AMERICANI E INGLESI DIVISI DALLA LINGUA COMUNE – Limes

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AMERICANI E INGLESI DIVISI DALLA LINGUA COMUNE – Limes
Limes 06/2016
BREXIT E IL PATTO DELLE ANGLOSPIE
AMERICANI E INGLESI DIVISI
DALLA LINGUA COMUNE
di
Dario FABBRI
Fra l’inglese parlato nel Regno Unito e quello corrente negli Usa
le differenze sono notevoli. Tra francesismi britannici
e germanismi americani. Ma l’idioma più prossimo all’originario
è quello d’Oltreoceano. Quando Churchill non capì Roosevelt.
P
1.
ER WINSTON CHURCHILL, FERVENTE
atlantista, fu un clamoroso shock. Sicuro d’aver concordato con Franklin Roosevelt la necessità di occuparsi immediatamente di una segreta questione militare,
dopo la conferenza di Jalta scoprì con stupore che lo Stato maggiore Usa aveva
ignorato la sua richiesta. Eppure gli americani erano stati chiari: «We’re going to
table the issue». «Metteremo l’argomento sul tavolo», secondo l’interpretazione britannica. L’equivoco e il malumore di Londra proseguirono per alcune ore, finché
il primo ministro comprese che nell’accezione statunitense to table significa «mettere da parte», «archiviare» 1. Ovvero, l’esatto contrario. Per la prima volta a Churchill fu chiaro ciò che nel 1887 Oscar Wilde aveva magistralmente scritto in Il
fantasma di Canterville. «America e Inghilterra condividono molte cose, ma non
la lingua» 2. Tema notoriamente recuperato nel 1942 da George Bernard Shaw,
per cui «i due paesi sono divisi da una lingua comune».
Oggi l’inglese britannico e quello statunitense brillano di luce propria. Sudditi di Sua Maestà e cittadini d’Oltreoceano continuano a usare (quasi) gli stessi
vocaboli, ma pronuncia, ortografia e grammatica differiscono notevolmente. Il
divario – al di là del dinamismo di ogni vernacolo che per inerzia ne produce il
mutamento – è dovuto alla diminuzione dei contatti tra le due popolazioni tra il
XVIII e il XIX secolo; alla francofilia delle élite britanniche; allo sviluppo tecnologico che ha generato termini sconosciuti; all’approdo in America degli immigrati tedeschi, prima etnia del paese, che hanno influenzato accento e locuzioni.
Distinzioni che non bastano per considerare l’americano una lingua indipendente. Ma che rendono patente la distanza esistente tra le due sponde dell’Atlanti1. W. CHURCHILL, The Second World War, volume 3: The Grand Alliance, Boston 1986, Houghton Mifflin, p. 609.
2. O. WILDE, The Canterville Ghost, 1887.
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co, parzialmente attenuata dall’adozione di molteplici americanismi da parte dei
britannici, e che consentono alla superpotenza di conservare come proprio l’idioma dell’ex madrepatria.
2. La lingua parlata in Inghilterra cominciò a discostarsi sostanzialmente da
quella del Nuovo Mondo ai tempi della rivoluzione americana. Contrariamente
al luogo comune, a modificarla furono aristocratici e letterati britannici, non i ribelli statunitensi. Affascinata dai lumi e dall’etichetta francese, alla fine del XVIII
secolo la classe intellettuale d’Oltremanica adottò dizione e pronuncia parigine.
Lo storico complesso di inferiorità culturale nei confronti della Francia, risalente
all’invasione normanna, produsse la gallicizzazione dell’inglese. Center si trasformò in centre; theater in theatre; color in colour; program in programme;
check in cheque. Improvvisamente la prosa di Shakespeare, così come appare
nel first folio, fu considerata démodé. Ancora più rilevanti gli stravolgimenti riguardanti la pronuncia. Da sempre rotico, come molte lingue germaniche, nel
corso dell’Ottocento l’inglese britannico smise di pronunciare la lettera «r», tranne nei casi in cui questa è seguita da una vocale o posta all’inizio della parola.
La vocale «a», storicamente indicante un suono a metà tra «a» ed «e», divenne
semplicemente «a», come nelle parole bath («bagno»), laugh («risata») o dance
(«danza»). Si diffuse la pratica, tuttora in voga in Inghilterra, di mantenere silenti
alcune sillabe, come nei vocaboli secretary, necessary, military. L’intenzione era
imitare il suono dolce e distinto del francese.
Tali artificiali mutamenti consentirono a John Keats di rendere in rima thoughts con sorts e thorns con fawns, esercizio possibile soltanto omettendo le «r» 3.
Ma rimasero estranei alla società americana che, tranne in alcune regioni del
New England, conservò gli usi linguistici dei secoli precedenti. Tuttora gli statunitensi utilizzano, oltre alla pronuncia, termini risalenti al XVII secolo, fino a poco tempo fa estinti nell’arcipelago britannico. Su tutti: fall per indicare l’autunno
(dall’anglosassone faule of the leafe, «caduta delle foglie»), al posto del francese
autumn; to hire al posto di to employ; gotten quale participio passato di to get
(got nel Regno Unito); il verbo to guess (presente in Gran Bretagna con il solo
significato di «indovinare») nell’accezione di «pensare, ritenere». Eppure, in piena
trance francofila, incuranti di tanta astrusità, i britannici dell’èra vittoriana accusarono gli ex coloni di scarsa raffinatezza per aver (inconsapevolmente) difeso
la purezza della loro lingua.
A sancire la crescente discordanza tra l’inglese dei due paesi intervenne
Noah Webster, un lessicografo di Hartford nel Connecticut, che tra il 1806 e il
1828 lavorò al primo dizionario dell’idioma americano. Oltre a raccogliere i lemmi creati nel Nuovo Mondo, Webster intendeva contrastare le tendenze provenienti dall’ex madrepatria. «La lingua della Gran Bretagna non può più essere il
nostro standard, giacché il gusto dei suoi scrittori è corrotto e il loro stile in de-
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3. Cfr. J. SMITH, Sound Change and the History of English, Oxford 2007, Oxford University Press, p. 37.
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clino» 4, sentenziò nel 1789. Il suo dizionario conteneva ben 70 mila vocaboli
(tutti rigorosamente indicati nella dizione secentesca e settecentesca), dei quali
circa 12 mila inediti. In particolare, voci di origine amerinda assimilate dai creoli
per indicare animali (opossum; raccoon, «procione»; moose, «alce»), vegetali
(squash, «zucca») e abiti indigeni (moccasin, «mocassino») 5. Ancora adesso il
Merriam-Webster – nel 1843 gli editori George e Charles Merriam acquisirono i
diritti del dizionario dallo spiantato Webster – è ritenuto la massima autorità in
materia di inglese statunitense.
A incrementare il divario tra i due «dialetti» contribuì quindi tra Ottocento e
Novecento il separato sviluppo tecnologico. In ambito infrastrutturale, dei trasporti e degli affari germinarono in America neologismi sconosciuti alla Gran
Bretagna: highway, freeway, parking lot, subway, commuter, concourse, doubledecker, terminal, motel, gas(oline), mileage, movie, register, supermarket, drugstore, elevator, station wagon, tailgate, truck. Ma fu soprattutto la coeva «invasione»
tedesca degli Stati Uniti a influire sulla traiettoria del vernacolo a stelle e strisce.
A partire dalla prima metà dell’Ottocento circa 9 milioni di teutonici si trasferirono Oltreoceano, la più grande migrazione nella storia americana. Al punto che
tra il 1795 e il 1844 il Congresso Usa prese in considerazione più volte la proposta di tradurre in tedesco ogni legge federale. Oggi circa 100 milioni di statunitensi vantano almeno un avo germanico (più di ogni altro ceppo etnico) 6 e il loro avvento ha ulteriormente rafforzato la roticità e la predisposizione dei connazionali a pronunciare ogni sillaba.
Dalla lingua di Goethe gli americani hanno drenato numerosi vocaboli ed
espressioni. Parole come angst («ansia»), kindergarten («scuola dell’infanzia»); delicatessen («alimentari»); schmooze («socializzare»); scram («andarsene») 7. Costruzioni grammaticali come: I want out («voglio andarmene») calco del tedesco Ich
will raus; you coming with? («vieni anche tu?»), invece dell’orginario are you coming along?, mutuato dalla forma kommst du mit?; what gives? («che succede?»)
derivato da was gibt’s? 8; mox nix («non fa nulla») dal letterale macht nichts; la
tendenza a usare l’infinito semplice al posto di quello sostantivato per indicare
una preferenza (I like to drive anziché I like driving). La pronuncia di yes, di fatto un teutonico ja. Nel corso di un secolo i tedeschi assursero a prototipo dell’homo americanus, anche in ambito linguistico. All’inizio del XX secolo molti di
loro migrarono dal Midwest e dal Northwest alla California diffondendo attraverso Hollywood il loro accento, da tempo considerato perfettamente standard.
4. Citato in H. HITCHINGS, Defining the World: The Extraordinary Story of Dr Johnson’s Dictionary,
New York 2006, Picador.
5. Cfr. N. WEBSTER, American Dictionary of the English Language, Hartford 1828; Cfr. W.W. SKEAT,
Principles of English Etymology: The Native Element, Oxford 1891, Clarendon Press.
6. Cfr. D. FABBRI, «Washington contro Berlino, la guerra civile “tedesca”», Limes. «La terza guerra
mondiale?», n. 2/2016, pp. 123-132.
7. P. TRUDGILL, New-Dialect Formation: The Inevitability of Colonial Englishes, Edinburgh 2006, Edinburgh University Press.
8. Cfr. C. AMMER, American Heritage Dictionary of Idioms, 2a ed., Boston 2013, Houghton Mifflin.
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Southern
California
Northern
California
MESSICO
West Texas
Colorado West
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Central West
Southwest
Utah West
Northwest
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Hoosier Apex
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Midwest
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England
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Southern Florida
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Atlantic South
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Northern Louisiana L o
I DIALETTI DELL’AMERICAN ENGLISH
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BREXIT E IL PATTO DELLE ANGLOSPIE
Nel 1919 lo scrittore Henry Louis Mencken, nativo di Baltimora e discendente
da una famiglia del Palatinato, scrisse l’influente The American Language per difendere l’inglese a stelle e strisce, a suo avviso «più vivo e creativo di quello britannico». E alcuni decenni più tardi Sheldon, protagonista dei fumetti del californiano Dave Kellett, definì ironicamente l’inglese «una lingua creata da tre tizi
ciechi, armati di dizionario tedesco».
La disarmonia linguistica tra americani e britannici raggiunse l’apice intorno
alla metà del Novecento. Come verificato da Winston Churchill, al tempo del secondo conflitto mondiale l’isolazionismo degli Stati Uniti e la natura ancora embrionale dei mezzi di comunicazione di massa avevano reso quasi alieni i due
idiomi. Finché nel dopoguerra la massiccia diffusione in Gran Bretagna, come
nel resto del pianeta, della cultura statunitense provocò un riavvicinamento tra
cugini di lingua. Nonostante una palpabile ostilità nei confronti della parlata
creola. Già nel 1950 il quotidiano The Guardian redasse un manuale interno
che proibiva l’impiego di espressioni provenienti dall’ex colonia. E nel 1995 il
principe Carlo, evidentemente a digiuno di filologia, si scagliò contro «la corruzione della lingua nazionale provocata dagli americani, che inventano sostantivi
e verbi e creano grande confusione» 9. Negli anni l’idioma di Sua Maestà ha comunque accolto, soprattutto attraverso cinema e televisione, numerosi neologismi d’Oltreoceano e anglicismi di ritorno (spesso scambiati per addizioni allogene). Interrogato sul metodo utilizzato per comunicare con George W. Bush, nel
2001 Tony Blair ammise candidamente di rivolgersi a lui in americano 10. Così,
secondo uno studio effettuato nel 2015 dal quotidiano Daily Mirror, la maggioranza dei giovani britannici utilizza espressioni profondamente statunitensi 11.
Tra queste: can I get? («posso ottenere?»), per ordinare qualcosa in un negozio al
posto del più ortodosso may I have?; going forward («andando avanti») per indicare un evento collocato nel futuro (anziché in the future); ahead of («davanti
a») piuttosto che before; I’m good invece di I’m well. In questa fase la conoscenza dell’idioma altrui da parte dei britannici supplisce alla mancata reciprocità
degli americani e mantiene intellegibili le due varianti linguistiche, ma non ne
annulla le marcate differenze. Palesi all’occhio e all’orecchio di financo modesti
conoscitori dell’ecumene anglofona.
3. Inglese britannico e americano sono ormai prospettive opposte della medesima lingua. Non è accaduto quanto pronosticato nel 1877 dal filologo Henry
Sweet, per cui «nel corso di un secolo le due forme linguistiche sarebbero divenute reciprocamente incomprensibili». Non si è replicata nel mondo anglosassone la scissione esistente tra boeri e olandesi.
9. P.T. O’CONNER, S. KELLERMAN, Origins of the Specious: Myths and Misconceptions of the English Language, New York 2010, Random House.
10. Cfr. «Divided by English», BBC News, 19/7/2001.
11. Cfr. B. HANCILL, J. BOULTON, «A Guide to Americanisms: Two Nations Divided by a Common Language», Daily Mirror, 21/4/2015.
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Tuttavia Stati Uniti e Gran Bretagna si esprimono in maniera assai diversa.
Con l’eccezione delle élite intellettuali che negli ultimi decenni hanno avuto accesso ai Monty Python o alla letteratura di George Orwell, gli statunitensi ignorano pressoché del tutto il gergo isolano. Spesso non conoscono il significato di parole molto comuni come lad («ragazzo») o lorry («autotreno»). Non fosse per la
permeabilità dei britannici, che pure accusano la superpotenza di imperialismo
culturale, la difformità sarebbe perfino più ampia. Ne deriva il paradossale contesto in cui gli americani che parlano la versione più autentica e arcaica della lingua
inglese, benché punteggiata di inflessioni tedesche, sono tacciati d’averla irrimediabilmente corrotta. Mitopoiesi cui contribuiscono gli stessi cittadini d’Oltreoceano per mistificare, in nome del nazionalismo, l’aderenza all’inglese di Cromwell e
pensarsi inventori di un esemplare sconosciuto. Mentre i britannici, sicuri di incarnare l’ortodossia, accolgono per pura osmosi gli inquinamenti provenienti dagli
Stati Uniti, cui devono il perdurante primato globale del loro idioma. In un cortocircuito linguistico intrinseco all’Anglosfera, che prevede l’inversione dei ruoli tra
madrepatria ed ex colonia. Da secoli separate da una lingua comune.
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