Accompagnamento del bambino terminale e dei loro familiari
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Accompagnamento del bambino terminale e dei loro familiari
DIPARTIMENTO DI PEDIATRIA COMITATO DI BIOETICA ACCOMPAGNAMENTO DEL BAMBINO TERMINALE E DEI SUOI FAMILIARI La realtà quotidiana conferma che anche i minori possono avere una malattia inguaribile e che, indipendentemente dall’età, essi sperimentano tutte le problematiche cliniche, psicologiche, etiche e spirituali che malattia inguaribile e morte comportano. Il progresso medico e tecnologico ha permesso una sopravvivenza a neonati, bambini ed adolescenti portatori di malattie altrimenti letali, senza tuttavia consentirne sempre la guarigione, e allungando questa sopravvivenza in malattia. Per questa specifica fascia di popolazione i tempi di impiego delle tecniche assistenziali possono essere molto diversi: in alcuni casi essere limitate ai primi anni di vita (malattie congenite), in altri prolungate per periodi decisamente maggiori (Neoplasie, Fibrosi Cistica Polmonare, Cardiopatie, Malattie autoimmuni), ed in altri casi ancora concentrate in un breve periodo che precede la morte. In età pediatrica pertanto, non esiste una chiara distinzione fra intervento curativo per migliorare la qualità della vita e prolungarne la durata, ed intervento puramente “palliativo”. Entrambi gli approcci coesistono e prevalgono a seconda delle diverse fasi e situazioni. Si possono individuare quattro diverse categorie di bambini con patologie inguaribili ciascuna delle quali richiede interventi diversificati in tempi differenziati: 1) minori con patologie per le quali esiste un trattamento specifico, ma che può fallire in una quota di essi. (neoplasie, insufficienza di organo irreversibile..) 2) minori in cui la morte precoce è inevitabile, ma cure appropriate possono prolungare ed assicurare una buona qualità di vita (infezione da HIV, fibrosi cistica, diabete..) 3) minori con patologie progressive, per le quali il trattamento è sintomatico e palliativo e può essere esteso anche per molti anni (malattie degenerative metaboliche, neurologiche, patologie genetiche o cromosomiche..) 4) minori con patologie irreversibili ma non progressive, che causano disabilità severa e morte prematura (paralisi cerebrale severa, danni cerebrali gravi..) La grande diversità fra le forme morbose interessate, la variabilità nel tempo dei livelli di gravità in uno stesso malato e la necessità di intervenire in molteplici e distinti momenti della storia naturale della malattia, sono elementi fondamentali e distintivi rispetto alla popolazione adulta e neonatale in senso stretto. L’età pediatrica comprende infatti individui dissimili per struttura biologica di base, metabolismo, maturità dei sistemi, potenzialità di crescita e sviluppo. Pertanto i trattamenti necessari sono generalmente complessi, ad alta intensità assistenziale e richiedenti competenze e tecnologie specifiche appositamente dedicate a soggetti con sistemi biologici differenti, definiti dalle diverse età ( ad esempio neonatale, adolescenziale..). Inoltre il vissuto di malattia, dolore e morte per familiari e professionisti impegnati nell’assistenza, è diverso e del tutto particolare nel caso di un minore rispetto a quello che generalmente si osserva nel caso di un adulto o di un anziano e perfino di un neonato. Questa peculiarità non riguarda tanto l’intensità della sofferenza, quanto i suoi connotati, le sue radici profonde che vanno ad interagire con l’attesa rotazione delle generazioni e con l’aspettativa di un “dopo di sé” legata e ricondotta ai figli. Per tali motivi, le emozioni ed i sentimenti generati dalla storia clinica di un bambino che non può guarire, dalla sua sofferenza e dalla sua morte, danno origine a complessi meccanismi psichici di difesa, che condizionano ed inducono comportamenti specifici sia all’interno della famiglia, che all’interno del gruppo di professionisti. La malattia grave di un bambino che conduce alla morte è un evento tragico che colpisce tutta la famiglia ed in particolare i genitori; per gli operatori sanitari poi, è sempre molto impegnativo occuparsi del bambino in questa fase poiché suscita sensazioni di impotenza e perché inevitabilmente anche il professionista viene coinvolto dalla “non fisiologica” fine della vita. La nostra formazione di medici ed infermieri è incentrata sul salvare e prolungare la vita; lo staff medico vive spesso la morte del paziente come un fallimento. Talvolta gli operatori hanno profonde difficoltà ed angosce nell’accompagnare il bambino verso la morte e sospendere i cosiddetti atti curativi e passare ad interventi palliativi; proprio il progresso delle diverse terapie e strategie in campo medico, ha invece portato alla consapevolezza che la sopravvivenza fisica non è più l’unico risultato da perseguire: oggi il mantenimento di una adeguata qualità di vita durante le cure rappresenta un obiettivo irrinunciabile degli interventi sanitari; in tal senso dovrebbe essere evitata l’ostinazione ad un trattamento curativo quando la guarigione non è più possibile (“accanimento terapeutico”). Il nostro scopo è aggiungere vita agli anni del bambino e non anni alla sua vita. Nella fase terminale della vita di un bambino si possono identificare due periodi: - il primo periodo è quello in cui il trattamento è giudicato non aver più efficacia per quella specifica patologia e ci si sposta quindi dall’intervento curativo alla fase palliativa; - il secondo è il periodo delle cure palliative e dell’accompagnamento alla morte del piccolo. Esiste inoltre una terza fase caratterizzata da un lato dal proseguimento dell’assistenza alla famiglia (in senso lato continuare a prendersi cura del nucleo familiare che ha subito il lutto), e dall’altra dalla revisione critica del lavoro svolto dall’équipe. Il gruppo di lavoro della Pediatria di Treviso, ha individuato nel paziente oncologico quello che attualmente presenta le maggiori problematiche. Ogni anno infatti circa 1300 bambini si ammalano in Italia di tumori solidi, con una incidenza annuale stimata in circa 120-140 casi su 1.000.000 di soggetti di età inferiore a 15 anni. Queste malattie costituiscono la principale causa di morte per patologia nei bambini e negli adolescenti dopo il primo anno di vita e rappresentano 1\3 della mortalità dell’età pediatrica. Tale casistica è stata ritenuta emblematica tra le diverse categorie di pazienti che presentano particolare necessità, sia in relazione a momenti sensibili e di acuzie (comunicazione di diagnosi e fase terminale), che nei tempi della continuità e cronicità. Se in ambito oncologico esiste una discreta letteratura rispetto a tale percorso, scarso è il contributo della letteratura rispetto al piccolo malato cronico con malattia neurodegenerativa o invalidante che giunge alla fine del suo percorso vitale “per consumazione”: in tali situazioni la morte è un fantasma che cresce assieme al bambino, che permea la vita familiare di quel piccolo e, nel momento in cui avviene, è vissuta nella maggior parte dei casi come evento “inaspettato e traumatico” anche da parte dell’équipe medico-assistenziale: è in questi casi che è più frequente e facile osservare quello che abbiamo definito accanimento terapeutico. In generale i suggerimenti proposti per assistere il bambino nella prima fase, durante il passaggio dall’assistenza curativa a quella palliativa sono i seguenti: - elaborare una modalità uniforme di approccio ai problemi chiave legati all’assistenza al bambino in fase terminale (comunicazione, sostegno, controllo del dolore..) basata su una discussione di gruppo; - tutti i membri del gruppo di assistenza sanitaria dovrebbero essere continuamente aggiornati sul decorso del trattamento; - nel processo decisionale dovrebbero essere coinvolti tutti i membri dell’équipe assistenziale, i genitori del bambino, il pediatra di famiglia, le figure professionali del Distretto, il gruppo della Terapia Antalgica e, quando possibile anche il bambino; - il bambino dovrebbe essere aiutato a capire quanto più possibile la serietà della situazione in base all’età ed al livello di maturità, sempre rispettando il suo desiderio eventuale di non voler essere informato; ogni informazione dovrebbe comunque lasciare un margine di speranza; - i desideri dei genitori possono non essere sempre volti al miglior interesse del bambino e talvolta accade che, tentando di proteggerlo, gli creino ancora più paure; in questi casi è essenziale cercare di capire le ragioni di tali comportamenti genitoriali; Nella fase successiva, per assistere un bambino e la sua famiglia in fase terminale è necessario che: - le decisioni mediche riguardanti il controllo del dolore fisico e psicologico e tutti i sintomi emergenti, siano prese non da un solo medico, ma dall’intera equipe; - i bambini che desiderano stare a casa siano assecondati il più possibile ed, assieme ai genitori, possano essere gli ultimi arbitri di questa decisione; - i genitori ed i membri dell’équipe di assistenza ascoltino il bambino e riflettano su ciò che comunica verbalmente e non; - nei casi seguiti a domicilio i membri dell’equipe si rendano disponibili per visite di controllo o chiamate telefoniche (per evitare sentimenti/sensazione abbandonici); - nel periodo che segue la morte siano promossi incontri tra i membri dell’équipe ed i familiari del bambino in modo da chiarire il percorso effettuato ed elaborare meglio il lutto; - dopo la morte del bambino la sua storia medica sia ripercorsa e rianalizzata riflettendo sulle scelte fatte per trarne esperienza per le future famiglie; - l’équipe di assistenza sia preparata a modificare i propri comportamenti ed obiettivi quando necessario basandosi su alcune revisioni critiche dei singoli casi e sui commenti/critiche dei genitori. Come gruppo di lavoro pediatrico, sulla base di tali premesse colte dalla letteratura, abbiamo individuato in questo percorso di accompagnamento tre fasi. FASE DELLA COMUNICAZIONE E’ la fase in cui si comunica il passaggio alle cure palliative. E’ ovviamente un percorso fatto assieme ai genitori, e nei casi possibili, anche assieme al bambino. Il compito di aiutare un bambino a passare attraverso e nella fase terminale di una malattia, è estremamente faticoso e doloroso sia da un punto di vista emotivo che pratico, ed i valori personali, filosofici e culturali della famiglia e dei componenti dello staff di assistenza, condizionano l’evolversi della situazione. E’ fondamentale però che il nucleo familiare abbia sempre chiaro che: - questo “prendersi cura” del loro bambino e di loro stessi come famiglia da parte dell’équipe ha un valore fondamentale che non si esaurirà con la morte del piccolo; - responsabili ultimi di questo percorso decisionale sono sempre i sanitari. Questa fase inoltre è di primaria importanza in quanto segna in modo indelebile il vissuto del nucleo familiare. E’ fondamentale quindi che venga consegnata nelle migliori condizioni. Si sottolinea pertanto l’importanza del tempo e dello spazio dedicati a questo momento, la necessità di individuare la figura del medico più adatto a tale compito valutando caso per caso l’eventuale coinvolgimento del Neuropschiatra Infantile. In base all’età ed al livello di maturità, anche il bambino dovrebbe essere coinvolto in questa fase (Convenzione di Oviedo aprile 1997); dovrebbe conoscere quanto più possibile ed in maniera adeguata al suo livello di maturità la serietà della sua situazione. Tuttavia, se desidera rimanere meno informato, tale desiderio dovrebbe essere rispettato, e qualunque informazione offerta dovrebbe lasciare al piccolo un margine di speranza. L’aspetto più difficili e delicato di questa fase, è proprio la reazione del bambino che sta morendo. Fino alla pre-adolescenza i bambini generalmente comprendono la morte ad un livello diverso da quello degli adulti ed hanno un modo del tutto personale di esprimere la loro conoscenza e le emozioni riguardo alla morte, indipendentemente dal livello cognitivo e di sviluppo raggiunti. Tuttavia è stato osservato che i bambini con tumore spesso raggiungono una comprensione di cosa significhi la morte ad una età più giovane dei loro coetanei sani. Spesso è difficile trovare il momento giusto per iniziare a comunicare con il bambino sulla sua situazione, in quanto vanno rispettati meccanismi di negazione della famiglia e certi preconcetti culturali. Tuttavia non si può ignorare che i bambini sono sempre consapevoli di ciò che sta loro succedendo e di quali siano le loro condizioni; spesso se si nascondono dietro il silenzio è perché vogliono proteggere i genitori. La reazione emotiva del bambino morente deve essere gestita e condivisa: è importante che chi se ne prende cura, lo aiuti ad esprimere i sentimenti di rabbia, paura, tristezza e solitudine ed a manifestare ansie ed angosce. Se il bambino preferisce invece parlarne con la famiglia, i curanti dovranno preparare e sostenere i genitori in questo difficile compito. Cosa comunichiamo : Lo stato clinico del bambino in modo preciso e chiaro, evitando di utilizzare termini prettamente medici/complessi avendo cura di verificare la comprensione delle informazioni fornite, offrendo la disponibilità per ulteriori interrogativi e approfondimenti; Rendere noto che i presidi terapeutici possibili/necessari non hanno dimostrato la loro efficacia per la gravità della situazione; Aiutare i genitori a comprendere che si è giunti “al punto di non ritorno”, che ogni ulteriore terapia, non rappresentando alcun elemento di beneficio, risulterebbe puro accanimento con sofferenza inutile per il bambino; In base all’età del bambino ed alla sua possibilità di comprensione, e con l’opportuno supporto tecnico psicologico, anche al piccolo deve essere data la possibilità di comprendere la situazione; Quando comunichiamo: Nelle problematiche croniche la comunicazione è un elemento quotidiano essenziale sia tra i membri dell’équipe che con i genitori: si giunge così , dopo aver preso atto della situazione , ad una decisione condivisa; Nelle problematiche acute e nel peggioramento improvviso e, se i genitori non sono presenti in reparto, procedendo a una tempestiva convocazione telefonica; Chi comunica: Il medico che in precedenza ha condiviso maggiormente con i genitori la situazione clinica del bambino o, nel caso questi non fosse presente, colui che ha maggiore capacità di comunicazione empatica oltre che conoscere bene quel caso; importante la presenza anche del personale infermieristico che ha maggior contatto con il bambino ricoverato e con la sua famiglia; Come comunicare: Essere vicini allo stato d’animo (di dolore) dei genitori, condividendo lo stato di sofferenza; Evitare qualunque atteggiamento di falso “incoraggiamento” e di frettolosità; Preferire il silenzio, l’ascolto e la presenza, alle parole che potrebbero risultare banali e fuori luogo; Essere in grado di gestire e condividere la reazione emotiva del bambino morente: è importante che chi se ne prende cura lo aiuti ad esprimere sentimenti di rabbia, paura, tristezza e solitudine e a manifestare ansie ed angosce; Evitare di lasciare soli bambino e genitori; Utilizzare il supporto di mediazione linguistica, nei casi che lo richiedano; Chiedere se vi è desiderio di segni che esprimano il loro credo religioso Dove comunicare: In un luogo adeguato ed indisturbato; spesso utilizziamo una grande risorsa del nostro reparto: L’Oasi Pediatrica; Solo in un secondo momento e se ritenuto possibile al letto del bambino; FASE DELL’ACCOMPAGNAMENTO Anche questa deve essere gestita e condivisa dall’équipe medico infermieristica; spesso è presente fisicamente o con contatto telefonico pressoché continuo, il componente dello staff delle cure palliative che ha maggiormente seguito quel bambino. Dare il tempo necessario al bambino e ai genitori di comprendere cosa sta accadendo; Mettere a disposizione la nostra presenza; Favorire il contatto fisico nel modo più ottimale; Essere pronti a provvedere ad esaudire le richieste e bisogni del bambino Provvedere ad una adeguata terapia del dolore; Procedere alla graduale sospensione dei supporti terapeutici (infusione parenterale, farmaci salvavita) Mantenere una presenza attiva continuando le “cure compassionevoli” (esempio: sistemare il bambino, pulirlo, asciugarlo…), per testimoniare che la nostra presa in cura arriva fino alla morte ed oltre; Se non sono presenti i genitori al momento del decesso aspettare il loro arrivo prima di spostare il bambino dal suo posto e procedere successivamente al trasferimento; Dare la possibilità ai familiari (nonni, fratelli!) di rimanere con il bambino, prima del trasferimento, in un luogo vicino alla sua stanza; Garantire il più possibile la “privacy” (ad esempio trasferendo in altre stanze altri eventuali piccoli pazienti con i loro genitori facendo comprendere a questi ultimi la situazione…) FASE DEL FOLLOW-UP o DELL’ELABORAZIONE DEL LUTTO Costituire un gruppo di medici ed infermieri aperto di volta in volta anche a figure che abbiano avuto un ruolo rilevante nella storia clinica di quel bambino, alla scopo di: a) rianalizzare il percorso clinico/terapeutico riflettendo sulle scelte fatte b) elaborare la nostra (degli operatori) reazione di lutto; Tale gruppo promuoverà poi incontri con genitori e familiari che hanno vissuto una esperienza analoga, stimolando la formazione di gruppi di autoaiuto avendo a disposizione per quei genitori che ne sentano il bisogno, un aiuto psicologico; Mantenere un contatto routinario con la famiglia per almeno due anni nelle ricorrenza significative (compleanno del paziente, data di morte, vacanze..). BIBILOGRAFIA - Cure palliative rivolte al neonato, bambino e adolescente. Documento tecnico a cura della Commissione per le cure palliative pediatriche presso il Ministero della Salute - La regione Toscana: realtà e prospettive delle cure palliative in ambito pediatrico. S. Caprilli, A Messeri, P. Busoni. Servizio Terapia del dolore e Cure Palliative. Meyer Firenze − “Quando muore un bambino.” Rivista Italiana di cure palliative. 2001, 9, 1-7 ultima revisione marzo 2009