Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Ci sono paesi ed epoche in cui chi professa una religione diversa, peggio ancora se è
straniero, fa paura. Non è così lontano dal presente in fondo il tema storico cui
Scorsese, già seminarista prima di darsi al cinema, si volge in questo film accarezzato
da molti anni. Ma questo parallelismo è solo uno spunto per un film che scava nella
religiosità umana in maniera profonda.
scheda tecnica
un film di Martin Scorsese, con: Adam Driver, Andrew Garfield, Liam Neeson, Ciarán
Hinds, Issey Ogata, Tadanobu Asano, Shinya Tsukamoto, Ryô Kase, sceneggiatura: Jay
Cocks; montaggio: Thelma Schoonmaker; USA 2016, 161’. Distribuzione: 01
Distribution.
Martin Scorsese
Nasce a Flushing (Long Island), da genitori entrambi operai ed entrambi figli di
immigrati siciliani. Cresciuto nella Little Italy di New York, passa il suo tempo libero al
cinema. Istruito secondo i principi della morale cattolica, a 14 anni sente la
vocazione ed entra in seminario, ma cambia idea dopo poco tempo. Continua allora
la sua istruzione scolastica iscrivendosi prima alla Cardinal Hayes High School di New
York e poi alla New York University, che lo formerà cinematograficamente.
Firma il suo primo lavoro, il cortometraggio Vesuvius VI (1959), quando è ancora un
liceale. Negli anni '70 si lancia nel genere documentaristico, prima come assistente
regista per Michael Wadleigh (Woodstock, 1970), grazie al quale può conoscere
esponenti del mondo musicale, poi come regista con Scene di strada (1970),
Italoamericani (1974), Ragazzo americano (1978) e L'ultimo valzer (1978).
Il debutto nel lungometraggio avviene con il dramma, basato su esperienze
autobiografiche, Chi sta bussando alla mia porta? (1969), che ha come protagonista
il primo dei suoi attori feticcio: Harvey Keitel (seguiranno Robert De Niro e Leonardo
Di Caprio).
Influenzato dalla Nouvelle Vague francese dirige Alice non abita più qui (1975).
L'anno del capolavoro è invece nel 1976 con il drammatico Taxi Driver. Fu Brian De
Palma, amico di Scorsese e di De Niro, a presentare Paul Schrader al regista e a fargli
leggere il copione. La produzione si convinse ad accettare Scorsese come regista solo
dopo il successo di Mean Streets (1973).
Toro scatenato (1980) è il suo secondo capolavoro che lo porta alla nomination
all'Oscar come miglior regista.
La passione per il cinema lo spinge ad interessarsi della conservazione del
patrimonio filmico internazionale attraverso la Film Foundation a cui aderiscono
nomi illustri come Coppola, Kubrick, Lucas, Spielberg, Pollack e Woody Allen.
In seguito, anche se continua a raccontare le gesta di gangsters d’oltreoceano (Quei
bravi ragazzi, 1990), o la rovina del gestore di un Casinò (1995) di Las Vegas, l’amore
per il cinema italiano lo ispira quando dirige il suo primo film in costume, L’età
dell’innocenza (1993). Tra il 1999 e il 2000 realizza Il mio viaggio in Italia, dove
ripercorre la storia del cinema italiano attraverso i ricordi della sua infanzia e della
sua famiglia.
Seguono Gangs of New York (2002), primo dei film con protagonista Leonardo Di
Caprio, il ciclo dei documentari alla riscoperta delle radici del blues, The aviator
(2004) e The Departed - Il bene e il male (2006), il più grande successo commerciale
di Scorsese e ottava nomination all’Oscar della sua quarantennale carriera.
Nel 2010 dirige Shutter Island (2010) e la puntata pilota di Boardwalk Empire, serie
TV ambientata ad Atlantic City, la città del gioco, dei bordelli e della corruzione.
Prosegue poi con il suo esordio nel 3D, Hugo Cabret.
Dopo il documentario su George Harrison George Harrison: Living in the Material
World (2011), torna a lavorare con Di Caprio nel film The Wolf of Wall Street (2014).
La parola ai protagonisti
Intervista al regista
Come le è venuto in mente il progetto di Silence? So che è una sua passione, che
l’aveva in mente da qualche anno… forse da venti o trent’anni…
Il romanzo di Shusako Endo mi è stato regalato nel 1988. Ho finito di leggerlo
nell’agosto 1989 sul treno veloce da Tokyo a Kyoto, dopo avere ultimato di girare la
parte di Van Gogh in Sogni di Akira Kurosawa. Non saprei dire se a quel punto fossi o
non fossi effettivamente interessato a farne un film. La storia era così inquietante, mi
toccava corde così profonde, che non sapevo nemmeno se avrei mai potuto fare un
tentativo di affrontarla. Ma, col passare del tempo, in me qualcosa ha cominciato a
dire: «Devi provarci». Abbiamo acquisito i diritti verso il 1990-91. Circa un anno
dopo, insieme al mio amico e collega sceneggiatore Jay Coks, abbiamo cercato di
buttare giù una bozza. Ma in effetti non ero ancora pronto a provarci. Tuttavia si
trattava dell’inizio di un lungo processo che avrebbe portato alla prima bozza
concreta della sceneggiatura, nel dicembre 2006: è stato allora che abbiamo
delineato la concreta struttura di un film. In tutti quegli anni io non ero mai riuscito,
assolutamente, nemmeno a immaginare che avrei fatto quel film. Sarebbe stato…
presuntuoso da parte mia. Non sapevo come affrontarne i temi. E per giunta era
difficilissimo mettere insieme un progetto concreto, una volta che avessimo avuto la
bozza. Nel corso degli anni sono sorte così tante problematiche legali e finanziarie,
che l’intera questione man mano aveva assunto l’aspetto di un nodo gordiano, e il
tentativo di scioglierlo ha chiamato in causa una marea di persone e di tempo.
Inoltre, c’era il problema degli attori. Avevo trovato attori che mi piacevano e che
erano «di cassetta»: avevano dato l’assenso a fare il film, ma poi passava il tempo e
non erano più «di cassetta», o erano troppo vecchi, o tutte e due le cose. Attori che
garantivano un certo quantitativo di denaro necessario per fare il film, e attori che
volevano interpretare i ruoli. Un processo molto, molto lungo — diciannove anni, per
l’esattezza — con molte fermate e molte ripartenze.
Come ha agito in lei il desiderio di fare questo film? Si trattava di un’idea da
realizzare nel futuro, oppure il desiderio di farlo in qualche modo ha ispirato il suo
lavoro in questi anni?
Beh, come dicevo: è stato con me, ho vissuto con lui. Quindi credo abbia impregnato
tutto quello che ho fatto. Le scelte che ho fatto. Le maniere di accostare certe idee e
scene in altri film che ho fatto nel corso di questi anni. In altre parole, da una parte
c’era il desiderio di fare proprio questo film; e dall’altra c’era la presenza del romanzo
di Endo, di quella storia, come una specie di sprone a riflettere sulla fede; sulla vita e
su come si vive; sulla grazia e su come la si riceve; su come alla fine esse possono
essere la stessa cosa. Io penso… che, a sua volta, questo abbia dato più forza e
chiarezza al mio modo concreto di affrontare il lavoro del film.
Per lei credere in Dio ed essere cattolico sono due cose diverse, se ho capito bene.
Che cosa intende con questo?
A me interessa come le persone percepiscono Dio, o, per così dire, come
percepiscono il mondo dell’intangibile. Ci sono molte strade, e penso che quella che
si sceglie dipenda dalla cultura di cui si fa parte. La mia strada è stata, ed è, il
cattolicesimo. Dopo molti anni in cui ho pensato ad altre cose, ho assaggiato questo
e quello, mi trovo meglio da cattolico. Credo nei princìpi del cattolicesimo. Non sono
un dottore della Chiesa, non sono un teologo in grado di ragionare sulla Trinità. E
certamente non m’interessano le politiche dell’istituzione. Ma l’idea della
risurrezione, l’idea dell’Incarnazione, il potente messaggio di compassione e amore…
quella è la chiave. I sacramenti, se riesci ad accostarti a loro, a farne esperienza, ti
aiutano a stare vicino a Dio.
Quale personaggio la colpisce di più del romanzo Silenzio di Endo e del suo film?
Perché?
Quando ero più giovane, mi è venuto in mente di fare un film sull’essere un prete. Io
stesso avevo avuto voglia di seguire le orme di padre Principe. Ma mi sono reso
conto, all’età di quindici anni, che la vocazione è qualcosa di molto speciale, che non
si può acquisire, e non si può averla soltanto perché si vuole essere come qualcun
altro. Dev’esserci una vera chiamata.
Sulla base di ciò che ho visto e vissuto, un buon prete deve sempre pensare anzitutto
ai suoi parrocchiani. Quindi la domanda è: come fa quel prete a superare il suo ego?
Il suo orgoglio? Il personaggio di Rodrigues è direttamente alle prese con quella
domanda.
Ma penso che il più affascinante e intrigante di tutti i personaggi sia Kichijiro: è
costantemente debole e causa continuamente danni a se stesso e a molti altri, tra
cui la sua famiglia. Ma poi, alla fine, chi c’è accanto a Rodrigues? Kichijiro. Egli era
stato, si scopre, il grande maestro di Rodrigues. Il suo mentore. Il suo guru, per così
dire. Ecco perché Rodrigues lo ringrazia alla fine.
Recensioni
Roberto Nepoti. La Repubblica
[…] Nel XVII secolo due giovani missionari portoghesi, padre Rodrigues e padre
Garupe, vanno in Giappone alla ricerca del loro mentore padre Ferreira, di cui non si
hanno più notizie. Nella terra del Sol Levante è in corso una persecuzione dei
cristiani, che sono costretti a rinnegare la fede o a subire il martirio. Anche per i
missionari è l’inizio di una Via Crucis. Chi ritenesse il soggetto lontano dalla nostra
epoca de-sacralizzata, pensi alle barriere che ancor oggi dividono il mondo. Allora le
autorità giapponesi espellevano tutti gli stranieri e, in particolare, perseguitavano i
missionari cristiani come rappresentanti di una religione estranea alla cultura
nipponica, quindi pericolosa.
La dinamica del dramma s'incentra (non senza ricordare la leggenda di Cristo e il
Grande Inquisitore narrata da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov) nel confronto tra
padre Rodrigues e l'inquisitore Inoue, il quale tortura e uccide i cristiani giapponesi
per indurli all'apostasia. Con l'integralismo della fede Rodrigues gli resiste, ma
intanto è tormentato dal mutismo di Dio.
Perché non ascolta le preghiere? È indifferente alla sorte degli umani? Non risponde
perché non esiste? Le certezze del giovane padre, che si sente un po’ Cristo [...]
cominciano a vacillare: soprattutto quando gli fanno incontrare padre Ferreira, che
ha abiurato calpestando un'immagine sacra. Silence è un film di una bellezza
inquieta e insieme sommessa. Spesso le immagini sono avvolte nella nebbia; però
acquistano una grande potenza drammatica nelle sequenze di martirio (con l'acqua,
il fuoco, per dissanguamento) e, talvolta, sfumano nell'onirico, come nella scena del
villaggio distrutto popolato solo di gatti. Certo non è un film per tutti i gusti, nella
sua severità che sarebbe piaciuta a un maestro come Carl Theodor Dreyer […]. Ma se
chi predilige un cinema più dinamico non si convertirà, probabilmente, grazie a
Scorsese, potrà almeno apprezzare l'ottima interpretazione di Andrew Garfield e
della sua "spalla" Adam Driver. O il cameo di Liam Neeson che, col codino e il
kimono, sembra tornato a quando faceva il maestro jedi Qui-Gon Jinn in Star Wars.
Emiliano Morreale. L'Espresso
Da tempo Martin Scorsese progettava l’adattamento del romanzo Silenzio di Shusaku
Endo, uscito cinquant’anni fa e dedicato alle persecuzioni contro i cristiani nel
Giappone del ’600. Non stupisce la sua passione per il libro, intriso di un
cattolicesimo tormentato, tra Graham Greene e Bernanos; e il film si situa sul
versante più esplicitamente spirituale del regista, quello di L’ultima tentazione di
Cristo o Kundun […].
Scorsese si è messo davanti al tema con serietà, costruendo una sceneggiatura
rifinita dal punto di vista morale e drammaturgico. In più, ha cercato di prendere alla
lettera il titolo e lo spirito del libro. E quindi, se all’inizio si intravedono ricordi di
esotismo cinefilo (ma soprattutto un omaggio a Mizoguchi), cerca un tono ascetico,
attento ai conflitti morali, quasi privo di musica […].
Ma alla fine, l’epopea dell’evangelizzazione sfuma in qualcosa di più complesso,
anche perché ai tormenti dei gesuiti si contrappone un inquisitore giapponese che,
oltre alle torture, ha dalla sua una visione in fondo più moderna e saggia del
confronto tra religioni e culture. E il cristiano più autentico, e il personaggio più
scorsesiano, si rivela il giapponese Kichijiro, che si trascina ossessivamente di
tradimento in pentimento.
Massimo Lastrucci. Ciakmagazine
[…] Da quello che è considerato un capolavoro della letteratura giapponese, scritto
nel 1966 da Shusako Endo (e già diventato film – dicono bellissimo – nel 1971,
presentato a Cannes con il titolo Chinmoku, per la regia del grande Masahiro
Shinoda), Scorsese – ex seminarista, non scordiamolo – torna a quello che è uno dei
temi ritornanti e più profondi del suo cinema, il rapporto tra i misteri della fede e il
comportamento dell’uomo (questo sin dai tempi di Mean Street).
Il silenzio cui si riferisce il titolo è certamente quello di un Dio “assente” (“perché tu
non ci sei?” urla dentro il suo animo padre Rodriguez), ma può benissimo riferirsi
alla condizione dei cristiani perseguitati (i kakase kirishitan, ovvero i cristiani
nascosti) o a quella di padre Ferreira, spinto all’apostasia (“tutti i nostri progressi
sono finiti in nuove persecuzioni”) e poi fedele osservante delle tradizioni
nipponiche. Lo scontro tra le ragioni del fervore missionario e quelle (peraltro non
prive di una loro logica e razionalità) dei signori del Giappone ha come teatro il corpo
e la mente dei due religiosi, via via più disperati, oppressi ed esacerbati da una
situazione complicata, contraddittoria e tragica (“Il sangue rosso dei preti è sgorgato
a fiumi”). Perché il dilemma cruciale è negare la divinità del Cristo e salvare tanti
innocenti o seguitare a professare la propria fede condannando al martirio non solo
se stessi, ma tanti cuori semplici e magari confusi.
Sono due ore e quaranta di cinema concentrato su questo tema, cui la magistrale
mano di Scorsese questa volta, anche quando ritaglia scorci meravigliosi o palpitanti
scene di spettacolare violenza, aggiunge plumbea e quasi “claustrofobica” (non se ne
esce mai dai travagli dell’animo dei due gesuiti) cupezza. Magnifico il trio dei
protagonisti, con Garfield che ha molto irrobustito […] le sue spalle di ex
giovanottino prodigio, Adam Driver che sembra aver addirittura ieraticamente
scarnificato il suo corpo lungagnone quasi fosse un vero mistico e un Liam Neeson
dolente come un gigante sconfitto e domato. Siamo di fronte a uno spettacolo
maiuscolo […] impossibile da non ammirare e stimare.
Alessia Starace. Movieplayer.it
[…] Oltre alla personale parabola di un uomo nella fede, Silence è un film che parla di
uno scontro fra credenze, ordini di pensiero, culture, ognuna delle quali cerca di
imporsi dall'esterno senza avere alcun interesse o autentica apertura nei confronti
dell'altra, che da parte sua applica una difesa chirurgica e spietata. La violenza sta da
ambo le parti. Per quanto buoni siano gli intenti, profonda la persuasione di stare
facendo il volere di Dio salvando anime dalla dannazione, e per quanto sia tangibile il
conforto che la religione cristiana sembra donare alle popolazioni dei villaggi costieri
con cui i due giovani gesuiti vengono a contatto, l'introduzione di un sistema di
pensiero alieno con la pretesa che sia preferibile è sempre un abuso dalle
conseguenze devastanti.
L'identità culturale è più importante - per la società e per l'individuo - di qualsiasi
credo politico o religioso, oltre che di qualsiasi opportunità economica, e merita il
rispetto più assoluto. Un'ammissione questa che ha un grandissimo valore
giungendoci dalla prospettiva di uno scrittore giapponese di fede cristiana (Shusaku
Endo, autore del libro ominimo su cui è basato Silence), abbracciata con
ammirazione e deferenza dalla sceneggiatura di Scorsese e Jay Cocks, ed è un
messaggio prezioso per chiunque voglia analizzare in maniera costruttiva l'origine
dei fondamentalismi: la convivenza, la contaminazione, l'arricchimento tra culture è
possibile solo se il confronto è alla pari, se c'è apertura e curiosità verso mitologie,
culti e usanze altrui e se s'impara ognuno il linguaggio dell'altro. L'atteggiamento
superiore di una cultura nei confronti dell'altra comporta inevitabilmente il disastro
[...].
Paola Casella. Mymovies.it
[...]Silence equivale ad uno degli esercizi spirituali prescritti da Ignazio da Loyola, il
fondatore della Compagnia di Gesù (esercizi praticati da Andrew Garfield, che
interpreta Padre Rodrigues, prima di iniziare le riprese), ma è soprattutto un atto di
dolore che va recitato fino in fondo. Allo spettatore richiede attenzione, pazienza,
riflessione: tutto ciò cui il cinema più spettacolare, compreso quello di Scorsese, ci
ha disabituato. Silence ha bisogno del tempo di una (silenziosa) sedimentazione
interiore perché è un racconto tanto infinitamente stratificato quanto visivamente
disadorno, nonostante le magnifiche scenografie di Dante Ferretti, che ha ricostruito
dal nulla villaggi secenteschi, taverne, avanposti imperiali e squallide galere. Dopo la
corsa adrenalinica dietro alle illusioni di un capitalismo sfrenato di Wolf of Wall
Street, Scorsese inverte il passo e la direzione, scavando in profondità nella natura
complessa dell'uomo, alla ricerca della sua umanità. Ricondurre meramente il film
all'attualità, collegandolo ai preti cristiani massacrati in varie parti del mondo o alla
furia distruttrice dei fanatismi religiosi contemporanei, sarebbe riduttivo, perché il
discorso di Scorsese è ben più radicale.
Silence è una parabola quietamente potente, di quelle che riescono a insinuarsi sotto
le resistenze razionali per penetrare nell'inconscio e allargarsi nelle coscienze di chi
guarda, lavorando sulla nostra presunzione di avere già capito tutto, di sapere con
certezza che cosa sia giusto e da che parte stiano il Bene e il Male.
Mattia Pasquini.Film.it
Martin Scorsese ci ha messo quasi trent'anni a girare Silence, e si vede. Si sente,
profondamente, per la verbosità (che compensa il titolo) e complessità del racconto
tanto quanto per le implicazioni che comporta e i livelli sui quali si sviluppa. Non un
film facile - e non avrebbe potuto essere diversamente, viste le premesse soprattutto considerato il confronto con la sala, ma un film del quale si parlerà a
lungo. E nel quale tutti potranno trovare un piano attraverso il quale affrontarlo,
entrarvi in contatto.
Come con la religiosità, in fondo. Non meramente la Fede o l'Idea della divinità - su
questo Scorsese sembra piuttosto chiaro, in primis per la sua storia, personale e
professionale - fatta di confronti, rischi e dialoghi improntati al rifiuto di condizioni
preconcette o doveri imposti dall'alto. Dopo essersi messo in discussione e aver
provato altre vie, il regista […] si ridefinisce come religioso. E, da cristiano e cattolico,
parla del suo dio; ma senza impedire a chi deve ancora trovare una risposta di
sviluppare un percorso e di raggiungere la propria conclusione.
Materia ardua, inevitabilmente, come detto. Alla quale il regista, correttamente, non
offre risposte, né scorciatoie, né consolazioni, tanto meno artistiche. E non è un caso
che in un tale dispiego di meraviglie […] non ci sia spazio per virtuosismi registici (se
si fa eccezione per tre splendide inquadrature, quasi pittoriche, dall'alto, in biancomarmo, blu-mare e verde-erba). […] Scorsese decide, invece, di lasciarci liberi di
considerare il suo esempio e le sue personalissime conclusioni, di approfittare della
sua confessione pubblica e di una rappresentazione del divino (e del suo rapporto
con le nostre vite) come poche se ne sono viste.