Madrid - Ediesse

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Madrid - Ediesse
Madrid
In Liguria vivemmo due anni. Fu un periodo allegro e spensierato, tra il giardino della nostra casa in cima alla collina, sotto la
chiesa rosa, e la spiaggia di Cavi di Lavagna. Lo fu meno per i
nostri genitori, costretti nuovamente a lunghi periodi di separazione. Poi arrivò la gradita notizia. Mio padre era stato trasferito
all’Ambasciata d’Italia a Madrid con l’incarico di addetto militare
in Spagna, Portogallo e Tangeri. Era il 1947. Mia madre era raggiante. Lasciava indietro la difficile situazione economica della
famiglia nell’immediato dopoguerra. Inoltre tornava a casa, nella
sua città, in un paese a suo parere finalmente pacificato dal franchismo, e ci tornava come moglie di un ufficiale di Marina italiano stimato dalle autorità spagnole per via del ruolo che l’Italia
aveva avuto nella crociata contro i rojos. Anche se in realtà l’Italia
era da poco diventata una repubblica antifascista. Mio padre era
stato sicuramente mandato a Madrid non solo perché parlava
bene lo spagnolo, ma anche perché sua moglie era legata alla
«buona» società franchista. Il che certo era ben visto dai nuovi
governanti.
Era iniziata la guerra fredda, il grande duello tra comunismo e
capitalismo. La Spagna usciva dall’isolamento. Franco aveva convinto i vincitori che il suo regime rappresentava un caposaldo
nella lotta contro il blocco sovietico. Gli ambasciatori dei paesi
occidentali, richiamati dai loro governi, rioccuparono le loro sedi
a Madrid. La sinistra spagnola, dissanguata e divisa, non aveva
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più la forza per sfidare il regime. La speranza di un intervento
antifranchista dall’esterno, che per anni aveva tenuto alto il morale delle forze repubblicane, era venuta meno. L’arrivo di mio
padre come addetto militare coincideva con quella svolta.
A Madrid ci stabilimmo nella Colonia del Viso, vicino alla Castellana, la grande arteria che attraversa la capitale da sud a nord.
Era un quartiere di case unifamiliari, progettato tra gli anni venti e
trenta del Novecento da giovani architetti che s’ispiravano alle nuove correnti europee come il Bauhaus. Vicino alla nostra casa c’erano
due ville abitate dai Sartorius, i nostri parenti legati a mia madre da
ormai tre generazioni. Mia madre era molto affezionata, fin dall’infanzia, a tio Fernando, Conde de San Luis, cugino di nonna Natalia.
Iniziammo a frequentare «los primos españoles». Io giocavo spesso nel giardino di tio Fernando con Nicolás, detto Nico, che aveva due anni più di me, e con Jose, il minore di dieci tra fratelli e
sorelle. Zio Fernando aveva partecipato alla guerra civile da ufficiale di Marina. Dalla parte franchista. All’inizio del conflitto, nel
1936, era stato incarcerato dai repubblicani. La stessa sorte toccò
ai suoi fratelli: Carlos, ufficiale di Aviazione, e Luis, ufficiale
dell’Esercito. Arrestati perché sospettati di essere favorevoli al
colpo di Stato militare che provocò la guerra civile. Grazie ad
uno scambio di prigionieri furono tra i pochi che riuscirono a
salvarsi da una più che probabile fucilazione. Un evento provvidenziale. Poche settimane dopo, infatti, migliaia di detenuti della
Carcel Modelo, militari accusati di simpatizzare con i golpisti, furono portati a Paracuellos, una piccola località vicina a Madrid, dove
furono fucilati. Fu un momento cruciale della guerra: Madrid riuscì
a resistere, i franchisti furono respinti e rinunciarono a occupare la
capitale fino alla fine del conflitto, tre anni dopo. In quel drammatico momento, la strage di Paracuellos fu forse inevitabile.
Nel giardino di zio Fernando passavamo ore giocando con le
chapas, i tappi di metallo delle bottiglie di birra all’interno dei quali
avevamo incollato l’immagine di noti giocatori di calcio. Era un
gioco tipico tra i ragazzi della Spagna povera di quel periodo. Nicolás, Jose e io avevamo improvvisato una pista di terra battuta e
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per ore ci divertivamo a sfidarci spingendo in avanti con le dita le
chapas come se fossero biglie. A volte si univa a noi anche Jaime,
figlio di José, un altro fratello di Fernando, il quale abitava in una
casa vicina. Come faceva ogni tanto Luis, da noi chiamato Luisito, il figlio minore di zio Carlos, l’ufficiale di Aviazione. Ancora
un Sartorius con il quale si sviluppò un forte rapporto affettivo
che fu interrotto anni dopo quando Luisito, mentre tornava a casa da una festa di ventenni, che a Madrid già allora duravano fino
all’alba, si schiantò con la sua Fiat Seicento contro un palo della
luce. Morì sul colpo.
Dal Viso andammo a vivere nel Barrio de Salamanca, a poca
distanza dell’Ambasciata d’Italia, che aveva un bel giardino dove
giocavamo spesso. Andavo alla Scuola italiana, la stessa che fu in
seguito frequentata, quando nostra madre tornò in Spagna, dai
miei fratelli. Si trovava già allora a due passi dai Nuevos Ministerios, l’aggregato di edifici grigi e pesanti, tra lo stile sovietico e
quello fascista, che in quel periodo era ancora in costruzione. Ricordo la signora Novaira, maestra non più giovane ma ricca di
umanità. Ci aiutava a studiare senza ricorrere ai normali procedimenti autoritari dell’epoca. Non aveva bisogno di farsi rispettare con la severità. È curioso. Ho dimenticato i cognomi di tutti i
professori della mia infanzia. Ricordo solo quello della signora
Novaira. A lei associo la Scuola italiana, dove sono tornato in seguito per sostenere gli esami da privatista quando andammo a vivere a Maiorca. Di quel periodo ricordo un particolare episodio.
Erano gli esami da privatista di quinta elementare. Mi ritrovai
con una bambina, anche lei privatista, seduta accanto a me nello
stesso banco. Era bionda e molto carina. Aveva la mia età, dieci
anni. Si chiamava Gabriella. Era Gabriella di Savoia, figlia del re
d’Italia che era andato in esilio quando gli italiani, due anni prima, avevano scelto la repubblica.
Giocavo nella squadra di pallone della mia classe con il ruolo
di portiere e devo dire che, pur sforzandomi, non sono mai diventato bravo.
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– Dai, Bacigalupo, prendi il pallone, non farti fare un altro gol.
Lo dicevano ridendo i compagni di gioco, ironizzando su una
mia supposta somiglianza con il leggendario portiere del calcio
italiano. In effetti, da allora, non ho mai seguito quello sport con
particolare entusiasmo. Ci fu soltanto un’occasione, indimenticabile, che mi vide appassionato tifoso di una partita. Avvenne
proprio quando il Torino, l’allora mitica squadra italiana di cui
Bacigalupo era il portiere, venne a giocare a Madrid con la squadra della capitale spagnola. Mio padre mi portò allo stadio e ricordo bene che durante l’incontro crebbe in me un improvviso
spirito patriottico che mi spinse a urlare a squarciagola: «Viva
l’Italia, Viva il Torino». Per qualche minuto, senza dubbio, la mia
parte italiana si era imposta su quella spagnola. Non è più successo. Da allora, nei campionati del mondo, sono sempre stato sia
filo spagnolo, sia filo italiano. Nelle partite Italia-Spagna non ho
mai saputo con chi schierarmi. Tuttavia, in quel lontanissimo
1949, mi sentii per un attimo l’unico tifoso italiano in quello stadio tutto spagnolo. Fatto sta che a un certo punto, quando il Torino stava ormai chiaramente vincendo quella partita, mio padre
mi avvertì, con tono scherzoso ma che a me sembrò lì per lì
molto serio, di stare attento perché eravamo probabilmente gli
unici italiani in quello stadio. Io trattenni il mio entusiasmo guardandomi attorno con attenzione e cercando di non farmi più
notare. Mi ero lasciato trascinare dalla mia parte italiana, pensai, e
non avevo saputo conciliare le mie due mezze identità. Forse
perché ero solo con mio padre e avevo bisogno di identificarmi
con lui quando mia madre era assente? Non ho mai saputo darmi
una risposta. Quella partita è stata l’unico incontro internazionale
di calcio al quale ho partecipato come tifoso allo stadio. Mi è rimasta impressa, anche perché fu il penultimo trionfo del Torino,
prima di andare a Lisbona a vincere un’altra partita e poi schiantarsi con l’aereo contro il parapetto della basilica di Superga, sulla
collina con lo stesso nome vicina alla città che attendeva trionfante il rientro della squadra.
Lo stadio di Madrid era allora una modesta struttura che riflet44
teva la generale arretratezza spagnola di cui io ero già in qualche
modo consapevole. In Italia, entrata nella stagione felice della ricostruzione, la gente era vestita meglio, si vedevano meno poveri, le strade e i treni erano più rapidi e moderni. Mentre la Spagna, al contrario, restava isolata con un’economia autarchica che
accentuava la povertà della grande maggioranza della sua popolazione. Il franchismo si era salvato politicamente ma il paese reale
era tuttora dissanguato dalle ferite provocate dalla guerra civile.
In quel periodo per me spensierato avvertivo, pur protetto dal
benessere che si respirava in casa, che certe cose non andavano.
A Madrid, negli angoli di strada, c’erano moltissimi ciechi – si diceva per via del glaucoma e di altre malattie molto diffuse – che
vendevano la lotteria, el cupón de los ciegos, per conto della Once,
l’Organización Nacional de los Ciegos Españoles. Che fossero
tanti lo dimostrava la penetrazione capillare della Once, nata in
piena guerra civile. Negli anni seguenti sarebbe diventata un
centro finanziario tra i più potenti della Spagna.
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Castiglia infuocata
Il mio primo contatto personale con la dittatura l’ho vissuto
quando avevo otto anni. Non quella italiana, di cui non si parlava
più, bensì quella di Franco. I miei, trasferiti a Madrid pochi mesi
prima, mi mandarono d’estate, non ricordo se fosse il 1948 o il
1949, a un campeggio della Falange, in piena Castiglia. Noi ragazzi eravamo i «balilla» del Caudillo. Mi è rimasta dentro la sensazione di una vita sana e divertente, di aria asciutta e incontaminata. Tra le immagini di quel campeggio conservo in modo nitido
quelle dell’alzabandiera all’alba e dell’ammainabandiera al tramonto. Attorno alle tende c’erano le maestose encinas, le grandi
querce della meseta, l’arido e trasparente altipiano castigliano. Creature di una natura forte e antica che si mescolano con pietre di
granito possenti e lisce, animando quel peculiare e maestoso scenario naturale che in Spagna si chiama Dehesa. Noi lì sull’attenti,
con la mano destra aperta e tesa verso l’alto nello stesso saluto
dei fascisti italiani e dei nazisti tedeschi. Indossavamo la divisa
dei piccoli falangisti. E cantavamo a voce alta Cara al Sol, l’inno
denso di retorica della Falange che terminava con l’urlo di rigore:
Arriba España, Viva España.
Allora non sapevo niente della Spagna, né chi fosse realmente
Franco, né che ci fosse stata la guerra civile. Tanto meno sapevo
che la Falange, nata diversi anni prima del Levantamiento del 18
luglio 1936, fosse ormai una corrente minoritaria, sempre meno
influente tra le forze che sostenevano Franco. Il declino del fa46
scismo ideologico spagnolo, che il Caudillo in verità non aveva
mai fatto proprio, era la conseguenza della sconfitta fascista e nazista in Europa. Il franchismo era diventato una dittatura militare
priva della retorica populista tipica del fascismo e del nazismo.
Appoggiato dalla Chiesa, dai latifondisti e dal grande capitale finanziario, non cercava più il consenso delle masse attraverso l’ideologia della Falange fondata nel 1933 da Miguel Primo de Rivera, che inizialmente aveva espresso contenuti ideologici simili a
quelli del fascismo italiano. Il consenso era imposto dall’alto con
la repressione e il collante del «nazionalcattolicesimo», l’ideologia
religiosa che s’ispirava allo spirito della cruzada contra los moros e
che affermava di battersi per l’unità della patria e per la difesa dei
valori cristiani. La Falange era semplicemente uno dei tasselli del
regime. Franco aveva poco o niente di Mussolini o di Hitler.
Non cercava il successo e la conferma di sé nel rapporto carismatico con le masse. Era un militare di poche parole, diffidente
e astuto, legato alla Chiesa, l’istituzione che garantiva il suo legame con la gente. L’ideologia franchista coincideva con il settore
tradizionale della gerarchia cattolica. Tutto ciò, tuttavia, lo ignoravo, mentre il fatto di recitare anch’io il ruolo del ragazzo falangista in piena Castiglia mi appariva del tutto naturale.
Quintanar de la Sierra è un paesino assolato di poche anime
nel cuore dell’aspra campagna castigliana. Siamo lì in vacanza,
con mia madre. È l’estate del 1948. La meseta è come se bruciasse,
accecata dal sole. Ogni due giorni, di pomeriggio, vado a lezione
dal falegname del paese. Mia madre è decisa a farmi imparare un
mestiere manuale:
– Perché nella vita non si sa mai. Dobbiamo essere pronti ad
affrontare momenti difficili.
Esco da casa alle tre circa del pomeriggio, immerso nell’afa
spietata e asciutta. Percorro a piedi, quasi stordito dal sole accecante, le poche centinaia di metri che separano la nostra casa, una
villetta in affitto alla periferia del villaggio, dalla bottega del falegname. Spesso mi accompagna Lola, il cane pastore del padrone
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di casa, al quale sono molto affezionato. Viene sempre con noi
quando andiamo in gita nella meseta con la compagnia di un asino
sul quale mia madre, che in quelle escursioni da il meglio di sé sul
piano organizzativo, carica vettovaglie e quant’altro.
Un giorno incontro un gruppo di ragazzini del paese. Li vedo
ancora, con i loro pantaloni corti e le camicie fatte a mano. Stanno giocando nella piazza centrale e mi osservano. Mi dicono
qualcosa che non capisco bene. Avverto ostilità nei loro sguardi.
E così, d’improvviso, temendo che intendano in qualche modo
aggredirmi, ordino a Lola di inseguirli. I ragazzi si spaventano e
fuggono. Lola gli corre dietro per qualche decina di metri, poi rinuncia e torna da me. Sapevo che avrebbe fatto così, che non li
avrebbe attaccati davvero. Eppure mi rendo subito conto di aver
fatto una cosa sbagliata, un gesto di arroganza e di vigliaccheria. I
ragazzi hanno avuto paura e sono fuggiti. Di ritorno a casa non
oso raccontare niente a mia madre, mi vergogno di quanto è successo, temo la sua prevedibile reazione per il mio comportamento. Qualche giorno dopo torno dal falegname. Sono solo:
Lola, questa volta, non mi accompagna. L’ho cercata prima di
uscire da casa ma non ha risposto alle mie chiamate. Percorro la
solita strada con apprensione. Ed eccoli i ragazzini di nuovo lì, in
piazza, che mi aspettano con sguardi minacciosi. Mi vengono incontro e mi prendono a calci e pugni. Mi difendo come posso
contro quella che sento, provando vergogna di me stesso, come
la vendetta dei poveri contro il ricco spaccone venuto da fuori.
Los chicos del pueblo contro l’eterno señorito.
Quando tornai a casa, ammaccato e dolorante per le botte,
raccontai imbarazzato la storia a mia madre che mi sgridò dicendomi che avevo avuto la lezione che mi meritavo.
(Tante volte, in seguito, ho pensato che non si era trattato di
un normale incidente tra ragazzi ma che in realtà mi ero comportato proprio come il figlio di uno che aveva vinto la guerra civile. Avevo lanciato Lola contro un gruppo di ragazzi di quel piccolo e misero paese nella profonda Castiglia per una sorta di di48
sprezzo classista, di spacconeria, un gesto umiliante non per loro
ma per me che mi ero comportato da vigliacco. Mi ero comportato come i giovani picchiatori fascisti che in Italia andavano davanti alle scuole per minacciare e spaventare i ragazzi di sinistra.
Ed ero stato giustamente punito.)
Fu nello stesso periodo che un gruppo di ragazzini, di nuovo
in un villaggio assolato e poverissimo della Castiglia, si avvicinò
alla nostra automobile per guardare da vicino chi era seduto al
suo interno. Avevano gli occhi tristi della povertà. Allora, tuttavia, non ero in grado di associare quella tipica scena degli anni
quaranta in Spagna alle grandi differenze sociali accentuate
dall’esito di una sanguinosa guerra civile che si era risolta con la
vittoria della destra oltranzista. Ignoravo che forse alcuni di quei
ragazzini avevano perso i genitori, o uno dei due, nella guerra
oppure nella tremenda repressione che seguì il conflitto, sacrificati sull’altare della «patria e dei valori cristiani». In una situazione
del tutto diversa, di fronte ai ragazzi del paese che erano semplicemente sbigottiti di fronte alla nostra presenza, provai la stessa
vergogna, lo stesso imbarazzo, che avevo vissuto pochi mesi
prima nella piazza centrale di Quintanar de la Sierra, quando avevo lanciato Lola contro un gruppo di ragazzi appena più grandi
di quelli che osservavo impacciato dall’interno dell’automobile di
mio padre.
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