POTERE E NATURA - Armando Editore

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POTERE E NATURA - Armando Editore
Enzo Lombardo
POTERE E NATURA
Le cause sociali della crisi ambientale
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Introduzione
Capitolo 1: La sociologia del potere
7
11
Capitalismo e rivoluzione industriale, 11; Gli elitisti, 14; Le élite nel
mondo contemporaneo, 18; La sociologia dell’ambiente ha dimenticato il potere?, 21
Capitolo 2: L’élite dell’energia: petrolio e gas
25
Il fattore energetico, 25; Politica ed economia, 29; L’impronta ecologica, 35; Il caso Nigeria , 38; La Cina in Africa, 47; Shale gas e sabbie
bituminose. Nuove possibilità o nuovo inquinamento?, 54
Capitolo 3: L’energia nucleare e i suoi problemi
59
Un nuovo tipo di energia, 59; Tipologie di centrali e incidenti, 61;
Il ciclo del combustibile nucleare e il problema dell’uranio impoverito, 64; Il problema dei costi e quello delle scorie, 67; Lo smaltimento illegale delle scorie e le “navi dei veleni”, 74; Geopolitica
dell’uranio (“Francafrique” oggi), 82; Sociologia dell’atomo, 90
Capitolo 4: La crisi della web-economy
(e della nuova sociologia urbana)
99
La crisi del fordismo e del welfare state, 99; La web-economy, 106;
La crisi della new economy, 110; Il crollo finanziario del 2008 e
le sue conseguenze sull’economia reale, 117; La terza grande crisi
energetica, 121; La crisi fiscale dello Stato, oggi, 126; Società postindustriale? Città postmoderna?, 132; Appendice: il Patto Euro
Plus e la crisi europea 2011/12, 143
Capitolo 5: Acqua, cibo, potere
149
Pane e finanza, 149; L’effetto serra e la desertificazione, 150; Lo
stress idrico, l’inquinamento e le ricadute sull’ambiente, 154; La
risorsa acqua: guerre e interessi in gioco, 159; Le dighe Gilgel
Gibe in Etiopia: un caso emblematico, 165; Le dighe degli scandali. L’Italia, 170; La privatizzazione dell’acqua e l’industria idrica, 173; Tanto per pochi, poco per molti: il deficit ecologico del
cibo, 180; La guerra del cacao, 185; La mega-industria globale
della carne, 190; Le commodities in Borsa: come speculare sul cibo,
195; Gli Ogm sfameranno il pianeta?, 201; I grandi Trust dell’acqua e del cibo, 210
Capitolo 6: La grande corsa delle energie rinnovabili
215
Kyoto, 215; L’energia idroelettrica e marina, 219; L’energia solare,
221; L’energia eolica, 228; L’energia dalle biomasse, 231; Rifiuti,
inceneritori e riciclaggio, 235; La geotermia, 239; L’idrogeno e la
nuova mobilità, 242; Al di là dell’ideologia e dell’utopia, 245
Capitolo 7: L’ideologia della decrescita
Sviluppo sostenibile e riformismo, 249; La decrescita (in)felice,
254; L’economia è davvero un’invenzione?, 260; L’industrializzazione e i suoi colpevoli, 265; Le altre opere, 269; L’ambientalismo,
la politica e il realismo, 279
Bibliografia
249
Introduzione
Il romanzo Cuore di tenebra1 di Joseph Conrad è stato pubblicato nel
1902. Marlow è il protagonista-narrante di un terribile viaggio in Congo, ai tempi della colonizzazione belga, una delle più spietate. Il dominio
degli europei sulle popolazioni indigene è immerso in una natura decritta con i caratteri dell’indomabilità, dell’oscurità, della tenebra, appunto.
Kurtz è l’altro personaggio importante del romanzo, il colonizzatore che
si è spinto più in là degli altri, non solo per le capacità di procacciare
avorio, ma anche per l’efferatezza dei suoi metodi. Alter ego di Marlow
si è addentrato più degli altri anche nella conoscenza, nelle profondità umane. Pur partendo da due punti diversi (la curiosità intellettuale
di Marlow, la violenza che diviene atavica di Kurtz), i due personaggi
sono accomunati dall’essersi spinti di là dalla superficie, l’esportazione
del progresso, la redenzione di popoli sottosviluppati, insomma lontano
dall’ideologia che si accompagnava alla colonizzazione.
Cuore di tenebra è un romanzo che affronta assieme il tema uomo/
natura e quello del dominio dell’uomo sull’uomo. Alla luce degli avvenimenti contemporanei, Conrad è riuscito a cogliere il problema concreto,
reale della crisi ambientale, già ai suoi tempi. L’insostenibilità dello sfruttamento della natura si lega indissolubilmente al problema della disuguaglianza. La lucida e ispirata indagine di Conrad coglie in profondità
questo nesso, lontano da ogni ideologia. Oggi, molti testi dell’ecologismo
rimandano al dibattito teorico, a un impegno morale, ideale e idealistico,
a una soluzione gnoseologica della questione ambientale, tralasciando
l’analisi2.
1
J. Conrad, Cuore di tenebra, Einaudi, Torino 1974.
Per una critica dell’ecologismo radicale rimando al mio libro, E. Lombardo, Percorsi di sociologia ambientale, Aracne, Roma 2007.
2
7
Le disquisizioni teoriche e puramente speculative che rimandano a
una scelta etica, tra il bene (l’utopistico ritorno alla natura, l’abbandono
del capitalismo, etc.) e il male, possono anche portare a pubblicazioni di
successo, ma non determinano alcun reale avanzamento nell’analisi della
realtà, anche in prospettiva di una formulazione di possibili soluzioni.
Non si può prescindere da un tentativo di analisi della società nella sua
complessa dimensione politica, sociale ed economica: spesso manca un
approccio multidisciplinare. Chi decide nel mondo? Chi determina le
crisi? Il sistema sociopolitico è realmente democratico? Sono quesiti che
rimandano alla situazione reale, di là dalle speculazioni sulla fine del
capitalismo, sul sorgere di una società riflessiva, o sul ritorno alle dimensioni localistiche dell’autoconsumo.
Il primo problema che ci porremo è quello del potere. Nel dibattito
sull’insostenibilità del sistema economico ed energetico è riposta molta
enfasi su un doveroso cambiamento del cittadino comune. Un fattore
importante è senza dubbio lo spreco e le scelte di vita individuali (alimentazione, utilizzo di detersivi, o di prodotti nocivi, utilizzo di veicoli
meno inquinanti, etc.), ma la questione delle scelte politiche, del rapporto fra istituzioni e potere economico, è più importante. Anche il racconto
di Marlow parte da una descrizione di Londra, vera e propria capitale del
potere coloniale.
Non ci sono oscuri complotti alla base delle decisioni politiche importanti. Un bel libro di David Rothkopf, Superclass3, ha documentato
l’esistenza di un’élite mondiale, che alla luce del sole (l’autore, infatti, non
crede che associazioni come Trilateral Commission o Bilderberg abbiano un peso così determinante come alcuni pensano) domina il mondo, di
cui fa parte un’élite dell’energia che sarebbe alla base di eventi di portata
storica come la seconda guerra in Iraq. L’aumento dei costi energetici che ne è seguito, come pure il disastro della piattaforma petrolifera
Deepwater Horizon della BP, nell’aprile/maggio 2010, nel Golfo del
Messico (oltre cinquanta mila tonnellate di petrolio rilasciate in mare),
non sono stati soltanto frutto di casualità. In Brasile e in Norvegia sono
obbligatori sistemi di bloccaggio a distanza dei pozzi, negli USA è più
conveniente sovvenzionare lobbies al Congresso USA (la BP ha speso 3
milioni di dollari nel 2010, anno del disastro).
Nel primo capitolo vedremo in quale modo sia nato e si sia poi svi3
D. Rothkopf, Superclass. La nuova élite globale e il mondo che sta realizzando, Mondadori, Milano 2008.
8
luppato, a livello soprattutto sociologico, per somme linee, il dibattito sul
potere e su quale sia la sua natura a partire dalla metà dell’Ottocento. Il
tentativo di legare la sociologia del potere con quella dell’ambiente proseguirà negli altri capitoli del libro. Ci occuperemo delle élite dell’energia
e delle loro capacità di influenzare la politica nel secondo capitolo. Il tentativo è di comprendere anche le relazioni fra multinazionali energetiche
e poteri locali, che ho definito “élite periferiche”. Un occhio di riguardo è
rivolto all’Africa, interessata, specie nell’ultimo decennio, dalla penetrazione cinese, oltre a quella classica delle nazioni più sviluppate. Nel successivo capitolo si tratterà dei legami fra nucleare, corporation e ricadute
sull’ambiente. Anche le organizzazioni criminali si sono inserite nel ciclo
dell’uranio. Nel quarto capitolo si affronterà la questione della sociologia
urbana contemporanea, alla luce delle crisi finanziarie degli ultimi tempi.
Crisi collegate ai problemi energetici e alla speculazione che è uno dei
fattori decisivi dell’aumento dei prezzi petroliferi.
Nel capitolo successivo ci occuperemo dei problemi connessi all’approvvigionamento idrico alla produzione del cibo, questioni collegate
anch’esse agli interessi delle grandi corporation del settore. Un occhio
di riguardo sarà dato alla costruzione delle dighe e alle trasformazioni
ambientali che ciò comporta. Nel sesto capitolo si tratterà delle energie
rinnovabili, le difficoltà che la cosiddetta green economy sta incontrando.
Il tentativo è di affrontare la questione in modo realistico, di là dagli
entusiasmi di coloro che vedono solo un futuro roseo per le rinnovabili
e dei pessimismi interessati di coloro che, altrettanto utopisticamente,
vorrebbero un perpetuarsi all’infinito dell’attuale economia basata, sostanzialmente, sullo sfruttamento degli idrocarburi.
È da una visione realistica della realtà, e dunque un’analisi del potere
economico e politico, che deve partire una ricostruzione del complesso
rapporto fra società e ambiente. La vecchia visione della politica, che
prevedeva una pars destruens e una pars costruens, ossia il giudizio morale totalmente negativo sulla realtà, intesa appunto come soltanto entità morale negativa, cui è contrapposta un’altra entità stavolta di valore
positivo, costruita a tavolino, è stata superata già nel secolo XIX. Ciò
non toglie che una tale impostazione sopravviva, anche nel dibattito sociologico ambientale. Una critica a quest’approccio sarà fatta nell’ultimo
capitolo del volume. Non è possibile compiere un’analisi del rapporto
natura-società, senza affrontare il vero “cuore di tenebra”: il potere.
9
Capitolo 1
La sociologia del potere
Capitalismo e rivoluzione industriale
Comprendere la natura del potere non era stato uno degli obiettivi del positivismo e dell’organicismo. Queste correnti nate agli inizi
dell’Ottocento avevano segnato una battuta d’arresto nei confronti della tradizione del Giusnaturalismo, interessata soprattutto al problema
dei limiti del Sovrano e dell’applicazione del diritto naturale. Nell’epoca
della prima industrializzazione (1790-1875 circa) lo Stato non era ancora quella mastodontica organizzazione burocratica che sarà in seguito.
Anche le imprese private erano di piccole dimensioni: era l’epoca del
primo liberismo, della concorrenza senza regole. Pur da differenti punti
di vista, Adam Smith, Karl Marx e Herbert Spencer avevano dato una
loro importante testimonianza di questo periodo storico. L’enfasi della
concorrenza (Smith), il conflittualismo fra classi sociali (Marx) e l’evoluzionismo (Spencer) mettevano in secondo piano le istituzioni politiche
e lo Stato; del resto, la vera protagonista dei primi tre quarti di secolo
era stata la nascente società industriale. Celebre è la definizione contenuta ne Il manifesto1, dello Stato come semplice comitato d’affari della
borghesia2. Per Spencer lo Stato deve rimanere snello, occuparsi solo
dell’ordine pubblico, non intralciare, con istanze regolatrici, il percorso
“darwiniano” della società industriale. Erano impostazioni queste che già
1 «Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese» in K. Marx, F. Engels, Il manifesto del partito comunista,
Einaudi, Roma 2005, p. 9.
2 Per una critica dell’interpretazione semplicistica di Marx riguardo allo Stato moderno si veda: L. Althusser, Marx nei suoi limiti, Mimesis, Milano 2004.
11
negli ultimi decenni del secolo XIX non trovavano più conferme nella
realtà. Gli Stati europei si erano rafforzati, dotandosi di un forte apparato
burocratico: il testimone più importante di questi enormi cambiamenti
è senza dubbio Max Weber.
Karl Polanyi, nel suo noto lavoro La grande trasformazione3, ha brillantemente messo a fuoco lo sconvolgimento socioeconomico dovuto
all’avvento del mercato autoregolato e la reazione a esso da parte non
soltanto della società, ma dell’intero sistema capitalista. Per far funzionare il sistema creato dalle macchine industriali, era necessario che tutto si trasformasse in merce, anche il lavoro, la terra e la moneta stessa,
che merci non potevano mai diventare: lo stesso mercato autoregolato
aveva messo in moto un sistema terrificante di mercificazione che non
poteva sopravvivere senza regolazione. Un sistema che determinò profonde crisi politiche ed economiche, notevoli reazioni della società. Sotto quest’aspetto, osservando come le crisi cicliche siano connaturate al
sistema capitalistico, Marx si è dimostrato un autore ben più profondo
rispetto a Spencer e al suo evoluzionismo. Marx non aveva compreso
però la natura della reazione a tale sistema: «Soltanto con il 1834 [data
del Poor Law Amendment] nacque in Inghilterra un mercato concorrenziale del lavoro; non si può dire quindi che il capitalismo industriale come sistema sociale sia esistito prima di quella data. Tuttavia quasi
immediatamente si inserì l’autoprotezione della società: nacquero leggi
sulle fabbriche, una legislazione sociale e sorse un movimento politico
e sindacale della classe lavoratrice»4. La reazione fu data anche dall’intervento dello Stato nell’economia, non ci fu solo una naturale risposta
“dal basso” questo perché, «abbastanza paradossalmente non soltanto gli
esseri umani e le risorse naturali ma anche l’organizzazione della stessa
produzione capitalistica doveva essere protetta dagli effetti devastatori
di un mercato autoregolantesi»5. Secondo Polanyi fu lo stesso sistema
capitalistico a mettere in atto regole per irreggimentare il mercato autoregolato.
Sia nella Prussia di Bismarck, che nell’Inghilterra vittoriana, furono
promulgate legislazioni “antiliberiste” riguardanti la salute pubblica, le
3 K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra
epoca, Einaudi, Torino 1974. Ed or. The Great Transformation, Rinehart & Winston,
New York 1944.
4 Ivi, p. 107.
5 Ivi, p. 170.
12
condizioni del lavoro operaio nelle fabbriche e nelle miniere, i servizi
municipali, le assicurazioni sociali, a partire già dagli anni ’40 del XIX
secolo per rafforzarsi poi dagli anni ’70. Ma a un certo punto furono gli
stessi liberisti a chiedere l’intervento dello Stato6: i monopoli, generati
dal laissez faire, rendevano impossibile la stessa sopravvivenza del mercato autoregolato. Erano dinamiche che il socialismo scientifico non aveva
compreso: «La legge sulle dieci ore del 1847, salutata da Marx come la
prima vittoria del socialismo, fu l’opera di reazionari illuminati»7.
Il libero scambio permetteva l’abbassamento dei prezzi alimentari:
una volta costruite le navi a vapore e le ferrovie, il grano, soprattutto
quello americano, affluì in massa in Europa. Ma tale diminuzione del
prezzo, un sollievo per i lavoratori, rappresentava anche la rovina dei
produttori: non fu un caso che dal mondo agrario, capitalistico o no,
partì un’ondata reazionaria. La deflazione era un problema apparso già
nel XIX secolo e non era legata soltanto al crollo economico finanziario del 1929. C’erano più merci che denaro: anche da un punto di vista
finanziario si rendeva necessario un deciso intervento dello Stato per
salvare il mercato, per stabilizzare i tassi di cambi fra una moneta e l’altra,
fra Stati molto diversi dal punto di vista della produzione. Il crollo della
base aurea, fondamento del libero mercato autoregolato, era una diretta
conseguenza di questi dislivelli8.
Iniziava dunque l’epoca delle misure protezionistiche (per salvaguardare la moneta e la produzione nazionale), delle tariffe doganali e della
politica di potenza coloniale: «L’imperialismo economico era soprattutto
una lotta tra le potenze per il privilegio di estendere il loro commercio
a mercati politicamente non protetti. La pressione dell’esportazione era
accompagnata dalla lotta per i rifornimenti di materie prime causata dalla febbre della produzione. I governi sostenevano i loro sudditi impegnati in attività economiche nei Paesi arretrati. Il commercio e la bandiera
6
Cfr., ivi, pp. 189-191.
Ivi, p. 214.
8 «Anche internazionalmente i metodi politici furono adoperati per sopperire alla
imperfetta autoregolazione del mercato. La teoria ricardiana del commercio e della moneta ignorava invano la differenza di situazione che esisteva fra i vari Paesi a causa della
loro diversa capacità di produrre ricchezza, delle capacità di esportare, dell’esperienza
commerciale, mercantile, bancaria. Per la teoria liberale la Gran Bretagna era semplicemente un altro atomo nell’universo del commercio e si collocava esattamente sullo
stesso piano della Danimarca e del Guatemala». Ivi, p. 263.
7
13
correvano nello stesso solco»9. Il prossimo capitolo partirà proprio da
questo concetto di Polanyi, ora però bisogna cercare di comprendere,
dopo aver analizzato l’intervento dello Stato nell’economia, il rafforzamento delle élite al potere, come diretta conseguenza dei problemi che il
mercato autoregolato aveva messo in campo.
Le barriere protezionistiche salvaguardavano la moneta, il credo liberista di una valuta forte e di salari bassi permaneva all’interno di un
sistema che col mercato autoregolato e la libera circolazione delle merci
aveva ormai poco a che fare. Si rendevano necessari negli ultimi decenni dell’Ottocento da un lato un forte rafforzamento burocratico dello
Stato, dall’altro un’alleanza fra lo Stato e il ceto imprenditoriale. Weber
ha illustrato bene questa nuova situazione storica, dal capitalismo anarchico dei primi tempi si era passati a un capitalismo “politico”. Weber
ha influenzato tutta la sociologia del potere successiva, in particolare i
cosiddetti elitisti.
Gli elitisti
Per elitisti si intendono, in tutti i manuali di storia della sociologia,
quegli autori che hanno analizzato il rapporto fra Stato, politica ed economia, fra essi spiccano gli italiani Mosca, Pareto e Michels e lo statunitense Charles Wright Mills10. Il precursore però è stato Max Weber,
che non è annoverato solitamente in questa scuola di pensiero. Oltre alla
contrapposizione, puramente economica, di classe, messa in evidenza da
Marx, Weber ha fatto notare nel suo Economia e società il fatto che esistano anche delle differenze di ceto. Quest’ultimo si forma attraverso una
selezione (un modus vivendi particolare, il connubium, etc.), un’appartenenza politica, una specifica condizione sociale e di prestigio, oltre a una
situazione di classe11. Anche un altro grande classico, Thorstein Veblen,
pur mantenendo la lotta di classe al centro della storia contemporanea,
ha fatto notare nel suo noto lavoro, La teoria della classe agiata (1899), il
fatto che all’apice della struttura sociale in America ci fossero gli ammirati consumatori di prodotti vistosi: ancora una volta si evidenziavano
9
Ivi, p. 276.
Per quanto riguarda questo autore, mi permetto di consigliare il mio libro: E.
Lombardo, Il giovane Mills, Armando, Roma 2007.
11 M. Weber, Economia e società, Comunità, Milano 1961.
10
14
fattori extraeconomici, come prestigio, visibilità, psicologia, nel tentativo
di comprendere la stratificazione sociale.
Gli elitisti avevano di fronte a sé il fenomeno, poco evidente ai tempi
di Marx, dell’espansione burocratica dello Stato, con il suo progressivo
intervento nell’economia. Ciò ha fatto sì che si formasse una classe politica, dotata di un carattere di esclusività e addirittura a volte di chiusura
rispetto al resto della società civile. Le considerazioni di questi autori
sono molto vicine alle analisi weberiane12, specie nel caso di Mills13, di
cui riferiremo più tardi. Nel suo La classe politica (1896), Gaetano Mosca
(1858-1941) non legava il fenomeno della classe dirigente a un particolare momento storico, ma lo vedeva come un fenomeno universale. E
infatti affermava: «Fra le tendenze e i fatti costanti, che si trovano in tutti
gli organismi politici, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a
tutti manifesta: in tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate e che sono arrivate ai primordi della civiltà, fino alle
più colte e più forti, esistono due classi di persone: quella dei governanti
e quella dei governati»14. Una minoranza organizzata prevale sempre su
una maggioranza disorganizzata, è fatto naturale e indispensabile per il
funzionamento di una qualsiasi società.
La teoria di Mosca è importantissima per comprendere i successivi sviluppi della corrente elitistica e della sociologia del potere: Robert
Michels (1876-1936), tedesco di nascita ma naturalizzato italiano, ha
osservato come, anche nei partiti politici, si vengano a formare delle oligarchie, nel tentativo di dimostrare che la sovranità delle masse è meccanicamente e tecnicamente inattuabile15. Si vuol dare prova, insomma,
12 «Quando vengono tratte le estreme conseguenze – afferma Weber –, il ceto evolve
verso “la casta chiusa”». Tali affermazioni, rivolte da Weber soprattutto per alcune società del passato, saranno riprese dagli elitisti e da Mills. Il concetto di casta è stato ripreso
anche ai giorni nostri dai due giornalisti G.A. Stella e S. Rizzo nel loro fortunato libro
La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli, Milano 2007), che ha per
argomento le nefandezze e gli sprechi della classe politica italiana.
13 L’importanza del lascito intellettuale dell’opera di Weber per gli scritti di Mills,
è data dalla stessa opera di quest’ultimo, scritta assieme all’amico Gerth, Max Weber, da
Heidelberg al Midwest, Franco Angeli, Milano 1991.
14 G. Mosca, Elementi di Scienza politica, Laterza, Bari 1939, vol. I, p. 83.
15 Cfr. R. Michels, La sociologia del partito politico, UTET, Torino 1912, p. 25. L’enunciazione di una “legge ferrea delle tendenze oligarchiche” è, appunto, il contributo più
noto di Michels: le élite dirigenti dei partiti tendono a chiudersi in una oligarchia che
si autoperpetua divenendo inamovibile. In modo non dissimile si comportano le classi
dirigenti.
15
del fatto che le teorie del radicalismo democratico, insieme a quelle della
fine dello Stato borghese di provenienza marxista, fossero in realtà molto
vicine all’utopia: «L’esistenza di capi – afferma Michels – è un fenomeno
congenito a qualunque forma di vita sociale. Non incombe, quindi, alla
scienza investigare se essa sia un male od un bene, o quale di questi due
aspetti in essa predomini. Ha, però, gran valore sì scientifico che pratico
lo stabilire che ogni sistema di capi è incompatibile coi postulati più essenziali della democrazia. Sappiamo oramai come la legge della necessità
storica dell’oligarchia si basi in primo luogo sopra una serie di dati forniti
dall’esperienza».
Il Principio di Pareto è una delle tesi più interessanti dell’economista e sociologo italiano, altro noto esponente dell’elitismo. Studiando la
distribuzione dei redditi in Italia Pareto dimostrò che la maggior parte
della ricchezza era detenuta da una piccola frazione della popolazione,
in un rapporto di 80/20. La scoperta fu incredibile: secondo lo Human
Development Report del 1992, nel 1989, novant’anni dopo la formulazione di Pareto, il primo quintile della popolazione mondiale (20%) possedeva l’82,7% del reddito. Bisogna dire, però, che in seguito le cose sono
peggiorate: uno studio del 2006 condotto dall’Università delle Nazioni
Unite ha evidenziato come il 20% della popolazione più ricca del mondo
possieda l’85% della ricchezza globale.
Sul finire dell’Ottocento, come abbiamo detto, il laissez faire cominciò a declinare, in Europa e nel mondo sviluppato, specie dopo la depressione del 1873-86, che ne aveva fortemente minato le basi16. Stati come
la Germania, la Francia, gli USA, il Giappone, con l’eccezione della Gran
Bretagna che rimaneva fedele al liberismo, cominciarono a intervenire
sempre di più in campo economico. Si assistette anche a forti processi di
concentrazione delle imprese. Soprattutto negli Stati di secondo sviluppo, si formano monopoli e cartelli. Di questi, nella sola Germania, «nel
1875 ve ne erano appena quattro, ma nel 1890 erano già un centinaio e
nel 1914 se ne contavano quasi mille»17. Nella stessa Germania si formarono grandi società monopoliste come Krupp, AEG e Siemens. Gli
Stati divennero grandi consumatori (esercito, servizi pubblici, ferrovie,
etc.) e sostenitori delle esportazioni, anche attraverso un nuovo stimolo
alla colonizzazione del mondo: «Il commercio e la bandiera – afferma
16
Cfr. K. Polanyi, op. cit., pp. 266-278.
E. De Simone, Storia economica. Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica, Franco Angeli, Milano 2006, p. 168.
17
16
Karl Polanyi correvano sullo stesso solco»18. Negli Stati Uniti si formano
le grandi corporation, che nel caso della Standard Oil19 divennero addirittura monopoliste nel loro settore. Anche le nuove discipline dell’Antitrust operavano comunque in un contesto di regolamentazione e non di
divieto assoluto dei cartelli: lo Sherman Act (1890) colpì soprattutto le
grandi banche, non mega-corporation come Carnegie, Vanderbilt, Morgan. La libera concorrenza era fortemente messa in discussione, anche
perché s’innalzarono barriere doganali protezionistiche un po’ ovunque.
Si assiste al declino dell’autoregolazione del mercato accompagnato al
declino della concorrenza.
Un altro colpo al libero mercato fu dato dalla Grande Guerra: gli
Stati intervennero per organizzare la produzione necessaria a sostenere
gli eserciti. Nacque l’economia di guerra, con un’ulteriore spinta alla concentrazione delle imprese, più adeguate al sostegno dello sforzo bellico.
La grande crisi del ’29 mise fine a un periodo post-bellico di crescita sostenuta in tutte le nazioni più ricche. Fu una crisi dovuta alla sovrapproduzione, alla mancanza di una domanda che sostenesse l’offerta. Ebbe,
però, anche una natura finanziaria: l’economia reale in crisi era qualcosa
di diverso rispetto alle rappresentazioni che ne facevano gli agenti di
Borsa, prima del suo crollo.
Il reciproco sostegno fra Stati e grandi aziende non aveva significato
un intervento regolatore degli Stati stessi nell’economia. Le dottrine di
Keynes, attuate durante la presidenza Roosevelt, intervennero a sostegno della domanda, con un forte impegno economico dello Stato, anche
a debito (deficit spending). L’insufficiente domanda privata fu sostituita
da quella pubblica. Il protezionismo era aggirato attraverso una forte
svalutazione della moneta, per stimolare la domanda estera (svalutazione
competitiva). Grazie a questa nuova politica che rivoluzionava comple18
K. Polanyi, op. cit., p. 276.
Dopo una sentenza della Corte Suprema statunitense del 1911, la Standard
Oil dovette scindersi in sette diverse società: Standard Oil of New Jersey (SONJ) - o
Esso (Eastern States, Standard Oil), rinominata Exxon, oggi parte della ExxonMobil;
Standard Oil of New York, successivamente fusa con la Vacuum, rinominata Mobil,
oggi parte della ExxonMobil; Standard Oil of California o Socal, rinominata Chevron;
Standard Oil of Indiana, rinominata Amoco (American Oil Company), oggi parte di
BP; Standard’s Atlantic che si è fusa con Richfield dando vita alla Atlantic Richfield o
Arco, oggi parte di BP; Standard Oil of Kentucky, acquistata poi dalla Standard Oil of
California, oggi Chevron Corporation; Continental Oil Company, o Conoco, oggi parte
della ConocoPhillips; Standard Oil of Ohio, oggi parte della BP.
19
17
tamente le dottrine del laissez faire, gli Stati Uniti superarono la crisi,
anche perché quella politica fu aiutata, paradossalmente dalla seconda
guerra mondiale, che richiedeva ancora una volta un forte sostegno dello
stato alla produzione e ai consumi.
Dopo il secondo conflitto ci fu un periodo storico, durato fino alla
fine degli anni ’60, di forte prosperità in tutti i Paesi sviluppati, conosciuto come Golden Age. È in questo periodo però che furono pubblicate le
opere di uno dei sociologi americani più radicali, Charles Wright Mills
(1916-62). La sua condanna verso l’economia di guerra è totale: «La tendenza di vecchia data che aveva già spinto il mondo degli affari ed il governo a rafforzare vicendevoli legami, è diventata, con la seconda guerra
mondiale, sempre più pronunciata: nessuno dei due mondi può oramai
essere considerato un mondo a sé»20. L’élite della politica, non è la sola
classe dei governanti al potere, ma si accompagna alle élite economiche
e a quella militare. La minaccia bellica perenne costituita dalla Guerra
Fredda ha poi rafforzato questa classe tripartita al potere: il settore militare-industriale aveva ormai assunto le redini decisionali degli USA.
Le élite nel mondo contemporaneo
L’opera di Mills è stata particolarmente profetica, specie ai tempi della
guerra in Iraq. Tuttavia le sue osservazioni risultavano però troppo caustiche per gli Stati Uniti dei suoi tempi, che si trovavano come negli altri
Paesi sviluppati, nel pieno della Golden Age, di un’espansione, dopo la Seconda guerra mondiale, della ricchezza ad ampie fasce della popolazione.
Come ha affermato il politologo ed economista Robert Reich, «in linea di
massima, la prima fase del moderno capitalismo americano (1870-1929)
fu caratterizzata da una crescente concentrazione dei redditi e della ricchezza; la seconda (1947-1975) fu all’insegna di una più ampia distribuzione del benessere; la terza (1980-2010) ha visto di nuovo una sostenuta
concentrazione”21. I privilegi del potere si sono affermati soprattutto dopo,
nel corso degli anni ’70, con la fine delle politiche keynesiane e fordiste.
L’élite del potere è costituita da individui simili per provenienza sociale, cultura, carriera, stile di vita. I suoi membri hanno frequentato le
20 C.W. Mills, La struttura del potere nella società americana, in: F. Ferrarotti, La sociologia del potere, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 297.
21 R.B. Reich, Aftershock. Il futuro dell’economia dopo la crisi, Fazi, Roma 2011, p. 8.
18
stesse scuole, gli stessi college, gli stessi club22. Anche Rothkopf, nel suo
volume, Superclass, edito più di cinquanta anni dopo The Power Elite di
Mills farà le stesse considerazioni, allargandole al mondo intero: chi vuol
far parte della super-élite globale deve seguire otto regole. Deve nascere
uomo (le donne sono solo il 6,3 della superclass), avere un’età media
di 58 anni, far risalire le proprie radici culturali all’Europa, frequentare
un’università d’élite (possibilmente Stanford, Harvard e Chicago University), entrare nel mondo degli affari e della finanza, avere una base di
potere istituzionale (avere cioè la possibilità di influenzare le persone)23,
diventare ricco ed essere fortunato: anche il caso conta nell’annodare le
amicizie giuste durante la vita.
Anche il sociologo americano contemporaneo William Domhoff è
convinto, come Mills, che ci sia un’élite al potere, e che le sue caratteristiche non vadano ricercate soltanto nella ricchezza e nel possesso dei
mezzi di produzione. Ci sono tre “indicatori” per quel che riguarda la
classe al potere negli USA: chi beneficia della ricchezza (gli amministratori delegati e gli alti dirigenti dei fondi, delle imprese, ad esempio,
utilizzano ricchezza altrui, traendone benefici anche da un punto di vista
economico, per sé, oltre che per la società di cui fanno parte), chi governa
(chi detiene posti istituzionali di potere dal punto di vista politico ed
economico, potendo così dirigere e influenzare un gran numero di per22
Secondo Mills: «C’è una sorta di attrazione reciproca fra gli “arrivati”; non, naturalmente, tra tutti i membri dei ceti altolocati e potenti, ma tra un numero di essi
sufficiente ad assicurarne l’unità. Si va da una sorta di reciproca tacita ammirazione a
una politica di matrimoni, e tra questi estremi si danno legami di ogni tipo e grado, con
alcune più nette sovrapposizioni o coincidenze determinate da consorterie e da club,
da chiese e da scuole. Se la comune origine sociale e l’educazione ricevuta tendono a
facilitare la comprensione e la fiducia reciproche tra i membri della élite al potere, la loro
continua familiarità cementa viepiù quel che sentono di avere in comune. I membri di
parecchi gruppi sociali superiori si conoscono personalmente e hanno tra loro rapporti
di amicizia e di buon vicinato; si incontrano sui campi da golf, nei migliori club, sulle
spiagge, sulle grandi linee aeree e marittime. Altri luoghi d’incontro sono le case di campagna di amici comuni, gli spettacoli o le associazioni di beneficienza; non c’è dubbio
che molti si rubano a vicenda lo spazio della cronaca mondana dei quotidiani, se non
proprio in quegli stessi locali pubblici dai quali queste cronache hanno origine», in C.
W. Mills, The Power Elite, Oxford University Press, New York 1956. Ed. It. La élite del
potere, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 262-263.
23 «Si stima che meno del 2 per cento dei membri della superclass non sia collegato
a una società, un governo, un’organizzazione militare, un fondo, una chiesa, un network
mediatico, e persino una rete terroristica o criminale da cui deriva il suo potere e attraverso cui lo esercita». D. Rothkopf, op. cit., p. 397.
19
sone), chi vince (chi riesce a battere gli avversari, ad esempio, attraverso
un’opera di lobby, o attraverso le conoscenze giuste)24.
Già nelle pagine di Mills osserviamo come si sia formata una vera
e propria coscienza di classe dell’élite al potere, e come i suoi membri
ricoprano cariche che si scambiano fra loro. Sono uomini che “tendono
ad assomigliarsi fra loro”, sono d’accordo, anche se non si conoscono e vi
è una grande interscambiabilità fra le tre strutture (economica politica
e militare)25. Oggi, colpisce intanto la sovrapposizione di incarichi dei
manager delle maggiori società nei consigli di amministrazione: la grande banca Goldman Sachs per esempio è presente con propri membri in
quattro consigli d’amministrazione delle prime cinque società del mondo26. L’interscambiabilità e l’interesse di classe che Mills notava nei soli
States si è ora trasferita all’intero globo.
L’interscambiabilità riguarda anche la classe politica. Se guardiamo
ancora agli Stati Uniti, due presidenti della Goldman sono stati segretari
del Tesoro (H. Paulson e B. Rubin27). Robert Zoellick ha lavorato alla
Goldman, è stato vicesegretario del Tesoro e direttore della Banca Mondiale. Durante la guerra in Iraq, il segretario di Stato USA (carica equivalente al nostro ministro degli esteri) della seconda amministrazione
Bush, era Condoleezza Rice, per anni nel consiglio d’amministrazione
della multinazionale del petrolio Chevron. Il vicepresidente degli Stati
Uniti, Dick Cheney è stato amministratore unico, fino al 2000, della
Halliburton, che ha strappato contratti milionari durante la guerra, trasferendo addirittura il suo quartier generale a Bagdad.
Negli USA le attività di lobby sono disciplinate da una specifica legge,
in Europa e in Italia sono invece una prassi senza un’effettiva regolamentazione. Vedremo nel prossimo capitolo come questi gruppi di pressione
abbiano permesso a molte compagnie dell’energia di acquisire un potere
spropositato, grazie al sostegno della politica. La teoria delle élite è ancora oggi di grande attualità e da essa deve partire ogni studio accurato che
voglia comprendere le relazioni fra società, economia e ambiente.
24
Cfr. G.W. Domhoff, Who Rules America? Challenges to Corporate and Class Dominance, Mc Graw Hill, New York 2010, pp. 15-19.
25 Cfr. C.W. Mills, La élite del potere, cit., p. 268.
26 Cfr. D. Rothkopf, op. cit., p. 173.
27 Rubin è stato, tra i democratici, uno dei più attivi sostenitori della deregulation
finanziaria e dell’abolizione del Glass Steagall Act, su cui torneremo in seguito. Dopo
aver lasciato il governo, è diventato vicepresidente di Citigroup, altra grande banca statunitense.
20
Negli ultimi anni si è assistito alla grande crescita delle economie di
Cina, India, e Brasile. Soprattutto la Cina ha scalato le classifiche dei
Paesi per maggior prodotto interno lordo, collocandosi ormai al secondo
posto dopo gli Stati Uniti, dopo aver superato il Giappone nel 2010.
Tale crescita non è spiegabile soltanto con l’avvento del libero mercato
in questo Paese. L’abolizione di molti vincoli alla proprietà privata e dei
controlli ai prezzi, a partire dal 1978, giocò un ruolo determinante, assieme alla progressiva liberalizzazione del settore bancario. Ma la caratteristica più importante del capitalismo cinese è il forte ruolo che il settore
pubblico ha mantenuto: «L’energia imprenditoriale che sta alimentando
questa crescita – afferma l’economista Jha – non trae origine dalla privatizzazione, sostanziale o formale che sia, bensì dal suo esatto opposto,
ossia dall’assoluta libertà d’azione concessa alle aziende statali»28.
Nel territorio cinese è presente un vastissimo numero di piccole
aziende sub-appaltanti, che lavorano per grandi multinazionali estere, vi
è un notevole conflitto fra Stato e periferie, ma è anche vero che Pechino
sostiene fortemente le grandi banche e aziende statali, anche con frequenti missioni all’estero da parte dei suoi massimi esponenti dell’esecutivo, compreso Hu Jintao, presidente della Repubblica Popolare. A fine
dicembre 2009, era cinese la prima grande azienda non bancaria: la PetroChina, con una capitalizzazione di mercato di 353 miliardi di dollari.
Erano cinesi anche le due banche più grandi: l’Industrial and Commercial Bank of China e la China Construction Bank con una capitalizzazione di mercato rispettivamente di 269 e 201 miliardi di dollari29.
L’élite, o “classe capitalistica transnazionale”30, ormai, non ha soltanto
tratti occidentali.
La sociologia dell’ambiente ha dimenticato il potere?
Sul finire degli anni ’70 due sociologi americani R.E. Dunlap e W.R.
Catton Jnr. scrivono un articolo31 polemico contro la sociologia “tradi28 P.S. Jha, Quando la tigre incontra il dragone. Uno sguardo nel futuro di India e Cina,
Neri Pozza, Vicenza 2010, p. 91. Tit. or. Crouching Dragon, Hidden Tiger, 2010.
29 Cfr. The Economist, Il mondo in cifre 2012, Fusi Orari, Roma 2011, pp. 66-67.
30 La definizione è di Leslie Sklair nel suo noto volume intitolato appunto The
Transnational Capitalist Class, Blackwell, Oxford 2001.
31 R.E. Dunlap, W.R. Catton, Environmental Sociology: a New Paradigm, in: «The
American Sociologist», vol. 13, 1978, pp. 41-49.
21
zionale” nel tentativo di mettere al centro dell’attenzione, anche in questa
disciplina, i problemi ambientali. Secondo i due autori, l’impostazione
classica della sociologia non riesce a comprendere l’interdipendenza tra
società ed ecosistema, di qui la sua arretratezza nei confronti del dibattito ambientale, che negli USA era già in quel periodo molto sviluppato.
Negli USA di quel periodo, Silent Spring (1962)32 di Rachel Carson era
ormai un testo classico dell’ambientalismo, il NEPA (National Environment Policy Act) aveva dotato gli States di uno strumento legislativo
che introduceva, già nel 1969 la valutazione d’impatto ambientale, ma
soprattutto le crisi energetiche del ’73 e del ’79 avevano dato il via al
dibattito sul rapporto uomo/natura. La sociologia classica si basa, secondo Dunlap e Catton, sul paradigma dell’esenzionalismo umano (HEP),
sul presupposto che l’uomo sia una specie eccezionale, esente dalle leggi
che regolano gli ecosistemi. Un paradigma ottimistico, antropocentrico e antiecologico, cui bisogna contrapporre un NEP (New Environmental Paradigm, poi rinominato New Ecological Paradigm33) che renda
conto della profonda relazione fra società umana e ambiente biofisico.
L’ambiente influenza la società, la società influenza l’ambiente: bisogna
comprendere questo rapporto in senso bidirezionale. I riferimenti sono
le teorie della Scuola di Chicago e di Duncan sull’ecologia umana e sul
“complesso ecologico”34.
Il NEP si basa su quattro principi: 1) gli esseri umani sono solo una
fra le specie della comunità biotica, nonostante abbiano caratteristiche
uniche ed eccezionali; 2) il rapporto fra esseri umani e ambiente è complesso e comprende conseguenze inattese (meccanismi retroattivi); 3) la
crescita economica è limitata perché le risorse naturali sono esauribili; 4)
l’inventiva umana non può alla lunga oltrepassare tali limiti ecologici35.
Il discorso dei due autori statunitensi non è del tutto nuovo, oltre alle
influenze sociologiche sopra citate, vengono riprese alcune tematiche
32 Trad. it. R. Carson, Primavera
silenziosa, Feltrinelli, Milano 1963.
R.E. Dunlap, W.R. Catton, Environmental Sociology in: «Annual Review of Sociology», vol. 5, 1979, pp. 243-273.
34 Cfr. O.D. Duncan, Human Ecology and Population Studies, in: P. M. Hauser., O.D.
Duncan, The Study of Population, University of Chicago Press, Chicago 1959.
35 Per una ricostruzione del pensiero di Dunlap e Catton si vedano anche: F. Beato,
Rischio e mutamento ambientale globale, Franco Angeli, Milano 1993. A. Mela, M.C.
Belloni, L. Davico, Sociologia dell’ambiente, Carocci, Roma 1998, p. 58 e segg. e I. Beretta, Il nuovo paradigma ecologico: Catton e Dunlap, in: E.M. Tacchi (a cura di), Ambiente e
società. Le prospettive teoriche, Carocci, Roma 2011, pp. 31-74.
33
22
dell’ecologia profonda (principio n. 1) e della bioeconomia (principi 3
e 4).
Già all’inizio degli anni ’70, lo studioso norvegese Arne Naess distinse due tipi di ecologia, una superficiale e antropocentrica, l’altra profonda
ed ecocentrica36. Quest’ultima adotta un nuovo “paradigma ecologico”:
l’uomo non deve essere il padrone assoluto della Terra, come sosteneva il
vecchio “paradigma dominante”, dualistico e individualistico, ma è semplice elemento della “trama della vita di cui siamo parte”. Tutti gli esseri
viventi hanno un proprio valore intrinseco. Le idee di Naess furono riprese da molti studiosi, i più noti sono Devall e Sessions, autori di un
volume intitolato appunto Ecologia profonda37, e Fritjof Capra, anche lui
affermato scrittore di testi molto noti38. Lo stesso Peter Dickens, altro
autore annoverato fra i sociologi dell’ambiente, ha accolto, questa volta
esplicitamente39, le teorie dell’ecologia profonda.
A giudicare da queste influenze, Catton e Dunlap pare abbiano adottato, in contrasto con un paradigma sociologico tradizionale, un paradigma filosofico ancor più tradizionale. La nuova impostazione teorica
deriva da una rinnovata visione del mondo che vede la società immersa
nella natura e gli uomini, in quanto membri di una comunità biotica,
tutti uguali fra loro. Ma per analizzare, nella sua complessità, il rapporto
società/natura, bisogna partire dalla stratificazione sociale, da un’analisi
del potere. A mio avviso, siamo di fronte a teorie che eliminano il potere legittimandolo, come ebbe a dire in un suo famoso scritto40 Charles
Wright Mills riguardo a Parsons, anche lui sociologo statunitense. Per
quest’ultimo il sistema sociale era un insieme interrelato di parti, capace
di autoregolazione e in cui ogni parte svolge una funzione necessaria alla
riproduzione dell’intero sistema. Il sistema si adatta all’ambiente grazie
al sottosistema economico. Questo funzionalismo è giunto paradossal36 A. Naess, The Sallow and the Deep. Long-Range Ecology Movements. A Summary,
in: «Inquiry», n. 16, 1973.
37 B. Devall, G. Sessions, Deep Ecology, Gibbs M. Smith, Layton, Utah 1985. Ed. it.
Ecologia profonda. Vivere come se la natura fosse importante, Abele, Torino 1989.
38 Cfr. F. Capra, Il tao della fisica, Adelphi, Milano 1989.
39 Cfr. P. Dickens, Society and Nature: Towards a Green Social Theory, Temple University Press, Philadelphia 1992, pp. 188-190.
40 «L’eliminazione magica del conflitto e il miracoloso instaurarsi dell’armonia eliminano da questa teoria “sistematica” e “generale” ogni possibilità che ci si debba scontrare con i mutamenti sociali, con la storia». C.W. Mills, L’immaginazione sociologica, Il
Saggiatore, Milano 1962, p. 52.
23
mente fino a Dunlap e Catton, ma un’analisi della dialettica società/
natura dovrebbe piuttosto mettere sotto la lente d’ingrandimento l’insostenibilità di questo rapporto, non stabilire normativamente, filosoficamente, un adeguamento fittizio fra società e ambiente. In questa pretesa
normativa, anti-conflittualistica, si sottovaluta ovviamente la differenza
sociale fra élite e massa, che è, come cercheremo di spiegare, uno dei
fattori di quell’insostenibilità.
Torneremo su questi temi nell’ultimo capitolo, quando ci occuperemo
delle teorie della decrescita. A partire dal prossimo capitolo cercheremo
di mettere a fuoco il tema dell’energia, mettendolo in relazione con le
teorie elitistiche che abbiamo riassunto in questo capitolo. La sociologia
tradizionale non è poi tutta da buttare. Anzi.
24