I veterani d`Algeria e la Francia contemporanea Sintesi della tesi

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I veterani d`Algeria e la Francia contemporanea Sintesi della tesi
Dottorato «Società, politica e culture dal tardo Medioevo all’Età contemporanea» – XXI ciclo
Università di Roma “La Sapienza” – Dipartimento di Storia moderna e contemporanea
I veterani d’Algeria e la Francia contemporanea
Esperienze e memorie del contingente di leva, 1955-2010
di
Andrea Brazzoduro
Sintesi della tesi
1. Questa ricerca, che ha per oggetto la guerra d’indipendenza algerina e
la Francia contemporanea, vi si accosta per il tramite di uno specifico «gruppo
portatore di memoria»: gli ex combattenti del contingente di leva.
Nati tra il 1932 e il 1943, circa 1 milione e 200 mila soldati di leva (su 44
milioni di abitanti), provenienti da ogni angolo della Francia e da ogni classe
sociale, attraversarono il Mediterraneo, richiamati sotto le armi a servire il
proprio Paese: a ben vedere, si tratta dell’ultimo conflitto del mondo
occidentale che ha «provocato la militarizzazione di una generazione intera»
(Audoin-Rouzeau, 2008: 69). Comparata alla guerra americana in Vietnam, la
guerra d’indipendenza algerina (che durò lo stesso numero di anni) mobilitò
infatti un numero maggiore di truppe in rapporto alla popolazione e
soprattutto ebbe un’incidenza sulle famiglie francesi molto superiore (26 mila
morti in Francia; 58 mila morti negli Usa ma su 250 milioni di abitanti).
Il numero significativo di uomini, e attraverso di loro delle reti famigliari
coinvolte, offre una percezione di quanto il conflitto franco-algerino abbia
segnato in profondità pressoché l’intera società francese, tanto più se si tiene
conto della triplice dimensione della guerra: franco-algerina ma anche francofrancese e algero-algerina. Più di 5 milioni di persone, nella Francia del
principio del XXI secolo, sono ancora direttamente toccate dalla guerra del
1954-62: ex combattenti (di leva o di mestiere), indipendentisti algerini
residenti in Francia, pieds noirs, harkis, porteurs de valises, militanti dell’Oas, donne
e uomini nati alla politica militando a favore o contro l’«Algeria francese».
2. La memoria, o meglio le memorie dei reduci militari sono al centro
della mia indagine. Nella ricerca l’attenzione è rivolta, più che a un vettore della
memoria del conflitto (come film, quotidiani, libri, discorsi politici, atti
legislativi o monumenti che pure ho analizzato), ai processi di elaborazione
memoriale propri di uno specifico gruppo, identificato da un’esperienza
comune. Il campione di reduci intervistati è stato infatti costruito in base a due
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criteri: che avessero combattuto nella zona delle Aurès-Nememcha, nel sud-est
dell’Algeria, e che non fossero militari di carriera ma soldati di leva. Come ha
scritto lo storico Jean-Charles Jauffret, l’«homo bellicus algerianus esiste, ma in
pezzi disgiunti» (Jauffret, 2000: 9): così, piuttosto che centrare la ricerca su
un’esperienza troppo diversificata e perciò generica come la «guerra d’Algeria»,
ho creduto opportuno analizzare e confrontare le parole e le memorie di
uomini con un vissuto accomunato (almeno) da un’unità spaziale, secondo
l’insegnamento di Halbwachs che osserva come «ogni memoria collettiva abbia
per supporto un gruppo circoscritto nello spazio e nel tempo» (Halbwachs,
1997: 113).
È infatti nelle Aurès-Nememcha, caratterizzate da una popolazione
autoctona (i berberi chaoui) da sempre in guerra contro tutti i conquistatori, che
è cominciata la guerra di Liberazione algerina; ed è qui che i francesi hanno
messo a punto le tecniche di controguerriglia sperimentate in Indocina e poi
estese all’intera Algeria: la popolazione civile come vera posta in gioco del
conflitto, l’azione psicologica e la raccolta di informazioni (la tortura), i campi
di raggruppamento, le zone vietate e la responsabilità collettiva (la
rappresaglia), l’impiego di autoctoni al fianco dell’esercito regolare (gli harkis),
ma anche l’impiego nuove armi come il napalm e gli elicotteri...
3. Ancora dopo quasi cinquant’anni dalla fine della guerra, gli uomini del
contingente di leva restano segnati da una duplice ferita che fatica a
rimarginarsi. Inviati a combattere una «guerra senza nome», dissimulata con le
denominazioni più varie ed enigmatiche quali «pacificazione» o «mantenimento
dell’ordine» (l’Algeria, come la Bretagna o la Savoia, era Francia, che non
poteva farsi guerra da sola), alla fine del conflitto gli ex coscritti si videro
rifiutati da un Paese che entrava di volata nel «trentennio glorioso» 1945-75
con la voglia di lasciarsi il passato alle spalle, di consumare e divertirsi.
Conclusa la guerra – con una vittoria militare ma una pesante sconfitta
politica –, per lungo tempo nessuno vorrà ascoltare i racconti di questi uomini
spesso traumatizzati. Impossibilitati a «dire» i propri ricordi più dolorosi e
quindi incapaci di elaborare il trauma in una memoria comune, si chiuderanno
nell’amnesia della rimozione o nell’ipermnesia della coazione a ripetere. Questa
condizione di solitudine e isolamento è amplificata dal confronto con i più
anziani del 1914-18 e ancor più con i resistenti del 1940-45, «dei quali si
vantano, celebrano, commemorano senza sosta i meriti»: i soldati d’Algeria
hanno così «l’amara impressione di appartenere a una generazione di perdenti»
(Stora, 2005: 25).
Poi, la generazione immediatamente successiva, quella del Maggio,
prenderà tutta la scena per sé. La decolonizzazione era ormai un fatto
compiuto e, nel nuovo scenario determinato dalla guerra americana in
Vietnam, la génération des djebel risultava incomprensibile, come venuta da un
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altro mondo (e lo era), costretta a incassare lo sguardo diffidente, a volte
canzonatorio quando non di violenta accusa, dei giovani «sessantottini». Si
trattava di una sentenza ingiusta, e frettolosa era l’assimilazione dei coscritti ex
combattenti al fascismo, al colonialismo e alla tortura – che pure c’erano stati.
Per questi uomini che oggi hanno tra i 68 e i 79 anni sembra ormai finito
il tempo del silenzio: i loro figli, o più spesso i nipoti, li interrogano e si
interrogano su quel passato doloroso, aprendo per i veterani uno spazio di
parola inedito.
4. Dal 2007 ad oggi, sollecitati a raccontare la propria esperienza della
guerra nell’ambito di questo studio, i veterani d’Algeria parlano. Questo fatto
induce a considerare la parola alla stregua di un evento storico, il che significa –
facendo tesoro delle osservazioni di Arlette Farge – dimostrare come, a partire
da essa, si possa fare un récit d’histoire: se «l’ascolto di una testimonianza è
comparabile alla lettura degli archivi, bisogna fare lo sforzo di coglierne il senso
storico e di integrarlo alla collettività da cui proviene» (Farge, 2005: 93, 170). Il
fatto che i reduci parlino trova infatti le proprie ragioni nelle modalità, insieme
individuali e collettive, che presiedono all’organizzazione della memoria – che è
appunto il presente del passato, secondo la bella definizione agostiniana.
Al tempo in cui alla testa della Francia siede un presidente troppo
giovane per avere esperienza diretta della guerra d’indipendenza algerina
(Nicolas Sarkozy, eletto nel maggio 2007, è nato nel 1955), come si sono
riconfigurate le tracce mnestiche del conflitto nella società francese, comprese
quelle elaborate dai reduci, uno tra i gruppi marcati dalla cesura burrascosa che
segna la fine dell’«Algeria francese»?
Per rispondere a questa domanda la ricerca intraprende un’archeologia
del discorso reducistico per cogliere lo spessore storico della parola dei veterani
intervistati. Sono così analizzati i percorsi delle maggiori associazioni di ex
combattenti e la loro battaglia per vedersi riconosciuto lo statuto di troisième
génération du feu, dopo i poilus e i resistenti: una battaglia conclusasi solo nel 1999
con il riconoscimento da parte dello Stato che in Algeria c’era stata una guerra.
Mettendo in evidenza l’intreccio – sovente discordante e conflittuale – di
memorie private o di «gruppo» con il registro della memoria pubblica e
ufficiale, l’indagine mostra come la tesi di un’amnesia senza faglie funzionasse
da schermo per non vedere i film, telefilm, documentari, ma anche romanzi,
memorie, dibattiti, pubblicazioni scientifiche e divulgative che, a partire dalla
fine degli anni Cinquanta, hanno raccontato la guerra e la colonizzazione.
Nel 2004 due storici specialisti della guerra, Mohammed Harbi e
Benjamin Stora, annunciavano «la fine dell’amnesia» (Harbi, Stora, 2004): dopo
l’oblio e la rimozione, dopo il ritorno del rimosso nella forma patologica
dell’ossessione e della coazione a ripetere, ecco venuto il tempo
dell’elaborazione del trauma. Nel 2005, tuttavia, questa lettura lineare e tutto
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sommato teleologica del passaggio «dalla memoria alla storia» s’inceppa. Prima
una legge della Repubblica sancisce «il ruolo positivo della presenza francese [...]
in Africa del Nord»; poi, per fronteggiare le rivolte che infiammano le
«banlieues», viene riesumata una legge d’emergenza che risale all’Algeria del
1955. Da allora, riattivata nel quadro postcoloniale di un presunto «scontro di
civiltà», la guerra franco-algerina – che indica per sineddoche tutta la vicenda
coloniale francese – si installa al centro del dibattito pubblico. La ricerca
mostra infatti come a partire dalla fine degli anni Novanta l’interpretazione del
colonialismo e in particolare la sequenza algerina abbiano preso lentamente il
posto di Vichy, nella forma patologica di «un passato che non vuole passare».
Le controversie sulla vicenda coloniale nella Francia contemporanea
rispecchiano infatti i rapporti tra passato, presente e futuro così come vengono
modellati e articolati da quel campo di tensione che lega storia, memoria,
politica e da ultimo giustizia. La «sporca guerra» del 1954-62, come i precedenti
132 anni di colonizzazione, non spiegano – da soli – i nuovi conflitti politici e
sociali che agitano la Francia postcoloniale. Semmai, al contrario, sono questi
conflitti che agiscono come polarizzatori del discorso pubblico – e delle
memorie dei veterani –, riattivando (deformate) alcune immagini del passato
piuttosto che altre.
5. La maggior parte dei veterani incontrati racconta la propria guerra per
la prima volta. In questo senso la ricerca ha intercettato una fase particolare
nell’elaborazione sociale della memoria del conflitto franco-algerino,
caratterizzata da un’ampia presa di parola dei soldati, facilitata da una tendenza
ad attribuirsi retrospettivamente i tratti della vittima, in funzione
autoassolutoria. Inoltre, attraverso la ricerca i veterani appartenenti alla stessa
unità (12 su 27) hanno trovato una ragione in più per esprimersi ma anche per
incontrarsi e, timidamente, confrontarsi. Nel momento in cui cercavo di
studiare il mutare dei quadri sociali della memoria, mi sono trovato ad esserne
allo stesso tempo lo specchio e lo strumento. Va notato, infine, che i veterani
intervistati raccontano secondo modalità discorsive proprie di ciascuno, che ci
impongono di coniugare sempre le memorie al plurale, evitando ogni violenza
di sintesi autoritaria, imposta da uno sguardo estraneo non solo all’ambiente e
alla cultura militare, ma soprattutto all’esperienza della guerra. I veterani sono
diversi per condizione sociale, educazione, convinzione politica. Tuttavia, la
génération des djebels cerca retrospettivamente di dare un senso alla sua esperienza
attraverso i quadri socio-culturali contemporanei, ai quali appartiene, come fa
chiunque guardando indietro alla sua vita.
E se consideriamo Odisseo come l’archetipo dell’ex combattente che si
racconta, capiamo meglio in che senso è polytropos (πολύτροπος), come dice il
primo verso dell’Odissea: polytropos come l’uomo dalle molte esperienze certo,
ma quindi anche versatile, sfuggente, dissimulatore. Impegnato nel difficile
compito di comporre il passato e il presente, il tempo della guerra e il dopo.
Dottorato «Società, politica e culture dal tardo Medioevo all’età contemporanea» – XXI ciclo
Università di Roma “La Sapienza” – Dipartimento di Storia moderna e contemporanea
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Riferimenti:
Audoin-Rouzeau, S., Combattre. Une anthropologie historique de la guerre moderne (XIX-XXI
siècle), Seuil, Paris 2008.
Farge, A., Quel bruit ferons-nous?, Les Prairies ordinaires, Paris 2005.
Halbwachs, M., La Mémoire collective (1950), Albin Michel, Paris 1997.
Harbi, M., Stora, B. (a cura di), La Guerre d’Algérie. 1954-2004, la fin de l’amnésie, Robert
Laffont, Paris 2004.
Jauffret, J.-C., Soldats en Algérie. Expériences contrastées des hommes du contingents,
Autrement, Paris 2000.
Stora, B., Le Livre mémoire de l’histoire. Réflexions sur le livre et la guerre d’Algérie, Les préau
des collines, Paris 2005.
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