Gli orfani dell`Arca - La Parrocchia di Rovellasca

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Gli orfani dell`Arca - La Parrocchia di Rovellasca
Gli orfani dell’Arca
(padre Elio Boscaini in Nigrizia, febbraio 2008)
La vicenda delle finte adozioni dal Ciad, tentate da un’associazione francese, dà
modo di chiedersi: che cosa significa fare del bene?
Roubaix, città del nord della Francia, cara al cuore del tifo ciclistico per via
della famosa Parigi-Roubaix. Un commando islamista rapisce 50 bambini cristiani, per
sottrarli alla loro «perversa religione». La polizia blocca l’operazione. Le famiglie,
ignare, pensavano che i bambini andassero in vacanza in un paese musulmano…
Questa notizia è inventata, ma non troppo. Qualcosa di simile è avvenuto
nell’affaire dell’Arche de Zoé (dal greco, vita), l’associazione umanitaria francese che
voleva portare in Francia 103 bambini, “orfani” del Darfur (Sudan), per affidarli a
famiglie d’accoglienza (per adozione?). Il 25 ottobre scorso, il Boeing 757 con a bordo
i bambini è stato bloccato all’aeroporto di Abéché dalle autorità ciadiane; i
responsabili sono stati arrestati e sei di loro condannati (tra questi il presidente
dell’associazione, Eric Breteau) a 8 anni di carcere, abbinati a lavori forzati, per
«traffico di minori». Due giorni dopo, eccoli rimpatriati, grazie a una convenzione
giudiziaria del 1976, che lega i due paesi: sconteranno in Francia una pena
corrispondente (la legge francese non prevede i lavori forzati).
Il sistema carcerario del Ciad non è considerato all’altezza per i francesi. È
buono, invece, per i due ciadiani condannati alla stessa pena. È vero che la giustizia in
Ciad, come altrove in Africa, è spesso l’ultima ruota del carro. Tuttavia, a parte i molti
magistrati ciadiani formatisi in Francia, giustizia chiederebbe che il rigore delle
prigioni ciadiane sia applicato a tutti coloro che si rendono colpevoli di crimini sul suo
suolo. Ma è giocoforza costatare che l’indignazione degli intellettuali e dell’opinione
pubblica africana, in caso di avvenimenti come questo, non basta.
Il presidente francese Sarkozy, da buon bougiste (“uno che si dà da fare”),
entra in scena, condannando l’operazione e giudicandola «illegale e inaccettabile». Il 3
novembre è in Ciad. La giustizia ciadiana libera i tre giornalisti francesi che coprivano
l’operazione e le 4 hostess spagnole. Sarkozy li riporta a casa. Il 9 novembre i tre
spagnoli e il pilota belga, accusati di complicità, vengono liberati.
Ma si scopre che il ministero degli esteri francese era al corrente
dell’operazione e non l’aveva vietata, anche se aveva messo in guardia dai rischi.
L’associazione, infatti, ha potuto beneficiare dell’appoggio logistico dell’aeronautica
francese, presente in Ciad nel quadro dell’operazione Épervier. L’aeroporto di Abéché,
nell’est del paese, è sotto il controllo dell’esercito di Parigi. Gli “orfani” sono stati
raggruppati ad Abéché, muovendo dal Sudan, grazie agli aerei Transall. Da non
dimenticare che è ministro degli esteri quel Bernard Kouchener che salvò i boat
people e che ora si giustifica, dicendo che l’Arche de Zoé s’era registrata in Ciad
sotto altro nome, Children Rescue.
Le autorità ciadiane dell’est, da parte loro, non potevano non sapere che cosa
stava accadendo, dato che Children Rescue aveva ottenuto l’autorizzazione di
atterraggio per un aereo cargo. Ma forse è vero che il presidente ciadiano non era al
corrente. Indignato, Idriss Déby ha pensato bene di strumentalizzare l’accaduto,
giocando sul sentimento antifrancese: «Questi signori ci trattano come bestie. Ecco
l’Europa che ci salva e che ci dà lezioni». Ha usato parole grosse: «rapimento»,
«commercio di bambini», «prelievo di organi», «pedofilia». Voleva forse regolare i
conti con il ministro della difesa francese, che nel 2006 gli aveva rimproverato di
reclutare bambini soldato, come documentato da Human Rights Watch. E poi c’è la
storia del dispiegamento a breve della forza europea Eufor, composta di 3mila uomini,
di cui 1.500 francesi, che dovrebbe garantire la sicurezza dell’est del Ciad e il nordest del Centrafrica. Forza che a Déby non riesce troppo simpatica, dato che deve
nascondere il suo appoggio a gruppi ribelli sudanesi.
L’Europa che “salva”
Tutto era cominciato con Eric Breteau alla testa di un’associazione nata per
soccorrere i bambini vittime dello tsunami nel sud-est asiatico nel 2004. Oggi
sappiamo che solo una parte dei milioni di euro raccolti allora è servita allo scopo. Per
rilanciare la sua organizzazione, Breteau inventa un’operazione di salvataggio, di
evacuazione sanitaria e di diritto d’asilo. Il 28 aprile 2007, fa conoscere, via Internet,
la sua intenzione di trasferire 10mila bambini orfani dal Darfur (non è in corso un
genocidio?) verso Usa ed Europa. Mille quelli destinati alla Francia: vi arriveranno via
Ciad, senza permesso né visto. Una volta in Francia, si chiederà il diritto d’asilo. E alle
famiglie si propone «di accogliere in casa un bambino orfano di 5 anni o meno».
Come sospettare che dei malavitosi stavano giocando sulla sofferenza di
genitori occidentali (senza figli e pronti a pagar caro) o sulla miseria di famiglie
africane? L’associazione se la prende con chi grida all’illegalità e ai traumi psicologici
dei bambini sradicati. E ribadisce: «Bisogna salvarli finché siamo in tempo. Tra qualche
mese, saranno morti».
All’arresto di 16 europei e due ciadiani a Abéché, con l’accusa di rapimento e
truffa, si scopre che i bambini sono in buona salute, mentre si era scrupolosamente
voluto farli passare per feriti. Orfani? Un’inchiesta congiunta (Unicef, Acnur e Croce
rossa internazionale) dimostra che l’85% di essi ha i genitori ed è ciadiano. Erano stati
rapiti da ciadiani. «Ci avevano offerto caramelle», dirà uno di loro. E si faceva finta di
ignorare che i bambini musulmani non si possono adottare: il Corano rifiuta l’adozione.
Ma che importano le culture locali, quando si tratta di fare il bene e bisogna
farlo subito? È così che 250 famiglie hanno versato da 1.500 euro in su per bambino;
alcune sono talmente convinte del loro buon diritto che ora pensano di perseguire
l’organizzazione per non aver… consegnato la mercanzia!
In Francia, come in Italia, si è capito subito che qualcosa non andava. Un’ombra
di dubbio ha attraversato gli operatori umanitari, le ong, gli organismi Onu e altri. Non
è mancato chi si è chiesto com’è ancora possibile che un piccolo gruppo di
“avventurieri” continui a prendere l’Africa per un terreno da gioco, dove tutto è
permesso e sempre con lo stesso metodo: l’inganno e la dissimulazione.
E i ciadiani? Sdegnati dalla nuova “tratta”, hanno urlato la loro opposizione ai
«maledetti francesi», che vengono a far loro la lezione. Perché la Françafrique
continua, come se niente fosse cambiato dall’indipendenza a oggi, a mantenere
l’influenza sulle ex colonie con procedimenti antidemocratici. Le grandi imprese
francesi indirizzano i settori economici chiave e la politica, relegando la democrazia in
secondo piano e, a volte, combattendola frontalmente. I ciadiani non sono tutti
convinti che qui da noi ci sia il paradiso e là da loro l’inferno. E sanno che non è vero
che qui da noi tutti i bambini sono felici, ben nutriti, in salute … Si consoleranno,
comunque, con i 6,5 milioni di euro che saranno versati alle famiglie dei 103 bambini
“rapiti”. Ma, se mai verrà versato, questo denaro finirà nelle tasche di chi?
Il messaggio intanto comincia a passare: non è possibile fare in Africa quel che
si vuole, solo perché si è europei.