il ranaro - Provincia di Reggio Emilia

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il ranaro - Provincia di Reggio Emilia
IL RANARO
di Luigi Pacchiarini
Chi scrive è nato e cresciuto mezzo secolo fa nelle valli del Po e più precisamente a
S.Vittoria di Gualtieri il cui territorio fino all' opera di bonifica del Marchese Cornelio
Bentivoglio, del diciassettesimo secolo, era esclusivo dominio delle acque.
Ho vissuto l'infanzia nelle afose estati padane fra un canale ed un fosso di bonifica ad
imitare o cacciare la variegata fauna acquatica che iniziava in quegli anni a diminuire
in relazione all'aumento esponenziale dell'inquinamento dei corsi d'acqua.
Nell'immaginario della mia giovinezza è rimasta impressa la figura di un personaggio:
scalzo, con i calzoni arrotolati al polpaccio, un gilè senza maniche e sdrucito, portato
sopra una camicia a scacchi con le maniche arrotolate al gomito, un ampio cappello di
paglia sotto il quale spuntava un volto abbronzato con occhi attenti e truci e due
grandi baffi che ornavano il viso. Nella mano sinistra teneva una canna di bambù con
una cordicella lunga come la canna all'estremità della quale stava un bozzolo (folsel),
a tracolla portava un cestino di vimini di forma ovale con l'apertura a scatto (burga).
Il personaggio procedeva sugli argini dei fossi con passo felpato, protendeva l'esca
verso l'ignara rana che se ne stava immersa nell'acqua con la testa emersa, muoveva
l'esca come fosse una libellula o un insetto succulento e quando l'anfibio con uno
scatto ingurgitava la finta preda, l'uomo sull'argine con un misurato strattone della
canna estraeva la rana dall'acqua e gli faceva compiere un volo sufficiente per poterla
afferrare con la mano destra, riponendola successivamente nel cestino di vimini dove
le povere rane in gabbia gracidavano inutilmente.
Per me questa figura umana, il cui luogo d'origine e la storia del quale non ho mai
conosciuto era il Ranaro.
Come molte delle antiche pratiche di caccia e pesca, le quali nella storia dell' uomo
sono state un importante mezzo per procurarsi il cibo di cui nutrirsi, anche il ranaro si
stava trasformando in quegli anni da mestiere vero e proprio a pratica sportiva da cui
trarre qualche utilità ma soprattutto occupare in modo divertente il tempo libero.
Anche noi ragazzi ci addestravamo a catturare le rane con la lenza e non vi dico
quanta scaltrezza e abilità occorra per catturare quei sospettosi e viscidi esserini.
Sul piano giuridico è giudizio unanime che la cattura della rana è attività di pesca, ma
una sera ebbi la fortuna di partecipare con mio zio e altri suoi amici alla caccia
notturna delle rane in squadra e da allora mi è rimasto il dubbio che quella alla rana
non sia tanto un' attività di pesca ma piuttosto di caccia.
La rana alla quale mi sto riferendo è la Rana verde (Rana esculenta complex)
conosciuta anche come Rana comune, specie della famiglia dei Ranidi e dell'ordine
degli Anuri. Il colore del dorso è di un verde smeraldino che può virare anche al bruno
oliva, cosparso di macchie nere, in estensione può raggiungere la lunghezza di 12
centimetri, la si distingue dalle altre specie per il ventre bianco punteggiato di nero e
grigio. La pelle viscida e delicata non resisterebbe a lungo ai raggi del sole, per questo
in estate ha bisogno di trascorrere gran parte del giorno immersa nell'acqua dove
dopo l'accoppiamento depone le uova ed i girini che ne escono, spesso preda dei pesci
o altri animali, si sviluppano in acqua fino alla scomparsa delle branchie e alla
fuoriuscita delle zampe. Le attuali norme di pesca,(ma la domanda rimane: "è pesca o
caccia ?"), stabiliscono che si possano catturare nei mesi di Marzo, Aprile e Maggio,
mentre nei restanti mesi è consentita solo di giorno e per un massimo di 1 Kg per
persona.
Nella zona valliva del Po dove abitavo, introdotta dal Conte Greppi, del quale rimane
testimone il Palazzo settecentesco, si praticava diffusamente la coltura del riso.
In primavera iniziavano le pratiche di preparazione della risaia una delle quali la
livellatura con lo spianone veniva effettuata con la presenza di acqua nelle camere di
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coltura del riso e questo accadeva a marzo-aprile proprio quando le rane uscite dal
letargo sono più buone da mangiare.
Fra le informazioni che passavano dal ranaro esperto al principiante infatti si
affermava che le rane sono buone da mangiare solo nei mesi nei quali è presente la
lettera "erre" per questo motivo i mesi più adatti erano quelli successivi allo
svernamento. marzo, aprile o prima del letargo settembre.
Tornando alla mia caccia alle rane ai bordi della risaia, un personaggio chiave della
vicenda era anche l'acquaiolo, che nella grande Cooperativa Agricola esistente era la
persona predisposta al governo delle acque interne all'azienda agricola, questo si
muoveva in continuazione fra gli appezzamenti con in spalla una pala completamente
in legno, fatta salva la punta in ferro (palot) propria del lavoro di sterro nei terreni
argillosi con la quale abbatteva o costruiva piccoli sbarramenti nei solchi per
indirizzare o far defluire le acque e in una mano teneva una manovella per alzare o
abbassare le chiaviche in ferro che si trovavano agli snodi dei fossi irrigatori. Dopo
l'aratura funicolare della risaia veniva immessa acqua nelle camere per agevolare il
passaggio di un pesante attrezzo piatto trascinato da argani posti sugli argini detto
spianone per la sua peculiare finalita di livellare il terreno ove veniva successivamente
seminato il riso.
La pratica dell'immissione dell'acqua nelle camere della risaia seguiva un procedura
consolidata: l'acquaiolo iniziava le operazioni necessarie nel tardo pomeriggio perchè
l'appezzamento fosse pronto per il mattino seguente, le rane che si trovavano su tutta
la superficie, all' aumentare delle acque tendevano ad ammassarsi vicino agli arginelli
e con il calar della sera a risalirli.
Quando correva voce fra gli appassionati di caccia alla rana che erano iniziate tali
operazioni, si dava corso ai preparativi per la battuta di caccia.
L'abbigliamento del cacciatore di rane doveva essere scuro per mimetizzarsi e
l'attrezzatura era piuttosto semplice poiché l'unico strumento utile alla cattura era una
fonte luminosa che nel buio della notte incantava momentaneamente l' animale, tale
fonte luminosa era costituita in antico dalle lampade a carburo nelle quali il carburo di
calcio a contatto con l'acqua emetteva un gas facilmente infiammabile il quale
emanava una splendente luce, naturalmente questi apparecchi perfetti nella prova che
si faceva a casa, per le complicazioni nel metterli in opera, al buio, in situazioni
precarie non funzionavano mai al primo colpo, ma dopo una serie di tentativi andati a
vuoto e l'intervento del pratico di turno finalmente anche l'ultimo fanale si accendeva.
Io per la verità ho visto accendersi gli ultimi fanali a carburo poiché erano già di gran
moda le torce elettriche a pila e da parte mia ne possedevo una veramente invidiabile
di marca Superpila.
Alla cintura era assicurata la cosiddetta "filza" che non era che un filo di ferro
sagomato a cerchio nel quale erano infilzate le piccole prede le quali subivano la
tortura di essere trafitte per una zampa poiché tale sistemazione le assicurava
saldamente allo strumento di trasporto ed al tempo stesso non danneggiava le parti
del corpo mangerecce.
Ad ora tarda quando il gracidio aveva invaso l'aria di abbondanti richiami iniziava il
rastrellamento, vera e propria battuta di caccia, con le luci concentrate sui primi metri
davanti al cacciatore, l'incedere lento e silenzioso il gracidare sempre più scomposto e
frequente.
A notte fonda con il bottino di caccia sufficiente alle attese il gruppo s'incamminava
per recuperare i mezzi coi quali avevamo raggiunto il luogo di caccia e sulla via del
ritorno le valutazioni su come era andata la cattura e sugli episodi che non si erano
potuti raccontare in corso d'opera accompagnavano i ranari improvvisati lungo le
strade buie.
Per la cattura a mano con il fanale a carburo o la torcia a pile un ambiente notturno in
cui si potevano incontrare le "prede" in libera uscita dall'acqua erano gli arginelli dei
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fossi e dei canali di bonifica, ed in assenza di situazioni ottimali ai bordi delle risaie
l'attenzione si concentrava su queste strisce di terreno che la "guazza" o rugiada della
notte contribuiva a eleggere ad ambiente ideale per anfibi e rettili ed è in questo
territorio che a volte lo scatto della mano verso la preda incantata incappava nella
viscida pelle di una biscia d'acqua a sua volta a caccia di insetti o minuscoli animaletti
fra i quali le piccole rane.
Sul rapporto fra rane e biscie ho verificato che la prima è una possibile preda della
seconda e che dire dello straziante e disperato gracidio di una piccola rana che sta per
essere lentissimamente ma inesorabilmente ingoiata viva dalla biscia in pastura.
La cattura a mano delle rane si effettuava anche di giorno ed il luogo appropriato
erano i solchi con poca acqua limpida: il ranaro procedeva sempre lentamente,
arrivato a breve distanza dall'anfibio questo si tuffava in acqua cercando rifugio nella
melma sul fondo. Il punto in cui si impantanava veniva evidenziato dalla nuvoletta di
poltiglia sollevata, lo scatto rapido della mano nel fango permetteva di estrarre fra il
pantano un essere immondo che sciaquato nell'acqua era la rana.
L'ultima situazione ottimale durante l'anno per la cattura della rana a mano era a
settembre nel momento del prosciugamento delle risaie in prossimità della mietitura
del riso, qui le abbondanti e pasciute popolazioni di rane erano ambita preda dei
ranari che si scatenavano con ogni mezzo compresi i retini per procurarsi il maggior
bottino possibile prima del lungo e infruttuoso inverno durante il quale l'anfibio si ritira
in letargo.
Fra i ranari stanziali che s'incontravano frequentemente lungo gli argini dei fossi di
bonifica o ai bordi degli arginelli delle risaie ricordo una figura caratteristica
soprannominato Cioro del quale si raccontava che fin da giovane era uno dei migliori
ranari per la cattura con la canna. Incontrarlo per i ragazzi significava essere oggetto
di uno scherzo verbale o di una battuta ironica e per i grandi soffermarsi in una
cordiale quanto simpatica conversazione, ricordo il cappello di paglia a larghe falde, i
baffi incolti ed il fazzoletto al collo con gilè camicia a maniche lunghe calzoni e scarpe
senza calze o stivali alla caviglia, con la sua canna ed il suo sacchetto bianco alla
cintura, il suo procedere curvo e l'occhio attento.
Il viso e le braccia erano bruciate dal sole, pur non avendo, come affermava, mai visto
il mare; ormai in età avanzata non mi pare che la sua preoccupazione maggiore fosse
allora catturare tante rane, ma da quanto mi appariva frequentando quei luoghi, di
passanti oggetto di un arguto colloquio ce ne sono stati diversi.
L' obbiettivo dei ranari che uscivano in battuta alla cattura degli anfibi era di un
bottino di 30 chilogrammi a testa, ma ricordo che nella mia unica esperienza in
squadra dovemmo accontentarci di molto meno.
Il commercio delle rane ha una storia antica e diffusa su tutto il bacino del Po, a
Mantova esiste ancora un ristorante denominato Antica Osteria dei Ranari posta nei
pressi di Porto Catena e pur non avendo rintracciato documentazione in proposito mi
và d' immaginare che in un ambiente molto meno raffinato dell'attuale si svolgesse il
ritrovo per il commercio delle rane. Nella zona del reggiano esisteva un punto di
raccolta a Zurco di Cadelbosco Sopra e qui venivano pelate e preparate per il
commercio le rane acquistate dai ranari, esisteva pure un commercio porta a porta
sopravvissuto fino ai primi anni del dopoguerra e praticato soprattutto dai ranari in
erba, i ragazzi che cacciavano le rane, le pelavano, intrecciavano le gambe posteriori e
fra esse facevano passare una filza di salice annodata alla base, la filza era composta
da 12 rane pulite e pronte da cucinare che facevano bella mostra ed erano vendute
alle massaie presso le abitazioni, con grande gioia dei ragazzi che vedevano in
quell'occasione qualche soldino da poter spendere.
Un ranaro dilettante come me ha provato profondo dispiacere nel constatare fra la fine
degli anni sessanta e i primi anni settanta l'inesorabile e progressiva diminuzione di
questa popolazione anfibia, vuoi per le acque sempre più inquinate ma soprattutto per
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l'uso dei diserbanti nella coltura del riso, essendo state le risaie delle valli di Novellara
e S.Vittoria i bacini d'acqua più estesi e maggiormente popolati di rane.
Negli anni ottanta mi è capitato di attraversare i luoghi dell'infanzia e l'impressione più
grande che ho provato è stato il silenzio incredibile che regna nella campagna ed il
notare che a fronte del numero consistente di tuffatori che seguivano il procedere di
una persona ai lati di un corso d'acqua non c'era più che qualche sparuto tuffo
rappresentanza ultima di quel mondo anfibio che con le sue poliedriche abitudini,
strano verso e originale ciclo di vita tanto ha dato alla mia fantasia di ragazzo.
Giovane ranaro, al ritorno con lo scarso bottino di caccia, mia madre ripeteva sempre:
" Occorre tanto tempo per pulirle e poco rimane da mangiare ", ma a tavola davanti
ad un saporito risotto o alla più classica frittata con le rane, il lavorio occorso dalla
cattura e alla preparazione del piatto si scioglieva in una gustosa vivanda.
L'illustrazione di piatti con le rane fatta di recente ai miei figli li ha fatti rabbrividire:
"perché non li hanno mai assaggiati!".
Tratto da:
GLI UOMINI DEL FIUME
I MESTIERI DEL PO
vol. IV
Edizione Sometti – Mantova
2003 ISBN88-7495-067-5.
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