POTERE E NATURA - Armando Editore
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POTERE E NATURA - Armando Editore
Enzo Lombardo POTERE E NATURA Le cause sociali della crisi ambientale ARMANDO EDITORE Sommario Introduzione Capitolo 1: La sociologia del potere 7 11 Capitalismo e rivoluzione industriale, 11; Gli elitisti, 14; Le élite nel mondo contemporaneo, 18; La sociologia dell’ambiente ha dimenticato il potere?, 21 Capitolo 2: L’élite dell’energia: petrolio e gas 25 Il fattore energetico, 25; Politica ed economia, 29; L’impronta ecologica, 35; Il caso Nigeria , 38; La Cina in Africa, 47; Shale gas e sabbie bituminose. Nuove possibilità o nuovo inquinamento?, 54 Capitolo 3: L’energia nucleare e i suoi problemi 59 Un nuovo tipo di energia, 59; Tipologie di centrali e incidenti, 61; Il ciclo del combustibile nucleare e il problema dell’uranio impoverito, 64; Il problema dei costi e quello delle scorie, 67; Lo smaltimento illegale delle scorie e le “navi dei veleni”, 74; Geopolitica dell’uranio (“Francafrique” oggi), 82; Sociologia dell’atomo, 90 Capitolo 4: La crisi della web-economy (e della nuova sociologia urbana) 99 La crisi del fordismo e del welfare state, 99; La web-economy, 106; La crisi della new economy, 110; Il crollo finanziario del 2008 e le sue conseguenze sull’economia reale, 117; La terza grande crisi energetica, 121; La crisi fiscale dello Stato, oggi, 126; Società postindustriale? Città postmoderna?, 132; Appendice: il Patto Euro Plus e la crisi europea 2011/12, 143 Capitolo 5: Acqua, cibo, potere 149 Pane e finanza, 149; L’effetto serra e la desertificazione, 150; Lo stress idrico, l’inquinamento e le ricadute sull’ambiente, 154; La risorsa acqua: guerre e interessi in gioco, 159; Le dighe Gilgel Gibe in Etiopia: un caso emblematico, 165; Le dighe degli scandali. L’Italia, 170; La privatizzazione dell’acqua e l’industria idrica, 173; Tanto per pochi, poco per molti: il deficit ecologico del cibo, 180; La guerra del cacao, 185; La mega-industria globale della carne, 190; Le commodities in Borsa: come speculare sul cibo, 195; Gli Ogm sfameranno il pianeta?, 201; I grandi Trust dell’acqua e del cibo, 210 Capitolo 6: La grande corsa delle energie rinnovabili 215 Kyoto, 215; L’energia idroelettrica e marina, 219; L’energia solare, 221; L’energia eolica, 228; L’energia dalle biomasse, 231; Rifiuti, inceneritori e riciclaggio, 235; La geotermia, 239; L’idrogeno e la nuova mobilità, 242; Al di là dell’ideologia e dell’utopia, 245 Capitolo 7: L’ideologia della decrescita Sviluppo sostenibile e riformismo, 249; La decrescita (in)felice, 254; L’economia è davvero un’invenzione?, 260; L’industrializzazione e i suoi colpevoli, 265; Le altre opere, 269; L’ambientalismo, la politica e il realismo, 279 Bibliografia 249 Introduzione Il romanzo Cuore di tenebra1 di Joseph Conrad è stato pubblicato nel 1902. Marlow è il protagonista-narrante di un terribile viaggio in Congo, ai tempi della colonizzazione belga, una delle più spietate. Il dominio degli europei sulle popolazioni indigene è immerso in una natura decritta con i caratteri dell’indomabilità, dell’oscurità, della tenebra, appunto. Kurtz è l’altro personaggio importante del romanzo, il colonizzatore che si è spinto più in là degli altri, non solo per le capacità di procacciare avorio, ma anche per l’efferatezza dei suoi metodi. Alter ego di Marlow si è addentrato più degli altri anche nella conoscenza, nelle profondità umane. Pur partendo da due punti diversi (la curiosità intellettuale di Marlow, la violenza che diviene atavica di Kurtz), i due personaggi sono accomunati dall’essersi spinti di là dalla superficie, l’esportazione del progresso, la redenzione di popoli sottosviluppati, insomma lontano dall’ideologia che si accompagnava alla colonizzazione. Cuore di tenebra è un romanzo che affronta assieme il tema uomo/ natura e quello del dominio dell’uomo sull’uomo. Alla luce degli avvenimenti contemporanei, Conrad è riuscito a cogliere il problema concreto, reale della crisi ambientale, già ai suoi tempi. L’insostenibilità dello sfruttamento della natura si lega indissolubilmente al problema della disuguaglianza. La lucida e ispirata indagine di Conrad coglie in profondità questo nesso, lontano da ogni ideologia. Oggi, molti testi dell’ecologismo rimandano al dibattito teorico, a un impegno morale, ideale e idealistico, a una soluzione gnoseologica della questione ambientale, tralasciando l’analisi2. 1 J. Conrad, Cuore di tenebra, Einaudi, Torino 1974. Per una critica dell’ecologismo radicale rimando al mio libro, E. Lombardo, Percorsi di sociologia ambientale, Aracne, Roma 2007. 2 7 Le disquisizioni teoriche e puramente speculative che rimandano a una scelta etica, tra il bene (l’utopistico ritorno alla natura, l’abbandono del capitalismo, etc.) e il male, possono anche portare a pubblicazioni di successo, ma non determinano alcun reale avanzamento nell’analisi della realtà, anche in prospettiva di una formulazione di possibili soluzioni. Non si può prescindere da un tentativo di analisi della società nella sua complessa dimensione politica, sociale ed economica: spesso manca un approccio multidisciplinare. Chi decide nel mondo? Chi determina le crisi? Il sistema sociopolitico è realmente democratico? Sono quesiti che rimandano alla situazione reale, di là dalle speculazioni sulla fine del capitalismo, sul sorgere di una società riflessiva, o sul ritorno alle dimensioni localistiche dell’autoconsumo. Il primo problema che ci porremo è quello del potere. Nel dibattito sull’insostenibilità del sistema economico ed energetico è riposta molta enfasi su un doveroso cambiamento del cittadino comune. Un fattore importante è senza dubbio lo spreco e le scelte di vita individuali (alimentazione, utilizzo di detersivi, o di prodotti nocivi, utilizzo di veicoli meno inquinanti, etc.), ma la questione delle scelte politiche, del rapporto fra istituzioni e potere economico, è più importante. Anche il racconto di Marlow parte da una descrizione di Londra, vera e propria capitale del potere coloniale. Non ci sono oscuri complotti alla base delle decisioni politiche importanti. Un bel libro di David Rothkopf, Superclass3, ha documentato l’esistenza di un’élite mondiale, che alla luce del sole (l’autore, infatti, non crede che associazioni come Trilateral Commission o Bilderberg abbiano un peso così determinante come alcuni pensano) domina il mondo, di cui fa parte un’élite dell’energia che sarebbe alla base di eventi di portata storica come la seconda guerra in Iraq. L’aumento dei costi energetici che ne è seguito, come pure il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della BP, nell’aprile/maggio 2010, nel Golfo del Messico (oltre cinquanta mila tonnellate di petrolio rilasciate in mare), non sono stati soltanto frutto di casualità. In Brasile e in Norvegia sono obbligatori sistemi di bloccaggio a distanza dei pozzi, negli USA è più conveniente sovvenzionare lobbies al Congresso USA (la BP ha speso 3 milioni di dollari nel 2010, anno del disastro). Nel primo capitolo vedremo in quale modo sia nato e si sia poi svi3 D. Rothkopf, Superclass. La nuova élite globale e il mondo che sta realizzando, Mondadori, Milano 2008. 8 luppato, a livello soprattutto sociologico, per somme linee, il dibattito sul potere e su quale sia la sua natura a partire dalla metà dell’Ottocento. Il tentativo di legare la sociologia del potere con quella dell’ambiente proseguirà negli altri capitoli del libro. Ci occuperemo delle élite dell’energia e delle loro capacità di influenzare la politica nel secondo capitolo. Il tentativo è di comprendere anche le relazioni fra multinazionali energetiche e poteri locali, che ho definito “élite periferiche”. Un occhio di riguardo è rivolto all’Africa, interessata, specie nell’ultimo decennio, dalla penetrazione cinese, oltre a quella classica delle nazioni più sviluppate. Nel successivo capitolo si tratterà dei legami fra nucleare, corporation e ricadute sull’ambiente. Anche le organizzazioni criminali si sono inserite nel ciclo dell’uranio. Nel quarto capitolo si affronterà la questione della sociologia urbana contemporanea, alla luce delle crisi finanziarie degli ultimi tempi. Crisi collegate ai problemi energetici e alla speculazione che è uno dei fattori decisivi dell’aumento dei prezzi petroliferi. Nel capitolo successivo ci occuperemo dei problemi connessi all’approvvigionamento idrico alla produzione del cibo, questioni collegate anch’esse agli interessi delle grandi corporation del settore. Un occhio di riguardo sarà dato alla costruzione delle dighe e alle trasformazioni ambientali che ciò comporta. Nel sesto capitolo si tratterà delle energie rinnovabili, le difficoltà che la cosiddetta green economy sta incontrando. Il tentativo è di affrontare la questione in modo realistico, di là dagli entusiasmi di coloro che vedono solo un futuro roseo per le rinnovabili e dei pessimismi interessati di coloro che, altrettanto utopisticamente, vorrebbero un perpetuarsi all’infinito dell’attuale economia basata, sostanzialmente, sullo sfruttamento degli idrocarburi. È da una visione realistica della realtà, e dunque un’analisi del potere economico e politico, che deve partire una ricostruzione del complesso rapporto fra società e ambiente. La vecchia visione della politica, che prevedeva una pars destruens e una pars costruens, ossia il giudizio morale totalmente negativo sulla realtà, intesa appunto come soltanto entità morale negativa, cui è contrapposta un’altra entità stavolta di valore positivo, costruita a tavolino, è stata superata già nel secolo XIX. Ciò non toglie che una tale impostazione sopravviva, anche nel dibattito sociologico ambientale. Una critica a quest’approccio sarà fatta nell’ultimo capitolo del volume. Non è possibile compiere un’analisi del rapporto natura-società, senza affrontare il vero “cuore di tenebra”: il potere. 9 Capitolo 1 La sociologia del potere Capitalismo e rivoluzione industriale Comprendere la natura del potere non era stato uno degli obiettivi del positivismo e dell’organicismo. Queste correnti nate agli inizi dell’Ottocento avevano segnato una battuta d’arresto nei confronti della tradizione del Giusnaturalismo, interessata soprattutto al problema dei limiti del Sovrano e dell’applicazione del diritto naturale. Nell’epoca della prima industrializzazione (1790-1875 circa) lo Stato non era ancora quella mastodontica organizzazione burocratica che sarà in seguito. Anche le imprese private erano di piccole dimensioni: era l’epoca del primo liberismo, della concorrenza senza regole. Pur da differenti punti di vista, Adam Smith, Karl Marx e Herbert Spencer avevano dato una loro importante testimonianza di questo periodo storico. L’enfasi della concorrenza (Smith), il conflittualismo fra classi sociali (Marx) e l’evoluzionismo (Spencer) mettevano in secondo piano le istituzioni politiche e lo Stato; del resto, la vera protagonista dei primi tre quarti di secolo era stata la nascente società industriale. Celebre è la definizione contenuta ne Il manifesto1, dello Stato come semplice comitato d’affari della borghesia2. Per Spencer lo Stato deve rimanere snello, occuparsi solo dell’ordine pubblico, non intralciare, con istanze regolatrici, il percorso “darwiniano” della società industriale. Erano impostazioni queste che già 1 «Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese» in K. Marx, F. Engels, Il manifesto del partito comunista, Einaudi, Roma 2005, p. 9. 2 Per una critica dell’interpretazione semplicistica di Marx riguardo allo Stato moderno si veda: L. Althusser, Marx nei suoi limiti, Mimesis, Milano 2004. 11 negli ultimi decenni del secolo XIX non trovavano più conferme nella realtà. Gli Stati europei si erano rafforzati, dotandosi di un forte apparato burocratico: il testimone più importante di questi enormi cambiamenti è senza dubbio Max Weber. Karl Polanyi, nel suo noto lavoro La grande trasformazione3, ha brillantemente messo a fuoco lo sconvolgimento socioeconomico dovuto all’avvento del mercato autoregolato e la reazione a esso da parte non soltanto della società, ma dell’intero sistema capitalista. Per far funzionare il sistema creato dalle macchine industriali, era necessario che tutto si trasformasse in merce, anche il lavoro, la terra e la moneta stessa, che merci non potevano mai diventare: lo stesso mercato autoregolato aveva messo in moto un sistema terrificante di mercificazione che non poteva sopravvivere senza regolazione. Un sistema che determinò profonde crisi politiche ed economiche, notevoli reazioni della società. Sotto quest’aspetto, osservando come le crisi cicliche siano connaturate al sistema capitalistico, Marx si è dimostrato un autore ben più profondo rispetto a Spencer e al suo evoluzionismo. Marx non aveva compreso però la natura della reazione a tale sistema: «Soltanto con il 1834 [data del Poor Law Amendment] nacque in Inghilterra un mercato concorrenziale del lavoro; non si può dire quindi che il capitalismo industriale come sistema sociale sia esistito prima di quella data. Tuttavia quasi immediatamente si inserì l’autoprotezione della società: nacquero leggi sulle fabbriche, una legislazione sociale e sorse un movimento politico e sindacale della classe lavoratrice»4. La reazione fu data anche dall’intervento dello Stato nell’economia, non ci fu solo una naturale risposta “dal basso” questo perché, «abbastanza paradossalmente non soltanto gli esseri umani e le risorse naturali ma anche l’organizzazione della stessa produzione capitalistica doveva essere protetta dagli effetti devastatori di un mercato autoregolantesi»5. Secondo Polanyi fu lo stesso sistema capitalistico a mettere in atto regole per irreggimentare il mercato autoregolato. Sia nella Prussia di Bismarck, che nell’Inghilterra vittoriana, furono promulgate legislazioni “antiliberiste” riguardanti la salute pubblica, le 3 K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974. Ed or. The Great Transformation, Rinehart & Winston, New York 1944. 4 Ivi, p. 107. 5 Ivi, p. 170. 12 condizioni del lavoro operaio nelle fabbriche e nelle miniere, i servizi municipali, le assicurazioni sociali, a partire già dagli anni ’40 del XIX secolo per rafforzarsi poi dagli anni ’70. Ma a un certo punto furono gli stessi liberisti a chiedere l’intervento dello Stato6: i monopoli, generati dal laissez faire, rendevano impossibile la stessa sopravvivenza del mercato autoregolato. Erano dinamiche che il socialismo scientifico non aveva compreso: «La legge sulle dieci ore del 1847, salutata da Marx come la prima vittoria del socialismo, fu l’opera di reazionari illuminati»7. Il libero scambio permetteva l’abbassamento dei prezzi alimentari: una volta costruite le navi a vapore e le ferrovie, il grano, soprattutto quello americano, affluì in massa in Europa. Ma tale diminuzione del prezzo, un sollievo per i lavoratori, rappresentava anche la rovina dei produttori: non fu un caso che dal mondo agrario, capitalistico o no, partì un’ondata reazionaria. La deflazione era un problema apparso già nel XIX secolo e non era legata soltanto al crollo economico finanziario del 1929. C’erano più merci che denaro: anche da un punto di vista finanziario si rendeva necessario un deciso intervento dello Stato per salvare il mercato, per stabilizzare i tassi di cambi fra una moneta e l’altra, fra Stati molto diversi dal punto di vista della produzione. Il crollo della base aurea, fondamento del libero mercato autoregolato, era una diretta conseguenza di questi dislivelli8. Iniziava dunque l’epoca delle misure protezionistiche (per salvaguardare la moneta e la produzione nazionale), delle tariffe doganali e della politica di potenza coloniale: «L’imperialismo economico era soprattutto una lotta tra le potenze per il privilegio di estendere il loro commercio a mercati politicamente non protetti. La pressione dell’esportazione era accompagnata dalla lotta per i rifornimenti di materie prime causata dalla febbre della produzione. I governi sostenevano i loro sudditi impegnati in attività economiche nei Paesi arretrati. Il commercio e la bandiera 6 Cfr., ivi, pp. 189-191. Ivi, p. 214. 8 «Anche internazionalmente i metodi politici furono adoperati per sopperire alla imperfetta autoregolazione del mercato. La teoria ricardiana del commercio e della moneta ignorava invano la differenza di situazione che esisteva fra i vari Paesi a causa della loro diversa capacità di produrre ricchezza, delle capacità di esportare, dell’esperienza commerciale, mercantile, bancaria. Per la teoria liberale la Gran Bretagna era semplicemente un altro atomo nell’universo del commercio e si collocava esattamente sullo stesso piano della Danimarca e del Guatemala». Ivi, p. 263. 7 13 correvano nello stesso solco»9. Il prossimo capitolo partirà proprio da questo concetto di Polanyi, ora però bisogna cercare di comprendere, dopo aver analizzato l’intervento dello Stato nell’economia, il rafforzamento delle élite al potere, come diretta conseguenza dei problemi che il mercato autoregolato aveva messo in campo. Le barriere protezionistiche salvaguardavano la moneta, il credo liberista di una valuta forte e di salari bassi permaneva all’interno di un sistema che col mercato autoregolato e la libera circolazione delle merci aveva ormai poco a che fare. Si rendevano necessari negli ultimi decenni dell’Ottocento da un lato un forte rafforzamento burocratico dello Stato, dall’altro un’alleanza fra lo Stato e il ceto imprenditoriale. Weber ha illustrato bene questa nuova situazione storica, dal capitalismo anarchico dei primi tempi si era passati a un capitalismo “politico”. Weber ha influenzato tutta la sociologia del potere successiva, in particolare i cosiddetti elitisti. Gli elitisti Per elitisti si intendono, in tutti i manuali di storia della sociologia, quegli autori che hanno analizzato il rapporto fra Stato, politica ed economia, fra essi spiccano gli italiani Mosca, Pareto e Michels e lo statunitense Charles Wright Mills10. Il precursore però è stato Max Weber, che non è annoverato solitamente in questa scuola di pensiero. Oltre alla contrapposizione, puramente economica, di classe, messa in evidenza da Marx, Weber ha fatto notare nel suo Economia e società il fatto che esistano anche delle differenze di ceto. Quest’ultimo si forma attraverso una selezione (un modus vivendi particolare, il connubium, etc.), un’appartenenza politica, una specifica condizione sociale e di prestigio, oltre a una situazione di classe11. Anche un altro grande classico, Thorstein Veblen, pur mantenendo la lotta di classe al centro della storia contemporanea, ha fatto notare nel suo noto lavoro, La teoria della classe agiata (1899), il fatto che all’apice della struttura sociale in America ci fossero gli ammirati consumatori di prodotti vistosi: ancora una volta si evidenziavano 9 Ivi, p. 276. Per quanto riguarda questo autore, mi permetto di consigliare il mio libro: E. Lombardo, Il giovane Mills, Armando, Roma 2007. 11 M. Weber, Economia e società, Comunità, Milano 1961. 10 14 fattori extraeconomici, come prestigio, visibilità, psicologia, nel tentativo di comprendere la stratificazione sociale. Gli elitisti avevano di fronte a sé il fenomeno, poco evidente ai tempi di Marx, dell’espansione burocratica dello Stato, con il suo progressivo intervento nell’economia. Ciò ha fatto sì che si formasse una classe politica, dotata di un carattere di esclusività e addirittura a volte di chiusura rispetto al resto della società civile. Le considerazioni di questi autori sono molto vicine alle analisi weberiane12, specie nel caso di Mills13, di cui riferiremo più tardi. Nel suo La classe politica (1896), Gaetano Mosca (1858-1941) non legava il fenomeno della classe dirigente a un particolare momento storico, ma lo vedeva come un fenomeno universale. E infatti affermava: «Fra le tendenze e i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politici, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta: in tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate e che sono arrivate ai primordi della civiltà, fino alle più colte e più forti, esistono due classi di persone: quella dei governanti e quella dei governati»14. Una minoranza organizzata prevale sempre su una maggioranza disorganizzata, è fatto naturale e indispensabile per il funzionamento di una qualsiasi società. La teoria di Mosca è importantissima per comprendere i successivi sviluppi della corrente elitistica e della sociologia del potere: Robert Michels (1876-1936), tedesco di nascita ma naturalizzato italiano, ha osservato come, anche nei partiti politici, si vengano a formare delle oligarchie, nel tentativo di dimostrare che la sovranità delle masse è meccanicamente e tecnicamente inattuabile15. Si vuol dare prova, insomma, 12 «Quando vengono tratte le estreme conseguenze – afferma Weber –, il ceto evolve verso “la casta chiusa”». Tali affermazioni, rivolte da Weber soprattutto per alcune società del passato, saranno riprese dagli elitisti e da Mills. Il concetto di casta è stato ripreso anche ai giorni nostri dai due giornalisti G.A. Stella e S. Rizzo nel loro fortunato libro La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli, Milano 2007), che ha per argomento le nefandezze e gli sprechi della classe politica italiana. 13 L’importanza del lascito intellettuale dell’opera di Weber per gli scritti di Mills, è data dalla stessa opera di quest’ultimo, scritta assieme all’amico Gerth, Max Weber, da Heidelberg al Midwest, Franco Angeli, Milano 1991. 14 G. Mosca, Elementi di Scienza politica, Laterza, Bari 1939, vol. I, p. 83. 15 Cfr. R. Michels, La sociologia del partito politico, UTET, Torino 1912, p. 25. L’enunciazione di una “legge ferrea delle tendenze oligarchiche” è, appunto, il contributo più noto di Michels: le élite dirigenti dei partiti tendono a chiudersi in una oligarchia che si autoperpetua divenendo inamovibile. In modo non dissimile si comportano le classi dirigenti. 15 del fatto che le teorie del radicalismo democratico, insieme a quelle della fine dello Stato borghese di provenienza marxista, fossero in realtà molto vicine all’utopia: «L’esistenza di capi – afferma Michels – è un fenomeno congenito a qualunque forma di vita sociale. Non incombe, quindi, alla scienza investigare se essa sia un male od un bene, o quale di questi due aspetti in essa predomini. Ha, però, gran valore sì scientifico che pratico lo stabilire che ogni sistema di capi è incompatibile coi postulati più essenziali della democrazia. Sappiamo oramai come la legge della necessità storica dell’oligarchia si basi in primo luogo sopra una serie di dati forniti dall’esperienza». Il Principio di Pareto è una delle tesi più interessanti dell’economista e sociologo italiano, altro noto esponente dell’elitismo. Studiando la distribuzione dei redditi in Italia Pareto dimostrò che la maggior parte della ricchezza era detenuta da una piccola frazione della popolazione, in un rapporto di 80/20. La scoperta fu incredibile: secondo lo Human Development Report del 1992, nel 1989, novant’anni dopo la formulazione di Pareto, il primo quintile della popolazione mondiale (20%) possedeva l’82,7% del reddito. Bisogna dire, però, che in seguito le cose sono peggiorate: uno studio del 2006 condotto dall’Università delle Nazioni Unite ha evidenziato come il 20% della popolazione più ricca del mondo possieda l’85% della ricchezza globale. Sul finire dell’Ottocento, come abbiamo detto, il laissez faire cominciò a declinare, in Europa e nel mondo sviluppato, specie dopo la depressione del 1873-86, che ne aveva fortemente minato le basi16. Stati come la Germania, la Francia, gli USA, il Giappone, con l’eccezione della Gran Bretagna che rimaneva fedele al liberismo, cominciarono a intervenire sempre di più in campo economico. Si assistette anche a forti processi di concentrazione delle imprese. Soprattutto negli Stati di secondo sviluppo, si formano monopoli e cartelli. Di questi, nella sola Germania, «nel 1875 ve ne erano appena quattro, ma nel 1890 erano già un centinaio e nel 1914 se ne contavano quasi mille»17. Nella stessa Germania si formarono grandi società monopoliste come Krupp, AEG e Siemens. Gli Stati divennero grandi consumatori (esercito, servizi pubblici, ferrovie, etc.) e sostenitori delle esportazioni, anche attraverso un nuovo stimolo alla colonizzazione del mondo: «Il commercio e la bandiera – afferma 16 Cfr. K. Polanyi, op. cit., pp. 266-278. E. De Simone, Storia economica. Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica, Franco Angeli, Milano 2006, p. 168. 17 16 Karl Polanyi correvano sullo stesso solco»18. Negli Stati Uniti si formano le grandi corporation, che nel caso della Standard Oil19 divennero addirittura monopoliste nel loro settore. Anche le nuove discipline dell’Antitrust operavano comunque in un contesto di regolamentazione e non di divieto assoluto dei cartelli: lo Sherman Act (1890) colpì soprattutto le grandi banche, non mega-corporation come Carnegie, Vanderbilt, Morgan. La libera concorrenza era fortemente messa in discussione, anche perché s’innalzarono barriere doganali protezionistiche un po’ ovunque. Si assiste al declino dell’autoregolazione del mercato accompagnato al declino della concorrenza. Un altro colpo al libero mercato fu dato dalla Grande Guerra: gli Stati intervennero per organizzare la produzione necessaria a sostenere gli eserciti. Nacque l’economia di guerra, con un’ulteriore spinta alla concentrazione delle imprese, più adeguate al sostegno dello sforzo bellico. La grande crisi del ’29 mise fine a un periodo post-bellico di crescita sostenuta in tutte le nazioni più ricche. Fu una crisi dovuta alla sovrapproduzione, alla mancanza di una domanda che sostenesse l’offerta. Ebbe, però, anche una natura finanziaria: l’economia reale in crisi era qualcosa di diverso rispetto alle rappresentazioni che ne facevano gli agenti di Borsa, prima del suo crollo. Il reciproco sostegno fra Stati e grandi aziende non aveva significato un intervento regolatore degli Stati stessi nell’economia. Le dottrine di Keynes, attuate durante la presidenza Roosevelt, intervennero a sostegno della domanda, con un forte impegno economico dello Stato, anche a debito (deficit spending). L’insufficiente domanda privata fu sostituita da quella pubblica. Il protezionismo era aggirato attraverso una forte svalutazione della moneta, per stimolare la domanda estera (svalutazione competitiva). Grazie a questa nuova politica che rivoluzionava comple18 K. Polanyi, op. cit., p. 276. Dopo una sentenza della Corte Suprema statunitense del 1911, la Standard Oil dovette scindersi in sette diverse società: Standard Oil of New Jersey (SONJ) - o Esso (Eastern States, Standard Oil), rinominata Exxon, oggi parte della ExxonMobil; Standard Oil of New York, successivamente fusa con la Vacuum, rinominata Mobil, oggi parte della ExxonMobil; Standard Oil of California o Socal, rinominata Chevron; Standard Oil of Indiana, rinominata Amoco (American Oil Company), oggi parte di BP; Standard’s Atlantic che si è fusa con Richfield dando vita alla Atlantic Richfield o Arco, oggi parte di BP; Standard Oil of Kentucky, acquistata poi dalla Standard Oil of California, oggi Chevron Corporation; Continental Oil Company, o Conoco, oggi parte della ConocoPhillips; Standard Oil of Ohio, oggi parte della BP. 19 17 tamente le dottrine del laissez faire, gli Stati Uniti superarono la crisi, anche perché quella politica fu aiutata, paradossalmente dalla seconda guerra mondiale, che richiedeva ancora una volta un forte sostegno dello stato alla produzione e ai consumi. Dopo il secondo conflitto ci fu un periodo storico, durato fino alla fine degli anni ’60, di forte prosperità in tutti i Paesi sviluppati, conosciuto come Golden Age. È in questo periodo però che furono pubblicate le opere di uno dei sociologi americani più radicali, Charles Wright Mills (1916-62). La sua condanna verso l’economia di guerra è totale: «La tendenza di vecchia data che aveva già spinto il mondo degli affari ed il governo a rafforzare vicendevoli legami, è diventata, con la seconda guerra mondiale, sempre più pronunciata: nessuno dei due mondi può oramai essere considerato un mondo a sé»20. L’élite della politica, non è la sola classe dei governanti al potere, ma si accompagna alle élite economiche e a quella militare. La minaccia bellica perenne costituita dalla Guerra Fredda ha poi rafforzato questa classe tripartita al potere: il settore militare-industriale aveva ormai assunto le redini decisionali degli USA. Le élite nel mondo contemporaneo L’opera di Mills è stata particolarmente profetica, specie ai tempi della guerra in Iraq. Tuttavia le sue osservazioni risultavano però troppo caustiche per gli Stati Uniti dei suoi tempi, che si trovavano come negli altri Paesi sviluppati, nel pieno della Golden Age, di un’espansione, dopo la Seconda guerra mondiale, della ricchezza ad ampie fasce della popolazione. Come ha affermato il politologo ed economista Robert Reich, «in linea di massima, la prima fase del moderno capitalismo americano (1870-1929) fu caratterizzata da una crescente concentrazione dei redditi e della ricchezza; la seconda (1947-1975) fu all’insegna di una più ampia distribuzione del benessere; la terza (1980-2010) ha visto di nuovo una sostenuta concentrazione”21. I privilegi del potere si sono affermati soprattutto dopo, nel corso degli anni ’70, con la fine delle politiche keynesiane e fordiste. L’élite del potere è costituita da individui simili per provenienza sociale, cultura, carriera, stile di vita. I suoi membri hanno frequentato le 20 C.W. Mills, La struttura del potere nella società americana, in: F. Ferrarotti, La sociologia del potere, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 297. 21 R.B. Reich, Aftershock. Il futuro dell’economia dopo la crisi, Fazi, Roma 2011, p. 8. 18 stesse scuole, gli stessi college, gli stessi club22. Anche Rothkopf, nel suo volume, Superclass, edito più di cinquanta anni dopo The Power Elite di Mills farà le stesse considerazioni, allargandole al mondo intero: chi vuol far parte della super-élite globale deve seguire otto regole. Deve nascere uomo (le donne sono solo il 6,3 della superclass), avere un’età media di 58 anni, far risalire le proprie radici culturali all’Europa, frequentare un’università d’élite (possibilmente Stanford, Harvard e Chicago University), entrare nel mondo degli affari e della finanza, avere una base di potere istituzionale (avere cioè la possibilità di influenzare le persone)23, diventare ricco ed essere fortunato: anche il caso conta nell’annodare le amicizie giuste durante la vita. Anche il sociologo americano contemporaneo William Domhoff è convinto, come Mills, che ci sia un’élite al potere, e che le sue caratteristiche non vadano ricercate soltanto nella ricchezza e nel possesso dei mezzi di produzione. Ci sono tre “indicatori” per quel che riguarda la classe al potere negli USA: chi beneficia della ricchezza (gli amministratori delegati e gli alti dirigenti dei fondi, delle imprese, ad esempio, utilizzano ricchezza altrui, traendone benefici anche da un punto di vista economico, per sé, oltre che per la società di cui fanno parte), chi governa (chi detiene posti istituzionali di potere dal punto di vista politico ed economico, potendo così dirigere e influenzare un gran numero di per22 Secondo Mills: «C’è una sorta di attrazione reciproca fra gli “arrivati”; non, naturalmente, tra tutti i membri dei ceti altolocati e potenti, ma tra un numero di essi sufficiente ad assicurarne l’unità. Si va da una sorta di reciproca tacita ammirazione a una politica di matrimoni, e tra questi estremi si danno legami di ogni tipo e grado, con alcune più nette sovrapposizioni o coincidenze determinate da consorterie e da club, da chiese e da scuole. Se la comune origine sociale e l’educazione ricevuta tendono a facilitare la comprensione e la fiducia reciproche tra i membri della élite al potere, la loro continua familiarità cementa viepiù quel che sentono di avere in comune. I membri di parecchi gruppi sociali superiori si conoscono personalmente e hanno tra loro rapporti di amicizia e di buon vicinato; si incontrano sui campi da golf, nei migliori club, sulle spiagge, sulle grandi linee aeree e marittime. Altri luoghi d’incontro sono le case di campagna di amici comuni, gli spettacoli o le associazioni di beneficienza; non c’è dubbio che molti si rubano a vicenda lo spazio della cronaca mondana dei quotidiani, se non proprio in quegli stessi locali pubblici dai quali queste cronache hanno origine», in C. W. Mills, The Power Elite, Oxford University Press, New York 1956. Ed. It. La élite del potere, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 262-263. 23 «Si stima che meno del 2 per cento dei membri della superclass non sia collegato a una società, un governo, un’organizzazione militare, un fondo, una chiesa, un network mediatico, e persino una rete terroristica o criminale da cui deriva il suo potere e attraverso cui lo esercita». D. Rothkopf, op. cit., p. 397. 19 sone), chi vince (chi riesce a battere gli avversari, ad esempio, attraverso un’opera di lobby, o attraverso le conoscenze giuste)24. Già nelle pagine di Mills osserviamo come si sia formata una vera e propria coscienza di classe dell’élite al potere, e come i suoi membri ricoprano cariche che si scambiano fra loro. Sono uomini che “tendono ad assomigliarsi fra loro”, sono d’accordo, anche se non si conoscono e vi è una grande interscambiabilità fra le tre strutture (economica politica e militare)25. Oggi, colpisce intanto la sovrapposizione di incarichi dei manager delle maggiori società nei consigli di amministrazione: la grande banca Goldman Sachs per esempio è presente con propri membri in quattro consigli d’amministrazione delle prime cinque società del mondo26. L’interscambiabilità e l’interesse di classe che Mills notava nei soli States si è ora trasferita all’intero globo. L’interscambiabilità riguarda anche la classe politica. Se guardiamo ancora agli Stati Uniti, due presidenti della Goldman sono stati segretari del Tesoro (H. Paulson e B. Rubin27). Robert Zoellick ha lavorato alla Goldman, è stato vicesegretario del Tesoro e direttore della Banca Mondiale. Durante la guerra in Iraq, il segretario di Stato USA (carica equivalente al nostro ministro degli esteri) della seconda amministrazione Bush, era Condoleezza Rice, per anni nel consiglio d’amministrazione della multinazionale del petrolio Chevron. Il vicepresidente degli Stati Uniti, Dick Cheney è stato amministratore unico, fino al 2000, della Halliburton, che ha strappato contratti milionari durante la guerra, trasferendo addirittura il suo quartier generale a Bagdad. Negli USA le attività di lobby sono disciplinate da una specifica legge, in Europa e in Italia sono invece una prassi senza un’effettiva regolamentazione. Vedremo nel prossimo capitolo come questi gruppi di pressione abbiano permesso a molte compagnie dell’energia di acquisire un potere spropositato, grazie al sostegno della politica. La teoria delle élite è ancora oggi di grande attualità e da essa deve partire ogni studio accurato che voglia comprendere le relazioni fra società, economia e ambiente. 24 Cfr. G.W. Domhoff, Who Rules America? Challenges to Corporate and Class Dominance, Mc Graw Hill, New York 2010, pp. 15-19. 25 Cfr. C.W. Mills, La élite del potere, cit., p. 268. 26 Cfr. D. Rothkopf, op. cit., p. 173. 27 Rubin è stato, tra i democratici, uno dei più attivi sostenitori della deregulation finanziaria e dell’abolizione del Glass Steagall Act, su cui torneremo in seguito. Dopo aver lasciato il governo, è diventato vicepresidente di Citigroup, altra grande banca statunitense. 20 Negli ultimi anni si è assistito alla grande crescita delle economie di Cina, India, e Brasile. Soprattutto la Cina ha scalato le classifiche dei Paesi per maggior prodotto interno lordo, collocandosi ormai al secondo posto dopo gli Stati Uniti, dopo aver superato il Giappone nel 2010. Tale crescita non è spiegabile soltanto con l’avvento del libero mercato in questo Paese. L’abolizione di molti vincoli alla proprietà privata e dei controlli ai prezzi, a partire dal 1978, giocò un ruolo determinante, assieme alla progressiva liberalizzazione del settore bancario. Ma la caratteristica più importante del capitalismo cinese è il forte ruolo che il settore pubblico ha mantenuto: «L’energia imprenditoriale che sta alimentando questa crescita – afferma l’economista Jha – non trae origine dalla privatizzazione, sostanziale o formale che sia, bensì dal suo esatto opposto, ossia dall’assoluta libertà d’azione concessa alle aziende statali»28. Nel territorio cinese è presente un vastissimo numero di piccole aziende sub-appaltanti, che lavorano per grandi multinazionali estere, vi è un notevole conflitto fra Stato e periferie, ma è anche vero che Pechino sostiene fortemente le grandi banche e aziende statali, anche con frequenti missioni all’estero da parte dei suoi massimi esponenti dell’esecutivo, compreso Hu Jintao, presidente della Repubblica Popolare. A fine dicembre 2009, era cinese la prima grande azienda non bancaria: la PetroChina, con una capitalizzazione di mercato di 353 miliardi di dollari. Erano cinesi anche le due banche più grandi: l’Industrial and Commercial Bank of China e la China Construction Bank con una capitalizzazione di mercato rispettivamente di 269 e 201 miliardi di dollari29. L’élite, o “classe capitalistica transnazionale”30, ormai, non ha soltanto tratti occidentali. La sociologia dell’ambiente ha dimenticato il potere? Sul finire degli anni ’70 due sociologi americani R.E. Dunlap e W.R. Catton Jnr. scrivono un articolo31 polemico contro la sociologia “tradi28 P.S. Jha, Quando la tigre incontra il dragone. Uno sguardo nel futuro di India e Cina, Neri Pozza, Vicenza 2010, p. 91. Tit. or. Crouching Dragon, Hidden Tiger, 2010. 29 Cfr. The Economist, Il mondo in cifre 2012, Fusi Orari, Roma 2011, pp. 66-67. 30 La definizione è di Leslie Sklair nel suo noto volume intitolato appunto The Transnational Capitalist Class, Blackwell, Oxford 2001. 31 R.E. Dunlap, W.R. Catton, Environmental Sociology: a New Paradigm, in: «The American Sociologist», vol. 13, 1978, pp. 41-49. 21 zionale” nel tentativo di mettere al centro dell’attenzione, anche in questa disciplina, i problemi ambientali. Secondo i due autori, l’impostazione classica della sociologia non riesce a comprendere l’interdipendenza tra società ed ecosistema, di qui la sua arretratezza nei confronti del dibattito ambientale, che negli USA era già in quel periodo molto sviluppato. Negli USA di quel periodo, Silent Spring (1962)32 di Rachel Carson era ormai un testo classico dell’ambientalismo, il NEPA (National Environment Policy Act) aveva dotato gli States di uno strumento legislativo che introduceva, già nel 1969 la valutazione d’impatto ambientale, ma soprattutto le crisi energetiche del ’73 e del ’79 avevano dato il via al dibattito sul rapporto uomo/natura. La sociologia classica si basa, secondo Dunlap e Catton, sul paradigma dell’esenzionalismo umano (HEP), sul presupposto che l’uomo sia una specie eccezionale, esente dalle leggi che regolano gli ecosistemi. Un paradigma ottimistico, antropocentrico e antiecologico, cui bisogna contrapporre un NEP (New Environmental Paradigm, poi rinominato New Ecological Paradigm33) che renda conto della profonda relazione fra società umana e ambiente biofisico. L’ambiente influenza la società, la società influenza l’ambiente: bisogna comprendere questo rapporto in senso bidirezionale. I riferimenti sono le teorie della Scuola di Chicago e di Duncan sull’ecologia umana e sul “complesso ecologico”34. Il NEP si basa su quattro principi: 1) gli esseri umani sono solo una fra le specie della comunità biotica, nonostante abbiano caratteristiche uniche ed eccezionali; 2) il rapporto fra esseri umani e ambiente è complesso e comprende conseguenze inattese (meccanismi retroattivi); 3) la crescita economica è limitata perché le risorse naturali sono esauribili; 4) l’inventiva umana non può alla lunga oltrepassare tali limiti ecologici35. Il discorso dei due autori statunitensi non è del tutto nuovo, oltre alle influenze sociologiche sopra citate, vengono riprese alcune tematiche 32 Trad. it. R. Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano 1963. R.E. Dunlap, W.R. Catton, Environmental Sociology in: «Annual Review of Sociology», vol. 5, 1979, pp. 243-273. 34 Cfr. O.D. Duncan, Human Ecology and Population Studies, in: P. M. Hauser., O.D. Duncan, The Study of Population, University of Chicago Press, Chicago 1959. 35 Per una ricostruzione del pensiero di Dunlap e Catton si vedano anche: F. Beato, Rischio e mutamento ambientale globale, Franco Angeli, Milano 1993. A. Mela, M.C. Belloni, L. Davico, Sociologia dell’ambiente, Carocci, Roma 1998, p. 58 e segg. e I. Beretta, Il nuovo paradigma ecologico: Catton e Dunlap, in: E.M. Tacchi (a cura di), Ambiente e società. Le prospettive teoriche, Carocci, Roma 2011, pp. 31-74. 33 22 dell’ecologia profonda (principio n. 1) e della bioeconomia (principi 3 e 4). Già all’inizio degli anni ’70, lo studioso norvegese Arne Naess distinse due tipi di ecologia, una superficiale e antropocentrica, l’altra profonda ed ecocentrica36. Quest’ultima adotta un nuovo “paradigma ecologico”: l’uomo non deve essere il padrone assoluto della Terra, come sosteneva il vecchio “paradigma dominante”, dualistico e individualistico, ma è semplice elemento della “trama della vita di cui siamo parte”. Tutti gli esseri viventi hanno un proprio valore intrinseco. Le idee di Naess furono riprese da molti studiosi, i più noti sono Devall e Sessions, autori di un volume intitolato appunto Ecologia profonda37, e Fritjof Capra, anche lui affermato scrittore di testi molto noti38. Lo stesso Peter Dickens, altro autore annoverato fra i sociologi dell’ambiente, ha accolto, questa volta esplicitamente39, le teorie dell’ecologia profonda. A giudicare da queste influenze, Catton e Dunlap pare abbiano adottato, in contrasto con un paradigma sociologico tradizionale, un paradigma filosofico ancor più tradizionale. La nuova impostazione teorica deriva da una rinnovata visione del mondo che vede la società immersa nella natura e gli uomini, in quanto membri di una comunità biotica, tutti uguali fra loro. Ma per analizzare, nella sua complessità, il rapporto società/natura, bisogna partire dalla stratificazione sociale, da un’analisi del potere. A mio avviso, siamo di fronte a teorie che eliminano il potere legittimandolo, come ebbe a dire in un suo famoso scritto40 Charles Wright Mills riguardo a Parsons, anche lui sociologo statunitense. Per quest’ultimo il sistema sociale era un insieme interrelato di parti, capace di autoregolazione e in cui ogni parte svolge una funzione necessaria alla riproduzione dell’intero sistema. Il sistema si adatta all’ambiente grazie al sottosistema economico. Questo funzionalismo è giunto paradossal36 A. Naess, The Sallow and the Deep. Long-Range Ecology Movements. A Summary, in: «Inquiry», n. 16, 1973. 37 B. Devall, G. Sessions, Deep Ecology, Gibbs M. Smith, Layton, Utah 1985. Ed. it. Ecologia profonda. Vivere come se la natura fosse importante, Abele, Torino 1989. 38 Cfr. F. Capra, Il tao della fisica, Adelphi, Milano 1989. 39 Cfr. P. Dickens, Society and Nature: Towards a Green Social Theory, Temple University Press, Philadelphia 1992, pp. 188-190. 40 «L’eliminazione magica del conflitto e il miracoloso instaurarsi dell’armonia eliminano da questa teoria “sistematica” e “generale” ogni possibilità che ci si debba scontrare con i mutamenti sociali, con la storia». C.W. Mills, L’immaginazione sociologica, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 52. 23 mente fino a Dunlap e Catton, ma un’analisi della dialettica società/ natura dovrebbe piuttosto mettere sotto la lente d’ingrandimento l’insostenibilità di questo rapporto, non stabilire normativamente, filosoficamente, un adeguamento fittizio fra società e ambiente. In questa pretesa normativa, anti-conflittualistica, si sottovaluta ovviamente la differenza sociale fra élite e massa, che è, come cercheremo di spiegare, uno dei fattori di quell’insostenibilità. Torneremo su questi temi nell’ultimo capitolo, quando ci occuperemo delle teorie della decrescita. A partire dal prossimo capitolo cercheremo di mettere a fuoco il tema dell’energia, mettendolo in relazione con le teorie elitistiche che abbiamo riassunto in questo capitolo. La sociologia tradizionale non è poi tutta da buttare. Anzi. 24