Customer satisfaction e valutazione integrata delle politiche locali

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Customer satisfaction e valutazione integrata delle politiche locali
Customer satisfaction e valutazione integrata delle politiche locali
Mauro Palumbo, Università di Genova, Presidente Associazione Italiana di Valutazione
Traccia della relazione
1. Premessa: le sfide alla P.A. locale
Negli Enti locali si presenta in modo sempre più chiaro la sfida alla governabilità che si è andata
definendo a partire dagli anni Settanta, con l’esaurimento del modello di governo centralistico e
burocratico-professionale, basato sulla rigida definizione e divisione delle competenze tra livelli di
governo e tra mondo pubblico e privato e sulla legittimazione top down delle politiche e bottom up
delle istituzioni.
Questa sfida è riassumibile in due termini chiave, legittimazione ed efficacia, che saranno
brevemente esaminati nel seguito.
La legittimazione del potere pubblico, locale o nazionale che sia, risiede notoriamente nel suo
carattere democratico, ossia nel fatto che le istituzioni sono governate da assemblee elette con
metodo democratico (ossia secondo il principio per cui alla maggioranza dei voti corrisponde,
normalmente, la maggioranza dei seggi) e attraverso decisioni assunte con metodo democratico
(ossia con la maggioranza dei voti). A sua volta la democrazia riposa su presupposti esplicitati da
diversi autori, tra i quali citiamo la libertà di associazione in partiti, la libertà nell’espressione delle
opinioni, l’esistenza una pluralità di fonti di informazione e di una pluralità di partiti, i quali a loro
volta sono considerati il canale principale, dal basso verso l’alto, per la rappresentanza politica dei
valori e degli interessi dei cittadini e, dall’alto verso il basso, per la formulazione dei programmi e
l’assunzione delle scelte politiche nelle diverse sedi istituzionali. La crisi nella rappresentatività dei
partiti, nel duplice significato, di riduzione della quantità e dell’intensità della partecipazione dei
cittadini alla loro attività e di riduzione della loro capacità di formare-influenzare l’opinione
pubblica, che si traducono poi in sempre più diffusi fenomeni di disaffezione elettorale, generano un
problema non trascurabile di legittimazione delle istituzioni e in particolare del loro potere di
assumere decisioni vincolanti per tutti i cittadini rappresentati dalle istituzioni medesime.
Una seconda non piccola fonte di erosione della legittimazione delle istituzioni deriva poi dal
passaggio da un prevalente ruolo di “arbitro” nei confronti delle attività dei privati ad un ruolo di
“giocatore”, ossia dal passaggio dalla (prevalenza della) funzione regolativa, di produzione di
regole del gioco per i privati, alla (prevalenza della) funzione erogativa, di produzione di beni e
servizi essenziali per il benessere dei cittadini. E’ infatti evidente che il ruolo erogativo sposta il
giudizio dei cittadini dalla legittimità delle scelte operate (aveva titolo il Comune a fare quella
scelta? È stata quella una scelta assunta in modo democratico? È stata una scelta giusta?) al giudizio
sulla bontà di quelle stesse scelte (è stata buona quella scelta? Ha davvero assolto i bisogni degli
utenti? Lo ha fatto nel modo migliore?). Ci si interroga dunque sempre meno sulla legittimità delle
scelte operate e sempre più sul terreno della loro efficacia (grado di assolvimento dei bisogni) ed
efficienza (grado di ottimizzazione delle risorse: si poteva quel servizio fare meglio? Poteva costare
meno?).
Questo passaggio, dalla legittimazione all’efficacia, è particolarmente avvertito nel caso dei poteri
locali, visto che i Comuni si trovano in prima linea nell’erogazione, in via diretta o mediata, di
servizi essenziali, da quelli sociali ai trasporti, dalle reti di approvvigionamento dell’acqua a quelle
di smaltimento dei rifiuti. Ed è sempre più evidente che il giudizio degli elettori si basa sempre più
spesso sulla capacità delle Amministrazioni pubbliche di rispondere ai loro bisogni piuttosto che
sulla loro capacità di rappresentare i loro valori o ideali. E’ quello che negli Stati Uniti intendono gli
studiosi che, fin dagli anni Settanta, hanno affermato che politics is policy, ossia che la politica
finisce per tradursi nelle politiche pubbliche ed è su questo terreno che viene giudicata.
A questo si aggiunge il crescente sviluppo del cosiddetto “terzo settore”, che fornisce risposte “non
dello stato e non del mercato” a molti dei problemi sociali e che rappresenta una sorta di “rivincita”
della società civile sul modello tradizionale di Stato del benessere, che vedeva come unici attori gli
individui e lo Stato. Un modello che, in realtà, come hanno bene evidenziato i lavori di Donati,
Colozzi e De Nicola, poteva fornire servizi solo in quanto sostenuto, in modo “sotterraneo”, dalle
reti familiari e dall’economia informale degli scambi di beni e servizi all’interno della famiglia e
che non a caso anche per la crisi della famigli a e per l’emersione del lavoro femminile è andato in
crisi. Il costante sviluppo del terzo settore ha portato al riconoscimento del principio di sussidiarietà,
che genera un’innovazione importante rispetto al tradizionale modello ottocentesco di Stato, perché
assegna pari dignità all’assolvimento di bisogni sociali effettuato da soggetti collettivi non
riconducibili allo Stato o agli individui (famiglie).
Di qui anche il percorso che intendo seguire in questa mia relazione. Se il governo locale viene
giudicato in base alla sua capacità di risposta bisogni, questi bisogni occorre innanzi tutto
conoscerli; in secondo luogo bisogna capire se essi vengono assolti correttamente e se l’utente è
soddisfatto; in terzo luogo bisogna trovare il modo di includere queste conoscenze (ex ante, in
itinere, ex post) nel processo di produzione dei servizi pubblici, se possibile ottimizzando la
ricaduta di questa inclusione sia sul piano della legittimazione (la politica è giusta perché ha
ascoltato nel modo corretto i cittadini), sia su quello dell’efficacia e dell’efficienza (la politica
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risponde sempre meglio alle esigenze e magari lo fa anche a costi decrescenti). Da ultimo, occorre
tener conto che una politica pubblica non è necessariamente svolta in via esclusiva o prevalente da
soggetti pubblici, e neppure da operatori del mercato remunerati con soldi pubblici, sicché anche le
forme di regolazione dei processi di produzione dei servizi cambiano e si complessificnao. Qual è
allora la funzione delle indagini di customer all’interno di una prospettiva globale di valutazione
delle politiche locali?
2. Programmare e valutare in una società complessa1
Negli ultimi decenni si assiste ad un ulteriore fenomeno, parallelo a quello della riduzione della
legittimazione democratica delle istituzioni, che in breve potrebbe essere definito della crescente
frammentazione, complessificazione e diversificazione della società. Diviene cioè sempre più
evidente il fenomeno della complessità sociale, che si caratterizza per:
- l'aumento delle variabili "in gioco" nel determinare i comportamenti degli attori sociali;
- la corrispondente diminuzione della capacità euristica delle cosiddette "variabili strutturali" (ruolo
professionale, classe sociale, ma anche sesso ed età) sui comportamenti individuali;
- l'aumento del numero degli (e delle relazioni tra) operatori "istituzionali" che agiscono nella sfera
sociale, economica e politica;
- la velocità con cui si diffonde il cambiamento (non solo tecnologico) nelle diverse sfere di attività
dell'uomo.
Da tutto questo deriva una realtà sociale a più basso tasso di prevedibilità, perché
a) i diversi sotto-sistemi sono:
- interrelati sempre più strettamente
- con modalità sempre più eterogenee e sempre meno prevedibili;
b) il mutamento si manifesta in termini di:
- più accelerata evoluzione di quello che è (o potrebbe essere) prevedibile (mutamento di velocità
entro "regole del gioco" esistenti e conosciute: ad esempio, aumenta la mobilità privata per motivi
di lavoro e si concentra negli orari di apertura e chiusura delle unità produttive);
- mutamento nelle forme di evoluzione, quindi modificando in tutto o in parte le "regole del gioco"
conosciute (ad esempio, la mobilità privata per motivi di lavoro segue orari diversi da quelli di
apertura e chiusura delle unità produttive;
- mutamento delle configurazioni globali che derivano dalla somma dei mutamenti di cui sopra
(dentro e fuori le regole del gioco: ad esempio, la diffusione del lavoro flessibile, l’utilizzo di
Internet, modificano la struttura della mobilità urbana per ragioni di lavoro)
1
Il paragrafo riprende il titolo di un capitolo di un mio libro (Palumbo, 2001), del quale riprende alcuni passaggi chiave.
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c) la società è più frammentata, in quanto sono più numerosi i soggetti rilevanti nei processi
decisionali, ma
- i loro comportamenti sono meno prevedibili;
- le loro aggregazioni meno stabili;
- più difficile la rappresentanza dei loro interessi.
In questo tipo di società abbiamo cioè:
•
più attori sulla scena,
•
più opzioni possibili per i singoli attori,
•
meno regole del gioco stabili su cui basarsi,
•
più vincoli da rispettare.
Questi fenomeni generano una domanda di governabilità nuova, in quanto più opzioni aperte per
più attori richiedono "più governo", non disgiunta dalla domanda di partecipazione (meno disposti
sono i nuovi attori a delegare, meno rappresentativi sono gli attori istituzionali verso i nuovi
soggetti).
Di qui evidenti problemi di governabilità, già evidenziati da tempo (tra i precursori segnalo Donolo,
Fichera, 1981):
•
sul versante della "domanda", si va affermando una maggiore esigenza di produzione sia di
norme sociali che di interventi regolativi da parte dei pubblici poteri. (aumento degli attori,
degli ambiti di intervento, delle forme di intervento: non solo stato o mercato, am anche
terzo settore)
•
sul versante della "offerta", si hanno poteri pubblici in difficoltà sul piano delle risorse
disponibili, della capacità di rispondere con efficacia a domande spesso contrastanti, della
legittimazione stessa ad intervenire.
Di qui il rischio che si inneschi un circuito perverso: una minore capacità di autoregolazione sociale
ed economica può produrre una minore capacità di risposta dell'autorità pubblica, da cui possono
derivare ulteriori domande inevase (o conflitti). Si rafforza in questo caso il circolo vizioso della
dipendenza, messo in evidenza già da Ledrut (1968) e da Crozier (1987), secondo il quale il
cittadino si rende conto di poter essere ascoltato solo se urla più forte, ossia se accentua la
condizione di bisogno che legittima la sua domanda, avviando una spirale perversa per cui un
maggiore intervento pubblico produce una maggiore domanda invece che un assolvimento dei
bisogni.
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Una risposta a questa “crisi di governabilità” (lemma assai di moda negli anni Ottanta) viene da tre
altri concetti chiave, tuttora assai usati: governance, partecipazione, valutazione.
In termini assai schematici, il passaggio dal concetto di governo a quello di governance deriva dalla
necessità di rileggere in una nuova chiave i processi di coordinazione politica in una società
complessa e differenziata, caratterizzata da una sempre minore prevedibilità del comportamento dei
vari attori sociali, da una crescente produzione di regole attraverso processi negoziali, da un ruolo
del potere politico che si connota sempre più come regista di processi negoziali complessi e
interattivi, volti ad assicurare un livello di cooperazione dei principali stakeholder sufficiente a
sviluppare interventi impossibili da realizzare dal solo attore pubblico. Questo fenomeno si
accompagna alla crescita di procedure partecipative non tradizionali attorno a diversi temi e livelli
decisionali, a cominciare da quelli percepiti dai cittadini come maggiormente rilevanti (es.,
ambiente, salute), ovvero attorno a quelli percepiti dal decisore come maggiormente complessi (es.,
politiche urbanistiche)(cfr. Pellizzoni 2002). Come ho argomentato con maggior dettaglio in altra
sede (cfr. Palumbo, 2003), la partecipazione finisce per costituire una sorta di “soluzione
pragmatica” all’impossibilità di effettuare previsioni attendibili (il che non significa rinunciare alle
analisi sui bisogni, ovviamente): L’interazione tra stakeholders permette infatti di costruire un
frame cognitivo comune dal quale derivavano linee di azione condivise. I partecipanti si vincolano
infatti reciprocamente al rispetto del corso d’azione concordato e questo assume un significato solo
in relazione agli impegni assunti dagli altri partecipanti all’interazione. Questi fenomeni presentano
anche forme circolari di relazione tra componenti cognitive ed operative, dal momento che l’azione
produce anche nuova conoscenza per gli attori, con aggiustamenti conseguenti delle azioni future
(cfr. Crosta, 1998). Le dimensioni cognitive e pragmatiche finiscono per rafforzarsi a vicenda, dal
momento che la conoscenza è vera se viene riconosciuta come tale dagli attori e quindi usata,
divenendo vera perché usata, con una sorta di inversione del teorema della profezia che si
autoadempie (il cosiddetto Teorema di Thomas), per cui se sono reali le conseguenze di una certa
interpretazione della situazione, allora questa interpretazione è vera (in altri termini, se tutti
crediamo di poter conseguire il risultato e ci impegniamo per farlo, creiamo le premesse per
realizzarlo).
Questa è del resto la prospettiva in cui si muove, per esempio, la legge 328/00, che prevede la
partecipazione degli utenti non solo alla progettazione delle politiche, ma anche alla loro
erogazione. Si tratta di una prospettiva che contiene elementi innovativi anche sul piano
concettuale, che possono essere brevemente illustrati come segue.
Nella concezione tradizionale di servizio pubblico (non solo sociale, ma di qualunque natura), il
cittadino si “riduce” ad utente, in quanto viene preso in considerazione limitatamente al suo ruolo di
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portatore di bisogno. Questo comporta una prospettiva “attiva” da parte del servizio, che deve
rilevare i bisogni nel modo più adeguato alla progettazione di un servizio che (sotto il vincolo delle
risorse disponibili) li possa soddisfare adeguatamente. A sua volta, il cittadino svolge il ruolo
“passivo” di “portatore di (informazioni relative ai suoi) bisogni”, che deve diligentemente fornire a
richiesta. Il decisore pubblico impiegherà poi queste informazioni per assumere scelte in ordine al
servizio, delle quali il cittadino beneficerà in quanto utente. Il decisore pubblico potrà altresì
svolgere indagini nel corso dell’erogazione del servizio, volte a rilevare la soddisfazione dell’utente,
ovvero (come più raramente accade) l’eventuale (grado di) assolvimento del bisogno.
In tutti i casi, le diverse occasioni in cui può essere preso in considerazione il punto di vista
dell’utente (ex ante, con l’analisi dei bisogni, ovvero in itinere ed ex post, con la rilevazione della
soddisfazione o dei risultati degli interventi) rafforzano l’impostazione tradizionale delle politiche
pubbliche, secondo le quali i cittadini sono titolari di bisogni e di informazioni sulle prestazioni
ricevute, attivabili per scelta del soggetto pubblico e negli spazi da questo assegnati.
Esiste anzi un sostanziale isomorfismo tra la concezione di democrazia e di processo decisionale
pubblico adottate, da un lato, e tipo di tecniche di ricerca sociale utilizzate, dall’altro. Nella
prospettiva tradizionale, infatti, il processo decisionale può essere raffigurato con la sequenza
“survey-analysis-plan”, di competenza, rispettivamente, del ricercatore (che rileva i dati),
dell’analista o del tecnico (che li interpreta e li rende utilizzabili per la decisione), del politico (che
sceglie una tra le molte alternative possibili)2. Ma il passaggio delle informazioni dalla popolazione
ai tecnici (da survey ad analysis) e quello successivo, delle diagnosi che da questi dati sono
derivate e delle terapie che sono suggerite dai tecnici a politici (da analysis a plan) tende a
perpetuare un’immagine passiva dei cittadini, neutrale dei tecnici e di esercizio del (legittimo)
potere di scelta da parte dei decisori politici3. In realtà, il tecnico, apparentemente neutrale, da un
lato impone le proprie categorie cognitive alle rappresentazioni mentali dell’intervistato, mentre,
dall’altro lato, “espropria” delle risposte l’intervistato, che perde il controllo sulle letture dei suoi
bisogni e problemi che a partire da quei dati saranno proposte dal ricercatore. A sua volta, nel
modello tradizionale di programmazione, il tecnico “offre” (vende) le proprie analisi al decisore,
che opererà delle scelte a partire da queste, ma senza esserne vincolato fino in fondo, sia perché
difficilmente dall’analisi discende un unico possibile intervento, sia perché la selezione tra gli
eventuali metodi alternativi d’intervento avviene su base non esclusivamente tecnica.
2
Un più dettagliato esame di questo punto è contenuto in Palumbo, 2003.
In questa sede si ritiene, per semplicità di esposizione, che le scelte in materia di servizi pubblici siano comunque
riconducibili, in ultima analisi, alle istituzioni pubbliche che ne sono titolari (e le scelte agli organi politici di governo),
anche se agiscono in regime di autonomia o addirittura se sono svolti in appalto da privati.
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La customer nasce in questo tipo di concezione del processo di progettazione e produzione del
servizio e può naturalmente contribuire a migliorarlo, ma anche a perpetuare una sorta di
espropriazione da parte del decisore del potere del cittadino, che se da un lato gli ha delegato, in
virtù del principio della democrazia rappresentativa, il potere decisionale, dall’altro ha delegato, al
ricercatore il potere di far sentire la propria voce grazie alla survey, in virtù del principio
dell’oggettività della scienza.
Nelle pagine che seguono si tenterà tuttavia di illustrare un diverso possibile uso della customer,
all’interno di una diversa concezione delle politiche pubbliche.
Si tratta in questo caso abbandonare la strada della razionalità sinottica, che presuppone, nella
ricostruzione del modello operata da Lindblom (1968), la possibilità di individuare per ogni
problema una ed una sola soluzione più appropriata4, l’equivalente della one best way di Taylor nel
campo delle politiche pubbliche, per abbracciare quella della razionalità processuale, in cui la
razionalità non scompare, ma da sostanziale (capace cioè di dettare le soluzioni “giuste” per ogni
problema) diviene procedurale: razionali non sono più le decisioni, ma può esserlo il processo di
assunzione delle decisioni, che si configura anche come «un processo di apprendimento, che si
realizza con continui aggiustamenti tra mezzi e fini» (Bobbio 1996: 26; cfr. anche Balducci, 1991).
Il modello della razionalità processuale sposta l’accento dai temi della conoscenza (obiettiva,
preliminare alle scelte, neutrale, ecc.) e della decisione (assunta da chi ha la competenza formaleistituzionale) a quelli della comunicazione, della partecipazione, della negoziazione (nelle fasi sia
decisionali che valutative). Evita anche di concepire come antitetiche la tecnica e la democrazia, in
quanto incorpora nella produzione di conoscenza anche gli stakeholder e assegna alle sedi in cui si
sviluppa il dibattito sugli interessi e sui valori importanti funzioni cognitive.
Nella prospettiva della razionalità processuale, assume un rilievo particolare la concezione
dialogica, deliberativa e inclusiva della democrazia proposta da House e Howe (1999), nella quale
la partecipazione diviene essenziale per la costruzione stessa delle policies. Si tratta tuttavia di una
partecipazione diversa (e concorrente, come osserva molto bene Pellizzoni, 2005) rispetto a quella
prevista dalla concezione tradizionale di democrazia, in quanto presuppone una partecipazione
informata dei cittadini e un processo decisionale che avviene dopo un’attenta discussione: i punti di
consenso raggiunti sono frutto di “what people believe upon reflexion” (House and Howe, 1999:
10), ossia non di una “maggioranza aggregativa” come quella ottenuta da superficiali sondaggi,
bensì di una “maggioranza deliberativa”, quale quella ottenuta grazie all’impiego di tecniche
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Il dettaglio dei requisiti richiesti dal modello è illustrato in Palumbo, 2001; una buona ricostruzione del dibattito è in
Dunn, 1994.
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qualitative, come il focus group, capaci di riprodurre il processo di formazione dialogica di
un’opinione (per un esempio recente cfr. Stagi, 2001)5. Pellizzoni (2002) bene distingue tra dibattito
di “posizione” e “pubblico”; mentre nel primo la scena è dominata dagli interessi rappresentati dai
diversi stakeholder e il consenso viene raggiunto secondo modalità negoziali di tipo classico, nel
secondo i cittadini “non organizzati” assumono un ruolo centrale6.
3. la prospettiva integrata della valutazione
Poche brevi premesse. Programmare e valutare sono due facce della stessa medaglia, figlie della
razionalità che deve improntare le politiche pubbliche. Una razionalità, come si è detto sopra, che
diviene sempre più procedurale, di accordo iniziale tra le parti sulle regole del gioco (gli urbanisti
parlano di lanl for planning),gioco il cui esito non sarà scontato né prevedibile sulla base delle
posizioni iniziali degli attori. L’interazione tra questi spiega sempre più i punti di approdo e questo
produce diverse conseguenze. Non solo l’impossibilità di effettuare previsioni valide a prescindere
dall’evoluzione del contesto decisionale e dell’ambiente esterno su cui interviene, ma anche due
caratteristiche chiave del processo decisionale che si sviluppa tra gli attori: l’essere un processo
interattivo, in cui le soluzioni vengono via via messe a fuoco assieme ai problemi (secondo un
modello spesso vicino a quello del garbage can proposto da March e Olsen, 1976), l’essere,
soprattutto, un processo di apprendimento, che utilizza i dati che emergono nel corso della decisione
e dell’attuazione per rivedere costantemente l’adeguatezza delle soluzioni trovate. Ora, proprio il
carattere di apprendimento dei processi virtuosi di decisione ed attuazione nel pubblico amplia lo
spazio della valutazione; come ha osservato Bruno Dente (2000), “la valutazione di oggi è il
programma di domani”. Ecco perché in questa relazione lego la progettazione e la gestione degli
interventi alla loro valutazione: perché le certezze perdute ex ante a causa della complessità sociale
di cui si è detto poc’anzi possono essere recuperate dalla valutazione, a condizione che questa sia
condotta in una prospettiva che dia spazio ai punti di vista dei diversi attori.
Svelando il significato del titolo di questa relazione, valutazione integrata non significa altro che
valutazione condotta tenendo conto dei diversi punti di vista degli attori rilevanti all’interno di una
politica pubblica. Questi attori sono riconducibili con qualche semplificazione a tre: i decisori, gli
attuatori, i cittadini-utenti. una tripartizione certo non originale, perché nella letteratura sulla
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Al riguardo ricordo che anche House e Howe (1999: 132 e ss.) hanno distinto fra una concezione della democrazia
emotivistic (o preferential) e una deliberative (o cognitivistic): “citizens in democracy are responsible only to the
fulfillment of their own preferences [and] that democracy should be independent of any particular conceptions of the
good life or what gives value to life […] In the deliberative democratic view, citizens should express their beliefs about
what should be done, nor just fulfil their own preferences, and democratic institutions should provide the means of
arriving at knowledge of what should be done”.
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Secondo Pellizzoni i due modelli rispondono in modo diverso alle questioni di: 1. chi ha titolo a partecipare; 2. come
deve essere organizzata la discussione; 3. quali connessioni esistono tra la sede partecipativa e il processo decisionale
formale; 4. come partecipazione si connette con il problem setting.
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valutazione è più volte evidenziata; Scriven (1993), ad esempio, rielaborando proposte formulate
vent’anni prima, sottolinea che i bisogni degli utenti, gli obiettivi delle organizzazioni, gli standard
di qualità (definiti di solito dagli operatori) sono i tre riferimenti chiave della valutazione, non
riducibili l’uno all’altro.
Il campo di azione di una politica pubblica, in particolare di un servizio pubblico, che sui cittadini
utenti ha riflessi immediati, può essere pertanto esemplificato da un triangolo, ai cui vertici stanno i
bisogni, gli obiettivi, gli standard. Ognuno dei vertici corrisponde ad un punto di vista: gli obiettivi
a quello delle organizzazioni (le strutture, che debbono rispondere ai bisogni sotto il doppio vincolo
delle risorse disponibili e dei vincoli organizzativi e delle loro competenze istituzionali), i bisogni al
punto di vista degli utenti o dei cittadini (attenti soprattutto ai risultati, alla soluzione dei bisogni),
gli standard a quello degli operatori (attenti ai processi di erogazione dei servizi). Si tratta di
un’impostazione utile nel campo dei servizi, in cui i tre attori sono spesso in posizione dialettica;
nel caso della produzione di beni, invece, l’organizzazione controlla sia la definizione degli
obiettivi che quella delle procedure e dunque gli standard sono direttamente riconducibili ai decisori
piuttosto che non agli operatori; nel caso-limite della catena di montaggio sono gli ingegneri di
produzione e non gli operai che controllano il processo (anche se dai limiti del sistema nasce il
“modello Toyota”, in cui gli operai possono intervenire sul processo di produzione, migliorandolo).
Di contro, nei servizi si parla di standard professionali e non meramente procedurali, perché è dalla
conoscenza incorporata nella professione che trae legittimazione il processo di produzione del
servizio.
Ma è interessante anche notare che questa tripartizione (obiettivi, bisogni, standard), trova riscontro
anche nel modello del ciclo del progetto, che è caratterizzato dalla definizione di un obiettivo
generale o globale, cui corrispondono gli impatti, che si traduce in un obiettivo specifico, cui
corrispondono i risultati, a sua volta articolato in obiettivi operativi, che utilizzando mezzi o risorse
(e procedure attuative) devono produrre realizzazioni. Questo modello, pur nella sua rigidità, ha il
vantaggio di evidenziare che i nessi fra i tre punti di vista non sono solo di tipo dialettico e legati a
interessi diversi, ma anche di tipo causale, perché solo inserendo le prassi degli attuatori all’interno
degli obiettivi di strutture il cui operato è finalizzato a rispondere a bisogni è possibile sia
programmare sia monitorare e valutare i complessi processi di produzione delle politiche sociali.
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Figura 1. Il triangolo della valutazione e della qualità nei servizi
Punto di vista dell’organizzazione
OBIETTIVI
(strutture)
Valutazione
Qualità
(processi)
(risultati)
STANDARD
BISOGNI
Punto di vista dell’attuatore -operatore
Punto di vista dell’utente
Veniamo al ruolo della customer: al più rappresenta uno dei punti di vista, certo il meno
considerato. Ma lo presenta bene? Nel modo giusto?
Come osserva ad es. Lo Schiavo, 2001, normalmente nei servizi pubblici il cliente non è il solo
destinatario diretto del servizio; questo è ovvio soprattutto quando si tratta di persona non dotata di
piena capacità di apprezzamento del servizio, come un minore o una persona con ridotte facoltà di
comprensione, ma il ragionamento vale anche per il trasporto pubblico, ad esempio, che influenza la
qualità della vita anche di chi non lo usa; dall’altro lato, egli evidenzia il fatto che alcune
caratteristiche dei servizi pubblici sono valutabili “solo secondo standard tecnico-professionali in
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genere non immediatamente disponibili ai fruitori” (p. 180). Detto in altri termini, il punto di vista
dell’utente non è necessariamente rappresentato dalle opinioni dell’utente stesso, perché questa
ipotesi è valida solo ipotizzando la sua perfetta competenza a giudicare i risultati di breve e di lungo
termine. Tutto questo al netto delle tare che vanno fatte sulle indagini di customer, non sempre
condotte nel pieno rispetto dei canoni della metodologia della ricerca sociale. Al di là del modo
spesso discutibile in cui viene costruito il questionario (che presuppone spesso una competenza
notevole da parte dell’utente compilatore), è difficile trovare una reale casualità del campione,
nonché un sufficiente grado di controllo sulle condizioni in cui ha luogo l’intervista. In linea
generale, quindi, la customer dovrebbe essere integrata da giudizi di esperti e da ulteriori elementi
valutativi assunti dal punto di vista del cittadino, per dare a questo vertice del triangolo la stessa
forza degli altri due.
Ma quel che preme sottolineare in questa sede è che anche la migliore indagine di customer,
integrata dal giudizio dei migliori esperti, finisce per perpetuare il vecchio modello di costruzione e
valutazione delle politiche pubbliche, che finisce per rafforzare la distanza tra cittadini e istituzioni
invece che ridurla.
Un’ottima cosa sarebbe invece inserirla in procedure di democrazia inclusiva, come elemento
conoscitivo importante per arricchire i processi partecipativi, che spesso soffrono del problema
opposto a quello della customer, ossia di limitare la partecipazione ad una minoranza di
popolazione disponibile e motivata.
Dal punto di vista del Comune, la customer non deve dunque divenire né un alibi né un feticcio: è
uno dei modi di conoscere l’opinione dei cittadini, talvolta neppure il più importante. Quello che
tuttavia ne qualifica l’apporto, oltre alla corretta esecuzione, che in questa sede diamo per scontata,
anche se sappiamo che spesso non è così, è l’utilizzo che di tali informazioni viene effettuato: se
essa viene impiegata per migliorare i servizi inserendo l’opinione degli utenti all’interno di processi
gestionali e valutativi partecipati, che prevedono magari ulteriori forme di periodica verifica
dell’adeguatezza i bisogni del servizio, allora esprime al meglio le sue potenzialità per la
trasparenza e la democraticità delle decisioni; diversamente, può tradursi in un ulteriore fattore di
allontanamento del cittadino da quelle istituzioni che pensavano invece di poterlo avvicinare.
Mauro Palumbo
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Mauro Palumbo
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