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LIMES, RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA
pubblicato il 31/10/ 2007 su http://www.limesonline.com
MANGA: IL GIAPPONE ALLA CONQUISTA DEL MONDO
di Marcella Zaccagnino e Sebastiano Contrari
Il tradizionale fumetto nipponico è un riflesso della società giapponese, dei suoi stati
d’animo e dei suoi valori. Le caratteristiche grafiche e l’influenza della storia
nazionale. I temi di moda oggi: revisionismo antiasiatico, nazionalismo e militarismo.
P
aese prettamente feudale e sostanzialmente
autarchico, tanto dal punto di vista economico quanto da quello culturale, il Giappone ha vissuto, a
partire dagli inizi del secolo scorso, uno sviluppo sorprendente. Autore di una delle più incredibili
rivoluzioni industriali, si è in breve imposto come gigante economico, specialmente dopo che la
pesante sconfitta nella seconda guerra mondiale ne ha ridimensionato le velleità politiche . Famoso
per i prodotti ad alto contenuto tecnologico e associato a precisione, puntualità e affidabilità, il
Giappone è però entrato nelle nostre case anche con un biglietto da visita ben differente, sebbene
altrettanto autentico: il “disegno senza senso”, il manga1, accompagnato – anzi preceduto – dalla sua
versione televisiva, l’anime2, cioè il cartone animato. Se è facile comprendere il successo dei prodotti
industriali made in Japan, non altrettanto semplice appare individuare quegli elementi che hanno fatto
del manga il fenomeno di massa che attualmente è, in Giappone e nel resto del mondo.
Un’espansione mondiale
Dopo una lunga fase “autarchica”, in cui le produzioni erano rivolte al mercato interno (ben
presto lievitato a dimensioni enormi3), nel 1976 venne costituito un gruppo internazionale per la
diffusione oltre i confini nipponici della serie Gen dai piedi scalzi4. Dopo un inizio in sordina, i manga
hanno quindi preso piede nel mondo intero – grazie anche alla parallela trasmissione degli anime
nelle reti televisive5 – arrivando al fatturato annuale, a livello mondiale, di 5 miliardi di dollari, oltre
10 volte il valore totale dei volumi d’affari dei corrispondenti settori europeo ed americano messi
insieme. Un fenomeno associabile per dimensioni e impatto sociale alla diffusione della musica rock
anglosassone a partire dagli anni ‘60.
In Asia i manga rappresentano più del 40% della cifra d’affari dei libri giapponesi ed il 70%
delle esportazione nipponiche verso il contenente; se la penetrazione in questa zona – soprattutto nei
paesi emergenti del sud est, quali Corea del Sud6, Indonesia e Tailandia – era tutto sommato
1La parola manga si compone di due ideogrammi: man, che significa grossomodo “casuale”, “involontario” e ga,
“disegno”.
2 La parola anime deriva da animēshon, adattamento giapponese della parola inglese animation.
3 Nel corso degli anni ‘90 le vendite annuali di manga nel solo Giappone hanno raggiunto i 600 miliardi di yen, di cui
350 in albi periodici e 250 in volumi tipo paperback (senza contare i manga pubblicati sui giornali) (Coco Masters, The rise
of Japanese Manga, 10 agosto 2006).
4 Hadashi no Gen, di Keiji Nakazawa, pubblicato tra il 1972 ed il 1975, opera che ha come oggetto l’esplosione della
bomba atomica su Hiroshima.
5 Un ruolo importante in tal senso è stato giocato dalle serie animate mecha (dall’inglese mechanical), che vedono come
protagonisti enormi robot.
6 Il vicino asiatico ha tra l’altro dato vita ad una propria autonoma produzione, i manhwas, con caratteristiche molto
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abbastanza prevedibile per il comune fondo culturale, colpisce il successo riscosso negli Stati Uniti
e in Europa, aree dotate di proprie e consolidate tradizioni fumettistiche. Negli Usa il fatturato dei
manga è triplicato in tre anni raggiungendo, nel 2005, i 180 milioni di dollari7. Quaranta quotidiani
pubblicano fumetti nipponici nelle loro “funny pages” e le versioni paperback da 200 pagine si stanno
diffondendo sempre più anche nelle librerie.
In Europa i manga hanno ormai conquistato il 75-80% del relativamente piccolo mercato
tedesco, ma soprattutto hanno invaso la floridissima (e a priori sciovinista) piazza francese, che è
ormai diventata il loro secondo mercato mondiale dopo quello domestico. Nel 2006, sulle 3195
nuove uscite in Francia e nello spazio francofono europeo, ben 1110 sono state traduzioni di manga8.
Il dato sale addirittura a 1418 se si contano gli altri “asiatici” ispirati ai canoni giapponesi, in primis i
coreani9. I fumetti giapponesi rappresentano ormai stabilmente oltre il 30% della produzione e della
cifra d’affari del mercato francese10, vengono pubblicati non più da editori di nicchia ma da editori
tradizionali quali Dargaud e Glenat e la “nostra” Panini e dispongono di 80 fumetterie specializzate
e di un festival ad hoc (Japanexpo11). Le stime parlano di un ragazzo francese su due, tra i 9 e i 13
anni, che legge fumetti nipponici.
Anche in Italia i numeri sono di tutto rispetto. Sui 2800 titoli pubblicati nel 2005 si contava
un 58% di traduzioni in gran parte nippo-coreane, tanto in edicola quanto nelle fumetterie.
Sintomatica del carattere globale del fenomeno è poi l’influenza che i fumetti e i cartoni animati
giapponesi esercitano sulle arti contemporanee12 come pure la crescente diffusione di manga “non”
made in Japan. Le marcate caratteristiche grafiche e narrative di manga e anime sono infatti utilizzate
sempre più frequentemente come modello da autori e produttori americani e europei13.
Manga e Anime
Il primo ad utilizzare la parola manga per definire le proprie creazioni artistiche fu il celebre
pittore ed incisore Katsushika Hokusai, che, a partire dal 1814, pubblicò una raccolta di schizzi di
contenuto vario. Le immagini non avevano alcun collegamento logico né una precisa ragion
d’essere. Ecco perché il maestro le definì “casuali”, “senza ragione”.
Convenzionalmente tuttavia l’antenato del fumetto giapponese viene individuato nell’ukiyo-e
(“immagini del mondo fluttuante”, che, a partire dal XVII secolo, venivano incise su blocchi di
legno e illustravano racconti della tradizione popolare cinese e vicende della vita quotidiana delle
vicine al modello originale, tanto che in Europa le due industrie vengono solitamente assimiliate.
7 Coco Masters, America is drawn to manga http://www.time.com/time/insidebiz/article/0,9171,1223355,00.html.
8 Si riportano alcuni dati sui titoli giapponesi e americani pubblicati in Francia, che dimostrano l’impressionante
progressione nipponica: 2001: GIA 269, USA 99; 2002: GIA 377, USA 129; 2003: GIA 377, USA 142; 2004: GIA 617,
USA 163; 2005: GIA 937, USA 207; 2006: GIA 1110, USA 239 L
( ’Année de la BD, Paris, 2004 e sito
www.toutenbd.com).
9 Segnatamente 259 sud-coreani (erano 195 nel 2005), 41 cinesi (compreso Hong Kong, rispetto a 10 nel 2005), 6 di
Singapore, 1 di Taiwan e 1 indiano (non ve ne erano stati nel 2005).
10 Il numero di uscite mensili dovrebbe raggiungere le 100 unità. Le tirature sono peraltro molto inferiori ai campioni
nazionali come ad esempio “Asterix”: nel 2006 la popolare serie Naruto è stata stampata “solamente” in 130.000 copie.
11 Anche nell’ambito del celeberrimo Festival di Angoulême nel 2005 è stato allestito per la prima volta un apposito
spazio manga di 500 mq.
12 Solo per fare esempio, l’americano Frank Miller, in assoluto uno dei più grandi fumettisti contemporanei, riconosce
di essere stato profondamente influenzato tanto a livello grafico che di contenuti da autori quali Kazuo Koike. Come
non ricordare poi gli omaggi ai pulp nipponici resi da Quentin Tarantino in Kill Bill?
13 Il francese Frédéric Boilet ha fondato il movimento “nouvelle manga” che punta a combinare le caratteristiche di
sofisticata quotidianità dei fumetti made in Japan con lo stile tradizionale dei fumetti franco-belgi (vedi il sito
http://www.boilet.net/fr/nouvellemanga.html). Anche l’italiano Igort (vedi l’articolo «Pianeta Manga» apparso sul
Quaderno Speciale di Limes n.2/2007) ha ottenuto un buon successo in Giappone. Sul piano produttivo, anche in Italia
cominciano ad apparire manga di autori nostrani, tanto che la stessa sede italiana della Disney ne sta considerando la
possibilità (Annuario del fumetto n. 11, pubblicato dalla rivista Fumo di China nel giugno 2006).
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classi più basse14), poi evolutosi – con l’influenza dell’arte e della cultura occidentali penetrate in
Giappone durante l’era Meiji (1868-1912) e durante l’occupazione americana dopo la seconda
guerra mondiale – nel ponchi-e (per lo più strisce composte da quattro vignette). E’ in quest’ultima
forma che il fumetto moderno debutta nel 1946 sulle pagine dei giornali nipponici: sull’edizione di
Osaka del Shokokumin Shimbun fa la sua comparsa Il diario di Ma-chan, scritto e disegnato da un
giovane studente universitario, Osamu Tezuka, che meriterà l’appellativo di “dio del manga”. Il
successo della serie è tale che Il diario di Ma-chan diventerà presto un prodotto editoriale autonomo.
Anche la storia dell’anime vede come protagonista e capostipite Osamu Tezuka. Sebbene i
primi lungometraggi risalgano agli anni ‘40 e ‘5015, l’industria del cartone animato giapponese
nasce nel 1963 con la casa di produzione Mushi, fondata proprio da Tezuka, e la prima grande opera
seriale racconta le avventure di Astroboy (Tetsuwan Atom), adattando il manga che già da un decennio
aveva definitivamente sancito il successo e la fama del grande maestro.
Nel corso del tempo il fumetto giapponese ha finito per assumere caratteri stilistici e
contenutistici assai precisi, che rimandano ad una chiara connotazione nazionale (e anche nel resto
del mondo i manga sono diventati un vero e proprio “genere” di fumetto, alla stregua del
supereroistico americano e della vecchia linea chiara franco-belga).
Uno dei tratti più noti ed evidenti del manga sono i grandi occhi “a finestra” dei personaggi.
Anche in questo caso la “responsabilità” va attribuita a Tezuka, il quale aveva cominciato a
disegnare sin da bambino copiando vignette giapponesi ma anche i personaggi allora maggiormente
popolari dell’animazione americana: il Topolino di Walt Disney, la Betty Boop o il Braccio di Ferro
di Max Fleischer. L’interpretazione più romantica vuole che essendo gli occhi lo specchio
dell’anima e avendo i protagonisti dei manga delle grandi anime, anche i loro occhi non possano che
essere grandi. Per altri, gli autori giapponesi adotterebbero questo escamotage per rendere i loro
personaggi meno tipicamente nipponici e più facilmente “esportabili,” o, addirittura, per un
inconsapevole senso di inferiorità rispetto al modello fisico occidentale16.
Carattere distintivo del fumetto giapponese è inoltre la sua rapida leggibilità:
convenzionalmente si ritiene che una pagina possa essere letta in tre secondi mentre quella di un
fumetto occidentale richiede fino a qualche minuto. Peraltro, se è indubbio che il segno dei manga
sia assai incline alla dinamicità ed alla spettacolarizzazione – tendenza cui si abbina, sul piano dei
contenuti, quella ad alternare registri drammatici e comici – non mancano opere che si
caratterizzano per una notevole “lentezza” ed un estremo virtuosismo grafico17.
Al di là di questa sommaria schematizzazione, l’anime ed il manga – che restano strettamente
legati, anche sul piano produttivo18 – hanno ben presto dimostrato di essere strumenti flessibili e
capaci di rispondere alle esigenze e ai gusti del pubblico, prima in Giappone e poi nel mondo. A
partire dagli anni ‘70 si assiste infatti al proliferare di serie destinate a diverse tipologie di lettori:
dai bambini (kodomo), agli adolescenti (shonen), alle ragazze (shojo), fino ad un pubblico più maturo,
maschile (seinen) o femminile (josei), o ancora che predilige le tematiche più realistiche e sociali
(gegika). Ciascun genere ha sviluppato caratteri propri, tanto dal punto di vista dello stile quanto per
14 Secondo altre interpretazioni le origini dei manga risalirebbero addirittura alle Emakimono (“rotoli di immagini”) ed
alle Ezoshi (“pergamene di immagini) del periodo Heian (794-1185). Altri infine ricordano i Toba-esankokushi (“immagini
nello stile di Toba”), specie di albi apparsi per la prima volta nel 1702. E’ indubbio, in ogni caso, che l’esplosione dei
manga nel XX secolo poggi su una lunga tradizione di narrativa grafica sequenziale.
15 Oltre al film propagandistico Momotaro, il soldato divino venuto dal mare, prodotto nel 1943, si ricorda La leggenda del
serpente bianco di Taiji Yabushiya, lungometraggio ispirato ad una fiaba cinese realizzato nel 1958.
16 La tradizione di attribuire ai personaggi caratteristiche somatiche e di abbigliamento abbastanza “occidentalizzanti”,
risalirebbe, secondo lo studioso di cultura popolare Yasuo Nagayama, alla guerra con la Russia del 1904-1905, nei cui
disegni i giapponesi venivano presentati più alti, con nasi più dritti, insomma più belli ed “europei” dei loro nemici.
17 Si vedano, solo per fare due esempi, il divertente e raffinatissimo “Gon” di Masashi Tanaka e le opere di Jiro
Taniguchi, come Ai tempi di Bocchan, che offre un’intelligente e colta rappresentazione a fumetti dell’era Meiji, con le
sue tensioni tra intellettuali occidentalizzanti e caste nobiliari e militari più tradizionaliste.
18 Di moltissimi fumetti esiste una versione televisiva (cinematografica, in misura minore) e dai racconti nati per il
piccolo/grande schermo vengono tratte versioni cartacee.
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ciò che riguarda i contenuti (anche se ciascun autore introduce, come è logico, varianti anche
significative). Il tutto inserito in un tessuto produttivo fortemente organizzato, un’industria
efficientissima in grado di produrre un numero enorme di pagine e fotogrammi a settimana, ma
capace al contempo di lasciare spazio anche a produzioni di qualità più elevata.
Benché l’ultimo decennio abbia fatto registrare un calo delle vendite (dai 584 miliardi di yen
del 1996 si è scesi ai 481 dello scorso anno), imputabile all’assottigliamento della popolazione
giovanile e alla crescente attrattiva dei nuovi media, il manga continua ad avere in Giappone un
impatto sociale senza pari19 rispetto a quello che i fumetti esercitano nel resto del mondo. Pubblicati
su riviste contenitore settimanali o periodiche tirate in milioni di copie20 sono letteralmente
“consumati” negli spostamenti da e per l’ufficio oppure in luoghi sorprendenti come i mangakissas,
caffè aperti 24 ore su 24, dove si possono leggere manga fino a sfinimento, fare una doccia, dormire
qualche ora e ripartire al lavoro. Tirature enormi hanno pure i volumetti di lusso monografici tipo
paperback, chiamati tankōbon, con cui vengono raccolte le storie già apparse a puntate sulle riviste.
Tutte pubblicazioni lette avidamente da lettori di ogni fascia d’età e di ambo i sessi (caratteristica
questa che si replicherà anche nei mercati stranieri, come quello europeo e americano, dove invece
tradizionalmente i lettori di fumetti sono prevalentemente maschi).
Anche in Europa negli ultimi dieci anni sono ormai milioni gli adolescenti che si sono nutriti
di manga e anime. I fumetti giapponesi hanno in particolare occupato - specie presso il pubblico
femminile - il ruolo che un tempo avevamo i romanzi di formazione. Il genere ha in ogni caso dato
vita ad un codice culturale che i più grandi non comprendono.
I recenti riconoscimenti (l’Orso d’Oro al Festival del Cinema di Berlino del 2002, l’Oscar
del 2003 al lungometraggio La città incantata di Hayao Miyazaki ed il Leone d’oro alla carriera
consegnato allo stesso Miyazaki nell’edizione 2005 del Festival del cinema di Venezia) dimostrano
che anche al di fuori dei confini dell’arcipelago i fumetti ed i cartoni animati nipponici stanno
acquistando dignità di arte. Un’arte che, pur non disdegnando nuove, proficue contaminazioni con
l’Occidente21, continua ad attingere alla tradizione grafica e culturale giapponese e asiatica.
Come nel caso della più famosa serie degli anni ’90, Dragon Ball di Akira Toriyama, il cui
protagonista Goku, bambino di origine aliena, altro non è che la rilettura di un personaggio della
mitologia cinese: lo scimmiotto Son Goku, protagonista di Viaggio in Occidente, un romanzo del XVI
secolo basato su antichi racconti popolari, in cui si narra la storia di un monaco che parte alla
ricerca di alcuni preziosi testi sacri accompagnato da tre discepoli, tra cui il re scimmia22.
Insomma, presente e futuro non possono prescindere dal passato, da quelle millenarie
credenze su cui il popolo giapponese ha negli anni forgiato la propria civiltà (del resto quello della
linearità della storia è un concetto proprio del modo di pensare occidentale…). Mazinga e i suoi
fratelli appaiono così la metafora grafica di una sorta di tendenza Meiji che continua a perpetuarsi e
che ibrida apertura alla modernità, all’Occidente, senza però rinnegare le proprie profonde radici
culturali.
19 Per un inquadramento generale del tema, vedi Jerome Schmidt Hervé Martin Delpierre, Les mondes manga, 2005.
20 In Giappone vengono pubblicati 13 settimanali, 10 bisettimanali e circa 20 mensili dedicati solo ai fumetti, molti dei
quali raggiungono il milione di copie di tiratura (Coco Masters, The rise of Japanese Manga, 10 agosto 2006).
21 Si veda ad esempio l’opera Icaro, nata nel 2001 dall’incontro tra il più grande autore giapponese vivente, Jiro
Taniguchi, ed il francese Jean Giraud / Moebius (maestro europeo per eccellenza, autore con il proprio nome del
western Blueberry e con lo pseudonimo del futuristico ciclo L’Incal).
22 La tendenza a trasformare in alieni personaggi della mitologia classica è stata anticipata da Uruseiyatsura
(approssimativamente traducibile come “gente rumorosa dalle stelle”) creato nel 1978 da Rumiko Takahashi, la
“principessa dei manga”. La serie racconta le disavventure di Ataru Moroboshi, un adolescente per lo più dedito a correre
dietro alle gonnelle, la cui vita viene rivoluzionata dall’arrivo sulla terra di Lamù, bellissima principessa aliena. Lamù e
la sua famiglia provengono dal pianeta Uru, ma sono in realtà degli oni, creature mitologiche simili agli orchi. Nella
serie non mancano di fare la loro comparsa altri personaggi facilmente riconducibili a protagonisti di antichi miti e
leggende asiatiche.
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Akira e l’ombra della bomba. Gli eroi bambini
Il manga affronta spesso - come tema centrale, come presupposto narrativo o semplicemente
come scenario - l’argomento della bomba. Trauma e poi, con l’umiliante atto di resa totale,
vergogna nazionale, i fatti di Hiroshima e Nagasaki non trovano del resto spazio nelle
rappresentazioni “ufficiali” del Paese del Sol levante, restando un fatto intimo, nascosto nella
coscienza dei singoli e della nazione.
La prima opera di notevole valore artistico che si confronta con l’argomento è
l’autobiografico e monumentale Hadashi no Gen (Gen dai piedi scalzi), creato da Keiji Nakazawa. La
serie, pubblicata dal 1972 al 1975, racconta in modo crudo i tragici giorni dell’esplosione atomica
di Hiroshima di cui l’autore era stato giovanissimo testimone. Ma a sviluppare in maniera
magistrale il tema della bomba è soprattutto Akira, lungometraggio di animazione realizzato nel
1988 per la regia di Katsuhiro Otomo a partire dall’omonima serie a fumetti apparsa nel 1982.
L’azione è ambientata in una Neo-Tokyo che ricorda le atmosfere di Blade Runner e dove la
vita umana vale quanto per i protagonisti di Arancia Meccanica. Il film narra le drammatiche
avventure di un gruppo di adolescenti che si trovano loro malgrado a fare i conti con i tentativi
eversivi di una banda di ribelli, i piani segreti di una sinistra giunta politico-militare, ed un
misterioso progetto scientifico incentrato sullo sviluppo di poteri extrasensoriali. Sullo sfondo, una
città-ghetto, moderna e degradata, abitata da una popolazione anonima e massificata, visibilmente
priva di valori, di scopi, di fede, che nell’ecpirosi finale verrà nuovamente distrutta.
In Neon Genesis Evangelion, serie animata sceneggiata e diretta da Hideaki Anno nel 1995, ci
troviamo addirittura a Neo-Tokyo Tre. Qui l’umanità cerca di risorgere per l’ennesima volta, dopo
una misteriosissima devastante esplosione, e si preoccupa di scongiurare quella che probabilmente
sarà la distruzione finale, il temuto “third impact”. La serie mescola riferimenti biblici, cabala e
persino mitologia babilonese agli elementi tipici delle serie robot, e accentua gli aspetti apocalittici
diluendoli in ampi spazi dedicati alla riflessione intimistica, alla psicologia dei personaggi, alle loro
paure.
Quello che sorprende è che, quali che siano le ragioni e le modalità dell’apocalisse, due sono
le risposte che l’umanità – in questo compito rappresentata, se non incarnata dal popolo giapponese
– propone: quella tecnologica e quella umana. Da un lato, con l’ausilio delle più moderne tecniche e
materiali, si riedifica la città (e quindi la polis, nel suo significato più ampio); dall’altro, si genera un
nuovo essere umano che ha sempre, bene o male, le medesime caratteristiche. Un po’ come il
Giappone ha saputo trascendere i limiti imposti dalla conformazione del proprio territorio e
trasformarsi in superpotenza economica, così la nuova umanità saprà superare i propri limiti fisici,
sviluppando le capacità della mente, imparando a gestire il suo immenso potenziale (a volte anche
distruttivo), sublimandosi. Ed il messaggio suona più o meno così: l’uomo conserva in sé una tara,
il destino tragico dell’autodistruzione. Solo un nuovo essere – sia esso il frutto del connubio con la
macchina o della commistione col divino – potrà opporsi a tale inevitabile deriva.
Occorre insomma un “salvatore”, un eroe, ma non aspettiamoci niente che assomigli ai
supereroi a stelle e strisce. Nella stragrande maggioranza dei casi l’eroe giapponese è infatti un
bambino o, al più, un adolescente, con una particolare sensibilità.
E’ evidente che una spiegazione meramente “commerciale” di tale fenomeno (del tipo: gli
eroi sono ragazzini, perché ragazzini sono i destinatari del prodotto), non è convincente, in quanto
diversi titoli sono chiaramente pensati per un pubblico adulto. La risposta va probabilmente cercata
nell’articolazione sociale del Giappone, caratterizzata da una forte gerarchizzazione dei rapporti e
dei valori, con un severo sistema scolastico che, sin dai primi anni, mira a selezionare i pochi
destinati a diventare la classe dirigente ed i molti che invece formeranno gli ingranaggi di quella
macchina perfetta che è l’economia giapponese. Le storie ambientate tra i banchi di scuola sono
tantissime e descrivono la vita perfettamente irreggimentata di bambini e ragazzi che dividono il
loro tempo tra le lezioni e le attività extracurricolari (obbligatorie): club sportivi, artistici, musicali,
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teatrali, scientifici. L’impegno che i giovani protagonisti profondono in tali attività non fa altro che
evidenziare la paura di un futuro di monotonia e appiattimento. Insomma, l’adolescente è ancora
libero di disegnare il proprio avvenire, di dimostrare di possedere quel talento in più che lo
differenzierà dalla massa dei suoi coetanei, evitando così di diventare una semplice casella in un
organigramma, i cui bisogni e aspirazioni si troveranno in secondo piano rispetto all’interesse
collettivo o dell’azienda.
Il bambino giapponese peraltro continua ad assomigliare incredibilmente ad un adulto. Egli
si fa carico del proprio compito, affronta con serietà e dedizione la propria missione - che si tratti di
portare la propria squadra alla vittoria del campionato o di sbaragliare definitivamente i mostri
alieni che minacciano la città. Ma soprattutto l’eroe-bambino resta un eroe “sociale”, e in questo è
profondamente asiatico. Raramente lotta per la propria affermazione come singolo; più spesso per il
successo del gruppo e dell’intera umanità. Anche se la sua eccezionalità lo rende unico, come per
l’adulto la sua responsabilità è “collettiva”. Per questo l’eroe, il campione, oltre a fare parte di una
squadra, è anche colui che più degli altri è disposto a dare per l’obiettivo comune. Quello che si
allena più duramente, quello che non si arrende e combatte anche quando è gravemente ferito.
Quello che è pronto al sacrificio estremo.
Il concetto di impegno e quello di sacrificio sono praticamente onnipresenti nella produzione
fumettistica nipponica, fusi in un’endiadi, a dare forma ad una sorta di religione laica che allo stesso
tempo esalta la virtù dell’individuo e la “costringe”, la lega, la limita. Non a caso la parola kamikaze
è giapponese.
I manga e la storia, tra pacifismo e nazionalismo
L’etica del sacrificio è molto presente anche nell’opera di Osamu Tezuka, il maestro del
manga, che al pieno della maturità ha affrontato i temi più delicati e spinosi della storia
contemporanea del Paese. La Storia dei tre Adolf guarda alle atrocità naziste, agli eventi bellici ed ai
loro riflessi sulla vita quotidiana del Giappone attraverso gli occhi di un bambino, anzi due: Adolf
Kaufman ed Adolf Kamil, l’uno figlio del console tedesco a Kobe, l’altro di un panettiere ebreo
emigrato nella città giapponese, hanno infatti 9 anni quando incomincia la narrazione, nell’agosto
del 1936 (il terzo Adolf è invece il dittatore tedesco).
Opera di denuncia, La storia dei tre Adolf23 non tralascia di descrivere con crudezza tecniche di
tortura e metodi squadristi, ma soprattutto punta il dito contro la piaga della discriminazione
razziale, smascherando i moventi economici ed i giochi di potere che, camuffati da patriottismo od
interesse nazionale, spinsero gli Stati, Giappone compreso, all’imperialismo. Il Giappone ha vissuto
solo marginalmente la questione ebraica24, ma non viene comunque presentato immune da colpe. La
penetrazione nipponica in Manciuria, fortemente voluta da gruppi di pressione legati ad ambienti
latifondisti e dell’industria pesante, si tradusse, a partire dal 1931, in un’occupazione militare
caratterizzata da episodi di violenza e di odio etnico. E questo è il racconto delle scene di
sopraffazione di cui si resero protagonisti i soldati giapponesi, attraverso gli occhi di un bambino: “i
manciuriani erano continuamente maltrattati dai soldati giapponesi. A scuola mi insegnavano come
questo avvenisse in nome della cosiddetta “guerra santa”. Continuavo a chiedermi perché i
giapponesi trattassero in quel modo i manciuriani quando vivevamo tutti nello stesso posto,
mangiavamo lo stesso cibo… Capii che la giustizia che impariamo a scuola non aveva niente a che
fare con i concetti di giusto o sbagliato, ma che serviva per giustificare l’oppressione e il potere.” E
ancora: “Il patriottismo. Non sopporto tutte quelle idiozie sullo spirito giapponese (…) E’ tutta
propaganda… è una scusa per combattere un’altra guerra. (…) No! Non avrò niente a che fare con
un patriottismo che nutre l’odio e la discriminazione”. Insomma, un’opera tutt’altro che banale, che
nell’analizzare questo drammatico momento storico dà ampio spazio a temi e sensibilità
23 L’opera è stata pubblicata in Italia dalle Edizioni Hazard in 5 volumi.
24 La storia dei tre Adolf cita peraltro il poco conosciuto tentativo di ebrei dell’est Europa di sfuggire alle persecuzioni
naziste scappando dalla Lituania alla Cina, in Giappone e quindi negli Stati Uniti.
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antimilitariste, secondo un filone peraltro non nuovo nell’arcipelago25.
Ma le cose cambiano. A meno di vent’anni da questa severa condanna dell’odio interetnico,
alcuni osservatori26 si sono inquietati per il successo riscosso nel 2005 da due volumetti di 300
pagine colmi di tesi neonazionaliste e revisioniste e di messaggi negativi sui vicini cinesi e coreani.
Si tratta di Introduzione alla Cina – Studio del nostro crudele vicino, manga di George Akiyama sotto la
supervisione di Ko Bunyu27, e di Kenkanryu (Abbasso la moda coreana), di Sharin Yamano, indirizzato
invece contro la Corea del Sud.
Il primo descrive il popolo cinese come dedito a cannibalismo, criminalità e prostituzione, e
contiene messaggi come “prendete la Cina di oggi: i suoi principi, il suo pensiero, la sua letteratura,
la sua arte, la scienza, le istituzioni. Non c’è nulla di attraente”.
Il secondo narra invece il percorso di una teenager giapponese, Kaname, che cerca di
comprendere la Corea del Sud contemporanea e la “moda coreana” (ovvero le produzioni televisive,
cinematografiche e musicali che sono entrate prepotentemente in Giappone e nel resto dell'Asia,
spesso subentrando proprio a prodotti nipponici – a partire dai mondiali di calcio cogestiti del
2002). Quale reazione a tale moda è ben presto emerso - specialmente sul web - un sentimento
anticoreano su cui è appunto basato il manga di Yamano28. L'opera prende spunto da alcune partite
di calcio, compreso il match con l’Italia diretto da Moreno, il cui arbitraggio è stato contestato, per
affrontare tutti gli aspetti controversi delle relazioni tra i due paesi (il ruolo dell’occupazione
nipponica dal 1919 al 1945, la disputa territoriale sulle isole Dokdo-Takeshima, ecc…), arrivando a
concludere che la Corea del Sud contemporanea deve molto del suo successo alla colonizzazione
giapponese. “Non è un’esagerazione dire che è stato il Giappone a costruire la moderna Corea del
Sud!” esclamerà verso la fine la giovane Kaname, senza che il suo interlocutore coreano sia in
grado di ribattere alcunché.
Certo, i manga nazionalisti non rappresentano una novità assoluta, almeno in termini storici.
Dopo gli anni ‘20, in cui con l’emergere di un movimento socialista erano aumentate le serie
parodistiche e di ambientazione proletaria, negli anni ‘30 molti manga avevano sostenuto la
propaganda militarista dell’Impero, allora in fase di piena espansione nel Pacifico. Nell’arcipelago
il fumetto più popolare tra le due guerre è stato Norakuro29 di Suihō Tagawa, che narrava le gesta
guerresche di un generale dell’esercito dei cani feroci, impegnato a combattere contro capre, orsi e
maialini, i quali alludevano rispettivamente a manciù, russi e cinesi30.
Nel dopoguerra l’occupazione alleata aveva vietato di produrre romanzi, film e manga che
parlassero di samurai, arti marziali, mondo militare o di questioni storiche in genere, nonché drammi
ambientati su campi di battaglia. La firma dell’accordo di pace di San Francisco permise di
rimuovere queste proibizioni e portò alla pubblicazione di alcune nuove serie di tipo jidaimono31,
25 Ad esempio il satirico Roboto Santoohei, realizzato da Koremitsu Metani nel 1952 ed i racconti di Reiji Matsumoto,
che presentano alleati e nemici entrambi vittime di sistemi omicidi, nonché il già citato Gen dai piedi scalzi che si
scaglia pesantemente contro i “signori della guerra” sia giapponesi che americani. I primi infatti discriminano Gen,
figlio di un obiettore di coscienza, mentre i secondi causano la morte di tutta la sua famiglia con la bomba di
Hiroshima. Un antieroe ante litteram era inoltre apparso già nel 1926, nella serie Il padre ottimista di Yutaka Aso, il cui
protagonista incarnava i caratteri tradizionali di umiltà e di umanità del popolo.
26 Vedi gli articoli «Ugly Images of Asian Rivals Become Best Sellers in Japan» di Norimitsu Onischi, sul New York
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Times del 19 novembre 2005, «Ultranationalist manga gain popularity in Japan as regional tensions rise», uscito su
Associated press del 1° dicembre 2005 e Manga nazionalisti contro Cina e Corea di Federico Rampini, apparso su
La Repubblica il 12 dicembre 2005.
L’autore, cinese di Taiwan residente in Giappone da quarant’anni, aveva già pubblicato numerosi libri denigratori
sulla Cina.
Lo stesso Yamano aveva inizialmente dedicato un proprio sito a tale argomento.
Abbreviazione di Norainu Kurokichi, “cane nero e randagio”.
Il fumetto – che raccoglieva l’ostilità della gerarchia militare, la quale non gradiva la presentazione di un esercito
guidato da un cane, per giunta randagio – fu chiuso nel 1941. Sempre nel periodo prebellico erano assai popolari
anche Le avventure di Dankichi, di Shimada Keizo, pure impregnate di cultura militarista.
Racconto storico ambientato nel Giappone medievale, cui protagonisti sono samurai e guerrieri ninja. Il genere, molto
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quali Igsarikun (1952) e Akado Suzunosuke (1954). Ma fino a tutti gli anni ‘70 nei manga continuarono
ad essere sostanzialmente evitate le vicende della seconda guerra mondiale. Le rare opere che
trattavano il tema lo facevano con un taglio essenzialmente pacifista o comunque critico nei
confronti delle alte gerarchie politiche e militari nazionali32 cui si attribuiva buona parte della
responsabilità del conflitto.
Solo gradualmente, quindi, ricominciano ad apparire titoli che presentano un’immagine
positiva delle forze militari giapponesi. Nel 1989 Kawaguchi Kaiji, il mangaka che diventerà lo
specialista del genere, dà alle stampe Chinmoku no kantai (Il vascello silenzioso), storia di un
sottomarino nucleare che dichiara l’indipendenza sia rispetto al governo giapponese che agli alleati
Usa, mentre in Gunkutsu no hibiki (Rumore di scarpe), opera pubblicata nel 1993, si evoca
addirittura l’invio di truppe in Indonesia per proteggervi gli interessi economici giapponesi33.
Aldilà dei manga nel corso degli anni ‘90 emerge una importante corrente revisionista,
organizzata attorno alla cattedra del professor Nobukatsu Fujioka, autore del libro Ciò che non ci
insegnano i manuali di storia e all’“Associazione per la revisione dei manuali di storia per le scuole”
fondata da Kanji Nishio34. Il campo revisionista punta a minimizzare – se non a negare apertamente
– le responsabilità dell’esercito imperiale nel massacro di Nanchino del 193735.
Nel 1995, in linea con tali tendenze, il mangaka Yoshinori Kobayashi inizia a pubblicare Shin
gōmanism sengen, ovvero il Manifesto per un nuovo “orgoglismo”, neologismo che serve ad indicare il
nuovo orgoglio nazionale del Giappone non più schiacciato dai sensi di colpa per le malefatte del
passato imperiale, che sarebbero state inventate o indebitamente ampliate dagli alleati e dai paesi
avversari storici. Con toni sovente gridati e provocatori, Kobayashi attribuisce la prostituzione
forzata nei bordelli militari giapponesi ai collaboratori cinesi anziché agli occupanti nipponici e
sostiene che le proporzioni del massacro di Nanchino sarebbero state ingigantite ad arte dagli
Alleati per controbilanciare le 300.000 vittime giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. L’autore passa
poi sotto silenzio le sperimentazioni chimiche e batteriologiche condotte tra il 1936 ed il 1945 su
prigionieri cinesi dalla famigerata Unità 731 36 e rivaluta invece l’azione dei tokkōtai37, forze speciali
di attacco specializzate in operazioni suicida.
popolare negli anni precedenti “la guerra del Pacifico”, godrà di un forte rilancio a partire dagli anni ‘80.
32 E’ il caso di Kuroi ame ni starete (Toccato dalla pioggia nera), apparso nel 1968 e del più volte citato Gen dai piedi scalzi,
come pure di Hai no ki (Diario di fuga) di Shigeru Mizuki e più tardi ancora della Storia dei tre Adolf.
33 Tanabe Setsuo pubblica invece, nel 1998, Sengoku Jieitai (Le Forze di Autodifesa al tempo dei signori della guerra),
protagonista del quale sono le Forze di Autodifesa giapponesi che, trasportate indietro nel tempo, hanno il compito
di contribuire all’unificazione del paese. Nel 2001 anche Kawaguchi farà viaggiare nel tempo i militari giapponesi
con la fortunata serie Zipang, in cui una nave ultramoderna della marina si ritrova proiettata nel 1942 e deve
affrontare il dilemma se partecipare o meno alla guerra del Pacifico, con il rischio di cambiare la storia. Nella serie
si sviluppa, tra l’altro, il contrasto culturale tra i giapponesi dell’epoca, dipinti come imperialisti ed arroganti, e
quelli moderni, più pacifici.
34 Sul tema del revisionismo e dei manuali scolastici si veda Nello Puorto, «Fra Cina e Giappone il passato non
passa», su Limes n. 4/2005.
35 Nell’inverno del 1937 le truppe nipponiche espugnarono Nanchino, allora capitale della Cina repubblicana di
Chiang Kai-shek, perpetrando atrocità note anche come “lo stupro di Nanchino”. Nel dopoguerra i tribunali militari
di Tokyo e Nanchino condannarono alla pena capitale diversi ufficiali giapponesi. Durante i processi venne
dichiarato che il bilancio delle vittime era di oltre 300.000 morti. Questa cifra è stata oggetto di ripetute smentite, da
parte giapponese, a partire dagli anni ’80, giungendosi infine a definire il massacro, nei testi scolastici, come un
semplice “incidente”.
36 L’unità fu incaricata di studiare e testare armi chimiche e biologiche, attraverso la diffusione di agenti patogeni tra la
popolazione civile ed i prigionieri mancesi. Secondo lo studioso americano Sheldon H. Harris (Factories of Death:
Japanese Biological Welfare, 1932-1945, and the American Cover-Up, 2002) le persone infettate sarebbero state 200.000.
Sull’argomento si soffermerà Introduzione alla Cina per affermare che le attività dell’Unità 731 erano in realtà dirette a
proteggere i soldati giapponesi. Tesi anologhe sono riprese anche da esponenti nazionalisti come la nipote del
generale Hideki Tojo, primo ministro durante la seconda guerra mondiale (Paolo Salom «L'attacco a Pearl Harbour?
Una missione di difesa», Il Corriere della Sera del 30 luglio 2007).
37 Abbreviazione di tokubetsu kōgeki tai, ovvero “unità d'attacco speciale” (sinonimo di kamikaze).
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Nella parte del Manifesto dedicata alla guerra (il Sensōron, che raggiungerà le 500.000 copie di
tiratura), Kobayashi presenta quindi l’espansionismo nipponico nel Pacifico come una guerra di
liberazione dell’Asia orientale dagli imperialisti occidentali, riprendendo le tesi propagandate
all’epoca dall’esercito imperiale38. Questa interpretazione ha suscitato scalpore anche nei paesi
vicini: l’apparizione nel 2001 dell’album Taiwan ron (Su Taiwan), dedicato a Taipei, in cui veniva
elogiata la colonizzazione nipponica dell’isola dal 1895 al 1945, ha fatto sì che l’autore fosse
dichiarato persona non grata per qualche settimana.
Ritornando ai giorni nostri, l’importanza di Abbasso la moda coreana e Introduzione alla Cina non
va sovrastimata. Il primo è stato rifiutato da numerose case editrici giapponesi prima che la
Shinyusha – non una delle maggiori – accettasse di pubblicarlo nel luglio 2005, con una tiratura di
30.000 copie (giunte però in pochi mesi, con successive ristampe, a 360.000 39). Se i principali
commentatori revisionisti ne hanno salutato la pubblicazione, il prestigioso quotidiano Mainichi
Shimbun ha invece rifiutato di accoglierne la pubblicità, mentre altri tre importanti giornali hanno
pubblicato editoriali di condanna del fumetto 40. Aperte contestazioni sono apparse su molti blog e siti
internet, fino alla pubblicazione di un libro di confutazione delle tesi contenute nel fumetto (che
prudentemente è stato intitolato Questa parte di Kenkanryu non ha senso). Da ultimo, nel febbraio 2006 è
stato pubblicato un sequel, Kenkanryu 2, che continua a difendere le tesi già illustrate nel primo
volume, proponendo nuovi soggetti controversi, mentre a Seoul il fumettista sud coreano Kim Sung
Mo ha preparato come risposta il manwha Abbasso la moda giapponese.
Quanto a Introduzione alla Cina, che rispetto a Kenkanryu ha raggiunto tirature inferiori, per
alcuni commentatori la sua pubblicazione andrebbe inserita nel clima di reazione alla campagna
antigiapponese portata avanti in questi anni dal regime di Pechino. Più in generale le tendenze
revisioniste sembrano approfittare di un clima di inquietudine diffuso provocato dalla crisi
economica, che spinge una parte dell'opinione pubblica, fragilizzata, a ripiegarsi su un passato
mitizzato41.
Rispetto agli anni ‘30, il contesto è senza dubbio radicalmente diverso. Tuttavia, i toni aspri
dei due manga anticinese e anticoreano sono in linea con le tendenze neo-nazionaliste apparse nel
panorama socio-politico giapponese degli ultimi anni e la loro pubblicazione è intervenuta in una
fase in cui viene discusso un delicato progetto di revisione costituzionale.
L’articolo 9 della costituzione giapponese - carta di fatto imposta dai vincitori americani
all’indomani della seconda guerra mondiale - sancisce la rinuncia del popolo nipponico a servirsi
della guerra o della minaccia bellica per risolvere le controversie internazionali. Ma soprattutto
impone il disarmo del Paese, al quale non viene riconosciuto il diritto alla belligeranza e che può
così disporre unicamente di forze di “autodifesa”. Se il pacifismo imposto ha notoriamente
costituito uno degli elementi propulsivi dello sviluppo economico del Paese del sorgere del sole,
permettendogli, al riparo dell’ombrello miliare americano, di dedicare tutte le energie al proprio
decollo industriale, il Giappone di oggi sembra non essere più disposto ad essere solo un gigante
economico. Obbligato a fare i conti con l’ascesa imponente dei vicini di casa cinesi e coreani, il
Paese vuol veder riconosciuto il proprio peso politico (possibilmente con un seggio permanente nel
Consiglio di Sicurezza dell’ONU) e persino quello militare. Il primo passo verso la libertà d’azione
38 Durante il secondo conflitto mondiale, la rapida espansione giapponese in Asia orientale - preceduta
dall'occupazione di Formosa nel 1895 e della Corea nel 1919 e dalla creazione del Manciukuò nel 1932 – con cui
furono occupare le Filippine, il Siam, la Birmania, le Indie Olandesi e l'Indocina francese, venne accompagnata da
una propaganda che rappresentava Tokyo come emancipatrice dei paesi asiatici, all'insegna di slogan quali “una
sfera di co-prosperità della grande Asia Orientale” e “l'Asia agli asiatici”. In Indonesia fu lanciato il movimento
“delle 3 A”, che inneggiava a “Giappone leader dell'Asia, Giappone protettore dell'Asia e Giappone luce dell'Asia”.
39 Vedi ancora Ugly Images of Asian Rivals Become Best Sellers in Japan.
40 Il conservatore Sankei Shimbun ha invece giudicato l’approccio seguito da Abbasso la moda coreana come
“estremamente razionale ed equilibrato.”
41 Cfr. Philippe Pons, «Controverse sur l'histoire en Asie – Le negationnisme dans le mangas», Le monde
diplomatique, ottobre 2001.
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sullo scacchiere internazionale è proprio la riforma dell’articolo 9, secondo il progetto presentato
dall’ex premier Junichiro Koizumi ed ereditato dal suo successore - poi dimessosi - Shinzo Abe.
L’obiettivo era quello di far tornare il Giappone una “nazione normale”, libera di muoversi con
sicurezza e determinazione sullo scacchiere internazionale. Anche a costo di qualche frizione con
Pechino e Seoul.
Ancora una volta, quindi, la società giapponese sceglie il fumetto come mezzo di
autorappresentazione, convogliando la propria diffidenza verso due Paesi che hanno le carte in
regola per strappare a Tokyo il ruolo di leader economico-politico dell’Asia orientale. Ma è anche
un mezzo per riflettere una visione di sé come soggetto culturale e geopolitico distinto dal resto
dell'Asia.
Agli albori della riflessione e riconversione identitaria che ha caratterizzato l'era Meji, il
Giappone ha puntato ad essere più occidentale e meno asiatico; riprendendo il titolo del famoso
saggio scritto da Yuzichi Fukuzawa nel 1885, per riformarsi e diventare moderni occorreva infatti
“lasciare l'Asia” (ed in particolare l'eredità confuciana e cinese). Sarà un caso, ma i giovani
protagonisti giapponesi di Abbasso la moda coreana sono biondi e con gli occhi grandi, mentre i
loro omologhi coreani hanno i capelli neri, gli occhi piccoli e tratti inequivocabilmente asiatici...
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