leggi un assaggio - Ad est dell`equatore

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leggi un assaggio - Ad est dell`equatore
a ClaudiaLea,
a Mauro,
a Lorenzo
C'era uno che quando si alzava al mattino, gli riusciva così difficile ritrovare gli abiti che alla sera, al solo pensiero, spesso aveva paura di andare
a dormire. Finalmente una sera si fece coraggio, prese una matita e un
foglietto e, spogliandosi annotò i posti dove posava ogni capo di vestiario. Il
mattino seguente si alzò tutto contento e prese la sua lista. Il berretto: là,
e se lo mise in testa, i pantaloni: lì, e se li infilò; e così via fino a che ebbe
indossato tutto. “Sì, ma io, dove sono?” si chiese all�improvviso in preda
all�ansia. “Dove sono rimasto?”. Invano si cercò e si ricercò: non riusciva
a trovarsi1.
Rabbi Hanoch
La pazzia è nei singoli qualcosa di raro, ma nei gruppi, nei partiti,
nei popoli e nei tempi è la regola.
Friedrich Nietzsche
uno
La terra ha compiuto il suo giro dopo una notte che ha intirizzito anche le stelle. L'alba ha portato vento di montagna, l'aria si
è scatenata in una furia; mi costringe in casa. Oggi fa un freddo
che trafigge, non bagna, asciuga, mangia le punte degli orecchi,
punge frugando ovunque trovi un varco. L'insolito rigore qui
prende a tradimento, l'inverno dura quanto basta per rammaricarmi di non avere provveduto in tempo a riparare le finestre
per evitare spifferi. Ho riposato poco e male. Mi devo abituare
al materasso nuovo, è come le scarpe, vuole confidenza con il
corpo per stringere alleanza. Sto in quattro mura, ma costeranno
quindici anni di capriole per pagare il mutuo. Due camere appese
alla collina che dal mare sale fino in cima alla città. C'è un camino,
il fuoco è una compagnia a cui non so rinunciare, e un piccolo
terrazzo, sufficiente per lavorare fuori nella stagione buona. Da
questa parte Napoli è verticale, a piedi la si scala, è tutta tornanti
e rampe costellate da palazzi a grappoli. Se nessuno mi domanda
com'è la mia città lo so, se qualcuno me lo chiede non lo so più.
Ne ho ricevuto, gli umori, le offese e le promesse. Sono cresciuto all'ombra dei suoi disastri e nella luce della sua magnificenza. L'odore di umidità e di muffa provenienti dagli usci
sulla strada dove il sole è un lusso, la pratica di frastuono ininterrotto, di mobilità degli occhi per stabilire intese e distanze di
prudenza mi hanno addestrato i sensi.
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Il Poeta vi avrebbe mescolato i regni in uno scompiglio di
demoni premiati e santi castigati.
Appartengo alla nazione dei disertori d�urne, a un mondo
di sentimenti contrastanti, dissidi inguaribili tra fuga e stanziamento, resistenza e resa. Ho sorvegliato a lungo l'imminenza
di un avvenimento che è sopraggiunto con lo stesso volto di
questo ventennio appena scavalcato. C'è poco da fare, l'uomo
ama il vago, sicchè un racconto da nutrice, di dubbio valore, che
offende la storia e la morale è destinato a intrecciare voci che si
preoccupano di tutto fuorchè della verità.
Ho pochi amici, sparsi in una geografia che la vita ha riservato
all'avvenire di ciascuno. Ogni tanto si rinnova un noi nei rari
incontri combinati a fatica. Sono chiamate a una affettuosa
parità, a un'infinita confidenza che riadegua il cuore a una
misura presa e mai oltrepassata. Abbiamo orecchi allenati ad
ascoltare il battito del mondo. Quando succede di ritrovarsi ci
si riconosce in motivi ancora buoni per un tempo da venire,
in una sempre rinnovata necessità di vagheggiare il giusto, il
bello, il vero. L'ostinazione ad abitare il presente senza abiure,
a sedersi dalla parte della dignità sventando gli agguati del
sotterfugio, della compromissione, sopravanza rughe e canizie
tenendo pronti a riunciare anche a se stessi purchè sia salva una
fierezza da preservare inalterata anche se malconcia.
Sono le otto, mi sono alzato già da un pezzo. Le prime ore tengono al riparo dal fracasso che ogni giorno esplode in una confusione di fiera che non smette, in un andirivieni di motori e folla.
Le sagome dei mattinieri passano dietro le finestre di rimpetto.
La moka gorgoglia, manda l�odore di caffè che mi riscalda,
me ne verso una tazza, la vuoto in piedi mentre guardo fuori,
appunto a vista le prime coordinate di un approdo.
Le case orientano i migliori affacci dove cade il sole, bevono
luce fino alla fine del giorno. La tramontana stira il mare, traccia
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un confine esatto fra due azzurri all'orizzonte. Lontano, a destra, i battelli cuciono lo strappo della terra fra la costa e Procida.
Sotto si stendono i quartieri popolari; alcuni malgrado i loro
affanni accolgono paesi replicati venuti a spartire il sogno naufragato dell'uguaglianza, a mescolare idiomi che eleggono il napoletano ad esperanto. Sui tetti le antenne concave come padelle
mungono segnali elettrici dal cielo, nuovo eldorado dai confini
invisibili; presidiano avamposti di domini sconosciuti alla giurisdizione e friggono cervelli nell�olio rancido della miseria.
Sono tornato dopo una lunga assenza, dispongo di una veggenza di straniero.
Provengo da un altrove di domicili numerosi e di vagabondaggi a causa del lavoro, è divenuto stabile da poco. Ho conosciuto altri mestieri, fra una supplenza e l'altra nella scuola
scrivevo per un giornale, mi ci prestavo incoraggiato da una
febbre di vero. Da quando i vinti somigliano troppo ai vincitori
mi sono sottratto ad uno svuotamento di promesse. Adesso
conduco un'esistenza lontano da ogni proposito, adesso tutte le
cose, dalle più semplici alle più complicate, dalle più intime alle
più generali appartengono a un ordine decaduto e tuttavia mi
capita di scattare al cospetto di urgenze che hanno come scopo
l�immediato. È una mobilitazione che non ha niente a che fare
con sogni di grandi scommesse. L'impulso di un'attitudine a
battermi anche per una causa minima, ogni tanto mi fa reincontare uomini che somigliano a fogli di un sillabario scompaginato dal vento della storia. Sto in un liceo, spezzo coi
giovani il pane della filosofia, quando le occupazioni non infrangono le mie giornate rifuggo ogni ordine stabilito, smetto
di essere membro della società con l�abito in cui la gente mi
abbottona e scrivo.
Devo sistemare appunti e riordinare pagine a cui ho dato un
ultima lettura, il carico di parole che ho potato giace appallotto-
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lato ai piedi degli alari. Ho preparato la legna, giusto quella che
duri fino a sera. Il fuoco vuole cura, passerò un poco del mio
tempo a governarlo e a riposare gli occhi inseguendo con lo
sguardo le sue fiamme. Domani affiderò al mio editore la storia
di Regina e della figlia Elena, di un deputato, di una ragazza
di nome Nadia, di uomini che non ho battezzato neppure per
l�anagrafe immaginaria e di un me che ha inseguito ubiquo le
vicende come un�ombra priva di dettagli. Ma ecco la storia:
due
La propaganda della stampa aveva già trasformato il coraggio
dei magistrati in una colpa. L'uguale della legge era per pochi.
Dopo le tempeste giudiziarie del novantatre, gli scampati alle
indagini erano corsi ai ripari deponendo le loro larve altrove,
alla spicciolata, in formazioni che avevano resistito all'urto e
s�erano date nuovi nomi sgusciando dalla vecchia pelle come
serpenti in muta. Per gli indagati eccellenti le procure erano
vaghe nel timore che i nomi, in assenza di prove certe
tuonassero mettendo in fuga i designati al vaglio dei processi.
Mentre credevano di morigerare la politica i giudici facevano
un favore a molti sgombrando il campo dai vecchi partiti. I
subentrati che avrebbero colmato il vuoto preparavano un
rimedio peggiore del male. A cominciare dal ‘94 i magistrati
non avevano subito più attentati, si capiva che a coloro che
resistevano bastava levare le carte dalle scrivanie rendendoli
innocui. Certo, non mancavano i corrotti, del resto nulla di ciò
che è umano è ignoto all'uomo. Allora ai compiacenti erano
riservate promozioni in cambio di rimozioni. La tregua che ne
era scaturita pareva pace, ma era l�effetto di trattative oscure,
inaccessibili. Fatto sta che all'improvviso il parlamento si era
popolato di pregiudicati, plebei, individui provenienti dal
connubio facile fra ricchezza e prepotenza, abili nell'adescare
il consenso col raggiro. Quello scenario avvilente che fiaccava
l'indignazione radicandosi nell�ordine normale delle cose,
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avrebbe governato anche la mia intimità e quella di Regina
convincendomi ancora una volta che non c'è nulla di privato
nella vita di ogni individuo.
Era fine maggio. Quel giorno cadeva una pioggia sporca di
scirocco sulla seconda Repubblica. Il vento giallo portava un
carico di deserto e lo depositava sulle auto, frenava il passo e
faceva sventolare gli abiti dei passanti. Regina camminava con
le mani affondate nelle tasche, stringevano sui fianchi l'impermeabile leggero come un velo. Il tacco le si impigliò nella grata
di un tombino e cadde. «Aizàte ‘a signora ch�è carùte», fece una
donna anziana che riparava sotto l�arco di un palazzo vecchio.
Raccolsi la scarpa che aveva perso, gliela porsi, levò anche l'altra, le teneva appese al gancio delle dita, senza tacchi sanava
il mio timore di non essere all'altezza dei suoi occhi, dissi di
non avere mai ricevuto un tale omaggio, nessuna si era mai
stesa così al mio passaggio, sorrise scrutando il cielo come a
spiarne le intenzioni. Sedemmo al tavolino di un bar, stava a
due passi. Il proprietario portò uno strofinaccio pulito e glielo
diede, se ne poteva servire per asciugarsi. Lei prese a massaggiarsi i piedi avvolgendoli nel telo di fortuna. L'abito salì scoprendole le gambe, l'orlo bagnato tirò a lucido la pelle dorata da
un sole che le resisteva addosso. Pensavo quel che non dicevo
e dicevo quel che non pensavo. Quella mia vacuità rompeva
una tregua, guarivo una ferita infertami da una donna che non
scordavo. Regina non dava scampo, la sua bellezza era un'arma
affilata, soffio improvviso tramutato in un impulso rivelante di
sensualità come un medicamento inaspettato. Lo stupore dovette disegnarmi in volto un'espressione idiota perché intimò
in un italiano da prontuario, con accento straniero, di smetterla di guardare a quel modo, ne aveva abbastanza della sua
avvenenza, le ingombrava la vita costringendola quasi a vergognarsene, disse che si sentiva ostaggio di promesse che non
voleva mantenere, desiderava essere una qualunque, senza quel
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dispositivo che risvegliava troppo puntuale le fantasie degli uomini. Proposi di tenerle ancora un po’ di compagnia temendo
di leggerle negli occhi verdi come olive la noia per un'audacia
intempestiva, lo sguardo prese la densità di chi rammenta inviti
già sperimentati. Fece di sì col capo, liberai il fiato trattenuto
nell'attesa del responso e dissi che aveva un bel nome; «A giudicare dalla faccia l'avresti detto per qualunque altro» ironizzò.
Intanto la pioggia aveva smesso, mi prese sotto braccio, temeva
altri inciampi, le strade con l'acqua e l'incuria divenivano trappole. Attraversammo mezza città a piedi come se ci conoscessimo da tempo. Passammo davanti ai Re in piazza del plebiscito,
il teatro San Carlo, gli edifici carichi di secoli e segni di potenza
le accendevano in volto meraviglia, era un tragitto che faceva
spesso e tuttavia non s'era mai soffermata più di tanto, pareva
che la curiosità a un tratto si fosse risvegliata restituendo la vista
pure a me che le facevo da cicerone improvvisato. L'inalterabile
paesaggio coi bastioni, i palazzi signorili e i vicoli ingarbugliati,
adesso mi riapparivano come una resistenza muta di passato
troppo celebrato, venerato fino alla smemoratezza intorno alla
natura predatoria degli artefici che nel corso dei secoli si sono
avvicendati nel dominio della città. Le immagini dei flagellati
raffigurate lungo le navate di una chiesa mi fecero sperare ad
alta voce che Dio non tenesse conto del mio inguaribile dubbio
sulla sua esistenza. «Io ci credo in Dio», disse opponendosi a
quel mio pensiero. «Anch'io». Risposi. «Purché mi lascino la
libertà di immaginarmelo e di temerlo come una forza che non
dispensa colpe e non assegna meriti». Camminava spedita e leggera, finché non sopraggiunse un'espressione cupa, frettolosa.
Volle ci salutassimo e concluse che forse ci saremmo visti ancora, che «Il mondo è piccolo». La gente aveva ripreso a gremire
via Toledo. Rimasi a guardarla mentre si allontanava, la folla le
veniva incontro, si apriva come un'onda davanti a una polena
e si chiudeva alle sue spalle. Vidi una moto che si accostava al
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marciapiede, quello che stava dietro al conducente scese, aveva
un casco, gli copriva il volto, le si avvicinò, in un istante le strappò la borsa, rimontò in sella e si allontanò rapidamente insieme al complice. Tornai correndo, era agitata, le avevano preso
soldi, qualche oggetto privo di valore e chiavi. La portinaia ne
aveva una copia per il “non si sa mai”. La borsa non conteneva
documenti, non era costretta a cambiare la serratura. Brontolò in romeno, concluse fra i denti: «Malledeti!» e se ne andò.
Nelle metropoli se il mondo è piccolo lo decide il caso, si può
incontrare una persona anche più volte, oppure non avere più
modo di rivederla. Le altre possibilità: virtù di intuito, magnetismi, trasmissioni oscure, appartengono al mistero che combina
incontri inaspettati. Fatto sta che la rividi poco tempo dopo.