L`IMMAGINAZIONE IN FERITO A MORTE DI RAFFAELE LA CAPRIA

Transcript

L`IMMAGINAZIONE IN FERITO A MORTE DI RAFFAELE LA CAPRIA
Faculteit Letteren en Wijsbegeerte
Academiejaar 2009-2010
L’IMMAGINAZIONE IN FERITO A MORTE
DI RAFFAELE LA CAPRIA
Masterproef van de opleiding
Master in de Taal- en Letterkunde: Frans-Italiaans
Ingediend door
Jessy Carton
Promotor: Prof. Dr. Sabine Verhulst
2
Faculteit Letteren en Wijsbegeerte
Academiejaar 2009-2010
L’IMMAGINAZIONE IN FERITO A MORTE
DI RAFFAELE LA CAPRIA
Masterproef van de opleiding
Master in de Taal- en Letterkunde: Frans-Italiaans
Ingediend door
Jessy Carton
Promotor: Prof. Dr. Sabine Verhulst
3
Prefazione
Questa tesi è il risultato finale di una ricerca intensiva e talvolta faticosa sul vago, ma
affascinante concetto letterario che si chiama immaginazione. Anzitutto vorrei ringraziare
la mia promotrice, la professoressa Sabine Verhulst, che mi ha suggerito di studiare le
meravigliose opere di Raffaele La Capria e mi ha dato così l’opportunità di tuffarmi nel
mondo napoletano, che a quel punto mi era ancora sconosciuto. Lungo il percorso, lei mi
ha aiutato nell’elaborazione di un punto di vista interessante e innovativo, e mi ha fornito
informazioni utili per la definizione del termine complesso di immaginazione.
Vorrei anche ringraziare i miei genitori, che mi hanno sostenuto – in ogni senso della
parola – durante i quattro anni all’Università di Gand, e i miei amici, che hanno saputo
distrarmi ogni tanto da questa ricerca.
Infine, vorrei aggiungere che sono molto contenta di aver studiato precisamente le opere
lacapriane, che parlano quasi tutte di questa splendida Bella Giornata, giustificando così
la mia ottima scelta di quattro anni fa, cioè la decisione di studiare la bella lingua e la
ricca cultura italiane all’università. Sono insomma felice che questa tesi, anche se si sia
realizzata durante un’ennesima primavera grigia, mi ha allo stesso tempo permesso di
parlare e di sognare di una lontana Bella Giornata italiana.
4
Indice
1. INTRODUZIONE ................................................................................................................. 7
2. L’IMMAGINAZIONE LETTERARIA: UN TENTATIVO DI DEFINIZIONE .............................. 10
2.1. L’immaginazione, tra percezione e ragione ............................................................. 11
2.2. Immaginare, un atto conoscitivo .............................................................................. 13
2.3. Il repertorio dell’immaginario .................................................................................. 18
2.4. Alcuni chiarimenti sul metodo di analisi .................................................................. 20
3. L’IMMAGINE MENTALE DI RAFFAELE LA CAPRIA........................................................ 24
3.1. L’inquinamento e la stagnazione dell’immaginario ................................................. 24
3.2. La funzione cognitiva dell’immaginazione lacapriana ............................................. 28
4. L’IMMAGINAZIONE IN FERITO A MORTE ........................................................................ 35
4.1. Introduzione. L’epigrafe di W.H. Auden ................................................................. 35
4.2. ... un mattino tutto luce in fondo al mare. Le immagini della Bella Giornata .......... 38
4.2.1. La Bella Giornata come promessa di felicità ............................................. 38
4.2.2. La giornata, una misura innata e molto napoletana del tempo ................. 43
4.2.3. Un’immagine immobile e atemporale ........................................................ 46
4.2.4. L’armonia perduta o illusoria? .................................................................. 51
4.3. ... carico di minacciosa alterità. La metafora della Foresta Vergine ....................... 57
4.3.1. L’implosione della Bella Giornata ............................................................. 58
4.3.2. Natura e Storia: un matrimonio difficile .................................................... 61
4.3.3. La fresca stimolante corrente della Storia ................................................. 69
4.3.4. L’effetto immobilizzante della Natura ........................................................ 73
4.4. Conclusione. Il rapporto ambiguo con Napoli.......................................................... 79
4.4.1. Napoli, una città che ti ferisce a morte o t’addormenta? ........................... 80
4.4.2. La presa di distanza da una Napoli eternamente giovane ......................... 82
4.4.3. La buona distanza e il possibile incanto di Napoli .................................... 84
5
5. CONCLUSIONE ................................................................................................................ 88
BIBLIOGRAFIA....................................................................................................................91
FILMOGRAFIA.....................................................................................................................95
6
1. INTRODUZIONE
Che cos’è l’immaginazione letteraria e a che serve? Ecco l’argomento centrale di questa
tesi, che si pone come obiettivo di indagare il meccanismo dell’immaginazione e la sua
funzione cognitiva. Lo scopo è quindi di elaborare una definizione chiara e completa di
questo complesso dispositivo letterario e di determinarne le caratteristiche fondamentali.
In fondo, l’immaginazione, ossia la capacità di formarsi una ‘immagine mentale’, è una
risorsa importante per l’acquisizione di conoscenze. Si presenta giustamente come un atto
creativo «anarchico»1 che, attraverso l’inserimento di punti di vista nuovi e inaspettati,
riesce a spiegare la complessità del reale ed a cogliere l’essenziale di esso. Si è cercato di
chiarire i termini della questione poggiandosi sull’opera di un autore contemporaneo,
Raffaele La Capria, la cui poetica risulta intrisa di riflessioni su questo concetto. Ferito a
morte, il secondo romanzo dello scrittore napoletano, uscito nel 1961, riveste infatti un
carattere emblematico per quanto riguarda il ruolo dell’immaginazione, tra l’altro nella
rappresentazione di Napoli, la sua città materna.
Il secondo capitolo è incentrato sulla creazione di una definizione possibile e ‘adatta’ del
concetto di immaginazione. La prima parte del capitolo sottolinea il ruolo cruciale della
percezione nell’atto immaginativo e dimostra come l’interazione tra percezione e lavoro
mentale conduce idealmente alla capacità di plasmare un’immagine in absentia (2.1.). In
una seconda fase viene evidenziato come la metafora – e dunque l’immaginazione – riesce
a generare nuove conoscenze. Infatti, la qualità cognitiva della metafora sta proprio nel
suo carattere deviante e nella possibilità di introdurre nuovi punti di vista (2.2.). La terza
parte cambia direzione, in quanto esamina il ‘repertorio’ di immagini di cui dispone
l’individuo creante. Il ‘diluvio’ di questo immaginario – collettivo, culturale –, che riflette
i difetti di una cultura di massa troppo visiva, viene spesso percepito come una minaccia
per la creatività artistica (2.3.). Infine, vedremo come e perché l’obiettivo di questa tesi è
di svelare l’intenzione dello scrittore attraverso un’analisi dell’immaginazione (2.4.).
1
La definizione è di Valeria Giordano Note sull’immaginare, in Aspettando il nemico. Percorsi
dell’immaginario e del corpo, a cura di Valeria Giordano e Stefano Mizzella, Roma, Meltemi, 2006, p. 23, citato
da Paolo Jedlowski, Immaginario e senso comune. A partire da “Gli immaginari sociali moderni” di Charles
Taylor, in Genealogie dell’immaginario, a cura di Fulvio Carmagnola e Vincenzo Matera, Torino, UTET, 2008,
p. 236.
7
Il terzo capitolo, che si concentra sulla saggistica lacapriana dedicata alla letteratura,
dimostra come gli aspetti menzionati nel capitolo precedente rientrano senza problemi
nella concezione lacapriana dell’immaginazione. In una prima fase, sono precisati i motivi
della critica di La Capria nei confronti della società moderna troppo visiva, parlando a
questo proposito giustamente di un ‘inquinamento dell’immaginario’ (3.1.). La seconda
parte si concentra invece sull’atto creativo stesso e precisa il ruolo e il funzionamento
dell’immaginazione lacapriana, che si trova precisamente tra – o meglio, si presenta come
una combinazione di – percezione esteriore e elaborazione interiore (3.2.).
Il capitolo successivo, imperniato sulla disamina dell’immaginazione in Ferito a morte,
costituisce il fulcro di questa tesi. Appoggiandosi agli aspetti trattati nei due capitoli
precedenti, l’analisi evidenzia come le metafore e le immagini ricorrenti nel romanzo
devono contribuire alla comprensione della natura particolare di Napoli. Come vedremo,
un confronto di queste figure fa trasparire il rapporto ambiguo di Raffaele La Capria con
la città materna. Prima di affrontare il romanzo stesso, una parte introduttiva si dedica ad
un’analisi dell’epigrafe, che riflette precisamente la concezione lacapriana della letteratura
e dell’immaginazione (4.1.).
La seconda parte del quarto capitolo si dedica alla metafora ‘primaria’ di Ferito a morte,
la Bella Giornata. Vedremo che i due elementi costitutivi di questa immagine, la luce e il
mare, racchiudono in sé una promessa di felicità. L’entrata della luce serve inoltre da
stimolo per la nascita dell’immaginazione e dei ricordi del protagonista, mentre il mare si
trasforma in un grembo materno, simboleggiante la spensieratezza dell’infanzia (4.2.1.).
Così, la metafora è un concetto intimamente legato alla giovinezza, e La Capria sostiene
giustamente che la Giornata (e più specificamente, il mattino) rappresenti la misura
perfetta per raffigurare la felicità primaria (4.2.2.). Allo stesso tempo, la Bella Giornata si
manifesta come un’entità immobile e eterna. Dato questo, Ferito a morte non va inteso
come il mero racconto di una storia lineare, ma diventa un luogo di sviluppo – in ogni
direzione – di un nucleo metaforico centrale, svolgendosi in un ambiente atemporale e
mitico. Ciò giustifica inoltre la struttura non convenzionale del romanzo, che possiamo
etichettare come ‘intuitiva’ (4.2.3.). Infine viene affrontato l’inevitabile carattere effimero
della Giornata, che simboleggia la fugacità – e insieme l’insostenibilità – della felicità
giovanile. Però, se si tratta di una perfezione perduta, essa rimane ad ogni momento
recuperabile (4.2.4.).
8
La terza parte del capitolo verte sulla seconda metafora centrale del romanzo, la Foresta
Vergine. In realtà, questa immagine non presenta l’opposto della Bella Giornata, ma ne è
una deduzione estrema: se tutte e due le metafore sono legate alla Natura, la Giornata
rappresenta le qualità naturali, mentre la Foresta Vergine evidenzia i difetti di una cultura
eccessivamente orientata sulla natura. Dato questo, la luce e il mare possono trasformarsi
rispettivamente in un caldo insopportabile e in una forza violenta, annunciando così
l’inevitabile implosione della Bella Giornata (4.3.1.). Il problema di Napoli sta proprio nel
fatto che la Natura ci sia sempre più forte della Storia. In Ferito a morte, l’idea che la
forza della Natura potrebbe condurre alla cancellazione del progresso culturale, viene
visualizzata dalla metafora di Palazzo donn’Anna (4.3.2.). Se la Storia è presentata come
un ambiente culturale fertile, solidamente stabilito al Nord (4.3.3.), a Napoli regna da
sempre la Natura, senza nessuna mediazione culturale. Così, in Ferito a morte la critica
lacapriana si traduce in un’immagine di Napoli poco positiva, di una città che si distingue
anzitutto per la sua banalità e la sua cultura delle apparenze (4.3.4).
L’ultima parte del quarto capitolo precisa il contributo delle due metafore naturali
menzionate alla formazione di un’immagine mentale e conoscitiva di Napoli. In primo
luogo, la coscienza crescente dell’impossibilità di una bella giornata eterna si traduce
nell’immagine della ferita (4.4.1.). Una volta ferito, la partenza definitiva dalla città
diventa indispensabile, e permette di stabilire lo stato immaturo in cui si trova Napoli,
insieme alla situazione deplorevole dei napoletani, che sono ostinatamente attaccati alla
Bella Giornata. Purtroppo, la partenza crea allo stesso tempo un profondo sentimento di
non-appartenza alla città ossia di straniamento (4.4.2.). Infine, diventa chiaro che la buona
distanza è condizione necessaria per la formazione di un’immagine complessiva e valida
della città partenopea, in grado di ‘attivare’ l’immaginazione dello scrittore napoletano
(4.4.3.).
Il percorso descritto dovrebbe permettere di approdare a un’idea più precisa e concreta del
concetto vago chiamato immaginazione letteraria. Lontano dall’essere perfetto e completo
– l’oggetto di analisi essendo un solo romanzo –, il tentativo di definizione formulato nel
presente studio fornisce piuttosto uno spunto per ulteriori ricerche, volte ad afferrare
meglio e ad approfondire la nozione di immaginazione letteraria.
9
2. L’IMMAGINAZIONE LETTERARIA: UN TENTATIVO DI DEFINIZIONE
La prima fase di una tesi sull’immaginazione in Ferito a morte consiste nella ricerca di
una definizione precisa del concetto di immaginazione letteraria, una definizione che
dovrebbe accordarsi con la concezione lacapriana, analizzata nel capitolo seguente. La
prima parte di questo capitolo dimostra come l’immaginazione si costituisce infatti di
un’interazione creativa tra percezione (prevalentemente visiva) e ragione, e come la
capacità di immaginare si evidenzia sempre in absentia (2.1.). In una seconda fase
vengono affrontate alcune teorie recenti della metafora – cioè, una forma ‘concreta’ di
immaginazione letteraria – come generatore di conoscenza: proprio a causa della sua
qualità di deviare il significato originario di una parola, essa non riesce soltanto a suscitare
piacere, ma anche a creare nuove categorizzazioni della conoscenza umana. Perciò,
sembra impossibile trattare la metafora come una mera figura retorica senza accennare le
sue qualità cognitive, dato che il tropo contribuisce insieme «a rendere chiara, utilizzabile
e touchant la verità»2 (2.2.). Nella terza parte diventa chiaro che l’immaginazione ha
sempre bisogno di un ‘repertorio’ o di una ‘griglia’ da dove, o all’interno della quale, può
cercare di costruire delle connessioni inaspettate. Si rivela però difficile definire questo
‘repertorio’ che si chiama ‘immaginario’: la memoria? la cultura? le tradizioni? E quindi,
l’immaginario si può ancora considerare un repertorio interessante e ricco di immagini, in
una cultura di massa tanto visiva da intaccare la capacità stessa di immaginare, di creare in
absentia? (2.3.) Infine seguono alcuni chiarimenti sul metodo di analisi di Ferito a morte:
quali sono le differenze più importanti tra similitudine e metafora, e perché preferire l’una
o l’altra? Come afferrare l’intenzione di uno scrittore analizzando soltanto le sue opere?
Chiariti questi aspetti, potrà finalmente avviarsi l’analisi dell’immaginazione lacapriana,
con lo scopo di verificare l’ipotesi di lavoro di questa tesi, cioè di verificare se sarebbe
possibile considerare l’intenzione lacapriana come una ‘metafora continuata’ su Napoli
(2.4.).
2
Cristina Marras, Conclusioni, in Ead., Metaphora translata voce. Prospettive metaforiche nella filosofia di
G.W. Leibniz, Firenze, Leo S. Olschki editore, 2010, p. 12.
10
2.1. L’immaginazione, tra percezione e ragione
Se consideriamo l’immaginazione come la capacità di mettere insieme delle immagini
‘date’ in una costellazione creativa, è chiaro che l’immaginazione ‘letteraria’, trattata in
questo capitolo, è semplicemente una forma concreta, esteriorizzata, verbale di queste
immagini messe insieme – accanto ad altre esteriorizzazioni possibili come la pittura o
volendo, la musica.
Anzitutto è interessante vedere come funziona l’interazione tra percezione e lavoro
mentale su essa. L’importanza e i problemi di questa interazione sono messi in rilievo da
Italo Calvino in una delle sue Lezioni americane. Nella lezione omonima, Calvino
sottolinea la necessità di conservare il valore della visibilità nella letteratura moderna, ma
in realtà si tratta piuttosto dell’immaginazione, vale a dire di un’immaginazione che parte
sempre da una percezione visiva. Vedremo fra poco che la scelta di Calvino di dedicare
una lezione a questo concetto fu in parte dettata dalla sua paura che in una cultura di
massa eccessivamente visiva la facoltà immaginativa venisse cancellata. In ogni caso,
quando Calvino cerca di spiegare in che cosa consiste per lui l’atto di scrivere, dice che il
suo racconto è sempre «unificazione d’una logica spontanea delle immagini e di un
disegno condotto secondo un’intenzione razionale»3.
La citazione è rilevante non soltanto perché evidenzia che l’immaginazione è uno dei due
pilastri della scrittura calviniana, ma anche per la sua definizione dell’immaginazione
come ‘unificazione d’una logica spontanea delle immagini’. Ciò fa emergere l’idea che,
secondo Calvino, l’atto di immaginare consiste in due fasi: prima, la percezione attenta di
immagini; poi una ‘unificazione logica’, vale a dire un’interiorizzazione spontanea e una
strutturazione mentale delle immagini date. Calvino esplicita l’idea in un altro passo della
sua lezione, dove elenca tutti gli aspetti necessari dell’immaginazione letteraria:
Diciamo che diversi elementi concorrono a formare la parte visuale dell’immaginazione letteraria:
l’osservazione diretta del mondo reale, la trasfigurazione fantasmatica e onirica, il mondo figurativo
trasmesso dalla cultura ai suoi vari livelli, e un processo d’astrazione, condensazione e interiorizzazione
3
Italo Calvino, Visibilità, in Id., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti,
1988, p. 90.
11
dell’esperienza sensibile, d’importanza decisiva tanto nella visualizzazione quanto nella verbalizzazione
del pensiero.4
Secondo Calvino, l’immaginazione è dunque una capacità legata sia alla percezione sia
alla ragione, e colpisce il peso dato ai sensi in questa operazione creativa – non a caso, la
lezione si intitola Visibilità. Vedremo che si tratta di una concezione dell’immaginazione
che si ricollega molto bene alla concezione lacapriana, che preferisce la realtà empirica
come punto di partenza.
Un altro approccio pertinente è offerto da Christophe Bouriau nel suo saggio Qu’est-ce
que l’imagination? Secondo lo studioso, la prima caratteristica dell’immaginazione è la
facoltà di percepire immagini in absentia, e dunque, di restituire frammenti della realtà in
una immagine mentale. Bouriau chiarisce la propria interpretazione dell’immaginazione
all’inizio del suo saggio, riferendosi ad Aristotele:
En son sens le plus général, l’imagination se définit comme la disposition à présenter les choses en leur
absence. Imaginer, c’est amener à la présence ce qui est absent. […] L’imagination semble dotée d’un
pouvoir magique, celui de faire apparaître ce qui n’est pas là. Aristote écrivait que l’imagination,
phantasia, venait sans doute de phôs, la lumière, car «sans lumière il est impossibile de voir».
L’imagination met les choses en lumière, les fait apparaître, alors même que ces choses sont soustraites
au regard : «Des images visuelles apparaissent, même quand on a les yeux fermés». L’imagination,
pourrait-on dire, est une lumière intérieure, elle est comme l’œil de l’âme.5
Dalla citazione emerge chiaramente la necessità di una forte capacità visiva – un aspetto
che era anche sottolineato da Calvino – descrivendo l’immaginazione come ‘l’occhio
dell’anima’. E dunque, anche se Bouriau mette l’accento sull’importanza della formazione
di immagini in absentia, in fondo sembra condividere la concezione di Italo Calvino,
intrepretando l’immaginazione come una interazione creativa tra percezione esterna e
elaborazione interna – e non sembra veramente pertinente se tale elaborazione viene
allora realizzata dalla ragione o dall’anima.
In altri termini, i contributi di Calvino e di Bouriau sono anzitutto pertinenti per il rilievo
che hanno dato al ruolo della percezione nell’atto immaginativo. Si tratta precisamente di
un aspetto che altri studiosi spesso evitano o ignorano. Però, a loro volta, i due studiosi
4
5
Ivi, p. 94.
Christophe Bouriau, Qu’est-ce que l’imagination ?, Paris, Vrin, 2003, p. 8.
12
citati non fanno caso di un altro aspetto altrettanto importante dell’immaginazione: infatti,
proprio perché il processo immaginativo devia dalla normalità percettiva o concettuale,
egli dispone di una grande capacità conoscitiva, come vedremo nel capitolo seguente.
2.2. Immaginare, un atto conoscitivo
Il tentativo di precisare che l’immaginazione è in grado di generare nuove conoscenze sul
mondo, necessita anzitutto una forma concreta ed esplicita di essa, in questo caso dunque
la lingua. Più specificamente, è la metafora che si presenta come l’esteriorizzazione
verbale per eccellenza dell’immaginazione. Perciò gioverà un’analisi del funzionamento
di questa ‘figura del discorso’.
In realtà la metafora, che produce un ‘trasferimento di significato’, non è soltanto una
figura retorica, ma anche un sistema produttivo atto a generare conoscenze, attraverso
l’inserimento di un nuovo, inaspettato punto di vista. L’importanza della metafora come
modalità cognitiva viene inoltre confermata dal suo uso frequente in filosofia, per esempio
nella ‘metaforologia’ del filosofo tedesco Hans Blumenberg6 e nella sua ricerca di
‘metafore assolute’ mirata a stabilire delle concettualizzazioni universali. Anche nel
Seicento, le metafore possono fare parte integrante della strutturazione di un pensiero
filosofico, per esempio nella filosofia di Leibniz, come recentemente osservato da Cristina
Marras in uno studio sul filosofo tedesco.7 L’introduzione del libro spiega perché Leibniz
tiene molto all’uso di metafore e al linguaggio figurato, e come si oppone alla filosofia di
John Locke:
Locke riserva un ruolo particolare alla retorica, tuttavia è chiaro nel dichiarare che l’eloquenza e l’uso di
figure fanno deviare il giudizio là dove ci si deve attenere a «come le cose sono». Leibniz, da parte sua,
critica non tanto l’uso del linguaggio figurato, quanto ‘l’abuso’, riservando e preservando all’eloquenza,
alla retorica spazi e ruoli specifici; gli strumenti retorici, inoltre, usati appropriatamente contribuiscono
a rendere chiara, utilizzabile e touchant la verità.8
6
Hans Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, Milano, Raffaello Cortina, 2009.
Per ulteriori informazioni si vede Cristina Marras, Metaphora translata voce, cit. La studiosa dimostra come la
filosofia leibniziana può essere strutturata in base a cinque metafore: oceano, via, specchio, labirinto e bilancia.
8
Ivi, p. 12.
7
13
La citazione colpisce in quanto offre una visione sulla metafora che corrisponde in gran
parte alle due principali opere di riferimento di questa figura retorica, cioè la Retorica e la
Poetica di Aristotele. Infatti, l’osservazione leibniziana che la metafora rende ‘chiara’ e
‘touchant’ la verità – e dunque, la conoscenza –, concorda con la descrizione aristotelica
della metafora che sottolinea le sue qualità conoscitive e piacevoli, riassunte da Giovanni
Manetti in Aristotele e la metafora: «l’effetto di straniamento provocato dalla metafora
produce contemporaneamente una sensazione di piacere; per Aristotele il principio di
piacere si trova alla base dell’istinto umano orientato a conoscere e la metafora è una delle
forme attraverso le quali la conoscenza si realizza»9.
In altri termini, è proprio perché provoca un effetto di straniamento che la metafora riesce
a produrre conoscenze ‘inaspettate’. E dunque, si potrebbe dire che la metafora non
consiste soltanto in un ‘trasferimento’ (metaphora) di significato, ma comporta anche una
‘deviazione’ dal discorso letterale, prende un’altra direzione rispetto alla ‘normalità’.
Perciò corrisponde forse più al senso etimologico di tropo, ‘direzione’. L’insistenza sulla
caratteristica ‘deviata’ del tropo emerge anche dalla definizione di Garavelli: «la svolta di
un’espressione che dal suo contenuto originario viene diretta (‘deviata’) a rivestire un
altro contenuto»10.
Concretamente, la metafora realizza una sovrapposizione inaspettata di due campi
concettuali – quello del metaforizzato e quello del metaforizzante, per usare la
terminologia di Black11 – e perciò, dice Claudia Casadio, riferendosi alla teoria di Paul
Ricoeur, «possiamo comprendere meglio la definizione della metafora come un «errore
categoriale»: «La metafora ha il potere di rompere categorizzazioni anteriori e di stabilire
nuovi legami logici: in questo senso, la dinamica del pensiero è la stessa che ha generato
tutte le classificazioni».»12
L’osservazione corrisponde in gran parte alla teoria della metafora elaborata da Umberto
Eco, che cerca di svelare il meccanismo metaforico, rifacendosi al cosiddetto «albero di
9
Giovanni Manetti, Aristotele e la metafora. Conoscenza, similarità, azione, enunciazione, in Metafora e
conoscenza. Da Aristotele al cognitivismo contemporaneo, a cura di Anna Maria Lorusso, Milano, Bompiani,
2005, p. 34.
10
Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 2008, p. 142.
11
Max Black (1962, p. 56), citato da Anna Maria Lorusso, Introduzione a Metafora e conoscenza, cit., p. 9.
12
Paul Ricoeur (1962, p. 285), citato da Claudia Casadio, Linee per una teoria della metafora, in Itinerario sulla
metafora. Aspetti linguistici, semantici e conoscitivi, a cura di Claudia Casadio, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 40-41.
14
Porfirio», una strutturazione semantica variabile secondo le esigenze contestuali. Senza
spiegare la sua sistematizzazione estrema, ripetiamo qui le conclusioni di Eco, che
sottolineano la forza riorganizzatrice e conoscitiva della metafora:
A questo punto si profila [...] una nuova visione del potere cognitivo della metafora: ci fa comprendere
meglio una cosa perché, in prima istanza, essa ci fa vedere (ci mette sotto gli occhi, come avrebbe detto
Aristotele) un diverso modo di organizzare le cose, ovvero ci propone una nuova organizzazione
categoriale.13
Se le sovrapposizioni metaforiche generano nuove ‘categorizzazioni’ della conoscenza, in
che modo si costituiscono le categorie convenzionali? E come la metafora riesce a
sovvertire e a restituire queste classificazioni date? Secondo lo stesso Eco, si tratta di
‘esercizi spericolati’ all’interno di una ‘griglia culturale’:
L’immaginazione metaforica (come peraltro il lavoro dell’interpretazione della metafora espressa) altro
non è che un raziocinio che percorre in fretta i sentieri del labirinto semantico, e nella fretta perde il
senso della loro struttura ferrea. L’immaginazione ‘creativa’ compie esercizi spericolati solo perché
esiste una griglia culturale che la sostiene e le suggerisce i movimenti grazie alla sua rete di coloured
ribbons. La griglia è la Lingua come Cultura, è l’Enciclopedia. Su di essa la Parola gioca, o fa esercizi,
per conoscere meglio la cultura e, solo attraverso di essa, il mondo come ce lo rappresentiamo.14
In altre parole, Eco sostiene che l’immaginazione metaforica è un movimento creativo che
percorre e unisce varie parti di una ‘rete’ o ‘griglia’ culturale, che contiene tutte le
conoscenze sul mondo. L’osservazione è rilevante per l’ipotesi sul meccanismo cognitivo
della metafora, ma allo stesso tempo la ricerca sul funzionamento metaforico è forse
troppo razionalizzata, in quanto rappresenta l’ispirazione letteraria come un percorso e un
collegamento di conoscenze enciclopediche. Infatti, lo studioso non tiene conto del ruolo
della percezione nel processo di immaginare – e si tratta di un ruolo non trascurabile,
come accennato nel capitolo precedente, dove viene mostrato che Calvino parla perfino di
visibilità a proposito dell’immaginazione.
Perciò, si dovrebbe considerare ‘l’Enciclopedia’ di cui parla Eco come un’entità che
raccoglie tutte le conoscenze del mondo, e dunque anche la realtà empirica: l’ispirazione
poetica non è un concetto astratto, ma nasce spesso dalla realtà quotidiana, anche se viene
13
14
Umberto Eco, Metafora e semiotica interpretativa, in Metafora e conoscenza, cit., p. 266.
Ivi, pp. 288-289.
15
sempre ‘filtrata’ da una griglia culturale o mentale. Come vedremo, questa ‘mappatura’
dell’immaginazione, che corrisponde dunque soltanto in parte alla concezione di Eco, si
ricollega molto bene alla visione di La Capria.
La concezione di Eco è tuttavia pertinente per la nostra analisi della narrativa lacapriana,
in quanto mette in rilievo il potenziale cognitivo della metafora. Così, in un suo contributo
all’Enciclopedia Einaudi, dedicato alla stessa figura, afferma a proposito della ricezione di
metafore che «per troppo tempo s’è pensato che per capire metafore occorresse conoscere
il codice (o l’enciclopedia): la verità è che la metafora è lo strumento che permette di
capire meglio il codice (o l’enciclopedia). Questo è il tipo di conoscenza che riserva.»15 In
realtà è ovviamente necessario un movimento in due direzioni: l’acquisizione di nuove
conoscenze è soltanto possibile se l’individuo dispone preliminarmente di un ampio
repertorio di conoscenze e se riesce a ricollegarle in un modo originale – ciò vale quindi
non soltanto per la creazione, ma anche per la ricezione di metafore.
Così, la metafora si presenta come un atto creativo, una ricerca di connessioni possibili
sulla base di una somiglianza, che parte dalla realtà e viene filtrata da un’Enciclopedia. A
questo proposito Cristina Marras parla giustamente di un’interazione tra analisi e sintesi:
L’intersecarsi (e la reciprocità) di analisi e sintesi, [...] di arte del giudizio e della scoperta rivela uno
schema che non solo non è univiario ma che si presenta come multilineare, e in cui sono molte le
direzioni possibili; lo schema è anche multivalente e le varie parti del sapere e della conoscenza
acquistano, infatti, valore in quanto punti di vista.16
In sostanza, la forza dell’immaginazione sta dunque nella sua possibilità di seguire tutte le
‘direzioni possibili’ all’interno della rete enciclopedica, e di assumere un’infinità di punti
di vista. Perciò Calvino la concepisce come il «repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di
ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere»17. Christophe Bouriau
condivide l’opinione di Calvino, descrivendo l’imagination come la creazione di una
realtà possibile:
15
Umberto Eco, Metafora, in Enciclopedia Einaudi, vol. IX, Torino, Giulio Einaudi, 1980, p. 234.
Cristina Marras, Introduzione a Ead., Metaphora translata voce, cit., p. 158. La studiosa fa questa
osservazione a proposito della filosofia di Leibniz, ma in realtà corrisponde anche molto bene alle possibilità
della metafora. Il corsivo è mio.
17
Italo Calvino, Visibilità, in Id., Lezioni americane, cit., p. 91. Il corsivo è mio.
16
16
L’opération consistant à former des représentations nouvelles à partir d’anciennes spécifie l’imagination
par rapport à la mémoire qui, tout comme la perception, reste tributaire du réel donné, tel qu’il s’impose
à nous. Contrairement à la mémoire qui ne peut restituer que ce que le réel a déjà donné, l’imagination
peut déborder toutes les données offertes par le réel pour présenter ce qui n’existe en aucun lieu et en
aucun temps. Elle ne restitue pas le monde mais le recrée.18
Un altro aspetto dell’immaginazione che viene regolarmente menzionato dagli studiosi, è
la sua capacità di rendere visibile una verità o una conoscenza nascosta. Ciò viene per
esempio intuito da Eco: «la metafora pone (‘pone’ in senso filosofico ma anche in senso
fisico, nel senso che ‘pone sotto gli occhi’ [...]) una proporzione che, dovunque fosse
depositata, sotto gli occhi non era; o era sotto gli occhi e gli occhi non la vedevano, come
la lettera rubata di Poe»19. Eco ci si riferisce alla concezione aristotelica della metafora,
che insiste per la prima volta sulla capacità di «porre sotto gli occhi». Questa capacità
viene giustamente spiegata da Anna Maria Lorusso:
Il «porre sotto gli occhi» è metafora per definire l’effetto di senso dell’operazione metaforica. Non è che
le metafore siano sempre visive ma sempre creano una salienza peculiare – e in questo senso «pongono
sotto gli occhi» qualcosa che prima era invisibile.20
Inoltre, la capacità di rendere visibile ‘qualcosa che prima era invisibile’ viene riassunta
alla fine di Qu’est-ce que l’imagination? di Bouriau e sembra dunque che proprio questa
qualità offra una risposta alla domanda che si trova nel titolo. Lo studioso chiude il suo
saggio con le parole seguenti:
Elle se démarque de la mémoire et de la perception par sa capacité de faire apparaître ce qui n’est
encore jamais apparu, de donner un visage à ce qui, sans elle, demeurerait à jamais invisible ou
insensible. […] Nous sommes tentés de dire d’elle à peu près ce que Paul Klee disait de la peinture :
l’imagination ne reproduit pas le visible, elle rend visible ce qui sans elle, resterait dans l’ombre ou dans
le néant.21
Insomma, l’immaginazione parte sempre dalla percezione del reale, ma senza riprodurlo
così com’è: il reale viene sempre ‘filtrato’ e ‘ricostituito’ da una griglia mentale, con lo
scopo di creare e di rendere visibile qualcosa di nuovo. Tuttavia, è difficile determinare in
che cosa consiste questa ‘griglia’ o ‘rete’ della mente: se la consideriamo un’Enciclopedia,
18
Christophe Bouriau, Qu’est-ce que l’imagination ?, cit., p. 47.
Umberto Eco, Metafora, in Enciclopedia Einaudi, vol. IX, cit., p. 211.
20
Anna Maria Lorusso, Introduzione a Metafora e conoscenza, cit., p. 12.
21
Christophe Bouriau, Qu’est-ce que l’imagination ?, cit., p. 80.
19
17
all’esempio di Eco, dovrebbe corrispondere a tutte le conoscenze dell’individuo creante,
che dispone sempre di un personale repertorio di conoscenze. Questo repertorio personale
coincide ovviamente in gran parte con un repertorio ‘collettivo’ di immagini di una data
cultura, ossia l’immaginario.
2.3. Il repertorio dell’immaginario
In questo senso, l’immaginazione si presenta come un processo dinamico e creativo che
dispone di (e si fonda su) un ‘magazzino’ o ‘museo’ di immagini culturali e sociali. Ciò
emerge dagli esiti di uno studio collettivo sull’immaginario, raccolti da Carmagnola e
Matera in Genealogie dell’immaginario:
L’immaginazione è la fabbrica delle immagini, l’immaginario ne è il repertorio (magazzino o museo).
L’immaginazione è un processo attivo e creativo; l’immaginario è una parola dal significato ancora non
perfettamente definito ma è anche in un certo senso la tomba dell’immaginazione.22
In altri termini, l’immaginario è un insieme statico di immagini disponibili, ma finora si
tratta di un termine ‘non ancora perfettamente definito’. In ogni caso, le interpretazioni del
concetto (e del rapporto tra immaginario e immaginazione) sono numerose e divergenti.
L’approccio di Giordano offre per esempio uno spunto interessante: la studiosa sostiene
che l’immaginazione ha un «carattere sostanzialmente anarchico», mentre l’immaginario
si presenta come «la sede di immagini socialmente riconosciute, capaci di essere
interpretate e controllate»23.
Nonostante l’interesse di queste definizioni, che permettono una comprensione migliore
del concetto, tali definizioni hanno allo stesso tempo il difetto di rimanere troppo vaghe,
in quanto non esplicitano mai il contenuto concreto di questo ‘repertorio’. Carmagnola e
Matera cercano invece di stabilire le caratteristiche di questo ‘magazzino’ di immagini, e
costatano una svolta nell’immaginario, che si è spostato da ‘territori alti’ a ‘terreni bassi’:
La perseveranza è di coloro che cercano l’immaginario nei territori alti della produzione culturale –
l’arte e le sue varie manifestazioni o regioni appunto. L’emergenza è quella di chi rintraccia nella
22
Fulvio Carmagnola e Vincenzo Matera, Introduzione a Genealogie dell’immaginario, cit., p. XIII.
Valeria Giordano, Note sull’immaginare, cit., p. 23, citato da Paolo Jedlowski, Immaginario e senso comune,
in Genealogie dell’immaginario, cit., p. 236.
23
18
medialità e nei suoi terreni bassi – fino alla merce, al consumo delle immagini o alle abitudini del
quotidiano – il luogo di apparizione attuale più importante di ciò che va chiamato immaginario.24
In realtà, l’osservazione coglie uno degli aspetti più essenziali della cultura moderna, ossia
la divulgazione straordinaria delle immagini e la loro intrusione nella vita quotidiana. In
altre parole, una volta l’immaginario era un magazzino chiuso e un terreno privilegiato
dell’arte, a cui si poteva ricorrere a proprio gusto; oggi sembra invece che il magazzino si
sia aperto e sia diventato completamente visibile.
Però, se l’osservazione di Carmagnola e Matera è accurata, gli studiosi tralasciano
comunque di menzionare gli effetti nefasti di questa cultura moderna ‘visiva’. Il pericolo
che si nasconde dietro la ‘civiltà dell’immagine’ viene invece giustamente circoscritto da
Italo Calvino:
Ma resta da chiarire la parte che in questo golfo fantastico ha l’immaginario indiretto, ossia le immagini
che ci vengono fornite dalla cultura, sia essa cultura di massa o altra forma di tradizione. Questa
domanda ne porta con sé un’altra: quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si
usa chiamare la «civiltà dell’immagine»? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a
svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate?25
Lo scrittore si riferisce precisamente alla caratteristica primaria dell’immaginazione, cioè
la capacità di ‘evocare immagini in assenza’, analoga alla definizione di Bouriau elaborata
nel suo studio su l’imagination. Calvino teme dunque che la presenza eccessiva di
immagini e la loro visibilità nella società moderna possa infine condurre all’incapacità di
immaginare in assenza. Perciò gli sembra difficile, se non impossibile, di fare emergere e
di rendere visibile delle prospettive nuove all’interno di una cultura di massa già troppo
visiva.
Così, l’immaginario originario si è gradualmente trasformato in un ‘diluvio’ di immagini
che contiene inevitabilmente immagini da respingere. A questo proposito La Capria parla
di un ‘immaginario inquinato’, e lo scrittore cerca precisamente di valutare le immagini
collettive e di respingerne quelle superflue, come vedremo nel capitolo seguente.
24
25
Fulvio Carmagnola e Vincenzo Matera, Introduzione a Genealogie dell’immaginario, cit., p. XVI.
Italo Calvino, Visibilità, in Id., Lezioni americane, cit., p. 91.
19
In ogni caso, se il repertorio di immagini si rivela inquinato o corrotto, ciò comporta anche
conseguenze per l’immaginazione stessa: in questo caso non ha più la libertà ‘anarchica’
di percorrere a proprio gusto il repertorio di immagini, ma è anzitutto costretta a filtrare
una massa enorme di immagini per selezionare le immagini appropriate. Per spiegare la
difficoltà di questa operazione, ci riferiamo alla conclusione della lezione di Calvino:
Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo
correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi,
di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di
pensare per immagini.26
In altri termini, se immaginare è giustamente la capacità di pensare per immagini (la
definizione corrisponde inoltre perfettamente alla concezione dell’immaginazione come
un processo che consiste nella percezione della realtà che viene quindi filtrata da una
griglia mentale, elaborata nel capitolo precedente), si capisce perché oggi sia tanto
difficile creare un’immagine ‘precisa’, avendone a disposizione una quantità enorme.
Il terzo capitolo dimostra che anche La Capria è preoccupato per questo ‘diluvio delle
immagini’ di cui parla Calvino, cercando di ricostituire un immaginario puro e naturale di
Napoli. Anzitutto è però necessario chiarire come procederemo durante l’analisi.
2.4. Alcuni chiarimenti sul metodo di analisi
L’immaginazione lacapriana si appoggia in realtà sui tre aspetti affrontati in questo
capitolo: l’importanza della percezione, l’acquisizione di conoscenza e il recupero di un
immaginario puro. Il terzo aspetto, la critica dell’immaginario inquinato, viene soprattutto
trattato nella sua saggistica (cf. 3), mentre i due primi aspetti sono chiaramente presenti in
Ferito a morte (cf. 4), dove lo scrittore ricorre a diverse metafore e similitudini prese dalla
realtà napoletana con lo scopo di elaborare un discorso ‘adeguato’ sulla città materna.
Così, La Capria ha elaborato alcune metafore centrali (la Bella Giornata e la Foresta
Vergine) che formano il vero e proprio nucleo del romanzo, intorno al quale fa girare il
suo racconto. Accanto a queste metafore ricorrenti, lo scrittore fa anche leva su diverse
26
Ivi, p. 92.
20
similitudini. Un primo confronto tra queste figure è quindi legittimo, anzi indispensabile
per cogliere la portata dell’immaginazione lacapriana.
Sembra infatti che la differenza tra metafora e similitudine non sia semplicemente
riducibile alla presenza o no di un termine di comparazione. Aristotele sostiene che si
tratta piuttosto di una differenza di livello, ossia di forza, considerando la metafora come
una figura superiore alla similitudine, che qualifica anzi come una ‘metafora allungata’.
Secondo Lucia Calboli Montefusco, Aristotele preferisce la metafora precisamente per il
suo carattere immediato e ‘rapido’: «la rapidità della trasmissione della conoscenza
peculiare della metafora diviene la chiave per comprendere la sua superiorità sulla
comparazione»27. La concezione corrisponde in gran parte con la teoria di Bertinetto,
citato da Garavelli:
La differenza tra similitudine e metafora [...] non si regge su presupposti formali, bensì pragmaticocognitivi in senso stretto. La prima figura è fondata sulla percezione statica delle affinità (e delle
differenze) che legano due entità; mentre la seconda si basa su un meccanismo di natura
emminentemente dinamica, che produce una qualche forma di fusione, o per meglio dire compresenza,
tra i due enti raffrontati.28
In altri termini, la similitudine è una variante meno vigorosa della metafora in quanto
esplicita la comparazione, per evitare la ‘fusione’ dei due elementi in questione. Per lo
stesso motivo, la similitudine è anche una figura più chiara della metafora (che può
potenzialmente condurre alla con-fusione ossia all’incomprensione) e questo fatto spiega
ovviamente la sua preferenza in prosa. Ciò è anche il caso in Ferito a morte, dove
l’immaginazione si presenta il più spesso sotto forma di similitudini, in un linguaggio
trasparente e chiaro. Le metafore invocate sono invece meno numerose, e ritornano inoltre
spesso nel romanzo come una specie di Leitmotiv, per obbedire ugualmente alle direttive
lacapriane di trasparenza.
In ogni caso, lo scopo di questa tesi è di evidenziare come Raffaele La Capria ha cercato
di costruire un personale discorso sulla città materna attraverso l’immaginazione. In altri
27
Lucia Calboli Montefusco, La percezione del simile: metafora e comparazione in Aristotele, in Metafora e
conoscenza, cit., p. 80.
28
Bertinetto (1979, p. 160), citato da Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, cit., p. 160.
21
termini, lo scopo è di estrarre l’intenzione dello scrittore dai ‘passi paralleli’, come dice
Antoine Compagnon:
Aucun critique, semble-t-il, ne renonce à la méthode des passages parallèles […] : aucun critique ne
renonce donc à une hypothèse minimale sur l’intention d’auteur, comme cohérence textuelle […]. Cette
cohérence, c’est celle d’une signature, comme on l’entend en histoire de l’art, c’est-à-dire comme un
réseau de petits traits distinctifs, un système de détails symptomatiques – des répétitions, des
différences, des parallélismes – rendant possible une identification ou une attribution.29
Perciò, un’analisi delle metafore centrali di Ferito a morte (la Bella Giornata e la Foresta
Vergine) e del contesto in cui appariscono, insieme a uno studio delle immagini ricorrenti
(come la luce e il mare), dovrebbero permettere di formarsi un’idea sull’intenzione poetica
di La Capria.
Però, avverte Compagnon, se un autore ha sempre una certa intenzione, ciò non implica
che lui sia cosciente di tutti gli aspetti della propria creazione. A questo proposito cita il
filosofo americano John Searle, che paragona la scrittura alla marche à pied:
John Searle comparait l’écriture à la marche à pied : bouger les jambes, soulever les pieds, tendre les
muscles, l’ensemble de ces actions n’est pas prémédité, mais elles ne sont pas pour autant sans
intention ; nous avons donc l’intention de les faire quand nous marchons ; notre intention de marcher
contient l’ensemble des détails que la marche à pied implique.30
Per questo motivo, un commento esterno, privo di pregiudizi, risulta così interessante. E
quindi, anche se i commenti su Ferito a morte espressi da La Capria stesso nei suoi saggi
(anzitutto ne L’armonia perduta) sono senza dubbio utili per l’interpretazione del suo
romanzo, l’analisi non può limitarsi a questi commenti perché è possibile che ci siano
aspetti sfuggiti allo scrittore stesso.
L’obiettivo di questa tesi è quindi di svelare il filo conduttore dell’immaginazione in
Ferito a morte e il discorso sottostante sulla città materna. Se parlare di una «allegoria»31
napoletana è forse esagerato, lo scopo è comunque di cogliere l’intenzione di La Capria
29
Antoine Compagnon, L’auteur, in Id., Le démon de la théorie. Littérature et sens commun, Paris, Editions du
Seuil, 1998, p. 81.
30
Ivi, p. 94.
31
Cioè, una «metafora prolungata», secondo la terminologia di Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, cit.,
p. 259.
22
che si nasconde dietro le metafore e le similitudini del romanzo. Il tentativo dello scrittore
è infatti di rendere visibile l’essenziale della sua città, proprio perché l’immagine di essa
rischia di svanire e di perdersi nei luoghi comuni. L’ambizione corrisponde in parte con
quella de Le città invisibili di Calvino, dove il protagonista cerca di cogliere l’essenziale
di una città e il rapporto di essa con il proprio passato attraverso immagini:
Ma non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo
passato [...]. Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città si imbeve come una spugna e si dilata. Una
descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo
passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre,
negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento
rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.32
Le analogie con il discorso lacapriano su Napoli sono notevoli: partendo dalla percezione
del reale, La Capria cerca di elaborarlo con la mente e di collocarlo in una prospettiva più
ampia, nella speranza che la costruzione di una ‘immagine mentale’ possa idealmente
condurre alla comprensione della città materna.
32
Italo Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993, pp. 10-11; citato da Gabriella Turnaturi,
Descrivere, analizzare, raccontare la città, in Ead., Immaginazione sociologica e immaginazione letteraria,
Bari, Laterza, 2003, p. 98. L’immagine della spugna viene anche usata da La Capria in rapporto con Palazzo
donn’Anna per descrivere la città materna come luogo di incontro tra Natura e Storia, tra presente e passato.
23
3. L’IMMAGINE MENTALE DI RAFFAELE LA CAPRIA
Prima di analizzare il ruolo e il funzionamento dell’immaginazione in Ferito a morte,
sembra pertinente studiare il parere lacapriano sull’importanza dell’immaginazione nella
letteratura del post-Novecento. Come emerge dai suoi saggi sulla letteratura – che sono
tutti posteriori all’uscita di Ferito a morte –, l’immaginazione occupa una posizione
assolutamente centrale nella sua concezione della letteratura. Il secondo romanzo, uscito
nel 1961, fa già intravedere come l’immaginazione, e specificamente le metafore centrali
e le immagini ricorrenti tout court, sono in grado di funzionare come il nucleo ‘primario’
del racconto, intorno al quale la storia ‘secondaria’ si sviluppa. Più di essere un vero
racconto, il romanzo si presenta allora come un luogo di sviluppo di certi pensieri e
opinioni su Napoli, e in senso più ampio, sul mondo.
Gradualmente, e soprattutto a partire dagli anni ottanta e novanta, quando La Capria
comincia a dedicarsi alla saggistica, si intensifica la sua critica della cultura di massa.
Colpisce che la critica dello scrittore della società moderna nasca anzitutto dalla paura di
un ‘inquinamento’ dell’immaginario, in una cultura novecentesca troppo ‘ridondante’ e
‘visiva’. Per La Capria, l’immobilità e la ripetitività dell’immaginario – e dunque anche
della letteratura che attinge la sua ispirazione da questa fonte di immagini –, costituiscono
un problema grave, esattamente perché questo repertorio dispone di una, e forse l’unica,
griglia interpretativa e conoscitiva del mondo (3.1.). In un secondo tempo, diventa chiaro
come l’immaginazione lacapriana ideale è il risultato di un’interazione armoniosa tra
l’osservazione della vita quotidiana in una prima fase, e il successivo lavoro mentale su di
essa. In questo modo, essa può contribuire all’acquisizione di nuove conoscenze (3.2.).
3.1. L’inquinamento e la stagnazione dell’immaginario
Dopo aver sperimentato che l’immaginazione è il vero e proprio motore della sua prosa –
come vedremo durante l’analisi di Ferito a morte –, La Capria comincia a rendersi conto
del cosiddetto ‘inquinamento’ dell’immaginario nella cultura moderna e di conseguenza
presso i suoi colleghi. Secondo lo scrittore, tale inquinamento è uno dei sintomi di una
malattia del tempo più ampia, quella della cultura di massa: il problema sta proprio nel
24
fatto che il consumismo moderno produce incessantemente una ridondanza di immagini e
impressioni, il che infine può nuocere alla chiarezza dei pensieri individuali. In altri
termini, La Capria sostiene che un’interpretazione del mondo sia sempre attraversata dalle
immagini acquisite nella cultura in cui viviamo; se la quantità di queste immagini diventa
esuberante di modo che non possono più essere filtrate, esse possono finalmente bloccare
la formazione di una visione corretta sul mondo presso gli individui. In Letteratura e salti
mortali, lo scrittore napoletano dedica un intero capitolo al fenomeno chiamato
l’‘inquinamento dell’immaginario’, e spiega il problema attraverso l’immagine di un filtro
intasato:
L’immaginario, proprio come l’ambiente, si sta inquinando, si è già inquinato, per un eccesso di
produzione, e non c’è filtro bastante a depurarlo. [...] Da qui quell’eccesso di sapere che produce nonsapere o un sapere indifferenziato, quella valanga di immagini che produce il vuoto d’immaginazione,
quell’inflazione di parole che produce svalutazione della parola.33
Tale filtro intasato è dunque simbolo di «una cultura della ridondanza»34 in quanto fa
passare senza tregua un eccesso di immagini e di pensieri della cultura di massa,
impedendo così all’individuo di formarsi un’idea personale e indipendente dagli schemi
comuni. Poiché la ridondanza di modelli preesistenti ostacolano la creazione di nuovi
modelli, paradossalmente l’immaginario ne diventa ‘anoressico’:
Ebbene anche l’immaginario sta diventando anoressico, anche l’immaginario rischia di non distinguere
più tra ciò che è naturale e ciò che è confezionato, tra la realtà e la realtà già immaginata, tra la realtà e
la sua copia.35
Così, i saggi lacapriani – e non soltanto Letteratura e salti mortali, ma anche il ‘romanzo’
L’armonia perduta e L’occhio di Napoli – sono in gran parte motivati dal profondo
disagio dello scrittore di fronte alla letteratura contemporanea e, in generale, alla cultura
postmoderna. Tuttavia, La Capria rifiuta di disperare, anche se oggi l’immaginario è
«inquinato dalle troppe rappresentazioni continuamente riprodotte», affermando invece
che il compito dello scrittore contemporaneo è giustamente di «ricercare il principio di
una determinazione creativa»36. In altre parole, allo stato attuale, con la letteratura che è
33
Raffaele La Capria, Letteratura e salti mortali, in Id., Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Silvio
Perrella, Milano, Arnoldo Mondadori, 2003, p. 1179.
34
Ivi, p. 1180.
35
Ivi, p. 1181.
36
Ivi, p. 1183.
25
diventata un deposito di luoghi comuni, la difficoltà di essere creativi è senza dubbio
cresciuta, ma insieme alla fatica è cresciuta la necessità di creatività individuale, di nuovi
approcci al mondo, di visioni dinamiche sul reale.
Il disagio lacapriano nei confronti del postmodernismo è anzitutto generato da un
sentimento angoscioso di chiusura e di immobilità. Ciò emerge chiaramente da L’occhio
di Napoli, dove lo scrittore critica severamente la propria città materna, descrivendola
come la città immobile per eccellenza. Lo scrittore si chiede allora se sarebbe possibile
farla uscire dal recinto che ha creato personalmente:
È possibile, almeno, allargare i confini della città e, parlandone, farla uscire da quella specie di recinto
in cui si è chiusa, usando le chiavi del linguaggio, dell’immaginazione e della speranza per scuoterla
dalla sua immobilità?37
In realtà, il vizio maggiore di Napoli sta proprio in quei «radicati riflessi difensivi che
mantengono in vita viete rappresentazioni e cliché legati a un’ormai patologica e sterile
autoreferenzialità», per dirla con le parole di Sabine Verhulst38. Ciò significa infatti che un
abuso immotivato e eccessivo della tradizione napoletana potrebbe finalmente condurre
all’irrepresentabilità della città stessa. La Capria riconosce il pericolo ne L’occhio di
Napoli, paragonando la città ad una cipolla: «devo ammettere che non è facile guardare
Napoli senza pregiudizio [...] perché Napoli ne sembra avvolta come una cipolla, che se la
sfogli tutta non resta più nulla»39. È proprio per questo che si dovrebbe ‘allargare i confini
della città’.
Il desiderio di La Capria di guardare oltre i confini ‘fissi’ spiega anche perché il mare
occupi una posizione talmente centrale nella sua narrativa. L’ostinazione dello scrittore di
formarsi un’idea corretta del reale si traduce allora letteralmente in una volontà di
‘prendere il largo’, di sfuggire temporaneamente al mondo napoletano per scoprire un
altro. A questo proposito è significativo un passo di Napolitan graffiti che racconta di una
certa ‘bella giornata’ in cui La Capria e Anna Maria Ortese andarono insieme a Procida e
dove descrive il comportamento della scrittrice:
37
Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., p. 945.
Sabine Verhulst, Ricomporre Napoli nell’immaginario. La visione di Raffaele La Capria, in Le frontiere del
Sud, Firenze, Academia Universa Press, 2009. In corso di stampa.
39
Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., p. 989.
38
26
Con gli occhi rivolti dentro se stessa non vedeva niente dello spettacolo di fuori, non lo splendore del
mare che in realtà bagna Napoli, non la linea mutevole del paesaggio e la bellezza delle rive; e neppure
vide l’isola che ci veniva incontro con tutte le sue bianche case smozzicate che si riflettevano nello
specchio del porticciuolo. Quell’eccesso di luce che scoppiava nell’aria doveva sembrarle irriguardoso e
perfino indecente, la offendeva. [...] Ricordo che – come spesso accade – una luna trasparente, diafana,
e simile a un’ostia, navigava nel cielo diurno, consumata dalla luce, anch’essa fuori posto nella bella
giornata: creatura notturna, fatta per l’ombra, dove meglio s’irradia il suo nebuloso splendore, come la
futura scrittrice de Il mare non bagna Napoli.40
Dal passo risulta chiaro che, secondo La Capria, il vizio primario degli scrittori napoletani
è di chiudersi volontariamente, sia in senso letterale, nel recinto della loro città – come fa
Anna Maria Ortese ne Il mare non bagna Napoli – che in senso metaforico, nelle
rappresentazioni circolari e immobili di essa. Il loro peccato è di non vedere come ‘il mare
bagna Napoli’, di rifiutare di aprirsi sul mondo esteriore, e di adottare una visione
dinamica su di esso.
Inoltre, la citazione di Napolitan graffiti fa intravedere una seconda distinzione tra la
visione lacapriana e quella della maggior parte degli scrittori napoletani: laddove la Ortese
‘si rifugiò subito nel salone interno del vaporetto’ a causa di un eccesso di luce che la
offendeva, La Capria preferiva immedesimarsi completamente con la bella giornata. Ciò
potrebbe indicare la sua ostinazione di costruire un rapporto diretto col mondo esteriore,
senza la mediazione di modelli esistenti. Stranamente, critica lo scrittore, molti dei suoi
colleghi rifiutano di andare in cerca di una tale trasparenza completa del reale,
accontentandosi dell’ennesimo sfruttamento di luoghi comuni ‘oscuri’.
Silvio Perrella condivide questa opinione nell’Introduzione all’edizione dei Meridiani
delle Opere, da lui curata: «mentre Anna Maria Ortese non solo era assalita dalle ombre,
ma le cercava e le corteggiava, ponendo tra sé e il reale una «lente scura», La Capria
cercava la chiarezza, il fondamento geometrico del mondo, aspirando a un particolare tipo
di illuminismo, quello del cuore»41.
Nonostante il suo desiderio ardente di rompere la circolarità di Napoli, succede che anche
La Capria stesso, in quanto napoletano, viene sottomesso alla forza immobilizzante della
città materna. Perciò, ne L’occhio di Napoli, lo scrittore si chiede se non sia stato anche lui
40
41
Raffaele La Capria, Napolitan graffiti, in Id., Opere, cit., pp. 1139-1140.
Silvio Perrella, Il mondo come acqua, in Raffaele La Capria, Opere, cit., p. XX.
27
«preso nella «circolarità» di questo «discorso su Napoli», che interminabilmente ripete la
circolarità esistenziale della città»42. La Capria è dunque consapevole del fatto che uscire
dal cerchio necessita sempre uno sforzo. In realtà, anche se sembra suggerire che anche lui
non riesce ad abbandonare il cerchio vizioso napoletano, ne era in certo senso già uscito
più di trenta anni prima, con il suo romanzo Ferito a morte, dove offre un’immagine
nuova e completamente personale della cara città materna.
In ogni caso, La Capria teme che l’immobilità napoletana – e per estensione, meridionale
–, causata da un irresponsabile ed eccessivo riuso della ricca tradizione, possa finalmente
condurre a un’arretratezza irreparabile rispetto allo sviluppo culturale del Settentrione.
Però, sembra suggerire lo scrittore, l’immobilità contiene anche un vantaggio particolare
in quanto può generare una specie di attesa, anche essa tipicamente meridionale. Perciò, a
un napoletano che è in attesa di un miglioramento delle condizioni cittadine – come La
Capria – può capitare di intravedere improvvisamente le possibilità future della propria
città. E, dice lo scrittore, tale scoperta è sempre il risultato dell’immaginazione:
L’attesa [...] è il grande territorio dell’immaginazione. Ecco perché a Napoli di immaginazione ce n’è
tanta. Aspettiamo da secoli che accada qualcosa, ma è da secoli che non facciamo nulla per farla
accadere. Ci limitiamo ad aspettare, immobili, immaginando.43
In sostanza, La Capria sostiene che l’immaginazione è la chiave per eccellenza per
scoprire e capire l’essenziale, il nucleo del reale. Considera l’immaginazione come un
work in progress che parte sempre da un’osservazione della realtà, che viene poi
trasformata e interpretata da una mente acuta e indipendente. Così, l’immaginazione
conduce idealmente alla creazione di una ‘realtà possibile’, che in fondo è più vera di
quella che vediamo ogni giorno.
3.2. La funzione cognitiva dell’immaginazione lacapriana
Siccome l’immaginazione lacapriana nella sua forma matura è il frutto di una
collaborazione ben riuscita tra l’osservazione di immagini provenienti dal reale, e un
trattamento della mente su di esse, La Capria preferisce riferirsi al fenomeno sotto il nome
42
43
Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., p. 946.
Ivi, p. 1005.
28
di ‘immagini mentali’. Il punto di partenza, spiega lo scrittore ne Lo stile dell’anatra, sono
quasi sempre immagini legate alla vista:
I soli luoghi importanti per uno scrittore, e per chiunque, sono infatti i luoghi in cui nasce e si sviluppa
la memoria immaginativa, e l’identità più segreta. Questa memoria è fatta di immagini sensoriali e
mentali che si presentano nei momenti più imprevisti e in combinazioni impensabili, sempre legate però
ai cinque sensi e soprattutto, per me, a quello della vista; e poi odori, sapori, suoni, contatti.44
L’osservazione è certo pertinente se la confrontiamo con il funzionamento della narrativa
lacapriana, dove le immagini – del mare trasparente, della luce abbagliante, del Vesuvio e
di Palazzo donn’Anna – sono i luoghi di nascita non soltanto della scrittura lacapriana, ma
anche della sua concezione del mondo.
Perciò, sottolinea La Capria, una semplice osservazione del reale non è sufficiente per
capirne l’essenza. Ciò spiega il suo ostinato attacco contro il realismo letterario ne
L’occhio di Napoli:
Farebbe bene oggi uno scrittore che volesse interrompere questa circolarità a sospendere per qualche
tempo quel realismo che riproduce direttamente la realtà così com’è. A Napoli oggi la realtà è più forte
di quel realismo, quel realismo non sa come rappresentarla. La realtà se la ride, quando si accorge che
quel realismo vuole afferrarla. Va là, gli dice, torna quando sarai più grande e un po’ più scaltrito [...] e
ricordati che il vero realismo è sempre critico, risale sempre alle cause ultime. Cerca di non descrivermi
troppo, non sopporto le descrizioni insistite, sono superficiali e distruggono. Pensami, invece, fatti di me
un’immagine mentale forte e dominante, conoscitiva. Allora chissà, forse potrei anche concedermi un
po’.45
E dunque, conclude La Capria, uno scrittore che vuole occuparsi di Napoli non ha il
compito di «riprodurre direttamente la realtà così com’è», ma dovrebbe invece impegnarsi
e «ripensare la città continuamente»46.
Raffaele La Capria arriva alla conclusione non prima degli anni ottanta – o in ogni caso,
ce la esplicita per la prima volta. Se la confrontiamo con il ruolo dell’immaginazione e il
rapporto del protagonista con la realtà nel suo primo romanzo, Un giorno d’impazienza, le
differenze sono notevoli, e sembra che lo scrittore vi stia ancora cercando il suo stile. A
44
Raffaele La Capria, Lo stile dell’anatra, in Id., Opere, cit., p. 1572.
Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., pp. 946-947.
46
Ivi, p. 947.
45
29
questo proposito, Domenico Scarpa osserva tuttavia che il tema del romanzo è esattamente
‘l’inseguimento della Realtà’, e che si oppone così al ‘ricatto del Realismo’:
Un giorno d’impazienza, il primo romanzo pubblicato da Raffaele La Capria, è datato del 1952. In
quegli anni, l’imperativo dello scrittore italiano è catturare la realtà e inchiodarla alla pagina. I più
ingenui ci provano senza farsi troppe domande e si conformano chi più chi meno al ricatto del
Realismo, altri fanno dell’inseguimento stesso della Realtà il tema del racconto, riuscendo così ad
affrontarla e insieme a tenerla a distanza adeguata. Tra questi c’è anche La Capria.47
L’interpretazione di Scarpa è senza dubbio valida, anche perché Un giorno d’impazienza
non è soltanto la storia di un giovane in cerca della Realtà che «rimaneva sempre,
ostinatamente, al di fuori del mio sguardo»48, ma fa intravedere allo stesso tempo uno
scrittore che sta cercando la sua via.
Analizzando un brano di Un giorno d’impazienza, diventa chiaro quanto il primo romanzo
differisce dalle opere lacapriane future. Nel passo, il protagonista cerca a visualizzare la
faccia della sua amante, ma non ci riesce:
Cercai di fissare l’immagine di Mira in quel gesto impudico; ma invano. [...] Si ritraeva sempre in una
zona d’ombra, e solo separati frammenti, il taglio largo degli occhi, lo spessore assonnato delle
palpebre, il segno scontornato del rossetto, la rima sinuosa delle labbra, l’arsura dei capelli, si
disponevano in una composizione astratta, variabile, come i pezzi di carta d’un caleidoscopio. E quando
mi pareva di averla bloccata intorno a questi e altri particolari più vivi, sapevo bene che il volto ch’ero
riuscito finalmente a evocare non era il suo volto!49
Il problema sta proprio nel fatto che il personaggio vuole ‘riprodurre direttamente la
realtà’, scendendo nei minimi particolari. Così, numerose descrizioni di Un giorno
d’impazienza – anche se sono spesso ‘in assenza’, visualizzate – si perdono nei dettagli,
rendendo finalmente impossibile un insieme armonioso. Il tentativo sarà sempre vano,
proprio perché è impossibile riprodurre completamente la realtà così come è: tutto
sommato, il compito della descrizione – retorica, ma ovviamente anche letteraria –, dice
Garavelli nel suo Manuale di retorica, è proprio «il ‘porre davanti agli occhi’, in evidenza,
appunto, l’oggetto della comunicazione, mettendone in luce particolari caratterizzanti,
47
Domenico Scarpa, Mente narrante in corpo vivente. Metamorfosi di Raffaele La Capria, in Raffaele La
Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, a cura di Paolo Grossi, Napoli, Liguori, 2002, p. 9.
48
Raffaele La Capria, Un giorno d’impazienza, in Id., Opere, cit., p. 67.
49
Ivi, pp. 100-101.
30
per concentrare su di esso l’immaginazione [...] dell’ascoltatore, la sua capacità di
raffigurarsi nella mente ciò di cui si parla, di tradurre le parole in immagini»50. In altri
termini, una descrizione della realtà necessita sempre una selezione di particolari, perché è
impossibile copiarla così come è.
In Ferito a morte, il secondo romanzo, uscito nel 1961, questo tipo di descrizioni
dettagliate è semplicemente inesistente. Sembra che La Capria abbia cambiato idea nel
corso degli anni e che preferisca ora cancellare i dettagli del reale per conservarne
l’essenziale. Inoltre, ciò offre una maggiore libertà al lettore, che può trasformare e
interpretare le limitate descrizioni offerte nel romanzo secondo il proprio gusto e la
propria immaginazione.
La saggistica lacapriana segue dunque ovviamento la linea di Ferito a morte,
classificandola sotto il concetto di ‘immagine mentale’. In questo stesso periodo nasce
logicamente la sua critica del realismo, che non si limita al realismo letterario ma
costituisce una critica degli eccessi visivi della società moderna:
Fin qui la mia immagine di Napoli città mediterranea; una immagine mentale, perché quella realistica
fornita di solito dal cinema, dalla televisione, dai giornali e anche dalla letteratura contiene sempre
qualcosa di ovvio e di eccessivo, che invece di aiutare a capire la complessità stratificata di questa città
ne dà una semplificazione buona solo a rafforzare i pregiudizi già esistenti.51
Inoltre, sostiene La Capria ne L’armonia perduta, una rappresentazione troppo oggettiva
della realtà non è necessariamente più ‘vera’ di un’interpretazione soggettiva di essa. La
forza della soggettività – e dell’immaginazione – sta proprio nel fatto che essa non
riproduce il reale, ma crea una nuova realtà possibile. Questa ‘ipotesi’ della realtà si
distingue soprattutto per la sua qualità di guardare oltre i dati oggettivi e per la sua
ostinazione di scoprire ‘alcuni aspetti che altrimenti sfuggirebbero’:
Un romanzo anche quando è preso dalla realtà non la riproduce mai esattamente, è un «modello di
realtà», una «realtà possibile», una ipotesi che l’immaginazione cerca di rendere più vera e credibile del
vero, anche per far risaltare (del vero) alcuni aspetti che altrimenti sfuggirebbero.52
50
Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, cit., p. 238. Il corsivo è mio.
Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., pp. 915-916.
52
Raffaele La Capria, L’armonia perduta. Una fantasia sulla storia di Napoli, in Id., Opere, cit., p. 729.
51
31
Quindi, nel momento in cui l’immaginazione si trasforma in una forma ‘tangibile’,
letteraria, di metafore e similitudini, può contribuire decisamente alla trasmissione
concreta di aspetti del reale che, senza la sua mediazione, resterebbero impercettibili.
Perciò, le figure del discorso, che si presentano precisamente come la verbalizzazione
dell’immaginazione, non si distinguono più per la loro funzione meramente retorica e
ornamentale, ma soprattutto per la loro qualità cognitiva. L’importanza di questo loro
aspetto cognitivo viene sottolineato da La Capria ne L’armonia perduta:
[...] e dico che il mio libro è una fiction più che un saggio dove ho raccontato la storia di Napoli per
raccontare una mia storia interiore, il «poetico litigio» tra me e la mia città. Ripensandola dal profondo
della sua storia sotterranea con un approccio e un linguaggio tali da dare uno scatto all’immaginazione,
inventandomi un lessico appropriato, volevo proporre non una «rappresentazione» ma una «immagine
mentale» che aiutasse a ri-conoscerla, cioè a conoscerla di nuovo e in modo nuovo.53
L’ambizione lacapriana è dunque né più né meno di scoprire l’essenza dietro l’apparenza,
di perfezionare la sua conoscenza della verità. Lo scrittore esplicita il suo obiettivo ne
L’armonia perduta, una personale «mitografia conoscitiva», che dovrebbe essere letta
«senza confondere le metafore con la realtà»: «che non fossero prese alla lettera (come
quasi sempre avviene quando una metafora cade nel luogo in cui è stata costruita) e
avendo ben presente che non una verità storica io ho cercato ma una verità poetica»54.
Infatti, il primo capitolo di Ferito a morte dimostra bene come le metafore lacapriane
devono contribuire idealmente alla generazione di una personale ‘verità poetica’. Lo
scrittore napoletano ci usa una metafora, il cui significato rivela contemporaneamente
l’interpretazione lacapriana della metafora come modalità cognitiva. La Capria ci descrive
l’entrata della luce nella camera di Massimo, riferendosi ad un ‘grafico d’oro’:
Oscilla sulla parete bianca il grafico d’oro, trasmette irrequieto senza soste il messaggio: è una bella
giornata – bella giornata.55
Inoltre, ne Lo stile dell’anatra, lo scrittore descrive lo stesso raggio di sole di Ferito a
morte come un «geroglifico luminoso»56. Tenendo a mente che la metafora è considerata
come una figura di sostituzione che implica un trasferimento di significato, la luce si
53
Ivi, p. 777.
Ivi, pp. 776-777.
55
Raffaele La Capria, Ferito a morte, Milano, Oscar Mondadori, 1998, p. 13.
56
Raffaele La Capria, Lo stile dell’anatra, in Id., Opere, cit., p. 1574.
54
32
traduce dunque metaforicamente sia in un ‘grafico d’oro’ che in un ‘geroglifico’. Le
metafore attribuiscono così un nuovo significato alla luce, indicando giustamente la sua
capacità di trasmettere un messaggio prezioso – d’oro –, ma insieme misterioso e ancora
sconosciuto – geroglifico. In altre parole, con queste metafore ‘primarie’, La Capria
sembra offrire implicitamente una sua definizione personale della metafora come una
figura eccellente che ha la facoltà di generare nuove visioni sul mondo e di trasmettere
nuovi messaggi che sono incontestabilmente preziosi, ma difficili da raggiungere.
L’importanza delle metafore nella scrittura lacapriana è anche manifesta in Letteratura e
salti mortali, dove lo scrittore mette in campo l’insolita metafora del tuffo per definire
chiaramente quali sono, a suo parere, le qualità della ‘buona’ letteratura. La Capria ci
sostiene che il tuffo – elemento importante della sua ‘memoria immaginativa’ di Palazzo
donn’Anna – ha «molte analogie con la letteratura»57: la perfezione della figura, «il fattore
rischio e la necessità di un calcolo istintivo e insieme razionale»58, e «la capacità di far
convergere il tutto verso un unico punto focale»59.
Soprattutto interessante per questa tesi è la conclusione di La Capria alla fine del capitolo,
dove si realizza che ‘eventi apparentemente semplici e chiari’ della vita possono
nascondere dei possibili trasferimenti letterari – giustamente, metafore – che, a loro volta,
sono in grado di contribuire ad una progressiva conoscenza della realtà:
Quando mi allenavo nei tuffi con Ciccio Ferraris [...] non ci sognavamo nemmeno di parlare di queste
cose, e nemmeno immaginavo che un giorno avrei trasferito gli insegnamenti di Ciccio nella pratica
della letteratura. Ma la vita ci presenta sempre eventi apparentemente semplici e chiari (come due
ragazzi che si allenano su un trampolino in una bella giornata d’estate) che però – chissà, forse –
contengono un altro evento nascosto dentro il primo, in gestazione, che potrà manifestarsi o no, a
seconda dei casi o del Caso.60
E, conclude lo scrittore napoletano, dopotutto questa conclusione «è da tener presente per
chi la vita cerca di riversare, trasfigurandola, nella grande metafora della letteratura»61.
57
Raffaele La Capria, Letteratura e salti mortali, in Id., Opere, cit., p. 1166.
Ivi, p. 1167.
59
Ivi, p. 1168.
60
Ivi, p. 1173.
61
Ibidem.
58
33
Insomma, La Capria considera l’immaginazione, e la sua forma concreta della metafora,
come un meccanismo dinamico e cognitivo, che parte da fatti reali che vengono quindi
ripensati e trasfigurati in continuazione, con l’obiettivo di raggiungere alla fine una
visione più vera e più ricca sul mondo di quella offerta direttamente dalla realtà visibile.
Perciò, sembra suggerire lo scrittore, l’immaginazione è il frutto di un’unione armoniosa
tra esteriorità e interiorità, e dunque tra corpo e mente.
L’armonia tra esteriore e interiore è da tenere a mente per l’analisi di Ferito a morte, che,
in una prima fase, sembra la storia di uno scontro doloroso tra Natura e Storia – cioè, tra
corpo e mente. Però, vedremo come la conclusione finale del romanzo fa intravedere la
loro possibile armonia – anche se necessita uno sforzo per scoprirla.
34
4. L’IMMAGINAZIONE IN FERITO A MORTE
La necessità di creare un’immagine mentale di Napoli, come elaborata da La Capria nella
sua saggistica ‘matura’, dovrebbe in parte apparire – anche se in modo meno teoretico –
nella sua narrativa anteriore, e più specificamente nel suo primo romanzo napoletano,
Ferito a morte. Come vedremo, la prosa lacapriana si applica facilmente alla concezione
dell’‘immagine mentale’, teorizzata nella saggistica. In Ferito a morte, l’inserimento e la
ripetizione di metafore, e soprattutto quella della Bella Giornata (4.2.) e quella della
Foresta Vergine (4.3.), costituiscono quindi una vera modalità cognitiva, che permette
finalmente un’interpretazione corretta e completa della complessità della città materna
(4.4.).
4.1. Introduzione. L’epigrafe di W.H. Auden
Prima di analizzare l’immaginazione nel romanzo stesso, sarà utile studiare l’epigrafe di
esso: La Capria ci ha inserito alcuni versi di ‘Goodbye to the Mezzogiorno’, una poesia di
Wystan Hugh Auden del 1958 e dunque più o meno contemporanea alla stesura di Ferito
a morte. Il poeta inglese ci parla del suo soggiorno sull’isola di Ischia, e dei suoi motivi di
abbandonare l’Italia:
… between those who mean by a life a
Bildungsroman and those to whom living
Means to-be-visible-now, there yawns a gulf
Embrace[s] cannot bridge.62
In un suo articolo sulla narrativa lacapriana, Domenico Scarpa sostiene che l’epigrafe di
Ferito a morte evidenzia come Auden fa una distinzione fra due tipi di uomini, vale a dire
fra «coloro che intendono la vita come un perpetuo romanzo di formazione», una specie a
cui appartiene il poeta inglese stesso, e «coloro che la vivono come visibilità istantanea,
come appagamento spensierato dell’attimo assoluto»63.
62
Wystan Hugh Auden, epigrafe a Ferito a morte di Raffaele La Capria, cit., p. 1.
Domenico Scarpa, Mente narrante in corpo vivente, cit., in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e
passione civile, cit., p. 17.
63
35
In realtà si tratta di un abisso tra due culture: quella settentrionale e europea, dove la vita è
un Bildungsroman – non per caso la terminologia è tedesca –, dove tutto viene analizzato
dalla mente, ci si oppone allora alla cultura meridionale, che è dominata non dalla ragione,
ma dal corpo. Così, affermano numerosi studiosi, appoggiandosi anche sul fatto che il
poeta ha scritto la famosa poesia poco dopo la sua partenza da Ischia, ‘Goodbye to the
Mezzogiorno’ descrive l’atmosfera italiana e la reazione dei viaggiatori settentrionali su
essa.64
Confrontando l’epigrafe con il messaggio di Ferito a morte stesso, diventa chiaro che la
scelta di La Capria non può soltanto essere spiegata dalla sua ammirazione per Auden. Lo
scrittore sembra infatti contraddire la concezione del poeta inglese: invece di affermare la
spaccatura irrimediabile fra le due culture, La Capria propone di ‘colmare l’abisso’, di
costruire un ponte, raggiungendo così una visione sul mondo più ricca.
Così l’epigrafe esplicita il desiderio lacapriano di stabilire un’armonia fra mente e corpo,
un tema che occupa una posizione centrale in Ferito a morte. Ciò viene anche osservato
da Domenico Scarpa nello stesso articolo, che si intitola precisamente Mente narrante in
corpo vivente, dove afferma giustamente che «il problema di La Capria è sempre stato
quello di far coincidere la formazione – processo oscuro, segreto e interiore – con la
visibilità della vita vissuta che si spalanca verso un dehors di luce abbagliante»65.
La combinazione di vita interiore e vita esteriore, di lavoro mentale e realtà vissuta, così
cara allo scrittore e così importante nella sua scrittura, concorda in realtà molto bene con
la sua concezione personale dell’immaginazione, vale a dire: l’immaginazione non può
essere il risultato di un mero processo mentale che funziona indipendentemente dalla
realtà circostante, ma è invece sempre il frutto di un lavoro intellettuale che è anzitutto
condizionato dal mondo reale, che parte dalla vita quotidiana. In altre parole, si tratta di
immagini del reale che vengono interpretate dalla mente, per ottenere così un’immagine
mentale. L’immaginazione lacapriana ha inoltre un importante ruolo cognitivo in quanto
cerca di costituire un’interpretazione completa del mondo e di cogliere l’essenziale della
vita, un tentativo analogo a quello del protagonista di Ferito a morte.
64
Fra l’altro, Herbert Morgan Waidson in Auden and German literature, in «The Modern Language Review»,
vol. 70, no. 2, anno 1975, pp. 356-357.
65
Domenico Scarpa, Mente narrante in corpo vivente, cit., in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e
passione civile, cit., p. 16.
36
Perciò non colpisce che l’idea torni anche nelle epigrafi dei due altri romanzi della trilogia
Tre romanzi di una giornata. Nel terzo romanzo, Amore e psiche, La Capria sottolinea di
nuovo l’importanza del rapporto – della letteratura, e dunque della conoscenza – con la
realtà, inserendo una brevissima citazione di Ludwig Wittgenstein, che contiene tuttavia
tutte le idee lacapriane sulla letteratura e insieme, sulla vita:
Il mondo è tutto quello che accade.66
In altre parole, la valutazione di ‘tutto quello che accade’ di Wittgenstein e del ‘to-bevisible-now’ di Auden sottolinea che un’interpretazione corretta – anche se non assoluta,
ma individuale – di una società richiede anzitutto un’osservazione attenta di essa. La
Capria esplicita la necessità di un rapporto intenso con la realtà ne L’armonia perduta,
rifiutando l’idea che una società sia soltanto un’entità spirituale, e dunque mentale:
[...] una civiltà non è solo una cultura o un dato tipo di società, e nemmeno un costume, un patrimonio
spirituale, una fatalità etnico-geografica: è molto di più. È un mondo, qualcosa di globale che ha a che
fare con l’essere [...], è qualcosa di omogeneo e riconoscibile nel colore dell’intonaco di un palazzo
come nel grido di un venditore nella strada.67
Perfino l’epigrafe al primo romanzo lacapriano, Un giorno d’impazienza, dove lo scrittore
cita alcuni versi della poesia ‘Il ne faut pas’ del poeta francese Jacques Prévert, contiene
già le idee che verranno ulteriormente sviluppate nelle sue opere posteriori. Con la scelta
di Prévert, La Capria afferma infatti non soltanto di rifiutare il mondo meramente mentale,
ma anzi di concepire l’isolamento della mente come una bugia:
Quand on le laisse seul
le monde
mental
ment
monumentalement.68
L’allitterazione di Prévert, alla stregua del Bildungsroman di cui parla Auden, dimostra
così l’impossibilità di un mondo mentale che funziona indipendentemente.
66
Ludwig Wittgenstein, epigrafe a Amore e psiche di Raffaele La Capria in Id., Opere, cit., p. 307.
Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., pp. 775-776.
68
Jacques Prévert, epigrafe a Un giorno d’impazienza di Raffaele La Capria in Id., Opere, cit., p. 53.
67
37
Insomma, le epigrafi della trilogia Tre romanzi di una giornata dimostrano chiaramente
che la realtà circostante è il luogo di nascita della ispirazione lacapriana, il punto di
partenza della sua immaginazione e della sua progressiva conoscenza del mondo. Come
vedremo, Ferito a morte, il secondo romanzo della trilogia, comunica in modo chiaro la
necessità di un’unione armoniosa tra mente e corpo. Nel romanzo, l’unione si traduce
letteralmente nell’opposizione ‘universale’ tra Storia e Natura, che La Capria rende più
visibile attraverso le metafore della Bella Giornata e della Foresta Vergine. Lo scrittore –
e il suo alter ego, il protagonista Massimo – ci cerca di stabilire un equilibrio tra queste
due grandi forze universali: un equilibrio precario, difficile da ottenere e da mantenere,
che permette però una visione del mondo innovatrice e preziosa.
4.2. ... un mattino tutto luce in fondo al mare. Le immagini della Bella Giornata
Un’analisi dell’immaginazione in Ferito a morte richiede anzitutto un approfondimento
del suo motivo centrale, la metafora della Bella Giornata. Essa costituisce il nucleo
immaginativo del romanzo e contiene una promessa di felicità che sembra inseparabile
dalla vita napoletana. Per La Capria, questa promessa nasce dalla trasparenza del mare
mediterraneo. La ‘nascita’ della Bella Giornata può anche essere intesa in senso letterale,
visto che questa perfezione del mondo viene sempre legata all’età dell’infanzia (4.2.1.).
La seconda parte dimostra che sarà il mattino ad annunciare la nascita della Bella Giornata
e spiega perché la giornata sia la misura perfetta per descrivere la perfezione della natura
meridionale (4.2.2.). In una terza parte risulta chiaro che la metafora della Bella Giornata
si presenta in realtà come un’immagine immobile e atemporale, e che questa particolarità
contribuisce per di più alla legittimazione della struttura non convenzionale del romanzo
(4.2.3.). La quarta parte di questo capitolo contiene infine un’analisi del carattere effimero
di questa perfezione del mondo, simbolo dell’inevitabile perdita della gioventù (4.2.4.).
4.2.1. La Bella Giornata come promessa di felicità
Come punto di partenza per l’analisi della metafora della Bella Giornata, risulta utile
studiare l’autocommento lacapriano nel saggio L’armonia perduta. Lo scrittore ci contesta
38
non solo lo stato miserabile della propria città, ma ci svela anche la genesi del primo
romanzo di grande successo, Ferito a morte, dedicando un intero capitolo al tema della
Bella Giornata. In questo capitolo La Capria la descrive come «un’immagine primaria,
radiosa e irradiante, da cui scaturivano per germinazione spontanea altre immagini»69.
Questa idea primaria si presenta come un’entità autonoma, impossibile da evitare:
Ma bella voleva dire bella per conto suo, come la Natura che è indifferente al destino dell’uomo. Voleva
dire una gioia che sembra sempre lì, a portata di mano, proclamata dall’azzurro raggiante del cielo, e
che però non si può condividere. Voleva insomma dire una idea ostinata in fondo alla testa, radicata
nell’animo, nel sentimento delle cose, ed è rispetto a quell’idea che tutto si misura.70
Sin dall’inizio, è chiaro che Ferito a morte può leggersi come un’elaborazione completa
della figura della Bella Giornata, annunciata da un raggio di sole sulla parete della stanza
di Massimo. Da quel raggio sulla parete nasce una tale promessa di felicità, da attribuire
alla Bella Giornata delle caratteristiche quasi paradisiache, laddove lo scrittore parla di un
«mare edenico»71 o di un «mare felice Eldorado popoloso di pesci»72. Il primo capitolo di
Ferito a morte è una vera miniera di questo tipo di associazioni tra una promessa di
felicità e la splendida mescolanza meridionale di mare e luce. Si pensa allo «sguardo di
Carla che splende come un mattino tutto luce in fondo al mare»73, dove l’amore, il colmo
della felicità, evoca immediatamente l’immagine di un mare trasparente.
Nello stesso capitolo La Capria parla della «penombra del salotto attraversata da una
pioggia di dardi luminosi che il mare rimanda dalle imposte socchiuse»74. Questa frase
non ci apporta soltanto una nuova prova dell’inestricabile unione tra mare e luce, ma si
rivela anche molto interessante in confronto alle Lezioni americane di Calvino. All’inizio
della sua quarta ‘proposta’, che si dedica al concetto di visibilità, lo scrittore si riferisce al
verso dantesco «Poi piovve dentro a l’alta fantasia» (Purg. XVII, 25)75, che descrive il
momento in cui Dante sta contemplando delle immagini che si formano direttamente nella
sua mente, senza la mediazione dei sensi. Secondo Calvino, in questo passo Dante sta
69
Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 672.
Ivi, p. 683.
71
Ivi, p. 684.
72
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 15.
73
Ivi, p. 4.
74
Ibidem. Il corsivo è mio.
75
Citato da Italo Calvino, Visibilità, in Id., Lezioni americane, cit., p. 81.
70
39
parlando di visioni quasi come di «proiezioni cinematografiche [...] su uno schermo
separato da quella che per lui è la realtà oggettiva»76.
Le analogie tra la pioggia di immagini dantesca e quella di ‘dardi luminosi’ in Ferito a
morte sono notevoli. In realtà il nostro romanzo nasce appena il protagonista «spalanca il
finestrone, e la bella giornata entra tutta, di colpo, nella stanza, un’esagerazione di luce»77.
Questa esagerazione di luce stimola infatti la sua immaginazione e l’evocazione dei suoi
ricordi, che si estendono poi ai vari capitoli del romanzo. In altri termini, la presenza della
luce è una condizione assolutamente necessaria all’avvio dell’immaginazione. Inoltre, il
giovane avrà l’impressione che «tutto avviene come in un film»78, cioè la sensazione di
uscire dalla realtà e di trovarsi in uno ‘schermo separato’, come adeguatamente descritto
da Calvino.
Tuttavia La Capria sostiene che questa perfezione del mondo sia soltanto visibile durante
l’infanzia. Di conseguenza, quando parla di una Bella Giornata, si tratta di un momento
ben definito e transitorio, un concetto esclusivamente applicabile alla prima fase della
vita. Perciò può essere interessante un confronto fra il nostro romanzo e La neve del
Vesuvio, racconto che La Capria stesso descrive in questi termini: «oltre ad essere il
racconto dell’infanzia di Tonino [...] è per me anche il racconto dell’infanzia di Ferito a
morte»79. In questo libro, dove la Bella Giornata torna perfino esplicitamente nel titolo di
un capitolo, è possibile distinguere una fase di vita ancora più pura e innocente di quella
che si trova in Ferito a morte. La magia della Bella Giornata ci è ancora completamente
intatta:
Quando [...] la barca [...] si mosse e s’inoltrò sul mare diretta alla Gaiòla, a Tonino parve di trovarsi
all’interno di un grande uovo azzurro, tra intangibili alte e curve pareti d’aria, un grande uovo tiepido e
dolce che racchiudeva per lui tutta la perfezione del mondo.80
L’evocazione di ‘un grande uovo tiepido e dolce’ non è certo casuale, tenendo conto del
fatto che La neve del Vesuvio è il racconto di una lenta ma dolorosa liberazione di un
76
Ivi, p. 82.
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 14.
78
Ivi, p. 52.
79
Raffaele La Capria, Postfazione a La neve del Vesuvio, Milano, Mondadori, 1991, p. 124, citato da Sergio
Blazina, «Nell’assoluto equoreo silenzio»: immagini della natura e parole della coscienza nella narrativa di La
Capria, in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 55.
80
Raffaele La Capria, La neve del Vesuvio, in Id., Opere, cit., p. 593.
77
40
bambino dal grembo materno, come fu osservato da Gérard Vittori.81 Nel brano citato, il
sentimento di sicurezza e di protezione del bambino si rispecchia ancora perfettamente nel
panorama circostante, in questo «impassibile azzurro che avvolgeva il mondo come un
guscio trasparente»82.
Nonostante il fatto che Ferito a morte riguardi una fase di vita più matura, possiamo
trovare una evocazione analoga, nel momento in cui il protagonista descrive il paesaggio
intorno e «noi soli sul mare, in un giorno fermo e lucido, come dentro una grande ostrica
con le valve chiuse all’orizzonte»83. Benché qui l’ostrica non si riferisca esplicitamente
allo stato prenatale al modo dell’uovo ne La neve del Vesuvio, l’idea di un mondo chiuso e
sicuro ci è ancora chiaramente presente. Inoltre, La Capria fa ancora un’allusione diretta al
grembo materno nel momento in cui Massimo sta al Circolo Nautico e «si rincantuccia di
nuovo dietro le palpebre sollevate [...], sprofonda di nuovo in un caldo buio fetale»84. In
questa scena, il protagonista rifiuta di partecipare alle chiacchiere dei giovani napoletani e
preferisce rimettersi alla propria immaginazione, lontana dalla banalità e dall’apparente
semplicità della vita napoletana.
L’immagine del grembo, inestricabilmente legata all’immagine mentale della Bella
Giornata, sembra quindi fondamentale nell’opera di La Capria e torna inoltre ancora in
alcuni dei suoi saggi più recenti, nonostante l’età avanzata dello scrittore. Ne L’occhio di
Napoli per esempio, uscito nel 1994, La Capria afferma ancora che «lo spazio chiuso del
golfo, con in fondo il Vesuvio dai lievi fianchi ondulanti, è come il grembo della grande
città materna che li abbraccia e li protegge»85. Anche in Capri e non più Capri, uscito nel
1991, lo scrittore evoca l’immagine del grembo, ma qui si rivolge decisamente al passato,
a qualcosa di perduto:
L’unica consolazione, l’unica amante vera, che si concedeva gratis e con abbandono, era allora la
Natura di quest’isola, le sue bianche spiaggette sassose raggiunte in sandolino, i suoi scogli assolati e le
81
Gérard Vittori, Reale, immaginario e simbolico in «La neve del Vesuvio» di Raffaele La Capria, in Raffaele La
Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 97.
82
Raffaele La Capria, La neve del Vesuvio, in Id., Opere, cit., p. 597.
83
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 53.
84
Ivi, p. 74.
85
Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli. Taccuino (1992-1993), in Id., Opere, cit., p. 928.
41
sue acque incantate dalle trasparenze. Lì, nel suo grembo bruciante, in qualche grotta antro o anfratto, si
consumavano gli amori dell’estate.86
Tuttavia nelle opere giovanili di La Capria, a cui appartiene Ferito a morte (e possiamo
anche includerci La neve del Vesuvio per l’età del protagonista), l’evocazione del grembo
materno si presenta ancora come una stato naturale e reale, ed implica di conseguenza
un’identificazione totale con il mondo circostante. A proposito de La neve del Vesuvio,
Vittori osserva che Tonino «non si distingue più dalle cose che percepisce» e che ciò
avviene anche «nel suo rapporto col mare»87. Per questo, continua Vittori, la trasparenza è
di un’importanza fondamentale per La Capria, quella trasparenza «per cui non esiste
nessun elemento terzo»88 che può impedirlo di immedesimarsi con la Natura. In Ferito a
morte, l’immedesimazione si manifesta nettamente durante le spedizioni sott’acqua del
protagonista, in un silenzio assoluto. L’esempio più chiaro di questa identificazione è
probabilmente il momento in cui Massimo fugge dalla sua prima delusione amorosa, dalla
dolorosa realtà quotidiana, con il desiderio di tornare al grembo, allo stato innocente, e
dunque al fondo del mare, dove il fratello lo trova «a braccia aperte come un Cristo,
sott’acqua col boccaglio sul petto, pareva una macchia di sole sopra il verde dello
scoglio»89.
Infine, i diversi elementi che costituiscono una Bella Giornata, la luce, il cielo e quel
«trionfante azzurro sempre giovane mare»90, resistono senza alcuno sforzo allo scorrere
del tempo, non invecchiano mai, non perdono mai il loro splendido aspetto. Forieri di una
promessa di felicità, si rivolgono in continuazione al futuro, al di sopra di una percezione
normale del tempo e del presente. Così, nel capitolo del Circolo Nautico, quando La
Capria descrive un giovane napoletano che «guarda preoccupato il mare o il futuro,
tamburella con le dita il bracciolo della sedia a sdraio»91, la suggestione del futuro nasce
dall’osservazione del mare e permette di uscire dalla prigione del presente, di rivolgersi
verso il futuro, verso una promessa di felicità lontana e insostenibile. Paradossalmente, la
Bella Giornata di Ferito a morte, invece di promettere per «mille e mille anni»92 delle
86
Raffaele La Capria, Capri e non più Capri, in Id., Opere, cit., p. 850. Il corsivo è mio.
Gérard Vittori, Reale, immaginario e simbolico in «La neve del Vesuvio» di Raffaele La Capria, in Raffaele La
Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 97.
88
Ibidem.
89
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 30.
90
Ivi, p. 70.
91
Ivi, p. 91.
92
Ivi, p. 15.
87
42
giornate uguali a essa, diventerà molto presto, e concretamente durante l’atto di scrittura,
qualcosa di perduto nel passato.
4.2.2. La giornata, una misura innata e molto napoletana del tempo
Non a caso, La Capria preferisce la misura della giornata per raffigurare la bellezza
naturale e la spensieratezza giovanile. Elegge la giornata non soltanto in Ferito a morte,
ma anche in Un giorno d’impazienza e Amore e psiche, i due romanzi che formano con il
primo la trilogia Tre romanzi di una giornata. Salvo la misura del tempo, i tre romanzi (e
forse sopratutto l’ultimo, che La Capria stesso descrive come il meno riuscito) non
sembrano avere molto in comune. Può darsi che il solo vero fil rouge della trilogia sia la
scelta della giornata, una misura che si può facilmente associare con la gioventù, sia per
quanto riguarda l’anno di pubblicazione dei romanzi che per la loro tematica. Così Un
giorno d’impazienza, il primo romanzo lacapriano, è contemporaneamente un’iniziazione
alla scrittura (per lo scrittore) e alla vita adulta (per il protagonista). Poi, benché Amore e
psiche non sia un vero romanzo di formazione, il fatto che il racconto si svolga negli anni
Sessanta indica in fondo lo stesso spirito di rivolta tipico dei giovani e legittima perciò la
struttura della giornata. Ne L’armonia perduta, La Capria svela perché ha scelto questa
misura per la stesura di Ferito a morte:
Di giornate come quella che volevo descrivere ne era già spuntata qualcuna, e splendida, negli anni
Venti. Parlo della giornata «pointillista» della Woolf, e di quella sterminata e labirintica di Joyce.
Questi esempi mi parevano inimitabili (e da non imitare), anche se io sapevo bene che la mia giornata
non era un fatto letterario acquisito da quei modelli, mi apparteneva biologicamente e atavicamente, era
già nella mia immaginazione, era una misura innata e molto napoletana del tempo, e tanto intimamente
la sentivo che ho sempre cercato di racchiudere la storia da raccontare nel «giro molto giornaliero di un
giorno».93
La Capria sostiene dunque che La Bella Giornata, nel raffigurare un momento di vita
intenso ma transitorio, sia il quadro adatto per cogliere la gioia di vivere della gioventù.
La giornata si presenta allo scrittore come una forma preesistente al primo abbozzo del
romanzo, una forma ‘innata’, che era ‘già nella sua immaginazione’. Inoltre la concepisce
come una misura ‘molto napoletana’ del tempo, dando così una valorizzazione positiva
93
Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 675. Il corsivo è mio.
43
della mentalità dei napoletani, giovani di spirito e favorevoli al motto del carpe diem, ma
sottintendendo allo stesso tempo una mancanza totale di maturità. Come vedremo, questa
ultima osservazione fa parte di una critica più ampia sulla città di Napoli da parte dello
scrittore.
Ad ogni modo, ciò che importa in questa fase dell’argomentazione, è il fatto che la Bella
Giornata rappresenta per La Capria una misura ‘giovanile’ del tempo. In realtà però, si
tratta piuttosto di un mattino prolungato: la luce è tangibile in ogni pagina del romanzo e
sembra peraltro una condizione necessaria alla nascita del romanzo stesso. Per di più, le
sere napoletane non vengono quasi mai menzionate, come se si trattasse di qualcosa di
subordinato rispetto al mattino, all’inizio del giorno. Così, sia in Ferito a morte che nel
capitolo su ‘la Bella Giornata’ de La neve del Vesuvio, un raggio di sole che penetra nella
stanza fa entrare il mattino, e con esso la bella giornata. Ne L’armonia perduta, La Capria
rievoca l’incipit di Ferito a morte con queste parole:
Il mio libro comincia con un raggio di sole che, penetrando attraverso le imposte socchiuse, brilla come
un geroglifico luminoso sulla parete della stanza dove Massimo si sta svegliando dai suoi sogni inquieti.
Quell raggio gli porta l’annuncio della bella giornata. E una nuova estate sta per arrivare, lo dicono i
colpi di maglio del battipalo provenienti dallo stabilimento balneare in costruzione.94
È vero che l’associazione tra mattino, inizio del giorno, e gioventù, inizio della vita, non
sia certo una trovata eccezionale di La Capria, visto che si tratta di un topos antichissimo,
già affrontato da Aristotele nella Poetica, con la sua tripartizione delle età in armonia con
le fasi del giorno.95 Tuttavia, il nostro scrittore riesce a inserire ed a modificare questo
topos nel suo romanzo, con una tale convinzione da consegnare al lettore un insieme
poetico incontestabilmente affascinante. Così, la prima frase di Ferito a morte ci offre un
paragone con «un aereo quando lo vedi sbucare ancora silenzioso nel cerchio tranquillo
del mattino»96, un paragone che fa prova dell’enorme capacità immaginativa ‘plastica’ e
visiva di La Capria, e dove inserisce inoltre un’altra volta l’idea di un guscio che copre e
protegge il mare. Con la stessa sensibilità poetica, lo scrittore descrive per esempio il
94
Ivi, pp. 681-682.
Aristotele, Poetica, traduzione e introduzione di Guido Paduano, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 47, citato da
Sabine Verhulst, Introduzione. Età, giorni, stagioni, in Giorni, stagioni, secoli. Le età dell’uomo nella lingua e
nella letteratura italiana, a cura di Sabine Verhulst e Nadine Vanwelkenhuyzen, Roma, Carocci, 2005, pp. 2627, n. 22.
96
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 3. Il corsivo è mio.
95
44
suono del colpo di maglio che sta entrando nella stanza di Massimo come «una pietra che
cade nel lago azzurro del mattino»97, ricorrendo di nuovo all’immagine dell’acqua.
Infine, l’associazione tra gioventù e mattino permette l’uso di un secondo topos letterario,
come nella frase seguente di Ferito a morte:
E salta fuori imprevedibile dal tempo che è tutt’un’estate, lo spazio bianco d’un mattino.98
In questo passo La Capria inserisce l’immagine di un’estate atemporale, confrontandola
con quella del mattino, per il suo analogo riferimento implicito alla gioventù. Il motivo
dell’estate torna quando il protagonista si accorge del fatto che «arrivano certe mattine
come un pezzo d’estate nel cuore dell’inverno»99. Qui, le fasi della vita non sono soltanto
paragonate alle fasi del giorno (secondo la tripartizione aristotelica), ma anche al ciclo
delle stagioni. Colpisce però che La Capria usi continuamente l’immagine dell’estate per
riferirsi alla gioventù, invece di ricorrere alla stagione considerata tradizionalmente la più
conveniente per la rappresentazione dell’adolescenza, cioè la primavera. Ci salta dunque
immediatamente dall’inverno – che rappresenta l’assoluto inizio della vita, in cui non si ha
ancora la capacità di agire in modo autonomo – all’estate – una metafora che racchiude in
sé l’idea di maturità –, senza denominare la primavera. Confrontiamo questa frase ora con
una frase quasi identica de La neve del Vesuvio, che si riferisce però alla primavera:
Una serie di giornate così in quella stagione nessuno se la ricordava, era come una primavera inattesa
nel cuore dell’inverno, con una luce chiara ed esatta che azzerava l’azzurro all’orizzonte e dava risalto a
ogni linea del paesaggio [...].100
Questa osservazione può essere aggiunta facilmente all’impressione già citata che La neve
del Vesuvio rappresenta una fase di vita più semplice e più innocente rispetto a quella di
Ferito a morte: laddove il giovane Tonino sta ancora scoprendo poco a poco il mondo
circostante (con l’irragiungibile Vesuvio come simbolo), come un fiore che sboccia
lentamente in primavera, il mondo ‘estivo’ in cui vive il protagonista di Ferito a morte è
già stato scoperto interamente, e la Bella Giornata ne emerge in gran parte demitizzata.
Seguendo le metafore delle stagioni, si potrebbe concluderne che Massimo, benché
97
Ivi, p. 13.
Ivi, p. 53.
99
Ivi, p. 124.
100
Raffaele La Capria, La neve del Vesuvio, in Id., Opere, cit., p. 623. Il corsivo è mio.
98
45
giovane, si trova già al culmine dell’arco della sua vita, da un lato diventato critico e
consapevole nei confronti del mondo, d’altro lato ancora attirato da questa fase di vita
appena conclusa, che viene sempre di nuovo suggerita dalla Bella Giornata.
4.2.3. Un’immagine immobile e atemporale
Accanto alla potenzialità metaforica della giornata nei confronti delle fasi della vita, la
scelta per questa misura temporale può anche essere motivata da un bisogno quasi
metafisico. Così, la storia di una sola Bella Giornata – o di alcune di quelle splendide
giornate estive degli anni quaranta e cinquanta come in Ferito a morte –, può e deve
contenere un amalgama di caratteristiche immutabili o perfino eterne. Perciò, il giorno
costituisce una misura perfetta, non soltanto per le sue inerenti qualità naturali e umani
(cioè proprio ‘quotidiane’), ma anche perché, nel loro insieme, la sequenza dei giorni
forma una specie di linea retta che racchiude in sé quest’idea di eternità. Ritroviamo
questa idea chiaramente nel primo capitolo di Ferito a morte, quando Massimo, che si sta
preparando per la sua ultima Bella Giornata napoletana, si chiede:
Continueranno a splendere anche domani con maglie di sole oscillanti sul fondo? [...] Domani e poi
domani quei giorni continueranno a splendere per conto loro, come se io fossi ancora qua o come
quando morirò, ora o tra mille anni indifferenti e uguali [...].101
Da un lato, il protagonista rimane impressionato da questo splendere eterno del mare e del
sole, dall’altro sembra deluso della propria fugacità, del fatto che «un giorno, tra mille e
mille anni uguale a questo, oggi è una bella giornata, dirà un raggio sulla parete»102 e
dell’idea che lui non potrà più partecipare a quel giorno lontano.
La forza naturale e immaginativa della Bella Giornata si manifesta inoltre in un modo
così dominante da condurre ad una cancellazione totale della percezione umana del
tempo. Le impressioni della natura mediterranea sembrano fermare allora l’andamento
normale del mondo. In un passo di Capri e non più Capri, queste idee vengono esplicitate
durante una conversazione:
101
102
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 15.
Ivi, p. 16.
46
[...] mi pare che dicesse che ogni cosa decade nel tempo, che il tempo è un concetto umano, e che non si
sa nulla di un tempo «oggettivo», di un tempo al di fuori del tempo. Forse voleva prendermi in giro
perché l’avevo costretto suo malgrado a una di quelle conversazioni astronomiche che a volte si fanno a
Capri quando ci si attarda la sera a prendere il fresco sopra un terrazzo, per adeguarsi al paesaggio quasi
sempre imponente e a un cielo quasi sempre troppo carico di stelle.103
La contemplazione di questo splendido panorama immobile, condensata nella metafora
della Bella Giornata, costituisce il nucleo narrativo e insieme il punto di partenza, non
soltanto del romanzo Ferito a morte, ma della maggior parte dei testi narrativi lacapriani
che sono situati in contesto napoletano – cioè escludendo il romanzo romano Amore e
psiche e il romanzo indeterminato Un giorno d’impazienza. Da questa ‘fonte’ primaria
sorgono poi immagini secondarie, come La Capria precisa ne L’armonia perduta:
Ma perché proprio una «bella giornata»?
Perché era per me un’immagine primaria [...] da cui scaturivano per germinazione spontanea altre
immagini tutte legate a momenti assoluti dislocati in un tempo immobile. Queste immagini avrei voluto
disporle in un «certo ordine» ancora a me sconosciuto ma dettato da quella, unica e prima, sepolta
dentro di me, ineffabile, e corrispondente al mio sentimento del mondo.104
In quel modo Ferito a morte si rappresenta come una figura circolare con la Bella
Giornata al centro, intorno al quale gravitano dei fatti molto diversi fra di loro che
rimandano comunque allo stesso nucleo tematico e che esprimono dunque lo stesso
messaggio. Inoltre La Capria esplicita questa idea dicendo che i fatti devono «gravitare
nel campo magnetico di una «bella giornata», dove tutto tiene e niente può essere
compreso se non in rapporto ad essa»105.
Accanto alla metafora del cerchio, si potrebbe far leva su un’altra per rappresentare questa
struttura particolare di Ferito a morte, suggerita dal ‘sentimento del mondo’ di La Capria.
Si riscontra questa seconda metafora in Capri e non più Capri:
L’acqua chiara, più ancora dell’azzurro del cielo, è uno degli elementi essenziali che concorrono a
determinare quella disposizione dell’anima, quel sentimento del mondo, che ho chiamato «la bella
giornata». [...] Nuoti e senti l’azzurro-verde-turchese nelle infinite sue vibrazioni lo senti risuonare
103
Raffaele La Capria, Capri e non più Capri, in Id., Opere, cit., p. 803.
Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., pp. 671-672.
105
Ivi, p. 673.
104
47
dentro come una scala musicale, con la stessa leggerezza, la stessa inafferabile emozione che dà la
musica.106
Da questa citazione si può dedurre una secondo metafora per la struttura del romanzo, ora
in armonia con l’immagine di un tema musicale. Secondo questa concezione, lo stato
d’animo dello scrittore avrebbe dato luogo ad uno specifico motivo musicale che esprime
l’essenza delle sue emozioni – cioè proprio la Bella Giornata –, al quale torna sempre di
nuovo, inserendo qua e là intermezzi o variazioni sul tema centrale.
È chiaro che, con tali suggerimenti, La Capria voglia evitare che la struttura del suo
romanzo venga interpretata come un mero gioco intellettuale quale era in voga negli
ambienti letterari di quegli anni – benché fosse meno diffuso in Italia. Rifiutando un
approccio formale alla maniera di Robbe-Grillet e il nouveau roman, La Capria sottolinea
in continuazione che aveva semplicemente la volontà di «rievocare uno stato d’animo», e
di «cercare dentro di me, in quell’immagine della «bella giornata», la struttura simbolica
che sola avrebbe potuto motivare il mio libro»107. In altre parole, l’enfasi sul nucleo
immaginativo della Bella Giornata in Ferito a morte deve evidenziare che non si tratta di
una giornata, ma che il termine racchiude in sé tutte le giornate, e dunque tutte le qualità,
della giovinezza. Così, la Giornata evolve da una semplice misura temporale a un’entità
puramente simbolica.
Ciò giustifica il fatto che la dimensione temporale passi in secondo piano in Ferito a
morte, occupando una posizione subordinata rispetto all’elaborazione del ‘nucleo’ della
Bella Giornata. Perciò, la struttura particolare del romanzo, lontana dall’essere un gioco
sperimentale, va piuttosto letta come un insieme ‘intuitivo’, che costituisce un mezzo
espressivo adatto per La Capria, che gode così di una maggiore libertà creativa. In uno
studio recente su Il tempo e la poesia, Elisabetta Graziosi fa un’osservazione analoga a
proposito di questa ‘subordinazione’ del tempo nella letteratura novecentesca in generale:
«Come il tempo che passa inavvertito per chi è intento ad altro, il tempo nel testo a volte
può restare in penombra, implicato in immagini di più esplicita evidenza»108.
106
Raffaele La Capria, Capri e non più Capri, in Id., Opere, cit., p. 853.
Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 681.
108
Elisabetta Graziosi, Introduzione a Il tempo e la poesia. Un quadro novecentesco, a cura di Elisabetta
Graziosi, Bologna, CLUEB, 2008, p. 9. Il corsivo è mio.
107
48
Se lo scrittore novecentesco dispone in generale di una grande libertà per quanto riguarda
la concezione del tempo, ciò non ha tuttavia evitato che la struttura del secondo romanzo
lacapriano è stata contestata duramente, fra l’altro da Eugenio Montale, sostenendo che
«la tecnica divora il libro, ne è l’argomento principale: tutto il resto – figure, fatti, episodi
– è il combustibile della macchina formale»109. Questo tipo di critica non tiene però conto
del fatto che la struttura particolare di molti romanzi novecenteschi rifletta giustamente
l’incapacità di rispondere ad una struttura tradizionale e lineare. Questa incapacità per
definizione novecentesca conduce molto spesso ad una frantumazione – o meglio, ad una
subordinazione – del tempo, come osserva la stessa Graziosi:
Sarà certo un tempo non lineare e non ciclico, non progressivo e non ripetitivo, bensì mobile e
puntiforme, senza un disegno riconoscibile, che non sia quello di un tempo conflagrato fatto di momenti
che iniziano e finiscono istantaneamente senza collegarsi. Non più un retta [sic] del tempo ma una nube
gassosa.110
L’osservazione corrisponde perfettamente alle irregolarità temporali di Ferito a morte, la
cui stesura sembra essere realizzata precisamente ‘senza un disegno riconoscibile’, vale a
dire intuitivamente, intorno a un tema centrale.
Questo modo di interpretare il romanzo come un insieme di variazioni su un tema centrale
è soltanto valido a condizione di accettare che la storia si svolge in un luogo insieme – e
paradossalmente? – immobile e eterno. Questa osservazione corrisponde in gran parte a
quella di Cristina Terrile, che descrive il romanzo precisamente come «una prosa in cui il
rapporto fra i personaggi e la loro memoria o, in generale, la loro esperienza è intercettato
e fatto convergere in un tempo universale, di tutti i soggetti e di nessun soggetto, il tempo
del mito, appunto»111. Come epigrafe al suo articolo, Terrile ha scelto una citazione di
Cesare Pavese: «ricordare non è muoversi nel tempo, ma uscirne e sapere che siamo»112.
Non a caso, la frase citata è ricavata da un saggio pavesiano che si intitola L’adolescenza,
e più specificamente dal paragrafo seguente:
109
Eugenio Montale, Letture, in «Corriere della sera», 17 giugno 1961, citato da Aurelio Benevento, Rilettura di
«Ferito a morte» di Raffaele La Capria, in «Critica letteraria», anno 2005, n. 4, p. 716.
110
Elisabetta Graziosi, Introduzione a Il tempo e la poesia. Un quadro novecentesco, cit., p. 19.
111
Cristina Terrile, «Ferito a morte» nel romanzo italiano del novecento, in Raffaele La Capria. Letteratura,
senso comune e passione civile, cit., p. 38. Il corsivo è mio.
112
Ivi, p. 27.
49
La nostra fanciullezza, la molla di ogni nostro stupore, è non ciò che fummo ma che siamo da sempre.
La durata non tocca gli istanti interiori: altrimenti quel sussulto di gioia, che ci accoglie nel ricordo
assoluto, riuscirebbe inspiegabile. Qui ricordare non è muoversi nel tempo, ma uscirne e sapere che
siamo. L’infanzia a ripensarla suggerisce nostalgia non tristezze: di essa ci manca unicamente quella
maggior facilità – la purezza iniziale – di vivere nell’essere genuino.113
Questa riflessione di Pavese sulla vivacità ‘eterna’ del ricordo concorda in fondo con la
concezione lacapriana della memoria. Durante l’atto di scrittura, La Capria si trova in
realtà ancora in quel «presente privo di durata»114 dell’adolescenza, senza correre il
rischio di cadere nella nostalgia e senza ‘ritornare’ esplicitamente nel passato. Per lo
scrittore, si tratta piuttosto di immedesimarsi di nuovo in quel mondo scomparso, come se
esistesse ancora.
A causa del suo ‘tempo del mito’ o ‘universale’, continua Terrile, Ferito a morte riceve
«un senso sovrapersonale, metastorico, strappato alle scansioni dell’unità soggettiva»115,
cioè un significato universale. Questa universalità del discorso lacapriano – una catena
continua di espressioni sulla bellezza universale dell’età giovanile, in armonia con la
giovinezza della bellezza naturale – si traduce ovviamente anzitutto nella volontà dello
scrittore di eternare la sua visione del mondo in una vasta opera letteraria. Ciò permette
anche di interpretare diversamente il passo seguente di Ferito a morte:
A larghe spirali si dissolve il panorama intorno a lui nei vapori del mezzogiorno, il cielo e il mare, tutto
bello, irrimediabile, non se ne può più! Possibile che tutto sia uguale e tutto sia cambiato? Sì è possibile.
Possibile che nessun segno preannunci il cambiamento? [...]
Possibile the tutto avviene come in un film, che tu lo vedi e pare che sta succedendo qualche cosa
proprio in quel momento, e invece il film è stato già girato in un ordine diverso, e tutto è fermo nel
rotolo del tempo? Sì, è possibile, è possibile.116
Con queste ripetizioni della parola ‘possibile’ – la parola viene ripetuta non meno di sei
volte in un passo brevissimo – La Capria vuole insistere sulla possibilità o perfino
sull’altissima probabilità dell’esistenza di un aspetto immobile e eterno, ma indescrivibile
del mondo. Nella prima parte del brano citato, lo scrittore si rivolge al futuro, che
dovrebbe allora essere in gran parte ‘uguale’ al presente; nella seconda si riferisce al
113
Cesare Pavese, L’adolescenza, in Id., Feria d’agosto, Torino, Einaudi, 1968, pp. 152-153.
Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 746.
115
Cristina Terrile, «Ferito a morte» nel romanzo italiano del novecento, in Raffaele La Capria. Letteratura,
senso comune e passione civile, cit., p. 43.
116
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 52.
114
50
passato, evocando l’idea di un film ‘già girato’. Inoltre, lo scrittore fa un secondo
riferimento al cinema qualche pagina dopo, quando sta descrivendo la scena della grotta
(una sottile allusione al grembo materno), dove nascono i primi sentimenti amorosi del
protagonista. Anche lì, le facce dei giovani sono ‘come in un film’, mettendo l’accento
sull’aspetto eterno dell’amore. Comunque, ritornando al brano di sopra, con il paragone
tra lo scorrere del tempo e la resistenza del mezzo cinematografico, sembra che La Capria
voglia tradurre il proprio desiderio di eternare il proprio ‘sentimento del mondo’, che lo
aveva inizialmente spinto ad impugnare la penna.
4.2.4. L’armonia perduta o illusoria?
La metafora della Bella Giornata, immagine irresistibile di giovinezza e felicità, risulta
allo stesso tempo problematica in quanto è il risultato di una retrospezione, di un atto di
recupero del passato. Ciò vale non soltanto per lo scrittore stesso, ma anche per il suo
protagonista (del resto La Capria ha suggerito più di una volta che Massimo è in realtà un
suo alter ego): il primo è già consapevole della fugacità della giovinezza e, in senso più
lato, della vita, il secondo sta per prenderne coscienza. I tre ultimi capitoli di Ferito a
morte vanno dunque interpretati come una progressiva e dolorosa delucidazione del
protagonista rispetto al suo ambiente giovanile. Così, quando Massimo, tornato a Napoli
per le vacanze, incontra Sasà, uno dei suoi ‘eroi’ napoletani di qualche anno prima, egli
«si volta a guardarmi, e il mondo sembra improvvisamente invecchiato con lui»117. Poco
dopo, il protagonista osserva perfino freddamente che «gli venivano fuori quei tratti di
giovane vecchio, di bel ragazzo che non è mai passato per i gradi degli anni, ma un giorno
è saltato all’improvviso, senza nemmeno rendersene conto, dall’adolescenza all’età
matura»118.
In quel modo, gli ultimi capitoli di Ferito a morte rappresentano lo stadio finale di una
lenta presa di coscienza dell’aspetto effimero e illusorio della Bella Giornata, concludendo
così la formazione del protagonista. I primi segni di questa consapevolezza crescente sono
però già tangibili prima della partenza di Massimo per Roma. Quando il giovane si trova
117
118
Ivi, p. 144.
Ivi, p. 151.
51
sul mare, nel secondo capitolo del romanzo, la consapevolezza si presenta ancora in un
modo molto sottile:
Un altro rèfolo di vento dritto sulla barca. Il vento che ti sfiora, mai, mai più, ripasserà. La pelle d’oca
per il piacere di quella carezza. Anche il mare rabbrividisce, pelle d’oca anche il mare. S’anima di
piccole crespe luminose che corrono tutte d’accordo incontro alla barca.119
In questa scena, il vento che passa – l’immagine è tratta da un verso di Ungaretti, come La
Capria ha chiarito ne L’armonia perduta120 – simboleggia ovviamente l’inevitabile
scorrere del tempo. Tale realizzazione fa accapponare non soltanto la pelle del giovane
protagonista – e secondo questa interpretazione, la pelle d’oca non viene allora dal
cosiddetto ‘piacere della carezza’, ma dalla drammatica costatazione della fugacità della
vita – ma anche, in senso figurativo, quella del mare. La Natura manifesta dunque la
propria solidarietà con il giovane, benché essa non conosca quel dolore d’invecchiare,
essendo eternamente giovane. Un altro brano, che evoca di nuovo quel ‘vento che ti
sfiora’ ci fornisce ulteriori chiarimenti:
- Maaa...ssimo!
La voce infantile, partita da uno scoglio del golfo in un’ora silenziosa, assolata come questa, oppure dal
luogo più segreto e doloroso del cuore. Arriva sempre il richiamo indefinibile dolce angoscioso, sempre
di colpo... Peccato, tanto intelligente, come dice mamma?, ma sempre tra le nuvole. Altro che nuvole,
direbbe Gaetano, questo è il canto delle Sirene, desiderio d’evasione, e non ti basta la vita che facciamo
qua che è tutta una vacanza? E poi: La vacanza è una specie di rottura con la realtà, una evasione dalla
Storia, e solo la Storia ha senso. Ma intanto il richiamo insensato attraversa il silenzio del mattino, come
uno spiro di vento. Il vento che ti sfiora, come dice il verso?’121
Qui abbiamo a che fare con due voci contraddittorie: da un lato una voce infantile (più
volte ripetuta nel romanzo attraverso il richiamo insistente ‘Maaa...ssimo!’), in realtà una
metafora per la giovinezza in generale, una voce seducente che viene dal sole; dall’altro
una voce che viene da un luogo ‘più segreto e doloroso del cuore’, una voce interiore che
non può frenare la consapevolezza progressiva del protagonista. Il successivo desiderio di
fuga viene suggerito non soltanto dal suo amico razionale Gaetano, ma anche da una forte
necessità di abbandonare la propria giovinezza e insieme la città che rappresenta questa
119
Ivi, p. 25. Il corsivo è mio.
Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 671.
121
Raffaele La Capria, Ferito a morte, pp. 52-53. Il corsivo è mio.
120
52
giovinezza, la città di Napoli che rifiuta continuamente di crescere, alla stregua dei suoi
cittadini.
Oltre al vento, anche l’acqua può servire da metafora per lo scorrere del tempo. Questo è
il caso alla fine del settimo capitolo, nel momento in cui il protagonista si congeda
definitivamente da Napoli. Nel passo, Massimo si immagina la propria città qualche ora
dopo, all’imbrunire, quando lui non ci sarà più:
L’acqua scorre nel bagno, ed anche il tempo scorre, e quando i colori saranno più precisi sul tardi, non
più formula nel sole la marina, tutto fermo nell’ora viola innaffiata dall’ombra vivida [...] quando le
parole pacate di due pescatori saliranno alla finestra [...] non io più sarò qua.122
Inoltre, questa evocazione della sera può anche essere intesa come un’allusione al topos
delle parti del giorno che rappresentano le età dell’uomo, da cui si può dedurre che, per La
Capria, le immagini della sera e dell’ombra racchiudono in sé un’idea di vecchiaia e
rassegnazione. Questa idea emerge anche da una conversazione recente fra lo scrittore e
Serafino Amato in un suo documentario. La Capria ci parla del suo libro recente L’estro
quotidiano – un altro titolo che contiene un riferimento alla misura del giorno, la misura
perfetta per cogliere l’essenza della vita. A proposito di questo libro, che in sostanza è una
riflessione sulla vecchiaia e la morte, lo scrittore afferma che aveva anche pensato al titolo
alternativo Nell’ombra della Bella Giornata.123 Questa asserzione fornisce un’altra prova
dell’ossessione lacapriana di rappresentare la vita in opposizioni binarie, di mattino e sera,
di luce e ombra – senza però mai cadere nella nostalgia.
Ad ogni modo, la partenza da Napoli provoca nel protagonista, oltre a questa sensazione
forte della fugacità della vita, un disagio quasi esistenziale, un sentimento di avere
mancato qualcosa ‘per sempre’ e di non poter recuperarlo ‘mai più’. In concreto,
l’impressione sembra essere nata dopo la sua prima dolorosa esperienza amorosa con
Carla, ma vedremo che questa ‘mancanza’ permette anche un’interpretazione più ampia.
Nel settimo capitolo, poco prima della partenza, Massimo si lamenta di questa occasione
mancata e del carattere irreversibile di essa:
122
Ivi, cit., p. 130.
Raffaele La Capria, scrittore d’acqua, 2005, 58 min., regia di Serafino Amato: un documentario in DVD
accluso al libro Letteratura e libertà di Emanuele Trevi e Raffaele La Capria, Roma, Fandango, 2009.
123
53
E dirgli che intelligenza e Storia non valgono, se un giorno, a me una stupida troppo forte giovanile
emozione, a un altro un colpo ugualmente irrimediabile e forse casuale, ti mettono di fronte ad un fatto
compiuto, compiuto una volta per tutte, o meglio, che si compie in ogni attimo della vita riproponendosi
in tanti modi diversi, elusivi, ma in sostanza quello, e sempre quello! E addio allora, dal momento che
sai, addio al bell’oggi di prima che t’avvolgeva come l’acqua il pesce che nuota, le cose mute per te,
mutate per sempre da quel momento, per sempre, e inutile è ostinarsi, mai più, mai più uno di quei
giorni di prima, uno solo, ritroverai per caso una mattina.124
In realtà, le emozioni descritte non sono soltanto il risultato della prima esperienza
amorosa, ma sembrano piuttosto essere provocate dalla cosiddetta Grande Occasione
Mancata, un’altra famosa metafora lacapriana, intimamente legata a quella della Bella
Giornata. Ne L’armonia perduta, La Capria cerca di spiegare il significato di questa
metafora complessa, e la descrive come «il senso di una Grande Occasione Mancata (la
sua stessa giovinezza? la felicità? la vita?), di una profonda disillusione»125. Questa
metafora può dunque leggersi come il rovescio della medaglia della Bella Giornata, come
una sua progressiva perdita o delusione. In Ferito a morte, il sentimento di mancanza è già
tangibile nella prima scena del romanzo, in senso metaforico. Massimo, nel dormiveglia,
ci si immagina una caccia subacquea a una spigola, ma manca di nuovo il bersaglio. Poco
dopo, rievoca la ‘Scena’ primaria, cioè la dolorosa esperienza amorosa, che funge quindi
da metafora per una Occasione Mancata più ampia.
Rimane poi la questione se l’immagine della gioventù, come la ritroviamo in Ferito a
morte, rappresenta un’armonia perduta, il che implica che sia esistita un tempo, oppure
un’armonia illusoria, in realtà mai vissuta. La prima ipotesi è sostenuta dal saggio
lacapriano che ne porta perfino il titolo, L’armonia perduta, e dove lo scrittore parla in
parte della perdita della Bella Giornata. Però, anche in questo testo, La Capria sembra
esitare fra il carattere reale o illusorio della sua metafora complessiva, affermando che
essa «era una illusione, lo so, ma quella «bella giornata» era come un’aspettativa, un
termine di paragone ancestrale e la misura di tutte le cose»126. La Capria afferma dunque
prima di tutto che si tratta di una illusione, ma sottolinea immediatamente dopo che la
Bella Giornata è ancora la misura di tutte le cose.
124
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 128.
Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 683. Il corsivo è mio.
126
Ivi, p. 761.
125
54
Un’altra sfumatura viene offerta da La Capria stesso nel documentario di Serafino Amato,
dove racconta un suo sogno in cui sfogliava un libro che si intitolava Illusions perdues –
come il romanzo di Balzac – e che questo titolo «sembrava significativo per la vecchiaia,
tante illusioni perdute»127. In questa ottica, la Bella Giornata sarebbe insieme qualcosa di
perduto e di illusorio, che lascia poca speranza. Però, contestualizzando la citazione, e
paragonandola con le altre parti del documentario, dove La Capria mostra con passione e
orgoglio i luoghi sacri della propria gioventù, diventa chiaro che quei luoghi gli danno
ancora ispirazione e che il suo idealismo giovanile non è affatto completamente
scomparso. Nonostante qualche affermazione contraddittoria, la Bella Giornata incarna
insomma un’armonia effimera ma reale, un’armonia in parte perduta ma ancora
recuperabile.
A questo proposito l’articolo di Domenico Scarpa offre un punto di vista interessante.
Nella conclusione del suo articolo, che esamina in realtà il primo romanzo di La Capria,
Un giorno d’impazienza, Scarpa compare la fine dei tre libri che formano la trilogia Tre
romanzi di una giornata, a cui appartiene Ferito a morte. Secondo Scarpa, tutti e tre
romanzi si terminano su un’immagine in cui «il lettore si ritrova a contemplare, insieme
col protagonista del romanzo, una perfezione difettiva»128. Tale interpretazione si basa
sulla predilezione lacapriana «per il non finito, per il fortuito, per il filo d’aria e persino
per il «non riuscito»»129 e sulla convinzione che secondo La Capria «nella vita come
nell’opera tutto può tornare, tutto resto aperto, tutto si può riproporre e riprodurre»130.
L’osservazione è certo interessante, anche se la ‘perfezione difettiva’ di cui parla Scarpa,
non sembra ancora molto palese in Un giorno d’impazienza, visto che si tratta di un
romanzo anteriore alla nascita del concetto della Bella Giornata. La fine di Amore e psiche
invece, l’ultimo dei Tre romanzi di una giornata, ci offre un bellissimo esempio di quella
perfezione effimera, con la descrizione del padre che sta contemplando gli occhi della sua
bambina:
Ecco egli è insediato nello sguardo che parte da zero, che destituito di immagini e di pensieri di parole e
di concetti, fissa immobile ogni cosa – senza batter ciglio. E sente che alla perfezione di quell’occhio
corrisponde la perfezione del mondo che quell’occhio vede.
127
Raffaele La Capria, scrittore d’acqua, regia di Serafino Amato, cit.
Domenico Scarpa, Mente narrante in corpo vivente, cit., in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e
passione civile, , cit., p. 25.
129
Ivi, p. 26.
130
Ibidem.
128
55
Per un attimo lo vede anche lui, così, indistintamente, come in un improvviso risveglio.131
Contemplando gli occhi di sua figlia, il padre può dunque recuperare la propria giovinezza
e rivivere ‘per un attimo’ quel sentimento di perfezione intimamente legato ad essa. Per
quanto riguarda la fine di Ferito a morte, anche lì si può distinguere un desiderio del
protagonista di recuperare l’età giovanile:
E là, in fondo alla strada, qualcosa-che-passa-e-sembra, bionda coda di cavallo oscillante, ha svoltato
l’angolo. Cerco lei, cerco Ninì... e mi pare sempre di camminare dietro qualcuno di cui sento ancora,
vicini, i passi sopra queste pietre.132
Alla fine di Ferito a morte, Massimo torna dunque al luogo della sua adolescenza, sia
nello spazio – in questo momento si trova a Capri – sia nel tempo, cioè nei suoi ricordi,
con quella coda di cavallo di Carla che oscilla ancora come prima, che è ancora altrettanto
bionda, che non è cambiata per niente nonostante lo scorrere del tempo. In altre parole, è
soltanto un ritorno fisico al luogo dell’infanzia che permette di rivivere questa sensazione
‘giovanile’, effimera di un mondo perfetto.
Insomma, la Bella Giornata, simbolo di giovinezza e felicità, risulta in parte illusoria, in
quanto si presenta, durante l’infanzia, come un sentimento perpetuo. Però, questo non
vuole dire che sarebbe un’immagine completamente insostenibile: benché una parte di
questa idealizzazione infantile si riveli presto inadatta al mondo adulto, alla vita reale,
un’altra parte di essa persiste, e diventa poi ‘la misura di tutte le cose’. La figura contiene
dunque un elemento essenzialmente vero, un sentimento del mondo che non perde mai
della sua forza. Questi momenti, in cui la perfezione del mondo si manifesta agli occhi
dell’uomo, sono però rari ed effimeri. Sono più facilmente accessibili durante l’infanzia,
nella primavera della vita, ma sono ancora recuperabili più tardi, ad un’età più avanzata,
come emerge dalle pagine lacapriane più mature.
Per concludere con un’altra metafora, l’essenza assoluta della Bella Giornata è in realtà
tangibile in un qualsiasi «audace tuffo mattutino in mare da palazzo donn’Anna»133, come
osserva Sergio Blazina. Perciò, lo studioso si riferisce al primo capitolo di Letteratura e
131
Raffaele La Capria, Amore e psiche, in Id., Opere, p. 396.
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 176.
133
Sergio Blazina, «Nell’assoluto equoreo silenzio», cit., in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e
passione civile, cit., p. 64. Blazina si riferisce al tuffo mattutino descritto da La Capria ne L’armonia perduta.
132
56
salti mortali, dove La Capria propone un paragone fra lo scrittore e il tuffatore. Blazina
precisa che il tuffo descritto dallo scrittore simboleggia giustamente «il tratto rapido che
sfida l’opacità del mondo, la perfezione istantanea»134. Per riprendere le parole di La
Capria:
Il tuffo, diversamente da un racconto o un romanzo, una volta fatto scompare. Tutto avviene molto
rapidamente, è un attimo di bellezza in cui giocano come s’è visto diversi fattori, e che lascia solo una
labile traccia nella memoria. Questo senso di effimero è molto simile all’«attimo fuggente» che talvolta
cogliamo nella vita. La letteratura si propone invece di durare, vuole riscattare la vita dalla sua fugacità,
fermare l’«attimo fuggente».135
La Bella Giornata, l’attimo fuggente di perfezione vissuto più volte durante l’infanzia,
serve dunque da punto di partenza per La Capria, e lo ha spinto inizialmente a scrivere.
Allo stesso tempo, riconosce che lo scopo della sua scrittura è di far durare per sempre
quel sentimento perfetto ma per definizione effimero, e di versarlo in una forma eterna.
Però, talvolta la mentalità di Napoli stessa – luogo di nascita della Bella Giornata –
impedisce di vivere pienamente questo momento effimero di perfezione. In Ferito a
morte, la metafora della Foresta Vergine simboleggia così la minaccia che pende sempre
sopra la Bella Giornata, senza presentarsi tuttavia come il suo equivalente negativo. In
realtà, le due famose metafore lacapriane sono più intrecciate di quanto si pensi, come
vedremo nel capitolo seguente.
4.3. ... carico di minacciosa alterità. La metafora della Foresta Vergine
L’immagine oscura della Foresta Vergine si oppone alla scena pittoresca della Bella
Giornata, come simbolo di una Natura violenta e minacciosa. Tuttavia si tratta di una falsa
opposizione, visto che le due metafore della natura sono intimamente legate tra di loro:
l’immagine della Foresta Vergine si presenta come una deduzione estrema della metafora
della Bella Giornata. Nella prima parte viene analizzata la ragione dell’implosione della
Bella Giornata: la perdita della giovinezza non è infatti l’unica ragione della sua
decadenza, e sembra che la cultura napoletana abbia contribuito in modo decisivo al suo
134
135
Ibidem.
Raffaele La Capria, Letteratura e salti mortali, in Id., Opere, cit., p. 1173.
57
annientamento (4.3.1.). Per spiegare meglio questa osservazione, la seconda parte mette in
evidenza la concezione lacapriana della città di Napoli, luogo di confronto tra Natura e
Storia. Secondo La Capria, il confronto è problematico in quanto la Natura si presenta
come una forza superiore, tale da cancellare il progresso della Storia. Questa violenza
della natura napoletana è inclusa nella metafora della Foresta Vergine (4.3.2.). Per quanto
riguarda la Storia, essa viene invece presentata sia come una luce quasi abbagliante, sia
come una corrente fresca, tutte e due lontane e irraggiungibili da Napoli (4.3.3.). Perciò la
Natura, simbolo di un’immobilità violenta, verrà criticata da La Capria in Ferito a morte.
Come vedremo nell’ultima parte di questo capitolo, lo scrittore ha l’impressione che la
‘natura’ napoletana (sia in senso letterale che in senso di ‘carattere, mentalità’, riferendosi
così ai napoletani stessi) impedisce un qualsiasi progresso culturale e provoca perciò una
profonda sensazione di disagio (4.3.4.).
4.3.1. L’implosione della Bella Giornata
In una prima fase, bisogna chiedersi quali sono le ragioni di quella lenta decadenza della
Bella Giornata. Come visto nel capitolo precedente, la perdita della giovinezza ne è in
ogni caso una ragione importante. Però, quando per esempio La Capria dichiara ne
L’occhio di Napoli che, guardando Palazzo donn’Anna, ha l’impressione che «il senso
della rovina finale di tutte le cose si insinuava nello splendore della bella giornata»136,
sembra suggerire che lo scorrere del tempo non sia l’unica ragione di quella ‘rovina finale
di tutte le cose’, tenendo conto del fatto che lo scrittore, anno 2010, scrive e parla ancora,
e con una passione quasi giovanile, della sua personale Bella Giornata.
Così, la sensazione di disagio provata da Massimo in Ferito a morte – e dunque da La
Capria stesso –, che annuncia la perdita della Bella Giornata, non si spiega esclusivamente
attraverso la sua coscienza crescente della fugacità della vita. Il giovane protagonista,
essendo ancora nell’estate della sua vita e godendo ancora della bellezza naturale, evoca
allo stesso tempo alcune immagini che svelano il carattere problematico, non della Bella
Giornata stessa, ma della cultura napoletana, intimamente legata ad essa.
136
Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., p. 978.
58
Riprendendo l’immagine della luce, così cara a La Capria – in un certo senso il luogo di
nascita della sua immaginazione –, il sole può anche trasformarsi in una forza crudele,
come emerge da una lunga frase all’inizio del secondo capitolo, che riportiamo in parte:
«sotto l’occhio ironico del sole, [...] la qui dolcissima ma non per questo meno feroce
Natura [...] inizia la sua opera paziente [...], che prevede l’annullamento totale di uomini e
cose»137. Quando questa forza naturale ‘violenta’ si trasforma poi in una forma sensibile,
in un caldo insopportabile, il protagonista ha l’impressione che «lo sdraio è una barella, e
il sole? Il sole è una logora vestaglia tiepida che t’avvolge da capo a piedi»138. Per mettere
in rilievo la sensazione di disagio del protagonista, La Capria evoca quindi l’immagine di
una forza pesante, perfino soffocante, che impedisce al giovane di muoversi liberamente.
Poco dopo, ricorre ad un’associazione analoga per descrivere il momento in cui il signor
De Luca sta contemplando il panorama napoletano con «il Vesuvio là, viola-polveroso
sulla cima, più giù il caldo caduto come una cortina di tulle»139. La descrizione del caldo
come ‘una cortina di tulle’, evoca di nuovo un’idea di limitata libertà di movimento, quasi
di soffocazione o carcerazione. L’assocazione viene inoltre rinforzata dall’immagine del
Vesuvio ‘polveroso’, il vulcano essendo presentato come un’entità non trasparente, opaca
e oscura. L’immagine della cortina è poi interessante perché torna esplicitamente in un
tutt’altro contesto nel romanzo, in un passo dove il protagonista si sta immaginando una
conversazione con Gaetano sulla Foresta Vergine:
In fondo Gaetano aveva ragione. – Che cosa ancora ti trattiene? Avrebbe riso se gli avessi risposto:
Ritrovare uno solo di quei giorni. Ma quali giorni? [...] Un altro laureato in legge contribuirà alla
conservazione della Foresta Vergine, a rendere più oscillante il gruppo degli oscillanti problemi, a
diffondere la cortina fumogena di parole e atteggiamenti.140
La Capria ricorre qui di nuovo all’immagine della cortina, ma questa volta la usa a
proposito della Foresta Vergine, la metafora della natura violenta e inerte di Napoli e dei
napoletani, come vedremo. In questo contesto la cortina, in quanto ‘fumogena’, contiene
insomma un’idea di opacità, opponendosi in questo modo all’immagine idealizzata del
mare trasparente della Bella Giornata.
137
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 17.
Ivi, p. 71.
139
Ivi, p. 97.
140
Ivi, pp. 115-116.
138
59
In altri termini, il sole napoletano descritto in Ferito a morte, che sta alla base della luce
dell’immaginazione lacapriana, può provocare allo stesso tempo una forte sensazione di
disagio. Nei momenti in cui il protagonista non lo sopporta più, il caldo prodotto dal sole
viene descritto come un tessuto che pesa sull’essere e sui movimenti. Queste associazioni
permettono quindi di fare un legame con l’anima napoletana stessa, rappresentato dalla
Foresta Vergine, che pesa continuamente sul protagonista di Ferito a morte, causando
finalmente la sua partenza.
Non soltanto il sole e il caldo, ma anche il mare, il secondo componente della Bella
Giornata, può rivelarsi un’entità cattiva e minacciante. Questa immagine del mare buio è
rintracciabile nella sua forma primaria e innocente ne La neve del Vesuvio, dove la paura
del mare agitato sta in forte contrasto con l’immagine del mare come ‘grande uovo
azzurro’, citata nel capitolo precedente. Questo brano descrive il momento in cui Tonino
si realizza che suo padre, punto di riferimento per eccellenza, può anche sbagliare e
vergognarsi, e non è più che «un uomo come ogni altro, pieno d’incertezze e di paure, un
pover’uomo sconfitto»141:
Cosa avrebbe fatto adesso? Come si sarebbe difeso da quella nera marea, da quel buio oceano indistinto
che gli piombava di colpo addosso ogni notte come una valanga e lo seppelliva vivo? Sprofondato in
quel buio soffocava, e solo un grido disumano, irriconoscibile – il suo grido di terrore – gli
sopravviveva.142
Il contesto infantile di questa allusione al mare non è però di grande importanza qui; quel
che conta è il fatto che il mare possa essere concepito come un incubo, come un’entità che
può impaurire. Il riferimento alla paura dell’acqua torna inoltre in altri paragoni de La
neve del Vesuvio, per esempio quando Tonino, vedendo un orango tristo, pensa che
l’animale voglia morire (quel pensiero «gli salì come un’onda enorme dentro che lo
travolse»143), o quando, non comprendendo il significato di una parola, ammette che «era
nera e minacciosa e ruotava com il gorgo di un fiume buio nella sua immaginazione»144.
Benché in Ferito a morte le immagini di quel mare minaccioso siano forse meno
numerose, anche qui il mare può acquisire un significato più buio, in contrasto con il suo
141
Raffaele La Capria, La neve del Vesuvio, in Id., Opere, cit., p. 610.
Ibidem. Il corsivo è mio.
143
Ivi, p. 613.
144
Ivi, p. 605.
142
60
valore abituale in quanto elemento preliminare della Bella Giornata. Così, dopo la prima
delusione amorosa, Massimo, stando solo sulla spiaggia, osserva che «resta solo il rumore
del mare con quel grido di lei dentro, il rumore del mare sempre più forte»145: il mare lo
confronta dunque con il proprio dolore e rifiuta di dare pace al giovane. Poi, l’immagine
del «mare terribile che s’era ingrossato di colpo»146 entra letteralmente nella storia alla
fine del romanzo, quando Mauro racconta ‘la storia del motoscafo’ affondato. L’incidente
mortale può allora intendersi come un’ultima conseguenza, quasi come una punizione,
degli atteggiamenti delle tre vittime, tra cui Glauco, «triangolo pieno di muscoli»147,
incarnazione della superficialità napoletana.
Insomma, sembra che alcune immagini del sole e del mare in Ferito a morte abbiano il
compito di preannunciare la lenta decadenza della Bella Giornata. Le connotazioni che
esse comportano – la pesantezza insopportabile del caldo, la minaccia terribile del mare –
sono poi significative perché non possono spiegarsi unicamente come annunciatori della
fine della giovinezza. In realtà, da queste immagini soffocanti e oscure, emerge anche
chiaramente il rapporto difficile di La Capria con la propria città. Lo scrittore rivela allora
la sua personale incapacità di adattarsi al carattere innato di molti dei suoi concittadini, a
questa inclinazione eterna per il godimento fisico e per le conversazioni superficiali. La
prevalenza del corpo sulla mente, tipicamente napoletana, può allora intendersi come una
conseguenza estrema della presenza straordinaria della Natura nel golfo di Napoli. Perciò,
quando la Bella Giornata comincia a ‘tramontare’ – a perdere i suoi splendidi aspetti – la
contraddizione tra Natura e Storia diventa più palese.
4.3.2. Natura e Storia: un matrimonio difficile
L’immagine lacapriana di Napoli, bagnata dal mare e avvolta dal caldo, fa poi nascere
l’idea che la città viene letteralmente assorbita e perfino oppressa dalla Natura. Questa
idea emerge chiaramente da alcuni passi di Ferito a morte, per esempio dalla descrizione
del protagonista che sta sdraiato sugli scogli, e «il sole se lo mangia insieme a tutto il
resto, agli scogli, alle montagne, alle case laggiù. [...] Napoli, tutt’avvolta dal fiato opaco
145
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 13.
Ivi, p. 174.
147
Ivi, p. 25.
146
61
del mare, nemmeno si vede, il Vesuvio appena appena, un’ombra più intensa del cielo»148.
Si potrebbe dire che l’assorbimento della città nella natura conduce qui quasi alla sua
cancellazione, o in ogni caso alla sua impercettibilità.
Oltre al fatto che riesca a rendere invisibile la propria città, la violenta Natura napoletana
può poi impedire di distinguere gli individui nella totalità naturale. Nel contesto della
Bella Giornata – cioè durante l’età innocente, la cui forma più pura ritroviamo ne La neve
del Vesuvio – tale confronto di uomini e natura poteva ancora avere degli effetti positivi:
la trasparenza del mare permetteva di immedesimarsi nella natura, di ‘tornare’ al grembo
materno, e di vivere così in armonia con la natura.
In Ferito a morte, invece, l’identificazione con la natura risulta piuttosto problematica.
Così, il tentativo di Massimo di nuotare fino al fondo del mare, si ferma sull’immagine del
giovane «a braccia aperte come un Cristo», che pare «una macchia di sole sopra il verde
dello scoglio»149. Benché la scena stessa abbia forse qualcosa di intrinsicamente poetico,
l’episodio avrà conseguenze drammatiche in quanto il protagonista ci lascia quasi la pelle.
I pericoli della pesca subacquea sono dunque ben presenti, ma ciò non frena la volontà dei
personaggi di continuare a nuotare senza riprender fiato, di rimanere sotto acqua il più a
lungo possibile. Quel desiderio di sentire «la testa alleggerita come se avessi bevuto»150
potrebbe anche indicare un rifiuto di ritornare alla superficie dell’acqua, e dunque una
specie di fuga dal mondo reale, dove regna, o dovrebbe regnare, la Ragione.
La Capria critica questa identificazione esagerata e insensata con la natura solamente in
parte, in quanto era anche un suo passatempo giovanile preferito. La sua critica – parziale
– emerge non soltanto dal fatto che il protagonista rinuncia finalmente alla Bella Giornata,
ma anche dall’associazione tra il flusso ininterrotto di parole di zio Umberto e la pesca
subacquea: lo zio «parlerà come nuotando sott’acqua nella foga senza riprender fiato
finendo a polmoni sgonfi con uno sforzo di volontà che impegna inutilmente gola e corde
vocali»151. Il rifiuto (o meglio l’incapacità?) dello zio di riprender fiato, di tornare alla
superficie, può allora venire inteso come il rifiuto di far uso della ragione, l’incapacità di
avere conversazioni approfondite e il desiderio di cercare rifugio nella natura.
148
Ivi, p. 35.
Ivi, p. 30.
150
Ibidem.
151
Ivi, p. 103.
149
62
Secondo La Capria, l’impegno di ristabilire un equilibrio tra Natura e Storia a Napoli è
dunque problematico, se non completamente vano. Per rappresentare l’incontro fra queste
due grandi forze universali, lo scrittore preferisce ricorrere alla metafora della spugna,
simbolo della Storia, che assorbisce controvoglia ma rassegnatamente l’acqua, simbolo
della Natura. La penetrazione della Natura nella Storia, rappresentata dall’acqua assorbita
nella spugna, ha l’effetto nefasto di disturbare il buon funzionamento di quest’ultima, di
impedire qualsiasi progresso storico, frenando dunque anche l’impiego della ragione.
In Ferito a morte, l’idea della spugna si riflette anzitutto in un’immagine analoga, quando
La Capria descrive il respiro del mare che «copre e scopre lo scoglio allungato sott’acqua
come il relitto di una nave»152: la nave, simbolo evidente delle qualità e delle conoscenze
umane, ci viene quindi irrevocabilmente destrutta e assorbita dal mare.
Comunque, tutto fa presumere che la metafora della spugna sia nata dalla contemplazione
di Palazzo donn’Anna, dove La Capria stesso ha trascorso gran parte della sua infanzia.
Ne L’armonia perduta lo scrittore spiega perché il palazzo sul mare sia tanto importante
per lui, sia per la sua immaginazione, sia per la sua interpretazione di Napoli:
È un antico palazzo seicentesco costruito da un viceré spagnolo, e poi abbandonato alle devastazioni e
all’incuria che lo hanno ridotto nello stato in cui è ora: una maestosa mole cadente e quasi una rovina,
ma bellissima, al cospetto del mare. [...] assume a volte l’aspetto di uno scoglio o di una rupe appena
emersa dalle profondità marine [...]. E così appare, a prima vista, come qualcosa di non ben definito e
non-finito, che appartiene ora alla Storia, quando vien fuori il corrusco austero barocco dell’architettura,
ora alla Natura quando quasi si confonde con la linea della costa e diventa un elemento del paesaggio.
Questa ambiguità, questo essere a mezzo tra la Natura e la Storia, è anche il segreto contrasto
dell’anima napoletana.153
Così, il luogo d’infanzia di La Capria contiene l’essenza del carattere napoletano, vale a
dire questa ambiguità, o meglio questo confronto continuo fra Natura e Storia. A questo
proposito, d’Orlando osserva giustamente che la metafora di Palazzo donn’Anna illustra
152
153
Ivi, p. 29.
Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 646.
63
perfettamente «il sincretismo lacapriano», cogliendovi una «sineddoche particolarmente
efficace» per la città di Napoli.154
Tuttavia, nella narrativa lacapriana le descrizioni del palazzo non offrono un’immagine
così armoniosa e equilibrata di questo confronto tra Natura e Storia. Invece di presentare
un equilibrio tra le due forze, il palazzo diventa simbolo della vittoria della Natura sulla
Storia. In un certo senso, l’idea è già presente ne La neve del Vesuvio, dove Tonino non
trova impressionante il palazzo in mezzo alla natura, e una volta trovato, lo descrive in
termini puramente naturali:
Palazzo donn’Anna dov’era? Erano veramente partiti di là? Ora lo vedeva a poppa, dietro le spalle di
Glauco, come una grossa pietra pomice, piena di buchi, galleggiante tra le ville lungo la riviera.155
Anche in Ferito a morte, Palazzo donn’Anna – che in questo romanzo riceve il nome di
Palazzo Medina – non riesce completamente a simboleggiare un equilibrio armonioso tra
Natura e Storia. Il palazzo si trasforma invece in un «paradigma dell’onorevole sconfitta
patita dalla costruzione dell’uomo»156, come osserva Sergio Blazina. L’inizio del secondo
capitolo del romanzo descrive questo attacco della Natura, ‘nemica della Storia’ e insieme
dell’uomo e della cultura, constatando l’inevitabile sconfitta di quest’ultima:
Del governo di Don Ramiro Guzman [...] resta solo il palagio fabbricato da lui nella riviera di Posillipo,
che chiamasi ancora Palazzo Medina, ora in gran parte ruinoso quasi che inabitabile e cadente. E questa,
diciamo, sarebbe la Storia. Ora interviene il bradisismo: Sotto l’occhio ironico del sole, spregiatore di
ogni umano pensiero, la qui dolcissima ma non per questo meno feroce Natura, nemica della Storia,
inizia la sua opera paziente [...] a lunghissima scadenza, che prevede l’annulamento totale di uomini e
cose, e di tutto quello che la ragione umana ha costruito, cioè la Storia. E, nel caso particolare, di questo
palazzo.157
La visione della costruzione napoletana come un’entità vecchia e vulnerabile, che cerca
invano di fronteggiare la natura più forte, emerge anche dalla descrizione del palazzo
«sbiadito nella nebbia del sole, con quelle mura corrose di pergamena, i buchi neri delle
finestre infossate, in tutta la sua tufacea grandiosa vecchiaia a tener testa al trionfante
154
Vincent d’Orlando, La cipolla e il funambolo. Napoli, la città-testo di Raffaele La Capria, in Raffaele La
Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 116.
155
Raffaele La Capria, La neve del Vesuvio, in Id., Opere, cit., p. 589.
156
Sergio Blazina, «Nell’assoluto equoreo silenzio», cit., in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e
passione civile, cit., p. 57.
157
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 17.
64
azzurro sempre giovane mare»158. Come ne La neve del Vesuvio, il palazzo si perde qui
nell’immensità naturale circostante, e diventa quasi impercettibile. Inoltre, l’architettura
viene paragonata alla pergamena, suscitando così l’idea di una storia che è stata
particolarmente ricca e fertile, ma ora destinata alla decadenza.
Un’ultima immagine di questa sconfitta della cultura nei confronti della natura è costituita
dalla villa di Pausilypon, una villa cadente sul mare che risale al periodo romano – e si
trova di conseguenza in uno stato più avanzato di rovina rispetto al palazzo seicentesco,
provocando nel protagonista una sensazione di disagio ancora più forte. La Capria
completa l’immagine con l’inserimento esplicito di un verso leopardiano:
Or dov’è il suon di que’ popoli antichi? Sotto l’oceàno, là dove quella trigliozza baffuta smuove col
muso la sabbia, e la Natura dunque vince la Storia. È più forte, altro che evasione, ci vince ogni giorno.
Ogni giorno un millimetro il palazzo scompare lentamente, non si sa bene se il palazzo affonda o il
mare sale, nelle stanze nel salotto e sopra il letto, e tra mille e mille anni, in una giornata luminosa come
questa... Per puro caso io sono qui e ora, capitato come quel saragotto o un piccolo fremito di vento
sull’azzurro inalterabile e indifferente, sopra questi scogli già villa di Pollione...159
Blazina160 precisa che si tratta di un verso de ‘La sera del dì di festa’: «Or dov’è il suono /
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido / De’ nostri avi famosi, e il grande impero / Di
quella Roma, e l’armi, e il fragorio, / Che n’andò per la terra e l’oceano?»161 Il disagio
lacapriano accosta dunque a quello di Leopardi, attraverso un’analoga consapevolezza
dolorosa che «tutto al mondo passa»162. Ne ‘La sera del dì di festa’, questa impressione
della vanità di tutte le cose s’accompagna inoltre immediatamente del pensiero della
fugacità della vita: «Intanto io chieggo / Quanto a viver mi resti, e qui per terra / Mi getto,
e grido, e fremo.»163 In altre parole, la vanità della Storia (a lunga scadenza) e la fugacità
della vita (a breve scadenza) vanno di pari passo in Leopardi, e fino a un certo livello, ciò
vale anche per La Capria: come la Bella Giornata o la Natura non assume più i suoi aspetti
splendidi di prima, una volta il protagonista ha raggiunto l’età matura, essa contribuisce
158
Ivi, p. 70.
Ivi, p. 31. Il corsivo è mio.
160
Sergio Blazina fa questa osservazione nel saggio «Nell’assoluto equoreo silenzio», cit., in Raffaele La
Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, cit., p. 58. Ho inserito anche i versi successivi della poesia.
161
Giacomo Leopardi, Canti, a cura di Niccolò Gallo e Cesare Gàrboli, Torino, Giulio Einaudi, 1967, La sera
del dì di festa, vv. 33-37.
162
Ivi, v. 29.
163
Ivi, vv. 21-23.
159
65
allo stesso tempo attivamente alla lenta sconfitta delle realizzazioni mature dell’uomo,
della Storia, rappresentate dai palazzi storici napoletani.
Un confronto con Leopardi risulta dunque interessante, a condizione di evitare la trappola
di una filosofia troppo astratta, di un discorso troppo complesso che non aderisca più al
discorso lacapriano, molto più attaccato alla realtà attuale di Napoli. E quindi, lasciati i
discorsi leopardiani, torniamo ora all’immagine della spugna, riempendola con un
significato molto più concreto, legato alla ‘natura’ dei napoletani. Infatti, l’immagine della
spugna ricompare in un contesto molto più banale, durante una conversazione al Circolo
Nautico a cui assiste il protagonista, agitato alla volta dalla superficialità delle chiacchiere
e dal dolore dell’orecchio:
L’orecchio aperto come il buco di un lavandino, la spirale d’acqua sporca che s’avvita nel buco, l’acqua
entra e ingorga il cervello che si gonfia di parole, si gonfia come una spugna. Appena possibile strizzare
la spugna, ritornare vuoto come prima, più leggero, inesistente. Un’operazione da ripetere spesso
durante la giornata, pensa Massimo.164
Il cervello del protagonista, cioè la ragione individuale, viene dunque rappresentato come
una spugna dove entra continuamente un flusso di parole banali e di opinioni irrelevanti
provenienti da quei napoletani arroganti e oziosi del Circolo Nautico, che preferiscono la
parola al pensiero. Il cervello di Massimo ne diventa man mano più pesante, impedendolo
alla fine di pensare in modo chiaro, di giudicare e interpretare la realtà circostante senza
pregiudizi, senza venirne condizionato.
In altri termini, per quanto riguarda la minaccia della Natura (con maiuscolo), La Capria
riconosce la sua superiorità indiscussa rispetto alla Storia, ma ciò non significa che sceglie
di rassegnarsi a questo fatto: nonostante tutto, lo scrittore continua ad aver fede nella forza
della cultura, nel progresso umano, e quindi in un equilibrio tra Ragione e Natura. Questo
atteggiamento intellettuale di La Capria si oppone così alla natura (con minuscolo) di
molti dei suoi concittadini, che preferiscono il corpo alla mente, che scelgono una vita,
non irrazionale, ma a-razionale, una vita dove la Ragione non regna o perfino non esiste.
164
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., pp. 80-81.
66
In questo contesto si può comprendere il vero significato della Foresta Vergine. La
metafora, inventata da Gaetano, amico intellettuale di Massimo, simboleggia allora
l’anima napoletana ‘modale’, caratterizzata da questo tipo di comportamento superficiale,
non razionale. La Foresta fa quindi paura perché impone un modo fisso di vivere, che non
permette aberrazioni e che restringe la libertà di pensiero, come emerge dal passo
seguente:
[...] e il molle occhio indiscreto dell’altro affiorante dall’intrico di una Foresta Vergine più vasta di
quella teorizzata da Gaetano, sempre più vicino, fluido, carico di minacciosa alterità, lo risucchia in un
amalgama dal quale è impossibile sottrarsi, sentirsi diverso e distinto, riconoscere ciò che è rimasto
intatto e quello che s’è perduto per sempre, o non si è mai avuto.165
La paura di perdersi nella modalità napoletana, e quindi di smarrirsi in una foresta infinita
e oscura, dove tutti gli alberi si rassomigliano e dove non si può ragionare lucidamente,
torna frequentemente in Ferito a morte. L’immagine viene quasi sempre evocata quando
La Capria fa accenno all’opposizione primaria tra Natura e Storia, che forma, insieme alla
figura della Bella Giornata, il vero fil rouge del romanzo.
L’immagine letteraria della foresta dispone tradizionalmente di una quantità infinita di
metamorfosi e significati, come osserva Giovanni Baffetti a proposito di questo ‘luogo
della letteratura italiana’. Nel caso di Ferito a morte, l’antico topos letterario della foresta
si trasforma quindi in un luogo minacciante, e diventa metafora di «una regressione allo
stato di natura, al mondo primitivo della forza e degli istinti»166. La Bella Giornata, da
parte sua, sostituisce l’immagine positiva possibile della foresta come locus amoenus –
un’altra raffigurazione tradizionale della foresta. In altri termini, il possibile incanto della
foresta viene cancellato e sostituito dal luogo magico e suggestivo della Bella Giornata,
che assorbe tutte le qualità positive di essa. Baffetti sostiene giustamente che «la duplicità
simbolica che connoterà per secoli la vicenda letteraria della foresta si determina per
l’appunto attraverso il nesso oppositivo con il mondo civilizzato della città e degli spazi
coltivati, riproducendo il contrasto più generale tra natura e cultura»167. Nel romanzo
lacapriano, la ‘duplicità’ positiva-negativa del luogo della foresta di cui parla Baffetti si
trasforma però in un’immagine negativa e unilaterale della Foresta, o forse meglio, si
165
Ivi, p. 6.
Giovanni Baffetti, Foresta, in Luoghi della letteratura italiana, a cura di Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi,
Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 204.
167
Ivi, p. 203.
166
67
divide nell’immagine della Foresta Vergine d’un lato, e in quella della Bella Giornata
d’altro lato.
In un altro passo significativo, invece di optare per l’immagine di una foresta, lo scrittore
ricorre alla metafora della lava per esprimere un’idea analoga, con l’immagine di un fiume
di lava uniforme che trascina e assorbe tutto ciò che incontra. Il brano descrive il
momento in cui il protagonista sta contemplando la vivacità giovanile sulla spiaggia
napoletana:
Una specie di vertigine che ti attira verso quel ribollire di corpi di facce segnate dall’usura del vicolo.
Basterebbe un solo sguardo di simpatia, dato o ricevuto, una semplice occhiata di riconoscimento, un
nulla, per sentirsi fagocitato dal magma umano come un albero dalla lava, distrutto, l’appartenenza a se
stesso perduta, risucchiato dalla prevalente unità psicologica, sopraffatto e partecipe di colpe storiche.168
La sensazione di paura, di perdersi nella foresta o di affogare nella lava – di assumere il
modo di vita napoletano – può dunque assalire improvvisamente il protagonista quando è
solo. L’unico modo di uscire temporaneamente dalla Foresta Vergine è allora offerto dalle
conversazioni intellettuali con l’amico Gaetano:
Ma sara poi mai passata davvero per Napoli la Storia del Mondo, come voleva farci credere Croce?
E allora se è così, mentre sto qua, a che mi serve anche la Storia? gli obiettavo. Risposta di Gaetano: A
ristabilire la tua identità, una scala di valori, la possibilità di un giudizio.
Così tutto, quando c’era lui, aveva una targhetta precisa, e non ti pareva più di essere sommerso dalla
Foresta Vergine.169
Così il giovane intellettuale Gaetano, ideatore del concetto della Foresta Vergine stesso, è
il rappresentante perfetto della Storia in Ferito a morte, cioè della fede nella conoscenza
umana e della resistenza mentale alla superficialità napoletana. L’intellettuale si oppone
alla Natura, non soltanto per la sua ritenuta banalità, ma anche perché lui stesso è incapace
di partecipare a un mondo governato dalla natura, perché «nemmeno nuotare sa»170.
Di conseguenza Gaetano sarà il primo a partire da Napoli, a uscire dalla Foresta per
sistemarsi al Nord del paese, il terreno della Storia. La scelta di Massimo è invece meno
168
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 96.
Ivi, pp. 121-122.
170
Ivi, p. 15.
169
68
ovvia e prende più di tempo: i suoi pensieri oscillano continuamente tra partire – il che
implica una fede assoluta nella forza della Storia, illustrata dalla partenza di Gaetano –
(5.3.3) o rimanere a Napoli – il che implica una sottomissione totale al corpo e alla Natura
(5.3.4).
4.3.3. La fresca stimolante corrente della Storia
Il conflitto interiore di Massimo, il dilemma tra partire e rimanere, emerge chiaramente
dal primo capitolo di Ferito a morte, che descrive il dormiveglia del protagonista il giorno
della partenza per Roma. In realtà, questo capitolo offre un annuncio, o possiamo dire un
riassunto, dell’intero romanzo (o in ogni caso dei primi sette capitoli di esso), anticipando
le metafore ricorrenti, la Bella Giornata e la Foresta Vergine, e l’opposizione maggiore,
tra Natura e Storia. Questi temi sono per esempio concentrati in un brevissimo passo, che
si trova alla fine del capitolo:
Con le braccia incrociate dietro la testa, a guardare il grafico d’oro messaggio vibrante sulla parete, a
pensare ai miei passi domani nel rispettabile squallore di strade sconosciute, in una città senza Vesuvio
e senza estati, dove i palazzi non finiscono sotto il mare, l’occhio affiorante dalla Foresta Vergine non ti
minaccia nella tua integrità, e la Natura o una bella giornata non vince la Storia – col tempo regolato
dall’orologio e dalla busta paga. Da qui puoi vedere ogni luce di speranza e d’intelligenza che spunta
sulla faccia della terra, quelle luci che da Napoli si vedono così male. La lettera di Gaetano, ancora là
sul comodino.171
Il raggio di sole, quel ‘grafico d’oro messaggio vibrante sulla parete’, annunciatore della
Bella Giornata, della natura mediterranea calda e accogliente, evoca immediatamente
dopo l’immagine di una Roma squallida e fredda, dove regnano l’orologio e la busta paga.
Nasce dunque l’idea di una vita regolare in una città ben strutturata, dove la gente sa
apprezzare il lavoro del cervello. Insomma Massimo si sta plasmando un’immagine di un
ambiente che sembra perfettamente adatto ad ogni tipo di lavoro mentale, nell’assenza di
stimoli fisici naturali ‘caldi’ come quella della Bella Giornata, che possono sviare
l’attenzione. Il giovane sembra curioso di questo ambiente ‘intellettuale’ completamente
nuovo, ma ciò non senza lamentarsi della perdita dei piaceri corporali napoletani. Così la
scelta tra Roma e Napoli diventa una scelta tra Ragione e Natura, una scelta impossibile.
171
Ibidem.
69
Secondo Gaetano, le città settentrionali, Roma inclusa, si rappresentano dunque come
‘luci di speranza e di intelligenza’. Colpisce che questa associazione tra luce e civiltà non
sia molto ricercata, tanto meno creativa: l’immagine della luce viene semplicemente da
una concezione di città che sono ‘illuminati’ nella Storia. Queste città si sono sviluppate
nel corso dei secoli, mentre a Napoli continuava a regnare il buio dell’ignoranza. Benché
Massimo si trovi in gran parte d’accordo con le opinioni di Gaetano, allo stesso tempo le
critica e ne prende un po’ le distanze, per esempio quando accenna per la seconda volta
allo stesso frammento della lettera di Gaetano:
Ideologizzava perfino il pranzo domenicale: la Coscienza preda dell’Istinto; la Storia, della Biologia.
[...] L’ultima [lettera], lì, sul tavolino. Come dice? Da qui puoi vedere ogni luce di speranza e
d’intelligenza che spunta sulla faccia della terra, quelle luci che da Napoli si vedono così male. Roba
da ridere. Per tutto l’inverno, in certe settimane nere, frasi così. Si vedono bene da Milano. Chissà da
Roma come le vedrò. Solo perché uno lavora in un giornale milanese, solo per questo scrive...172
Anche se viene parzialmente ironizzata da Massimo, l’immagine di ‘quelle luci’ attira la
sua attenzione in quanto evoca essenzialmente gli ideali dell’Illuminismo, la fede nella
conoscenza umana e la speranza nel progresso, stimulato da un ceto intellettuale attivo
della società.
Un’altra immagine si sovrappone a quella della luce: l’idea di una ‘fresca stimolante
corrente della Storia’, un sintagma notevole che torna qualche volta in Ferito a morte. Dal
passo seguente risulta chiaro che la corrente, una nuova metafora naturale, si oppone
perfettamente a quella della Foresta Vergine:
Per tutto l’inverno così, sullo stesso tono. Lui dalla sua scrivania milanese, lambita dalla fresca
stimolante corrente della Storia, e io dalla mia stanza, nell’intrico della Foresta Vergine, nella ruota
delle stagioni, sbattuto qua e là in un caffè in compagnia di un accidioso ucciso di noia, o tra le pagine
di un libro, a caso.173
La caratteristica più importante della corrente, e la causa per la quale La Capria avrebbe
scelto questa metafora, risiede nel suo movimento continuo e nella sua impossibilità di
fermarsi. È soprattutto questa qualità che si oppone all’immagine della Foresta, segnata da
172
173
Ivi, pp. 112-113.
Ivi, p. 116.
70
una immobilità totale. Anche la Bella Giornata entra facilmente in questo schema, in
quanto caratterizzata da uno stesso tempo immobile, essenzialmente ‘mitico’, e dunque astorico, fuori della Storia.
In un altro brano, La Capria visualizza l’immagine della corrente settentrionale come una
‘striscia azzurra’ nel passo seguente, opponendola alle ‘degenerazioni’ del Sud:
E mi pare di vederlo, certe volte, il mondo, con gli occhi di Gaetano: una palla, le macchie delle terre
abitate e una striscia azzurra che tocca paese e città: New York, [...] perfino Roma! Ma lì la strascia vira
di botto, anzi arretra spaventata, e fila verso Milano. E poi più su, al Nord. Eh, il Nord! [...] scorre la
fresca stimolante grande corrente, gulf-stream della Storia, dando vita alla vita dei fortunati abitanti
delle terre che tocca. [...] tutto possibile e reale perché tutto toccato avvolto dalla fresca stimolante
corrente che dà un senso ad ogni cosa. E noi qua, nel cuore di una vasta area indistinta, zona depressa
suditaliana, mai toccata dalla fresca stimolante corrente, con la Foresta Vergine che cresce senza senso
insensatamente avviluppando vita e pensieri, tra degenerazioni ed inestricabili contorcimenti.174
Benché raggiungere questa corrente della Storia da Napoli sia impossibile, ci rimane un
filo di speranza, offerto dalle metaforiche ‘città azteche’ costruite in mezzo alla Foresta
Vergine. La metafora, una nuova invenzione di Gaetano, deve far trasparire l’idea di una
forte resistenza intellettuale in mezzo all’ignoranza napoletana:
Sì, [Croce] era rimasto, ma lo vedeva come una di quelle solitarie città azteche che un esploratore
scopre per caso nel folto della giungla, stravolte dalla vegetazione, e ancora impiedi dopo secoli di
resistenza. – La nostra Foresta è punteggiata di città come questa. La sola tradizione che abbiamo nel
Sud. Sentinelle che si passano la voce nel buio dei secoli. Ma predomina e rimane solo la Foresta,
purtroppo.175
Benedetto Croce ci viene quindi presentato come una sentinella, come un protettore di
quell’intelletto così scarso e minacciato nella società napoletana. Secondo La Capria, i
grandi intellettuali della storia umana vengono rispettati anzitutto per questa loro volontà
di distinguersi dalla massa, di esprimere un’opinione completamente personale e di
proporre nuovi punti di vista, alla maniera delle città azteche che si sono fondate
isolatamente in mezzo ad una foresta larghissima e uniforme. Questa opinione emerge
anche dall’osservazione fatta da La Capria ne L’occhio di Napoli:
174
175
Ivi, p. 121.
Ivi, pp. 120-121.
71
Qui a Napoli ci sono molti disoccupati, ma una disoccupazione preoccupante è anche quella del
pensiero. Dopo Croce non si riesce a sapere granché di quel che si pensa a Napoli. […] Solo una piccola
minoranza – irrelevante, senza potere e sena pubblica sovvenzione – pensa disinteressatamente. Ma
sono in pochi, troppo pochi rispetto al fabbisogno.176
L’ammirazione di La Capria per Croce è insomma fondata sulla convinzione che si tratti
di una delle poche figuri eccezionali che ha saputo distinguersi dalla massa napoletana.
Tuttavia, anche dietro questa ammirazione si cela il rischio del discorso stereotipato su
Napoli. Ciò emerge chiaramente dal paragrafo che precede quello delle ‘solitarie città
azteche’, quando il protagonista nella conversazione introduce la figura di ‘don
Benedetto’. La scelta del ‘don’ viene poi criticata come «abuso volgare di non concessa
familiarità, equivoca strizzatina per assorbire nella terribile unità psicologica anche quel
nome»177.
Il problema risiede in questa ‘terribile unità psicologica’, cioè in questa autoreferenzialità
tipicamente napoletana che si può chiamare la ‘napoletanità’. La Capria sostiene che il
rischio che anche il grande Croce, uno dei pochi intellettuali napoletani che fosse aperto
alle evoluzioni europee, venga assorbito da questa Foresta Vergine della napoletanità, sia
reale. Ciò emerge per esempio da un passo de L’armonia perduta:
E accadde che anche Croce fu avvolto, impacchettato nella «napoletanità» di questi crociani, fu ingerito
in questa confezione, e diventò lui stesso senza volerlo e forse senza nemmeno immaginarlo un
elemento della «napoletanità».178
È difficile capire il significato esatto di questa ‘napoletanità’, e anche La Capria stesso
offre diverse interpretazioni del concetto. In un altro passo de L’armonia perduta la
descrive come «una creazione artificiale nata da una autentica nostalgia collettiva di uno
stato precedente definitivamente perduto»179. In realtà, lo scrittore si riferisce qui alla
storia della sua città, che si sarebbe fermata dopo la rivoluzione del 1799. Dopo quella
data mitica, nell’impossibilità di evolversi, i napoletani avrebbero deciso di crearsi
un’identità autoreferenziale, chiusa, senza possibile progresso e senza possibile apertura
verso il mondo esterno.
176
Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, p. 980.
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 120.
178
Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 666.
179
Ivi, pp. 660-661.
177
72
La paura lacapriana consiste dunque nel pensiero che persino una figura illuminata come
Benedetto Croce sarebbe assorbito da questo costruzione pesante e immobile chiamata la
‘napoletanità’. Lo spiega un’altra volta in Napolitan graffiti, dove indica anche il pericolo
di mettersi «sotto la protezione di questo Gran Padre lasciando a lui l’incombenza di
pensare e di rappresentarci degnamente»180. La Capria aggiunge che Croce sembrava
concretizzare il sogno di una Napoli imponente e orgogliosa «con la sua presenza e con la
sua alacrità di sveglio in una città di addormentati»181. In altri termini, il progresso
suggerito e perfino reso possibile da un solo individuo come Croce, ha sempre l’effetto
contrario a Napoli: di addormentare la sua popolazione, e di racchiudere il ristretto ceto
intellettuale attivo in quel mastodonte del falso mito della ‘napoletanità’.
Inoltre, i napoletani ‘addormentati’ nella napoletanità, inclini ai piaceri corporali, o in ogni
caso convinti dalla prevalenza del corpo sulla mente, non sanno dare il giusto valore al
lavoro intellettuale. A questo proposito è significativo che anche il corpo stesso può
letteralmente impedire il buon funzionamento del cervello, il che succede in un capitolo di
Ferito a morte, come vedremo nel capitolo seguente.
4.3.4. L’effetto immobilizzante della Natura
La Natura, o meglio questa inclinazione tipicamente napoletana a un modo di vita
semplice e non complicato, senza il coinvolgimento della ragione, è in ogni momento
pronta a intervenire con lo scopo di immobilizzare il lavoro mentale dell’individuo. Ciò
avviene letteralmente nel capitolo del pranzo a casa De Luca, durante il quale Massimo ha
bevuto e mangiato troppo; il giovane ne ha la sensazione di essere frenato, di essere
prigioniero del proprio corpo:
Il sonno della ragione. Il cervello, un re detronizzato nella rocca della testa. L’insonnia del ventre. Nella
penombra della stanza, anche il tuo corpo, estraneo. Prima esibito sulle spiagge, poi mette pancia. La
mente prigioniera dell’apparato digerente. Bastava sapersi controllare a tavola, fermarsi in tempo.
180
181
Raffaele La Capria, Napolitan graffiti, in Id., Opere, cit., p. 1076.
Ibidem.
73
Bastava un dito di vino in meno. Neppure in questo è possibile indirizzare il corso delle cose? La
Foresta Vergine fin dentro le budella.182
L’impressione di non poter più ragionare chiaramente, di addormentarsi senza volerlo,
viene dunque rinforzata dall’effetto diretto del vino sul corpo, che fa insinuare la Foresta
‘fin dentro le budella’.
L’intrusione della Foresta Vergine comporta insomma una cancellazione della ragione. Se
questa cancellazione piace alla maggior parte dei napoletani, rendendo meno complicata
la vita, nei confronti di Massimo – e dunque di La Capria – essa ha l’effetto contrario:
rinforza l’impressione di trovarsi in un mondo caotico, senza possibile spiegazione perché
la ragione ne è eliminata.
Ciò spiega anche perché La Capria abbia inserito l’immagine del labirinto in rapporto con
quella della Foresta in Ferito a morte. Il protagonista, non potendo capire la motivazione
o l’utilità di condurre una vita senza l’impiego del cervello, non può neanche comprendere
il comportamento e le chiacchiere dei suoi concittadini. Nel capitolo del Circolo Nautico
per esempio, luogo di dolce far niente per eccellenza, Massimo, con la fitta nell’orecchio,
ha il sentimento che l’acqua dentro «deve aver formato una barriera che rende opaco e
distante il mondo esterno, i rumori infatti arrivano come da lontano, e le parole degli altri
sulla terrazza, il suono e il senso, più ottusi»183. Le chiacchiere devono prima attraversare
quel «labirinto osseo»184 del protagonista, il che non soltanto moltiplica la distanza tra lui
e gli altri, ma le rende anche completamente incomprensibili.
Come l’acqua nel labirinto auricolare che «confonde le parole che quelli dicono»185, la
Foresta Vergine può presentarsi come un labirinto meridionale, confondendo e perfino
cancellando le proprie possibili spiegazioni. Ciò viene anche avvertito da Gaetano quando
sta parlando con lo zio di Massimo:
182
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 116.
Ivi, p. 71.
184
Ibidem.
185
Ivi, p. 72.
183
74
[...] i miei occhi fissi negli occhi dello zio - accettando l’impossibilità della mente razionale di uscire dal
labirinto meridionale, e perciò sei costretto ad invetare le Sabbie Mobili la Foresta Vergine ed altri miti
che aiutano a capire senza vincere.186
Infatti, l’assocazione tra foresta e labirinto è un antico topos letterario, già presente nei
primi versi della Commedia dantesca, dove «il cronotopo della foresta si associa a quello
del labirinto»187, come osserva giustamente Baffetti. A questo proposito afferma inoltre
che nella letteratura italiana novecentesca «il ruolo della foresta come labirinto [...] sarà
progressivamente assunto dalla città»188. Da questo punto di vista, sembra dunque che La
Capria voglia rappresentare la città partenopea attuale come una foresta, esattamente
perché le caratteristische labirintiche di quest’ultima si avvicinano di quelle angosciose e
minaccianti della società moderna.
Insomma, l’invenzione della metafora stessa della Foresta Vergine è un mezzo che può
aiutare a capire l’essenza dell’anima napoletana, e quindi a cancellare l’incomprensione
della ‘mente razionale’ di fronte ad essa. Quali sono allora le caratteristiche distintive di
questa Foresta Vergine, e dunque dell’anima napoletana? Genericamente, essa si distingue
da una immobilità quasi mortale, da una nevrosi visiva, e da una strana combinazione di
vivacità e sonnolenza.
In primo luogo, la Foresta è caratterizzata da una capacità straordinaria di immobilizzare
qualsiasi azione o pensiero, come avviene per esempio nell’episodio del Circolo Nautico.
I napoletani poltroni si trovano lì, «comodi sulle sedie a sdraio a chiacchierare, e quegli
altri distesi a terra nudi immobili in fila come morti»189: è una scena completamente
immobile, in cui non succede proprio niente di rilevante. L’immobilità si presenta come
una specie di suspense, di un’attesa infinita di qualcosa di straordinario che non succederà
mai. La forza dell’inerzia degli altri è tale che anche Massimo ne sarà sopraffatto:
Chi se ne sta sdraiato a prendere il sole in una specie di morte apparente, come Massimo, lo [il pallone]
vede ogni tanto affiorare sopra la linea della terrazza e rimanere sospeso per un attimo, tra il cielo e il
mare, nell’aria stagna.190
186
Ivi, p. 103.
Giovanni Baffetti, Foresta, in Luoghi della letteratura italiana, cit., p. 201.
188
Ivi, p. 209.
189
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 94.
190
Ivi, p. 79.
187
75
Un secondo tratto dell’anima napoletana può essere descritto come una ‘nevrosi visiva’,
che fa parte di una cultura che è dominata dall’apparire, dove i tratti esteriori sono più
importanti della verità intrinseca. La prevalenza dell’apparire rispetto all’essere spunta
già nel primo passo di Ferito a morte che accenna la metafora della Foresta Vergine, dove
Massimo si sta immaginando le chiacchiere dei suoi coetanei, che avrebbero commentato
il suo fallimento amoroso:
E si trova davanti quell’unico occhio avido e scomposto, enorme, che è tutti i loro occhi, dal quale
partono strizzatine di complicità e di disprezzo. Racconta, racconta di più – lo incita l’occhio – ancora e
senza vergogna. [...] e man mano che racconta, qualcosa dentro di lui si deforma, si corrompe, e il molle
occhio indiscreto dell’altro affiorante dall’intrico di una Foresta Vergine [...] sempre più vicino, fluido,
carico di minacciosa alterità, lo risucchia in un amalgama dal quale è impossibile sottrarsi [...].191
La nevrosi visiva napoletana, il desiderio di giudicare gli altri, si accompagna inoltre di
una volontà di nascondersi dietro una maschera, impedendo così agli altri di conoscere e
giudicare le proprie emozioni. Perciò è significativo che Carla porta una «maschera
cinese»192 durante la notte di Capodanno del 1949 – questa immagine viene inoltre già
anticipata nella prima pagina di Ferito a morte, durante la scena della spigola ‘mancata’.
In ogni caso, con l’inserimento di una maschera, La Capria sembra sottolineare sia la nonresponsabilità della ragazza, che la sua non-volontà di farsi conoscere e di conoscere gli
altri e il mondo circostante. Ne Il sentimento della letteratura, La Capria critica inoltre
esplicitamente la presenza della maschera nella cultura italiana:
Sì, [gli italiani] sono giudicanti per tutto ciò che riguarda gli altri, e non-responsabili per tutto ciò che
riguarda se stessi.
La non-volontà di conoscersi degli «italiani» è strettamente legata ad un altrettanto forte bisogno di una
maschera. Mettersi in maschera significa non solo nascondersi dietro una maschera, ma attribuire alla
maschera il compito di rappresentarci. [...] E l’imbroglio è in questo: che la maschera consente sempre
all’io che c’è dietro un’ultima riserva, gli consente sempre al momento buono [...] di ritirarsi dal gioco e
di non identificarsi più con quello che fa. Di prendere le distanze, insomma, e dunque di sentirsi nonresponsabile, come appunto si diceva.193
Così la maschera – e quindi anche l’amante del protagonista – simboleggia chiaramente il
predominio dell’apparire nella cultura napoletana, che ci si sovrappone senza problemi
191
Ivi, pp. 5-6.
Ivi, p. 13.
193
Raffaele La Capria, Il sentimento della letteratura, in Id., Opere, cit. pp. 1302-1303.
192
76
all’essere. Può darsi che questa opposizione tra apparenza e verità corrisponde inoltre
all’opposizione primaria di Ferito a morte, tra Natura e Storia. In quel caso, la Natura
rappresenta l’esteriore delle cose (e dunque la loro ‘superficialità’), mentre la Storia cerca
l’approfondimento e vuole svelare la verità dietro le apparenze. Perciò, la Storia ha la
volontà di conoscere le motivazioni di uno specifico comportamento, laddove la Natura si
contenta di una opinione formata a prima vista. L’abitudine di valutare qualcuno a prima
vista è chiaramente presente nel paragrafo seguente, che descrive il teatro della piazza di
Capri ‘nell’ora di punta’:
Gli occhi di Cocò sempre vaganti, frugando nella calca, da una faccia all’altra, da un’acconciatura
all’altra, inseguendo qualcosa, aspettando qualcosa. Nell’ora di punta, prima di cena, insieme ad altri
occhi presi come i suoi da nevrosi visiva, allenati dal gusto dell’infatuazione, dell’io-guardo-te-tuguardi-me di ognuno in attesa di qualcuno che valorizzi l’istante, con momentanee fasi di tensione e
delusione collettiva.194
La terza caratteristica distintiva della Foresta Vergine consiste in una strana combinazione
di vivacità e sonnolenza. Anzitutto, il protagonista non riesce a capire la vivacità eccessiva
dei napoletani, la loro gioia di vivere esagerata, che non può mai corrispondere alla realtà
quotidiana. Perciò Massimo «distoglie lo sguardo dalla piccola Cina formicolante sulla
spiaggia»195. In un passo de La neve del Vesuvio, il giovane protagonista esprime un’idea
analoga, e esplicita inoltre la ragione per la quale non riesce a capire questa agitazione
costante:
Erano tutti presi da un’agitazione incomprensibile, come quella delle formiche che lui sempre si era
domandato ma cosa fanno? dove vanno a girare così frenetiche? Pareva che qualcuno li avesse obbligati
a girare a vuoto [...].196
Insomma, il comportamento frenetico dei suoi concittadini non ha nessuna funzione, è
sprovvisto di una destinazione specifica, e così i napoletani non riescono ad uscire dal
cerchio che stringe la loro città. Ciò spiega anche perché siano incapaci di partecipare al
corso della Storia, che è per definizione lineare e dunque progressivo. In ogni caso, quella
freneticità napoletana sembra avere occupata per molto tempo la mente di La Capria, che
lo fa perfino intuire dal suo personaggio più giovane.
194
Ivi, p. 171.
Ivi, p. 96.
196
Raffaele La Capria, La neve del Vesuvio, in Id., Opere, cit., p. 599.
195
77
A prima vista sembra paradossale che l’eccitazione napoletana viene accompagnata da
una specie di sonnolenza e dunque da una volontà di chiudere gli occhi di fronte al mondo
esterno. Che il paradosso è soltanto apparente, emerge per esempio da una descrizione di
Carla, quando sta parlando insensatamente del proprio futuro:
Un viso piccolo, e due occhi larghi, distanti, che guardavano me e il mondo, tranquilli come quelli di un
gattino insonnolito.197
Se Carla sembra eccitata dal suo futuro ‘promittente’, esso non diventerà mai concreto,
esattamente perché la ragazza non sarà in grado di svegliarsi, di uscire dal cerchio. Da
questa ottica, la combinazione di una ‘agitazione incomprensibile’ e una «sonnolenza
canina»198 non risulta così paradossale: o per quale motivo i cittadini, che stanno girando a
vuoto nel loro cerchio, dovrebbero restare svegli e attenti a quello che succede al di fuori
di quel cerchio, da cui non escono mai?
Così, La Capria presenta l’anima napoletana come un’entità addormentata e immobile,
che rifiuta di affaticarsi o di cercare la verità dietro le apparenze. Oltre a quel ritratto poco
positivo, lo scrittore inserisce delle immagini ancora più negative, descrivendo alcuni
coetanei del protagonista come animali: quando descrive il giovane Glauco, che viene
riconosciuto dalla sua «faccia taurina»199, egli «si muove come una specie di dondolio da
scimpanzè»200 e «si ferma, abbassa la testa come un toro»201. In fondo, questi giovani, che
seguono continuamente i loro istinti animaleschi, sembrano aver dimenticato ciò che
distingue gli uomini dagli animali, cioè la capacità di riflettere, di formarsi un’opinione, e
di comunicarla agli altri uomini. Questa ‘natura umana perduta’ appare esplicitamente in
un’altra descrizione di Glauco:
Si mette a fischiettare, come fosse solo, più niente da dirmi, rimuginando di Ninì, dei ragazzi, chissà,
con un ottuso lavorio del cervello che gli incupisce gli occhi. Piccoli azzurri struggenti mi guardano con
una tristezza animalesca, quella delle scimmie che, dice, sentono nostalgia della natura umana
perduta.202
197
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 57.
Ivi, p. 77.
199
Ivi, p. 140.
200
Ivi, p. 73.
201
Ivi, p. 74.
202
Ivi, p. 143.
198
78
Tenendo conto di questi aspetti della Foresta, si riesce a capire completamente la portata
del disagio di La Capria nei confronti della propria città. Quel disagio si presenta anche in
senso metaforico alla fine del capitolo del Circolo Nautico, quando Massimo non può più
sopportare il dolore dell’orecchio e le chiacchiere dei napoletani:
Massimo li sente, dietro le sue spalle, che passano. Ogni pulsazione nell’orecchio si è fatta dolorosa,
adesso, e lui conta le pulsazioni trasmesse dal nervo cranico ai centri cerebrali. Il dolore è come un
animale vivo chiuso nella trappola del complicato organo auricolare [...].
Poi muove appena un piede, per assicurarsi che è vivo.203
Le parole dei napoletani del Circolo, quel mondo superficiale a cui Massimo non vuole
appartenere, cercano di infiltrarsi nella sua mente e nella sua vita ‘come un animale vivo
chiuso nella trappola’. L’unica via d’uscita, affinché non sia sopraffatto dalla Foresta, sarà
dunque di abbandonare definitivamente la sua città materna. Di abbandonare, insomma,
questa costruzione artificiale della ‘napoletanità’ della Gran Gatta Napoli:
Il napoletano che vive nella psicologia del miracolo, sempre nell’attesa di un fatto straordinario tale da
mutare di punto in bianco la sua situazione. [...] Scontano un destino più forte di loro, pagano anche per
gli altri napoletani la colpa di aver fatto di se stessi una leggenda. Di sfruttare questa leggenda. Di
crederci, di nutrirla con la propria vita. Di cercare in essa l’assoluzione da ogni condanna, il riposo della
coscienza inquieta, l’enorme straripante indulgenza della Gran Madre Napoli. La Gran Madre? Di’ la
Gran Gatta piuttosto, che alla fine se li pappa senza nemmeno dargli il tempo di aprire gli occhi sopra il
mondo.204
4.4. Conclusione. Il rapporto ambiguo con Napoli
I due capitoli precedenti hanno messo in evidenza che le due grandi metafore inventate da
La Capria in Ferito a morte, la Bella Giornata e la Foresta Vergine, devono contribuire
anzitutto al chiarimento del proprio rapporto con Napoli. In una prima fase, vedremo
come l’immagine della ferita – che ritorna anche nel titolo del romanzo – simboleggia il
disagio del protagonista di trovarsi in una città addormentata, e come questo sentimento lo
ha spinto ad abbandonare la sua città materna (4.4.1.). La distanza creata sarà una
203
204
Ivi, p. 93.
Ivi, p. 119.
79
condizione necessaria per la nascita di una coscienza complessiva della realtà napoletana,
anche se ciò comporta che il protagonista, quando torna al luogo dell’infanzia, ci si sentirà
un intruso (4.4.2.). Infine vedremo come la buona distanza, oltre a criticare i difetti
napoletani, permette allo stesso tempo di creare una nuova visione sulla città, come luogo
di incanto possibile (4.4.3.).
4.4.1. Napoli, una città che ti ferisce a morte o t’addormenta?
L’intrecciatura della Bella Giornata con la Foresta Vergine crea il dilemma centrale di
Ferito a morte, quello tra restare, e dunque cedere alla Natura, o partire, cioè rispondere
alla Storia. In realtà, questo dilemma è preceduto, o meglio creato, dalla percezione di una
ferita nascosta. Per spiegare come funziona l’immagine della ferita, risulta utile studiare
l’osservazione fatta da Massimo durante una conversazione con un concittadino, dopo la
sua partenza da Napoli: «viviamo in una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o
tutt’e due le cose insieme»205. Ci oppone dunque il sonno, che simboleggia la mancanza di
coscienza, all’immagine della ferita, che è inversamente la coscienza di quella mancanza.
La prima possibilità offerta dal protagonista è il sonno. Quel gesto di chiudere gli occhi
alla realtà, corrisponde ovviamente alla predisposizione tipicamente napoletana all’attesa,
come abbiamo visto nel capitolo precedente. Analoga all’evocazione della Gran Gatta
Napoli, a La Capria piace d’evocare l’immagine del Purgatorio, che esprime infatti la
stessa idea di attesa. Lo fa per esempio in un passo de L’occhio di Napoli:
Infatti in nessun luogo del Sud d’Italia si sente così spesso, come a Napoli, l’invocazione: «Fate bene
alle anime del Purgatorio!» [...]. Quasi tutti i napoletani del popolino sentono di rassomigliare a quelle
anime, pensano che la vita e Napoli stessa siano il loro Purgatorio, un luogo di transizione in attesa di
una condizione migliore.206
La Capria ha inserito l’immagine del Purgatorio in quanto presenta l’idea di attesa, di
‘luogo di transizione’. A questo si potrebbe aggiungere che l’immagine del Purgatorio
racchiude anche l’idea di non prendere posizione, e contiene così un’altra caratteristica
che rende opportuno un confronto con l’anima napoletana.
205
206
Ivi, p. 114
Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli, in Id., Opere, cit., p. 913.
80
In ogni caso, il protagonista di Ferito a morte e il suo scrittore rifiutano di addormentarsi
in quella città sempre in attesa, preferendo invece la seconda – e per loro, l’unica –
possibilità, quella della ferita. Così, l’immagine della ferita simboleggia la crescente
coscienza dolorosa di una Napoli inerte, apatica e chiusa. A questo proposito sembra
rilevante citare alcuni passi de L’armonia perduta, perché...
[...] continua e forse conclude un discorso iniziato venticinque anni fa con Ferito a morte, e parla
ancora, anche se con mezzi diversi, di una ferita, parla ancora di una felicità che sembra sempre a
portata di mano, che il paesaggio, il colore del cielo, la luce del mare, autorizzano a sognare, e che
sempre invece ci sfugge, parla ancora della «bella giornata» che fa parte dell’anima mediterranea, e di
quel conflitto tra Storia e Natura [...].207
Anche se ne L’armonia perduta, La Capria parla piuttosto di una ferita storica che poco a
poco si è manifestata a Napoli, si tratta in realtà della stessa ferita che ritroviamo in Ferito
a morte: nell’uno come nell’altro, essere feriti significa in fondo essere consapevoli del
fatto che «abbandonarsi al «grande libertinaggio della Natura» poteva essere mortale, che
la Vita non è la ricerca della felicità, e che dovevo liberarmi da quest’illusione e da
quell’incantamento»208.
Se la vita non è la ricerca della felicità – e dunque non è una Bella Giornata –, essa è
anzitutto una «costruzione della coscienza»209, precisa La Capria. E, siccome non è
possibile sviluppare tale coscienza – ragione, conoscenza – in mezzo a una città immobile,
l’unica possibilità è di uscire dal cerchio, per guardarlo poi dall’esterno e formarsene una
visione corretta. Anche se La Capria parla di questo periodo come «i giorni dell’acqua
torbida»210, in realtà la partenza sarà una vera e propria liberazione sia per lui stesso che
per il suo personaggio autobiografico.
Insomma, partire da Napoli equivale a svegliarsi da un sogno ingannevole, a un rifiuto
decisivo di non lasciarsi più addormentare dalla Gran Gatta. Per Massimo, l’abbandono
del luogo dell’infanzia corrisponde inoltre al raggiungimento dell’età matura. Ciò gli
207
Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., p. 779.
Ivi, p. 648. Il corsivo è mio.
209
Ibidem.
210
Ivi, p. 761.
208
81
permette di intravedere lo stato fanciullesco in cui si trova Napoli, come vedremo nel
capitolo seguente.
4.4.2. La presa di distanza da una Napoli eternamente giovane
È logico che la contemplazione ‘matura’ di Napoli prevale nei tre ultimi capitoli di Ferito
a morte, che evocano i vari ritorni di Massimo alla città materna. Tuttavia anche Gaetano,
benché troppo spesso ideologizzando e imbrogliandosi così nelle proprie metafore, gli
offre qualche volta una visione ‘adatta’, e ciò anche prima delle loro rispettive partenze.
Così, l’amico critica per esempio la mancanza di maturità presso i napoletani del Circolo
Nautico, dove si possono incontrare ‘giovani’ di quaranta o cinquant’anni, «e tutti insieme
li trovi, a parlare delle stesse cose, a ridere delle stesse fesserie, a giocare al pallone o al
baccarà, sempre tutti insieme», concludendone che «così la vita diventa una parodia
dell’adolescenza»211. Le parole vuote, lo spirito gregario, e un dolce far niente mescolato
con quel gusto per il gioco: sono tutte delle caratteristiche che si possono ricondurre alla
giovinezza; non hanno molto a che fare con l’età adulta.
La critica di questa mancanza di maturità torna alcune righe dopo, quando si descrive un
vecchio soldato napoletano che ha passato tre guerre, ma nonostante ciò è impossibile
scoprire «un’ombra nel suo sguardo»: le guerre sono «passate nella sua vita come tre
nuvolette in un cielo sereno»212. Il paragone colpisce a causa di questo riferimento banale
a tre ‘nuvolette’, a tre piccole intrusioni della realtà nel cielo eternamente sereno della
Bella Giornata. La Capria ci sembra suggerire che tali invasioni della vita reale nel mondo
teatrale napoletano siano rare, e inoltre, quando avvengono, siano appena percepite. La
mancanza di maturità è dunque in primo luogo una volontaria mancanza di coscienza.
La concezione negativa di questa giovinezza eterna conquista terrena nel corso del
romanzo. La critica di essa torna esplicitamente alla fine, quando La Capria allude all’‘età
indefinibile’ dei napoletani:
Seduti al tavolo [...], tutti con la stessa espressione sovraeccitata o stolida a seconda dell’andamento del
gioco, giovani e vecchi, tutti di una stessa età indefinibile, vecchi che parevano bambini, e bambini
211
212
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 44.
Ibidem.
82
invecchiati senza saperlo, nel breve giro degli anni, come in un sogno... così li avevo visti, anche io,
quelle volte che ero andato giù a Napoli.213
Si potrebbe dire che il desiderio di giocare e di restare eternamente giovane viene
suggerito dal ‘sempre giovane mare’ che circonda Napoli. La Capria sottolinea però che la
giovinezza eterna è soltanto una caratteristica della Natura: se restare giovane è un aspetto
‘naturale’ del mare, ciò non è più il caso una volta che si entra nella città e dunque nella
Storia: restare giovane sarebbe uguale a non muovere ed a non sviluppare. Nei vicoli
napoletani, e quindi nella margine della Natura, la presenza di essa è purtroppo tale da
immobilizzare completamente i ‘bambini’.
Per quanto riguarda la questione delle età, è interessante l’ultimo capitolo di Ferito a
morte, in cui il protagonista incontra Sasà, una volta ‘l’eccezionale’, ora invecchiato e
deluso nella vita. La Capria, nel descriverlo, osserva poi che «in una sera così, l’estate,
anche l’estate, è una noia, una festa in cui si ha la nostalgia di una vera festa»214. Lo
scrittore ci ricorre di nuovo al paragone stagionale per descrivere le fasi della vita. Nel
passo, ci fa leva per sottolineare il carattere effimero della giovinezza – l’estate –, e il
vano tentativo di prolungare questa estate della vita. Per Sasà, l’unica cosa rimasta è una
profonda nostalgia. Per il protagonista invece, il raggiungimento della maturità che
accompagna la partenza non viene percepito come un peggioramento: la speranza della
conoscenza e della saggezza ‘autunnali’ è per lui attraente com’era l’estate precedente.
Perciò, i ritorni a Napoli – che sono descritti negli ultimi tre capitoli del romanzo, secondo
la stessa struttura ‘intuitiva’ dei primi capitoli – comportano sempre una forte sensazione
di non appartenere più al luogo dell’infanzia. Ciò emerge già dal primo passo dell’ottavo
capitolo, dove l’immaturità napoletana si traduce nelle nuove costruzioni architetturali,
che sono tanto sproporzionate che si ha l’impressione di «stare nella giungla»215.
Tuttavia la comparazione più significativa ad esprimere questo sentimento profondo di
alienazione, di sentirsi un intruso, è senza dubbio quella della ‘vipera nel seno che
l’accolse’:
213
Ivi, p. 157.
Ivi, p. 163.
215
Ivi, p. 132.
214
83
Sovversivo, dolcemente avverso all’azzurro che avvolge tenero le case, cammino disincantato per le
strade della città materna, come vipera nel seno che l’accolse, invelenito da freddo amore,
riscaldandomi al suo tepore.216
In altri termini, la partenza del protagonista porta a compimento la sua maturazione
accompagnata da una coscienza profonda dell’immaturità eterna della sua città materna e
da una sensazione di estraniazione. Però, vedremo che ciò non vuole dire che la visione su
Napoli ne diventa completamente negativa. Così, la buona distanza, non soltanto spaziale
ma anche temporale, permette di intravedere il possibile incanto delle particolarità di
Napoli, luogo di incontro tra Natura e Storia.
4.4.3. La buona distanza e il possibile incanto di Napoli
In realtà, la visione su Napoli, come la ritroviamo in Ferito a morte e – ancora di più –
nella saggistica lacapriana, non è dunque meramente negativa. Benché il fascino delle
possibilità della sua città materna nasca soprattutto dopo la partenza di Massimo da
Napoli, si possono anche trovare alcuni indizi anteriori alla partenza. Così, per descrivere
suo fratello più giovane Ninì, il protagonista inserisce la metafora di una «fogliolina
tenera verdeggiante della Foresta Vergine»217, il che fa prova della sua ammirazione –
anche se parziale – per la spensieratezza e la leggerezza innate di suo fratello, e in
generale, del Sud. Oltre ad essere attirato dalla Foresta Vergine stessa, avviene che il
protagonista non sopporta più l’intellettualismo di Gaetano, e più specificamente, le sue
metafore inventate, la Foresta Vergine inclusa:
Che noia però questa Napoli usata come allegoria morale, come categoria dello spirito! Miti da
intellettuale medio. Anche l’idea della Foresta Vergine allora è tipica; e così anche Gaetano, dopotutto,
rientra nello schema.218
Insomma, il rapporto di La Capria con Napoli non è certo univoco, e l’opposizione tra la
Bella Giornata e la Foresta Vergine non è un’opposizione categorica: essa può attenuarsi
facilmente, e tanto da permettere che la Natura, diventata meno ‘indifferente al destino
216
Ivi, p. 139.
Ivi, p. 24.
218
Ivi, p. 119.
217
84
dell’uomo’, si mescola con la Storia umana, formando così un insieme assolutamente
nuovo e affascinante.
Anche se l’idea del fascino di Napoli non appare molto chiara in Ferito a morte, essa è in
ogni caso molto presente nella saggistica lacapriana. Alcuni studiosi hanno sottolineato
che la condizione primaria per intravedere le possibilità di Napoli è costituita dalla ‘buona
distanza’. Vincente d’Orlando avanza perfino che «l’opera di Raffaele La Capria deve
essere letta come ricerca ossessiva della buona distanza, quella suscettibile di mettere a
fuoco Napoli»219. Filippo La Porta ne fa perfino un’astrazione, sviluppando una teoria del
‘congedo come modalità cognitiva’. Lo spiega in modo più concreto nel passo seguente,
parlando della partenza di La Capria stesso, ma accennando contemporaneamente a quella
del suo alter ego Massimo:
Per capire qualcosa (la vita?) bisogna allontanarsene. Il congedo libera una verità che altrimenti
resterebbe non detta. Si pensi anche all’addio di Massimo a Napoli in Ferito a morte, in quell’estate del
’54, con l’ultimo sguardo gettato sulla marina, tra le voci dei pescatori e le canzoni estive. Per capire
Napoli (il Sud) bisogna allontanarsene.220
Per La Capria, è soltanto da questa ‘buona distanza’ che può nascere il desiderio, il
bisogno e insieme la possibilità di scrivere sulla città materna: se il suo primo tentativo
letterario, Un giorno d’impazienza, si svolge ancora in un contesto indeterminato, con
Ferito a morte, il suo secondo romanzo, lo scrittore decide di dedicarsi completamente a
Napoli, cercandone un’interpretazione complessiva e corretta.
Un’interpretazione completa della città napoletana necessita ovviamente un certo periodo
di maturazione, e perciò si può presumere che essa assume una forma più matura nelle
opere lacapriani posteriori a Ferito a morte. Così, con il ‘romanzo’ L’armonia perduta,
che offre un’interpretazione ‘personale’ della storia di Napoli, lo scrittore sembra avere
raggiunto una concezione matura. Conclude il suo ‘romanzo’ con la speranza che esso:
[...] afferma la necessità di ritrovare attraverso la storia che ci appartiene e ci ha determinati, la nostra
identità, non per chiuderci in essa ma per viverla meglio e senza complessi, per cercare la giusta
219
Vincent d’Orlando, La cipolla e il funambolo, cit., in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e
passione civile, cit., p. 110.
220
Filippo La Porta, Il sud magico e razionale di Raffaele La Capria in Raffaele La Capria. Letteratura, senso
comune e passione civile, cit., p. 175.
85
combinazione tra differenza e omologazione e ridisegnare così un’idea di uomo meno uniforme e più
creativo. Perciò L’armonia perduta si affida a quell’illuminismo del cuore – quell’equilibrio tra
consapevolezza e abbandono, tra intelligenza e sentimento – che Napoli ha insegnato non solo a me ma
a tutti coloro che hanno saputo ascoltare la sua vera voce.221
E quindi, ‘l’equilibrio tra intelligenza e sentimento’ di cui lo scrittore parla ne L’armonia
perduta, non potrebbe corrispondere all’opposizione tra Storia e Natura di Ferito a morte?
Anche se ‘l’illuminismo del cuore’ di La Capria non si lasci percepire come un insieme
completamente armonioso nel romanzo, l’idea di esso ci sembra comunque presente, in
via di formazione.
A questo proposito è anzitutto utile analizzare la conclusione del romanzo, che si svolge a
Capri. Il protagonista, di ritorno per le vacanze, che ci sta cercando Ninì, osserva che «il
cuore di Capri è la piazzetta, e tu [...] vieni pompato nelle vene delle stradine»222. La
Capria ci inserisce quindi un altro paragone, in questo caso corporale, per esprimere la
vitalità del mondo meridionale (e forse anche una certa solidarietà umana?). È soprattutto
significativo il momento in cui un conoscente di Massimo gli dice che rassomiglia a suo
fratello. Dopo aver preso in considerazione l’osservazione, il protagonista non soltanto ci
esprime la sua affinità col fratello – e insieme con la mentalità dei napoletani –, ma mostra
pure di poter intravedere i motivi del suo – e del loro – comportamento:
Dev’essere proprio vero che io e Ninì, visti a una certa distanza o di spalle, ci rassomigliamo, perché
due volte già m’è capitato di essere confuso con lui, e per qualche istante mi s’è aperto il sipario sul
mondo come probabilmente gli appare. S’è aperto e subito chiuso.223
Inoltre, poco dopo Massimo dice di riconoscere le facce che lo sorpassano nella strada «a
stento, come la mia se uno specchio di sfuggita la rimanda»224. Questa osservazione
permette un’interpretazione analoga al passo precedente: in primo luogo, fa prova di una
certa affinità con i napoletani, e insieme di una comprensione incipiente della specificità
della loro visione sul mondo e dunque anche delle cause del ‘problema napoletano’.
221
Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in Id., Opere, cit., pp. 779-780.
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 172.
223
Ivi, p. 175.
224
Ivi, p. 176.
222
86
Insomma, a condizione di intravedere e affrontare le cause dei problemi inerenti alla città,
a poco a poco potrebbe sorgerci un aspetto completamente nuovo di Napoli, come luogo
incantevole e unico, dove si incontrano Natura e Storia, e dove, per dirla con le parole di
La Porta, «si insinua la possibilità di una visione del mondo più ricca, in cui si mescolano
[...] passato e presente, arcaico e moderno, sorti progressive e immobilismo, dialettica e
circolarità, utopia e tragedia, potenze telluriche e dei meridiani, dormiveglia e doveri
civici, solarità e sentimento funereo, insomma Magia e Ragione»225.
Infine, tale interpretazione sembra anche applicabile all’ultimo paragrafo di Ferito a
morte, che continua la descrizione del protagonista in cerca di Carla e Ninì. Le ultime
parole ci offrono inoltre un’apertura verso il futuro:
E là, in fondo alla strada, qualcosa-che-passa-e-sembra, bionda coda di cavallo oscillante, ha svoltato
l’angolo. Cerco lei, cerco Ninì... e mi pare sempre di camminare dietro qualcuno di cui sento ancora,
vicini, i passi sopra queste pietre.226
Dopotutto, il protagonista del capolavoro lacapriano, ‘camminando dietro qualcuno’, ci
sembra ancora in cerca di un’interpretazione completa e corretta della sua città materna,
un tentativo analogo a quello di La Capria stesso a questo punto. In realtà, anche se le
metafore create a proposito di Ferito a morte offrono un primo punto di riferimento per
descrivere Napoli, egli non riesce ad elaborare una visione complessiva che dopo molti
anni di maturazione, e ci arriva – forse – con L’armonia perduta.
225
Filippo La Porta, Il sud magico e razionale di Raffaele La Capria, in Raffaele La Capria. Letteratura, senso
comune e passione civile, cit., p. 176.
226
Raffaele La Capria, Ferito a morte, cit., p. 176.
87
5. CONCLUSIONE
L’analisi del meccanismo e del ruolo dell’immaginazione in Ferito a morte di La Capria,
elaborata in questa tesi, ha contribuito al chiarimento di una delle definizioni possibili
dell’immagazione, mettendone in rilievo l’importante aspetto cognitivo. È però necessario
sottolineare che questo concetto letterario complesso è stato affrontato qui da una sola
prospettiva, e che le interpretazioni o le sfumature proposte al termine della ricerca
possono ovviamente differenziarsi da un autore all’altro, senza perdere di valore.
In ogni caso, è incontestabile che la concezione lacapriana del concetto offra uno spunto
interessante, accordantesi parzialmente con alcune teorie sviluppate di recente, che hanno
sottolineato il potenziale cognitivo dell’immaginazione. Lo studio di queste teorie e il
confronto con il nostro romanzo hanno condotto alla seguente definizione (provvisoria)
dell’immaginazione: la facoltà di immaginare (e quindi di essere creativi) corrisponde alla
capacità di fare legami originali ‘nuovi’ all’interno di una rete individuale che raccoglie
tutte le conoscenze di cui dispone l’individuo creante, incluse sia il repertorio collettivo di
immagini, ossia immaginario, sia la percezione della realtà. Dal carattere innovativo di
queste connessioni inaspettate sorgono allora nuovi punti di vista e si aprono nuove
finestre sul mondo.
In Ferito a morte, il dispositivo dell’immaginazione si presenta sotto forma di metafore e
immagini, che, insieme all’intreccio del racconto – si pensa alla partenza del protagonista
e alla struttura simbolica, non convenzionale del romanzo – aiutano lo scrittore a cogliere
l’essenziale della città materna. L’impiego di queste figure conduce quindi a una migliore
comprensione della complessa realtà partenopea, partendo da una rappresentazione valida
e completa di essa, che raccoglie insieme i suoi tratti distintivi naturali, storico-culturali,
umani e sociologici.
In primo luogo, la metafora della Bella Giornata e le immagini naturali della luce e del
mare contribuiscono alla formazione di un’immagine di Napoli come splendida città
naturale, sottolineando così la particolarità napoletana all’interno di una cultura (troppo?)
moderna, incline a ignorare il valore della natura e della naturalezza. È proprio attraverso
la riflessione su, e la strutturazione mentale di queste immagini naturali, che La Capria
88
riesce a cogliere l’eccezionalità napoletana. Inoltre, lo scrittore afferma che il panorama
napoletano è l’entità ‘primaria’ che fa nascere e che stimola in continuazione la propria
immaginazione, attribuendo in questo modo un’importante funzione creativa alla natura
circostante.
Altre metafore e immagini lacapriane contengono invece un messaggio storico-culturale.
In questo caso, l’immaginazione serve a sottolineare la necessità di conservare la ‘buona’
tradizione e la ricca storia di Napoli (e in senso lato, della cultura occidentale). Con queste
immagini, La Capria vuole suggerire di non lasciarsi scoraggiare dalla forza della natura e
dalla sua inevitabile vittoria sulla storia – un’idea che emerge non soltanto dalla metafora
di Palazzo donn’Anna come ‘spugna’, ma anche dalla struttura particolare del romanzo
che sembra cancellare la percezione umana e lineare del tempo. La volontà dello scrittore
di mantenere in vita la ‘buona’ storia e le interpretazioni personali di essa, appare inoltre
anche nella sua personale ‘fantasia’ sulla storia napoletana, L’armonia perduta, e nella sua
apologia di un immaginario puro in Letteratura e salti mortali.
Queste concezioni storiche, manifeste in numerose immagini del romanzo, corrispondono
inoltre, a un livello più basso e individuale, ad una rappresentazione della vita umana,
vincolata dalle leggi naturali. La metafora della Bella Giornata conduce per esempio – e
non soltanto a causa della scelta di una misura temporale molto breve – a una costatazione
analoga, e si trasforma gradualmente in un simbolo dello scorrere del tempo e della
fugacità della vita. Però, nonostante il fatto che la Bella Giornata simboleggi una felicità
giovanile totale ma effimera, la speranza di recuperare questa felicità primaria è sempre
legittima, sostiene La Capria. In altri termini, lo scrittore napoletano si oppone a una
semplice accettazione della futilità della vita, impegnandosi invece sia a recupare la
giovinezza perduta, sia a riconoscere l’importanza della ricca storia umana lasciata alle
spalle.
Infine, l’immaginazione in Ferito a morte permette di esprimere gli attuali difetti di
Napoli e dei suoi cittadini, elaborando una vera e propria critica sociologica. La metafora
della Foresta Vergine sottolinea per esempio molto bene l’irresponsabilità e l’insensatezza
della maggior parte dei napoletani. La Capria, avverso all’atteggiamento di questi ‘ragazzi
eterni’ che preferiscono chiudersi nel cerchio protetto e decadente della propria città,
insiste invece sulla necessità di un contributo personale di ogni individuo alla propria
89
civiltà – alla stregua dello scrittore stesso, che nel suo romanzo fornisce un’interpretazione
creativa e personale di Napoli. Sono esattamente questi contributi ‘maturi’ che rendono
dinamica la storia umana e contribuiscono al progresso di essa.
Così, l’analisi di Ferito a morte ha evidenziato che l’immaginazione è un ottimo mezzo
per arrichire la conoscenza del proprio universo e per giudicare le virtù da conservare e i
problemi da risolvere all’interno di esso. La Capria giunge a questa visione panoramica
attraverso un continuo ripensare e ridistribuire di immagini date, costruendo in questo
modo una costellazione completamente nuova.
L’ipotesi che La Capria si impegna a ‘ripensare’ continuamente le immagini della propria
città, viene inoltre confermata dal fatto che riesce soltanto a esprimere queste immagini
dopo la partenza da Napoli: la loro formazione richiede quindi una distanza spaziale e
temporale, un certo periodo di maturazione. È proprio durante questo processo mentale
dell’immaginazione, in cui lo scrittore ‘ricollega’ le immagini e i ricordi raccolti, che le
‘ferite’ della città vengono incontrovertibilmente a galla. È durante questa stessa fase di
riflessione che viene esplicitata per la prima volta l’importanza di un equilibrio armonioso
tra Natura e Storia. Questa nozione di armonia condensa in realtà tutte le sfumature
espresse in Ferito a morte nei confronti della Natura, che ci viene rappresentata come
un’entità variabile, capace di trasformarsi improvvisamente da una bella giornata
‘equilibrata’ in una foresta immensa, selvaggia e buia. Il secondo romanzo lacapriano si
presenta così come un lungo processo metaforico, pazientemente attraversato dallo
scrittore, con lo scopo di svelare insieme la problematica e l’incanto della cara città
materna – e con la speranza di guarire le sue ferite.
90
Bibliografia
Fonti primarie
Raffaele La Capria, Ferito a morte, Milano, Oscar Mondadori, 1998.
Raffaele La Capria, Un giorno d’impazienza, in Id., Opere, a cura e con un saggio
introduttivo di Silvio Perrella, Milano, Arnoldo Mondadori, 2003, pp. 53-138.
Raffaele La Capria, Amore e psiche, in Id., Opere, cit., pp. 307-396.
Raffaele La Capria, La neve del Vesuvio, in Id., Opere, cit., pp. 549-628.
Raffaele La Capria, L’armonia perduta. Una fantasia sulla storia di Napoli, in Id., Opere,
cit., pp. 631-780.
Raffaele La Capria, Capri e non più Capri, in Id., Opere, cit., pp. 781-874.
Raffaele La Capria, Ultimi viaggi nell’Italia perduta. Luoghi della memoria, in Id., Opere,
cit., pp. 875-901.
Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli. Taccuino (1992-1993), in Id., Opere, cit., pp.
905-1119.
Raffaele La Capria, I punti di vista, dall’alto e dal basso. Elena Croce, Eduardo, Pasolini,
in Id., Napolitan graffiti. Come eravamo, in Id., Opere, cit., pp. 1075-1096.
Raffaele La Capria, Due storie dal vero. Anna Maria Ortese ed Ermanno Rea, in Id.,
Napolitan graffiti. Come eravamo, in Id., Opere, cit., pp. 1126-1152.
Raffaele La Capria, Letteratura e salti mortali, in Id., Letteratura e salti mortali, in Id.,
Opere, cit., pp. 1165-1173.
Raffaele La Capria, L’inquinamento dell’immaginario, in Id., Letteratura e salti mortali,
in Id., Opere, cit., pp. 1179-1183.
Raffaele La Capria, La maschera e il volto, in Id., Il sentimento della letteratura, in Id.,
Opere, cit., pp. 1302-1305.
Raffaele La Capria, La memoria immaginativa, in Id., Lo stile dell’anatra, in Id., Opere,
cit., pp. 1571-1592.
91
Fonti secondarie
Aurelio Benevento, Rilettura di «Ferito a morte» di Raffaele La Capria, in «Critica
letteraria», anno 2005, n. 4, pp. 715-730.
Giovanni Baffetti, Foresta, in Luoghi della letteratura italiana, a cura di Gian Mario
Anselmi e Gino Ruozzi, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 201-212.
Sergio Blazina, «Nell’assoluto equoreo silenzio»: immagini della natura e parole della
coscienza nella narrativa di La Capria, in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune
e passione civile, a cura di Paolo Grossi, Napoli, Liguori, 2002, pp. 51-64.
Hans Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, Milano, Raffaello Cortina, 2009.
Christophe Bouriau, Qu’est-ce que l’imagination?, Paris, Vrin, 2003.
Italo Calvino, Visibilità, in Id., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio,
Milano, Garzanti, 1988, pp. 79-98.
Flavio Carmagnola e Vittore Matera, Introduzione a Genealogie dell’immaginario, a cura
di Flavio Carmagnola e Vittore Matera, Torino, UTET, 2008, pp. XIII-XX.
Claudia Casadio, Linee per una teoria della metafora, in Itinerario sulla metafora. Aspetti
linguistici, semantici e cognitivi, a cura di Claudia Casadio, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 1347.
Antoine Compagnon, L’auteur, in Id., Le démon de la théorie. Littérature et sens
commun, Paris, Editions du Seuil, 1998, pp. 47-99.
Vincent d’Orlando, La cipolla e il funambolo. Napoli, la città-testo di Raffaele La Capria,
in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, a cura di Paolo
Grossi, Napoli, Liguori, 2002, pp. 105-121.
Umberto Eco, Metafora e semiotica interpretativa, in Metafora e conoscenza, a cura di
Anna Maria Lorusso, Milano, Bompiani, 2005, pp. 257-290.
Umberto Eco, Metafora, in Enciclopedia Einaudi, vol. IX, Torino, Giulio Einaudi, 1980,
pp. 191-236.
Denis Ferraris, La Capria e la nozione di purezza, in Raffaele La Capria. Letteratura,
senso comune e passione civile, a cura di Paolo Grossi, Napoli, Liguori, 2002, pp. 123135.
Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 1989.
David Gibbons, Defining metaphor: Problems and Issues, in Id., Metaphor in Dante,
Oxford, Information Press, 2002, pp. 9-20.
Elisabetta Graziosi, Introduzione a Il tempo e la poesia. Un quadro novecentesco, a cura
di Elisabetta Graziosi, Bologna, CLUEB, 2008, pp. 7-28.
92
Paolo Grossi, Introduzione a Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione
civile, a cura di Paolo Grossi, Napoli, Liguori, 2002, pp. 1-6.
Paolo Jedlowski, Immaginario e senso comune. A partire da «Gli immaginari sociali
moderni» di Charles Taylor, in Genealogie dell’immaginario, a cura di Fulvio
Carmagnola e Vincenzo Matera, Torino, UTET, pp. 222-238.
Filippo La Porta, Il sud magico e razionale di Raffaele La Capria, in Raffaele La Capria.
Letteratura, senso comune e passione civile, a cura di Paolo Grossi, Napoli, Liguori, 2002,
pp. 171-176.
Giacomo Leopardi, Canti, a cura di Niccolò Gallo e Cesare Gàrboli, Torino, Giulio
Einaudi, 1967, La sera del dì di festa.
Anna Maria Lorusso, Introduzione a Metafora e conoscenza, a cura di Anna Maria
Lorusso, Milano, Bompiani, 2005, pp. 7-25.
Giovanni Manetti, Aristotele e la metafora. Conoscenza, similarità, azione, enunciazione,
in Metafora e conoscenza, a cura di Anna Maria Lorusso, Milano, Bompiani, 2005, pp.
27-67.
Cristina Marras, Introduzione a Ead., Metaphora translata voce. Prospettive metaforiche
nella filosofia di G.W. Leibniz, Firenze, Leo S. Olschki editore, 2010, pp. 1-16.
Cristina Marras, Conclusioni, in Ead., Metaphora translata voce. Prospettive metaforiche
nella filosofia di G.W. Leibniz, Firenze, Leo S. Olschki editore, 2010, pp. 151-176.
Lucia Calboli Montefusco, La percezione del simile: metafora e comparazione in
Aristotele, in Metafora e conoscenza, a cura di Anna Maria Lorusso, Milano, Bompiani,
2005, pp. 69-86.
Cesare Pavese, L’adolescenza in Id., Feria d’agosto, Torino, Einaudi, 1968, pp. 152-153.
Silvio Perrella, Il mondo come acqua, in Raffaele La Capria, Opere, a cura e con un
saggio introduttivo di Silvio Perrella, Milano, Arnoldo Mondadori, 2003, pp. XI-XLV.
Domenico Scarpa, Mente narrante in corpo vivente. Metamorfosi di Raffaele La Capria,
in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, a cura di Paolo
Grossi, Napoli, Liguori, 2002, pp. 7-26.
Cristina Terrile, «Ferito a morte» nel romanzo italiano del novecento, in Raffaele La
Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, a cura di Paolo Grossi, Napoli,
Liguori, 2002, pp. 27-50.
Emanuele Trevi e Raffaele La Capria, Letteratura e libertà, Fandango, Roma, 2009.
Gabriella Turnaturi, Modi e tempi in letteratura e sociologia, in Ead., Immaginazione
sociologica e immaginazione letteraria, Roma, Laterza, 2003, pp. 28-55.
93
Gabriella Turnaturi, Descrivere, analizzare, raccontare la città, in Ead., Immaginazione
sociologica e immaginazione letteraria, Roma, Laterza, 2003, pp. 91-101.
Sabine Verhulst, Ricomporre Napoli nell’immaginario. La visione di Raffaele La Capria,
in Le frontiere del Sud, a cura di Ronald de Rooij et al., Firenze, Academia Universa
Press, 2009. In corso di stampa.
Sabine Verhulst, Introduzione. Età, giorni, stagioni, in Giorni, stagioni, secoli. Le età
dell’uomo nella letteratura italiana, a cura di Sabine Verhulst e Nadine
Vanwelkenhuyzen, Roma, Carocci, 2005, pp. 26-27.
Gérard Vittori, Reale, immaginario e simbolico in «La neve del Vesuvio» di Raffaele La
Capria, in Raffaele La Capria. Letteratura, senso comune e passione civile, a cura di
Paolo Grossi, Napoli, Liguori, 2002, pp. 89-103.
Herbert Morgan Waidson, Auden and German literature, in «The Modern Language
Review», vol. 70, no. 2, anno 1975, pp. 347-365.
94
Filmografia
Fonti secondarie
Raffaele La Capria, scrittore d’acqua, 2005, 58 min., regia di Serafino Amato;
documentario in DVD accluso al libro Letteratura e libertà di Emanuele Trevi e Raffaele
La Capria, Fandango, Roma, 2009.
95
96
97