Leggi il primo capitolo

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Leggi il primo capitolo
suz anne collins
traduzione di Simona Brogli
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www.ragazzimondadori.it
© 2004 Suzanne Collins. All rights reserved
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano,
per l’edizione italiana
Pubblicato per accordo con Scholastic Inc., 557 Broadway,
New York, NY 10012, USA.
Titolo dell’opera originale Gregor and the Prophecy of Bane
Prima edizione maggio 2013
Stampato presso ELCOGRAF S.p.A.
Stabilimento di Cles (TN)
Printed in Italy
ISBN 978-88-04-62646-6
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Per Cap
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PARTE
PRIMA
LA
SPEDIZIONE
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CARTA
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CARTA: Creamy - PROFILO DI STAMPA: Nessuna conv. colore - DIMENSIONE: 140x215 mm - cartonato fresato
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uando Gregor aprì gli occhi, ebbe la netta impressione che qualcuno lo stesse osservando. Perlustrò
con un’occhiata la propria minuscola stanza, cercando di restare più fermo che poteva. Soffitto sgombro.
Niente sul cassettone. Poi lo vide, seduto sul davanzale, del tutto immobile salvo che per il lieve agitarsi delle antenne. Uno scarafaggio.
— Sei proprio in cerca di guai — mormorò, rivolto
all’insetto. — Vuoi che ti veda mia madre?
Lo scarafaggio si strofinò le antenne, ma non fece
alcun tentativo di scappare. Gregor sospirò. Allungò
la mano per prendere un vecchio vasetto di maionese che conteneva le sue matite, lo svuotò sul letto e,
con un unico e rapido movimento, lo calò sullo scarafaggio per intrappolarlo.
Non fu neppure costretto ad alzarsi. La sua camera da letto non era una vera e propria camera da letto.
Con ogni probabilità, avrebbe dovuto essere una spe-
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cie di sgabuzzino. Il letto singolo di Gregor vi si incastrava così a filo che la sera il ragazzo poteva arrivare
dalla soglia al cuscino semplicemente passandoci sopra a quattro zampe. La parete ai piedi del letto aveva
una piccola rientranza, con lo spazio appena sufficiente per un cassettone poco profondo, anche se poi i cassetti potevano essere aperti solo di una ventina di centimetri. Gregor doveva fare i compiti seduto a gambe
incrociate sul letto, con un’asse sulle ginocchia. E non
c’era la porta. Ma lui non si lamentava. Aveva una finestra che dava sulla strada, un soffitto bello alto e più
privacy di chiunque altro in casa. Non capitava spesso
che qualcuno entrasse in camera sua… a meno di non
considerare gli scarafaggi.
E comunque, cosa succedeva agli scarafaggi, ultimamente? Nel loro appartamento ce n’erano sempre stati,
ma adesso gli sembrava di vederne uno ogni volta che si
girava. Non scappavano. Non tentavano di nascondersi. Se ne stavano lì a guardarlo e basta. Era inquietante. Ed era una bella fatica cercare di metterli in salvo.
L’estate precedente, quando a chilometri e chilometri sotto la superfice di New York una femmina di scarafaggio gigante si era sacrificata per salvare la vita di
Boots, la sua sorellina di due anni, Gregor aveva giurato di non uccidere mai più uno solo di quegli insetti.
Ma se la mamma li vedeva, cavolo, per loro era la fine.
Toccava a lui farli uscire di casa prima che il radar anti-scarafaggio si attivasse. Quando fuori faceva caldo,
si limitava a prenderli e a metterli sulla scala antincendio. Ma ormai era dicembre e temeva che si sarebbero
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congelati, perciò negli ultimi tempi aveva provato a infilarli nella spazzatura in cucina, il più in fondo possibile. Pensava che lì sarebbero stati alla grande.
Gregor diede una spintarella allo scarafaggio per spostarlo dal davanzale e farlo risalire lungo la parete del
vasetto di maionese. Sgusciò nel corridoio davanti al
bagno, superò la camera da letto che dividevano Boots,
Lizzie – la sorella di sette anni – e la nonna, ed entrò in
salotto. Sua madre era già uscita. Doveva aver accettato
il turno della colazione alla tavola calda dove serviva
ai tavoli nei weekend. Durante la settimana lavorava
a tempo pieno come assistente di un dentista, ma ultimamente avevano bisogno di ogni centesimo.
Il padre di Gregor era steso sul divano letto. Non era
tranquillo neanche quando dormiva. Contraeva le dita,
che di tanto in tanto strattonavano la coperta, e borbottava in tono sommesso.
Papà. Povero papà…
Dopo essere stato tenuto prigioniero da ratti enormi
e crudeli nelle profondità di New York per più di due
anni e mezzo, suo padre era a pezzi. Durante la sua permanenza nel Sottomondo, così gli abitanti chiamavano
quei luoghi, lo avevano affamato, privato della luce e
brutalizzato nel fisico in modi che lui non avrebbe mai
rivelato. Era tormentato dagli incubi e, a volte, anche
da sveglio faticava a distinguere tra realtà e illusione.
Andava peggio quando aveva la febbre, il che succedeva spesso perché, nonostante tutte le visite mediche,
pareva proprio che non riuscisse a guarire da una strana malattia che si era portato dietro dal Sottomondo.
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Prima di precipitare insieme a Boots dalla grata della
lavanderia e partecipare al salvataggio del padre, Gregor
aveva sempre pensato che, nel momento in cui la famiglia si fosse riunita, sarebbe stato tutto facile. La situazione era decisamente migliorata, adesso che suo padre era tornato, e lo sapeva. Ma facile non lo era di certo.
Gregor entrò in cucina senza far rumore e infilò lo
scarafaggio nella spazzatura. Posò il vasetto sul bancone e si accorse che sopra non c’era niente. Il frigorifero conteneva mezzo cartone di latte, una bottiglia da
tre litri di succo di frutta, con un rimasuglio che forse avrebbe riempito un solo bicchiere, e un vasetto di
senape. Gregor si fece forza e aprì l’armadietto. Mezza pagnotta, un po’ di burro di arachidi e una scatola
di farina d’avena. Scosse la scatola ed emise un sospiro di sollievo. Avevano cibo a sufficienza per la colazione e il pranzo. E visto che era sabato, lui non avrebbe neppure dovuto mangiare a casa. Sarebbe andato a
dare una mano alla signora Cormaci.
La signora Cormaci. Era strano come, da vicina impicciona, nel giro di pochi mesi si fosse trasformata in
una specie di angelo custode. Lui, Boots e papà erano
tornati da poco dal Sottomondo quando Gregor l’aveva incontrata nell’ingresso.
— Allora, cos’hai fatto di bello mentre eri via, signorino? — gli aveva chiesto. — A parte spaventare a morte tutto il palazzo. — Gregor le aveva propinato la storia concordata con i suoi. Il giorno che era scomparso
dalla lavanderia, aveva portato Boots al parco giochi per
farla divertire un po’. Lì avevano incontrato suo padre,
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che era in partenza per andare a trovare uno zio malato
in Virginia e voleva portare i figli con sé. Gregor pensava che avesse avvisato la mamma, il padre pensava che
l’avesse fatto lui, ed era stato solo al ritorno che si erano resi conto del disastro che avevano causato.
— Umpf — aveva commentato la signora Cormaci,
lanciandogli uno sguardo severo. — Credevo che tuo
padre abitasse in California.
— Ci abitava — aveva ribattuto Gregor. — Ma adesso è tornato qui con noi.
— Capisco — aveva sbuffato la signora Cormaci. —
E sarebbe questa, la tua storia?
Gregor aveva annuito, consapevole del fatto che era
piuttosto deboluccia.
— Umpf — aveva ripetuto la signora Cormaci. —
Be’, al posto tuo ci lavorerei su. — E si era allontanata
senza aggiungere altro.
Gregor credeva che fosse arrabbiata con loro, ma alcuni giorni dopo la donna aveva bussato alla porta con
una torta al caffè. — Ho portato un dolce a tuo padre —
aveva detto. — Per dargli il bentornato. C’è?
Gregor non avrebbe voluto lasciarla entrare, ma il
padre aveva gridato con voce fintamente allegra: — È
la signora Cormaci? — e lei era piombata in casa con
la sua torta. La vista dell’uomo – uno scheletro con i
capelli bianchi, ingobbito sul divano – l’aveva colta di
sorpresa. Se aveva progettato un interrogatorio di terzo
grado, quell’idea era stata accantonata all’istante. Aveva scambiato qualche commento sul tempo, invece, e
poi se n’era andata.
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In seguito, un paio di settimane dopo l’inizio della
scuola, una sera sua madre era rientrata con delle novità. — La signora Cormaci vuole assumerti per darle
una mano il sabato.
— Darle una mano? — aveva chiesto Gregor, diffidente. — Darle una mano a fare cosa? — Non voleva
dare una mano alla signora Cormaci. Gli avrebbe fatto
un sacco di domande ed era probabile che avrebbe voluto leggergli il futuro con i tarocchi e…
— Non lo so. Darle una mano in casa. Non sei obbligato ad accettare, se non vuoi. Ma pensavo che potesse
essere un modo carino per guadagnarti un po’ di soldi
solo per te — aveva risposto sua madre.
Fu a quel punto che Gregor capì: avrebbe accettato,
sì, ma non per avere dei soldi tutti per sé, per il cinema, i fumetti o roba del genere. Quel denaro l’avrebbe
usato per la sua famiglia. Perché, anche se papà era a
casa, non esisteva alcuna possibilità che riprendesse il
suo lavoro di insegnante di scienze. Era uscito dall’appartamento solo qualche volta e sempre per andare dal
dottore. Erano in sei a vivere con quello che guadagnava sua madre. E tra spese mediche e materiali scolastici, più vestiti, cibo e affitto, i soldi non bastavano mai.
— A che ora vuole che sia lì? — aveva chiesto Gregor.
— Ha detto che andrebbe bene per le dieci — aveva
risposto sua madre.
Nemmeno quel sabato di alcuni mesi prima avevano molto da mangiare in casa, così Gregor aveva mandato giù solo un paio di bicchieri d’acqua e si era diretto all’appartamento della signora Cormaci. Quando la
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donna aveva aperto la porta, l’intenso profumo di qualcosa di succulento lo aveva colpito, riempiendogli la
bocca di tanta saliva da obbligarlo a deglutire a fondo
prima di salutare.
— Oh, bene, sei arrivato — aveva detto la signora
Cormaci. — Vieni con me.
Imbarazzato, Gregor l’aveva seguita in cucina. Una gigantesca pentola di sugo gorgogliava sul fornello. Un’altra pentola conteneva della pasta per lasagne. Mucchi
di verdura coprivano il bancone. — C’è una raccolta
fondi alla mia chiesa, questa sera, e ho detto che avrei
portato le lasagne. Non chiedermi perché. — La signora Cormaci aveva vuotato parecchi mestoli di sugo in
una scodella, ci aveva infilato dentro una grossa fetta di
pane, l’aveva sbattuta sul tavolo e aveva spinto Gregor
su una sedia lì davanti. — Assaggia.
Gregor l’aveva guardata, incerto.
— Assaggia! Devo sapere se vale la pena di metterlo
in tavola — aveva insistito la signora Cormaci.
Gregor aveva intinto il pane nel sugo e aveva dato
un morso. Era così buono che gli aveva fatto lacrimare
gli occhi. — Cavolo — aveva commentato.
— Non ti piace. Fa schifo. Dovrei buttare via tutta la
pentola e andare a comprare del sugo in vasetto al negozio di alimentari — aveva detto la signora Cormaci.
— No! — aveva esclamato Gregor, allarmato. — No.
È il miglior sugo che abbia mai assaggiato!
La signora Cormaci gli aveva schiaffato un cucchiaio
accanto. — Allora finiscilo e lavati le mani, col sapone, perché hai della roba da tagliare.
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Dopo che ebbe divorato pane e sugo, la donna lo aveva messo al lavoro su mucchi di verdure che poi faceva
saltare nell’olio d’oliva. Gregor aveva mescolato uova
e spezie alla ricotta. Insieme avevano disposto strati su
strati di pasta, formaggio e verdure in tre teglie enormi. Poi lui l’aveva aiutata a rigovernare, e lei aveva dichiarato che era ora di pranzo.
Avevano mangiato sandwich al tonno e insalata in
sala da pranzo. La signora Cormaci gli aveva raccontato dei suoi tre figli, ormai grandi, che vivevano in altri
Stati, e del signor Cormaci, che era mancato cinque anni
prima. Gregor lo ricordava vagamente come un uomo
gentile che gli aveva regalato qualche quarto di dollaro e, una volta, una figurina del baseball. — Non passa
giorno senza che senta la sua mancanza — aveva detto la signora Cormaci. Poi aveva tirato fuori una torta.
Dopo pranzo, Gregor l’aveva aiutata a svuotare un armadio e aveva portato alcuni scatoloni in cantina. Alle
due, la signora Cormaci gli aveva detto che aveva finito. Non gli aveva chiesto niente, a parte se gli piacesse
la scuola. Lo aveva spedito fuori con quaranta dollari,
un cappotto pesante che era appartenuto a sua figlia da
piccola, e una teglia di lasagne. Quando Gregor aveva
tentato di protestare, lei aveva detto semplicemente:
— Non posso portare tre teglie di lasagne a una raccolta fondi. La gente porta due cose. Entri con tre e tutti
pensano che sei proprio un esibizionista. E allora? Dovrei mangiarmele io? Col mio colesterolo? Prendile.
Mangiale. Ci vediamo sabato prossimo. — E gli aveva
chiuso la porta in faccia.
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Era troppo. Tutta quella roba. Ma poteva fare una
sorpresa a sua madre e comprare un po’ di cibarie, magari anche qualche lampadina, visto che in casa se ne
erano fulminate tre. A Lizzie serviva un cappotto. E le
lasagne… ah, quelle erano il pezzo forte. Di colpo aveva provato l’impulso di bussare alla porta della signora Cormaci e raccontarle la verità, sul Sottomondo e
su tutte le cose che erano successe, di dirle che gli dispiaceva di averle mentito. Ma non poteva…
Gregor uscì con un sobbalzo dal suo flashback quando Lizzie, in pigiama, entrò in cucina con passo leggero. Era piccola per la sua età, ma l’espressione preoccupata del viso la faceva sembrare più grande dei suoi
sette anni. — Abbiamo da mangiare per oggi? — chiese.
— Certo, in abbondanza — rispose Gregor, cercando di non darle l’impressione di essere preoccupato anche lui. — Guarda, per colazione potete farvi una zuppa
d’avena con questa e, per pranzo, dei sandwich al burro di arachidi. Comincio subito a preparare la zuppa.
Lizzie non aveva il permesso di usare il fornello, ma
aprì l’armadietto con le scodelle. Ne contò quattro,
quindi esitò. — Tu fai colazione o…?
— Naaa. Stamattina non ho proprio fame — disse,
anche se gli brontolava lo stomaco. — E poi vado ad
aiutare la signora Cormaci.
— Andiamo in slitta, dopo? — chiese Lizzie.
Gregor annuì. — Sì, sì. Porto te e Boots a Central
Park. Se papà sta bene.
Avevano trovato uno slittino di plastica accanto ai
rifiuti. C’era una grossa crepa, ma papà l’aveva riparata
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con del nastro isolante. Per tutta la settimana, Gregor
aveva promesso alle sorelle che le avrebbe portate a
giocare con la slitta. Ma se papà aveva la febbre, qualcuno doveva restare a casa con lui e con la nonna, che
passava molto tempo credendo di essere ancora nella
fattoria dei suoi, in Virginia. Ed era proprio di pomeriggio che, di solito, la febbre colpiva.
— Se non sta bene, rimango a casa io. Tu puoi portare Boots — disse Lizzie.
Ma lui sapeva che moriva dalla voglia di andare. Aveva
solo sette anni. Perché doveva essere così dura per lei?
Gregor trascorse le ore seguenti aiutando la signora
Cormaci a preparare grosse pirofile di patate gratinate,
a lucidare la sua bizzarra collezione di orologi antichi
e a tirare fuori dal ripostiglio le decorazioni natalizie.
Quando la donna gli chiese cosa sperasse di ricevere
per Natale, lui alzò le spalle e basta.
Quel giorno, mentre se ne andava, oltre al denaro e
a una vaschetta di patate gratinate, la signora Cormaci gli diede qualcosa di meraviglioso. Un paio di vecchi scarponi di suo figlio. Erano un tantino rovinati e
un po’ troppo grandi, ma robusti e impermeabili e si allacciavano fin sopra le caviglie. Le scarpe da ginnastica
che portava Gregor, il suo unico paio di scarpe, stavano cominciando a rompersi in punta; a scuola, a volte,
dopo aver percorso strade coperte di neve ridotta in poltiglia, gli rimanevano bagnati i piedi per tutto il giorno.
— È sicura che non li voglia lui, questi? — chiese
Gregor.
— Mio figlio? Certo che li vuole. Li vuole nel mio ar-
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madio, a occupare spazio, così può tornare qui una volta l’anno, dire: “Ehi, guarda un po’ i miei vecchi scarponi” e infilarli di nuovo nell’armadio. Se inciampo ancora
in quei cosi per arrivare al ferro da stiro, lo disconosco.
Portali fuori di qui prima che li butti dalla finestra! —
rispose la signora, rivolgendo agli scarponi un cenno
sprezzante della mano. — Ci vediamo sabato prossimo.
Quando Gregor arrivò a casa, risultò evidente che
suo padre non si sentiva bene.
— Voi andate, ragazzi. Andate a divertirvi con la slitta. Io starò benissimo qui con la nonna — disse, ma batteva i denti per i brividi.
Boots saltellava qua e là con lo slittino di plastica sopra la testa. — Iamo litta, Ghe-go?
— Resto io — bisbigliò Lizzie, rivolta a Gregor. — Prima di andare, però, potresti procurarti un po’ di quella
medicina per la febbre? È finita ieri.
Anche Gregor pensò di restare, ma Boots non usciva quasi mai e Lizzie era troppo piccola per portarla a
giocare con la slitta da sola.
Scese di corsa in farmacia e comprò un flacone di compresse che facevano scendere la febbre. Tornando a casa,
si fermò davanti a una bancarella di libri usati. Qualche
giorno prima, passando, aveva notato un volumetto di
enigmistica in edizione economica. Era piuttosto malconcio ma, quando Gregor lo sfogliò, vide che i cruciverba e i rebus completati erano solo un paio. Il venditore gli lasciò il libro per un dollaro. Come ultima cosa,
comprò un paio di arance di quelle grosse, dolci, con la
buccia molto spessa: le più costose. Lizzie le adorava.
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Il visetto di sua sorella si illuminò quando Gregor le
consegnò il libro. — Oh! Vado a prendere una matita!
— disse, e scappò via. Lizzie andava matta per i giochi
enigmistici. Rebus matematici, parole crociate, rompicapo di ogni genere. E anche se aveva sette anni, riusciva a risolverne parecchi di quelli destinati agli adulti.
Quando era molto piccola, se vedeva un segnale di stop
in giro, cominciava: — Stop, post, spot… — Ricombinava in un attimo tutte le lettere di tutte le parole che le
saltavano in mente. Come se non potesse farne a meno.
Quando Gregor le aveva raccontato del Sottomondo, si era lasciata sfuggire un piccolo rantolo sentendo
parlare dell’orribile re dei ratti, Gorger. — Gorger! Ma
si chiama come te, Gregor! — Non intendeva dire che
i due nomi erano uguali, ma che Gorger era l’anagramma di Gregor. Chi altri se ne sarebbe accorto?
La lasciò sentendosi a posto. La nonna dormiva, papà
aveva la sua medicina e Lizzie era raggomitolata su una
poltrona vicino a lui, occupata a succhiare una fetta di
arancia e a decifrare allegramente un crittogramma.
L’entusiasmo di Boots era così contagioso che anche
Gregor si sentiva felice. Si era messo un paio di calzini
in più e aveva imbottito la punta dei suoi nuovi scarponi
con un po’ di carta igienica, così da avere i piedi caldi,
comodi e asciutti. A casa, i suoi avevano una quantità
di patate gratinate sufficienti per un piccolo esercito.
Una neve leggera scendeva volteggiando lieve intorno
a lui e a Boots, e stavano andando a giocare con la slitta. Per il momento andava tutto bene.
Presero la metro fino a Central Park, dove c’era una
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collinetta fantastica per le discese. C’erano molte persone, alcune con slitte sofisticate, altre con vecchi slittini
malridotti. Un tizio si lasciava semplicemente scivolare su un grande sacco per la spazzatura. Boots lanciava
strilli di gioia ogni volta che scendevano per la collina,
e appena si fermavano, gridava: — Ancoa, Ghe-go. Ancoa! — Andarono in slitta finché la luce non cominciò
a calare. Gregor si fermò per un po’ vicino a un’uscita del parco, per permettere a Boots di giocare. Si appoggiò a un albero mentre lei si faceva affascinare dalle impronte che lasciava nella neve.
Il parco aveva un’aria natalizia, con tutte quelle
slitte e i pini e i buffi pupazzi di neve bitorzoluti fatti dai bambini. Ai lampioni erano appese grosse stelle luccicanti. La gente passava con sacchetti pieni di
acquisti, decorati con renne e stelle di Natale. Gregor
avrebbe dovuto sentirsi allegro ma il Natale, al contrario, lo intristiva.
La sua famiglia non aveva denaro. Il che non era poi
così importante per lui. Aveva undici anni. Ma Boots
e Lizzie erano piccole e quel momento avrebbe dovuto
essere divertente, magico, con un albero di Natale e regali e calze sull’attaccapanni (era lì che le appendevano,
in mancanza di un camino) e cose buone da mangiare.
Gregor aveva provato a mettere da parte un po’ dei
soldi che gli dava la signora Cormaci, ma i suoi risparmi sembravano sempre andarsene per qualcos’altro,
tipo la medicina per la febbre o il latte o i pannolini.
Boots poteva consumare davvero moltissimi pannolini. Era probabile che adesso gliene servisse uno, ma
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lui non ne aveva portati, perciò dovevano cominciare
a muoversi.
— Boots! — chiamò Gregor. — È ora di andare! — Si
guardò intorno nel parco e vide che i lampioni lungo i
sentieri si erano accesi. Ormai era quasi buio. — Boots!
Andiamo! — disse. Si scostò dall’albero, girò in tondo
e sobbalzò per la paura.
Nel breve tempo che aveva trascorso a pensare, Boots
era sparita.
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