di Gennaro Ferraiuolo

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di Gennaro Ferraiuolo
30 SETTEMBRE 2015
27 settembre 2015:
le “elezioni plebiscitarie”
di Catalogna
del 27 settembre
di Gennaro Ferraiuolo
Professore associato di Diritto costituzionale
Università di Napoli Federico II
27 settembre 2015:
le “elezioni plebiscitarie”
di Catalogna*
di Gennaro Ferraiuolo
Professore associato di Diritto costituzionale
Università di Napoli Federico II
Sommario: 1. Chi perde, chi vince. 2. Cosa è Junts pel sì. 3. Voti o seggi? 4. Lo scenario postelettorale (catalano) e quello pre-elettorale (spagnolo).
1. Chi perde, chi vince.
Il voto anticipato in Catalogna non è stata un’ordinaria elezione regionale, come testimonia
l’attenzione internazionale sull’evento: in gioco non vi era soltanto la composizione di un
Parlamento autonomico ma la stessa relazione della Comunità autonoma con la Spagna.
I risultati si prestano a varie interpretazioni e, stando alle dichiarazioni dei diversi esponenti
politici, si potrebbe avere la sensazione, come spesso accade, che a vincere siano state tutte le
forze in campo.
In realtà coloro che, in termini evidenti, hanno perso non mancano.
In primo luogo il Partido Popular (PP) che, al governo statale con una solida maggioranza assoluta,
ha ottenuto in Catalogna appena l’8,5% dei voti e 11 seggi (8 in meno rispetto al 2012). La linea
dell’immobilismo, tesa sostanzialmente a negare il rilievo ormai assunto dalla questione catalana,
se può pagare, in termini di consenso, a livello statale, si rivela fallimentare nella Comunità
autonoma. Del tutto inutili – anzi addirittura controproducenti – sono stati il cambio alla guida
del partito in vista del delicato impegno elettorale e la diretta partecipazione alla campagna del
Presidente del Governo Mariano Rajoy, che ha provato a far la leva anche sul sostegno di
influenti leaders politici internazionali.
A perdere, decisamente, è anche Catalunya Sí que es Pot (CSQP), l’emanazione catalana di quel
Podemos visto da molti, quantomeno in una breve fase, come il nuovo protagonista della politica
spagnola, vittorioso nelle elezioni municipali di Barcellona. Come in quest’ultima circostanza
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Articolo richiesto dalla Direzione.
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Barcelona en Comú, anche CSQP è in realtà una coalizione il cui soggetto principale, accanto al
partito di Pablo Iglesias, è costituito da Iniciativa per Catalunya Verds - Esquerra Unida i Alternativa
(ICV-EUiA): un partito consolidato dello scenario catalano con alle spalle la partecipazione alle
due esperienze di governo del cd. tripartit (2003-2010) alla guida della Generalitat (con il Partit dels
Socialistes de Catalunya–PSC e Esquerra Republicana de Catalunya-ERC). Alle elezioni del 27
settembre, il cartello elettorale CSQP ha conseguito 11 seggi (8,94% di voti), addirittura due in
meno di quelli assegnati, nel 2012, alla sola ICV-EUiA (9,89 % dei voti).
Pure Unió Democràtica de Catalunya (UDC) ha pagato a caro prezzo la rottura della storica
coalizione con Convergència Democràtica de Catalunya (CDC): dal 1979 i due partiti si erano sempre
presentati insieme (Convergència i Unió-CiU) alle politiche e alle regionali. Unió non ha ottenuto
rappresentanza parlamentare per effetto di un 2,51% di voti e del mancato superamento della
soglia di sbarramento (3%) in tutte le circoscrizioni elettorali.
Alla lista degli sconfitti andrebbe aggiunto il PSC: nonostante la massiccia partecipazione al voto
(la più elevata alle elezioni catalane) i socialisti hanno conseguito il peggior risultato di sempre in
termini sia di voti (12,74%), sia di seggi (16). Eppure in molti, almeno nell’immediato, hanno
visto in tale esito più una tenuta che non un ulteriore arretramento rispetto al minimo storico già
registrato nel 2012. Tale lettura può essere accolta se come termine di raffronto si sceglie di
assumere non i precedenti risultati elettorali, ma i numerosi sondaggi che davano i socialisti
catalani in caduta libera.
Allo stesso tempo, ci sono dei chiari vincitori: Ciutadans (C’s), che è riuscito a catalizzare il voto
unionista, quasi triplicando i seggi del 2012 (da 9 a 25) e si proietta verso un ruolo di primo piano
nella politica spagnola; e la Candidatura d'Unitat Popular (CUP), partito di sinistra anticapitalista e
indipendentista, che passa da 3 a 10 seggi e diviene decisiva per la prospettiva secessionista.
Particolarmente significativo il fatto che una formazione cosi radicale abbia ottenuto soltanto
diecimila voti (circa) in meno del PP.
2. Cosa è Junts pel sì.
L’analisi più complessa è senz’altro quella che riguarda il risultato di Junts pel Sí (JxSí), la lista più
direttamente connessa al peculiare carattere della tornata elettorale appena celebratasi.
Essa ha riunito al suo interno partiti consolidati (CDC, ERC); gruppi derivati dalla scissione da
altri partiti per dissensi sulla questione nazionale (Moviment d’Esquerres-MES dal PSC; Demòcrates da
UDC); candidati indipendenti provenienti dell’associazionismo che, a partire dal 2010, ha
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conferito una decisa spinta alle istanze secessioniste (Assemblea Nacional Catalana, Òmnium Cultural)
o, più semplicemente, espressione della società civile.
Il tentativo dichiarato di questa composita formazione era quello di far assumere alle elezioni
autonomiche una valenza “plebiscitaria”, utilizzandole come surrogato di un referendum
sull’indipendenza che aveva trovato la ferma opposizione del Governo centrale.
Sulla base di tale disegno, risulta fuorviante considerare JxSí come semplice sommatoria di partiti
preesistenti e operare quindi un raffronto tra risultati conseguiti dagli stessi nel 2012 e nel 2015.
Accettando di seguire tale strada si dovrebbe constatare la perdita, da parte del blocco CiU-ERC,
di 9 seggi (da 71 a 62), anche se poi agli esponenti di quei due partiti sono andati, di fatto,
rispettivamente 29 e 18 deputati (rispetto ai 50 e ai 21 che avevano nel 2012). La lista, nonostante
le nuove componenti, avrebbe dunque prodotto un drastico arretramento rispetto al potenziale
che i due partiti avevano espresso, da soli, nelle precedenti elezioni. La strategia elettorale della
lista unica – sostenuta dal Presidente uscente Artur Mas e, dopo complesse trattative, accettata
dalle altre forze indipendentiste, fatta eccezione per la CUP – si sarebbe dunque rivelata un grave
errore politico rispetto a quella, alternativa, di far concorrere autonomamente i due principali
partiti.
Accettando tale analisi andrebbe tenuto conto, quantomeno, della fuoriuscita da CiU della
componente UDC. Ma, al di là di questo dato (che comunque non ribalterebbe le valutazioni
numeriche prospettate), una simile lettura non consente di cogliere il senso dell’operazione
politica che è si cercato di compiere attraverso JxSí.
Di frequente si tende a sovrapporre, in ambito sub-statale, nazionalismo e indipendentismo; il
primo però non implica necessariamente il secondo. Così, sulla scena catalana, i partiti
nazionalisti hanno sempre avuto – anche prima del 1978 – un peso decisivo sugli equilibri
politici (spesso anche spagnoli); non tutti però, e non sempre (anzi di rado), hanno declinato il
loro discorso in termini di rivendicazione della indipendenza. Nella odierna vicenda catalana, è
frequente il riferimento ad una ulteriore categoria, quella del sobiranisme: in virtù di esso si
riconosce – e ci si batte per affermare – un diritto della nazione minoritaria a decidere sulla
relazione da mantenere con lo Stato centrale, prescindendo dalla scelta per una delle diverse
concretizzazioni (centralismo, regionalismo, federalismo, indipendenza) che siffatta relazione può
assumere1.
Si tratta di una nozione che si avvicina molto a quella di “catalanismo politico” proposta da M.
CAMINAL, Nacionalisme i partits nacionals a Catalunya, Barcelona, 1998, p. 90: si tratta di un movimento che
mostra infatti, sin dalle sue origini, una chiara propensione a conciliare «il diritto a decidere in modo libero
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Le elezioni (anch’esse anticipate) del 2012 erano state convocate in una prospettiva apertamente
sobiranista: attraverso di esse si intendeva misurare, in una fase di criticità delle relazioni centroperiferia, la forza dei partiti favorevoli ad una consultazione popolare sul “futuro politico” della
Catalogna2. L’esito del voto era chiaro: i fautori del referendum – senza alcuna implicazione in
ordine alle posizioni che avrebbero poi sostenuto in relazione ad esso – conseguivano 107
deputati su 135 (CiU, ERC, PSC, ICV-EUiA, CUP); nel corso della legislatura, tale blocco
perdeva i 20 deputati socialisti, non disposti a sfidare la netta chiusura dei poteri centrali di fronte
alle rivendicazioni avanzate.
I partiti del cd. diritto a decidere arrivavano fino al punto di celebrare il “processo partecipativo”
del 9 novembre 2014 (una consultazione informale le cui operazioni sono state gestite pressoché
integralmente da circa 40.000 volontari) pur di fronte alla sospensione della stessa, scaturita dai
ricorsi governativi al Tribunal constitucional 3 . In quella occasione, il voto indipendentista
raggiungeva i 1.897.274 consensi, con una partecipazione non elevatissima (2.344.828 votanti).
Questi dati erano immediatamente strumentalizzati dai partiti unionisti e dal Governo spagnolo
che, senza dar peso al peculiare contesto in cui si era svolta la consultazione (in primo luogo in
ragione della sospensione del giudice costituzionale) e dopo aver insistito sulla irrilevanza del
voto, ne utilizzavano gli esiti per dedurre un radicamento marginale (corrispondente al 30% circa
dell’elettorato catalano) della istanza indipendentista.
Le elezioni del 2015 sono state funzionali al compimento di un ulteriore e fondamentale
passaggio: dopo quello dal nazionalismo al sobiranisme, quello dal sobiranisme all’indipendentismo.
Nel 2012 i partiti non si erano posizionati – salvo forse ERC, in virtù della sua tradizionale
impostazione – in merito alla prospettiva della secessione. Un elettore di CiU – e non solo –
poteva essere fautore, indifferentemente, di una delle diverse strategie praticabili in conseguenza
dell’opzione sobiranista. Lo scorso 27 settembre, con la lista JxSí, si è duunque provato a
misurare, in termini maggiormente istituzionalizzati rispetto al voto simbolico del 9 novembre, il
sostegno dei catalani all’indipendenza.
e sovrano il destino della nazione catalana» e l’esercizio «di questo diritto in una direzione unitarista,
regionalista o federale. Il fatto di affermare i diritti nazionali della Catalogna non comportava il fatto di
essere partitari della separazione o della indipendenza». Sul cd. diritto a decidere cfr. i contributi raccolti in
L. CAPPUCCIO - M. CORRETJA TORRENS (a cura a di), El derecho a a decidir: un diálogo italo-catalán,
Barcellona, 2014.
2 In tal senso si esprimeva, in termini chiari, la Resolució sobre l’orientació politica general del Govern, n. 742/IX
del 27 settembre 2012, in Butlletí oficial del Parlament de Catalunya, n. 390 del 2 ottobre 2012.
3 Sulla vicenda cfr. L. CAPPUCCIO, Introduzione. La lunga e accidentata marcia della Catalogna verso una
consultazione popolare sull’indipendenza, in L. Cappuccio - G. Ferraiuolo (a cura di), Il futuro politico della
Catalogna, in questa rivista, n. 22, 2014, p. 3 ss.
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E’ in questa chiave che va valutato il suo risultato, prima e più che attraverso la comparazione, in
alcuni casi impossibile, dei risultati ottenuti dalle singole anime di JxSí nel 2012.
In particolare CDC, al netto della perdita dell’apporto di UDC, si è presentata alle elezioni del 27
settembre aderendo ad un contenitore che si limitava a proporre agli elettori una serie di passaggi
(full de ruta) funzionali alla creazione di un nuovo Stato. Dietro la decisione di sposare
inequivocabilmente, per la prima volta nella sua storia, la causa dell’indipendenza non può non
esservi una scelta consapevole: accettare lo spiazzamento – e la probabile perdita – di parte del
tradizionale elettorato di riferimento a fronte della legittimazione di un preciso progetto politico
trasversale alle connotazioni ideologiche.
Anche ERC alimenta, e allo stesso tempo subisce, il sostegno a siffatto disegno: a partire dalle
elezioni del 2012 cresce e si consolida un solido blocco della sinistra indipendentista, che vede al
suo interno una fluttuazione di consenso tra ERC e CUP prodotta dalle mutevoli contingenze
politiche, che assicura però un costante apporto al procés sobiranista. Ciò risulta in maniera
particolarmente chiara se si pongono a raffronto – benché si tratti di consultazioni non
omogenee – i risultati delle europee del 2014 (cui la CUP non partecipa) e delle municipali del
2015: nel primo caso ERC è il primo partito catalano con il 23,69% dei voti; nel secondo arretra
significativamente (16,40%) ma la sua perdita è quasi perfettamente compensata dal risultato della
CUP (7,14%).
Il voto del 27 settembre potrebbe obbedire ad un andamento analogo. I consensi persi da ERC
per la confluenza in JxSí non fuoriescono dal blocco pro-indipendenza, ma vengono soltanto
dirottati verso la CUP, nel tentativo di creare un’offerta politica articolata: alla lista civico-politica
JxSí se ne affianca una seconda, più radicale, rivolta a quella parte di elettorato non disposta a
sacrificare la componente ideologica del voto al trasversalismo della prima.
Allo stesso modo si spiega l’ampio spazio lasciato a candidati indipendenti nei primi posti della
lista e dunque, trattandosi di uno scrutinio bloccato, nelle prime posizioni utili in vista della
elezione4. Il mero interesse partitico passa in secondo piano e risulta difficile assegnare gli 11
seggi attribuiti a candidati indipendenti ad una precisa forza politica. A tal proposito, va segnalato
che la mobilitazione civica, parallela o sovrapposta a quella dei partiti nazionalisti (anche nelle fasi
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Cfr. J. MATAS DALMASES, Candidatos independientes, in www.elpais.com, 21 settembre 2015.
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storiche in cui deve ancora definirsi in modo compiuto la loro fisionomia) è fenomeno ricorrente
nella storia del catalanismo5.
Sulla base degli elementi messi in luce, si ritiene che il primo indicatore di successo-insuccesso di
JxSí vada rinvenuto nella sua effettiva capacità di imprimere una connotazione plebiscitaria ad
una semplice elezione autonomica. L’attenzione con cui i media di tutto il mondo hanno seguito
l’appuntamento e il risalto dato, nei giorni successivi, agli esiti del voto difficilmente consentono
di negare che questo obiettivo sia stato, almeno in larga parte, raggiunto6. Si consideri anche
l’elevata partecipazione (il 77,44% degli aventi diritto, la più alta mai registrata nelle elezioni
autonomiche catalane, superiore di ben 10 punti percentuale a quella del 2012) che ha rafforzato,
a giudizio pressoché unanime degli osservatori, il peculiare significato della consultazione.
Va però evidenziato che, accanto alla contrapposizione netta di due blocchi chiaramente
antagonisti (JxSí-CUP da un lato, PSC-PP-C’s dall’altro), si è comunque registrato il permanere di
un’area politica non posizionata, in termini univoci, sul tema, che alle dichiarazioni di aperta
adesione al sobiranisme non ha accompagnato indicazioni sulle strategie a suo supporto. Si tratta –
forse non è un caso – proprio di alcune delle forze più severamente ridimensionate da un voto
molto polarizzato: ICV-EUiA (componente essenziale di CSQP) e UDC. La loro ambiguità è
apparsa ancora più evidente per un repentino cambio di atteggiamento: dopo l’aperta sfida alla
legalità spagnola lanciata con il pieno sostegno alla consultazione del 9 novembre, tali forze
hanno lasciato in sospeso la questione nazionale; trasformando peraltro quel medesimo
Presidente della Generalitat al fianco del quale si erano schierati, oggi rinviato a giudizio per
quella vicenda7, nel principale bersaglio della loro campagna elettorale.
Il secondo indicatore di successo-insuccesso di JxSí è costituito, naturalmente, dal risultato
elettorale. La lista ha conseguito 62 deputati; sommando i 10 della CUP, gli indipendentisti hanno
ottenuto una chiara maggioranza assoluta in seggi (72 su 135) e il 47,7% dei voti. Si tratta di un
consenso superiore, in termini di suffragi, a quello registrato nella consultazione informale del 9
novembre, rispetto alla quale in molti, come detto, avevano ascritto meccanicamente l’elettorato
Si consideri, in tal senso, l’esperienza del Centre Català (1882), di fondamentale impulso per lo sviluppo
del movimento catalanista, e di Solidaritat Catalana (1906); sul punto cfr. M. CAMINAL, Nacionalisme, cit.,
p. 85 ss.
6 Per una completa rassegna degli articoli sul voto del 27 settembre apparsi sulla stampa internazionale
può consultarsi il sito www.collectiuemma.cat (Recull de premsa sobre #27S, 28 settembre 2015
[http://collectiuemma.cat/2204]).
7 La notizia è del 29 settembre e introduce senza dubbio ulteriori elementi di tensione nel rapporto tra
Spagna e Catalogna: si veda El TSJC cita com a imputats Artur Mas, Irene Rigau i Joana Ortega per la querella del
9-N, in www.ara.cat; Mas y dos cargos de la Generalitat, imputados por la consulta del 9-N, in www.elpais.com.
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non mobilitato all’unionismo. Tale dato assume ancora maggior rilievo se si considera che, in
quell’occasione, la partecipazione era stata estesa ai maggiori di 16 anni (seguendo l’esempio del
referendum scozzese) e agli stranieri con specifici requisiti di residenza.
Il raffronto da compiere per valutare il risultato di JxSí (e della complessa operazione politica ad
essa sottesa) si ritiene sia quello tra un Parlament con una maggioranza sobiranista di 87 seggi (CiU,
ERC, ICV-EUiA, CUP) espressione di 2.093.709 voti (pari, nel 2012, al 57,73%) e un Parlament
con una maggioranza indipendentista corrispondente a 72 seggi (JxSí, CUP) espressione di
1.957.348 voti (pari al 47.74% dei voti del 2015).
Anche mantenendosi all’interno di questo schema, naturalmente, le valutazioni politiche sul
risultato possono essere non univoche. Va sottolineata, ad esempio, la difficile conciliabilità tra
l’impostazione anticapitalistica della CUP e quella senz’altro più moderata e plurale di JxSí. In
questa prospettiva, il primo scoglio da affrontare sarà quello della investitura del nuovo
Presidente della Generalitat8. La CUP si è sempre dichiarata contraria alla conferma di Artur Mas
proposta da JxSí; in tale prospettiva non basterebbe l’astensione della sinistra radicale,
occorrendo il voto di almeno due suoi deputati a favore del candidato. Va ricordata, in ogni caso,
la buona attitudine alla mediazione – anche da punti di partenza ideologicamente molto distanti –
rivelata in più occasioni dagli attori del procés sobiranista.
3. Voti o seggi?
L’apertura di un processo unilaterale di indipendenza prospettato dai partiti secessionisti catalani
si muove, inevitabilmente, al di fuori della legalità dell’ordinamento statuale di cui viene a
rompersi l’unità. E’ chiaro però che politicamente – anche agli occhi della comunità
internazionale – esso assumerà una diversa legittimazione in base ad una serie di fattori, tra cui
spiccano la ricerca di una via democratica e negoziata alla secessione9 e il sostegno di una «clear
majority of the population»10 che intende separarsi.
Il dibattito su quest’ultimo profilo è stato centrale nella campagna elettorale e continuerà ad
esserlo nelle prossime settimane.
E’ evidente che una maggioranza di voti, oltre che di seggi, avrebbe rappresentato lo scenario
ideale per le forze indipendentiste. Invero i diversi leader di JxSí avevano in più occasioni precisato
Cfr. E. JULIANA, Avisos y señales en Madrid, in www.lavanguardia.com, 29 settembre 2015.
In tema si veda il recente lavoro di S. MANCINI, Ai confini del diritto: una teoria democratica della secessione, in
Percorsi costituzionali, n. 3, 2014, p. 623 ss.
10 Si riprende la formula del noto parere della Corte suprema canadese sulla secessione del Québec
(Reference re Secession of Quebec [1998] 2 S.C.R. 217, § 93).
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di ritenere sufficiente, per portare avanti il proprio disegno, anche la sola maggioranza assoluta di
seggi. Ciò – argomentavano – in ragione delle intrinseche disfunzioni di una consultazione
elettorale impropriamente piegata in chiave referendaria, scelta obbligata di fronte al rifiuto del
governo spagnolo di consentire la celebrazione di un referendum in piena regola. Naturalmente la
tesi opposta era sostenuta da parte unionista, con il supporto di numerosi commentatori 11 .
Appare singolare che, in merito a tale questione, le posizioni delle due parti finivano con il
rivelare entrambe un elemento di contraddittorietà: chi affermava il carattere plebiscitario della
consultazione sosteneva un conteggio – non plebiscitario – in seggi; chi lo negava, esigeva un
conteggio – plebiscitario – in voti.
L’esito elettorale, come segnalato, ha effettivamente lasciato una zona grigia che si sottrae
all’inquadramento nella struttura binaria che di solito caratterizza un referendum (salva la
proposizione di quesiti più complessi, che richiedono però chiare indicazioni sulle modalità di
conteggio dei voti). Così, se può ritenersi azzardata l’affermazione per cui il plebiscito
indipendentista è stato vinto in termini di voti12, convince ancor meno quella che ascrive al fronte
del “no” tutti i voti non confluiti nelle liste JxS e CUP, leggendo nelle elezioni del 27 settembre
una vittoria di un unionismo orientato alla difesa dello status quo (quando non addirittura
propenso a sostenere modifiche della Costituzione tese ad una riduzione dell’autonomia)13.
Quel margine del 2,25% che separa i voti degli indipendentisti dalla maggioranza assoluta appare
troppo esiguo a fronte di un’area di voto che non può essere facilmente collocata sull’asse
unionismo-indipendentismo, quantificabile almeno nei consensi di CSQP (366.494, pari
all’8,94%) e in quelli dispersi tra le forze che non hanno ottenuto rappresentanza parlamentare
(escludendo l’UDC 14 , 45.659, pari all’1,12%). Alcune inchieste demoscopiche precedenti alle
elezioni catalane, in effetti, mettevano in luce una crescita significativa, tra i potenziali elettori di
Cfr., ad esempio, L. ORRIOLS, 27-S, ¿votos o escaños?, in www.elpais.com, 18 agosto 2015; X. ARBÓS
MARÍN,
Elecciones plebiscitarias,
in
Institut Dret Públic (blog),
19
maggio
2015,
[http://idpbarcelona.blogspot.com.es/2015/05/elecciones-plebiscitarias.html?spref=fb].
12 Tale posizione è stata sostenuta, una volta conosciuto l’esito elettorale, dai leader di JxSí.
13 Sulle posizioni dei diversi partiti politici sulle prospettive di mutamento dell’assetto territoriale spagnolo
cfr. R. CALDUCH CERVERA, Proyectos y visiones de los principales partidos políticos sobre el futuro de España como
Estado federal, in J. Cagiao y Conde – V. Martin (a cura di), Federalismo, autonomía y secesión en el debate territorial
español. El caso catalán, Paris, 2015, p. 137 ss.
14 Si è esclusa dal computo UDC in quanto tale partito ha visto la fuoriuscita di parte significativa della sua
dirigenza che, in dissenso con la linea adottata sulla questione nazionale, ha dato vita al gruppo Demòcrates
poi confluito in JxSí. Il rifiuto di UDC della prospettiva indipendentista potrebbe dunque ritenersi
sufficientemente chiaro. Invero, dopo il voto, un eurodeputato del partito ha chiesto che i voti di Unió non
fossero contati tra quelli del “no” alla indipendenza (cfr. Unió demana als eurodiputats que no comptin els seus
vots i els de CSQP en el bloc del ‘no’, in www.ara.cat, 29 settembre 2015).
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ICV-EUiA e di Podemos, dei favorevoli all’indipendenza15. Ci trova, dunque, di fronte ad un’area
corrispondente a circa il 10% dei suffragi che può senz’altro ritenersi contendibile dalle opzioni
contrapposte in un ipotetico referendum sulla secessione.
4. Lo scenario post-elettorale (catalano) e quello pre-elettorale (spagnolo).
Le implicazioni del voto catalano del 27 settembre vanno analizzate in una duplice prospettiva.
In primo luogo, per i loro riflessi in chiave statale, in relazione alle oramai imminenti elezioni
politiche di dicembre.
Nella fase democratica, la Catalogna – dove risiede il 16% della popolazione spagnola – è spesso
risultata decisiva per la conquista del Governo spagnolo da parte dei socialisti. Questo per effetto
di una spiccata tendenza duale registratasi, a lungo, nelle dinamiche di voto16: i nazionalisti di CiU
prevalevano stabilmente nelle elezioni regionali17 mentre il PSC, federato con il PSOE (con cui
forma il gruppo parlamentare al Congreso), si affermava, di norma, nelle elezioni politiche (anche
per la capacità di mobilitare una parte dell’elettorato propenso all’astensione nel voto
autonomico)18.
Tale regolarità si è interrotta proprio nella fase in cui la tenuta del patto costituzionale ha iniziato
a mostrare segnali di cedimento con riferimento all’assetto territoriale: sia per la incapacità del
PSOE di elaborare e supportare, a livello statale, proposte tese a ricomporre il conflitto tra
nazionalismo statale e periferico; sia per la connessa e graduale attenuazione della connotazione
catalanista del PSC. Così, quest’ultimo è stato prima superato, quale partito di maggioranza
relativa, da CiU nelle politiche del 2011; successivamente, ha perso la consueta posizione di
seconda forza nelle elezioni autonomiche del 2012 (a vantaggio di ERC). Il risultato delle ultime
europee (2014) conferma questa tendenza: una competizione tradizionalmente giocata in chiave
più statale che autonomica (il PSC è stato sempre il partito catalano con la maggioranza relativa
Cfr. J. MATAS DALMASES, ¿Preparados para el 27-S?, in www.elpais.com, 19 luglio 2015. La tendenza
sembra oggi confermata da alcuni movimenti interni alle componenti della lista CSQP: cfr. Sobiranistes
d'ICV-EUiA demanen a Catalunya Sí que es Pot que s'entenguin amb Junts pel Sí i la CUP, in www.ara.cat, 30
settembre 2015.
16 Cfr. C. CASTRO, Las claves de las elecciones autonómicas catalanas (1980-2010), in J. Marcet – X. Casals (a
cura di), Partidos y elecciones en la Cataluña del siglo XXI, Barcelona, 2011, p. 22 ss.
17 Tale esito non si è prodotto soltanto nelle elezioni autonomiche del 2003: CiU viene per la prima volta
superata, peraltro solo in termini di voti e non seggi, dal PSC, a chiusura di una fase storica di intensa
collaborazione con i governi statali, che ne aveva offuscato la connotazione nazionalista.
18 In merito, con riferimento al comportamento elettorale registratosi nelle elezioni del 27 settembre, v. A.
BARRIO, ¿El fin de la abstención diferencial o hacia otra?, in www.elperiodico.com, 29 settembre 2015.
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dei voti, salvo che nella tornata del 1994) vede la vittoria di ERC, seguita da CiU19. Dopo il 27
settembre, come detto, il PSC deve confrontarsi con un nuovo minimo storico, in termini di voti
e seggi, in una elezione catalana.
Per i socialisti, almeno nell’immediato futuro, risulterà dunque non semplice intercettare in questa
decisiva Comunità autonoma un voto di sinistra molto forte ma che tende a distribuirsi su varie
formazioni, spesso più radicali del PSC in senso nazionalistico (ERC, MES) o ideologico e
nazionalistico allo stesso tempo (CUP, Podemos)20.
Di fronte a tali difficoltà, non è da escludere che i popolari, nonostante l’evidente caduta di
consenso del partito e del suo leader, riescano a mantenersi al Governo stringendo un accordo
postelettorale con C’s, formazione destinata, con ogni probabilità, a divenire decisiva per gli
equilibri della politica spagnola. Rispetto a Podemos, infatti, il profilo meno ideologico con il quale
si presenta consente ad essa di coalizzarsi sia con i popolari, sia con i socialisti (come è già
accaduto a livello autonomico dopo le elezioni del 24 maggio 2015). Peraltro, proprio il voto del
27 settembre darà una nuova spinta al partito di Albert Rivera: non tanto in virtù del risultato
elettorale ottenuto in Catalogna (pari al 17,93% dei voti) quanto per la immagine di difensore
della unità di Spagna che verrà proiettata sul piano nazionale.
La seconda prospettiva di analisi concerne, come ovvio, gli sviluppi della questione nazionale
catalana, ed è in parte connessa alla prima.
Il contesto descritto nelle precedenti pagine può apparire di sostanziale blocco, con un
indipendentismo nel complesso rafforzato dagli esiti del voto ma non abbastanza da potersi
incamminare, in maniera decisa, sull’accidentata strada dell’unilateralismo. Visto dal centro, il
risultato catalano dovrebbe far riflettere sulla efficacia di una strategia fondata, fino ad oggi, sul
disprezzo21, sulla passività e l’immobilismo22, sulla negazione del problema e del confronto23, sulla
tesi – per riprendere una immagine ricorrente nel dibattito pubblico – del sufflè destinato, prima o
dopo, a sgonfiarsi.
Questa, più precisamente, la distribuzione del voto europeo in Catalogna tra i primi tre partiti: ERC
23,69%; CiU 21,84%; PSC 14,29%.
20 Sul punto J. RAMONEDA, Cinc tesis sobre el 27-S, in www.ara.cat, 29 settembre 2015.
21 Cfr. J. MATAS DALMASES, Intervento, in L. Cappuccio – G. Ferraiuolo (a cura di), Il futuro, cit., p. 89
ss.
22 Cfr. J. CAGIAO Y CONDE – V. MARTIN, Introducción, in J. Cagiao y Conde – V. Martin (a cura di),
Federalismo, cit., p. 13; X. ARBÓS MARÍN, Intervento, in L. Cappuccio – G. Ferraiuolo (a cura di), Il futuro,
cit., p. 66; E. JULIANA, Pierde el inmovilismo, in wwww.lavanguardia.com, 28 settembre 2015.
23 Cfr. J. RAMONEDA, La negació de la realitat, in ww.ara.cat, 28 settembre 2015.
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Nell’immediato scenario post-elettorale non si intravedono significativi segnali di avvicinamento
tra le parti: da un lato si lavora alla mediazione tra le diverse anime dell’indipendentismo per
capitalizzare il risultato elettorale e definire i passaggi da intraprendere; dall’altro, di fronte ad un
parlamento autonomico a maggioranza assoluta secessionista e ad un voto favorevole
all’indipendenza di proporzioni comunque enormi (cui si aggiunge una forza – CSQP – che, pur
non posizionandosi sulla secessione, sostiene apertamente l’inizio di un processo costituente che
superi il regime costituzionale del 1978), si preferisce celebrare la vittoria unionista anziché
muovere alla ricerca di vie d’uscita allo scontro tra nazionalismi.
Una di tali vie potrebbe essere rappresentata da una riforma costituzionale ispirata ad un’idea
plurinazionale di federalismo24, rivitalizzando (e leggendo diversamente da come si è sino ad oggi
fatto) la distinzione tra nacionalidadese e regiones tracciata nell’art. 2 della Costituzione spagnola e
riconoscendo alla Catalogna (oltre che ai Paesi Baschi, che già ne dispongono) un significativo
trato diferenciado25.
Ancora, si potrebbe accettare la celebrazione di un referendum sulla secessione. In tale ottica è
stato sostenuto che, se in una elezione i partiti «che, esplicitamente e categoricamente, hanno accolto
nei loro programmi l’opzione indipendentista raccogliessero il maggior numero di voti, si aprirebbe
[…] un tempo politico nuovo», nel quale «il Governo catalano potrebbe accordarsi con lo Stato per un
referendum sul futuro status della Catalogna» 26 . Se è vero che il 27 settembre non è stata
raggiunta una maggioranza di voti, è anche vero che ciò non è accaduto per uno scarto molto
ridotto e in presenza comunque di uno spazio – non irrilevante – di suffragi di incerta
collocazione. Più che di fronte ad una opzione chiaramente prevalente (in un senso o in un altro),
lo strumento referendario appare invero imprescindibile proprio in un quadro di sostanziale
equilibrio tra le alternative in gioco, nella prospettiva di porre rimedio alle disfunzioni che,
inevitabilmente, si ricollegano ad un improprio utilizzo di quella che, tecnicamente, rimane pur
sempre una elezione parlamentare tra liste in competizione tra loro.
Su tale nozione di federalismo cfr. M. CAMINAL, El federalismo pluralista. Del federalismo nacional al
federalismo plurinacional, Barcelona, 2002; A. G. GAGNON (2008), Més enllà de la nació unificadora: al·legat en
favor del federalisme multinalcional, Barcelona, 2008; ID., L’Âge des incertitudes: essais sur le fédéralisme et la diversité
nationale, 2011, trad. it. L’età delle incertezze. Saggio sul federalismo e la diversità nazionale, Padova, 2013; F.
REQUEJO, Multinational federalism and value pluralism. The Spanish case, London, 2005.
25 Si vedano, ad esempio, le posizioni di F. RUBIO LLORENTE, Defectos de forma, in Revista Española de
Derecho Constitucional, n. 100, 2014, p. 157 ss.; S. MUÑOZ MACHADO, Cataluña y las demás Españas,
Barcelona, 2014, p. 228 e p. 230; J. TORNOS MAS, El problema catalán: una solución razonable, in El cronista
del Estado social y democrático de derecho, n. 42, 2014, pp. 52-53.
26 Così V. FERRERES COMELLA, Intervento, in L. Cappuccio – G. Ferraiuolo (a cura di), Il futuro, cit., p.
83 (miei i corsivi).
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Peraltro, referendum e riforma costituzionale non vanno visti, necessariamente, come percorsi tra
loro alternativi e inconciliabili. Si potrebbe concepire, ad esempio, un quesito a struttura non
binaria, all’interno del quale includere «una terza opzione: un nuovo assetto istituzionale che
permetta di mantenere comunque la Catalogna all’interno della Spagna» 27. Inoltre, la semplice
accettazione del confronto referendario sarebbe un importantissimo segnale di riconoscimento,
da parte dello Stato, della soggettività nazionale della Catalogna; riconoscimento che potrebbe
gettare le basi di una relazione genuinamente – o diversamente – federale e spingere verso la
costruzione di nuovo modello di convivenza alternativo alla secessione: del referendum «no es
[…] el resultado lo que […] interesa, sino que se entienda el derecho a decidir como expresión de
la lógica federativa»28.
Simili scenari, per quanto trovino autorevoli sostenitori in dottrina, sembrano privi di un
adeguato seguito politico. L’unico partito statale che, dopo i risultati del 27 settembre, ha posto in
maniera decisa l’accento sulla necessità di celebrare un referendum sulla indipendenza della
Catalogna è stato Podemos, che è anche quello che, al momento, ha meno chances di arrivare al
Governo (e, soprattutto, di arrivarci con una forza tale da consentirgli di imporre tale percorso
all’interno di una eventuale coalizione).
Il quadro si potrebbe ancor più irrigidire se l’esito delle politiche di dicembre dovesse portare ad
una alleanza tra PP e C’s: l’Esecutivo spagnolo sarebbe controllato dalle forze meno inclini
all’ascolto del nazionalismo catalano e più conservatrici dal punto di vista della conformazione
del modello territoriale. La strada di una soluzione negoziata al conflitto – perseguita in altri
ordinamenti democratici che hanno vissuto analoghe tensioni – rischierebbe di uscirne, se
possibile, ulteriormente pregiudicata.
V. FERRERES COMELLA, op. loc. ult. cit.
La tesi riportata è quella sviluppata, in maniera articolata, da J. CAGIAO Y CONDE, El federalismo ante
la consulta catalana. Una lectura federal del derecho a decidir, in J. Cagiao y Conde – V. Martin (a cura di),
Federalismo, cit., p. 77 ss. (citazione a p. 115); l’autore colloca la sua ricostruzione nell’orizzonte non di una
semplice revisione costituzionale, ma di un vero e proprio proceso constituyente federal, che dovrebbe trovare
nell’esercizio del cd. diritto a decidere il punto di innesco.
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