SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO PERCORSO DIDATTICO

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SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO PERCORSO DIDATTICO
SCUOLA SECONDARIA DI I GRADO
PERCORSO DIDATTICO
CLASSI PRIME
IL PERDONO CRISTIANO
a cura di
Leva Emanuela
IL PROBLEMA
LA DIMENSIONE DEL PERDONO
Perdonare è molto difficile. Lo è perdonare chi vuole “distruggerci”
coscientemente e chi ci distrugge senza neanche badarci; è difficilissimo
perdonare persone che amiamo e che ci deludono, ci tradiscono; è quasi
impossibile, talvolta, perdonare se stessi.
Eppure, per il cristiano la dimensione del perdono, se fatta propria un po’ per
volta, conduce a essere “liberi dentro”. Chi accetta la “logica del perdono” fin
da giovanissimo non potrà che maturare nella fede: il perdono esprime
all’estremo l’amore gratuito che è la scelta relazionale del cristiano vero.
Il perdono di Dio permette alla persona di perdonare se stessa e gli altri. E’
perdono che ricostruisce, che restituisce identità: io “sono” una persona creata
e amata da Dio e quindi degna di esistere; non mi identifico con il mio errore.
Il suo perdono fa quasi toccare l’infinito, respirare l’illimitato; infatti, è senza
limiti e tale può essere la speranza di ripresa e di crescita del cristiano.
LA PROPOSTA
Obiettivo educativo:
far comprendere al preadolescente il valore, il significato e la forza del
perdono cristiano, quale alternativa al modo comune di pensare per affrontare
e risolvere in modo positivo alcuni problemi che si possono incontrare della vita.
Tempo: 6 ore di lezione circa (possibilmente con la collaborazione del
docente di educazione artistica)
Fasi di articolazione delle attività:
1 - QUADRO “IL RITORNO DEL FIGLIO PRODIGO” DI REMBRANDT:
immagine e descrizione
Gli alunni sono invitati a guardare l’immagine che verrà riprodotta a colori su un foglio A4
e consegnata ad ognuno di loro. Per ulteriori approfondimenti a livello collettivo, ne verrà
esposta un’altra, grande e ben visibile a tutti, su una parete della classe.
Questa prima parte è descrittiva e il ragazzo viene accompagnato nel cogliere i vari
elementi che compongono l’opera per evitare il pericolo del soggettivismo. E’ una fase
molto importante perché l’allievo può, in tutta calma, analizzare obiettivamente l’opera
aiutato anche dalla seguente scheda fornita dall’insegnante e finalizzata allo studio della
figura del Padre e del figlio minore.
SCHEDA
MOMENTO DESCRITTIVO
Come viene rappresentato l’uomo anziano e il giovane che si inginocchia davanti a Lui?
Come sono vestiti?
Cosa stanno facendo?
In quale spazio sono inseriti?
Dove sono le fonti di luce e cosa illuminano?
MOMENTO INTERPRETATIVO
Perchè il giovane è in ginocchio e l’uomo anziano lo sta abbracciando?
Cosa sarà successo?
Chi possono essere?
Ci sono degli elementi che possono identificare queste due persone?
2 - IMMAGINE E INTERPRETAZIONE
Dopo aver lasciato il tempo di osservare l’opera, si inviteranno gli alunni a condividere il lavoro
descrittivo. Successivamente (fase interpretativa), si aiuteranno a capire, o a problematizzare,
che cosa l’immagine dice in più ad ognuno di loro o che cosa si vede alla luce della propria
esperienza culturale e sociale. E’ in questa fase che la descrizione si arricchirà con la lettura
interpretativa dell’opera alla luce del brano evangelico (Lc 15,11-32), prima fonte ispiratrice.
In particolar modo verrà evidenziato il momento in cui si inserisce questa immagine dipinta
dal Rembrandt, ovvero la sofferenza e il pentimento del figlio minore per la sua vita di
peccatore e i segni rivelatori del suo passaggio dalla morte alla vita e, conseguentemente,
l’atteggiamento del Padre nei suoi confronti. Per questo l’insegnante proporrà la lettura dei
seguente testo:
“… Il titolo del dipinto di Rembrandt è “Il ritorno del figlio prodigo”. Nel “ritorno” è implicita
una partenza. Ritornare è tornar-a-casa dopo aver-lasciato-casa, un ritorno dopo essersene
allontanati. Il padre che accoglie il figlio a casa è felice perché questo figlio “era morto ed è
tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.” (…) Il colore delicato tra il giallo e il marrone
della tunica del figlio appare bello se è visto nella sontuosa armonia con il rosso del mantello
del padre: la verità è che il figlio è vestito di stracci, i quali tradiscono la grande miseria che è
dentro di lui. Nel contesto di un abbraccio compassionevole, il fallimento dell’uomo può
apparire bello, ma non ha altra bellezza se non quella che viene dalla misericordia che lo
circonda. (…) Il fatto è che, assai prima di rientrare in se stesso e tornare a casa, il figlio è
partito. Ha detto al padre: “Dammi la parte del patrimonio che mi spetta”, poi ha messo
insieme tutto ciò che ha ricevuto ed è partito. L’evangelista Luca racconta tutto con tanta
semplicità e in modo così concreto che è difficile rendersi pienamente conto che ciò che qui sta
avvenendo è un evento inaudito: ingiurioso, offensivo e in netta contraddizione con la
tradizione più onorata del tempo. (…) Il figlio chiede non solo la divisione dell’eredità, ma
anche il diritto di disporre della propria parte. (…) Sotto entrambe le richieste c’è la seguente
implicazione: “padre, non posso aspettare che tu muoia”. (…) Sotto tutto questo c’è la grande
ribellione, il “no” radicale all’amore del padre, la maledizione non detta “ti vorrei morto”. Il
“no” del figlio prodigo riflette la ribellione originale di Adamo: il suo rifiuto del Dio nel cui
amore siamo creati e dal cui amore siamo sostentati. E’ la ribellione che ci pone fuori del
giardino, fuori della portata dell’albero della vita. E’ la ribellione che ci fa condurre una vita
sregolata in un “paese lontano”. Osserviamo di nuovo la raffigurazione del ritorno del figlio più
giovane fatta da Rembrandt, (…) il grande evento che si para davanti a noi è la fine della
grande ribellione. La ribellione di Adamo e di tutti i suoi discendenti è perdonata e la
benedizione originale, attraverso cui Adamo ricevette la vita eterna, è ripristinata. Sembra che
quelle mani siano sempre state stese – anche quando non vi erano spalle su cui posarsi. Dio
non ha mai ritirato le sue braccia…(…) il fatto che il padre tocchi il figlio è una benedizione
perenne, il figlio che riposa sul petto del padre è una pace eterna. Christian Thumpel scrive: “il
momento dell’accoglienza e del perdono nell’immobilità della sua composizione dura all’infinito.
Il movimento del padre e del figlio parla di qualcosa che non passa ma dura per sempre”. (…)
Percepire il tocco delle mani benedicenti di Dio e sentire la voce che chiama ognuno di noi
“figlio prediletto” sono la stessa cosa. Questo risultò chiaro al profeta Elia. Elia stava sul monte
per incontrare il Signore. Dapprima si alzò un vento impetuoso, ma il Signore non era nel
vento. Poi ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Poi seguì un fuoco, ma il
Signore non era nel fuoco. Alla fine ci fu qualcosa di molto soave, che alcuni hanno definito
una brezza leggera e altri una piccola voce. Quando Elia percepì questo mormorio, si coprì il
volto perché riconobbe la presenza del Signore. Nella tenerezza del Signore la voce era un
tocco e il tocco era una voce. (…) Il giovane abbracciato e benedetto dal padre è un uomo
povero, molto povero (…) è un uomo spoglio di tutto… eccetto di una cosa, la spada. L’unico
segno di dignità che gli rimane è la piccola spada che gli pende dal fianco. L’emblema della
nobiltà. Pur in mezzo alla degradazione, non ha perso del tutto la consapevolezza di essere
ancora il figlio di suo padre. Diversamente avrebbe venduto la spada di grande valore, simbolo
della sua condizione di figlio. (…) E’ stata questa sua condizione di figlio ricordata e soppesata
a persuaderlo finalmente a tornare indietro. (…) Il significato del ritorno del figlio più giovane è
condensato nelle parole: “Padre…non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. (…)
Tornato di nuovo a contatto con la verità della sua condizione di figlio, ha potuto udire - anche
se in modo appena percepibile – la voce che lo chiamava “ figlio prediletto” e sentire – sebbene
da lontano – il tocco della benedizione. (…) Il suo è pentimento, ma non un pentimento alla
luce dell’immenso amore di un Dio che perdona. E’ un pentimento a suo uso e consumo, che
gli offre la possibilità di sopravvivere. (…) Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale
è ricevere il perdono di Dio. (…) Qualche volta sembra persino che si voglia dimostrare a Dio
che le nostre tenebre sono troppo grandi per essere dissolte. (…) Ricevere il perdono esige la
volontà totale di lasciare che Dio sia Dio e compia ogni risanamento, reintegrazione e
rinnovamento. Fin quando vogliamo fare anche soltanto una parte di tutto questo da soli, ci
accontentiamo di soluzioni parziali, come quella di diventare un garzone. (…) Il mantello che
copre il corpo ricurvo del padre sembra una tenda che invita il viandante stanco a trovare un
po’ di riposo. Ma, fissandolo meglio, richiama un’altra immagine, più forte di quella della tenda:
quella delle ali protettive di una madre-uccello. Vengono in mente le parole di Gesù sull’amore
materno di Dio: “Gerusalemme, Gerusalemme…quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli,
come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto”(Mt.23,37).
(…) Quando guardo di nuovo quel vecchio che si curva sul figlio…, comincio a scorgere che nei
suoi tratti non solo un padre che “si getta al collo del figlio”, ma anche una madre che
accarezza il proprio figlio, lo circonda col calore del suo corpo e lo tiene contro il grembo da cui
è nato. (…) Il mio amico R. White mi ha fatto notare che la mano femminile e carezzevole del
padre è in corrispondenza con il piede nudo e ferito del figlio, mentre la mano forte maschile è
in corrispondenza con il piede che calza il sandalo. E’ troppo pensare che una madre protegge
il lato vulnerabile del figlio, mentre l’altra rinvigorisce la sua forza e il suo desiderio di
migliorare la propria vita? Il “ritorno del figlio prodigo” diventa così il ritorno al grembo di Dio,
il ritorno alle vere origini dell’essere, e di nuovo echeggia l’esortazione di Gesù a Nicodemo a
rinascere dall’alto.
(Henri J. M. Nouwen, “L’abbraccio benedicente”, ed. Queriniana)
3 – IL RITORNO DEL FIGLIO PRODIGO E IL REMBRANDT
Questa opera grandiosa può essere meglio compresa conoscendo il percorso esistenziale
dell’artista:
VITA DI REMBRANDT IL GENIO DI AMSTERDAM
Rembrandt è nato a Leida nel 1606, ottavo figlio di un mugnaio Rembrandt van Rijn, ma è
sempre stato considerato un pittore di Amsterdam, che in quegli anni era all'apice della sua
potenza commerciale, dove si trasferì nel 1631 e dove sposò Saskia, la figlia di un noto
commerciante d'arte. Di sicuro Rembrandt è considerato il più grande pittore d’Olanda e tra i
più grandi di tutti i tempi. La sua peculiarità oltre che per la grandezza pittorica sta nel fatto
che ci ha lasciato, come mai altri pittori, moltissimi autoritratti (tra cui quello qui a lato
riportato) che documentano le diverse fasi della sua vita. Tramite la scuola di Utrecht e il suo
maestro Lastman apprese la lezione dell'altro genio italiano, il Caravaggio.
Dietro vi è l’insaziabile desiderio di studio di motivi diversi: abiti, espressioni, pose ed
accessori. Ma soprattutto un carattere fiero di sé e di mostrare al mondo tanto le vette
pittoriche raggiunte, quanto l’acutezza del proprio sguardo che guizza magicamente al di fuori
del
quadro.
Rembrandt era così, superbo ed ambizioso, alla ricerca di fama e di gloria, in perenne
competizione con i suoi maestri, come il celebre pittore Peter Lastamn, presso cui condusse un
breve tirocinio ad Amsterdam, nel 1624. Più di tutte però, era la figura e la celebrità del
“principe dei pittori e pittore dei principi” ad ossessionarlo, l’idolo della generazione
precedente:
Peter
Paul
Rubens.
Rembrandt decise di dedicarsi alla pittura pochi mesi dopo la sua iscrizione all’università di
Leida, che lasciò per la bottega del pittore Isaac von Swanenburg nel 1620.
Nei primi anni della carriera come artista in proprio la sua fama crebbe rapidamente,
soprattutto nell’arte dell’acquaforte e del disegno. Il primo periodo di Amsterdam è anche
quello della prima consacrazione del pittore. Allo stesso succede però un periodo denso di
disgrazie per la vita dell'artista: nel 1642 muore la moglie Saskia, due anni dopo la nascita
Titus, ultimo ed unico dei molti figli dei coniugi che arriverà all’età adulta.
E’ la governante Geertje Dircx a prendersi cura di Rembrandt e dei suoi figli in questo delicato
periodo, diventandone infine la convivente anche sentimentale (come la moglie Saskia, anche
Geertje Dircx fu ritratta più volte dall’artista). Infine nel 1649 Rembrandt trovò una nuova
compagna:
Hendrickje
Stoffels,
che
fu
con
lui
negli
ultimi
anni
di
vita.
La fortuna verso gli gli ultimi anni della sua vita voltò definitivamente le spalle all'artista. Non
riusciva più a vendere i suoi quadri tanto che nel 1656 i suoi creditori vendettero la sua casa e
misero all'asta la sua straordinaria collezione. Solo grazie all'aiuto della sua ultima compagna
Hendrickje e di suo figlio Titus, Rembrandt si salvò dalla completa rovina, entrando
ufficialmente come impiegato nella loro ditta per il commercio di oggetti d’arte. Il questo modo
l'artista poté creare i suoi ultimi capolavori. La scomparsa, nel 1662, di Hendrickje, e quella di
Titus, poco dopo essersi sposato, nel 1668, sono i colpi decisivi a una vita già tanto travagliata.
Nel 1669 Rembrandt si spense nella più assoluta povertà. Gli rimanevano solo i suoi
strumenti.
La caratteristica principale delle opere di Rembrandt è la cromaticità e l'uso sapiente della luce.
La sua produzione in genere viene suddivisa in quattro periodi: quello di Leida (1625-1631)
che risente delle influenze dei Carracci e del Caravaggio (Ritratto di Nicolaes Ruts, 1631); il
primo periodo di Amsterdam (1632-1639) (Lezione di anatomia del dottor Tulp, 1632,
Autoritratto con Saskia, 1634); il secondo periodo di Amsterdam (Ronda di notte, 1642, con la
luce che proviene dal fondo oscuro); il terzo periodo di Amsterdam (1651-1669), con ritratti,
autoritratti e la Sposa ebrea (1665). Numerose sono anche le sue opere grafiche. I lutti della
sua vita provocarono una successiva crescente interiorizzazione dell'artista. Ciò, unito al
distacco dal convenzionale e dalle forme classiche, lo proiettò verso un'espressione della
pittura del tutto moderna, ma che purtroppo non incontrando i gusti del tempo gli creò notevoli
disagi economici visto che come si è detto morì solo e povero. Notevoli tra le sue produzioni
sono anche Sansone accecato dai filistei, 1636; Cristo e l'adultera, 1644; I pellegrini di
Emmaus, 1648; Giovane che si bagna in un ruscello, 1655; Autoritratto col bastone, 1658.
Molto utile, per una maggior comprensione dell’opera e della vita dell’artista, è questo
paragrafo del libro “L’abbraccio benedicente” di H.J.M. Nouwen:
REMBRANDT E IL FIGLIO PIU’ GIOVANE
Rembrandt era vicino alla morte quando dipinse il “Figlio prodigo”. Con tutta probabilità è stato
uno dei suoi ultimi lavori. Più leggevo sull’argomento e guardavo il dipinto, più lo vedevo come
l’espressione finale di una vita turbolenta e tormentata. Insieme con la sua opera incompiuta
“Simeone e il Bambino Gesù”, il “Figlio prodigo” mostra la percezione in cui cecità fisica e
profonda lucidità interiore erano intimamente connesse. Il modo in cui il vecchio Simeone
sostiene quel bambino vulnerabile e l’anziano padre abbraccia il figlio esausto rivelano una
visione interiore che ricorda alcune parole di Gesù ai discepoli: “Beati gli occhi che vedono ciò
che voi vedete” (Lc 10,23). Sia Simeone che il padre del figlio che torna, portano dentro di loro
quella luce misteriosa con cui vedono. E’ una luce interiore, profondamente segreta, che
irradia una tenera bellezza che tutto pervade.
In Rembrandt, tuttavia, questa luce interiore era rimasta nascosta per tanto tempo. Per molti
anni gli era stato impossibile raggiungerla. Soltanto gradualmente e con molta angoscia era
riuscito a percepirla dentro di sé e, attraverso se stesso, in coloro che dipingeva. Prima di
essere come il padre, Rembrandt per lungo tempo era stato come il giovane arrogante che
“raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze”.
Quando guardo gli autoritratti così profondamente interiorizzati che Rembrandt produsse
durante i suoi ultimi anni e che dicono molto della sua abilità nel dipingere la luminosità che
emana dal vecchio padre e dal vecchio Simeone, non devo dimenticare che, da giovane,
Rembrandt presentava tutte le caratteristiche del figlio prodigo: era sfacciato, sicuro di sé,
spendaccione, sensuale e molto arrogante. A trent’anni si dipinse, con la moglie Saskia, come
figlio perduto di bordello. Nel quadro non trapela nessuna interiorità. Ubriaco, con la bocca
semiaperta e gli occhi bramosi di sesso, si volge sprezzante a coloro che guardano il suo
ritratto come per dire: “Non è un gran divertimento?!”. Con la mano destra regge un bicchiere
mezzo vuoto, mentre con la sinistra tocca il fondoschiena della sua ragazza, i cui occhi non
sono meno concupiscenti dei suoi. I capelli lunghi e riccioluti di Rembrandt, il suo copricapo di
velluto con l’enorme piuma bianca e la spada, nel fodero di cuoio e con l’impugnatura d’oro,
che sfiora il dorso dei due che fanno baldoria, non lasciano molti dubbi sulle loro intenzioni. La
tenda scostata, nell’angolo in alto a destra, fa anche pensare ai bordelli dell’infame quartiere a
luci rosse di Amsterdam. Fissando intensamente questo sensuale autoritratto del giovane
Rembrandt coi tratti del figlio prodigo, a stento riesco a credere che sia lo stesso uomo che,
trent’anni dopo, si dipinse con occhi che penetrano così a fondo nei riposti misteri della vita.
Inoltre, tutti i biografi di Rembrandt lo descrivono come un giovane orgoglioso, fortemente
convinto del proprio genio e desideroso di esplorare ogni cosa il mondo possa offrire; un
estroverso che ama la lussuria ed è insensibile a coloro che lo circondano. Non c’è dubbio che
una delle principali preoccupazioni di Rembrandt sia stato il denaro. Ne accumulò molto, ma
molto ne spese e ne perse. Una gran parte della sua energia fu sperperata in processi
giudiziari protrattisi a lungo per questioni finanziarie e procedimenti di bancarotta. Gli
autoritratti dipinti verso la fine dei vent’anni e all’inizio dei trenta rivelano in Rembrandt un
uomo avido di fama e adulazione, appassionato di abiti stravaganti, che preferisce catene d’oro
ai tradizionali colletti bianchi inamidati e fa sfoggio di cappelli, berretti, elmi e turbanti bizzarri.
Anche se questo abbigliamento elaborato può essere spiegato in gran parte come un modo
normale di esercitare e ostentare tecniche diverse di pittura, dimostra anche che ritrattava di
un personaggio arrogante che non si mostrava così solo per far piacere ai suoi committenti.
Comunque, a questo breve periodo di successo, popolarità e ricchezza fanno seguito momenti
di vita densi di dolori, sfortune e calamità. Provare a riassumere le tante sventure della vita di
Rembrandt può essere opprimente. Non sono dissimili da quelle del figlio prodigo. Dopo aver
perso il figlio Rumbartus nel 1635, la prima figlia Cornelia nel 1638 e la seconda figlia Cornelia
nel 1640, la moglie di Rembrandt, Saskia, da lui amata e ammirata profondamente, muore nel
1642. Rembrandt rimane con il figlio di nove mesi, Titus. Dopo la morte di Saskia, la sua vita
continua ad essere segnata da innumerevoli sofferenze e problemi. Una relazione molto infelice
con la bambinaia di Titus, Geertje Dircx, conclusasi con una causa e con il ricovero in
manicomio di Geertje, è seguita da un’unione più stabile con Hendrickje Stoffels. Essa gli dà un
figlio, che muore però nel 1652, e una figlia, Cornelia, l’unica che sopravviverà.
Durante questi anni, la popolarità di Rembrandt come pittore precipita, anche se alcuni
collezionisti e critici continuano a riconoscerlo come uno dei più grandi pittori del tempo. I suoi
problemi finanziari diventano così gravi che nel 1656 l’artista viene dichiarato insolvente e
allora si avvale del diritto di vendere tutte le sue proprietà e i suoi beni a beneficio dei creditori
per evitare la bancarotta. Tutti i suoi averi, i lavori suoi e quelli di altri pittori, la sua ampia
collezione di manufatti, la casa ad Amsterdam e la mobilia, vengono venduti in tre aste tra il
1657 e il 1658.
Sebbene Rembrandt non si sia mai completamente liberato da debiti e debitori, all’inizio dei
suoi cinquant’anni riesce a trovare un minimo di pace. L’intensità dei colori e l’interiorità
crescenti dei suoi dipinti durante questo periodo mostrano che le tante delusioni non lo hanno
esacerbato. Al contrario, hanno avuto un effetto purificatore sul suo modo di vedere. Jakob
Rosenberg scrive: “Cominciò a considerare l’uomo e la natura con un occhio ancora più
penetrante, non più distratto da splendori esteriori o da atteggiamenti teatrali”. Nel 1663
Hendrickje muore e, cinque anni dopo, Rembrandt assiste non solo al matrimonio ma anche
alla morte del suo adorato figlio, Titus. Quando il pittore muore nel 1669, è diventato un uomo
povero e solo. A lui sopravvivranno soltanto la figlia Cornelia, la nuora Magdalene van Loo e la
nipote Titia.
Ogni volta che guardo il figlio prodigo che si inginocchia davanti al padre e affonda il viso
contro il suo petto, non posso che scorgere in lui l’artista, un tempo così sicuro di sé e
venerato, giunto alla dolorosa consapevolezza che tutta la gloria da lui attinta non è che vana
gloria. Invece dei ricchi indumenti con cui da giovane Rembrandt si era dipinto nel bordello,
ora indossa soltanto una lacera sottoveste che copre il suo corpo emaciato, e i sandali, coi
quali ha tanto camminato, sono ormai consunti e inservibili.
Spostando lo sguardo dal figlio pentito al padre misericordioso, noto che si è spenta la luce
scintillante riflessa dalle catene d’oro, dalle armature, dagli elmi, dalle candele e lampade
nascoste, ed è sostituita dalla luce interiore dell’età avanzata. E’ il passaggio dalla gloria che
seduce e porta a una ricerca sempre più esasperata della ricchezza e della popolarità, alla
gloria nascosta nell’animo umano e che va al di là della morte.
4 - CONTESTO STORICO E ALTRI BRANI EVANGELICI
Il percorso operativo potrebbe soffermarsi sull’analisi del contesto storico e sociale in cui nasce
il Vangelo di Luca e, successivamente, sull’analisi della parabola del figlio prodigo seguendo lo
schema proposto.
SCHEDA PER L’APPROFONDIMENTO DEL BRANO EVANGELICO : LUCA 15,11-32
A questo punto, si potrebbero analizzare altri due brani evangelici sul perdono:
- Mc 2,1-12: Gesù e il paralitico;
- Gv 8,1-12: Gesù e l’adultera;
ed approfondirli con l’ausilio del seguente schema:
STUDIO DI UN TESTO BIBLICO
COMPRENSIONE
IL SENSO DEL
TESTO E’
CHIARO
SI
SI
NO
Che testo è?
 Quando e dove è stato scritto?
(situazione)
 Perché è stato scritto?
(intenzione)
 Di che tratta il libro nel suo
complesso? (contesto)
 A quale genere letterario
appartiene? (forma)
 Che significano le parole?
(vocabolario)
SPIEGAZIONE
Qual è il suo senso?




Che senso aveva il passo per i primi
lettori?
Qual è il suo insegnamento
principale?
Che cosa risulta dal confronto con
altri passi biblici più chiari?
Se è stato scritto per rispondere a
bisogni particolari, su quale
principio generale fa leva?
APPLICAZIONE
Che senso ha oggi?
 Quale situazione attuale corrisponde a quella dei primi lettori?
 Il passo contiene un insegnamento specifico su Dio, l’uomo, la donna, il mondo, la
Chiesa…?
 Presenta un esempio, un avvertimento, una promessa…?
 Suggerisce e ispira una determinata azione?
 Riusciamo a far nostre le parole o i sentimenti dell’autore?
5 – IL BRANO EVANGELICO DI LUCA E IL PERDONO
Il desiderio degli uomini di rivolgersi a Dio è antichissimo e testimoniato in tutte le religioni. Si
può dire che l’uomo è nato con questa forte esigenza di comunicare a qualcuno i propri dolori,
le proprie gioie, i propri sogni… E a chi far riferimento per avere aiuto e consolazione se non a
Dio, riconosciuto nelle più diverse prospettive religiose quale autore della vita? Anche il popolo
di Israele, da cui Dio si è fatto conoscere e riconoscere, ha un patrimonio di preghiere di
invocazione, di ringraziamento, di esultanza nella gioia per aver sperimentato la presenza di
Dio, di tristezza nella paura di crederlo lontano.
Anche Gesù, spesso, desiderava stare in colloquio più intimo con il Padre e “si ritirava, per
lungo tempo, in luoghi isolati a pregare” (Lc 5,16). Un giorno i discepoli chiesero a Gesù di
insegnare loro a pregare. Gesù suggerì di rivolgersi a Dio con amore e confidenza chiamandolo
Abbà, un termine aramaico che era usato in famiglia dai bambini per rivolgersi al proprio padre
e che corrisponde in italiano al confidenziale “babbo” o “papà”. Gesù, nell’insegnare a pregare,
annuncia che Dio è Padre di tutti e gli uomini sono fratelli. La preghiera del Padre Nostro è la
preghiera dell’intera comunità cristiana.
Dio è il vero Padre misericordioso, pieno di premure per i suoi figli, che pensa a loro e che li
ama fino alla fine anche se non corrispondono il suo amore.
Questo insegnamento viene ribadito da Gesù nella parabola del “Padre Misericordioso” detta
anche “Figliol Prodigo”. Essa ci insegna che Dio ama tutti come un padre ama i suoi figli ed è
sempre pronto a perdonare e accogliere a braccia aperte chi ritorna a Lui.
E’ importante a questo punto concentrarsi sul brano evangelico Lc 15,11-32 e l’insegnante
guiderà gli alunni ad analizzare il concetto di perdono che ne emerge.
Infine per addentrarsi maggiormente nello specifico del perdono cristiano si potrebbe riflettere
e discutere sul Sacramento della Riconciliazione.
IL PERDONO, DONO DI DIO
Gesù annuncia a tutti la misericordia di Dio: Egli non è un giudice severo ma un padre buono
sempre pronto ad accogliere tra le sua braccia chi torna a lui con animo sincero e pentito.
Tutte le persone che assumono atteggiamenti di chiusura e di offesa nei confronti di Dio e del
prossimo sono invitate da Gesù al pentimento dei propri peccati, a cambiare vita. A chi è
sinceramente pentito, Gesù, dona la remissione dei peccati (Lc 5,17-26) cioè il perdono di Dio.
I cristiani credono che anche oggi
Gesù è pronto a donare, nel sacramento della
Riconciliazione, l’amore e la misericordia di Dio a chi si sente triste e sinceramente pentito per
il male commesso. Egli, infatti, ha comunicato agli apostoli il potere di rimettere i peccati: “A
chi perdonerete i peccati, saranno perdonati; a chi non li perdonerete, non saranno perdonati”
(Gv 20,23). Così chi si accosta al sacramento della penitenza, dopo aver confessato i suoi
peccati, riceve per mezzo del sacerdote il perdono di Dio.
CONVERSAZIONE:
- Che stima hai del sacramento della Riconciliazione?
- Ce ne sono altri che ritieni più importanti?
- Quali obiezioni o domande ti senti di formulare a proposito della Confessione?
- Ai tre nomi del Sacramento (Riconciliazione, Confessione e Penitenza) corrispondono
tre aspetti del perdono. Stabilite le corrispondenze selezionando il termine più adatto.



Il perdono di Dio è visto nel suo aspetto fondamentale di ricostruzione della relazione
(bella, piena, amicale) tra l’uomo e Dio:
riconciliazione/confessione/penitenza
Il perdono di Dio è visto nel suo aspetto di riparazione al male fatto e causato:
riconciliazione/confessione/penitenza
Il perdono di Dio è visto nel suo aspetto di ammissione delle proprie mancanze e
responsabilità:
riconciliazione/confessione/penitenza
6 – ATTUALIZZAZIONE
Ma oggi è ancora possibile parlare di ‘perdono’ in senso cristiano?
Cosa si intende per ‘perdono’ cristiano e cosa per ‘perdonismo’?
Per affrontare questo ulteriore passo in avanti, si potrebbe prendere in esame la testimonianza
di quattro persone che hanno scelto la via del perdono:
 Oscar Romero tramite la visione del film “Romero”, di J.Duigan, USA 1989.
 Giovanni Paolo II che perdonò Alì Agca, l’uomo che nel 1981 attentò alla sua vita ed
inoltre, nel grande Giubileo del 2000, a nome di tutta la Chiesa, domandò perdono
come qui di seguito riportato.
LA CHIESA DOMANDA PERDONO
Il 12 marzo del 2000, prima domenica di quaresima di quell’anno, Papa Giovanni Paolo II ha
celebrato l’Eucaristia assieme ai cardinali e ha domandato perdono al Signore per i peccati
passati e presenti dei figli della Chiesa. La celebrazione della “giornata del perdono” è stata
voluta espressamente dal Santo Padre come segno forte dell’Anno Giubilare – Anno Santo –
che è un momento particolare di conversione e di riconciliazione.
Durante l’omelia il Papa ha precisato:
“Dinanzi a Cristo, che per amore si è addossato le nostre iniquità, siamo tutti invitati a un
profondo esame di coscienza. Uno degli elementi caratteristici del grande Giubileo (Anno
Santo) sta in ciò che ho qualificato come “purificazione della memoria”. Come successore di
Pietro, ho chiesto che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal
suo Signore, si inginocchi dinanzi a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei
suoi figli. L’odierna prima domenica di quaresima mi è parsa l’occasione propizia perché la
Chiesa, raccolta spiritualmente attorno al successore di Pietro, implori il perdono divino per le
colpe di tutti i credenti. Perdoniamo e chiediamo perdono!”
Il solenne gesto, presentato solo pochi giorni prima della celebrazione, ha concentrato la
richiesta di perdono al momento della preghiera dei fedeli, suddividendola in sette invocazioni
relative ciascuna ad un particolare gesto:
- Confessione dei peccati in generale
- Confessione delle colpe al servizio della verità
- Confessione dei peccati che hanno compromesso l’unità del corpo del Cristo, cioè la Chiesa
- Confessione delle colpe nei rapporti con Israele
- Confessione delle colpe commesse con comportamenti contro l’amore, la pace, i diritti dei
popoli, il rispetto delle culture e delle religioni
- Confessione dei peccati che hanno ferito la dignità della donna e l’unità del genere umano
- Confessione dei peccati nel campo dei diritti fondamentali della persona
Dopo ogni invocazione è stata accesa una lampada davanti al crocifisso che, alla fine, il Santo
Padre ha abbracciato e baciato in segno di penitenza e venerazione. Successivamente ha
benedetto e congedato l’assemblea con le seguenti parole.
“Fratelli e sorelle, questa liturgia che ha celebrato la misericordia del Signore e ha voluto
purificare la memoria del cammino dei cristiani nei secoli, susciti in tutta la Chiesa e in
ciascuno di noi un impegno di fedeltà al messaggio perenne del Vangelo: mai più
contraddizioni alla carità nel servizio della verità, mai più gesti contro la comunione della
Chiesa, mai più offese verso qualsiasi popolo mai più ricorsi alla logica della violenza, mai più
discriminazioni, esclusioni, oppressioni, disprezzo dei poveri e degli ultimi. E il Signore con la
sua grazia porti a compimento il nostro proposito e ci conduca tutti insieme alla vita eterna”.

Don Andrea Santoro ucciso a Trebisonda (Turchia) l’ 8 febbraio 2006, che in questo
articolo parla di una sua esperienza
Per strada abbiamo dato il passaggio a due giovani. Sono diretti al villaggio ai piedi del
vulcano. Ci invitano a fermarci con loro, anche perché, ci dicono, il tempo va peggiorando e il
giorno sta per finire. Entriamo nella stanza, rigorosamente riservata agli uomini, ci sediamo
per terra e siamo serviti di ogni ben di Dio. A un certo punto uno dice: “Voi cercate l’oro!”. Ho
un’espressione di sorpresa ma lui insiste: “Cercate l’oro e avete anche gli strumenti per
cercarlo”. All’improvviso capisco: il villaggio era stato abitato, nei primi decenni del secolo, da
cristiani armeni i quali prima di fuggire o di essere cacciati avrebbero nascosto l’oro da qualche
parte. Allora mi si è aperto il cuore e ho detto: “L’oro è altro: l’oro è Dio, l’oro è l’amicizia,
l’oro è l’amore e la pace, l’oro è la fede, la preghiera e l’ascolto di Dio, l’oro è la bontà, il
rispetto, l’ospitalità, il perdono, l‘oro sono i vostri bambini…”. “L’oro sei tu”, mi fa all’improvviso
il mio interlocutore, “perché quello che dici è bello!”.
Mi accorgo che i nostri cuori si sono aperti dopo essere stati sfiorati dal sospetto e dalla paura.
Il discorso si sposta sulla guerra: Bush, l’America, l’Italia, il petrolio, i musulmani, i cristiani…
“La guerra ferisce anzitutto Dio”, dico, “perché un padre soffre quando i figli si uccidono. La
guerra non viene da Dio”. E aggiungo: “La guerra è prendere, la pace è dare. Voi ci avete
accolto e messo davanti da mangiare: questa è la pace. Noi vi abbiamo dato un passaggio in
macchina: questa è la pace”. Davanti a me c’è un bambino che mi guarda fisso. “La guerra è
facile”, continuo rivolgendomi a lui. “Per esempio: io ti colpisco, tu mi colpisci e così via… Ma
se io ti colpisco e tu non rispondi questa è pace. Ma è difficile. A me verrebbe istintivamente di
colpirti due volte. Gesù nel Vangelo dice: se amate soltanto quelli che vi amano che merito ne
avete? Amate i vostri nemici”. Il bambino dice: “Resistere alla violenza, questa è pace!”. Ha
afferrato in pieno il discorso e si vede dal volto che è d’accordo. Un altro adulto interviene:
“Anche il Corano dice: fate del bene a chi vi fa del male”. Forse non è esattamente così, ma
che sia scritto nel cuore è più importante che sia scritto in un libro. Ci lasciamo con l’invito da
parte loro a tornare la mattina. Abbiamo chiesto di visitare la moschea del villaggio. Con
sorpresa, appena entrati, ci accorgiamo che è una chiesa armena, piccola, graziosa, raccolta,
in pietra nera con due file di colonne al centro. Ispira a pregare. Chiedo di poterlo fare, mi
dicono di sì. Ricordandomi del discorso di ieri e di quanto ci siamo detti sui contrasti avvenuti
tra religioni, gruppi etnici, popoli e su quanto in un passato recente è avvenuto anche nel
villaggio tra cristiani, curdi e turchi per motivi politici e religiosi, comincio a pregare a voce
alta: “Signore abbi pietà di noi. Tu sei buono, ci ami, sei Unico ma noi ci siamo fatti del male:
perdonaci”.
Il giovane è con me, curdo e musulmano, risponde a voce alta: “Amen!”. E’ d’accordo e prega
anche lui con me. Io continuo: “Signore, tutti crediamo in te ma abbiamo fatto scorrere del
sangue e tu ne soffri. Abbi pietà di noi”. Sento la stessa risposta: “Amen”. “Signore i cristiani
hanno fatto del male ai musulmani e i musulmani ai cristiani, perdonaci… I curdi ai turchi e i
turchi ai curdi, perdonaci… Gli armeni ai curdi e i curdi agli armeni… quanti morti ci sono stati:
abbi pietà di noi…”.
Ogni volta risuonava l’Amen del mio amico musulmano e curdo. Ho sentito che quella
preghiera in quella moschea-chiesa era una preghiera di riconciliazione e che qualcosa che
assomiglia al perdono vagava nell’aria.

Madre Teresa di Calcutta che a proposito del perdono ha affermato:
Quando ci renderemo conto che siamo peccatori bisognosi di perdono, ci sarà molto facile
perdonare gli altri. Finché non capirò questo, mi costerà molto dire “Ti perdono” a chiunque si
rivolga a me. Non è necessario essere cristiani per perdonare. Ogni essere umano viene dalle
mani di Dio e tutti sappiamo quanto Dio ci ami. Qualunque sia la nostra credenza, dobbiamo
imparare a perdonare, se vogliamo amare veramente”.
Si potrebbe concludere con la seguente riflessione per stimolarne il dibattito:
Quando si subiscono violenze forti e drammatiche è facile che prenda il sopravvento la
vendetta, la ripicca, il desiderio di farsi giustizia da soli. Il perdono è una realtà difficile, perché
la violenza riesce facilmente a rubarci il cuore. E ciascuno di noi, nel suo piccolo, fa esperienza
di questa violenza. Non lasciamoci rubare il cuore. Combattiamo con la generosità, l’attenzione
agli altri, la gratuità ogni tentativo di crudeltà, vinciamo con le armi del perdono quelle
situazioni che creano tensioni, conflitti, vuoti di amore e di incontro. La proposta è davvero di
alto livello, ma è Vangelo, è l’insegnamento di Gesù.
VERIFICA E VALUTAZIONE
 Interesse: in base al coinvolgimento personale alle attività proposte;
 Partecipazione: annotare sul registro con segno positivo (+) gli
interventi pertinenti che emergono durante le varie attività;
 Impegno: verificare la comprensione del significato del quadro di
Rembrandt e dei testi biblici proposti ;
 Relazione con gli altri: valutare il confronto fra compagni e le
riflessioni che emergono in classe durante la conversazione.