figlie - quella di Guido, vistosamente
sovrappeso, e quella di Giulia (Chiara Nicola), nevroticamente
magra - che nella storia sembrano accessorie e che invece finiscono per essere centrali e fondamentali. Perché subiscono le
colpe dei genitori senza potersi sottrarre a una infelicità contro cui
si sentono impotenti - e che anche l’eccessiva coloritura umoristica dell’amico secchione (Jacopo Domenicucci) in fondo riesce
per sottolineare. Finendo così per ‘cancellare’ quelle pause narrative (la creatività frustrata, i premi, la mondanità) che rischiano di
impedire ai due personaggi di vivere davvero. Se invece Guido e
Giulia si conquistano un posto nella memoria dello spettatore e
vivono ben oltre i difetti della storia, il merito va diviso tra i due
protagonisti, Valerio Mastandrea e Valeria Golino, e il regista che
li ha diretti. I primi, soprattutto, riescono ad adattarsi talmente
bene alle rispettive parti da superare indenni certe inutili divagazioni: la ruvidezza scontrosa epperò desiderosa di comunicazione
di Giulia, il suo evitare qualsiasi accenno di pietismo, l’orgoglio
di chi vuole essere accettata per quello che è, passato compreso
(bellissima la scena in cui rivela senza tanti fronzoli perché ‘non
esce la sera’) sono tutti regali che la Golino fa allo spettatore e che
dimostrano qualità altrove non sempre esaltate a dovere. Così
come Mastandrea sa liberarsi in fretta della ‘maschera di circostanza’ che gli viene fatta indossare nei salotti mondani per restituirci i timori e le angosce di chi fatica a capire quello che vuole,
schiacciato da troppi ruoli - uomo mondano, scrittore marginale,
marito, genitore, amante - e ridotto a vivere una vita stropicciata
come le sue camicie. E Piccioni ancora una volta si dimostra ottimo regista nella direzione degli autori e periclitante nella scrittura delle sue sceneggiature.
Il Corriere della Sera - Paolo Mereghetti
Ci sono dei film dove i personaggi sono ‘meglio’ della storia che
interpretano, dove volti e comportamenti finiscono per lasciarsi
alle spalle la trama per vivere di vita propria. In barba alla contraddizione che ci ricorda come i personaggi dei film siano sempre e comunque figli della fantasia di chi li ha creati. Ho provato
questa sensazione vedendo “Giulia non esce la sera”, l’ultimo
film di Giuseppe Piccioni, scritto a quattro mani con Federica
Pontremoli. Nella prima parte, il girovagare senza senso di uno
scrittore insicuro del proprio talento (Valerio Mastandrea), arrivato alla finale di un premio letterario che sa, e probabilmente
vuole, perdere, dà l’impressione dell’artefatto, del volontaristico.
Come se ci fosse una forzatura tra i dubbi e le paure di Guido
(questo il nome del protagonista) e le azioni che il film - la regia,
la sceneggiatura - gli fanno fare. Come se il vuoto mondo della
mondanità culturale non solo stia stretto al protagonista - che è
quello che ci dice la storia - ma anche al personaggio, incapace di
prendere vita là in mezzo. Tutto suona falso. Costruito. Come
quei raccontini che cerca di scrivere e che prendono vita sullo
schermo, inseguendo un’originalità - il musical, il sesso - che sa
tanto di programmatico. Ogni tanto, però, c’è qualche cosa che
invita ad avere pazienza: la figlia forse bulimica (Domiziana
Cardinali) che i genitori costringono a lezioni di nuoto contro la
sua volontà, il male segreto di un rapporto matrimoniale che né
Guido né la moglie Benedetta (Sonia Bergamasco) hanno il
coraggio di affrontare. E l’immagine di lui che conserva lo studio,
con i libri e tutto, nell’appartamento che moglie e figlia hanno
abbandonato e svuotato per trasferirsi in una nuova casa (dove
naturalmente aspettano anche Guido) entra dentro lo spettatore
con una forza inusitata. Che tutte le scene precedenti nemmeno si
sognano... Poi l’incontro tra Guido e Giulia cambia marcia al
film. E non perché aspettavamo con impazienza il colpo di fulmine tra lo scrittore e la sua maestra di nuoto (Valeria Golino). Ma
perché l’incontro tra due persone così diverse libera finalmente
quello che la sceneggiatura aveva intuito ma che dava l’impres-
La Repubblica - Paolo D’Agostini
Giuseppe Piccioni cerca sempre nelle storie e nei personaggi il
proprio modo di essere. Da autore alla maniera della nouvelle
vague usa il cinema come un diario intimo, scava nei sentimenti e
nelle relazioni interpersonali, e “l’inattualità” ricercata di quel che
narra e mette in scena lo allontana (è quello che vuole, ma non è
mai sicurissimo di volerlo veramente) dai riflettori puntati sui
cosiddetti temi forti. Qui lo scrittore Guido Montani di Valerio
Mastandrea si trova a un passo dal vincere un ambito premio letterario che gli viene soffiato da un giovanotto rampante e forse
mediocre: ne soffre o si piace così, “diverso” e “fuori dai giochi”?
Comunque l’ autore gli fa preferire dell’ altro: l’ incontro, complice l’ atmosfera sospesa e separata da tutto di una piscina, con un’
enigmatica Valeria Golino, Giulia che non può uscire la sera perché è stata condannata per l’ omicidio dell’ amante che voleva
lasciarla dopo che per lui aveva bruciata la propria vita. La rarefazione del racconto è esaltata dagli inserti (troppi?) che materializzano quanto Guido sta cercando di scrivere per un nuovo libro:
amori surreali e infelici. Aperto, come tutti i film di Piccioni.
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L’ONDA - THE WAVE di Dennis Gansel
17-18 dicembre 2009
Dennis Gansel cineasta tedesco classe 1973, originario di Hannover (Germania), dopo aver fatto un pò di esperienza in piccoli spettacoli teatrali, il colpo di fulmine per il cinema, dopo aver partecipato ad un seminario su come girare il primo film, iniziano i primi esperimenti e l’iscrizione all’Università per il Cinema e la Televisione di Monaco dove conseguirà la laurea. La sua carriera professionale
inizia realizzando alcuni cortometraggi, nel 1996 il drammatico The wrong trip, nel 1998 il crime Living dead, e nel 2000 una pausa con
il televisivo The Phantom thriller spionistico tra cospirazioni e terrorismo. Nel 2001 il debutto sul grande schermo con il thriller-horror
The dawn, lo stesso anno girerà in patria la commedia Girls on top per poi dirigere una produzione finlandese, Before the fall dramma
a sfondo bellico. Nel 2009 L’onda, un piccolo caso cinematografico.
Interpreti: Jürgen Vogel (Rainer Wenger), Frederick Lau (Tim), Max Riemelt (Marco), Jennifer Ulrich (Karo), Christiane Paul (Anke
Wenger), Elyas M’Barek (Sinan), Cristina do Rego (Lisa) Jacob Matschenz (Dennis), Maximilian Vollmar (Bomber), Max Mauff
(Kevin )
Genere: Drammatico
Origine: Germania
Soggetto: Todd Strasser (romanzo), Johnny Dawkins (sceneggiatura), Ron Birnbach (sceneggiatura)
Sceneggiatura: Dennis Gansel, Peter Thorwarth
Fotografia: Torsten Breuer
Musica: Heiko Maile
Montaggio: Ueli Christen
Durata: 101’
Produzione: Rat Pack Filmproduktion Gmbh, Constantin Film Produktion
Distribuzione: Bim
SOGGETTO: Germania, oggi. In un istituto superiore, il prof. Wegner, dovendo spiegare forme e modi della nascita del partito
Nazional Socialista e della dittatura hitleriana, coinvolge gli alunni in un esperimento: facendo partire da loro ogni decisione, li conduce a creare all’interno della classe un movimento, chiamato l’Onda, caratterizzato da alcune particolarità: un saluto collettivo, una
divisa comune, alcune regole di disciplina. In breve quello che era cominciato come un gioco, sfugge di mano al professore. L’onda
acquista importanza e diventa una specie di culto tra i ragazzi e chi non ci sta deve allontanarsi. Wegner prova a riportare la calma e la
misura. Ma il suo discorso alla fine della settimana di studi non serve a calmare gli animi...
VALUTAZIONE: Film molto bello, forte, teso e potente. Descrive molto bene il meccanismo autocratico, la sua forza e tutto il suo
pericoloso, terribile e a volte irresistibile fascino, capace di trasformare gli individui in meri ingranaggi senza più un senso critico e
all’occorrenza in macchine da guerra. Descrive la semplicità e la facilità di un movimento autocratico, rischio che abbiamo sempre
dietro l’angolo. A volte può sembrare semplicistico e troppo facile ma per rimanere dentro i confini rigidi di un film di 2 ore. Il finale dall’adunata in poi è perfetto. Importante per il nostro attuale momento sociale, ad esempio quando verso l’inizio illustrando le
caratteristiche che possono dar vita a movimenti del genere si fa cenno all’inflazione e alla mancanza di certezze. Un monito per la
nostra società.
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Famiglia Cristiana - Enzo Natta
“L’Onda” inizia dove “The Reader” finisce, ovvero con una serie
di domande che pongono al centro di un tormentato interrogativo
morale la banalità del male. Come ha potuto diffondersi il germe
del nazismo? Com’è stato possibile che nel Paese di Kant, Goethe
e Beethoven un autoritarismo massificante sollevasse un’onda
capace di travolgere e trascinare un intero popolo? In una scuola
tedesca di oggi si prende di petto l’argomento, nel corso di una settimana dedicata all’autocrazia e al dispotismo esercitato da un
ristretto gruppo di potere. L’esperimento inizia per gioco, ma poi
si trasforma in modello di comportamento e pratica di vita.
Tratto dal romanzo di Morton Ruhe (un classico per ragazzi, obbligatorio in molte scuole tedesche), “L’onda”, di Dennis Gansel, è
un film riuscito a metà. Interessante per la forza dirompente del
contenuto, ma esangue e, fatta eccezione per il finale, che riscatta
parzialmente la debole parte centrale, privo di stimoli capaci dì
imprimere forza al racconto. La buona idea di partenza si appiattisce, infatti, su una narrazione monocorde e sulla mancanza di
momenti di autentica tensione, acuita da una recitazione legnosa,
resa ancor più straniata da un impianto didascalico che inceppa lo
sviluppo della vicenda. Manca nel film una cifra avveniristica,
millenarista, che, strappandolo all’attualità, lo avrebbe reso assai
più convincente.
dittatore simpatico, moderno, giovanile. Uno a cui i ragazzi darebbero retta a occhi chiusi.
Dopo “La classe” di Cantet arriva un altro film che cerca, con linguaggio assai meno evoluto ma semplice e immediato, di capire
il presente indagando fra i banchi di scuola. Grande successo in
Germania, anche “L’onda” nasce da uno spunto autentico, raccontato in un famoso libro dal suo ideatore. Si tratta dell’esperimento di Palo Alto, California. Nel 1967 il docente di storia Ron
Jones istituì un regime di ferrea disciplina fra i suoi liceali, per
mostrare come era potuto accadere che un intero paese avesse
obbedito ciecamente a Hitler. In pochi giorni Jones constatò con
sgomento che l’obbedienza cieca galvanizzava i ragazzi innescando derive pericolose, e sospese l’esperimento. Il regista del
“L’onda”, Dennis Gansel (classe 1973), immagina che qualcosa
di simile accada in un liceo tedesco di oggi, fra ragazzi stufi di
sentire prediche sul nazismo ma pronti a farsi irregimentare da un
docente carismatico, atletico, democratico, uno cui normalmente
danno del tu. Che un giorno decide di provare con loro, e dal vero,
cosa significa ‘autocrazia’. Basta con svacco e individualismo,
dunque. In classe si sta composti, ci si alza per parlare, al docente si dà del lei. Sulle prime sembra un gioco. Il professor Wenger
rimescola posti e ruoli, invita i più bravi ad aiutare i meno dotati
e a non vergognarsi di fare i furbi (‘Copiate pure, se così ottenete
voti migliori’). Li spinge a coniare slogan e a disegnare un logo.
Estende l’influenza del gruppo a passioni e tempo libero (musica,
pallanuoto), Nasce così “L’onda”. A prima vista non c’è un’ideologia, solo voglia di riconoscersi (in classe ci sono ricchi e poveri, ex-tedeschi dell’Est, perfino un figlio di immigrati turchi). Ma
l’ideologia più pericolosa è quella che non si dichiara, e l’innocenza non dura a lungo. Un gruppo deve distinguersi, dunque
ecco tutti in divisa (jeans e camicia bianca cementano il gruppo e
cancellano le differenze di classe), poi arriva il saluto speciale e
via degenerando, fra prove di zelo e ricerca di un’identità spesso
minata da famiglie divise, padri distratti, madri compiacenti.
Mentre umore e rendimento dei ragazzi salgono, e solo poche
mosche bianche si tengono alla larga. Fino a quando la faccenda
diventa molto pericolosa...
Tutto un poco squadrato, teutonico, non proprio imprevedibile. Un
pizzico di finezza (di ambiguità) in più non avrebbe guastato. Più
che scossi si esce pensosi. Ma spesso sono proprio i film medi a
captare per primi umori e tensioni latenti.
Il Mattino - Valerio Caprara
Discutibile, nel senso etimologico del termine: “L’onda” (“Die
Welle”) del regista tedesco Dennis Gansel è fatto apposta (e neppure troppo male) per arruolare al dibattito sia i comuni spettatori
che la carovana degli opinionisti. Per la verità il romanzo di
Morton Ruhe da cui è tratto è ispirato a un famoso esperimento
condotto nel ‘67 da Ron Jones, insegnante di storia all’high school
di Palo Alto, per dimostrare quanto fosse facile trasformare un
gruppo di giovani in fanatici adepti del totalitarismo. Oggi la lezione potrebbe risultare ancora più calzante, ma una certa rigidezza
teutonica nello svolgimento rischia fortemente di banalizzarla: ma
dal punto di vista ansiogeno ed emotivo il film funziona.
Germania, oggi: il professore ex anarchico e rockettaro Wenger
(l’eccellente Jurgen Vogel) decide di passare dall’illustrazione di
concetti come identità, disciplina e appartenenza, alla provvisoria
creazione di un movimento in cui i giovani metabolizzino le regole di un regime dittatoriale. Una volta scatenata, però, “L’onda” (in
Italia a qualcuno fischieranno le orecchie) non può più essere
imbrigliata e gli studenti - ciascuno secondo le proprie acerbe
strutture psicologiche - davvero s’affiliano in una sorta di setta
neo-nazista, neo-comunista o neo-islamista nemica giurata della
democrazia. Fino alla prevedibilissima catarsi conclusiva. Il quoziente negativo sta, secondo noi, nel divario che si apre tra il grossolano corredo didascalico (esplicitato dalla sequenza in cui vengono esposti i guasti della globalizzazione) e il più convenzionale,
ma oggettivamente avvincente livello di ritmo, scenografia, musiche e recitazioni.
Le Monde - Jean-François Rauger
In un liceo tedesco di oggi, un insegnante nell’ambito di un corso
sull’autocrazia organizza un gioco di ruolo e trasforma la sua classe in un gruppo fascistoide. Gli alunni si immedesimano nel gioco,
adottano una uniforme, un nome (l’onda) e se la prendono contro
coloro che si oppongono al loro clan, le adesioni aumentano veriginosamente. Presto le conseguenze di questo scherzo sorpassano
l’obiettivo pedagogico del suo autore. L’onda, adattamento di un
romanzo americano a sua volta tratto da una storia vera, è una
dimostrazione e un grido d’allarme sulle conseguenze di una possibile rinascita del fascismo oggi, in una società industriale democratica che pensa di aver debellato questa eventualità. Ci si sorprende a pensare che gli eroi dell’onda ottenendo in pochi minuti
il silenzio, l’attenzione ed il rispetto degli studenti giungano a dei
risultati migliori di quelli d’entre le murs.
Il Messaggero - Fabio Ferzetti
Ore 10, lezione di totalitarismo. Sai che barba, sbuffano gli studenti, la solita solfa su nazismo, fascismo e altri ruderi. Come se
non sapessimo già tutto a memoria. Stavolta però non è così semplice. Il professor Wenger non farà il docente. Farà il dittatore. Un
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ST. TRINIAN’S di Oliver Parker e Barnaby Thompson
7-8 gennaio 2010
Estremamente british, Oliver Parker (Londra 1960) cerca di avvicinare al pubblico il cinismo britannico, confezionandolo con scenografie eleganti, ambienti ideali dove far crescere e germogliare ipocrisie e falsità. Esordisce come attore prima in teatro, poi in televisione, partecipando a qualche telefilm come A Very Peculiar Pratice (1986). Trasferitosi in America in cerca di fortuna, recita un piccolissimo ruolo nella serie Matlock (1987), ma è l’incontro con l’horror e in particolare con lo scrittore Clive Barker a cambiare completamente la sua vita. Follemente affascinato dalla figura di questo autore, recita per lui ne Hellraiser (1987), Hell Bound – Hellraiser II –
Prigionieri dell’Inferno (1988), e il bellissimo Cabal (1990) con David Cronenberg nell’eccezionale veste di attore. Tornato in Inghilterra,
diventa uno dei protagonisti del telefilm Casualty (1993-1994) e si dedica alla regia nella trasposizione cinematografica di Othello (1995)
e di un romanzo di Oscar Wilde, Un marito ideale (1999). Nominato ai BAFTA per la migliore sceneggiatura non originale, sceglie un’altra opera di Wilde: L’importanza di chiamarsi Ernest(2002).
Barnaby Thompson è il Capo di Ealing Studios. Ha prodotto 4 dei 12 migliori film britannici indipendenti di tutti i tempi. Nel 1990
Barnaby ha ottenuto la nomination agli Oscar per il cortometraggio Dear Rosie, diretto da Peter Cattaneo Thompson fa parte di un consorzio che nel 2000 ha acquisito gli Ealing Studios. I famosi studios, che sono in fase di sviluppo, hanno acquisito a loro volta la Fragile
Films, la società di produzione di successo che Thompson ha fondato nel 1996 assieme a Uri Fruchtmann.
Regia: Oliver Parker, Barnaby Thompson
Interpreti: Rupert Everett (Camilla Fritton/Carnaby Fritton), Colin Firth (Geoffrey Thwaites), Talulah Riley (Annabelle Fritton), Jodie
Whittaker (Beverly), Gemma Arterton (Kelly), Lena Headey (sig.na Dickinson), Russell Brand (Flash Harry), Celia Imre (direttrice),
Stephen Fry (presentatore del quiz), Caterina Murino (sig.na Maupassant), Tamsin Egerton (Chelsea), Antonia Bernath (Chloe), Juno Temple
(Celia)
Genere: Farsesco
Origine: Gran Bretagna
Soggetto: ispirato alle tavole originali di R. Searle, e basato sul film “The Bells of St. Trinian’s” di F. Launder (1954)
Sceneggiatura: Piers Ashworth, Nick Moorcroft
Fotografia: Gavin Finney
Montaggio: Alex Mackie
Musica: Charlie Mole
Durata: 97’
Produzione: Oliver Parker, Barnaby Thompson, Mark Hubbard.
Distribuzione: CDI
SOGGETTO: La crisi finanziaria è ormai irreversibile, e le banche impongono l’ultimatum al college femminile St.Trinian’s: chiusura
immediata. Nello stesso tempo anche il ministro dell’istruzione George Thwaites non apprezza la didattica in uso nella scuola e si attiva per
farne cessare l’attività. Di fronte a questo pericolo però le allieve si coalizzano, mettono in atto un piano che prevede il furto al British
Museum di un prezioso quadro, ottengono l’appoggio della direttrice Camilla, e, dopo molte peripezie, recuperano i soldi che servono per
evitare il fallimento.
VALUTAZIONE: E Rupert Everett si inventò donna. Senza vergogna e con parrucca bionda e dentiera paracarro, il cinquantenne inglese
un tempo sex symbol si diverte un mondo ad omaggiare il collega Alistair Sim che prima di lui scelse nei ‘50 il travestitismo per i film tratti dalle vignette di Ronald Searle. Dopo cinque pellicole tra il 1954 e il 1980 tornano le ragazze di St. Trinian’s, autrici di malefatte di ogni
sorta in un’inesistente e caotica scuola inglese. Diretto a quattro mani da Oliver Parker e Barnaby Thompson il film vede un gruppo di belle
“Pierine” combinarne di tutti i colori al corpo docente prima di ravvedersi e salvare la scuola dalla bancarotta. C’è la giovane Gemma
Arterton, la cui presenza lasciava il segno in 007 Quantum of Solace, e la nostra Caterina Murino anche se a impressionare di più è lo scatenato Everett. Nel bene e nel male.
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My Movies – Giancarlo Zappoli
Carnaby Fritton, un ambiguo collezionista di opere d’arte, iscrive
a forza la riluttante figlia Annabelle al St.Trinian’s . La ragazza,
che prima studiava nell’esclusivo Cheltenham Ladies College
(dove era però vittima del bullismo della figlia del Ministro
dell’Istruzione Geoffrey Thwaites) si ritrova ora in Istituto in cui
la trasgressione è norma e si passa dalle allieve più dark a quelle
più in stile pin up. Papà l’ha condotta lì perché preside è la sorella
Camilla dalla quale vuole ottenere una retta a prezzo basso. Ma
proprio il Ministro (ex amante di Camilla) si è impegnato in una
campagna moralizzatrice che vuole far chiudere l’istituto. Le
ragazze si coalizzeranno per far sì che ciò non accada. La strategia
sarà tanto creativa quanto complessa.Alle origini di Sr.Trinian’s
c’è una serie di film iniziata nel 1954 grazie al lavoro di Frank
Launder e di Sidney Gilliat. All’epoca vi erano coinvolti i nomi
più brillanti dello spettacolo british, da Alistair Sim a Sid James
fino a George Cole e Joyce Grenfell. Già allora il ruolo della preside era affidato a un uomo e oggi si può vedere come Rupert
Everett si diverta tantissimo come perfido e dandy padre di
Annabelle e, al contempo, nelle vesti demodé della sorella la
quale, non a caso, si chiama Camilla. Un sequel, visti i buoni esiti
al botteghino, è già in preparazione e indubbiamente chi apprezza
l’intreccio tra l’humour inglese, la scuola di Hogwarts in formato
delirante e l’azione alla 007 affidata a fanciulle in fiore non potrà
che divertirsi in un film in cui al ‘borghese’ Colin Firth viene affidato un ruolo di moralista che però ancora ama la ‘virile’ Camilla.
A proposito di lui e di Rupert Everett poi, chi avrà la pazienza di
attendere la parte finale dei titoli di coda potrà assistere a una
divertente performance canora. È vero che, nell’era moderna, a
partire dai Blues Brothers non sono mancate, sul grande schermo,
le imprese di allievi o ex allievi impegnati a salvare una scuola
dalla chiusura ma bisogna riconoscere che, in questo caso, non
manca una buona dose di irridente originalità.
inglesi, quando si tratta di prendere in giro le “sacre” istituzione
della patria. Ricordate la comicità al vetriolo dei Monty Python?
Un fulgido esempio per tutti: e qualcosa di quella perfidia rimane anche in St. Trinian’s di Oliver Parker e Barnaby Thompson.
Oggetto della satira è una scuola per sole fanciulle. Ma che scuola... se non son matte non le vogliamo, potrebbe essere il motto
dell’istituto. La sede è una grande magione del passato, nel bel
mezzo della verde campagna inglese (che college sarebbe,
sennò?), con una direttrice-padrona pazza scatenata,oberata dai
debiti. Ed è lì che finisce l’ingenua protagonista,nipote della proprietaria. L’iniziazione è delle più tremende, ma la ragazzina fa
alla svelta ad abituarsi. Anzi, diventa una delle cape, pronta a una
“mission impossible” che manco Tom Cruise ci proverebbe:
“prelevare” dalla National Gallery un celebre dipinto del
Vermeer, per poi chiedere il riscatto e pagare così i debiti. Nel
frullatore finiscono un rampante ministro dell’istruzione,una trasmissione tv,un college “per bene” e molti altri intoccabili. Tutti,
ovviamente, messi alla berlina senza pietà. Yes, they can.
Liberazione - Davide Turrini
Ogni paese ha gli adolescenti che si merita. Tratto dall’omonimo libro a fumetti di Ronald Searle, il St. Trinian’s , diretto
dagli inglesissimi Oliver Parker e Barnaby Thompson, è la
radiografia vivace e fracassona di un british look fatto di divise
scolastiche, trucco e modi di ragionare delle ragazzine inglesi
contemporanee. In un’antica magione di campagna nobilmente
decaduta trova rifugio il collegio di St. Trinian’s. Governato
amabilmente da Camilla Fritton (Rupert Everett en travesti), il
complesso scolastico è classificato come il peggiore del regno,
in primis dal nuovo ministro dell’istruzione mister Thwaites
(Colin Firth). Tra le stanze del Trinian’s le ragazze sono divise
per categorie antropologiche: le Posh Totty che filtrano con i
reali e si vestono di marca; le Geeks, ovvero le secchione che
investono perfino in borsa; le Goth o Emo, pseudo punk-dark
del post 2000. Nel college all’apparenza decadente, ma ipertecnologizzato, s’insegna gestione della rabbia (con tute mimetiche
e armi), spagnolo con una erotica vamp come Caterina Murino
e una soffusa idea di totale anarchia. L’arrivo di Annabelle,
figlia di Carnaby, fratello di Mrs. Fritton (interpretato sempre da
Everett), sembra orientare il film nella palude del teen-movie
comico/intimista. Ma è giusto il prologo leggermente equilibrato di una stralunata farsa che procede imperturbabile dal decimo
al novantacinquesimo minuto di film: le folli quotidianità del
college fino alla possibile chiusura per debiti. Alle movimentate alunne del St. Trinian’s non resta che partecipare al quiz tv tra
le migliori scuole della Gran Bretagna (amabilmente condotto
da Stephen Fry) che si terrà tra i corridoi della National Gallery.
Occasione propizia per attuare le truffaldine doti imparate al
collegio: rubare il quadro de “La ragazza con l’orecchino di
perla”. I fumetti di Searle, ideati nei primi anni ‘50, vengono
subito dimenticati per far spazio ad un’iconografia rigonfia di
estetica pop. I dialoghi evocano serie tv (Annabelle paragonata
a Ugly Betty ) e citazioni metacinematografiche (Firth tirato in
ballo davanti al quadro di Veermer), mentre la coregia tenta
l’apnea di gag e situazioni al limite del paradossale. Così l’idiozia adolescenziale si accoppia con la professionalità di Everett e
Firth, oramai maturo Cary Grant in raffinato bilico tra serio e
faceto. Il risultato è curiosamente gradevole.
La Stampa - Lietta Tornabuoni
Ronald Searle, il bravissimo disegnatore satirico inglese di uomini allampanati e di donne dall’immenso petto di piccione, creò nel
1945 il college femminile di St. Trinian’s (parodia di St.
Trinnean’s, una scuola di Edimburgo) e la sua infame popolazione
di studentesse malvage, bombarole e assassine. Invenzione fantastica, di gran successo: tra l’altro, nel periodo seguente la seconda
guerra mondiale ci si interrogava in Inghilterra sulle scuole di élite
culla di delinquenti e sulle altre scuole culle di somari, ci si chiedeva cosa fare.
S’è fatto nulla, infatti in questo film (i quattro precedenti uscirono
negli anni 1954- 1966) il college è un disastro. Rischia la bancarotta per spietata mancanza di soldi: a cercare (e trovare) una soluzione, a darsi da fare per salvare la scuola, è un gruppo di studentesse sguaiate e aggressive. Colin Firth è bravo nel ruolo di ministro dell’Istruzione, ma è bravissimo Rupert Everett in un doppio
personaggio: il padre della ragazzina protagonista e la detestabile
zia Camilla preside della scuola, entrambi manierati, smorfiosi e
fantastici. Per la fine dell’anno è già annunciato un nuovo film,
«St. Trinian’s: The Legend of Fritton Gold». Fritton è il cognome
di famiglia della protagonista.
Il Sole-24 Ore - Luigi Paini
Viva l’irriverenza! Non c’è al mondo qualcuno più cattivo degli
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REVOLUTIONARY ROAD di Sam Mendes
14-15 gennaio 2010
Samuel Alexander Mendes (Reading, Regno Unito, 1 agosto 1965) nasce come regista teatrale. Durante i suoi lavori in scena viene a
contatto con alcune star di Hollywood che lo introducono anche nell’ambiente cinematografico. Il suo esordio dietro la macchina da
presa fu a dir poco incredibile: American Beauty nel 2000 gli fece vincere all’esordio l’Oscar al miglior regista (il film ne vinse complessivamente altri 4). Il film successivo, Era mio padre, del 2002, ricevette altre 6 Nomination, trionfando solo in un caso. Mendes ha
poi diretto nel 2005 Jarhead, film ambientato durante la Guerra del Golfo del 1991 e basato sull’autobiografia dell’ex marine Anthony
Swofford. Nonostante l’esiguità del suo curriculum, nell’ambiente cinematografico Mendes è ormai riconosciuto come un grande talento della cinepresa ed ammirato dai suoi colleghi più famosi (come Spielberg che lo ha indirizzato alla carriera di produttore).
Interpreti: Kate Winslet (April Wheeler), Leonardo Di Caprio (Frank Wheeler), Kathryn Hahn (Milly Campbell), David Harbour (Shep
Campbell), Ryan Simpkins (Jennifer Wheeler), Ty Simpkins (Michael Wheeler), Zoe Kazan (Maureen Grube), Kathy Bates (Sig.ra
Helen Givings), Richard Easton (Sig. Givings), Michael Shannon (John Givings), Kristen Connolly (Sig.ra Brace), John Behlmann
(Sig. Brace), Adam Mucci (Jason Maple), Timothy Warmen (Padre di April), Lorian Gish (April adolescente)
Genere: Drammatico
Origine: Stati Uniti d’America/Gran Bretagna
Soggetto: Richard Yates (romanzo)
Sceneggiatura: Justin Haythe
Fotografia: Roger Deakins
Musica: Thomas Newman
Montaggio: Tariq Anwar
Durata: 119’
Produzione: Scott Rudin, Sam Mendes, John N. Hart, Bobby Cohen, Gina Amoroso, Ann Ruark Per Evamere Entertainment, Bbc
Films, Neal Street Production
Distribuzione: Universal
SOGGETTO: Stati Uniti, 1950. April e Frank Wheeler, giovane coppia con due bambini, sono andati ad abitare a Revolutionary Road
nel Connecticut. Lui ogni mattina prende il treno e va in un ufficio che non lo soddisfa. Lei ha un sogno: trasferirsi a Parigi e cominciare
lì una vita completamente diversa. All’inizio Frank dice di essere d’accordo, ma più tardi, inaspettatamente, riceve proposte allettanti per
migliorare il lavoro e lo stipendio. Così comincia a prendere tempo, mentre lei assume reazioni stizzite. Quando si accorge di essere di
nuovo incinta, April dice chiaramente di avere l’intenzione di abortire pur di non rimandare ancora la partenza. Frank non vuole sentirne
parlare, e le liti tra loro si fanno furiose. Una mattina April si mostra calma e più rilassata ma, rimasta sola a casa, cerca di procurarsi da
sola l’interruzione di gravidanza.
VALUTAZIONE: Il romanzo omonimo di Richard Yates é stato scritto nel 1961 e quindi si proponeva come uno sguardo, teso e scavato, sul decennio appena conclusosi. La strada dove la coppia va ad abitare crea lo stridente contrasto con quello che (non) succede: la rivoluzione per April non arriva mai e più si allontana più le sue difese razionali si indeboliscono. Il miraggio di una vita ‘diversa’ da costruire lontano viene schiacciato dalle seduzioni della vita che nasce e cresce intorno: così dietro la valle dell’Eden americano degli anni ‘50
escono i nervi scoperti delle incertezze emotive, i dubbi sulla verifica da fare con altri mondi, la frustrazione di non poter uscire da un progetto, magari bello, ma già codificato. Se American Beauty era pieno di stile e poco di vita, ridotta in realtà a una sua caricatura glamour,
Revolutionary road si confronta con la crudezza della vita, lontano dal paradiso e in bilico sulla vertigine.
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Il Giornale di Sicilia - Gregorio Napoli
È inutile piangere sul latte ‘non’ versato. Non serve a nulla lamentarsi perché il romanzo ‘Revolutionary road’, pubblicato nel 1961
da Richard Yates, abbia fatto una così lunga anticamera prima di
diventare film. In verità, dobbiamo dire che già nel 1956 lo sceneggiatore-regista Nunally Johnson ed uno straordinario Gregor
Peck avevano tracciato un pertinente diario del borghesuccio americano nell’ “Uomo dal vestito grigio”. La mediocre vita del travet
Tom Rath era emblema di un entusiasmo orma spento, dopo l’eroismo della ‘crociata in Europa’ che aveva lasciato ferite e disinganni nel cuore del protagonista. Si prenda, oggi, il Frank della
Road, la strada che é rivoluzionaria soltanto a parole. Anche Frank
indossa la gray flannel suit degli impiegati che ogni mattina prendono il treno per raggiungere l’ufficio a Manhattan. Ed anche
Frank avverte il dissidio fra la carriera e la famiglia, entrambe
fomentate dal ricordo di Parigi, visitata durante la guerra, ed insidiate però dal ‘male oscuro’ della diffidenza. Sam Mendes si ferma
qui. Perché scoppiano litigi tra Frank e la moglie April? Sarà colpa
del lavoro che impone la rincorsa al profitto ? Beh sì; ma bisognava dirlo con chiarezza. In fondo, la furiosa rissa che oppone i due
coniugi resta un ‘dramma da camera’, sostenuto dalla tenacia scenica di Leonardo DiCaprio e Kate Winslet. La postilla saliente
appartiene, dunque, al John di Michael Shannon, quel profilo schizoide che, smascherando il vuoto morale della coppia, accusa
Frank di ‘nascondersi dietro un abito premamam’: e non é un caso
che Shannon sia nominato ai prossimi Oscar. Dieci anni dopo
‘American beauty’ l’arte di Mendes rifulge nelle pagine conclusive, quando - come scoprirà lo spettatore - la camera carrella alle
spalle di una Kate Winslet dignitosa e sublime nelle sue lacrime.
Ecco un buon esempio di riscatto nel dolore.
raccontati con energia e sensualità. Il film è ambientato nel 1955,
quando ogni gesto fuori dal comune pareva una rivolta: la singolare luce in cui è immerso ne accentua la lontananza, eppure è
molto contemporaneo il tormento di chi è stato certo d’essere
diverso e migliore di tutti e si ritrova a fare i conti con la propria
banalità. La ricostruzione d’ambiente è impeccabile, e a volte fa
venire da piangere.
Il Messaggero - Fabio Ferzetti
Autopsia del sogno americano, questo cadavere così sexy che il
cinema non finisce più di sezionarlo. A celebrare i funerali ci sono
invitati di classe: i due divi di “Titanic”, Kate Winslet e Leonardo
Di Caprio; uno stuolo di caratteristi geniali; e Sam Mendes, regista di ‘American Beauty’, del quale ‘Revolutionary Road’ è quasi
un impossibile premake anni ‘50. Come molti giovani di bell’aspetto e grandi ambizioni, i coniugi Wheeler si sentono destinati a
qualcosa di grande. Quando si conoscono lei studia da attrice, lui
ancora non sa a cosa dedicarsi, ma sarà qualcosa di speciale. Pochi
anni dopo eccoli arenati in una di quelle villette suburbane tutte
uguali che dilagavano negli Usa anni ‘50. Sono ormai uguali a
molti loro coetanei, ma sono ancora certi di valere ben altro. Lei
non recita più, lui è impiegato in una grande azienda e sogna qualcosa di meglio, ma non sa cosa. Hanno pure due figli, e dei vicini
che sono una caricatura della loro mediocrità. Ma tanta infelicità
dipende anzitutto da loro stessi, da un non sapersi accettare che
avrà esiti tragici. Anche se come scrive ironicamente Richard
Yates, nel romanzo da cui è tratto, ‘il complesso residenziale di
Revolutionary Hill non era stato progettato in funzione di una tragedia...’. Visivamente il film è gelido e seducente, una sinfonia di
beige e di grigi che tuffa le mani nell’iconografia del decennio,
pendolari tutti uguali con cappotto e 24 ore, uffici open space che
sono un invito a nozze per un regista teatrale come Mendes,
magnifico nelle scene d’insieme (i vicini, i colleghi, la segretaria
ingenua), ma meno incisivo nei frequenti e strazianti litigi di coppia, per cui ci vorrebbe la secchezza crudele di Bergman. Il meglio
è nel montaggio che affronta a colpi d’ascia psicologie e cronologia, e in certi personaggi di contorno. Su cui svettano l’invadente
Kathy Bates, agente immobiliare nonché agente del Destino; e
soprattutto Michael Shannon nei panni del figlio pazzo che grida
verità sgradevoli e ogni volta che appare si ruba il film.
La Stampa - Lietta Tornabuoni
Kate Winslet è così brava, in “Revolutionary Road” diretto da suo
marito Sam Mendes quanto in “The Reader” di Stephen Dandry.
Pure il film è ben riuscito e affascinante, anche se ammorbidisce il
romanzo di Richard Yates da cui è tratto, smussandone la critica
forte alla borghesia americana provinciale. Quanto al protagonista
Leo DiCaprio, a 34 anni è diventato pesante, grande e grosso, con
la faccia opaca, perdendo tutto lo charme che aveva da ragazzo;
magari è un momento, un periodo fisicamente negativo; comunque, è bravissimo. Nel film (il titolo sarcastico è l’indirizzo dei
protagonisti) sono moglie e marito: giovani, innamorati, eleganti,
abitano per necessità in una cittadina del Connecticut. Lui lavora
in un’azienda, fa il pendolare con la città. Lei si occupa dei due
bambini, della bella casa, frequenta amici e vicini mediocri. Come
tutti. Non ne possono più. Considerandosi più brillanti degli altri,
più giustamente aspiranti a una vita interessante e non ripetitiva, si
sentono frustrati, scontenti. Specialmente lei, con la forza delle
donne, non riesce ad accettare un’esistenza monotona e comune,
tanto contraddittoria rispetto ai loro desideri più giovanili, tanto
vicina al conformismo di tutti. Convince lui a trasferirsi a Parigi,
città d’ogni speranza e sogno americano; ma al progetto si sostituisce una tragedia. I momenti più alti di “Revolutionary Road”,
metafora dello iato che sempre separa ideali e certezze dell’adolescenza dai ripiegamenti dell’età adulta, sono quelli dei litigi e degli
amori coniugali, aggressivi come la giovinezza dei protagonisti,
Il Corriere della Sera - Maurizio Porro
Resuscitati maturati dalle acque del Titanic, DiCaprio e la Winslet,
quest’ ultima in una stagione d’ oro (vedi The Reader) ci riprovano, ad amarsi un po’ , in questo magico film che Sam Mendes,
come un prequel di American Beauty, ha tratto dal romanzo bellissimo di Richard Yates (Minimum Fax). Piccola borghesia americana, metà ‘ 50, con tentativi di evasione per lavoro, amore, cultura (Parigi, Parigi) che andranno inevasi: l’ indirizzo può essere
rivoluzionario ma si scontra contro la family life e una società non
facile a dare deroghe dall’ omologazione. Recitato con sensibilità
grande non solo dalle due star, mai così poco star, ma dai comprimari magnifici (Kathy Bates e il «nominato» Michael Shannon,
classico matto che dice verità) il film possiede un gusto, una verità umana, una luce teatrale di qualità che solo i cinefili duri puri e
ciechi non vedono.
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GRAN TORINO di Clint Eastwood
21-22 gennaio 2010
Mito del cinema western e uno dei più prolifici registi americani di fine secolo, Clint Eastwood nasce a San Francisco il 31 maggio 1930.
Nella metà degli anni ‘60 ha inizio il sodalizio con Sergio Leone ,che durerà per anni e che frutterà a entrambi la fama internazionale; i
loro film ebbero infatti un successo insperato. Alla fine degli anni ‘60, abbandona il personaggio del pistolero solitario per vestire quelli del poliziotto dai modi spicci, l’ispettore Callaghan. La sua prima regia risale al 1971, con Brivido nella notte, ne seguiranno altre,
non tutte importanti: nel 1988 Bird, nel 1992 Gli spietati con la quale vince anche l’ambita statuetta per il Miglior film, nel 1993 dirige
un magnifico Kevin Costner in Un mondo perfetto e poi in successione I ponti di Madison County (‘95) Potere assoluto (‘96), Mezzanotte
nel giardino del bene e del male (‘97) Fino a prova contraria (‘99) Space Cowboys (‘00) Debito di sangue (‘02), Mystic River (’03),
Million Dollar Baby, (’Oscar 2005 come migliore regista e miglior film), Flags of our Fathers (‘06), Lettere da Iwo Jima (‘07).
Interpreti: Clint Eastwood (Walt Kowalski), Christopher Carley (Padre Janovich), Bee Vang (Thao Vang Lor), Ahney Her (Sue Lor), Brian
Haley (Mitch Kowalski), Geraldine Hughes (Karen Kowalski), Dreama Walker (Ashley Kowalski), Brian Howe (Steve Kowalski), John
Carroll Lynch (Barbiere Martin), William Hill (Tim Kennedy), Brooke Chia Thao (Vu), Chee Thao (Nonna), Choua Kue (Youa), Scott
Reeves (Trey)
Genere: Azione/Drammatico/Thriller
Origine: Stati Uniti d’America
Soggetto: Dave Johannson, Nick Schenk
Sceneggiatura: Nick Schenk
Fotografia: Tom Stern
Musica: Kyle Eastwood, Michael Stevens, La canzone ‘Gran Torino’ è di Clint Eastwood e Jamie Cullum (musica)
Montaggio: Joel Cox, Gary Roach
Durata: 116’
Produzione: Clint Eastwood, Bill Gerber, Robert Lorenz Per Double Nickel Entertainment, Gerber Pictures, Malpaso Productions, Media
Magik Entertainment, Village Roadshow Pictures, Warner Bros.
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia
SOGGETTO: Reduce della guerra di Corea e meccanico della Ford in pensione, Walt Kowalski, da poco vedovo, vive solo e mal sopporta di avere come vicini immigrati coreani e altri ‘stranieri’. Una notte il più giovane di loro, Thao, cerca di rubargli la sua preziosa Ford
modello Gran Torino. Il furto fallisce e il ragazzo, per decisione della famiglia si mette al suo servizio per una sorta di riparazione della colpa
commessa. La burbera solitudine di Kowalski comincia a sciogliersi e, frequentando anche Sue, sorella di Thao, l’uomo capisce meglio le
difficoltà di vita di quelle persone. In particolare il clima di violenza instaurato da una banda di altri immigrati, lo provoca più volte, fin
quando decide di intervenire… E nel quartiere torna la calma.
VALUTAZIONE: Sarà, come dice, l’ultimo film da lui interpretato? Se così fosse, resta un grande, memorabile passo d’addio. La parabola di Walt Kowalski, dal rifiuto verso tutto e tutti (per chi non compra ‘americano’) all’apertura, alla comprensione, alla coscienza di dover
agire si snoda lungo un percorso che evita con puntiglio scivolate retoriche (la medaglia all’eroe di guerra) a vantaggio di una cronaca tesa
e asciutta ma non per questo meno profonda. Il copione riesce ad arrivare alla soluzione del sacrificio finale senza assolutizzare il gesto,
bilanciato dall’idea della morte comunque incombente causa malattia. E tuttavia la forza dell’esempio rimane, incisiva e incancellabile,
aggrappata a quell’Ave Maria appena sussurrato sottovoce, prima di consegnarsi alle pallottole dei teppisti. Walt rappresenta 50 anni di vita
e di storia americane, al pari di Eastwood stesso sempre pronto a gettare sul proprio Paese uno sguardo fatto di compassione e di pietà che
sono i presupposti di una grande ammirazione. L’attore-regista compone un nuovo, palpitante ritratto, fatto di luci e ombre, di odio e di amore
e, in sintesi, di convinta speranza per il futuro.
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Famiglia Cristiana - Enzo Natta
Gran Torino è il modello di una Ford 1970, auto d’epoca che Walt
Kowalski custodisce gelosamente, oggetto di culto di un passato
che questo ex meccanico di Detroit oggi in pensione si ostina a
difendere da una perdita di identità che pare contagiare tutto e tutti,
a cominciare dai figli che viaggiano in macchine giapponesi e
hanno lasciato il quartiere popolare in cui sono cresciuti. Quartiere
che Kowalski è rimasto tutto solo a presidiare.... Arrivato ai 79
anni, Clint Eastwood ha deciso di passare la mano e rinunciare
d’ora in avanti al ruolo di attore. Trattandosi di un addio, “Gran
Torino” assume il valore di un testamento spirituale in cui giganteggia una presenza magnetica di attore e regista. In quello che
Eastwod ha definito il suo film più personale si ritrovano archetipi del western come l’individualismo e il mito della vecchia frontiera, matrici di un patriottismo arcaico che spinge KowaIski a trincerarsi orgogliosamente nel suo Fort Apache circondato da ‘musi
gialli’, ispanici e afroamericani. Poco alla volta, tuttavia, il duro e
irriducibile veterano della guerra di Corea scoprirà che i valori non
sono solo quelli della razza bianca e della bandiera a stelle e strisce, ma si spingono molto più in là abbracciando doti come umanità, altruismo, solidarietà. Film spiazzante, che parte imboccando
una strada dove sembra rivivere il vecchio ispettore Callaghan e
poi ne imbocca un’altra, “Gran Torino” è una moderna, grintosa e
robusta parabola religiosa che riconcilia l’uomo con il trascendente. Il tema della fede, presente in molti film di Eastwood, si ripropone attraverso la presenza della Grazia, la caduta sulla via di
Damasco, lo spirito di carità e la redenzione sublimati nel sacrificio di se stesso per la salvezza degli altri.
commedia geniali. Come in tutti i tragici, in Clint alberga l’
anima di un grande comico. Che occorre, ancora, per fare un
capolavoro?
La Stampa - Lietta Tornabuoni
Il primo film sulla vecchiaia diretto e interpretato da Clint
Eastwood è intitolato con il nome di un’auto Ford del 1972 a cui
il protagonista ha lavorato durante i suoi cinquant’anni di fatica in
fabbrica e che adesso sta nascosta nel garage della sua casa in
quella periferia di Detroit divenuta ghetto di immigrati. Il racconto comincia e finisce con un funerale: prima quello della moglie,
poi il suo in cui lo si vede morto nella bara scoperchiata. Quasi un
testamento, un addio.
Bellissimo e dolente, Gran Torino è la storia d’un dinosauro, d’un
anacronismo: il protagonista è un ex combattente decorato nella
guerra di Corea, tiene in casa fucile, pistola e bandiera americana,
ha sempre fatto l’operaio alla Ford. E ha la dimensione crepuscolare dei personaggi di Eastwood dei Novanta: uomini tormentati
da un male oscuro, da una ferita del passato, dal rimorso per una
infamia commessa. Soprattutto, è vecchio: ha più dei 78 anni dell’attore, forse. Un vecchio solitario, incattivito. Non ama i propri
figli grossi e pigri, né i nipoti alla moda. Non vuol frequentare nessuno, non vuole gente per casa: al parroco che intende convincerlo alla confessione sbatte la porta in faccia. Mangia male, quello
che capita. Beve troppa birra. È malato, sputa sangue. Odia le
bande giovanili (asiatiche, nere, messicane) che girano in auto per
il quartiere cercando dove far danno. Disprezza le case dei vicini,
scrostate e mal tenute: se i vicini sono asiatici, li chiama ‘musi
gialli’ come faceva in Corea. Eppure è cattolico, è polacco d’origine, si chiama Kowalski come Marlon Brando nel ‘Tram che si
chiama Desiderio’ da Tennessee Williams.
Per caso si lega a Thao, un ragazzo vietnamita (uno di quei vietnamiti Hmong che si allearono agli americani e alla loro resa vennero uccisi o scapparono): cerca di educarlo, di tenerlo lontano
dalla gang di suo cugino, di dargli carattere. Quando la gang viola
la sorella del ragazzo, è lui a pianificare una vendetta. “Gran
Torino”, riflessione sui pregiudizi e la redenzione, sulla religione e
le minoranze etniche, è raccontato con una classicità perfetta, con
una calma e una libertà inaudite e con l’autoironia o autoderisione
con cui Eastwood si prende in giro per divertirci, fa il vecchio cane
ringhioso, fa il misantropo intollerante, fa il poliziotto armato. Un
grande film, di regista e d’attore.
La Repubblica - Roberto Nepoti
Le prime notizie arrivate su “Gran Torino” parlavano di un
Eastwood di pregio, però più semplice, più da ‘grande pubblico’
del solito: non un capolavoro. Ma allora, da che cosa si riconosce un capolavoro? Intanto, la semplicità - quando è unita alla
capacità di dire cose importanti - è un pregio, non un difetto. E
Clint dice cose molto importanti con estrema, classica semplicità. Nel raccontarci la storia di Walt Kowalski, metalmeccanico in
pensione reduce dalla guerra di Corea e fresco vedovo, convoca
temi come il razzismo, il rapporto padri-figli, nientemeno che la
capacità di amare. Interpretato da Clint, Kowalski è un misantropo che ringhia come un mastino, sta sempre a un passo dal suo
fucile M-1, manifesta odio per i ‘musi gialli’ che gli hanno invaso il quartiere. Eppure Walt sa amare, molto più dei suoi grassi e
squallidi figli, bravi padri di famiglia americani cui il film riserva tutto il suo disprezzo. Diventato eroe per caso della comunità
cinese, il vecchio solitario s’incaricherà dell’educazione - virile,
sentimentale, al lavoro - di un timido adolescente asiatico, Thao,
proprio quello che ha tentato di rubare la sua auto-feticcio, la
Gran Torino del ‘72 centro simbolico della storia. Un grande
romanzo di formazione, e in due sensi: non solo ‘crescÈ il ragazzino, ma anche l’uomo al tramonto della vita. Kowalski consegna al ragazzo le chiavi per il mondo degli adulti, impara che si
possono avere molte più cose in comune con i musi gialli della
porta accanto che con i propri figli. Semplice ed epico, Clint è
più eroico quando estrae un accendino (l’epilogo) di quando,
giovane Callaghan, tirava fuori la sua 44 Magnum. Non basta?
In un film che flirta di continuo con la morte, inserisce pause da
Il Corriere della Sera - Maurizio Porro
Come Nicholson in A proposito di Schmidt, anche Eastwood vive
male la terza età. Vedovo, con due figli volgarmente scaltri, si
trova unico «bianco» nel suo Middle West ormai pieno di asiatici.
Razzista, il pensionato che ha lavorato alla Ford, combattuto in
Corea e conserva una Gran Torino, diventa comprensivo e si fa
giudice dei torti subiti da un ragazzino «nipote» putativo vittima di
bulli. Ribaltando il western, si offre al finale sacrificio per raddrizzare le sorti di un mondo in cui non si riconosce.
Meravigliosamente epico alla Ford (John, stavolta), Clint volto di
pietra ci spiega una cosa bella e semplice: che l’ accettazione della
società multirazziale non è frutto di ideologie, ma di una faticosa
pratica quotidiana. Pezzi d’ antologia gli incontri col prete e la
lezione della dialettica «macha» col barbiere.
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BASTA CHE FUNZIONI di Woody Allen
28-29 gennaio 2010
Woody Allen, al secolo Allan Stewart Königsberg (New York, 1º dicembre 1935). Appartiene ad una famiglia medio borghese ebrea, di
origini ungheresi. Suona il clarinetto dall’età di dodici anni e gli piace scrivere battute umoristiche che invia regolarmente ai giornali di
New York. L’esordio dietro la macchina da presa avviene con Prendi i soldi e scappa, ironica parodia della piccola delinquenza, dando
il via ad un cammino artistico lunghissimo e pieno di riconoscimenti e successi. Nel 1978 Woody Allen ottiene il primo riconoscimento
ufficiale per la sua carriera di regista: Io e Annie, girato con Diane Keaton, raccoglie ben 4 Oscar: miglior fotografia, miglior sceneggiatura, miglior regia e migliore attrice protagonista. Woody Allen realizza numerosi film e 18 candidature all’Oscar, prima con lavori
spiccatamente umoristi, un miscuglio di commedia farsesca dei fratelli Marx e i drammi filosofici bergmaniani, poi con film di satira corrosiva alla società di massa, alla psicanalisi e il sesso legandosi a temi più personali che si intrecciano spesso con la sua burrascosa vita
privata. Periodicamente matrimoni, divorzi, relazioni amorose e tradimenti hanno movimentato la vita di Woody Allen, sia sul set che
nella vita privata.
Interpreti: Larry David (Boris Yellnikoff), Evan Rachel Wood (Melody), Patricia Clarkson (Marietta), Ed Begley, jr (John), Conleth
Hill (Leo Brockman), Michael McKean (Joe), Henry Cavill (Randy James), John Gallagher, jr (Perry), Jessica Hecht (Helena), Carolyn
McCormick (Jessica), Christopher Evan Welch (Howard).
Genere: Commedia
Origine: Stati Uniti
Soggetto e sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Harris Savides
Musica: brani di autori vari
Montaggio: Alisa Lepselter
Durata: 92’
Produzione: Letty Aronson, Stephen Tenenbaum
Distribuzione: Medusa Film
SOGGETTO: A New York ecco Boris Yellnikoff, professore in pensione di meccanica quantistica alla Columbia University, autoproclamatosi candidato al Nobel ma soprattutto gran misantropo, dedito a irritare i pochi amici rimasti con lunghissime tiritere sull’inutilità del tutto. Boris ha un’altissima opinione di sé e una bassissima considerazione per la razza umana. Con insopprimibile cinismo si
prende gioco dei sentimenti e delle aspirazioni della gente semplice. Accoglie in casa Melody, una ragazza sbandata arrivata dal sud, e
questo gesto innesca una serie di complicate reazioni che lo obbligano a confrontarsi con gli altri, ad ammorbidirsi senza rinunciare
alle beffe. Boris sposa Melody, poi lei conosce un coetaneo e chiede il divorzio. Boris cerca una seconda volta di suicidarsi, non ci
riesce, e finisce per avviare un rapporto con la donna, più matura, che lo ha salvato.
VALUTAZIONE: Questo 40esimo lungometraggio di Woody Allen, a partire dal 1969, segna il suo ritorno nella prediletta New York,
anzi a Manhattan, dopo le vacanze europee a Londra e a Barcellona. La Grande Mela si ripropone così come l’unico luogo possibile
dove fare i conti con se stesso, e affrontare a viso aperto gli argomenti ultimi che sempre più gli stanno a cuore. Allen non ha mai avuto
remore nel parlare di temi forti (religione, famiglia, sesso, società americana, felicità...) ma certo oggi, a 74 anni, l’urgenza di un confronto si fa più aspra, e incalzante. Affidato a dialoghi serrati, pieni di battute fulminanti, il racconto diventa ben presto il ritratto, dietro Boris, di un Allen stretto nell’odio/amore per la vita, le persone, le cose, indulgente ma non rassegnato verso le possibili varianti
affettive. Un Woody Allen che non si rassegna a risposte preconfezionete, spietato con se steso ma innamorato degli sbandamenti del
cuore. E anche del cinema, che usa da maestro, scardinando a nostro vantaggio la barriera tra realtà e finzione.
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La Stampa - Lietta Tornabuoni
Di nuovo a New York, in una commedia divertentissima e desolata Woody Allen si affida a un altro se stesso: più giovane (62
anni), zoppo, scostante professore universitario in pensione, sentenzioso, nevrotico e sarcastico: è Larry David, cabarettista ebreo
newyorkese. Accompagnato da musichette Anni Trenta sussultanti e allegre, il protagonista parla rivolgendosi direttamente agli
spettatori: «Le nostre idee generali sono tutte basate sul falso concetto che l’uomo sia fondamentalmente buono». È autocritico:
«Non sono simpatico a nessuno, la simpatia non è tra le mie priorità». È sferzante: «In America odiano gli ebrei più dei neri». È
spietato: «Suo figlio, signora, è un imbecille», dice alla madre
d’un bambino che non impara a giocare a scacchi. È insofferente:
«Se devo mangiare cinque porzioni di frutta o verdura al giorno,
non voglio vivere». Ospita in casa sua una ventenne bionda molto
carina, senzatetto arrivata dalla provincia («Sei una povera vagabonda, stupida oltre ogni immaginazione»), mette le cose in chiaro («Non sopporto d’avere una relazione con una donna»), la
accompagna a conoscere la città (la tomba di Grant, la statua della
Libertà), la sposa. Poi: «È passato un anno. Ho raggiunto un delicato equilibrio». Ma arrivano prima la madre, dopo il padre di lei.
La madre, che detesta il marito della figlia e la induce a innamorarsi di un coetaneo, a New York si sfrena, diventa trendy, va a
vivere con due amanti maschi, inaugura una mostra di nudi fotografici; il padre abbandonato si scopre gay e forma una coppia
virile; la figlia lascia il marito per stare con un giovanotto. Il protagonista si butta dalla finestra, ma cade su una signora che si
rompe una gamba e si mette con lui. A Capodanno le diverse coppie si ritrovano tutte insieme, costrette a festeggiare, apparentemente serene. Il lieto fine del copione scritto da Allen circa trent’anni fa è imprevisto: e non nasconde la vacuità dei personaggi,
della loro esistenza. Vivacissima, verbosa, incalzante, spiritosa, la
commedia pare a volte un po’ stucchevole, saltellante: ma insieme con il vuoto e buffo brillare sta la malinconia della vita che
non c’è più. Molto bello.
geratissimo Sud scopriranno le loro più intime nature e riusciranno a realizzarsi. Con un ulteriore ammiccamento di Boris verso di
noi in cui, ancora una volta, sembra farsi beffe di tutto, lieto fine
compreso. Dialoghi smaglianti e incendiari, situazioni proposte a
lungo ma sempre con una vivissima dinamica cinematografica
interna, con la conseguenza che i ritmi, oltre che fluidi, diventano
quasi aggressivi non concedendoci altre pause al di fuori di quei
pepatissimi commenti del protagonista verso di noi, con il gusto di
farsi avanti da un proscenio. Regge splendidamente quei commenti, e tutte le sfumature del personaggio, un attore come Larry
David, degno, ad ogni svolta, della sua fama di attore comico di
prim’ordine
Il Messaggero – Fabio Ferzetti
Sorpresa numero 1: dopo un lungo girovagare fra generi e città,
Woody Allen torna nella “sua” Manhattan per ritrovare tutto ciò
che credevamo di sapere del suo cinema di una volta, senza sbagliare un colpo. Sorpresa n. 2: dopo tanti film in cui non appariva
o si confinava in ruoli di fianco (Anything Else, Melinda e
Melinda, Scoop, Vicky Cristina Barcellona...), Woody trova finalmente un alter ego in grado di riprendere il suo personaggio di
newyorkese nevrotico senza far rimpiangere l’originale (con sfumature diverse, naturalmente).
Il prescelto si chiama Larry David e come lui è un comico
ebreo nato a Brooklyn, anche se ha faticato a lungo per arrivare alla fama. Fisicamente i due non si somigliano troppo. David
è più alto di Allen, è pelato, ha dieci anni di meno. In Basta che
funzioni trascina pure una gamba, ricordo di un tentato suicidio
dall’esito ridicolo ma non fatale. Per il resto la parentela è evidente: egocentrico, brontolone, afflitto da pessimismo cosmico,
con un che di vanaglorioso in più rispetto ai personaggi di
Allen, il professor Boris Yellnikoff è un ex-docente di meccanica quantistica, ex-marito di una donna bella e ricca, insomma
ex-tutto, che passa le giornate al bar a pontificare con gli amici
o a insegnare scacchi ai bambini (insultandoli quando non sono
all’altezza, cioè sempre). Perché questo campione di misantropia, incapace di dare e provare piacere, debba imbattersi in una
candida, ignorantissima, deliziosa ragazza in fuga da un paesino del profondo Sud (la mercuriale Evan Rachel Wood) è un
mistero che solo il Caso più capriccioso potrebbe spiegare. Ma
il Caso è da sempre il motore dei vorticosi capovolgimenti alleniani che mettono ogni personaggio di fronte al suo opposto e
a una serie di prove che innescano cambiamenti imprevedibili.
L’ingenua Melody St. Ann Celestine (che nome!), a sua volta
un “doppio” meno sessuato dei personaggi di Scarlett
Johansson, fa infatti da apripista a una catena di mutamenti personali (e sessuali) che dopo il burbero Boris e i suoi pazienti
amici coinvolgono la famiglia della ragazza, giunta a New York
sulle tracce della fuggiasca. In un susseguirsi di colpi di scena
tanto annunciati, in fondo, quanto godibili, proprio per la finezza con cui Allen intesse le sue variazioni sul tema, facendo leva
sulla complicità dello spettatore (in apertura Boris si rivolge
addirittura alla platea, come in un film di Sacha Guitry) ma
finendo per iniettare in questi “tipi” così idealizzati qualcosa di
noi e dei nostri umori più segreti. Così si esce sollevati e sorridenti, pensando il solito Allen, e ci si ritrova a pensarci su,
come se non avessimo mai visto niente di simile. A un autore
così prolifico si può chiedere di più?
Il Tempo – Gian Luigi Rondi
Woody Allen dall’Europa è tornato a New York e non avendo
forse più voglia di recitare lui stesso si è rivolto a un attore poco
noto da noi, Larry David, ma molto apprezzato negli Stati Uniti
per certe sue imprese televisive, e si è creato un personaggio non
dissimile da un alter ego che ha caricato di molti suoi difetti, dal
pessimismo all’ipocondria, con l’aggiunta però della coscienza di
essere anche un genio… magari incompreso. Senza drammi,
comunque questa volta anzi nelle cifre più scoperte della commedia, tanto che il nuovo personaggio in cui sembra rispecchiarsi,
tale Boris Yellnikof e un ex fisico di fama mondiale giunto quasi
alle soglie del nobel, che prima di raccontarci la sua storia (dopo
un divorzio e un’esistenza ormai da fallito) si rivolge verso di noi
(e in seguito lo farà spesso) e ci intrattiene su se stesso, le sue idee
forse bislacche e i suoi dubbi esistenziali, con aria seria ma, in
segreto, mettendosi spesso in burla. Segue la sua storia. L’incontro
causale con una ragazzina del Sud; Melody, che prima tiene alla
larga, poi, nonostante una gran de differenza di età, sposa quasi
contento, presto però deluso da un’improvvisa relazione di lei con
un coetaneo. Niente lacrime però, è una commedia, e cosi arriverà presto un lieto fine non solo per Boris, ma anche per gli stravaganti genitori di Melody che piombati a New York dal loro mori-
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13 THE READER - A VOCE ALTA di Stephen Daldry
4-5 febbraio 2010
Nato nel 1960, a Dorset, Inghilterra, Stephen Daldry arriva al cinema dopo esperienze di teatro. Studia Arte Drammatica alla
Sheffield University e dopo il diploma entra a far parte di un circo italiano. A soli 32 anni diventa direttore artistico del Royal Court
nel 1992 ed è ben presto acclamato come il nuovo astro nascente del teatro londinese, grazie alla regia di An Inspector Calls di J.
B. Priestley, grande successo oltremanica e non solo. È grazie alla casa di produzione Working Title che Daldry entra nel mondo
del cinema e il suo esordio con Billy Elliot è certamente fortunato: nomination agli Oscar 2000 per miglior regia, miglior sceneggiatura originale e migliore attrice non protagonista. La sua seconda regia, The Hours (‘02), conferma il suo talento aggiudicandosi numerose candidature e diversi premi, tra cui 9 nominations all’Oscar 2003, 2 Gloden Globes - miglior film e miglior attrice
(Nicole Kidman) nella categoria dei film drammatici e l’Orso d’argento al Festival di Berlino per le tre interpreti.
Interpreti: Kate Winslet (Hanna Schmitz), Ralph Fiennes (Michael Berg adulto, David Kross (Michael Berg ragazzo), Lena Olin (Madre di
Rose /madre di Ilana), Bruno Ganz (Professor Rohl), Alexandra Maria Lara (Ilana), Karoline Herfurth (Marthe), Volker Bruch (Dieter
Spenz), Hannah Herzsprung (Julia), Linda Bassett (Sig.ra Brenner), Susanne Lothar (Carla Berg), Matthias Habich (Peter Berg), Jeanette
Hain (Brigitte)
Genere: Drammatico
Origine: Stati Uniti d’America/Germania
Soggetto: Bernhard Schlink (romanzo)
Sceneggiatura: David Hare
Fotografia: Roger Deakins, Chris Menges
Musica: Nico Muhly
Montaggio: Claire Simpson
Durata: 123’
Produzione: Anthony Minghella, Sydney Pollack, Donna Gigliotti, Redmond Morris Ed Henning Molfenter Per Mirage Enterprises, Neunte
Babelsberg Film, The Weinstein Company
Distribuzione: 01 Distribution
SOGGETTO: Germania Ovest, 1958. Sentitosi male per strada, il 15enne Michael viene soccorso da Hanna, una signora sui 35 anni.
Ripresosi dalla malattia, il giovane cerca Hanna per ringraziarla, e i due rimangono rapidamente coinvolti in una relazione segreta e appassionata. Spesso Hanna gli chiede di leggerle dei romanzi, e lui ne è molto contento. Un giorno la donna scompare. 1966. Studente di legge
ammesso con il professore ad assistere ai processi per i crimini di guerra nazisti, Michael un giorno vede alla sbarra, tra gli imputati, proprio Hanna. Lentamente emergono le accuse: la donna é stata tra quelle che, nei campi di prigionia, preparavano e selezionavano le detenute da mandare a morire. Inoltre, quando le viene chiesto di firmare una confessione, Michael finalmente intuisce la verità: lei non sa leggere né scrivere. Condannata all’ergastolo, Hanna riceve in cella nastri con la lettura di libri che le permettono di imparare a capire e usare
la scrittura. Michael, divenuto avvocato, la segue a distanza e, quando il tribunale la rimette in libertà, va a trovarla e le assicura di poterla
sistemare in un appartamento fuori. Anziana e stanca, Hanna però non regge alla prova.
VALUTAZIONE: Il romanzo é stato scritto da Bernhard Schlink, professore di legge a Berlino e autore anche di ‘gialli’, è diventato il primo
libro tedesco ad arrivare in testa alla classifica del New York Times nel 1999. Dice l’autore: “È una storia su quella che definiamo la ‘seconda generazione’, i ragazzi che per fortuna sono nati dopo gli anni della guerra. Hanna e Michael rappresentano la vecchia e la nuova
Germania”. Sul fatto se la Germania abbia o no fatto i conti in modo soddisfacente rispetto agli anni dell’Olocausto, permangono, come si
sa, opinioni contrastanti. La piccola ‘verità’ del libro risiede forse proprio in questo: quella donna che per Michael ha segnato il momento
bello della scoperta dell’amore e dell’ingresso nella sua vita di uomo, per altri (per troppi altri) é stata portarice di morte, di dolori, di lutti.
E le sofferenze causate a tanti possono essere cancellate da un atto individuale così privato? Il copione procede alternando i tempi narrativi,
e passando dal Michael adulto a quello adolescente, dall’euforia giovanile al sofferto protrarsi di dubbi e incertezze. Risolto con fine capacità introspettiva e lucida calligrafia di luoghi e ambienti, il copione solo nel finale perde secchezza a scapito di un po’ di sdolcinatezze. Gli
interrogativi restano e sono tra noi.
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Il Manifesto - Roberto Silvestri
300 ebree prigioniere dei nazisti, chiuse a chiave, bruciarono vive,
per un incendio accidentale, durante un trasferimento... 5 aguzzine
delle SS, le loro carcerarie di stanza a Auschwitz, verranno processate e condannate, dai 4 ai 20 anni, ma solo per quella strage
preterintenzionale, bazzecole rispetto al resto, e solo negli anni
‘60... La difesa tirò fuori il solito argomento: ‘le donne agirono per
obbedire agli ordini ricevuti”. Quale era stato invece l’insegnamento indelebile del processo di Norimberga? Il diritto alla disubbidienza quando un ordine imposto è immorale. L’etica prende a
volte il sopravvento sul diritto dell’epoca...
Fuori concorso alla Berlinale 59, tema scottante, la Shoà, “The
reader”, da un romanzo vagamente ispirato a fatti di cronaca, di
Bernard Schlink. È il progetto di Anthony Minghella e Sydney
Pollack, che i due cineasti affidarono prima di morire alle scaltre
mani del regista inglese Stephen Daldry (che aveva fatto danzare
il figlioletto del rude minatore in “Billy Elliot”), luci di Chris
Menges, copione di David Hare. Ai fratellacci Weinstein, però il
final cut, non senza polemiche produttive postume. Anche perché
il film, che racconta solo in lingua inglese cose di tedeschi, ed è
dunque di metaforica impostazione, rischia così come è, di semplificare troppo le cose, rischiando di sprofondare nel
ridicolo.Comunque l’opera piace e si è intrufolata tra i papabili
Oscar, soprattutto perché sfiora la Shoà, ‘madre di tutti i temi
hollywoodiani’, giustamente cara all’Academy Award, e anche per
la recitazione platealmente ambigua di Kate Winslet, prepotente
come il suo personaggio, la malvagia, inquietante, ma in un certo
senso candida ‘guardiana Schmitz’, l’unica delle 5 che collaborerà con i giudici, la sola delle 5 che prenderà su di sé, per vergogna,
ma non di ciò che pensa, la responsabilità massima del crimine.
Germania federale, 1958, nell’anno del più celebre e avventuroso
processo post-Norimberga, quello di Tel Aviv al diavolo sterminatore Eichman. Michael, studentello provinciale di 15 anni, viene
sedotto e iniziato alle gioie del sesso da Hanna, bigliettaia di tram
trentenne, bionda pagana e autoritaria, che lo ha soccorso mentre
vomitava qualunque cosa per la scarlattina. Michael vive il suo
grande amore fatto di scampagnate in bicicletta e delizie del letto,
e di lunghe letture dei classici, lo scandaloso ‘Amante di Lady
Chatterley’ compreso, cui la donna lo sottopone come fosse un
misterioso training erotico. Un giorno, però, lei scompare nel
nulla, pur di non accettare una promozione in ufficio... Il gioco
sadico e misogino di Michael, che si rifiutava, parallelamente alla
sua eccitante storia, alle coetanee più avvenenti, sarà trasferito
negli alti studi di diritto. E a Michael capiterà di presenziare, contributo a un seminario accademico, proprio al processo a quella
prima amante, Hanna Schmitz, improvvisamente rispuntata dal
nulla in quell’aula. E di comportarsi esattamente come il mostro
che aveva amato. Scopre che quel rito maniacale di farsi leggere la
migliore prosa mondiale, fino all’eruzione emozionale del pianto
o del riso, era dunque stato praticato a lungo anche nei lager dalla
giovane SS, prima di spedire nelle camere a gas le ragazze più
deboli, malate e indifese, secondo una interpretazione del Mein
Kampf hitlerianamente corretta. Solo Michael sa la verità, scopre
dunque che per Hanna la vergogna di tutte le vergogne non è di
aver collaborato allo sterminio di 6 milioni di tedeschi, anche se
spuri, non ariani, non biondi e non genuflessi al Fuhrer, ma di non
saper leggere né scrivere. Come per Bush la vergogna non è di
aver bombardato e assassinato civili e militari in Iraq, ma di aver
creduto a un dispaccio errato della Cia... Siccome Goebbels metteva mano alla pistola quando sentiva la parola cultura, la carriera
di Hanna non aveva avuto intoppi. Ma pur di non farsi scoprire
analfabeta nella Rfa di Heissenbutel, Hanna dirà che l’ordine scritto di non aprire le porte alle prigioniere intrappolate era scritto di
suo pugno. 20 anni di carcere... Non vi diremo come va a finire il
film che nella seconda parte si avvale, come Michael, di un intontito, confuso, irrisolto Ralph Fiennes, nella parte di Michael. Certo
però consiglio di studiare bene la scena chiave del film, cioè lo
scontro tra il professore di diritto Rohl (Bruno Ganz) e gli allievi.
Il professore afferma che non è l’etica a cementare lo spirito di una
nazione, ma il diritto. E che il diritto è frutto della storia. Non si
può insomma giudicare i nazisti (come si fece a Norimberga), o
recentemente Saddam, come si è fatto di recente, con tribunali formati dai vincitori. I ragazzi si scandalizzano per questo e Michael,
pur di non dare ragione al prof., non scagionerà davanti al tribunale l’amante assassina che vuole condannata comunque.
Mandando però il buon senso, il diritto e l’etica al diavolo. Com’è
successo proprio nel caso del processo a Saddam. Ma non a
Norimberga.
La Stampa - Lietta Tornabuoni
Un bel film, con Kate Winslet meravigliosa protagonista, su sesso,
segreti, Storia e l’ignoranza come origine dell’errore. Ideato da
Anthony Minghella e Sydney Pollack morti durante il lavoro, tratto dal romanzo ‘A voce alta’ del tedesco Bernhard Schlink tradotto in 40 lingue e pubblicato in Italia da Garzanti, sceneggiato da
David Hare, “The Reader” (‘Il lettore’) comincia in Germania
subito dopo la II Guerra Mondiale, con una travolgente passione
carnale. Diventano amanti (voraci, appassionati, mai sazi) una
donna matura e un ragazzo sedicenne, il cui legame si fa anche più
stretto quando lui si accorge di quanto a lei piaccia sentirlo leggere ad alta voce: le legge l’ ‘Odissea’, ‘La signora col cagnolino’ di
Cechov, ‘Le avventure di Huckleberry Finn’ di Twain. Poi lei
scompare repentinamente, senza una parola.
Il ragazzo la rivede qualche anno dopo. Studente universitario di
Legge, viene portato con altri dal professor Ganz ad assistere a un
processo per crimini nazisti: è un processo ispirato a quelli di
Francoforte (1963-1965) in cui venivano giudicati impiegati di
livello medio-basso dei lager di Auschwitz-Birkenau. E la donna è
lì, imputata in un gruppo di kapò. Risponde con naturale atonia
alle domande dei magistrati: sì, cercava lavoro, ha sentito che c’erano posti da sorvegliante... sì, per forza una parte delle prigioniere doveva essere accompagnata a morire altrimenti non ci sarebbe
stato posto per le nuove arrivate... Sarà molto più penoso per lei
confessare la colpa che ritiene più grave: non sa leggere né scrivere, è analfabeta. Una parte finale confusa e triste completa il film
molto interessante, che ha suscitato le solite polemiche a vanvera
delle associazioni ebraiche americane, secondo le quali chiunque
abbia avuto a che fare con i nazisti è un mostro. Ma il film imputa questa colpa anche all’ignoranza, all’inconsapevolezza, alla
mancanza di informazione su quanto è avvenuto e avviene intorno
a sé, senza mostrare alcuna indulgenza verso la protagonista. Il
film è bello e Kate Winslet non potrebbe essere più brava: “The
Reader”, insieme con “Revolutionary Road”, ne fanno l’attrice
dell’anno, degna di tutti gli Oscar possibili.
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QUESTIONE DI CUORE di Francesca Archibugi
11-12 febbraio 2010
Roma 1961. Francesca Archibugi frequenta il Centro Sperimentale di Cinematografia e tra il 1980 e il 1983 realizza alcuni cortometraggi e il documentario commissionato dal Comune di Roma La piccola avventura, sui bambini handicappati. Inizia la sua carriera cinematografica come sceneggiatrice e nel 1987 esordisce dietro la macchina da presa con Mignon è partita, con cui vince cinque David di
Donatello, due nastri d’argento e il premio per la miglior opera prima al Festival di San Sebastian. Seguono Verso sera (1990, David di
Donatello per miglior film e miglior attrice non protagonista e Nastro d’argento per miglior attore protagonista e miglior attrice non protagonista), Il grande cocomero (1992, David di Donatello per miglior film, miglior sceneggiatura e miglior attore protagonista e Nastro
d’argento per miglior film, miglior sceneggiatura e miglior produzione), Con gli occhi chiusi (1994, Nastro d’argento per miglior attore
non protagonista) e L’albero delle pere (1998, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, Osella D’oro e Grolla D’oro
per miglior film).
Interpreti: Kim Rossi Stuart (Angelo), Antonio Albanese (Alberto), Micaela Ramazzotti (Rossana), Francesca Inaudi (Carla), Chiara
Noschese (Loredana), Paolo Villaggio (Renato), Andrea Calligari (Airton), Nelsi Xhemalaj (Perla)
Genere: Commedia
Origine: Italia
Soggetto: Umberto Contarello (romanzo), Francesca Archibugi, Guido Iuculano (collaborazione)
Sceneggiatura: Francesca Archibugi
Fotografia: Fabio Zamarion
Montaggio: Patrizio Marone
Durata: 110’
Produzione: Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini, Marco Chimenz per Cattleya
Distribuzione: 01 Distribution
SOGGETTO: I cuori di Alberto e di Angelo ingrippano nella stessa notte. Così dice Angelo, giovane carrozziere di ex borgata, ex sottoproletario, un ex tutto diventato qualcosa che Alberto, sceneggiatore di successo, bravo e matto, rumoroso e squilibrato come un rinoceronte, non capisce. Diventano amici in sala rianimazione. Si legano in modo istantaneo, sorpresi loro stessi di capirsi così profondamente. Ma
sono due maschi, e quindi paludano spesso le emozioni dietro lo scherno, lo scherzo. Come adolescenti al primo viaggio in tenda. Appena
fuori, la vita gli sembra talmente cambiata, sempre consapevoli come sono di ogni battito cardiaco, che diventano indispensabili l’uno all’altro. Continuare a stare insieme significa stare con l’unica persona al mondo che - in quel momento - ti capisce. Alberto, che è strutturalmente
un uomo solo, non riesce a dare stabilità al suo rapporto con la fidanzata, e si installa come un paguro nella conchiglia, la casa di Angelo, lì
al Pigneto, sopra la carrozzeria specializzata in auto d’epoca. Un mondo imperscrutabile, ora bellissimo, ora sinistro. Ma in quella casa c’è
una famiglia, una moglie, Rossana, attraente di suo e in più incinta, una specie di donna al quadrato; e i due figli, Perla e Airton, una adolescente furiosa e un bambino impaurito dagli eventi. Alberto si scioglie in quella dolcezza che gli era non solo sconosciuta, ma perfino antipatica. Si crea una famiglia con due padri, con funzioni complementari: uno solido, Angelo, che manda avanti la carrozzeria, guadagna,
evade e accumula, e l’altro, Alberto, che legge, scrive e sperpera, soldi e relazioni. Ma non c’è scontro, fra le loro visioni delle cose: è anzi
un abbraccio che nasconde la disperazione sotto gli sghignazzi virili. Angelo nasconde a tutti di sentirsi sempre peggio, e costruisce un piano,
germogliato nella paura di morire: cerca di trasferire all’amico, come eredità, come dono, come responsabilità morale, ciò che ha di più caro:
Rossana, Airton e Perla.
VALUTAZIONE: Desideravo - dice l’Archibugi - fare un film sull’Italia, anche se in modo sghembo, attraverso l’incontro fra due personaggi che fossero portatori di mondi inconciliabili, se non alla fine del mondo. E quando muore qualcuno, finisce sempre un mondo, anche
se piccolo non é mai insignificante. Significa tantissimo soprattutto per i parenti, e i narratori”. Se è vero che l’amicizia tra Alberto e Angelo
nasce dal non avere niente in comune, ne consegue che il loro distacco diventa ancora più profondo, e più faticosa é la possibile ricomposizione dei pezzi rimasti in piedi. Ben decisa a riportare un pezzo di Roma al centro di una vicenda (tra passato, presente, citazioni, suggestioni e ricordi), la regista gioca apertamente sul titolo per mettere la malattia clinica al fianco di quella esistenziale. Così il cuore rischia di
essere sottoposto a troppi sforzi, fisici e sentimentali. I due protagonisti sono seri e credibili, il copione indulge a qualche squilibrio di troppo, con poca compattezza tra la parte in ospedale, quella in città, quella al lago.
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Il Mattino - Alberto Castellano
L’espediente narrativo della malattia che in “Questione di cuore”
costringe a una convivenza forzata in un ospedale due persone e
genera un problematico incontro-scontro tra loro, riaccende nella
memoria le immagini di “Non è mai troppo tardi” con Jack
Nicholson e Morgan Freeman. Ma se in quella commedia amara i
due uomini molto distanti per condizione sociale sono ammalati
terminali e vivono all’insegna di un paradossale viaggio per soddisfare gli ultimi desideri, nel film di Francesca Archibugi i due
protagonisti non sono condannati e si possono permettere di fare
progetti, anche se il rischio li spinge a meditare e a trasformare
quell’occasionale incontro in un’esperienza umana profonda.
Ricoverati di notte per un infarto nello stesso ospedale, Alberto e
Angelo si conoscono in sala di rianimazione e da quel momento
condividono tutta la gamma di sentimenti e sensazioni che si alternano in quelle drammatiche situazioni. Sono due uomini diversi
per cultura, storia, educazione, status sociale e aspettative: Alberto
è uno sceneggiatore di successo che ha una compagna attrice e
un’elegante casa sul Lungotevere; Angelo è un sottoproletario, un
carrozziere di borgata che ha una moglie e due bambini e vive in
un modesto appartamento. I due stringono un’amicizia repentina e
occasionale, ma cementata dallo stato d’animo di chi è sopravvissuto al pericolo e vuole esorcizzare la paura della morte. Le loro
vite non saranno più le stesse, impareranno molto l’uno dall’altro
e una volta dimessi dall’ospedale scopriranno di essere diventati
reciprocamente indispensabili al punto da formare un’unica famiglia (Alberto si trasferisce a casa di Angelo). Sulla base del romanzo d’esordio dello sceneggiatore Umberto Contarello, l’autrice
romana di “Mignon è partita” e “Il grande cocomero” che predilige di solito gli adolescenti e i problemi di crescita, racconta con il
suo solito stile di regia misurata e controllata e l’abituale pregnanza psicologica una delle sue storie quotidiane dove l’incontro
casuale tra due persone può cambiare il corso della loro esistenza.
Antonio Albanese e Kim Rossi Stuart (rispettivamente Alberto e
Angelo) formano un’inedita strana coppia che trova con armonia
e affiatamento un difficile incisivo punto d’incontro tra caratteristiche espressive molto diverse e distilla una miscela di ironia e
dolore, dramma e disincanto per comunicare la condizione di due
uomini uniti dalla solitudine e dalla disperazione.
cuore; Kim Rossi Stuart ha recuperato quasi nulla, poco a poco si
fa sempre più fragile, grigio in faccia e sfinito, muore ogni giorno
un poco. Questo gli suggerisce un progetto che coinvolge l’amico,
nel futuro in cui lui non ci sarà più. La bravura degli attori, specialmente di Kim Rossi Stuart, è grande; la drammaticità della
vicenda pure, e anche la presenza di Micaela Ramazzotti nella
parte della moglie di Kim è essenziale per espressività e femminilità profonde. La finezza dell’attrice nel vedere spegnersi il marito
e fingere di nulla è simile alla eloquenza di Rossi Stuart con le sue
gambe deboli, il colorito terreo, i piccoli gesti affaticati, i sorrisi
forzati della paura. Albanese, bravissimo sempre, sembra una
molla caricata di vitalità: chiede e chiede al nuovo amico divenuto ormai indispensabile, vuole lavorare con lui e sperimentare i
vantaggi della fatica fisica, si mescola alla famiglia di lui, pare un
cinghiale che frughi alla ricerca di nutrimento. Bisogna essere davvero bravi per ottenere qualcosa di simile, e lo è Francesca
Archibugi, da sempre architetto dei sentimenti, investigatrice delicata e forte del cuore della gente, eccellente direttrice d’attori e
analista d’Italia.
Film TV - Aldo Fittante
Due pensieri, due mondi. Antonio Albanese e Kim Rossi Stuart
Alberto, sceneggiatore ‘costretto’ a vivere nel centro di Roma per
lavoro. E Angelo, carrozziere con la fissa delle auto d’epoca, abitante con l’adorata moglie (Micaela Ramazzotti) e i figli in una di
quelle periferie della Capitale che non sai bene se inesorabilmente degradate o ridimensionate in piccoli angoli di un paradiso
urbano dove la gente si conosce e ancora si saluta. A unire i destini lontani e antitetici dei due ci si mette il cuore, sede dell’organo
muscolare cavo a forma di cono situato nella parte mediana della
cavità toracica, con l’apice rivolto a sinistra, centro motore dell’apparato circolatorio, ma sede anche (soprattutto?) degli affetti,
dei sentimenti e delle emozioni, che nella stessa notte comincia a
fare i capricci, a non funzionare più come dovrebbe. Notte inquieta, vissuta da Alberto come molte altre, a guardare un pazzo che
spara agli uccelli. E da Angelo come un’attesa di un qualcosa che
ha sempre saputo un giorno accadesse. Si ritrovano nell’unità
coronarica uno a fianco all’altro, spaventati subito terrorizzati
dopo, quando una vecchia muore, a pochi passi dai loro letti.
Nasce un’amicizia speciale, una complicità insperata. E una
nuova vita, un nuovo mondo riposizionato sulle piccole grandi
cose di una quotidianità dimenticata. ‘Professione?’.
‘Sceneggiatore’. ‘Libero professionista?’. ‘Ma che libero, scrivo
per altri’. Le curiosità di un uomo che ha ereditato dal padre caratteristiche genetiche che non promettono niente di buono entrano
dolcemente nella sfera confusa e ironica di un altro uomo che
inventa storie, di un cinema italiano in attesa di una rinnovata speranza (esilarante la scena nell’ospedale con Verdone, Sorrentino,
Luchetti e Virzì - nei panni di se stessi - in visita al loro amico: la
storia è tratta dall’omonimo romanzo di Umberto Contarello,
autore di numerosi copioni, tra i quali “La stella che non c’è”,
“Vesna va veloce”…). Alla fine qualcuno potrebbe avere il
sospetto si sia trattato di un sogno, di una delle tante storie di
Alberto. Ma non importa molto. Importa, invece, che Francesca
Archibugi abbia finalmente realizzato il suo capolavoro. Un film
quasi perfetto, interpretato benissimo, e abitato da quell’altra cosa
che custodisce il cuore. L’amore.
La Stampa - Lietta Tornabuoni
Una bellissima storia di amicizia maschile e bravissimi attori stanno al centro di “Questione di cuore”, diretto da Francesca
Archibugi, tratto dal romanzo di Umberto Contarello (Feltrinelli).
Due uomini giovani si conoscono per caso nel reparto rianimazione dell’ospedale romano in cui sono tutti e due ricoverati per aver
subito un infarto. Non si somigliano, hanno nulla in comune. Kim
Rossi Stuart è uno degli infiniti italiani senza più identità sociale:
ex sottoproletario, ex carrozziere di ex borgata divenuto piccolo
imprenditore d’un quartiere alla moda. Quel che non ha perduto è
l’identità umana: un uomo bello, calmo, innamorato della moglie,
buon padre di due figli, generoso, scherzoso. L’altro, Antonio
Albanese, è uno sceneggiatore solitario, rumoroso, freddo sentimentalmente. Diventano amici senza ragione, al modo degli adolescenti: complicità, risate, divertimento, confidenza. Dimessi dall’ospedale, hanno convalescenze opposte: Albanese, di nuovo solido e resistente, ha recuperato quasi completamente la forza del
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STATE OF PLAY di Kevin Macdonald
18-19 febbraio 2010
Kevin Macdonald (Glasgow, 28 ottobre 1967). Ha ricevuto fama internazionale grazie al pluripremiato L’ultimo re di Scozia (2006).
Iniziò la sua carriera girando un documentario sul nonno, Emeric Pressburger, The Life and Death of a Screenwriter (1994), che trasformò nel documentario The Making of an Englishman, prodotto dal fratello Abdrew nel 1995. Nel 1999 si dedicò al Massacro di
Monaco delle Olimpiadi del 1972, realizzando One Day in September, vincitore del Premio Oscar al miglior documentario del 2000.
Grazie a La morte sospesa (2003), storia della conquista di una vetta della Ande da parte di due alpinisti nel 1985, Macdonald si aggiudicò il premio BAFTA “Alexander Korda” per il miglior film britannico del 2004. Nel 2006, il protagonista del suo L’ultimo re di Scozia,
Forest Whitaker, ha ricevuto il premio Oscar al miglior attore, il BAFTA al miglior attore protagonista e il Golden Globe per il miglior
attore in un film drammatico.
Interpreti: Russell Crowe (Cal McAffrey), Ben Affleck (Stephen Collins), Rachel McAdams (Della Frye), Helen Mirren (Cameron
Lynne), Robin Wright Penn (Anne Collins), Jason Bateman (Dominic Foy), Jeff Daniels (George Fergus), Rob Benedict (Milt), Harry
J. Lennix (Donald Bell), Josh Mostel (Pete), Michael Weston (Hank), Barry Shabaka Henley (Gene Stavitz), Viola Davis (Dott.Ssa
Judith Franklin), Sarah Lord (Mandi), Stephen Park (Chris Kawai), Gregg Binkley (Ferris), Katy Mixon (Ronda Silver), Maria Thayer
(Sonia Baker), Bonita Friedericy (Mz. Buzzkill), Wendy Makkena (Greer Thornton)
Genere: Drammatico/Thriller
Origine: Stati Uniti d’America
Soggetto: Paul Abbott (miniserie)
Sceneggiatura: Matthew Michael Carnahan, Tony Gilroy, Billy Ray
Fotografia: Rodrigo Prieto
Musica: Alex Heffes
Montaggio: Justine Wright
Durata: 125’
Produzione: Andell Entertainment, Universal Pictures, Working Title Films
Distribuzione: Universal
SOGGETTO: Mentre é impegnato nel suo ruolo di presidente della Commissione incaricata di approvare le spese della Difesa, il deputato Collins riceve la notizia che la sua prima collaboratrice é stata trovata uccisa nella metropolitana. Del fatto comincia ad occuparsi Cal McCaffrey, giornalista del Washington Globe, amico di college di Collins e già innamorato della moglie di lui Anne. Il primo
dato che emerge (Colins e la ragazza erano amanti, anzi lei era incinta e lui non lo sapeva) apre la strada ad una serie di scoperte che,
dopo percorsi tortuosi, conducono ad accertare pesanti responsabilità di Collins stesso nella gestione del proprio ruolo: il delitto della
ragazza e altri che ne sono seguiti sono stati determinati dai suoi inconsulti comportamenti. Cal ora può scrivere l’articolo e farlo uscire in prima pagina.
VALUTAZIONE: l’origine c’è una serie televisiva della BBC. Il passaggio al copione cinematografico avviene all’interno di quel
macrogenere che mette insieme thriller, dramma, denuncia, ispirazione civile. Collocata in contesti estremamente realistici, la storia di
finzione acquista accenti di forte concretezza, stretta intorno a dilemmi attuali e stringenti: verità e bugia, innanzi tutto, il ruolo della
politica tra servizio e corruzione, lo stato di salute del giornalismo tra ricerca di scoop fine e se stesso e voglia di scoprire il giusto; la
famiglia da dividere tra pubblico e privato. Argomenti forti che la regia, secondo tradizione, diluisce su ritmi narrativi, incalzanti, robusti, vigorosi. Senza perdere un colpo. Riflessione e azioni procedono così di pari passo.
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La Stampa - Alessandra Levantesi
Dietro a “State of Play”, basato su una miniserie in sei puntate che
la Bbc mandò in onda nel 2003 con grande successo, c’è un copione firmato da un trio di assi, ovvero Matthew Michael Carnaham
(“Leoni per agnelli”), Tony Gilroy (“Michael Clayton”) Billy Ray
(“Breach - L’infiltrato”). Per cui tremano i polsi a scrivere che il
problema in questo thriller di taglio classico ad alta tenuta di tensione attiene proprio alla sceneggiatura. La quale è impeccabile
fino al finale, che contiene una sorpresa, questo sì, ma è la sorpresa (narrativamente) sbagliata. Per tutto il film abbiamo seguito le
imprese di Russell Crowe, cronista d’assalto del Washington
Globe, che aiutando a uscire dai guai il suo amico Ben Affleck,
politico emergente, ha fiutato un intrallazzo fra il ministero della
Difesa e una società che offre servizi bellici, tipo eserciti di mercenari e altro. Ci sarebbe già di che appassionarsi - in Usa il tema
della privatizzazione della sicurezza è al centro del dibattito - ma
il film provvede a mettere sul piatto un secondo argomento altrettanto attuale, quello della competizione fra carta stampata e giornalismo on line, affiancando a Crowe la graziosa Rachel
McAdams, blogger dotata di poca esperienza e molta ambizione.
Lui brusco, sdrucito, arruffato, instancabile, lei per benino, un tantino saccente ma piena di determinazione formano una coppia
riuscita e convincente. E viene dato il giusto rilievo al fatto che il
contrasto non riguarda tanto il mezzo, quanto la concezione. Alla
giovane collega che prende le notizie da Internet ed è pronta a tuffarsi sul gossip scandalistico senza vagliare la fonte, Russell insegna a saper attendere, a sporcarsi le mani sul campo, a cercare la
verità sotto la superficie della falsa informazione (insomma quello che nessuno fa più). Nel personaggio su misura per lui Crowe è
straordinario, sembra un Marlowe della stampa, ha quella stessa
connotazione di antieroe cinico e romantico. Il resto del cast funziona a meraviglia, da Affleck alla moglie tradita (nonché ex
amante di Russell) Robin Wright Penn, dal direttore Helen Mirren
alla Mc Adams; e la regia di Kevin MacDonald è sempre vigile.
Peccato quel finale che porta fuori pista.
ampiamente ribadito dalla casistica costituzionale a partire dal
primo emendamento del 1791 che, tutelando esplicitamente la
libertà di stampa oltre quella della fede e di parola, è un po’ l’atto di nascita del giornalismo americano. La stampa ha anche un
patrono nel pantheon dei ‘padri fondatori’: Benjamin Franklin,
editore nel settecento della Pennsylvania Gazzette. Cal
MacAffrey, il tignoso ma integerrimo protagonista del film di
Macdonald discende dalla categoria proletaria di reporter che nei
noir di Hollywood e nelle foto di Weegee pattugliano i commissariati e i corridoi del municipio in cerca di utili soffiate. Una
figura virtuosa all’opposto della casta cortigiana portavoce della
politica e dei potenti. Un modello ideale e idealizzato che nell’era radiofonica ha il suo campione in Edward Murrow e in quella
tv trova il suo massimo momento nella copertura della guerra in
Vietnam. La realtà è naturalmente un po’ più complessa ai tempi
dei corrispondenti embedded e dei media gestiti da portavoce e
amministratori del consenso, ciò che rimane del giornalismo
‘vero’ in teoria si trova asserragliato nelle redazioni dei grandi
giornali, tutelato da direttori all’antica che insistono sulle doppie
fonti e sulle regole deontologiche insegnate nelle università.
Un’isola minacciata però dalla marea montante delle notizie
‘spazzatura’ e così MacAffrey 30 anni dopo Watergate si ritrova
a navigare una geografia mediatica irriconoscibile. Il suo giornale è in piena crisi acquistato di fresco da una grande holding che
esige utili industriali ed è pronta a tutto per ottenerli. Soprattutto
non ha la pazienza necessaria per assemblare coerentemente e
indipendentemente i fatti necessari alle vere denunce e punta
molto invece sui blog dell’edizione on-line, il cosiddetto twitteraggio delle notizie, la presenza ellittica ma istantanea in rete. È
questo a intralciare, più ancora dei depistaggi e le reticenze ufficiali, il lavoro di MacAffrey. Il crepuscolo dei quotidiani dà amarezza a questa storia di giornalismo riflettendo fedelmente l’attuale situazione nordamericana.
Il Giornale di Brescia - Marco Bertoldi
Il reporter vecchio stampo Russel Crowe è incaricato dal direttore
Helen Mirren di seguire il caso di un killer che ha ucciso uno scippatore drogato e sparato a un ciclista di passaggio mandandolo in
coma. Il senatore astro nascente Ben Affleck, presidente di una
commissione che indaga sui finanziamenti concessi a una società
che è sul punto di arrivare a controllare la ‘security’ degli Usa,
piange davanti alle telecamere nel dare la notizia del suicidio nella
metropolitana della sua assistente, facendo così capire che era la
sua amante. Per sfuggire all’assedio dei mass media, Affleck cerca
riparo da Crowe, amico dai tempi dell’università ed ex-amante
dalla moglie, che intuisce che suicidio non sia e i cui ammanicamenti lo portano a scoprire un collegamento tra le varie morti, su
cui prende a indagare con Rachel McAdams, giovane collega incaricata del web del ‘Globe’. Ecco “The state of play” del britannico passato a Hollywood Kevin MacDonald, thriller cupo e notturno su stampa e politica, ricco di tensione e di colpi di scena, dal
taglio classico senza però essere vecchio. Che porta a riflettere su:
politica di sicurezza Usa; stampa messa in crisi da tv e web, ma
anche da proprietari che badano al profitto e vogliono lo scandalo
più che la verità; giornalisti ‘all’antica’ che si fidano di istinto e
fiuto; il marcio che si vede ma anche che si cela nelle stanze di
Washington.Ispirato a un serial tv della Bbc e dal finale in positivo, il film affascina, sconcerta e convince.
Il Manifesto - Luca Celada
Russell Crowe è un giornalista, vero mastino nella redazione del
Washington Globe (immaginario omologo del Post), veterano di
mille inchieste che si muove in una rete di utili amicizie e preziose fonti: il commissario di polizia, la patologa dell’obitorio, il funzionario del ministero. Un cronista all’antica che sa portare a casa
la storia, fatti e fonti dietro la verità. In apertura indaga su un
evento di apparente ordinaria cronaca nera, un omicidio in un
quartiere malfamato; una matassa che inaspettatamente si infittisce fino a coinvolgere un politico al di sopra di ogni sospetto (Ben
Affleck), un giovane astro nascente del congresso che presiede
una commissione di inchiesta sull’outsourcing del Pentagono
verso una società di mercenari. Adattata dall’omonima fiction
della Bbc e diretta da Kevin Macdonald (“L’ultimo re di Scozia”)
è un thriller giornalistico che aggiorna “Tutti gli Uomini del
Presidente”, il film di Alan Pakula sull’inchiesta di Paul
Woodward e Carl Bernstein per riflettere fra le righe sulla natura
del giornalismo. La vicenda Watergate viene insegnata nelle
facoltà di mezza America come il momento più fulgido del giornalismo investigativo, esempio della funzione vera della stampa
nell’accezione anglosassone di ‘quarto potere’ che limita il potere politico esponendone gli ingranaggi al pubblico. Un concetto
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ANGELI E DEMONI di Ron Howard
25-26 febbraio 2010
Ronald William “Ron” Howard (Duncan, 1º marzo 1954). Suo fratello minore e sua madre Jean F. Speegle, sono anch’essi attori, così
come sua figlia Bryce Dallas Howard. Nel 1959, all’età di soli 5 anni, recita ne La giostra, episodio della famosa serie Ai confini della
realtà. Guadagna poi maggiore attenzione grazie al ruolo di Winthrop Paroo. Nel 1963 compare in Una fidanzata per papà. Nel frattempo frequenta la USC School of Cinema-Television della University of Southern California, ma non si diploma. Nel 1974 diventa celebre
in tutto il mondo, quello di Richie Cunningham, telefilm Happy Days. Nel 1976 prende parte al film Il pistolero. Nel 1977, mentre è ancora una delle star di Happy Days, dirige il suo primo film Attenti a quella pazza Rolls Royce. Dopo aver lasciato il set di Happy Days nel
1980, dirige diversi film per la televisione. Il suo primo grande successo sul grande schermo arriva nel 1982 quando dirige la pellicola
Night Shift - Turno di notte, Da allora ha diretto numerosi film di successo, tra i quali Splash, una sirena a Manhattan (1984), Cocoon,
l’energia dell’universo (1985), Apollo 13 (1995) nominato a diversi premi Oscar) e A Beautiful Mind (2001), per il quale ha ricevuto
l’Oscar al miglior regista.Nel 2005 Howard dirige il film Cinderella Man al quale seguono Il codice da Vinci (2006) Frost/Nixon - Il duello (2008) e Angeli e demoni (2009).
Interpreti: Tom Hanks (Professor Robert Langdon), Ewan McGregor (Camerlengo Patrick McKenna), Ayelet Zurer (Dott.ssa Vittoria Vetra),
Stellan Skarsgård (Comandante Richter), Pierfrancesco Favino (Ispettore Ernesto Olivetti), Nikolaj Lie Kaas (Sig. Gray), Armin MuellerStahl (Cardinale Strauss), Thure Lindhardt (Chartrand), David Pasquesi (Claudio Vincenzi), Cosimo Fusco (Padre Simeon),
Genere: Thriller
Origine: Stati Uniti d’America
Soggetto: Dan Brown (romanzo)
Sceneggiatura: Akiva Goldsman, David Koepp
Fotografia: Salvatore Totino
Musica: Hans Zimmer
Montaggio: Mike Hill, Daniel P. Hanley
Durata: 138’
Produzione: Brian Grazer, Ron Howard e John Calley per Columbia Pictures, Imagine Entertainment, Sony Pictures Entertainment
Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia
SOGGETTO: Il Pontefice in carica è appena morto. Al momento di ritirarsi in conclave per l’elezione del nuovo Papa, i cardinali vengono avvertiti che quattro di loro (i ‘preferiti’, quelli con maggiori possibilità di successo) sono stati rapiti con la minaccia di ucciderli uno ogni
ora e con una bomba che, dopo l’ultimo, porterà la distruzione totale. Chiamato in Vaticano per rintracciare i luoghi dove possono essere
stati condotti i prelati, il prof. Langdon esprime il parere che dietro queste azioni ci sia la mano degli ‘Illuminati’ un’antica confraternita
segreta dedita fin dal 1700 a contrastare l’attività della Chiesa, soprattutto sul terreno del rapporto tra scienza e fede. Insieme a Langdon, ci
sono la fisica italiana Vetra, il comandante Richter della Gendarmeria e l’ispettore Olivetti. Grandi corse a perdifiato in giro per Roma caratterizzano la ricerca, prima della conclusione che vede il nuovo Pontefice affacciarsi dalla loggia di San Pietro.
VALUTAZIONE: La trasposizione cinematografica del romanzo omonimo di Dan Brown condivide con il precedente “Codice da Vinci”
la presenza di Tom Hanks che interpreta il personaggio principale prof. Langdon. Film di genere, si tratta di un thriller fantapolitico che asseconda tutti gli stilemi narrativi del genere di appartenenza. Intrighi e giochi di potere ambientati in una improbabile cornice vaticana - all’indomani della morte del pontefice in carica - sono gli elementi tipici della pubblicistica americana che, orfana di strumenti concettuali adeguati, può solo affidare alla fiction il complesso e tutt’altro che unilaterale rapporto tra fede e scienza. Anche se tutto depone per la finzione, é da segnalare lo sconfinamento, per chi non ha competenze storiografiche anche minime, verso la presunzione di rappresentare un
mondo, quello della Chiesa, che nella realtà é decisamente distante.
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Il Tempo - Gian Luigi Rondi
Una bomba minaccia il mondo. Uno studioso viene chiamato
per evitare la catastrofe. Il tempo però stringe, se ne avvertono
già vari segnali. Naturalmente c’è il cattivo, anzi un cattivissimo, e ce n’è un altro, che si finge buono. Lieto fine. È lo schema cui, un’infinità di volte, si affidano da anni quasi tutti i film
americani di fantascienza nelle cifre del thriller. Lo schema che
segue nel film di oggi anche Dan Brown mettendo al centro, nei
panni dello studioso, quello stesso Robert Langdon che scioglieva enigmi (o pseudo tali) nell’altro suo romanzo, l’inverosimile ‘Codice da Vinci’. Poiché però si finge esperto in cose di
chiesa la minaccia, anziché farla pesare sul mondo, la circoscrive al Vaticano e Langdon, pur non bene accetto in quegli
ambienti dati i suoi trascorsi, lo fa chiamare addirittura mentre,
morto il Papa, quattro cardinali tra i più papabili, in attesa del
Conclave, sono stati rapiti da una setta che mira a distruggere la
Chiesa e che, come anticipo alla bomba, comincia a far fuori
uno dopo l’altro proprio quei cardinali.
Aiuta Langdon nella sua indagine un’altra espertissima studiosa
(l’elemento femminile d’obbligo) e in parte lo aiutano e in parte
lo contrastano un misterioso Camerlengo, curiosamente giovanissimo e senza porpora, vari prelati, Guardie Svizzere,
Gendarmi e alcuni nostri Carabinieri. Coinvolti in un gioco che
sembra ricopiato da una caccia al tesoro fatta progredire da citazioni storiche, architettoniche, pittoriche, ad uso probabilmente
di un certo turismo americano. Anche questa volta il regista è
Ron Howard che, preso tra la fantascienza e, appunto, il thriller,
si è mosso di continuo all’insegna dell’agitazione e del frastuono e che, non avendo potuto valersi di ambientazioni autentiche
- giustamente negate ha rifatto in studio a Hollywood San Pietro
con le sue folle, la Sistina, Castel Sant’Angelo con un risibile
Passetto di Borgo, oltre a dipinti, fontane e sculture varie egualmente risibili nonostante il digitale. Tutto mal congegnato, confuso, psicologicamente contraddittorio, pasticciato.
Restano gli attori, Tom Hanks come Langdon ha almeno il merito, questa volta, di aver eliminato l’incongruo taglio di capelli
che aveva nell’altro film. Il Camerlengo, faccia d’angelo ma
apparentato con i demoni del titolo, è lo scozzese Ewan
McGregor, un cardinale anziano è il tedesco Armin MuellerStahl, il Colonnello della Guardia Svizzera è lo svedese Stellan
Skarsgàrd, a capo dei Gendarmi c’è il nostro Pierfrancesco
Favino. Tutti con ruoli e funzioni inventati di sana pianta. Perché
Dan Brown crede di saperne di più dei protocolli vaticani.
passare dalla morte del papa, con tutti i suggestivi rituali di contorno, al furto di una boccetta di antimateria prodotta dall’acceleratore di particelle di Ginevra, per capire che Ron Howard è
pronto a tutto. Basta considerare la Chiesa “solo” una supersocietà segreta e nulla è troppo complesso o delicato per non
diventare spettacolo. Del resto, se il poliziotto Pierfrancesco
Favino sfoggia una bella fede al dito (italiani brava gente), Tom
Hanks porta un orologio con Topolino. Altro che Disneyland
insomma: il Vaticano e le chiese di Roma sono il più bel parco
a tema mai inventato, il più inaccessibile, il più orrorifico, oltre
che quello firmato dagli artisti migliori. Vuoi mettere Bernini (e
Michelangelo, e Raffaello, e il Pantheon, e i costumi dei cardinali e delle guardie svizzere...) con i pupazzi di Walt Disney?
Anche in materia di nefandezze e torture però la Chiesa ha il suo
bel copyright. Dunque via con sette segrete, porporati rapiti e
trucidati ai quattro punti cardinali di Roma, occhi strappati (a
Ginevra, molto high tech) o mangiati dai topi (a Roma, manco
fosse Calcutta). E poi petti marchiati a fuoco, colpevoli che si
danno alle fiamme, innocenti inguaiati in latino, ordini gridati in
schweiz deutsch, ordigni devastanti portati nella tomba di San
Pietro, esplosioni che squarciano il cielo sopra il Vaticano in un
tripudio di colori che fonde Paradiso e Inferno in una megacupola degna del più delirante pittore manierista. Dev’essere il
contrappasso, per non dire la giusta punizione, inflitta alla
Chiesa per aver tollerato senza tanti anatemi l’infame Passion di
Mel Gibson. Ma è anche un’antologia di kitsch catto-hollywodiano da lasciare a bocca aperta. Per lo stupore ma, ammettiamolo, non senza un certo piacere. Come tutto il junk food, difatti, anche Dan Brown al cinema crea dipendenza. E bisogna essere davvero cinici per non divertirsi a vedere la sensuale attrice
israeliana Ayelet Zurer, qui severa scienziata, correre spaesata
fra tutte quelle tonache. Mentre il Camerlengo Ewan McGregor
rivaleggia con altri preti belli della storia del cinema come
Gregory Peck e Montgomery Clift.
Dimenticavamo: la storia. I cattivi approfittano della morte del
Papa per seminare il terrore tra i fedeli e il panico fra i porporati chiamati in conclave. Movente: l’invidia verso i nuovi apprendisti stregoni (“Se la scienza si arroga il potere della creazione,
alla Chiesa cosa resta?”). I buoni, ci credereste?, vincono!
La Repubblica - Paolo D’Agostini
Riecco la squadra del Codice da Vinci: Brown, Howard, Hanks.
L’ espertone professor Langdon è convocato a Roma malgrado
la sua indipendenza di pensiero sulla storia del cattolicesimo
non sia vista di buon occhio, perché in Vaticano si trovano in
guai serissimi. Soltanto il suo sapere può forse tirarli fuori. È
morto il papa e alla vigilia del conclave viene trafugata una clamorosa scoperta scientifica che potrebbe trasformarsi in ordigno
“fine di mondo”. Tra alleati e nemici - identificarli è il principale divertimento, in una vertiginosa corsa contro il tempo Langdon indica la pista giusta nella rinascita degli Illuminati,
antica setta che trasformò in sete di vendetta le persecuzioni
subite da una cattolicità oscurantista. Spottone per la Città
Eterna. A dispetto delle apparenze, un inno all’ eternità della
Chiesa cattolica, in virtù della sua capacità di rigenerarsi e
modernizzarsi.
Il messaggero – Fabio Ferzetti
Che sia quasi un film di fantascienza si capisce quando i protagonisti corrono dal Pantheon a Piazza del Popolo in meno di 4
minuti. E in auto per giunta!, roba che nemmeno in Star Trek.
Che sia anche un film contro la Chiesa, come hanno dichiarato
sia pur sorridendo autorevoli cattolici, è invece da vedere. Se
attribuire a un qualsiasi centro di potere politico torbidi segreti,
sanguinose macchinazioni e un gusto per l’occulto che moltiplica oscurità e impunità significa essere “contro” quel potere,
allora il 90% dei thriller sulla CIA sono propaganda antiamericana, cosa ardua da dimostrare. E poi qui la verosimiglianza va
a farsi benedire, è proprio il caso di dire, in 3 minuti netti. Basta
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TUTTA COLPA DI GIUDA di Davide Ferrario
4-5 marzo 2010
Davide Ferrario (Casalmaggiore, 26 giugno 1956) Prima di passare dietro la macchina da presa scrive su Cineforum, allestisce rassegne cinematografiche in varie città d’Italia e pubblica una monografia su Rainer Werner Fassbinder (Edizioni Il Castoro, 1984). Nel 1985
interpreta una parte nel film di John Sayles Matewan.Comincia la propria attività di regista nel 1987 con il cortometraggio Non date da
mangiare agli animali, e nel 1989 dirige il suo primo lungometraggio, La fine della notte. Per Daniele Segre scrive le sceneggiature di
Occhi che videro (1989) e Manila Paloma Blanca (1992). Nel 1991 dirige il documentario Lontano da Roma sulla Lega Nord, trasmesso dalla Rai, e nel 1995 produce e realizza assieme a Guido Chiesa il documentario Materiale resistente. Nel 2005 il suo lungometraggio Dopo mezzanotte (interamente realizzato in digitale all’interno del Museo Nazionale del Cinema di Torino) ottiene tre nomine al premio David di Donatello 2005.
Interpreti: Kasia Smutniak (Irena Mirkovic), Fabio Troiano (Libero Tarsitano), Gianluca Gobbi (Don Iridio), Luciana Littizzetto (Suor
Bonaria), Cristiano Godano (Cristiano)
Genere: Commedia
Origine: Italia
Soggetto: Davide Ferrario
Sceneggiatura: Davide Ferrario
Fotografia: Dante Cecchin
Musica: Fabio Barovero
Montaggio: Claudio Cormio
Durata: 102’
Produzione: Davide Ferrario per Rossofuoco, Film Commission Torino Piemonte
Distribuzione: Warner Bros. Italia
SOGGETTO: Irena, giovane regista di teatro sperimentale, accoglie il suggerimento di don Iridio, cappellano del carcere Le Vallette
di Torino, di preparare uno spettacolo incentrato sulla passione di Gesù. Al momento di assegnare i ruoli, nessun detenuto però vuole
impersonare Giuda, e così la regista, per superare la difficoltà, ha l’idea di cambiare il corso della vicenda, eliminando il processo, la
passione, la crocifissione, la resurrezione di Gesù. Questa soluzione però trova pochi consensi, non solo da parte di don Iridio ma anche
da parte dei detenuti. In un momento di stasi, la radio diffonde la notizia dell’approvazione dell’indulto da parte del Parlamento. Molte
celle restano aperte e vuote. Lo spettacolo non si fa più.
VALUTAZIONE:Accanto agli attori, lavorano nel film detenuti e personale autentici del carcere di Torino, sezione VI blocco A.
Ferrario dice che un lungo tempo è servito per costruire un rapporto di fiducia e che “non si tratta di un film sul carcere ma semmai
‘nel’ carcere. Ammesso che i film debbano essere per forza ‘su’ qualcosa, questo parla della religione”. Su questi presupposti si sviluppa un copione certamente originale, che esce dal realismo dell’ambiente, virando nel musical con canzoni e balli a ritmi rock, beat
e altro, e poi si apre a spazi di meditazione e di confronto, tra favola e cronaca quotidiana. Ridando vigore all’idea del teatro come
momento di socializzazione, il racconto offre sul tema ‘forte’ della Settimana Santa spunti di riflessione non trascurabili, senza pregiudizi né soluzioni già scritte.
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La Stampa - Lietta Tornabuoni
Nel carcere delle Vallette di Torino Davide Ferrario che lo conosce (vi lavora da tempo come docente volontario) ha realizzato un
film assolutamente originale, significativo e stilisticamente
ammirevole. Un po’ documentario: ma chi ha sempre pensato alla
prigione come a un inferno violento si stupirà di vedere un luogo
torpido tra l’ospedale e la caserma, senza urla né furore ma con
un’attesa perenne, infinita. Un po’ multimediale: alla recitazione
i detenuti uniscono canto e ballo ginnico. Un po’ filosofico: alla
messa in scena della Passione di Cristo che i carcerati vanno interpretando, nessuno vuol recitare la parte di Giuda, con una fermezza che fa pensare alla regista se la Passione davvero non
avrebbe potuto essere senza tradimento né Calvario di sangue né
morte sacrificale, il che desta subito la diffidenza del prete.
Luciana Littizzetto, nell’abito di una suor Bonaria tetra, prepotente e pratica, ha appena due o tre apparizioni; i detenuti sono
tutti adeguati e senza enfasi; la regista Kasia Smutniak è brava e
bella. L’esperimento molto interessante si segue come un racconto del mistero e insieme come un saggio antropologico o mistico.
simo di realismo con gli attori, che a parte un quartetto di professionisti sono interpreti improvvisati che recitano se stessi, viene
utilizzato per ottenere il massimo di finzione. Un procedimento
apparentemente paradossale, di grande effetto.
Il Corriere della Sera - Maurizio Porro
Signora mia, non ci sono più i Venerdì santo di una volta, quando
si sentiva Bach in radio, al cinema c’era al massimo ‘Bernadette’.
Oggi esce “Tutta colpa di Giuda”, girato da Davide Ferrario al
carcere Le Vallette a Torino (lo conosce bene per cause artistiche).
Apparentemente sembra un film irrispettoso ma invece è il contrario, perché l’autore, a parte gli attori ben scelti, si fida e s’affida ai detenuti rischiando di suo e della superstar della cine commissione, quella del Piemonte. Opera sorprendente, di straordinaria libertà visiva intellettuale, un ibrido di generi. Film carcerario,
ma anche musical alla ‘Jesus Christ’, storia di training teatrale
autogeno in cui una miscredente regista off (brava, tosta e bella
Kasia Smutniak) prova ad allestire coi carcerati attori, ed è vero,
una Passione (ecco la concomitanza) danzando perfino aerea sulla
Croce. Ma nessuno dei bravi ragazzi vuole il ruolo di Giuda, urge
un lieto fine per i testi sacri, senza tradimenti, processo e condanne, contro il cappellano timorato (Gianluca Gobbi). Ma il direttore della prigione (Fabio Troiano) alla fine appoggia, con una scorciatoia sentimentale. Ferrario ha lavorato sulle sue esperienze in
carcere, dove spesso ora il teatro ha il suo spazio (i progetti di
Volterra e della Pomodoro) e nel ribaltamento di prospettiva, religiosa, sociale e musicale, il film sembra ma non è improvvisato.
Trova una spontanea unicità paradossale, molto corporeo-visiva,
divertente e non drammatica, coi carcerati che passano da una
Emma Dante a una Pina Bausch. Nasce così un fatto speciale sul
set (l’indulto ha mutato l’intero cast) coi ragazzi dalla pena leggera che, aiutati dalla bella colonna sonora, diventano ballerini
rischiando parolacce by night improvvisando vita, rimorsi e dolori e trovando finalmente un’alternativa a se stessi. Così un film
pop ateo acquista una dimensione oltre ed altra per merito di un
gesto autentico di fiducia. Dulcis in fundo, una brava Littizzetto
‘gioca’ sorniona da suorina superiora inesorabile e molesta: ma
come farà a diventare antipatica?
La Repubblica - Roberto Nepoti - 17/06/2009
Ha appena inaugurato a Levanto il ‘Laura film festival’ l’ultimo
film di Ferrario, uno dei titoli italiani che nel corso della stagione hanno maggiormente intrigato lungo la linea di confine tra la
finzione e il documentarismo, territorio sperimentale di tanto
cinema di oggi. In questo caso, c’è di mezzo un autore che ha alle
spalle tanta esperienza di documentarista e ha girato il suo film
al termine di un lungo periodo di lavoro all’interno delle carceri:
e la vicenda riguarda un regista teatrale che va in un penitenziario torinese per realizzare uno spettacolo in compagnia dei detenuti, accetta la proposta del cappellano e si ritrova a preparare
uno strano musical sulla Passione. Ma siccome nessun carcerato
vuole interpretare Giuda, l’infame per eccellenza, la riflessione
sul Cristo prende una piega molto particolare e molto laica. Tutti
temi e situazioni serissime, raccontate però con leggerezza di
scrittura, lasciando spazio all’improvvisazione, mescolando attori professionisti e detenuti autentici senza una struttura opprimente. Con una bella scena musical, pure. E con la Littizzetto
che fa la suora.
Corriere della Sera Magazine - Claudio Carabba
Gli attori-carcerati si rifiutarono di vestire i panni dell’infame nell’inedito musical, ispirato alla Passione di Cristo .
Nell’ala più quieta del carcere di Torino, dove convivono piccoli
rapinatori ed ergastolani rassegnati, Il direttore vuole allestire una
recita. Una giovane artista arriva piena di idee ardite. Il prete della
prigione vuole la Passione di Cristo. Lei accetta ma trasforma la
sacra rappresentazione in un musical surreale.
Molti sono i problemi, a cominciare dalla scelta degli interpreti.
Nessuno vuole infilarsi nei panni di Giuda, il più famoso “infame” dell’umanità. Partendo da una sua esperienza di vita (insegna cinema in galera), Ferrario costruisce un dramma lucido e
accorato.
Peccato che ci infili dentro un inutile amore (fra la bella regista e
il direttore) e che sbagli qualche personaggio (la perfida suor
Littizzetto). Resta all’attivo la voglia di raccontare, senza indulgente retorica, un mondo a parte, triste e finale.
Rivista del Cinematografo - Franco Montini
Un film scritto con la cinepresa, dove i movimenti di macchina e
le immagini svolgono i compiti normalmente affidati al copione.
Sono l’immediatezza, l’autenticità, il coinvolgimento, i pregi
maggiori di un film dalla struttura corale, che colpisce perché fa
esplodere l’energia compressa di un gruppo di autentici detenuti
del carcere ‘Le Vallette’ di Torino. Ma non si pensi ad un documentario: “Tutta colpa di Giuda” è un curioso, rischioso e riuscitissimo esperimento fra commedia e musical, che racconta la
genesi di uno spettacolo teatrale, basato sulla passione di Gesù,
che una giovane regista, impersonata da Kasia Smutniak, il più
bel volto del cinema italiano di oggi, mette in scena all’interno del
carcere. Nonostante l’ambientazione, si parla più di religione, del
conflitto fra fede e ragione, piuttosto che di problemi carcerari, e
c’è perfino spazio per una imprevedibile storia d’amore fra la protagonista e il direttore del carcere. Insomma, per una volta, il mas-
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DUPLICITY di Tony Gilroy
11-12 marzo 2010
Anthony Joseph Gilroy (Manhattan, 11 settembre 1956). Nato a Manhattan, New York, è figlio del commediografo, regista, sceneggiatore e vincitore del premio Pulitzer Frank D. Gilroy, ha due fratelli John e Dan che lavorano entrambi nel mondo del cinema. Gilroy è un noto sceneggiatore di Hollywood, famoso per la sua collaborazione con il regista Taylor Hackford, ma soprattutto
è noto per aver sceneggiato la trilogia dedicata all’agente segreto Jason Bourne, inizia con The Bourne Identity e conclusasi con
The Bourne Ultimatum. Nel 2007 debutta alla regia con il thriller/legale Michael Clayton, che vede come protagonista George
Clooney.
Interpreti: Clive Owen (Ray Koval), Julia Roberts (Claire Stenwick), Tom Wilkinson (Howard Tully), Paul Giamatti (Dick Garsik),
Carrie Preston (Barbara Boffered), Thomas McCarthy (Jeff Bauer), Wayne Duvall (Ned Guston), Christopher Denham (Ronnie Partiz),
Kathleen Chalfant (Pam Frailes), Eliezer Meyer (Rabbino Elli), Rick Worthy (Dale), Robert Bizik (Tom Viola)
Genere: Thriller
Origine: Stati Uniti d’America
Soggetto: Tony Gilroy
Sceneggiatura: Tony Gilroy
Fotografia: Robert Elswit
Musica: James Newton Howard
Montaggio: John Gilroy
Durata: 129’
Produzione: Laura Bickford Productions, Universal Pictures
Distribuzione: Universal
SOGGETTO: Claire Stenwich, ex funzionaria della CIA, e Ray Koval, ex agente dei servizi segreti britannici, lavorano ora per due
potenti multinazionali nel settore dei cosmetici. Quando scoppia la rivalità per ottenere il brevetto di una formula segreta che assicurerà la ricrescita dei capelli, Claire e Ray entrano in conflitto. O forse non è così. Forse loro sono d’accordo, e lei é un’infiltrata nella
società opposta. Ma anche la formula segreta non è detto che sia autentica...
VALUTAZIONE:Si tratta di un thriller che Gilroy compone alla maniera ‘classica’, frammentando il racconto con frequenza tra passato e presente, spiazzando la logica degli avvenimenti, disseminando il tutto di sorprese più o meno riuscite. Di certo il copione coinvolge e disorienta, grazie a un ritmo incalzante e a una tenuta costante tra suspence e toni brillanti. E, come già per il precedente titolo di Gilroy (“Michael Clayton” con George Clooney), si può dire anche qui che forse la resa sarebbe stata meno valida, senza l’apporto di due ‘divi’ come Owen e la Roberts (e dei ‘comprimari’ Giamatti e Wilkinson). Un prodotto vecchio stile per ridare fiato alla
Hollywood di una volta.
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Il Giornale di Sicilia - Antonella Ely
Non è facile azzeccare l’ ‘opera seconda’, ma l’inglese Tony
GiIroy vi riesce perfettamente; e, dopo l’intrigante “Michael
Clayton”, dedicato all’arroganza delle multinazionali ecco il
vivace “Duplicity”, che riallaccia i nodi del capitalismo, invadente, spione e dalla ‘coscienza sporca’. Lei, Claire Sternwich,
lavora per i servizi segreti statunitensi; lui, Ray Koval, è una
spia britannica. I loro destini variamente si incrociano, fin quando Claire assume l’importante ruolo di addetta all’intelligence
per un gruppo industriale, e Ray presta la sua perizia al servizio
di un’azienda concorrente.
Gilroy guida con brio e professionalità due campioni della
nuova commedia ‘sofisticata’, che certamente non ha il carisma
di Howard Hanks o Billy Wilder; ma che gratifica lo spettatore,
intanto con la varietà della messinscena, e poi con la simpatia
dei due antagonisti, Julia Roberts e Clive Owen. Si aggiunga il
‘dietro le quinte’, affidato a due comprimari di elevato lignaggio, ossia Tom Wilkinson e Paul Giamatti, classici attori ‘per
tutte le stagioni’.
Claire e lavora per la Cia, lui è Ray spia inglese. Si incrociano
a Dubay ed è il colpo di fulmine: ma svegliandosi dopo un concretissimo sogno d’amore, Ray scopre di essere stato drogato e
derubato di certi piani segreti dell’aviazione egiziana. Seguono
anni in cui i due spioni decidono, ognuno per conto proprio, di
abbandonare il pubblico per il privato con la speranza di guadagni più ricchi. Sicché la donna diventa titolare del controspionaggio nell’azienda diretta da Tom Wilkinson e lui si mette
al servizio della ditta concorrente su cui regna Paul Giamatti. Il
controcanto dei bravi caratteristi incrementa e colorisce il
divertimento; e su questo punto, nulla da eccepire. Alla fine di
un farraginoso tira e molla, si delinea il colpo grosso: 35 milioni di dollari per i due marpioni Claire e Ray, pronti a cedere
finalmente in comune il segreto rubato di una nuova cura per la
calvizie. Saranno premiati? E saranno liberi di amarsi senza
trucchi, tradimenti e finzioni? Ne sono ancora capaci? Oltre al
Dubai provvedono sfondi svarianti Roma, New York, Londra,
Miami, Cleveland, Zurigo: e per lo spettatore è come se avesse
acquistato un biglietto aereo circolare che gli garantisce in due
ore il giro del mondo. Questa è anche la forza di un cinema
ricco, che ti offre sempre qualcosa da guardare a differenza dei
filmini dei Paesi poveri. Basta accontentarsi e non gridare troppo spesso al capolavoro.
Il Corriere della Sera - Tullio Kezich
I raccomandati non imperversano solo nell’omonimo show
televisivo di Carlo Conti, ma li incocciamo anche nella vita
reale. Sono figure immeritatamente vincenti che implicano
qualche curiosità sull’identificazione della controparte: i raccomandanti. In proposito qualcuno dovrebbe spiegarmi quali
santi ha in paradiso il britanno Tony Gilroy, regista notevole di
‘Michael Clayton’, ma certo non ancora un maestro, per ottenere ben 8 pagine di presentazione del suo nuovo film,
“Duplicity”, sullo schizzinoso e sofisticato New Yorker (che,
tanto per segnare una differenza, avendo fra i collaboratori
Woody Allen stronca regolarmente le sue commedie). Attesa
come un evento, la pellicola ha avuto negli Usa un’accoglienza critica alla grande, incluso un peana su Newsweek per il
ritorno di Julia Roberts dopo il parto. Se il film non è affatto
male e si vede volentieri, da qui a considerarlo un classico
istantaneo ce ne corre. Intanto per raccontare un intreccio da
‘sophisticated comedy’ mascherato da thriller impegna a tali
acrobazie fra il 2003 e i nostri giorni, avanti, indietro, due anni
prima eccetera, che la visione non è affatto riposante. Anzi
piuttosto confusa. Sono stilemi cari al cinema post-spottificato:
c’è il regista che muove freneticamente la macchina da presa,
c’è quello che spezzetta e intercala ogni scena, c’è l’ altro che
sconvolge la cronologia. È un modo, pare, per rendersi più interessanti. Ma John Ford non era forse interessante quando
affrontava le storie in maniera ordinata e le riprendeva con la
macchina sul cavalletto? E Hitchcock non veniva a capo dei più
tenebrosi misteri penetrandoli con impeccabile misura? E Cary
Grant e Katharine Hepburn non erano forse bravi a rimbalzarsi
le battute come palline da ping pong? È quello che cercano di
fare la Roberts e Clive Owen, però il duetto non è sostenuto da
una regia che saltabecca. Chissà quali sforzi avranno fatto,
poveretti; e che difficoltà a ritrovarsi ogni mattina sul set e
cominciare a chiedersi: ‘Ma qui quando siamo? Viene prima o
dopo la scena che abbiamo girato ieri? In questo momento ti
amo o ti odio?’. Impersonano due agenti segreti: lei si chiama
Il Mattino - Valerio Caprara
Ragioni per vedere “Duplicity”: 1) la (ex) numero 1 di
Hollywood, Julia Roberts, torna protagonista dopo essere diventata mamma di tre figli e dopo uno snervante periodo d’assenza
dai set; 2) il regista Tony Gilroy si è appena fatto valere con l’opera prima ‘Michael Clayton’; 3) la trama azzarda uno stuzzicante abbinamento tra spy-story e commedia sofisticata.
Ragioni per non vederlo: 1) il corpo della Roberts dà ormai
l’impressione d’essere disegnato con la squadra sullo schermo;
2) la parte thrilling comporta un rompicapo esasperante; 3) l’antagonista Clive Owen esagera con la sua smaccata imitazione di
James Bond... Il giochetto potrebbe prolungarsi perché, si sarà
capito, “Duplicity” coltiva solo ambizioni d’intrattenimento
correndo sul filo del gradimento individuale. Lui e Lei sono ex
funzionari dei servizi segreti (Roberts di quelli americani, Owen
di quelli britannici) che si riciclano al servizio di due corporation di cosmetici, dirette da incredibili boss interpretati alla
grande da caratteristi di classe come Paul Giamatti e Tom
Wilkinson. Succede che, al di là degli incidenti provocati da una
concorrenza davvero selvaggia, portata avanti senza farsi scrupolo di usare i trucchi più sporchi, il segreto più difficile da
occultare finisce con l’essere l’attrazione irresistibile che nasce
fra gli stessi protagonisti. Viaggiando da Dubai a Miami, da
Cleveland a Roma (tratteggiata con la solita mano pittoresca), è
in ballo niente di meno che... la formula che sconfiggerà la calvizie una volta per sempre. Gilroy insiste sino allo stremo sul
tema dello ‘sdoppiamento’ tra menzogna e sentimento, penalizzando a intervalli regolari il proprio ritmo allo champagne: non
è un caso, così, che la mano più felice la riveli nel rimodellare
sulla coppia le caratteristiche che furono della celebre serie giallo-rosa degli anni Trenta con William Powell e Myrna Loy protagonisti (‘L’uomo ombra’).
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LA CUSTODE DI MIA SORELLA
di Nick Cassavetes
18-19 marzo 2010
Nicholas David Rowland Cassavetes (New York, 21 maggio 1959). Figlio del regista di origini greche John Cassavetes e dell’attrice
Gena Rowlands, nato e cresciuto a New York, ha frequentato la Syracuse University, dopo aver rinunciato alla carriera da giocatore di
pallacanestro, causa un infortunio, si iscrive all’Accademia Americana di Arti Drammatiche.Inizia la carriera lavorando come attore in
diverse serie televisive, in ruoli cinematografici nei film Una moglie, Mrs. Parker e il circolo vizioso, Furia cieca e Face/Off - Due facce
di un assassino. Debutta come regista nel 1996, dirigendo la madre nel film Una donna molto speciale, l’anno successivo dirige She’s So
Lovely - Così carina, tratto da una sceneggiatura mai realizzata da suo padre, presentato in concorso al Festival di Cannes. Dopo aver
partecipato alla sceneggiatura di Blow di Ted Demme, dirige Denzel Washington in John Q.Nel 2005 dirige Le pagine della nostra vita,
presentato al Festival di Locarno, seguito da Alpha Dog del 2006. Nel 2007 ha collaborato al video musicale di Justin Timberlake What
Goes Around...Comes Around.
Interpreti: Abigail Breslin (Andromeda ‘Anna’ Fitzgerald), Cameron Diaz (Sara Fitzgerald), Alec Baldwin (Campbell Alexander),
Jason Patric (Brian Fitzgerald), Sofia Vassilieva (Kate Fitzgerald), Joan Cusack (Giudice De Salvo), Heather Wahlquist (Zia Kelly),
Thomas Dekker (Taylor Ambrose), Evan Ellingson (Jesse Fitzgerald), David Thornton (Dottor Chance), Emily Deschanel (Dott.ssa
Farquad)
Genere: Drammatico
Origine: Stati Uniti d’America
Soggetto: Jodi Picoult
Sceneggiatura: Nick Cassavetes, Jeremy Leven
Fotografia: Caleb Deschanel
Musica: Aaron Zigman
Montaggio: Jim Flynn, Alan Heim
Durata: 107’
Produzione: Curmudgeon Films, Gran Via Productions, Mark Johnson Productions
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia
SOGGETTO: All’età di due anni a Kate viene diagnosticata la leucemia. Sara e Brian, i genitori, aiutati da un medico a superare spinose questioni etiche, decidono di mettere al mondo un altro figlio, geneticamente compatibile con la piccola e destinato a salvarle la
vita. Nasce così Anna, che segue il proprio destino, fino a quando, a 11 anni, decide di rivolgersi ad un avvocato, intenzionata a non
obbedire più ai genitori e a non sottoporsi ad ulteriori interventi chirurgici e trasfusioni per la sorella. Alla fine anche i genitori riescono a capire i motivi della dolorosa azione intrapresa dalla loro figlioletta.
VALUTAZIONE: All’origine c’è un romanzo, e la derivazione si sente in modo forte e decisivo. Per quanto imperniato su temi forti,
tutt’altro che marginali o superficiali, il racconto stenta ad essere autentico e realistico. L’accumulo di situazioni disperate e di vite spezzate (oltre al nucleo familiare centrale, c’è l’avvocato epilettico, c’è la giudice che ha perso una figlia in un incidente...) getta lo svolgimento entro confini del melodramma. Portata al diapason, l’emotività diventa didascalismo, lo stile insiste, sottolinea, enfatizza.
Incombe un certo qual compiacimento della sofferenza. Per questi motivi il film, é da valutare come complesso, e certo problematico,
dal momento che i temi restano comunque pertinenti e di interesse.
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Film TV - Boris Sollazzo
Nick Cassavetes, basta la parola. Come il suo adorato Nicholas
Sparks fa con la scrittura, lui con le immagini sa entrarti dentro
stomaco e cuore e stritolarli. Ora il figlio di John e Gena Rowlands
l’ha tradito per Jodi Picoult, che con “La custode di mia sorella”
(ed. Tea) fa impallidire il suo predecessore. Qui abbiamo un’undicenne (Abigail Breslin) che chiede l’emancipazione medica dalla
famiglia, assumendo il bolso avvocato Alec Baldwin: è venuta al
mondo come serbatoio di sangue, tessuti e organi per la sorella
malata di tumore, vittima di un Mengele dal cuore d’oro e di una
madre (Cameron Diaz) pronta a tutto per salvare la primogenita.
Cassavetes come sempre esalta i suoi attori (dopo McAdams e
Gosling in “Le pagine della nostra vita”, Hirsch e persino
Timberlake in “Alphadog”, ecco una Diaz maiuscola in un ruolo
scomodo) e si scatena nel suo cinema emotivamente scorretto e
sovraccarico, fatto di sequenze e parole eccessive poggiate sul suo
‘solito’ equilibrio sopra le righe che lascia lo spettatore in lacrime
e scosso. Da un amore materno clinico e da un tema etico lancinante: lo scegliersi da soli il modo di vivere e, soprattutto, di morire. E ti costringe a una recensione chimica, più che critica.
durante una chemioterapia. Cassavetes non disdegna qualche
colpo. basso all’emotività dello spettatore e qualche cliché (come
quello del malato terminale che vuole andare al mare), ma rimane
abilmente in equilibrio tra le motivazioni e i sentimenti dei personaggi in gioco conducendo lo spettatore verso un finale doloroso
e sereno al tempo stesso. La morte di una persona cara non regala
a chi l’ha perduta le risposte ai grandi interrogativi della vita. Si
muore e basta, dice la piccola Anna, ma, in attesa di ritrovarsi nell’aldilà, il rapporto con la persona scomparsa continua. Ciò che
conta insomma non è che colui che amiamo ci abbia lasciato, ma
che sia esistito lasciando un segno profondo nella nostra esistenza.
Film Up – Ilaria Ferri
Nick Cassavetes propone, stavolta in veste sia di regista che di sceneggiatore, la trasposizione cinematografica dell’omonimo
romanzo di Jodi Picoult. Kate Fitzgerald (Sofia Vassilieva) ha
quindici anni e combatte da oltre dieci contro una rara forma di
leucemia. I genitori (Cameron Diaz e Jason Patric), al manifestarsi della malattia, decidono di avere un altro bambino manipolando
geneticamente il suo dna, affinché diventi un donatore compatibile per Kate. Arrivata agli undici anni, la piccola Anna (Abigail
Breslin) non vuole più sottoporsi a operazioni e continui prelievi
per aiutare la sorella, quindi decide di far causa ai genitori rivendicando i diritti sul proprio corpo. Il dibattito in aula ha inizio e il
giudice ascolta tutte le parti cercando di andare a fondo nella questione.Il film sembra essere dapprima incentrato su una tematica
prettamente etica: come possono dei genitori decidere di avere un
figlio solo perché sia donatore di organi per un altro? Ma questa
impostazione è abbandonata sin da subito: a Cassavetes non interessa riflettere sui risvolti etici dell’ingegneria genetica, sebbene
semini qui e lì qualche spunto di riflessione, vuole soprattutto
indagare le dinamiche che si innescano in una famiglia colpita
dalla malattia.Presente e passato si mescolano: una serie di flashback racconta il decorso della malattia di Kate, le avversità affrontate dai Fitzgerald, la determinazione di Sara (la mamma) nell’assistere la figlia. Il punto di vista non si focalizza su un solo personaggio, a turno le voci fuori campo dei protagonisti raccontano
come hanno vissuto la vicenda e i sentimenti provati, che non sono
solo di amore e totale abnegazione verso la ragazza.La regia
asciutta di Cassavetes si sofferma per lo più sui personaggi e sul
forte rapporto che li unisce, non indulge su artefatti sentimentalismi, riuscendo comunque a essere toccante. I componenti della
famiglia Fitzgerald sono in bilico tra il dovere e i loro sogni, tra le
necessità di Kate e il desiderio di ritagliarsi un proprio spazio nella
tragica quotidianità che li circonda, loro come pure l’avvocato di
Anna (un simpatico, sebbene imbolsito Alec Baldwin) e il giudice
Di Salvo (Joan Cusack) sono intensi, caratterizzati in maniera
approfondita e forse più vicini alla realtà rispetto a tanti altri visti
in film di questo tipo.In generale tutto il cast da una buona prova
di sé, su tutti spiccano la piccola Abigail Breslin, che già si è distinta in diverse importanti produzioni e sfoggia una recitazione naturale e convincente e Sofia Vassilieva. Anche Joan Cusack, eternamente relegata in ruoli secondari di commedie romantiche, in questo film offre un’ottima prova attoriale in una parte drammatica.
Cameron Diaz risulta meno credibile nel ruolo di “mamma coraggio”, ma forse l’occhio, abituato a vederla in scatenate commedie,
potrebbe essere influenzato dal pregiudizio…
Avvenire - Alessandra De Luca
Ci sono film (che ti prendono alla gola e non ti mollano più, neanche quanto torni alla luce del sole. Film capaci di puntare dritto al
cuore con temi che vanno al nocciolo delle grandi questioni
umane: la vita e la morte. Uno di questi è La custode di mia sorella di Nick Cassavetes, dramma morale tratto dal best seller di Jodi
Picoult ispirato a ‘una storia vera che molto ha fatto discutere. La
vicenda è infatti quella della piccola Anna (Abigail Breslin, già
candidata all’ Oscar per Little Miss Sunshine), undici anni, messa
al mondo dai genitori con un dna opportunamente modificato perché possa fornire «pezzi di ricambio» alla sorella maggiore Kate
(la brava e coraggiosa Sofia Wassilieva), malata di una rara forma
di leucemia. Sin dalla nascita Anna dona sangue, cellule staminali, midollo osseo sottoponendo il proprio corpo martoriato da aghi
e siringhe a dolorosi trattamenti ospedalieri. Quando le viene chiesto di donare un rene, operazione che cambierà per sempre la sua
vita, nel tentativo estremo di regalare ancora un po’ di tempo a
Kate, ormai condannata a morte, la sorellina si ribella e ricorre a
un celebre avvocato per far causa ai genitori e riavere i diritti sul
proprio corpo. Un gesto estremo dietro il quale si nasconde un
segreto che non vi sveleremo, ma che dà il via a una profonda
riflessione sulle contraddizioni dell’ingegneria genetica, sulla possibilità di guarire da una grave malattia, ma anche dalle profonde
ferite di una morte, grande tabù della società di oggi e anche del
grande schermo. Dispiace quindi che un film capace di raccontare
come la morte non sia una vergogna da evitare a tutti i costi, ma
parte della vita di ogni essere umano arrivi nelle sale il 4 settembre distribuito dalla Warner con un divieto ai minori di 14 anni,
una sorte che risparmia invece decine di film violenti e volgari giudicati invece adatti anche al pubblico dei più piccoli. Affidando il
racconto ai punti di vista dei diversi personaggi — la madre
Cameron Diaz, finalmente in un ruolo maturo, il padre Jason
Patrick e i tre figli della coppia — il film mette in scena con grande sensibilità i meccanismi di una famiglia minata da una sciagura ma decisa a combattere unita. Lacrime e risate si mescolano in
scene di vita quotidiana dove si può sorridere e innamorarsi anche
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TWO LOVERS di James Gray
8-9 aprile 2010
James Gray (New York, 1969) Cresciuto nel quartiere del Queens, a New York, studia alla School of Cinematic Arts della University of
Southern California.Esordisce nel 1994, a soli 25 anni, con il noir Little Odessa, per il quale grazie alla qualità della propria sceneggiatura riesce ad avere malgrado il budget ridotto un cast eccezionale per un’opera prima di un autore sconosciuto: Tim Roth, Vanessa
Redgrave, Maximilian Schell e Edward Furlong. Il film, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, vince il Leone
d’Argento e la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile e permette al giovane regista di guadagnarsi la fama di nuovo “wonder boy” del cinema americano ed essere paragonato addirittura a Martin Scorsese. Si devono attendere sei anni per vedere la sua opera
seconda, , The Yards. Il film presentato in concorso al Festival di Cannes, pur vantando un altro cast di assoluto rilievo e un budget decuplicato rispetto a Little Odessa, gravato da grandi aspettative, non riesce a ripetere l’exploit dell’esordio.Nel 2007 Gray realizza il suo
terzo film, I padroni della notte, di nuovo presentato in concorso a Cannes ed interpretato da Wahlberg e Phoenix, stavolta anche produttori del film.Con il successivo Two Lovers, nel 2008, cambia radicalmente genere, passando dal noir metropolitano dei suoi primi tre
lavori al dramma sentimentale, ispirato a Dostoevskij, ma sceglie ancora come protagonista Phoenix, ormai diventato una sorta di attore-feticcio.
Interpreti: Joaquin Phoenix (Leonard Kraditor), Gwyneth Paltrow (Michelle Rausch), Vinessa Shaw (Sandra Cohen), Isabella Rossellini
(Ruth Kraditor), Moni Moshonov (Reuben Kraditor), John Ortiz (José Cordero), Bob Ari (Michael Cohen), Julie Budd (Carol Cohen), Elias
Koteas (Ronald Blatte), Samantha Ivers (Stephanie), Jeanine Serralles (Dayna)
Genere: Drammatico
Origine: Stati Uniti d’America
Soggetto: Richard Menello, James Gray
Sceneggiatura: Richard Menello, James Gray
Fotografia: Joaquín Baca-Asay
Montaggio: John Axelrad
Durata: 110’
Produzione: 2929 Productions, Tempesta Films
Distribuzione: Bim
SOGGETTO: A New York Leonard potrebbe sposare Sandra, la ragazza gradita ai suoi genitori. Ma Leonard un giorno conosce Michelle,
la nuova vicina di casa, e se ne innamora perdutamente. La corteggia, pur sapendo che lei ha una storia con il suo principale sposato. Quando
Michelle capisce che quell’uomo non lascerà mai la moglie e che per lei non c’è futuro, scoppia in lacrime tra le braccia di Leonard. Gli
dice che andrà in California da un’amica, e lui non esita a proporle di partire insieme. Sembra tutto fatto, ma la mattina lei arriva per dire
che rinuncia: Ronald le appena annunciato di essesi liberato dal matrimonio solo per lei. Leonard si sente solo, ma torna a casa e trova
Sandra, che non ha saputo niente.
VALUTAZIONE: Gray cambia ancora registro (dopo “I padroni della notte”) ma ugualmente lascia un segno personale su una storia
d’amore che diventa ben presto un melò urbano forte e doloroso. La regia punta su una lucida vicinanza tra le persone e la fisicità di
New York, città affascinante e distante. Leonard e Michelle cercano sentimenti impossibili per reagire ad una situazione di squilibrio
personale (lui soffre di instabilità). Così il copione disegna, in un crescendo pertinente, il diagramma di lacerazioni affettive che diventano fratture psicologiche. Così il vero finale rivoluzionario é quello del ritorno all’inizio. Leonard trova in Sandra e nella famiglia quella possibilità di capire e di relazionarsi con gli altri. Stile robusto, attori in eccelente forma rendono giusto e per niente banale questo
percorso di guarigione e di maturazione.
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Il Sole 24Ore - Roberto Escobar
“Two Lovers”, il bel film di Gray racconta la malattia dell’anima
di Leonard, diviso tra amori e obblighi. Ma il finale è lieto? Come
se la vita gli scorresse di fianco: così vive Leonard Kraditor
(Joaquin Phoenix). Fin dalla prima sequenza del loro film, il quarantenne James Gray (al suo quarto lungometraggio) e il cosceneggiatore Ric Menello ce ne mostrano l’estraneità al mondo.
Ripreso di spalle, Leonard attraversa un ponte. All’improvviso,
lasciato cadere un sacchetto che trascina con sé, si precipita in
acqua. Tutto accade senza concitazione. La decisione di morire
appare tanto plausibile quanto la scelta eventuale di vivere ancora. Infatti, riportato in superficie, subito Leonard riprende il suo
cammino, quietamente disperato. Qual è la sofferenza nascosta
del protagonista di “Two Lovers”? Il padre Reuben (Moni
Moshonov) ne dà una spiegazione medica. Si tratta di sindrome
bipolare, dice su per giù alla moglie Ruth (Isabella Rossellini).
Insomma, Leonard soffre di depressione. Basta che prenda le sue
pillole, e tutto s’aggiusterà. D’altra parte, Reuben è un buon
padre. Come ogni buon padre, immagina per il figlio un futuro
tranquillo, magari nella piccola impresa di famiglia, una lavanderia a Brooklyn. Per lui immagina anche un matrimonio sensato,
forse addirittura felice, con la bella e dolce Sandra Cohen
(Vinessa Shaw). Il padre di Sandra potrebbe diventar presto suo
socio in affari. Dunque, tutto nella normalità, nel senso migliore
dell’espressione. Anche Ruth è una buona madre. Quando il figlio
si chiude in camera, lei si avvicina alla porta in silenzio, cercando di intuirne i movimenti e, chissà, forse anche le intenzioni. È
apprensiva come giusto ci si aspetta da una madre, vista la condizione di Leonard. Ma è anche capace di nascondere i propri timori, o almeno di contenerne gli effetti. Sembra che non abbia cause
esterne, sociologiche, la sofferenza di Leonard. O se ci sono, si
tratta di quelle stesse che valgono per la gran maggioranza degli
esseri umani: stare al mondo significa spesso accettare che nella
normalità, intesa nel senso migliore, si confondano e si perdano
desideri e sogni. Quando tutto questo chiede un prezzo troppo
alto, allora qualche pillola presa al momento giusto può rimettere
ogni cosa al suo posto. A quel punto, sembra facile e ovvio tornare al cammino interrotto.
Certo, nel passato recente di Leonard c’è una sofferenza specifica,una specifica sconfitta. Ossia, c’è un amore finito, e c’è un
matrimonio voluto e svanito. D’altra parte, quando ne parla, sembra che non tanto della causa della sua sofferenza si tratti, quanto
della ragione che egli stesso ne escogita, anche e soprattutto ai
suoi occhi. Eppure, il suo stare nel mondo da estraneo, l’impaccio con cui si muove nella vita, il peso che fa greve il suo corpo e che Phoenix rende splendidamente -, tutto questo eccede la
misura di quella sofferenza specifica, di quella specifica sconfitta. C’è qualcosa di più profondo, e di più assoluto, nella disperazione quieta che riempie di sé “Two Lovers”: qualcosa che somiglia al sospetto che la vita sia insensata, assurda, e che decidere di
morire valga quanto la volontà di restare in vita. Infatti, tra vivere e morire Leonard a lungo non sceglie. Questa sua scelta negata non conosce i toni urlati della tragedia, ma quelli dell’apatia e
dell’indifferenza. In fondo potrebbe prenderle, quelle pastiglie.
Potrebbe sposare Sandra, che lo ama. Potrebbe addirittura imparare ad amarla anche lui, nella sicurezza della piccola azienda
delle due famiglie. Oppure, potrebbe gettare via le pillole, lasciarsi alle spalle la vecchia stanza da ragazzo, fuggire lontano dal
futuro che il padre gli sta costruendo. Insomma, potrebbe sottrarsi alla normalità, e al suo vuoto di sogni e desideri. Ma per andare dove? E con chi?Un giorno, per caso, a lui pare d’aver trovato
la risposta all’una e all’altra domanda. È Michelle (Gwyneth
Paltrow) quella risposta. Gli basta vederla, e subito immagina
un’altra vita, un altro se stesso. Chi davvero sia, la sua bella vicina bionda, forse gli sfugge. Ma non se ne dà pensiero. Gli interessa molto di più quello che di lei fantastica. Non ne vede l’egoismo immediato, spontaneo. Non ne vede la debolezza pronta
a farsi padrona degli altri, e sempre certa della propria innocenza.
Ne vede invece la promessa di un altrove, di un tempo e di un
luogo finalmente colmi di senso. Si inganna, certo. E una volta
scoperto l’inganno, di nuovo si trova di fronte alla scelta tra morire e vivere. O se si preferisce, tra continuare a vedere il mondo
dall’esterno o decidere di immergersi del tutto nella normalità.
Qualcuno troverà che “Two Lovers” ha un finale per così dire
lieto. Qualcun altro lo troverà disperato, quietamente disperato.
Il Manifesto - Giulia D’Agnolo Vallan
È una New York etnica, arcaica, dalla grana grossa e dalle ombre
profonde quella che James Gray ama raccontare, una città di famiglie, di interni, di crepuscoli interminabili e notti ancora più lunghe. Tornando al quartiere dei suoi esordi (il film era ‘Little
Odessa’, del 1995), ovvero la comunità russa di Brighton Beach,
Gray passa dallo sfondo criminal poliziesco che ha caratterizzato i
suoi film precedenti a una storia d’amore, un doppio triangolo giocato nei meandri confortevolmente ammuffiti e retrò di un vecchio
condominio vicino al mare, dove Leonard (Joaquin Phoenix) torna
a vivere con i genitori (Isabella Rossellini e Moni Monoshov)
dopo essere stato abbandonato da una promessa sposa e aver tentato il suicidio buttandosi nelle gelide acque dell’Atlantico.
Michelle (Gwyneth Paltrow) è la misteriosa vicina che viene ad
abitare nello stabile, un’apparizione di un biondo accecante che
ogni mattina prende la sopraelevata per emigrare verso il pianeta
remoto e lussuoso di uno studio legale di Manhattan, dove lavora
e intrattiene una storia d’amore infelice con un uomo potente e
sposato (Elias Koteas). Amichevole, inavvicinabile, sprizzante
pericolo da tutte le parti e fragilmente bisognosa allo stesso tempo,
Michelle è l’antitesi dell’altra donna che appare improvvisamente
nelle vita di Leonard: Sandra (Vinessa Shaw), la dolce, disponibile e rassicurante figlia del socio d’affari di papà che sogna di mettere in comune le rispettive tintorie e dare un futuro comune ai due
‘ragazzi’. Più o meno ispirato alle ‘Notti Bianche’ di Dostoevski,
“Two Lovers” si muove quasi interamente in una dimensione di
sogno, astratta dal tempo reale, accentuando quella componente
anacronistica che fa del cinema di Gray un universo di non facile
collocazione. In realtà è proprio questo essere così ‘altro’ che
determina il fascino della sua ricerca, il suo localismo ostinato, le
discrezione nell’osservazione degli affetti, l’attenzione ai minimi
dettagli del microcosmo che racconta (Rossellini che, per assicurarsi che stia bene, spia il figlio dalla fessura sotto la porta...). Al
suo terzo lavoro con Gray ,Joaquin Phoenix è il personaggio centrale ma anche una vera e propria funzione dello sguardo (non a
caso, l’hobby di Leonard è la fotografia). Il suo contemplare le due
donne e intermittente intrecciarsi con loro, è contemplare la sua
vita futura, indecisa tra l’incognita dell’avventura romantica e
senza garanzie e il calore di un sentimento più discreto, ancorato
in una zona di conforto senza pericoli.
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21 IL MIO AMICO ERIC - LA FORZA DELLA PASSIONE
di Ken Loach
15-16 aprile 2010
Kenneth Loach (Nuneaton, 17 giugno 1936),figlio di operai, ha dedicato tutta la sua opera cinematografica alla descrizione delle condizioni di vita della classe operaia. Dopo un’infanzia caratterizzata da frequenti trasferimenti insieme alla famiglia a causa della guerra, da ragazzo prestò servizio militare nella Royal Air Force. Concluso il servizio militare, a 25 anni, si stabilì a Oxford per studiare legge
al St. Peter’s College dell’Università di Oxford. Qui entrò in contatto con il gruppo di teatro sperimentale dell’università, iniziò a recitare e ne divenne presidente.Dopo l’università, recitò e diresse spettacoli teatrali prevalentemente presso Birmingham. Dopo avere iniziato la propria carriera nella televisione britannica, Ken Loach realizza il suo primo film per il cinema, Poor Cow, nel 1967. La notorietà
arriverà con Kes (1970) e Family Life (1971). Da allora Loach si è affermato come regista politicamente e socialmente impegnato con
pellicole come Riff-Raff (Miglior Film Europeo 1991), Terra e libertà (Miglior Film Europeo 1995), Sweet Sixteen (Premio della Critica
- 2002). Tra i suoi lavori più recenti Un bacio appassionato (premiato con un César nel 2005), Il vento che accarezza l’erba (Palma d’Oro
a Cannes 2006), In questo mondo libero (2007), e il divertente Looking for Eric (2009). Nel 1994 ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera al Festival di Venezia. Nel dicembre 2003 l’Università di Birmingham gli ha conferito una laurea honoris causa in Lettere.
Interpreti: Steve Evets (Eric Bishop), Éric Cantona (Se stesso), Stephanie Bishop (Lily), John Henshaw (Meatballs), Gerard Kearns (Ryan),
Steve Marsh (Zac), Stefan Gumbs (Jess), Lucy-Jo Hudson (Sam), Justin Moorhouse (Spleen), Des Sharples (Jack), Cole Williams (Daisy),
Dylan Williams (Daisy), Laura Ainsworth (Lily ragazza), Matthew McNulty (Eric ragazzo), Max Beesley (Padre di Eric Maxton Beesley)
Genere: Commedia, Drammatico, Sportivo
Origine: Belgio, Francia, Gran Bretagna, Italia 2009
Sceneggiatura: Paul Laverty
Fotografia: Barry Ackroyd
Musica: George Fenton
Montaggio: Jonathan Morris
Durata: 116’
Produzione: BIM Film, Canto Bros., Les Films du Fleuve, Sixteen Films, Why Not Productions
Distribuzione: BIM Distribuzione
SOGGETTO: La vita di Eric, il postino, sta andando a rotoli... La famiglia caotica, i guai con i figli e la betoniera in giardino non aiutano,
certo, ma a tormentare Eric è soprattutto un segreto che si porta dentro da trent’anni. Riuscirà ad affrontare Lily, la donna che ha amato e
abbandonato da ragazzo? Nonostante l’entusiastico e a volte strampalato sostegno dei suoi amici e compagni di fede calcistica, Eric continua ad affondare. Nei momenti di disperazione, ci vogliono uno spinello e un amico speciale per convincere un postino in crisi a intraprendere il difficile viaggio nel territorio più insidioso – il passato.
VALUTAZIONE: Ken Loach affronta la commedia quasi pura con un film che applica il suo inconfondibile stile cinematografico ad una
storia dalle venature surreali dove a farla da padrone sono un protagonista che deve dare una sistemata alla sua vita ma soprattutto la presenza di uno spirito guida che ha le fattezze e la personalità del suo idolo: Eric Cantona. Chi l’avrebbe mai detto, qualche anno fa, che Loach
si sarebbe spinto tanto in avanti sul terreno della commedia e che soprattutto avrebbe applicato il suo cinema realista e sociale ad una storia
dove a risolvere i problemi del povero diavolo di turno è uno spirito-guida con le fattezze e la personalità di Eric Cantona. La forza di
Looking for Eric, film dinamico, mai noioso e spesso divertentissimo, sta nel contrasto tra l’approccio registico di Loach, rimane fedele al
suo fluido rigore formale e una sceneggiatura brillante e ricca di umorismo, tra la concretezza (anche drammatica) dei problemi che Eric si
trova a dover affrontare e lo stratagemma surreale delle apparizioni fantasmatiche di Cantona, il quale gioca con divertentissima autoironia
con la sua immagine. Ma sta anche in alcuni dialoghi serratissimi e molto divertenti, di cui si fanno protagonisti sia Eric ed il suo bizzarro
gruppo di colleghi, che lo stesso Eric Cantona. Lo sguardo sul sociale di Loach, questa volta, non è più spento ma forse più superfluo e positivamente annacquato da vicende più leggere e scene d’insospettabile inventiva come quella dell’assalto di Eric e dei suoi numerosi amici
ad un gangsterino da strapazzo ma fastidioso tutti mascherati da… Eric Cantona.
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My Movies – Giancarlo Zappoli
Un impiegato delle Poste britanniche vede la sua vita andare
sempre peggio. Ha lasciato da trent’anni Lily, suo unico e vero
amore. Ora vive con i due figliastri lasciatigli da una donna che
non c’è e con uno dei quali ha un pessimo rapporto. Eric, che
cerca di non ricordare il passato, ha un solo rifugio in cui cercare un po’ di consolazione: il tifo per il Manchester e la venerazione per quello che nel passato è stato il suo più grande campione, Eric Cantona. Ora però Eric ha un nuovo e per lui non
secondario problema: la figlia che aveva abbandonato ancora in
fasce, ma che non ha mai avuto un cattivo rapporto con lui, gli
chiede il favore di occuparsi per un’ora al giorno della bambina
che ha avuto, in modo da poter completare in pochi mesi gli
studi. Sarà però necessario che Eric si faccia consegnare la neonata da Lily che non ha voluto piu’ incontrare dal lontano passato. Qualcuno giunge in suo soccorso in modo inatteso e concretamente irreale: il suo idolo: Eric Cantona. Il problema da
affrontare non sarà però purtroppo solo questo.
Ken Loach ha realizzato il film della sua assoluta maturità.
Sinora ci aveva regalato delle opere che restano nella storia del
cinema tout court e in quella dell’impegno a favore dei meno
favoriti nelle nostre società. Lo stile era rigoroso, partecipe, con
qualche inserto comico ma con una dominante drammatica. In
questa occasione riesce a realizzare una perfetta osmosi tra la
commedia e il dramma. Arriva anche a fare di più gestendo l’apparizione onirica della star Cantona in un equilibrio perfetto tra
ironia, astrazione e (perchè no?) commozione.
Eric Cantona è una leggenda per il calcio internazionale e per i
tifosi del Manchester in particolare. Loach è un appassionato di
calcio (straordinaria la replica alla domanda ‘impegnata’ di una
collega in conferenza stampa: “Non vado alle partite per fare dei
trattati antropologici ma per vedere la mia squadra vincere”) e
riesce a rileggere, grazie ancora una volta a una sceneggiatura
più che mai calibrata di Paul Laverty, il mito calcistico facendolo interagire con le problematiche del piccolo Eric impiegato
alle Poste.
Ne nasce una storia d’amore, un film sulla possibile positività
dei miti nonchè (ed era l’impresa più difficile di questi tempi) su
una solidarietà ancora possibile. Solo lui e pochissimi altri possono riuscire a regalarci una commedia/dramma con happy end
in cui realtà e immaginazione si alleano escludendo la retorica.
a Cannes come una fresca e salutare boccata di ossigeno, una
flebo di ottimismo più necessaria che mai. Nonostante continuino a piovere pietre, la working class dipinta dal regista ora balla
il rock e Loach svolta verso la commedia con un film alla
Woody Allen che scatena risate e applausi a scena aperta riconciliando con la bellezza della vita la platea di un festival, quest’anno più cupo che mai.
Come nel film di von Trier, anche qui il protagonista è un personaggio in crisi, ma la terapia per venirne fuori è decisamente
diversa da quella proposta dal regista danese. Eric Bishop fa il
postino, ma i suoi attacchi di panico gli impediscono di avere
una relazione stabile. Il suo primo matrimonio è andato in frantumi, lo stesso è capitato al secondo, e ora l’uomo deve fare i
conti con due turbolenti figliastri, una nipotina del quale si prende cura per aiutare la figlia a studiare e il desiderio di riavvicinarsi alla prima moglie che non ha ancora dimenticato dopo 30
anni. Quando tutto sembra scivolargli di mano, ecco che in suo
aiuto arriva un amico immaginario, una sorta di guida. «Non
sono un uomo, sono Eric Cantona» gli dice non senza ironia il
suo idolo, magicamente materializzatosi nella sua camera. Con
l’aiuto del calciatore il postino comincerà a risollevarsi buttandosi dietro le spalle le proprie miserie. Interpretato da un coro di
straordinari attori capeggiati da Steve Evets, il film strappa l’applauso del pubblico quando Eric il postino dice no alle prepotenze dei malavitosi che hanno messo nei guai il figliastro dando
il via all’operazione Cantona: armati di mazze da baseball e vernice rossa e nascosti dietro una maschera che raffigura il volto
del calciatore, uno scatenato gruppo di amici e colleghi distrugge casa e macchina dei malcapitati boss.
L’idea del film è partita proprio da Cantona, che al regista aveva
proposto un film sul suo rapporto con un tifoso. Un progetto
irrealizzabile che però ha suggerito allo sceneggiatore Paul
Laverty un’altra storia che riflettesse comunque con il ruolo che
il calcio ha nella vita delle persone e con il concetto di celebrità. «Ho pensato che fosse finalmente arrivato il momento di realizzare un film che facesse sorridere — dice Loach— anche se
la commedia non è altro che una tragedia a lieto fine. Con questa storia abbiamo cercato la verità della vita che a volte è triste,
ma spesso anche lieta e divertente». E per parlare della complessità dell’esistenza. il calcio funziona come un’ottima metafora. «Il calcio è l’espressione di una comunità — aggiunge il
regista — e ha la funzione di far incontrare la gente nello stesso
luogo, cosa che anche il cinema dovrebbe fare».
Da parte sua, Eric Cantona, ex calciatore e ora attore e produttore esecutivo del film, non nasconde quanto sia stato «speciale» interpretare se stesso: «È stata un’esperienza molto positiva.
Ken Loach è simile per certi a spetti ad Alex Ferguson: entrambi con molta umiltà riescono ad ottenere il 100% dalle persone
con cui lavorano».
Avvenire Alessandra De Luca
Dopo tutto il sangue, i corpi smembrati, le carni lacerate, il
dolore e la sofferenza dei film visti negli ultimi giorni, capaci di
mettere a dura prova anche la pazienza dei cinefili più smaliziati, Looking for Eric di Ken Loach (in autunno nelle sale italiane
distribuito da Bim) che porta sullo schermo l’ex campione del
Manchester United, il francese Eric Cantona, arriva in concorso
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22 COCO AVANT CHANEL - L’AMORE PRIMA DEL MITO
di Anne Fontaine
22-23 aprile 2010
Lussemburghese di nascita, Anne Fontaine (15/7/1959), dal vero nome di Anne Sibertin-Blanc, è ballerina di formazione e s’interessa al
cinema negli anni ‘80 quando debutta come attrice. Appare in Tenere Cugine, in Si ma geule s’il vous plait e poi in P.R.O.F.S. (1985). Nel
1986 collabora alle regia teatrale del grande romanzo di Céline, “Viaggio al termine della notte”.Incontra dunque Philippe Carcassone,
suo futuro marito, che produce il primo film di Anne come regista: Les histoires d’amour finissent mal… en général (1993) che vince il
premio Jean Vigo. L’anno successivo gira un medio metraggio: Augustin, dove ritrae un uomo timido a cui viene data la possibilità di recitare in un film. Il personaggio è interpretato dal fratello di Anne: Jean-Chretienne Sibertin-Blanc che reciterà anche in Augustin, roi du
kung-fu (1999) e in Nouvelle chance nel 2006. Nel frattempo prova un cambio di stile dirigendo Miou-Miou, Charles Berling e Stanislas
Mehar in Dry Cleaning (1997). Charles Berling tornerà a collaborare con Anne quattro anni più tardi nel dramma familiare: Comment j’ai
tué mon père che vale a Michel Bouquet, protagonista, un Cèsar come miglior attore protagonista.Anne Fontaine torna a esplorare le relazioni di coppia nel 2003 con Nathalie… Mentre nel 2005 cambia genere girando Entre ses mains, interpretato da Benoit Poelvoorde e
Isabelle Carré e definito un “thriller intimo” dall’autrice. Dopo Nouvelle chance (2006), nel 2008 offre a una famosa presentatrice del
meteo Louise Bourgoin il suo primo ruolo cinematografico, quello di una prostituta in La fille de Monaco (2008).
Interpreti: Audrey Tautou (Gabrielle ‘Coco’ Chanel), Benoît Poelvoorde (Étienne Balsan), Alessandro Nivola (Arthur ‘Boy’ Capel), Marie
Gillain (Adrienne Chanel), Emmanuelle Devos (Emilienne d’Alençon), Régis Royer (Alec), Yan Duffas (Maurice de Nexon), Roch
Leibovici (Jean)
Genere: Biografico
Origine: Francia
Soggetto: Edmonde Charles-Roux (libro)
Sceneggiatura: Anne Fontaine, Camille Fontaine, Christopher Hampton (collaborazione), Jacques Fieschi (collaborazione)
Fotografia: Christophe Beaucarne
Musica: Alexandre Desplat
Montaggio: Luc Barnier
Durata: 111’
Produzione: Haut Et Court - Cine@, Warner Bros. Entertainement France, France 2 Cinema
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia
SOGGETTO: Nel 1893 la piccola Gabrielle aspetta invano fuori dell’orfanotrofio la visita del padre. Quindici anni dopo, mentre con la
sorella Adrienne, si esibisce in un locale di provincia, conosce il nobile e ricco Balsan. Finisce per sistemarsi nella sua grande villa alle porte
di Parigi. Qui fa amicizia con il giovane inglese Boy Capel, se ne innamora ma lui muore in un incidente di macchina. Ora Gabrielle, per
tutti Cocò, può dare maggiore continuità alla sua passione per i cappelli e gli abiti. Eccola, molti anni dopo, applaudita dalle sue modelle e
dal pubblico al termine di una sfilata.
VALUTAZIONE: I titoli di coda ricordano che Coco Chanel mori nel 1971 e che non si sposò mai. Estrema coerenza di una donna difficile all’amicizia, refrattaria al dialogo, diffidente verso le passioni. Sotto questo profilo il ritratto di questa ‘artista’, che sfidò le abitudini
dominanti per procedere ad un rinnovamento del vestire femminile, appare attendibile e veritiero. Il copione prende in esame la Coco della
giovinezza, una ragazza scontrosa e solitaria, tuttavia amante del bello e del prezioso. Contraddizioni che la regia segue e concretizza con
notevole efficacia descrittiva: muovendosi bene tra qualche necessario tocco agiografico e puntuali ricostruzioni storiche, mai calligrafiche
e in più momenti incisive. Fino alla sequenza finale, che racchiude l’intero enigma: Cocò applaudita ma sola e silenziosa.
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Il Manifesto - Antonello Catacchio
Era di Chanel il tailleur rosa che indossava Jacqueline Kennedy
quel giorno maledetto a Dallas. Erano due gocce di Chanel n.5
l’unica cosa che Marilyn dichiarava di indossare a letto. Di tutto
questo però, giustamente, non c’è traccia in “Coco avant
Chanel, l’amore prima del mito”, il film che Anne Fontaine ha
dedicato a Gabrielle Coco Chanel, recentemente riscoperta
anche attraverso una miniserie tv e il film che ha chiuso Cannes
su Coco e Stravinsky.
Ispirato al libro ‘L’irregolare’ di Charles-Roux Edmond, il racconto parte dal suo arrivo in orfanotrofio con la sorellina
Adrienne. Seguono agli inizi del ‘900 gli spettacolini da bar con
cui la coppia arrotondava cantando. Coco lavora come sartina,
ma vorrebbe sbarcare a Parigi, per cantare, così, inaspettata si
presenta nella magione di Balsan. Che la ospita come amante di
qualche giorno. Il rapporto è aspro, di interesse e senza amore.
Ma Coco ha verve, temperamento, pur dovendo rimanere defilata impone i suoi gusti. Toglie penne e orpelli ai cappelli delle
donne del bel mondo, si veste come un maschio per andare a
cavallo, impone un’eleganza fatta di sobrietà. E alla lunga tra i
due nasce un sentimento, messo in discussione dall’arrivo di
Arthur Boy Capel. Inglese, belloccio, ma costretto a sposare una
nobildonna, fatto che non impedisce a Coco di vivere un’intensa storia d’amore. Anzi è lui a fornirle il denaro per aprire un
atelier da modista, volano per quel che sarà il futuro della maison. Ma Boy muore in un incidente d’auto e Coco diventerà per
sempre un marchio. Protagonista assoluta Audrey Tautou che
punta a rievocare più che somigliare, accanto al belga Benoit
Poelvoorde, Alessandro Nivola e Marie Gillain. Come in tutti i
biopic c’è un po’ troppo senno di poi, con frasi piazzate per
dimostrare le intuizioni che renderanno grande la stilista Coco,
che in seguito avrà anche una vita discutibile, ma ha sicuramente il merito di aver contribuito a gettare alle ortiche busti e
ammennicoli che ingabbiavano le donne. Forse l’immagine più
efficace del film è nel finale, quando Coco, più avanti con gli
anni, vestita con uno dei suoi tailleur, vede sfilare le modelle
con le sue creazioni, seduta su una scala, applaudita ma anche
profondamente sola. Quasi che quei due amori di tanto tempo
prima siano stati vissuti da un’altra donna, quella che di cognome faceva Bonheur prima di Chanel.
dimena sul palco dei cabaret con la sorella cantando l’ammiccante ‘Je suis femme torpille, pille, pille, je me tortille, tille,
tille.’ Il resto segue questa linea con una libertà di tono e un
gusto per gli attori (magnifico Benoit Poelvoorde, nobile debosciato ma con un cuore) che fanno di questa Belle Epoque una
delle più credibili e attraenti mai viste.
Non avesse quello chic naturale e quella strana insicurezza, la
futura regina della moda sembrerebbe solo una ambiziosa,
bugiarda e senza scrupoli. Ma anche questi sono luoghi comuni.
La Coco che lascia i cabaret per piazzarsi nel castello del
festaiolo Balsan (Poelvoorde), prima stupito da tanta faccia
tosta e poi colpito da quella creatura singolare, è soprattutto una
giovane androgina, diversissima dalle femmine polpose dell’epoca, con idee tutte sue in fatto di abbigliamento. Una giovane
che cerca se stessa con la passione e la curiosità che usa per
esplorare il mondo. È grazie a questa chiave che l’irriverente
Anne Fontaine porta la libertà e la freschezza del cinema d’autore nel suo primo film in costume. ‘Chanel guardava tutto. La
sua cultura non veniva dallo studio ma dall’osservazione’, dice
la regista. E il film, sospeso allo sguardo penetrante della
Tautou, riproduce questo percorso facendoci scoprire quel
mondo e le sue regole con gli occhi stupiti ma mai innocenti di
Coco. Così le feste nel castello di Balsan e i suoi incontri con gli
esponenti di quel mondo, in testa l’attrice e cocotte Emmanuelle
Devos in un personaggio tagliato su misura per la sua esuberanza, diventano tappe di un irresistibile apprendistato.
Che perde colpi solo in sottofinale, quando Coco si innamora
del giovane uomo d’affari inglese ‘Boy’ Capel (Alessandro
Nivola). Il primo a intuire il potenziale di quella giovane ancora convinta di voler fare l’attrice. Di colpo, curiosamente, il film
finisce su binari convenzionali. Addio Coco, ora tocca a madame Chanel. Ma Anne Fontaine ha l’intelligenza di fermarsi qui.
Segnocinema - Carla Delmiglio
Come si diventa Coco Chanel.Tra realtà, favola e un pizzico di
agiografia, l’irresistibile ascesa di Gabrielle dal buio dell’orfanotrofio, dove il padre l’aveva abbandonata, alla luce riflessa da
mille specchi della sfilata trionfale che chiude il film. Una figurina sottile, fragile ma indistruttibile, determinazione e consapevolezza del proprio valore, grazia ed eleganza innate: la giovanissima Coco, sartina di giorno, ballerina la sera, sfiora anche la
prostituzione per emergere, diventando per scelta la mantenuta
di un aristocratico. Che la introduce in un mondo vacuo degli
ozi e carezze, da cui spicca il volo, dopo la morte del grande
amore, verso Parigi e la libertà di essere se stessa. Senza vincoli, mai più, neppure d’amore.
Curato esteticamente (un dovere, visto il personaggio), belle
immagini patinate si susseguono: il tetro casermone dell’infanzia, il castello colorato dei primi agi strappati al giocoso
Barbablù di turno, la gita al mare con l’innamorato sono sfondi
in cui si staglia per contrasto la scalata della fanciulla povera
verso l’indipendenza e la celebrità. Non la felicità. Un film su
misura per gli occhioni di Amièlie/A.Tautou, che lo domina
bene. Ma fa solo intuire, raffreddando il mélo, l’eccezionalità e
il valore culturale di una donna, che ha rivoluzionato, per mezzo
degli abiti, il modo di vivere.
Il Messaggero - Fabio Ferzetti
Sorpresa. La biografia di una celebrità che schiva tutte le trappole del genere. Una vita di Coco Chanel che elude i passaggi
obbligati dell’agiografia per trovare un piglio e un taglio originali, concentrandosi sugli anni giovanili per lasciar fuori la leggenda della moda celebrata da libri, film e serie tv. Evitando
anche le retoriche tipiche del sottogenere ‘infanzia, vocazione e
prime esperienze’.
Gabrielle detta Coco cresce in orfanotrofio, dunque bastano
poche scene a dirci il dolore e la solitudine della sua infanzia. E
a suggerire il fascino di quel mondo fine ‘800, austero, tutto in
bianco e nero, a suo modo elegante come le divise a quadretti
col colletto di pizzo. Così capiamo subito perché Coco (prodigiosa Audrey Tautou in un ruolo che le toglierà di dosso per
sempre l’appiccicosa Amélie) emani grazia anche quando si
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23 GENERAZIONE 1000 EURO di Massimo Venier
29-30 aprile 2010
(Varese, 26 marzo 1967) Sceneggiatore e regista, collaboratore della Gialappa’s Band (autore di Mai dire gol dal 1990 al
1997), Massimo Venier ha scritto e diretto insieme ad Aldo, Giovanni e Giacomo Tre uomini e una gamba (1997), Così è la
vita - Una storia vera (1998), Chiedimi se sono felice (2000), La leggenda di Al, John e Jack (2002). Tu la conosci Claudia? è
il primo film che Venier firma da solo. Con il trio è anche autore in teatro di Tel chi el telun e della trasmissione tv Aldo,
Giovanni e Giacomo Show.
Interpreti: Alessandro Tiberi (Matteo), Valentina Lodovini (Beatrice), Carolina Crescentini (Angelica), Francesco Mandelli
(Francesco), Francesco Brandi (Faustino), Francesca Inaudi (Valentina), Paolo Villaggio (Il Professore), Roberto Citran (Taxista), Lucia
Ocone (Impiegata dell’amministrazione), Natalino Balasso (Landolfi), Steffan Boje (Mark), Toni Mazzara (Majoli), Demian Sabini
(Commesso Hotel di Barcellona)
Genere: Commedia/Sociale
Origine: Italia
Soggetto: Antonio Incorvaia, Alessandro Rimassa, Massimo Venier, Herbert Simone Paragnani, Federica Pontremoli
Sceneggiatura: Massimo Venier, Federica Pontremoli, Fabio Di Iorio
Fotografia: Italo Petriccione
Musica: Giuliano Taviani, Carmelo Travia
Montaggio: Carlotta Cristiani
Durata: 101’
Produzione: Andrea e Raffaella Leone Per Andrea Leone Films e Rai Cinema in Collaborazione Con Maurizio Tedesco Per Baires
Produzioni Srl
Distribuzione: 01 Distribution
SOGGETTO: A Milano Matteo, 30 anni, laureato con la passione per la matematica, sta per concludere il suo contratto nel settore
marketing di una grande azienda. Nella casa dove vive con Francesco, arriva per sbaglio Beatrice che però finisce per fermarsi lì. Sul
posto di lavoro, sempre per caso, Matteo conosce Angelica e solo dopo apprende che é la nuova vice direttrice marketing. Matteo e
Angelica diventano amici, e lei lo porta con se in alcune missioni all’estero. Per lui sembra aprirsi un promettente futuro, ma il rapporto con Angelica si interrompe di fronte alla vita ad alti ritmi di lei. Appena in tempo Matteo arriva alla stazione, proprio mentre
Beatrice sta partendo alla volta di Viterbo, dove ha avuto un incarico di insegnante.
VALUTAZIONE: Tema di attualità, é ovvio, quello del lavoro occasionale e che non garantisce un futuro. Matteo dice ad un certo
punto di appartenere ad una generazione nella quale “per la prima volta nella storia, i figli stanno peggio dei padri”. La notazione ha
un fondo di verità, accompagnata da quella che, a differenza di anni fa, la soluzione si sta rovesciando: dalla grande città comincia il
ritorno in provincia, un’emigrazione al contrario rispetto a quella degli anni ‘50 e ‘60. Il dialogo, svelto, diretto, frizzante é uno dei
meriti del copione che corre lungo sfondi veri e realistici (Milano, l’ufficio, i viaggi, le spese quotidiane) ma non tarda a vestirsi dei
contorni della favola. L’accostamento regge bene, perché i problemi veri non vengono ignorati ma prevale l’invito a non lasciarsi andare, a non cedere al pessimismo, a non piangersi addosso. Ben diretto da Venier, già regista dei film di Aldo, Giovanni e Giacomo.
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Il Corriere della Sera - Maurizio Porro
‘Cosa credi che ci daranno di stipendio? Per me 35.000 lire
andrebbero bene’. Ermanno Olmi faceva dire ai suoi due cari
impiegatini del “Posto”, addì 1961, questa battuta che, al netto
dell’inflazione, vale oggi più dei mille euro del film di Massimo
Venier. Ma soprattutto allora il posto era per la vita, mentre
Matteo, laureato matematico, deve sempre ricominciare daccapo. E forse, anzi senz’altro, la precarietà del lavoro in un’azienda che si sta riorganizzando, provoca a catena anche altre precarietà sentimentali, tanto che il brillante 30enne fa il gioco
delle tre carte col cuore. Lasciatosi di fresco con una dottoressa,
è indeciso tra la cugina dell’amico, che piomba in casa come
inquilina ed ha un grigio avvenire da insegnante precarissima a
Viterbo, e la rampante collega in carriera, pronta al futuro
modaiolo di Barcellona. Che fare? Essere o non essere? Agire o
stare fermi? L’antica domanda risuona con echi giovanilistici
nel film di Venier che parte dal sociale ma fa tappe forzate nella
privacy e nell’instabilità affettiva raggiungendo un tasso di
bella, simpatica e calcolata confusione nella seconda parte, concludendo che non ci sono scienze esatte (neppure la matematica
insegna il prof. Paolo Villaggio, intonato e malinconico), al
massimo c’è la solitudine dei numeri primi come avverte Paolo
Giordano. E quindi neppure sui sentimenti si può giurare, specie in una situazione di sicura insicurezza italiana, dove il cinema sta esplorando curioso i malanni della new generation tarpata di speranze: dopo Virzì e “Fuga dal call center”, oggi Venier,
con un buon cast (Tiberi, Ludovini, Crescentini, Mandelli) insegna a prenderla con filosofia, a farsi una ragione esistenziale e
ci mette qualche scorciatoia comica (buco nel pavimento!) mandando avanti di alcune caselle il nostro cinema che per parlare
di giovani non s’incarta nel sentimentalismo coatto delle notti
degli esami, ma cerca pur con qualche manierismo la radiografia di un malessere che vale Euro 940 al mese.
cinema italiano del boom, complice un personaggio a tratti truffautiano (interpretato dall’incisivo Alessandro Tiberi).
Segnocinema - Pierpaolo De Sanctis
Storie da precariato milanese al crocevia dei trent’anni per un
film leggero più che amaro, consolatorio più che tagliente.
Matteo (Alessandro Tiberi) aspira a diventare ricercatore universitario (è un genio della matematica), ma nel frattempo si
guadagna da vivere nel settore marketing di un’azienda in odore
di tagli al personale. Intorno a lui Francesco (Mandelli),coinquilino con la passione del cinema e la playstation, e l’harem
paradisiaco composto da Angelica (Carolina Crescentini), il suo
capo, e Beatrice (Valentina Lodovini), la nuova coinquilina.
Francesca Inaudi è condannata troppo spesso in ruoli minori (è
la fidanzata che lo lascia) mentre Paolo Villaggio fa qualcosa in
più di un semplice cameo di lusso.
Nonostante gli schemi narrativi risaputi e il problema del lavoro più evitato che affrontato, il film di Venier ha una sua piacevolezza divertente e non volgare, un ritmo non scontato e un
certo carisma nella messa in scena. Se non si chiede troppo, si
rischia seriamente di stare al gioco e approfittare dell’impalcatura da commedia. Sullo stesso tema, molto più originale il pur
più piccolo “Fuga dal call center” di Federico Rizzo.
La Repubblica - Paolo D’Agostini
Il film diretto da Massimo Venier (già regista di fiducia di Aldo
Giovanni e Giacomo) e scritto con Federica Pontremoli ha le
carte in regola per fare il punto sull’onda della commedia di
argomento giovanile ma soprattutto, più in generale, sull’efficacia della commedia alle prese con la società contemporanea.
Il titolo, dal libro omonimo (Rizzoli) cui il film si ispira liberamente, non lascia dubbi: la condizione dei trentenni eternamente sulla soglia della maturità, in attesa di poter fare ingresso in una vita adulta che si allontana sempre più. Un genietto
matematico sotto contratto precario al marketing di una multinazionale della comunicazione, nel tempo libero dà lezioni universitarie gratis sotto l’ala protettrice di un vecchio professore
(Paolo Villaggio) uscito da un film di Frank Capra. L’amico
convivente, colto cinefilo e battutista brillante, fa il proiezionista. La fidanzata medico è stanca per i turni di notte al pronto
soccorso. La nuova inquilina dell’appartamento comune viene
dalla provincia per qualche supplenza ma è appassionata. E poi
c’è la diversa: la manager decisionista e macinauomini
(Crescentini, in uno dei suoi frequenti ruoli fatali, maledetti, un
po’ da stronza diciamo la verità) che sta per portare il protagonista sulla strada sbagliata, dell’infedeltà a se stesso. Niente da
dire sul ricorso agli stereotipi da commedia, peraltro serviti con
spirito e ironia. Quale più quale meno lo fanno tutte le commedie: e mai come in questa stagione ne abbiamo sotto gli occhi
tante meritevoli. Più o meno ambiziose, attente, originali, di
qualità. Da Ferrario a Zanasi a Manfredonia, Pranzo di
Ferragosto ma anche Ex e Diverso da chi?. Ma perché resta
così spesso l’ impressione di un’ eccessiva semplificazione, la
sensazione che le commedie - già arma più forte del cinema italiano - rincorrono una realtà più complessa senza afferrarla e
rappresentarla?
Il Mattino - Alberto Castellano
Dopo l’overdose di commedie sentimentali adolescenziali, il
cinema italiano comincia a occuparsi dei trentenni alle prese con
problemi di lavoro, della generazione dell’eterno precariato. Ne
è un esempio Matteo, il protagonista di “Generazione 1000
euro” diretto da Massimo Venier sulla base dell’omonimo bestseller. Una laurea e un gran talento per la matematica, il giovane lavora nel marketing di un’azienda milanese, divide l’appartamento con un amico e fa i salti mortali per pagare l’affitto. La
sua già turbolenta esistenza viene ulteriormente movimentata
dalla contemporanea irruzione di due seducenti ragazze: la mora
Beatrice, nuova coinquilina, insegnante anche lei precaria, e la
bionda Angelica, capo del suo ufficio. In breve si trova sentimentalmente sballottato tra la grintosa e ambiziosa Angelica che
lo trascina a Barcellona e la dolce e romantica Beatrice che
ottiene una supplenza a Viterbo. Perde la fidanzata, viene sfrattato e rischia di perdere il lavoro, ma in compenso per la prima
volta è costretto a fare delle scelte: alla prospettiva di carriera in
Spagna, seguendo Angelica, preferisce il precariato e l’amore di
Beatrice. Con un buon dosaggio narrativo e la giusta alchimia di
problemi sentimentali e occupazionali, Venier affronta un argomento d’attualità con un occhio alla Nouvelle Vague e uno al
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MR. NOBODY di Jaco Van Dormael
6-7 maggio 2010
Jaco Van Dormael (Ixelles, 9 febbraio 1957). La nascita di Jaco Van Dormael fu traumatica, poiché il suo funicolo ombelicale finì
sul suo collo, quasi strangolandolo. Nei primi momenti della nascita fu temuto che questo trauma avrebbe potuto causarli problemi
mentali. Questo spiega il suo ritratto comprensivo per i portatori di handicap. Iniziò a lavorare per i bambini intraprendendo una
carriera da clown. L’infanzia e l’innocenza diventarono temi forti del suo lavoro. Negli anni ottanta si interessò al cinema e produsse una serie di cortometraggi che riscontrarono un considerevole interesse critico, dal punto di vincere numerosi premi.Van
Dormael fece il suo esordio nel 1991 con il film Toto le Héros (Toto l’eroe), una storia affettuosa su un uomo che li fu privata l’adolescenza, in un complesso mosaico di analessi e sogni, dove si alternano flussi di coscienza. Toto le Héros fu acclamato dalla critica e vinse un Premio César come miglior film straniero, la Caméra d’or al Festival di Cannes e quattro premi agli European Film
Awards, riuscendo a far diventare Van Dormael una celebrità agli esordi.Van Dormael usa un metodo unico di abbozzare le sue sceneggiature, scrivendo centinaia di idee su schede. Questo gli dà la possibilità di riordinare concetti. Suo fratello Pierre Van Dormael
fu un chitarrista jazz, e ha partecipato alle colonne sonore dei suoi film.
Interpreti: Jared Leto (Nemo Nobody), Diane Kruger (Anna ), Sarah Polley (Elise ), Rhys Ifans (Padre di Nemo), Natasha Little (Madre
di Nemo), Chiara Caselli (Clara), Linh Dan Pham (Jeanne), Juno Temple (Anna sedicenne), Clare Stone (Elise sedicenne), Thomas
Byrne (Nemo a 9 anni), Daniel Brochu (Peter), Ben Mansfield (Stefano), Toby Regbo (Nemo sedicenne), Noa De Costanzo (Nemo a
5-7 anni), Emily Tilson (Eve), Anders Morris (Noah)
Genere: drammatico, fantascienza, romantico
Origine: Canada / Belgio / Francia / Germania
Soggetto: e sceneggiatura: Jaco Van Dormael
Fotografia: Christophe Beaucarne
Musica: Pierre Van Dormael, Valérie Lindon
Montaggio: Matyas Veress
Durata: 148’
Produzione: Phillippe Godeau
SOGGETTO: Nemo Nobody conduce un’esistenza ordinaria al fianco della moglie Elise e dei loro tre bambini fino al giorno in cui
il suo universo collassa e lui si sveglia nel 2092. A 120 anni Mr. Nobody è l’uomo più anziano, ultimo mortale appartenente a una nuova
razza in cui nessuno muore più. La cosa però non sembra preoccuparlo molto. Ciò che gli interessa realmente è scoprire se ha vissuto
la vita giusta per lui, amato la donna che doveva amare e avere i bambini di cui avrebbe realmente dovuto essere padre.
VALUTAZIONE: Potente e suggestiva riflessione sullo scorrere del tempo, ambizioso affresco filmico sulle infinite possibilità che
contraddistinguono ogni singola esistenza, amaro apologo sull’inevitabile dolore che accompagna le scelte nel corso di una vita: uno,
nessuno e centomila, Mr. Nobody di Jaco Van Dormael - è tutto questo, affabulazione più, ridondanza meno. Perché il nuovo film scritto e diretto dal regista belga tornato al cinema tredici anni dopo L’ottavo giorno, ha dalla sua il prestigio di intrecci e situazioni visive
care al “Kaufman touch”.Un’opera complessa, irrisolta ed emozionante, sorretta dall’interpretazione totale di un Jared Leto sofferto e
trattenuto, circondato da un “parterre de femmes” di prim’ordine: la disturbata Sarah Polley, l’innamorata Diane Kruger, l’algida LinhDan Pham.
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My Movies - Giancarlo Zappoli
Il signor Nemo è un vecchio ultracentenario ed è il protagonista
di un reality che segue in diretta gli ultimi giorni (mesi, anni)
della sua vita. Perché tanto interesse? Perché Nemo è l’ultimo
essere mortale rimasto sul nostro pianeta da quando le scoperte
scientifiche hanno consentito di raggiungere la quasi immortalità. Nemo però ricorda ben poco della sua vita passata, una vita
che non è una ma molteplice. Jaco Van Dormael torna a fare
cinema dopo una lunga assenza e lo fa con un film che affronta
la complessità delle possibilità che ognuno di noi si trova davanti. Il Signor Nessuno che porta in scena è di fatto tutti noi.
Perché Nemo nel corso della sua vita si trova dinanzi a una molteplicità di scelte che potrebbero indirizzarla in un senso piuttosto che in un altro. A partire dalla sua nascita, in cui deve scegliersi la coppia di genitori più piacevole, tutto è legato a scelte
e a successive casualità. Così assistiamo al momento in cui i
genitori si dividono. Nemo bambino può correre dietro al treno
su cui la madre sta partendo, raggiungendola, oppure rimanere
con il padre. A seconda di quanto accade gi si aprono davanti
due diverse vite. Il pensiero di chi legge correrà quasi inevitabilmente a Sliding Doors. Qui ci troviamo però in una struttura
narrativa in cui non ci si limita a un percorso binario (o scegli A
o scegli B). Le possibilità si moltiplicano così come i possibili
innamoramenti e vite di coppia. Il problema diventa allora controllare la sceneggiatura facendo in modo che lo spettatore si
addentri nell’intrico delle possibili vite senza però perdere l’orientamento. Se si pensa che il montaggio ha richiesto un anno
di lavoro si potrà comprendere quanto Van Dormael si fosse
posto chiaramente il problema. Il risultato finale gli dà ragione
grazie anche alla levità di uno stile capace di raccontare la realtà con tratti surreali. Ovviamente non aspettatevi una conclusione. Nel finale il giocoliere Jaco vi metterà di fronte a nuove possibilità ricordandovi anche, se siete genitori, che ci sono scelte
che ai figli non possono essere chieste.
storia a un giovane ascoltatore e questa è una delle poche convenzioni classiche di cui il film fa uso prima di prendere il volo
mescolando sogno e ricordo, realtà e finzione (ma ha senso utilizzare tali categorie in un’opera come questa?). Tutto ciò che
l’uomo, protagonista di una sorta di reality in cui i telespettatori del 2092 seguono in diretta gli ultimi istanti di vita dell’unico mortale rimasto, racconta al suo interlocutore viene contraddetto dai flashback che ci vengono mostrati subito dopo. La
vita ci riserva continue scelte e dato che ogni esistenza merita
di essere vissuta in fondo a Nemo Nobody non bastano una sola
storia d’amore e un’unica famiglia. Lui se ne crea due, anzi,
addirittura tre. In un rapido fluire di immagini, Jaco Van
Dormael usa in modo schizofrenico il suo protagonista Jared
Leto immergendolo in una successione di incubi e possibilità,
scenari tutti reali proprio perché in un tal gioco di specchi niente lo è davvero, visualizzati con potenza grazie alla fantasia
visionaria del regista che si esteriorizza in ambienti folli e
straordinari. Nel calderone di Mr. Nobody finiscono drammi
esistenziali, spettacolari incidenti, catastrofi, citazioni filosofiche, strizzate d’occhio al mostruoso universo del reality, echi di
tanto cinema, pittura, arte visiva, videoclip, le più disparate
teorie scientifiche - dal più classico ‘Effetto Farfalla’ alla
Teoria delle Stringhe, dal Big Bang allo scacchistico Zugzwang
- il tutto condito con spirito naif, con la proverbiale (auto)ironia che Van Dormael ha già ampiamente dimostrato in passato
e dal gusto per il dettaglio significante tipico di tanto cinema
moderno franco-belga. Inusuali e arditi raccordi di montaggio
permettono continui salti temporali dal passato al presente al
futuro e ancora al passato in un caos di ralenty e visioni, di
esplosioni di suoni e colori non privo di fascino. L’unico parziale punto di riferimento in questa fiaba onirica che si ripete
all’infinito tra mille variazioni è la presenza di tre splendide
attrici che interpretano le tre mogli di Nemo Nobody. A LinhDan Pham spetta il ruolo della saggia Jeanne, la bravissima
Sarah Polley si misura con un personaggio ostico e complesso,
quello dell’instabile Elise, affetta da un disturbo bipolare, mentre la tedesca Diane Kruger interpreta il vero amore di Nemo,
Anna, donna del destino che ritorna in molteplici vesti, luoghi
e tempi.Jaco Van Dormael non si preoccupa minimamente di
dare coerenza a un’opera dalla lavorazione travagliata che ha
già subito molteplici rimaneggiamenti in fase di montaggio,
senza probabilmente aver ancora raggiunto una forma definitiva. La lunga durata e la mancanza di ordine e chiarezza renderanno la visione ostica a chi non ama il cinema di Van Dormael,
ma anche se Mr. Nobody entra di diritto nella categoria delle
opere tanto ambiziose quanto poco riuscite (se pensiamo al
Darren Aronofsky di L’albero della vita o al Richard Kelly di
Southland Tales, Van Dormael è in buona compagnia) non possiamo non amare quei momenti in cui il suo unico stile emerge
con chiarezza. In fin dei conti l’amore vince su tutto, Mr.
Nobody non è il primo e non sarà l’ultimo film a basarsi su
questo concetto, ma quando a esporcelo è l’anarchico Jaco Van
Dormael le cose cambiano. Con il suo caleidoscopio ridondante di immagini il regista rivendica la propria libertà di non privare lo spettatore di niente e di non fare alcun tipo di scelta.
Che sia proprio lui il vero Mr. Nobody?
Movieplayer - Valentina D’amico
“Tutto quello che scegliamo ha senso. Ogni scelta è la scelta
giusta”. Il regista belga Jaco Van Dormael crede profondamente a quello che scrive nelle proprie sceneggiature tanto da mettere in pratica le sue teorie nell’onirico Mr. Nobody, pellicola
onnivora e vorticosa che non si contenta di mettere in campo
passato, presente e futuro, ma osa mostrare come ogni via intrapresa possa essere irreversibile, come la realtà sia solo una
mera illusione. Un L’albero della vita dalla fotografia luminosa e patinata mescolato con Lo strano caso di Benjamin Button
e con un pizzico di Sliding Doors. L’autore dell’intrigante e
lucidissimo Toto le hero - Un eroe di fine millennio, in questa
sua nuova opera non ci risparmia niente e costruisce la sua rutilante storia d’amore (in realtà sono tre) per moltiplicazione e
inversione. Visto che sia la consapevolezza che l’inconsapevolezza impediscono di fare la scelta giusta, il regista non si
preoccupa di creare una pellicola coerente e abbandona il senso
della misura per liberare il proprio spirito visionario e la propria ironia, supportato da un budget decisamente importante.
L’anziano Nemo Nobody, ultimo mortale in un futuro dominato da una nuova stirpe di umani immortali, racconta la propria
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LO SPAZIO BIANCO di Francesca Comencini
13-14 maggio 2010
Francesca Comencini è figlia d’arte (suo padre è il grande Luigi Comencini)sorella di Paola e Cristina Comencini. Nonostante il suo
sogno nel cassetto sia quello di diventare una scrittrice, nel 1984 si dedica alla regia dirigendo Pianoforte (1984) La pellicola le permette
di vincere il Premio De Sica al Festival di Venezia. È il suo primo successo. Negli anni seguenti, si occupa della sceneggiatura di Un
ragazzo di Calabria (1987), del francese La luce del lago che lei stessa dirigerà nel 1989. Negli anni novanta, dopo essere stata assistente
regista del padre in Marcellino (1991) firma l’inedito Annabelle partagée e poi i documentari Elsa Morante (1995), e Shakespeare a
Palermo, Con l’arrivo del nuovo millennio, è nei cinema con Le parole di mio padre (2001), ma è duramente bacchettata dalla critica per
la pesantezza della sceneggiatura. Si rifà, contribuendo con altrettanti registi, in vari reportage sugli eventi che colpirono Genova nei
giorni del G8, firmando forse uno dei documentari più belli sull’argomento: Carlo Giuliani, ragazzo (2002).Nel 2003 è l’autrice del documentario Firenze, il nostro domani, poi l’anno successivo, arriva il suo film più intenso Mi piace lavorare (Mobbing), che vincerà il
Premio della Giuria al Festival di Berlino e il Nastro d’Argento come miglior soggetto. Nel 2004, firma anche il documentario collettivo
Visions of Europe sullo stato dell’arte nel mondo, poi il lungometraggio morale A casa nostra (2006). Rinfresca nuovamente l’attenzione al sociale con In fabbrica (2007). Dopo un’attesa di due anni e un costernato omaggio in pellicola al dramma aquilano (L’Aquila
2009, ha diretto il segmento ‘Le donne di San Gregorio’) . torna al cinema vero e proprio con “Lo spazio bianco”.
Interpreti: Margherita Buy, Gaetano Bruno, Giovanni Ludeno, Antonia Truppo, Guido Caprino, Salvatore Cantalupo, Maria Pajato
Genere: drammatico
Origine: Italia
Soggetto e sceneggiatura: tratto dal romanzo omonimo di Valeria Parrella
Sceneggiatura: Francesca Comencini, Federica Pontremoli
Fotografia: Luca Bigazzi
Musica: Nicola Tescari
Montaggio: Massimo Fiocchi
Durata: 96’
Produzione: Domenico Procacci, Laura Paolucci
Distribuzione: 01 Ditribution
SOGGETTO: Maria aspetta una bambina, non è incinta più ma aspetta lo stesso. Aspetta che sua figlia nasca, o muoia. E se c’è una cosa
che Maria non sa fare è aspettare. È per questo che i tre mesi che deve affrontare, sola, nell’attesa che sua figlia Irene esca dall’incubatrice,
la colgono impreparata. Abituata a fare affidamento esclusivamente sulle proprie forze e a decidere con piena autonomia della propria vita,
Maria si costringe ad un’apnea passiva che esclude il mondo intero, si imprigiona nello spazio bianco dell’attesa. Ma questo sforzo di isolamento doloroso consuma anche l’ultimo filo di energia a disposizione: la bolla di solitudine in cui Maria si è rinchiusa è messa a dura prova
e alla fine esplode. È necessario che Maria salvi se stessa per riuscire a salvare la bambina. Non c’è che una soluzione: consentire al mondo
di irrompere nella propria esistenza e concedersi il privilegio di ritornare a vivere. E così inventarsi la forza per accompagnare Irene alla
nascita.
VALUTAZIONE: Il film è la storia di Irene, una bimba appena nata che deve ancora nascere. È la storia di Maria, una donna non ancora
pronta ad essere madre ma che lo diventa, da sola. È la storia di un’attesa, subita da chi non sa attendere. È una storia tutta al femminile,
raccontata come solo una donna riesce a fare. Lo spazio bianco di Maria sono i tre mesi che dovrà attendere, lei che non sa aspettare, perché sua figlia Irene esca dall’incubatrice. Gli spazi bianchi sono anche il “non detto”, tutto quello che ogni personaggio riesce a trasmetterci anche senza parole. Colpisce, nella storia, la totale assenza degli uomini. Assenza non fisica, ma morale. Maria e tutte le donne accanto a
lei si trovano sole nei momenti più difficili. “Lo spazio bianco” è una storia ben raccontata, ma è soprattutto un film di dubbi e sentimenti,
di crescita interiore che solo una regia al femminile poteva essere in grado di rappresentare con così tanta sensibilità. Il film convince, grazie anche alla naturalezza con la quale tutti gli attori entrano nel proprio ruolo: una grande Margherita Buy, che si conferma la regina del
cinema italiano, ed un cast proveniente dal teatro. Notevole anche la scelta della colonna sonora, con dei brani sorprendenti ma sempre azzeccati. Per le donne, ma non solo... per chi ama l’universo femminile.
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Il Mattino - Valerio Caprara
Come abbiamo scritto in occasione del passaggio in concorso a
Venezia, «Lo spazio bianco» ha il merito di proporre Margherita
Buy al di là del suo stereotipo e il vantaggio di ritrovarsela come
protagonista credibile e intensa. La storia, ricavata dall’omonimo
libro di Valeria Parrella, affronta il lungo spasimo fisico, ma
soprattutto psichico che attanaglia Maria, la cui figlia, nata prematura al sesto mese, lotta per sopravvivere nell’incubatrice: un
tema molto rispettabile e molto contemporaneo, anche perché la
donna incarna un modello di single non più giovanissima fermamente decisa a cogliere la sfida dell’orologio biologico.
Purtroppo il nucleo convincente s’adagia su un’ambientazione
gravemente convenzionale e un concerto di comprimari eccessivamente ammiccante: la vicenda si snoda, infatti, in una Napoli
presepiale, cullata da un folklore alternativo quantomeno datato.
Passi per la brava Antonia Truppo, che incarna una mamma proletaria, ma il bel medico con cui la Buy si concede un’avventura, l’amico del cuore insegnante democratico e soprattutto la
prode magistrata costretta a battersi contro il potere dei politici
più che quello dei camorristi costituiscono altrettante palle al
piede del cruciale itinerario intimistico e femministico. Sarà per
questo che la tenuta del film ogni tanto inopinatamente s’allenta
dando vita a sequenze (come quella del balletto surreale in corsia) alquanto incongrue e dal gusto discutibile.
nare alle sue attività. Lo spazio bianco del titolo è il tempo dell’attesa, la sospensione tra la vita e la morte della bambina. Il
film inconsueto, intelligente e sensibile non esisterebbe senza la
protagonista Margherita Buy, capace di esprimere emozioni di
paura e d’amore.
Panorama - Piera Detassis
Maria, quarant’anni, colta, single, con amori di poche sere, insegna agli anziani e agli immigrati, veste un po’ così , parla nervosa, sempre un po’ arrabbiata, brusca e fragile in una Napoli
sfatta. Da sola fa una figlia, Irene, e si ritrova in uno spazio bianco, una sospensione, ad aspettare che nasca, perché la piccola,
prematura, è nell’incubatrice e bisogna capire se ce la farà, un
giorno, a respirare da sola senza l’aiuto delle macchine cui è
attaccata. Proprio come Maria, alla ricerca di quella parte intima, affettiva, relazionale che finora le è sfuggita o ha sfuggito.
Dal romanzo di Valeria Parrella, Francesca Comencini trae un
film insolito, pieno di spigoli e di limatura, sporco nell’immagine, con qualche confusione temporale e ingenuità che spiazzano, ma anche con la capacità di raccontare sottotraccia la confusione sentimentale e la fatica persistente di essere donna libera. Di bello, nel film, c’è che la maternità è un dono, sì, ma per
niente naturale e scontato, tutto da apprendere. Di straordinario
c’è la perfetta sintonia tra lo stile fratto del film e la recitazione
sottile, rabbiosa, che si marca tra bassi e acuti, di Margherita
Buy, ogni minimo gesto, ogni minimo scarto, cesellato fino
all’assoluto naturale.
Il Messaggero - Fabio Ferzetti
Una donna sola, per scelta, per indipendenza, per orgoglio, resta
incinta di un nuovo amore, decide di tenere la bambina anche se
lui ha già figli e la lascia, perché vista l’età potrebbe essere la
sua ultima occasione e perché tanta solitudine forse inizia a
pesarle. Poi ha un parto prematuro, la bambina viene messa in
incubatrice, non si sa se sopravviverà né in che condizioni, si
può solo aspettare e sperare. Così questa donna colta, battagliera, benestante e talvolta scostante, fiera del proprio lavoro in una
città non facile come Napoli (insegna italiano a studenti-lavoratori), passa vari mesi sospesa in uno strano limbo, strappata alla
sua routine, immersa nelle luci artificiali e nel gergo dei medici, costretta a reggere l’urto di un’angoscia senza rimedio insieme a persone cui nulla la unisce se non quella condizione assurda. Anche se proprio in questi mesi di “vuoto” scoprirà tempi e
modi e rapporti personali di una ricchezza e una varietà mai
sospettata prima. Tratto dal bel romanzo di Valeria Parrella
(Einaudi), Lo spazio bianco di Francesca Comencini poteva
cadere nel sociologico o nel dimostrativo. Invece una regia
attentissima e inventiva, il montaggio che accelera e rallenta,
sottolinea e nasconde creando continuamente pieni e vuoti, una
Margherita Buy indurita e molto efficace, come tutto il cast, ci
danno un quadro fedele, palpitante e come in soggettiva della
“società liquida” in cui viviamo e di quell’incrinatura forse irrimediabile nei rapporti fra i sessi che è fra i dati più vistosi dei
nostri anni. Con episodi allarmanti (l’irruzione della polizia in
sala parto per rianimare a forza un feto abortito oltre i termini di
legge) e impennate poetiche (la seduta di musicoterapia, con
quelle puerpere così diverse riunite in una specie di danza) che
allargano il campo e danno a ogni cosa un peso e un rilievo speciali. Come se il punto di vista femminile non coincidesse solo
con la maternità ma con una visione più acuta e dolorosa dei
torti, delle disparità sociali, della segregazione in agguato dietro
un gesto, un’abitudine, una frase. E a forza di esporsi e andare
verso gli altri, Maria/Margherita Buy si imbattesse in un’altra se
stessa. Scrutata dalla Comencini con lo sguardo complice e
insieme intransigente che si riserva alle compagne o alle sorelle. Sullo sfondo di una Napoli quasi astratta che è uno dei dati
più significativi di un film forte, azzardato, personale, da vedere e rivedere.
La Stampa - Lietta Tornabuoni
Margherita Buy è bravissima, degna di ogni premio (ma la giuria dell’ultima Mostra di Venezia ha deciso diversamente) nella
parte d’una insegnante quarantenne senza marito né compagno
la cui bambina nasce prematuramente e resta a lungo nell’incubatrice. Tutto il film tratto dal romanzo di Valeria Parrella
(Einaudi) è un dialogo muto tra la piccola e la madre che la
guarda all’ospedale immersa in una specie di atonia, finché non
capisce che per dedicarsi alla figlia deve accettare il mondo, tor-
Il Giornale - Cinzia Romani
Maria è una quarantenne singola e liberata, che insegna a Napoli.
Conosce un ragazzo padre, rimane incinta e diventa ragazzamadre. Però la sua piccola nasce al sesto mese: che guaio l’incubatrice, le mamme tristi all’ospedale, l’attesa. Non resta che isolarsi, pensa Maria, restando in compagnia della propria solitudine. Ma nessuno è un’isola, si sa, e lo «spazio bianco» del titolo
diventerà rosa. Irene presto uscirà dall’incubatrice, la Buy
abbandonerà il suo ruolo di nevrotica, cui ci ha abituati.
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SOUL KITCHEN di Fatih Akin
20-21 maggio 2010
(Amburgo, 25 agosto 1973). Figlio di genitori turchi emigrati in Germania negli anni sessanta, Fatih Akin nel 1994 inizia il suo percorso di studi in comunicazione visiva al Hochschule für bildende Künste di Amburgo. Sempre nel 1994 nasce anche la sua collaborazione
con la Wueste Filmproduktion, la società di produzione che sarà al suo fianco nella realizzazione di alcuni dei suoi film.Nel 1995 scrive
e dirige il suo primo cortometraggio Sensin – Du Bist Es! per il quale riceve il premio del pubblico all’Internationale Kurzfilm Festival
Hamburg, seguito nel 1996 dal suo secondo cortometraggio Getuerkt. Kurz Und Schmerzlos, realizzato nel 1998, è il suo primo lungometraggio come regista che lo porta a vincere, nello stesso anno, il Leopardo di Bonzo al festival di Locarno e il Pierrot come miglior
giovane regista al Bayerische Filmpreis di Monaco. In seguito ha diretto Im Juli nel 2000, Wir Haben Vergessen Zurueckzukehren nel
2001 e Solino nel 2002, fino ad arrivare alla realizzazione di La sposa turca che nel 2004 ha vinto l’Orso d’oro al festival di Berlino e
due premi agli European Film Awards. La sua produzione di regista continua, sempre nel 2004, con la partecipazione al film collettivo
Europäische Visionen con il segmento Die bösen alten Lieder, e con la realizzazione di Crossing the Bridge - The Sound of Istanbul.Nel
2006 gira Ai confini del paradiso, premiato a Cannes con la Palma d’oro per la sceneggiatura.
Interpreti: Adam Bousdoukos, Moritz Bleibtreu, Birol Ünel, Wotan Wilke Möhring, Jan Fedder, Peter Lohmeyer, Dorka Gryllus, Lukas
Gregorowicz, Catrin Striebeck
Genere: Commedia
Origine: Germania
Sceneggiatura: Fatih Akin
Fotografia: Rainer Klausmann
Montaggio: Andrew Bird
Durata: 99’
Produzione: Corazón International
Distribuzione: BIM Distribuzione
SOGGETTO: Il giovane Zinos, proprietario di un ristorante, non naviga in buone acque. La fidanzata, Nadine, si è trasferita a Shanghai, i
clienti del suo “Soul Kitchen” stanno boicottando la cucina del nuovo cuoco e Zinos soffre anche di mal di schiena. Per il locale, le cose iniziano a girare nel verso giusto quando l’innovativo stile culinario comincia a venire apprezzato da un pubblico alla moda, Zinos, invece,
continua a soffrire per amore. Decide quindi di andare a trovare Nadine in Cina, lasciando il ristorante in mano all’inaffidabile fratello Illias,
ex-detenuto. Entrambe le decisioni si rivelano però un disastro: Illias perde al gioco il ristorante che finisce in mano a un losco agente immobiliare e Nadine ha ora un altro compagno.
VALUTAZIONE: Soul Kitchen, del giovane regista tedesco Fatih Akin è stato il film più divertente, sorprendente e allegro del 66 Festival
del cinema di Venezia. Qual’è il segreto di questa rinfrescante sorpresa? Sicuramente l’approccio entusiasta e coinvolgente alla regia del giovane Fatih Akin, già vincitore dell’Orso d’oro a Berlino nel 2004 con “La sposa turca” e qui al suo esordio con la commedia “pura”.Questa
pellicola ruota intorno a un ristorante di Amburgo che si chiama, per l’appunto, Soul Kitchen. Nessuna sorpresa dunque che il gestore di un
locale da questo nome così evocativo sia una ragazzone capelluto dotato di un’incredibile somiglianza con Jim Morrison.Assieme a lui troviamo un fratello detenuto in semi-libertà e tanti altri personaggi coloratissimi che si muovono in questo ambiente che sembra attrarre sfortuna, disavventure e una certa dose di psichedelia. Uno dei protagonisti è uno straordinario chef, completamente folle e animato dalla visionaria missione di rendere il mondo migliore attraverso il gusto, a qualunque prezzo questo sia necessario, anche minacciando il proprietario
a colpi di coltello se necessario.Con così tanti personaggi, ciascuno animato da una propria motivazione, Soul Kitchen presenta una sceneggiatura di straordinaria complessità, ricca di snodi narrativi e di colpi di scena, di situazioni comiche che vanno dal leggero al grottesco
più spinto. Il lieto fine, davvero liberatorio, è peraltro molto delicato, appena tratteggiato nel presentare quello che non deve essere un necessario “e vissero felici e contenti” ma semplicemente una possibilità di felicità, un atto di fede nella speranza.Il pregio principale di Soul
Kitchen risiede principalmente nei ritmi serrati, in una regia tagliente e in umorismo che non teme di presentare anche gli eccessi in un’aura di normalità, rendendo la comicità di questi momenti ancora più straniante.
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Il Messaggero - Fabio Ferzetti
La prima grande commedia romantica del nuovo millennio l’ha
diretta un turco di Amburgo, è ambientata in un ristorante di quelli che servono robaccia a clienti affezionati (alla robaccia, non al
locale), ha un protagonista sovrappeso con l’ernia del disco e una
colonna sonora meravigliosa che mescola funky e rythm & blues
con hip hop, “rebetiko” greco e naturalmente una canzone di Hans
Albers, «uno dei più grandi e popolari attori-cantanti tedeschi
degli anni ‘30 e ‘40» giurano le note stampa, e se lo dicono loro
dev’essere vero. Anche se in quegli anni la vita non era facile in
Germania, ma non buttiamo il bambino con l’acqua sporca, ovvero non priviamoci di un grande cantante solo perché è vissuto nel
momento sbagliato...Come avrete capito è anche una commedia
svitata perché oggi bisogna essere un po’ tocchi per essere romantici e in Soul Kitchen di Fatih Akin, l’applauso più lungo e più
caloroso della Mostra, ognuno è così matto da voler fare solo quel
che gli piace. Così alla fine vincono i buoni, i cattivi vengono puniti e questi losers degni di un film di Kaurismaki hanno finalmente
diritto alla leggerezza e al buonumore di un musical con Fred
Astaire. Non avete afferrato la storia? Meglio così, ve la godrete al
cinema. Diciamo solo che il protagonista sovrappeso, il greco
Zinos (l’adorabile Adam Bousdukos, il candore fatto persona), ha
una fidanzata upper class che se ne va a lavorare in Cina lasciandogli come unico ricordo un videotelefono Skype, un fratello
avanzo di galera ma dal cuore grande così (Moritz Bleibtreu), un
ex-compagno di scuola deciso a soffiargli il locale per farne un
lucroso investimento immobiliare. E che fra un contrattempo e
l’altro, ce ne sono moltissimi, nel locale di Zinos si mangia, prima
malissimo e poi divinamente, si canta, si suona, si fa l’amore
anche in piedi, il tutto mentre l’ernia avanza, il fisco incalza e il
nuovo cuoco dà il meglio di sé. Autore e produttori dicono che
Soul Kitchen è un moderno “Heimat film”, ovvero un film sull’idea di patria, dunque, modernamente, di comunità, di famiglia, di
appartenenza. Che è veramente il massimo per un film girato e
diretto da figli e nipoti di immigrati.
che un turco e un greco facciano comunella in Germania per regalarci un film così bello: ad Atene e ad Ankara qualcuno dovrebbe
prender nota. Nel film, Adam è Zinos Kazantsakis, gestore di una
bettola a Amburgo. Abituato a cavarsela con i surgelati, Zinos
cambia vita quando conosce Shayn, chef raffinatissimo licenziato
da un ristorante di lusso perché si è rifiutato (e meno male!) di
scaldare un gazpacho per un cliente bifolco. Grazie a lui, il Soul
Kitchen di Adam diventa alla moda, e intorno ad esso si snodano
le vite di svariati casi umani. C’è Ilias, il fratello di Zinos che entra
ed esce di galera; c’è Neumann, un agente immobiliare senza scrupoli; c’è Lucia, la cameriera sexy di cui Ilias si innamora; e NON
c’è Nadine, la fidanzata di Zinos partita per Shanghai. Fra amori
che nascono e finiscono, soldi che non bastano mai, imbrogli e
pignoramenti, Zinos e Ilias si battono come leoni per far funzionare il Soul Kitchen e tener vivi i propri sogni.
My Movies - Edoardo Becattini
Ad Amburgo, un cuoco di origine greca, Zinos, gestisce un infimo
ristorante denominato Soul Kitchen. La clientela abituale sono i
rozzi abitanti della periferia. Dentro e fuori dal Soul Kitchen ruota
tutto il microuniverso di Zinos e relativi problemi: l’ambiziosa e
viziata fidanzata Nadine è una giornalista rampante in partenza per
la Cina, il fratello Illias un ladruncolo in libertà vigilata con il vizio
del gioco, la cameriera Lucia è aspirante artista che vive in un
appartamento occupato abusivamente e un vecchio compagno di
scuola, Neumann, è disposto a tutto pur di comprare il locale e rilevarne il terreno. Un’ernia al disco improvvisa impone a Zinos
delle sedute di fisioterapia e gli inibisce l’uso cucina, così che
viene assunto un nuovo cuoco esperto di haute cuisine che, dopo
uno scetticismo iniziale, trasforma il ristorante in un locale molto
in voga capace di offrire buon cibo e musica soul. Fatih Akin è un
abile deejay del mondo del cinema, un giovane autore che ha saputo costruire un suo linguaggio melodico a partire da un’antologia
di stili della New Hollywood di Scorsese, Schlesinger e Bob
Rafelson. Questa eredità del cinema americano moderno, con la
quale aveva finora raccontato i margini di una società multiculturale in pieno dissidio, pervade anche nell’atmosfera conviviale e
disinvolta di Soul Kitchen. Cimentandosi con una vera commedia
edificante, il giovane regista turco-tedesco mette da parte il tema
del viaggio e delega il percorso di emancipazione sociale e di
ricerca delle origini, alla musica e all’elogio dell’edonismo.Akin
pone attenzione ai corpi e ai loro bisogni primari: dal cibo al sesso,
dall’alcool alla danza (passando per il mal di schiena), così che i
suoi personaggi, liberati dalla necessità di affrancarsi dal proprio
retaggio culturale, agiscono nel nome di un puro principio di piacere. Allo stesso modo, punta all’occhio e al ventre dello spettatore: costruisce il suo film come un piatto sofisticato di nouvelle cuisine, o meglio, come una playlist di musica accattivante, facendo
molta attenzione a creare mediante una serie di gag fisiche una
sinergia fra movimenti dei personaggi, movimenti di macchina e
ritmo dei brani della colonna sonora. È una strategia molto furba e
molto ricercata, elaborata da un regista che ha già compreso le tendenze del nuovo cinema della post-globalizzazione (vedi The
Millionaire): le storie che intrecciano società multietniche, una
regia dinamica, buona musica e un lieto fine sono destinate a vendere (e incassare) in tutto il mondo.
L’Unità - Alberto Crespi
L’unico rischio, con Soul Kitchen, è di rivederlo fra qualche mese
e non divertirsi più. Ci spieghiamo: una commedia, soprattutto
quando arriva dopo 9 giorni di sangue sudore & lacrime, ha un
effetto liberatorio all’interno di un festival. Inoltre, all’uscita in
Italia (distribuisce la Bim), il film sarà doppiato, e qualcosa perderà. Ma siamo fiduciosi: bello è, Soul Kitchen, e bello dovrebbe
rimanere. Soprattutto perché non è un film di battute, ma è costruito su una prodigiosa sceneggiatura ad orologeria dove ogni dettaglio è buffo e indispensabile. Turco di Amburgo, classe 1973, Fatih
Akin è un bravo regista, ma soprattutto è uno dei migliori sceneggiatori del mondo. L’aveva dimostrato con La sposa turca (Orso
d’oro a Berlino) e Ai confini del paradiso. Lo conferma con Soul
Kitchen, la prova più ardua: perché scrivere bene una commedia è
arte sopraffina, nella quale persino i massimi maestri spesso falliscono. Va subito detto che il merito di Soul Kitchen va ripartito al
50% con Adam Bousdoukos, co-sceneggiatore e attore protagonista: greco di Amburgo, classe 1974, è lui a dare al film il sapore
etnico, e usiamo la parola «sapore » perché la cucina e la ristorazione giocano un ruolo decisivo. Per inciso: ci sembra stupendo
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TRA LE NUVOLE - UP IN THE AIR
di Jason Reitman
27-28 maggio 2010
Figlio del regista Ivan Reitman, Jason Reitman esordisce dietro alla macchina da presa nel 2005 con la commedia “politicamente
scorretta” Thank You For Smoking, che ottiene un buon riscontro da parte di pubblico e critica e lo porta alla ribalta come uno dei
registi più interessanti della sua generazione. Nel 2007 dirige il suo secondo lungometraggio, Juno, che diventa subito un successo
al botteghino. Il film vince il premio come miglior film al Festival del Cinema di Roma, e fa ottenere a Reitman la sua prima nomination come miglior regista agli Oscar 2008.
Interpreti: George Clooney, Vera Farmiga, Anna Kendrick, Jason Bateman, Danny McBride, Melanie Lynskey, James Anthony, Steve
Eastin, Tamala Jones, Dave Engfer
Genere: Commedia drammatico
Origine: U.S.A.
Soggetto: tratto dall’omonimo romanzo di Walter Kirn
Sceneggiatura: Jason Reitman , Sheldon Turner
Fotografia: Eric Steelberg
Musica: Rolfe Kent
Montaggio: Dana E. Glauberman
Durata: 108’
Produzione: Cold Spring Pictures, DW Studios, Paramount Pictures, Right of Way Films
Distribuzione: Universal Pictures International Italy
SOGGETTO: Ryan Bingham è un “tagliatore di teste” aziendale perennemente in viaggio. Allergico ai legami – compresi quelli della
sua famiglia – ritiene che tutto ciò di cui ha bisogno entra perfettamente in una valigia a rotelle. Durante uno dei suoi tanti spostamenti
incontra Alex, un’altra avvenente girovaga per professione, con la quale inizia una relazione che potrebbe fargli cambiare idea sui rapporti a due. Intanto il suo capo gli affianca Natalie, una giovane “ottimizzatrice” alla quale dovrà insegnare i segreti del mestiere. Una
serie di cambiamenti che faranno riflettere Ryan sul significato che realmente vuole dare alla sua vita.
VALUTAZIONE: Non si poggiano mai i piedi a terra nel nuovo film di Jason Reitman. Si resta sempre up in the air, appunto, a miglia
di distanza dal mondo reale, lì dove solitamente la mente vaga per costruire mondi fantastici attraverso i quali evadere dalla routine e
dallo squallore della realtà, Bingham costruisce un’isola che non c’è ancor più alienante e priva di sogni. Un Peter Pan in viaggio 322
giorni l’anno (con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole, come direbbe Flaiano) che non concepisce e non vuole concepire nulla al
di fuori di ciò che entra comodamente nel suo bagaglio a mano. Non esistono legami o affetti che non siano mono porzione. Una vita,
senza impegni e senza responsabilità che improvvisamente, però, viene messa a rischio dall’arrivo di Natalie, giovane collega di lavoro che, per abbattere le inutili spese sostenute dalla propria azienda, inventa e mette a punto un sistema di licenziamento tramite videoconferenza. Il tutto Reitman lo racconta in maniera estremamente leggera e intelligente, esasperando cliché e luoghi comuni della nostra
quotidianità, mettendoli al servizio di un cast tecnico e artistico veramente eccezionali. I primi piani di George Clooney non sono mai
banali e spesso i silenzi, gli ammiccamenti e le leggere smorfie del suo viso aggiungono valore ed intensità alle brillantissime battute
dello script. Il montaggio serrato, le rapidissime inquadrature geometriche, i dettagli, i particolari minuziosamente curati, una colonna
sonora piacevole e sempre al servizio delle immagini, fanno ormai parte dell’inconfondibile stile di regia del trentaduenne regista di
Montreal. Stile del tutto personale che in questo film ancor più che in Juno e Thank You For Smoking riesce a far collimare riso e riflessione, senza mai scadere in facili soluzioni e riuscendo a tenere le fila del discorso per tutta la durata della pellicola. Un film che sicuramente non parla di un argomento nuovo o originale (Eugenio Cappuccio aveva affrontato un argomento simile in Volevo solo dormirle addosso), ma che utilizza ogni riga della propria sceneggiatura in maniera totalmente sentita ed ispirata.
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La Stampa – Lietta Tornabuoni
Hai un protagonista quasi odioso? Fallo recitare dall’attore più
affascinante, da quel nuovo Cary Grant che è l’adorato George
Clooney. E Tra le nuvole-Up in the Air diventa una commedia
riuscita, intelligente, divertente, attuale, applauditissima al festival
di Roma. E non è la sola vera idea del film diretto da Jason
Reitman (Juno) e tratto dal romanzo di Walter Kirn, storia di un
uomo che di mestiere licenzia gli altri e che pensa di non aver bisogno di nessuno e di nulla, neppure di affetti o d’una casa. Il «tagliatore di teste» viaggia 300 giorni l’anno, licenziando in ogni città
degli Stati Uniti. Ama viaggiare, ama gli aeroporti e tutto ciò che
li popola (vetro, metallo, desk, edicole, ristoranti, alberghi globalizzati, ovunque sempre uguali), ne ama gli incontri fugaci e i
benefit. Ama il suo straziante mestiere: le aziende preferiscono
affidare il compito di licenziare (esercizio frequentissimo in tempo
di crisi) a estranei che non conoscono nessuno, ma lui è fiero di
farlo bene, con eloquenza e umanità. Finché anche il suo lavoro è
insidiato per la proposta di una ragazza «ottimizzatrice»: licenziare in videoconferenza, per risparmiare spese di viaggio; e la sua
solitudine privata vacilla nell’incontro con una giovane donna. I
cambiamenti mutano i personaggi. Clooney è meraviglioso, Vera
Farmiga e Anna Kendrick sono brave. Il regista Reitman è autore
con Sheldon Turner di una sceneggiatura scritta benissimo, scintillante di battute non soltanto brillanti. Idee: trascendere i generi,
realizzare una commedia seria che accosta fatti drammatici a situazioni comiche; le sequenze veloci e perfette di preparazione dell’unico bagaglio a mano e dei passaggi al metal detector, che restituiscono la familiarità e l’appagamento del viaggiatore. E aver
fatto interpretare i licenziati non da attori ma da persone comuni
che davvero hanno perduto il lavoro: «Autentici, realistici disoccupati di Detroite St. Louis», dice il regista: «Bravissimi». Sfido.
sato. Perché la vita è un po’ più complicata di quello che vorrebbe
la troppo determinata Natalie ma non può nemmeno ridursi a una
gara tra chi raccoglie più bonus per «frequent flyers».
Movieplayer.It – Luciana Morelli
Un altro anti-eroe, un altro personaggio provocatorio, un’altra storia avvincente e ricca di umanità per Jason Reitman, che già con il
bellissimo Juno e con Thank You For Smoking ci aveva regalato
due realtà diverse ma unite nella particolarità di non esser per forza
positive e ottimiste, e di voler sfidare in ogni momento le aspettative dello spettatore medio. Liberamente tratta dall’omonimo
romanzo di Walter Kirn, Tra le nuvole è una commedia dolceamara che affronta temi di grande importanza e di grande valore in
special modo di questi tempi, tempi interconnessi e iperglobalizzati in cui ci si illude che basti costruire lo stesso aeroporto con gli
stessi negozi in ogni città del mondo per riuscire a far sentire le
persone a casa. In realtà negli aeroporti, come ovunque, ognuno di
noi vive per conto suo, legge, ascolta musica in cuffia e ha smesso di parlare e di sorridere a chi gli passa a fianco o chi gli sta seduto di fronte. L’unica ancora di salvezza in un mondo divenuto così
arido e freddo sono gli affetti, la famiglia, gli amici, persone che
ami e che vuoi ti circondino in ogni istante della tua giornata per
tutta la vita. Su questo si è concentrato Reitman durante l’adattamento del romanzo, sfruttando l’onda emozionale di grande cambiamento che in quel periodo investiva la sua vita e la sua routine
quotidiana con il matrimonio e la paternità. Si respira in ogni
inquadratura questo suo cambiamento rispetto ai film precedenti
sebbene sia rimasta intatta la sua capacità di umanizzare e rendere
amabili anche personaggi che di positivo e di umano sembrano
avere poco. Diversi i cambiamenti che Reitman ha voluto apportare alla storia originale e molte anche le sfumature che ha voluto
realizzare, aggiungendo personaggi e situazioni al limite del surreale che riescono a mantenersi sempre saldamente aggrappati
all’assurda realtà del mondo di oggi. La crisi economica mondiale che ha scatenato il fallimento di migliaia di società in tutto il
mondo ha poi dato al cineasta figlio d’arte (uno dei pochi che non
lo è solo di nome ma anche di fatto) la spinta necessaria a far
decollare (mai verbo fu più azzeccato...) la realizzazione di questo
piccolo grande film ambientato più Tra le nuvole che sulla terraferma. Missione compiuta anche stavolta per Reitman, che è
riuscito a realizzare (nel senso stretto del termine) una storia estrema sfruttando pienamente il potenziale emotivo contenuto nei personaggi e il talento attoriale di un George Clooney in stato di grazia, presente dalla prima all’ultima inquadratura, capace di restituire un’incarnazione perfetta e senza sbavature di Ryan Bingham.
Il finale non proprio lieto contribuisce poi a rafforzare il significato dell’intera opera e ad umanizzare personaggi che sembrano
sempre senza speranza, senza via d’uscita e pronti ad implodere.
Reitman sembra ormai aver trovato la sua strada e confermare la
sua predilezione per la narrazione di storie fuori dai canoni che
quando meno ce lo si aspetta prendono pieghe e curve a dir poco
imprevedibili. La sua scrittura arguta e mai superficiale, i dialoghi
ritmati, veloci e pieni di sarcasmo pungente contribuiscono poi a
donare al film e ai suoi personaggi quel pizzico di delicata negatività che è un po’ in tutti noi. Comunque la si pensi su certi argomenti è un dato di fatto che la vita a due sia più bella e spesso
anche più facile.
Il Corriere della Sera - Paolo Mereghetti
Jason Reitman porta il sorriso dentro il concorso di Roma sfruttando al meglio l’ alchimia perfetta tra un attore spontaneamente
simpatico come Clooney, un’ ambientazione duramente realista (la
crisi dell’ economia con i licenziamenti che comporta) e un tema
per niente rassicurante come la solitudine delle persone. E così ho
già detto una delle qualità del film, la sua capacità di parlare dell’
oggi senza edulcorare la realtà, riducendo tutto a commediola, ma
anche senza dover fare prediche o fervorini. Specialista nel tagliare le teste di società in crisi, il protagonista Ryan Bingham teorizza la solitudine come condizione esistenziale e sembra felice raccogliendo miglia e bonus vari che ottiene dal suo essere eternamente in volo per gli Stati Uniti (ecco la ragione del titolo: Tra le
nuvole). Almeno fino al giorno in cui deve affrontare una doppia
sfida femminile: quella di Natalie (Anne Kendrick) che teorizza la
possibilità di licenziare in videoconferenza (costringendo Ryan a
eliminare i suoi amati viaggi) e quella di Alex (Vera Formiga) con
cui inizia una relazione - quando gli impegni di entrambi lo permettono - che finisce per incrinare le scelte da scapolo del protagonista. Ci penserà poi la realtà a mettere in discussione quelle che
ognuno considera le proprie certezze, compreso quell’ «elogio»
del calore familiare che sembrava trionfare nel precedente film del
regista (Juno) e che invece si rivela una specie di arma a doppio
taglio. Ribaltando quell’ immagine di regista «pro-life» con cui
qualcuno troppo affrettatamente aveva voluto incasellarlo in pas-
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IL CONCERTO di Radu Mihaileanu
3-4 giugno 2010
Radu Mihaileanu è nato a Bucarest, nel 1958, in una famiglia ebrea in cui si parlava lo yidddish. Suo padre, Mordechaï Buchman, è un
giornalista comunista. Al ritorno dai campi di lavoro nazisti, cambierà il suo nome in Ion Mihaileanu, dandogli una inequivocabile consonanza rumena. Sotto questo nuovo nome scrive la storia di due giovani partigiani che hanno combattuto il regime fascista nella
Romania del 1940, la sceneggiatura di Domenica alle 6, primo lungometraggio di un altro rumeno esiliato in Francia, Lucian Pintilie.
Nel 1980, Radu Mihaileanu fugge anche lui dal suo Paese piegato al dittatore Ceaucescu. Il giovane Mihailehanu, che contemporaneamente recita in una compagnia teatrale, è autore e regista, prepara già a Bucarest il suo ingresso all’IDHEC (Institut Des Hautes Etudes
Cinématographiques) di Parigi. Arriva infatti in Francia passando da Israele. Assistente alla regia di Marco Ferreri (I love you ,1986 e
Come sono buoni i bianchi, 1988), scrive assieme al regista italiano la sceneggiatura di un film prodotto per la tv (Il banchetto di Platone,
1988). In seguito lavora a fianco di Jean-Pierre Mocky (Les saisons du plaisir, 1988), Fernando Trueba (Il sogno della scimmia pazza,
1990), Nicole Garcia (Un week-end su due, 1990) e Edouard Niermans (Il ritorno di Casanova, 1992). Fino alla sceneggiatura e alla realizzazione di Trahir nel 1993. Nel 1998 Train de vie, il suo secondo lungometraggio, lo fa salire alla ribalta internationale (nomination
agli oscar nelle categorie miglior sceneggiatura e miglior attore, premio Fipresci a Venezia, premio del pubblico al Sundance, David di
Donatello per il miglior film straniero)
Interpreti: Alexei Guskov (Andrei Filipov), Dmitry Nazarov (Sacha), Melanie Laurent (Anne-Marie Jacquet), Francois Berleand (Olivier
Morne Duplessis)
Genere: Storico
Origine: Belgio, Francia, Italia, Romania
Soggetto Hector Cabello Reyes, Thierry Degrandi
Sceneggiatura: Radu Mihaileanu in collaborazione con Alan Michel Blanc, Matthew Robbins
Fotografia: Laurent Dailland
Montaggio: Ludovic Troch
Durata: 120’
Produzione: Oï Oï Oï Productions – Les Productions du Tresor – France 3 Cinema – Europacorp – Castel Films – Panache Productions –
RTBF – BIM Distribuzione
Distribuzione: Bim
SOGGETTO: All’epoca di Breznev, durante il regime comunista, Andrei Filipov , il più famoso direttore d’orchestra del Bolshoi di Mosca,
viene licenziato per essersi rifiutato di mandare via dal suo gruppo i musicisti ebrei, tra cui il miglior amico Sacha. Venticinque anni dopo
ritroviamo Andrei alcolizzato e ridotto a custode del Bolshoi, costretto ad aiutare la moglie a organizzare delle finte iniziative per ricordare
le glorie dell’ex-partito comunista. Una sera, trova nell’ufficio del direttore un fax indirizzato alla direzione del Bolshoi: è del Theatre du
Chatelet che invita l’orchestra ufficiale a suonare a Parigi. A questo punto Andrei decide di riunire un improvvisato quanto improbabile gruppo di musicisti insieme ai suoi vecchi amici, spacciandoli per l’orchestra del Bolshoi. È l’occasione per prendersi una rivalsa, e soprattutto
di suonare ‘Il concerto’ di Cajkovskij insieme alla celebre violinista Anne-Marie Jacquet.
VALUTAZIONE: “Le Concert” è un vero e proprio gioiello: lo spettatore si innamora delle piccole peculiarità di tutti i personaggi, che si
inseriscono in una pellicola corale fatta di circostanze incredibili e spassose. È una corsa contro il tempo e contro le avversità affinché l’orchestra suoni insieme ancora una volta, e ci si trova a fare il tifo per i musicisti fino al toccante finale. “I miei personaggi sono tipicamente
russi, chiassosi e pieni di vita, che giungono in una Parigi “addormentata”, “un incontro tra Oriente e Occidente” spiega Mihaileanu in conferenza. “Realizzare ‘Le Concert’ ha richiesto una documentazione di tre settimane a Mosca, volevamo essere quanto più fedeli possibile alla
loro realtà quotidiana. Temevo che i russi non avrebbero gradito, ma dopo la proiezione in molti mi hanno detto di essersi commossi”. Radu
Mihaileanu è un regista che spesso si confronta con la Storia e con le sue origini ebraiche. Come aveva già dichiarato in passato, ribadisce che
l’arma migliore contro i dolorosi episodi della Shoa è l’ironia: “Se Hitler fosse ancora vivo e vedesse i documentari in cui vengono mostrate
le tragedie dei campi di sterminio, se ne rallegrerebbe. L’ironia è l’unico modo per gridare che, dopo tutto, noi siamo ancora vivi”.
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Le Monde - Jean-Luc Douin (trad. Alessandro Jannetti)
All’epoca di Leonida Breznev, lo stimato direttore d’orchestra del
Bolshoi viene licenziato per aver rifiutato di separarsi dai suoi
musicisti ebrei. Trenta anni dopo, diventato addetto alle pulizie,
intercetta per caso un fax del Théâtre du Châtelet che invita l’orchestra ufficiale del Bolshoi ad esibirsi a Parigi. Immagina allora
una frode: farsi passare per il Bolshoi riunendo i suoi musicisti e
andando a suonare il concerto per violino ed orchestra di
Cajkovskij, opera che cercò sempre di interpretare alla perfezione
fino a quando la politica totalitaria di Brezniev non lo impedì.
Essendo la violinista con la quale affina l’opera di Cajkovskij
morta, per rimpiazzarla richiede una virtuosa francese. Questa
rivincita di un artista umiliato e messo al bando dalla società, dà
luogo a tre episodi. I primi due sono a tinte burlesche. Mostrano
un attivismo sfrenato del direttore d’orchestra e del suo manager
per convicere i “vecchi” a riprendere i loro strumenti, il reclutamento di semi barboni e zingari, l’utilizzo di furbezze, loschi traffici e bassezza per ottenere vestiti, scarpe, passaporti, visti. Poi lo
sbarco di questa “tribù” eteroclita nella ville Lumière con la sua
indisciplina e i suoi costumi barbari de l’Est in un paese civilizzato! Il parlar francese di questi moscoviti in vacanza concorre alla
strampalatezza della situazione. Iscritto sotto il registro del lirismo
e dell’emozione, il terzo episodio descrive il concerto con una tripla suspence. L’orchestra “fasulla” potrà suonare il Concerto in
barba del direttore del Bolshoi che, sfortunata coincidenza, è andato a passare qualche giorno di vacanza a Parigi ed ha scoperto le
locandine del concerto davanti al teatro di Châtelet? I contadini,
facendosi passare per i musicisti ufficiali, arriveranno a trovare
l’armonia con una solista che non conoscono? Chi è questa violinista star, ossessionata dalla carriera e trascinata da una ferita di
orfana che nulla sa dei suoi genitori? Talvolta pressante, spinto da
una energia tipicamente slava, l’epopea trova la sua vera ragion
d’essere artistica, in quest’ultimo quarto d’ora dove tutti i nodi dell’intrigo verranno al pettine e sublima questa gloriosa idea dell’
“armonia ultima” illustrando l’istante magico dove il violino trascina l’orchestra, dove l’individuo ed il collettivo si fondono in
uno. In filigrana ritroviamo l’idea forte del cinema di Radu
Mihaileanu, figlio di un ebreo rumeno che ha dovuto cambiare il
nome per sopravvivere: quello di farsi passare per quello che non
siamo alfine di imporre la propria identità. Train de vie, il suo
primo film, descriveva le peripezie di un gruppo di ebrei che creano un falso treno di deportati per scappare ai nazisti. Vai e vivrai
mostrava un truffatore, un ragazzo etiope rifugiato in Sudan, che
sua madre faceva passare da ebreo per farlo beneficiare dell’operazione Mosè attraverso la quale 8.000 falasha furono trasferiti in
Israele. In un’epoca di individualismo a tutti i livelli, Mihaileanu
coniuga in questo film la sua ossessione per la menzogna liberatrice con una riflessione sulla bellezza della lotta sociale.
me li aveva interrotti, accordando finalmente presente e passato.
Con Train de vie Radu Mihaileanu “addolcì” la Shoa, circondandola di un’aura pienamente fantastica e organizzando una finta
“autodeportazione” per evitare quella reale dei nazisti. Il suo treno
carico di ebrei fintamente deportati ed ebrei fintamente nazisti
riusciva a varcare come in una favola il confine con la Russia. Ed
è esattamente nella terra che prometteva uguaglianza, salvezza e
integrazione, che “ritroviamo” gli ebrei di Mihaileanu, musicisti
usurpati del palcoscenico e della musica a causa della loro ebraicità. È un film importante Il concerto perché racconta una storia
ancora oggi sconosciuta, la condizione esistenziale degli ebrei che
vissero per quarant’anni nel totalitarismo. Andreï Filipov e i suoi
orchestrali sono idealmente prossimi agli artisti che durante il regime di Breznev si macchiarono dell’onta infamante del dissenso e
furono cacciati dal paese o dai luoghi dove esercitavano la loro
arte con l’accusa di aver commesso atti antisovietici. Costretti a
vivere (e a morire) nei campi di lavoro della dittatura brezneviana
o additati di fronte al mondo e al loro Paese come parassiti sociali, i protagonisti del film riposero gli strumenti per trent’anni e
ripiegarono su esistenze dimesse e mestieri svariati: facchini, commessi, uomini delle pulizie, conducenti di autoambulanza, doppiatori di hard movie. Il regista rumeno li sorprende in quella vita
(ri)arrangiata e offre loro l’occasione del riscatto artistico e della
reintegrazione nel loro ruolo. Come Gorbaciov, Mihaileanu restituisce alla Russia un patrimonio umano e intellettuale, concretato
nel Concerto per Violino e Orchestra di Cajkovskij, diretto da
Filipov nell’epilogo e metafora evidente della relazione tra il singolo e la collettività. Positivo del negativo Wilhelm Furtwängler,
celebre direttore della Filarmonica di Berlino convocato di fronte
al Comitato Americano per la Denazificazione, l’Andreï Filipov di
Alexeï Guskov è un fool, un’anima gentile dotata come lo Shlomo
di Train de vie di un talento per l’arte della narrazione e della finzione, che conferma la predilezione del regista per l’impostura a
fin di bene e contro la grandezza del Male. Ancora una volta è la
musica ad accordare gli uomini. In un’amichevole gara musicale
tra due etnie perseguitate (ebrei e gitani) o nella forma del
Concerto per Violino e Orchestra, due sezioni che formano un’irrinunciabile unità emozionale.
Cinecircolo Romano – Catello Masullo
L’idea di base è pazzesca, quanto geniale: un grandissimo musicista russo, per aver osato difendere i propri colleghi ebrei , viene
umiliato dal regime comunista che lo ha declassato da direttore
dell’orchestra del Bolchoï ad addetto alle pulizie dello stesso teatro. Sottrae un fax che invita la prestigiosa orchestra russa a tenere un concerto a Parigi e ri-organizza la sua vecchia orchestra, che
non suona più da 30 anni, per presentarsi al posto di quella del
Bolchoï. Occasione di una nemesi davvero storica. Radu
Mihaileanu, romeno di nascita, francese di adozione, dopo “Train
de vie” e “Vai e vivrai”, costruisce un altro piccolo gioiello di
grande cinema. Si ride, ci si commuove, ci si emoziona, nel vedere “Il Concerto”. Lo spettatore viene avvolto in una girandola di
trovate esilaranti, a tratti irresistibili. Per poi essere rapito dalle
emozioni della musica passando attraverso la commozione del
melodramma. Il regista, autore anche della solidissima sceneggiatura, riesce a mantenersi in mirabile equilibrio tra le tante facce
della storia. E realizza un capolavoro di “cinema cinema”.
My Movies- Marzia Gandolfi
Andreï Filipov è un direttore d’orchestra deposto dalla politica di
Breznev e derubato della musica e della bacchetta. Un fax indirizzato alla direzione del teatro è destinato a cambiare il corso della
sua esistenza. Impossessatosi illecitamente dell’invito concepisce
il suo riscatto di artista, riunendo i componenti della sua vecchia
orchestra e conducendoli sul palcoscenico francese sotto mentite
spoglie. La loro vita e il loro concerto riprenderà da dove il regi-
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Appuntamenti in Programma
I DIBATTITI A FINE CICLO: sono previsti sette dibattiti, che si terranno alle ore 18.00 dal martedì successivo
alla fine di ciascun ciclo di film, nella saletta conferenze di Via Nomentana, 333/c.
IL CALENDARIO
24 novembre 2009 - Senza speranza la vita non vale la pena di essere vissuta, da MILK
22 dicembre 2009 - La felicità è la tristezza che fa le capriole, da GIULIA NON ESCE LA SERA
2 febbraio 2010 - Ci vuole fegato per riconoscere la disperazione, da REVOLUTIONARY ROAD
2 marzo 2010 - C’è solo una cosa che può fare di noi degli esseri completi e quella cosa è l’amore,
da THE READER - A VOCE ALTA
6 aprile 2010 - Ma tu davvero sei innocente? Si, abbastanza!, da TUTTA COLPA DI GIUDA
4 maggio 2010 - Senza correre pericoli, non possiamo affrontare i pericoli, da IL MIO AMICO ERIC
8 giugno 2010 - Lo ha detto Goethe: i colori sono azioni e passioni della luce, da SOUL KITCHEN
L’ASSEMBLEA ANNUALE DEI SOCI: 9 dicembre 2009 presso la sede di Via Nomentana, 333/c
SETTIMANA CULTURALE: dal 22 al 27 marzo 2010 - ad inviti “Premio Cinema Giovane”, VI edizione; Mostra Concorso di
arti figurative
I FILM PER RAGAZZI: ad inviti - 16 dicembre 2009 e 7 aprile 2010
LA MANIFESTAZIONE DI FINE STAZIONE E PREMIAZIONE CINECORTOROMANO: mercoledì 9 giugno 2010
Altre manifestazioni straordinarie verranno comunicate in anticipo
È in vigore una convenzione tra l’UPTER - Università Popolare di Roma e il Cinecircolo Romano.
Entrambe le organizzazioni hanno interesse a promuovere la cultura cinematografica presso i propri iscritti e più in generale presso la
cittadinanza di Roma e condividono l’impegno a sostenere la promozione reciproca e a sviluppare attività culturali comuni con specifiche forme di collaborazione. Le associazioni hanno convenuto di porre in essere una collaborazione che riguarderà in particolare:
scambio materiali promozionali, eventi, corsi Upter e agevolazioni per le iscrizioni.
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