L`africa Fuori dall`Africa - Paola Diana

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L`africa Fuori dall`Africa - Paola Diana
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA
“LA SAPIENZA”
FACOLTÀ DI SOCIOLOGIA
Tesi di Laurea in Etnologia
L’AFRICA FUORI DALL’AFRICA
Black Power e Panafricanismo
Relatore
Prof. Giuseppe Domenico Schirripa
Laureanda
Paola Diana
ANNO ACCADEMICO 2005-2006
Indice
Introduzione............................................................................................. 4
Capitolo 1 – Gi albori del Panafricanismo............................................ 8
1.1.
Le teorie afrocentriche del XIX secolo ...................... 8
1.2.
Il Panafricanismo del ritorno .................................... 15
1.3.
Il Panafricanismo della solidarietà ........................... 23
Capitolo 2 – Riscatto culturale e potere politico ................................ 32
2.1.
Aspetti ideologici della Négritude............................ 32
2.1.1. La Négritude e la Poesia........................................... 35
2.1.2. La Négritude e l’Altro .............................................. 37
2.1.3. La Négritude e la Storia............................................ 41
2.2.
Négritude e politica nel Secondo Dopoguerra ......... 44
2.3.
Pannegrismo e Panafricanismo................................. 49
2.4.
Il risveglio politico ................................................... 53
2
Capitolo 3 – Neri d’America................................................................ 63
3.1.
I neri nelle città nel Secondo
Dopoguerra statunitense.............................. 65
3.2.
Martin Luther King e la lotta nonviolenta................ 70
3.3.
Separatismo e Integrazione....................................... 76
Capitolo 4 – Potere Bianco e Potere Nero........................................... 83
4.1.
Lo Student Nonviolent Coordinating Committee ..... 83
4.2.
Potere nero................................................................ 88
4.3.
Nazionalismo nero e New Left................................. 92
4.4.
Potere Bianco............................................................ 97
4.5.
Da Stokely Carmichael a Kwame Turé.................. 102
Capitolo 5 – Considerazioni conclusive............................................. 109
5.1.
Black Power e pan-nazionalismo ........................... 110
5.2.
Aspetti psicologici del dominio sul nero................ 116
5.3.
Riscrivere la Storia ................................................. 123
Bibliografia .......................................................................................... 127
3
Introduzione
Nel corso degli anni Sessanta del XX secolo, l’intero globo è stato teatro
di molteplici trasformazioni di natura politica, economica e sociale. In questo
scenario, troviamo il processo di decolonizzazione in Africa in piena fase di
sviluppo, e gli Stati Uniti che si affermano come la massima potenza mondiale
a livello economico e militare. Mentre in Africa coloro che in passato erano
stati perseguitati come sovversivi diventano i leaders di paesi di nuova
indipendenza, negli Stati Uniti le minoranze per lungo tempo oppresse
inaspriscono la lotta per il riconoscimento della propria dignità e
l’affermazione delle proprie origini.
Nell’ambito dei movimenti di protesta per l’emancipazione dei neri
d’America, la delusione nelle istituzioni dei bianchi e nella lotta eterna alla
discriminazione, porta alcuni attivisti ad assumere atteggiamenti di sfida agli
Stati Uniti e alle loro istituzioni. Ciò avviene nonostante i successi ottenuti
dalle organizzazioni che già dal decennio precedente avevano adottato una
forma di lotta non-violenta, caratterizzata dalla resistenza passiva e
dall’attuazione di sit-in in vari luoghi pubblici che praticavano la segregazione
razziale. Parallelamente alla lotta nonviolenta di alcuni movimenti – quali il
Southern Christian Leadership Conference, capeggiato da Martin Luther King
jr. – troviamo organizzazioni di stampo più radicale, nate dalla convinzione
crescente di essere stati ingannati dalle istituzioni americane. I diritti civili
sembrano essere stati acquisiti solo formalmente, poiché gli episodi di razzismo
nei confronti dei neri continuano a esistere e la discriminazione razziale è
ancora una realtà contro cui la popolazione afro-americana deve lottare
quotidianamente.
Questo lavoro prende in esame gli aspetti ideologici della protesta per
l’emancipazione dei neri riguardante la corrente di pensiero del nazionalismo
4
afro-americano, e le sue connessioni con i movimento del Panafricanismo
presente dall’altra parte di ciò che Paul Gilroy ha denominato “Atlantico
Nero”. Il processo di decolonizzazione in Africa dà un nuovo impulso
all’ideologia del Panafricanismo. L’unificazione politica, economica e culturale
dell’intero continente africano diventa uno degli obiettivi prioritari perseguiti
da alcuni dei leader africani dei paesi di nuova indipendenza. La parola
“panafricanismo” fu inventata nel 1900 da un avvocato di Trinidad, Henry
Sylvester Williams, che convocò a Londra il primo Congresso Panafricano, una
conferenza per protestare contro il furto di terre nelle colonie, la
discriminazione razziale e discutere in generale dei problemi dei neri. Noi qui,
assoceremo il termine a due aspetti collegati fra loro: da una parte, il
movimento che promuove l'unità politica e il sentimento di identità comune tra
i paesi africani e si sforza di costruire istituzioni che rendano effettiva questa
unità; dall’altra, l’idea che le persone di colore in ogni paese del mondo siano
per prima cosa “cittadini” dell'Africa, concetto che è alla base dei movimenti
neri nazionalisti sorti fuori dall’Africa.
Il primo di questi due aspetti verrà approfondito nel secondo capitolo,
dove parleremo del “risveglio politico” dell’Africa e del tentativo di creare
partiti politici e istituzioni interstatali che comprendessero tutto il continente
africano libero. Si ritiene opportuno inoltre prendere in considerazione anche
quel “risveglio culturale” che ha preceduto e dato forza al potere politico dei
nuovi capi di stato. Parleremo dunque della Négritude, un movimento che si
affermò come uno dei più importanti fenomeni letterari del ventesimo secolo e
che da alcuni viene considerato come il “momento culturale” del
Panafricanismo.
Il secondo aspetto verrà affrontato invece nel terzo e quarto capitolo,
dove affrontremo la questione del colore negli Stati Uniti del secondo
dopoguerra e i movimenti nazionalisti che vi si sviluppano. Ci concentreremo
5
in particolare su una delle figure chiave del movimento nazionalista afroamericano della seconda metà degli anni Sessanta: Sokely Carmicheal.
Inizialmente sostenitore convinto dell’azione di protesta non-violenta, le
vicissitudini del suo attivismo politico lo portano presto a una visione più
radicale di come la protesta degli “africani d’America” sarebbe dovuta essere
condotta. Nato a Trinidad nel 1941 e trasferitosi negli Stati Uniti nel 1952,
partecipa da studente a varie attività per i diritti civili, in particolare per il
diritto di voto degli afro-americani. Ma essendo stato arrestato più di trenta
volte da militante pacifista, la sua fede nella resistenza non-violenta inizia a
vacillare. In breve tempo, dopo essere stato eletto presidente del SNCC, inizia a
pronunciare pubblicamente l’espressione “Black Power”, a indicare sia
un’unità razziale tra gli afro-americani, sia un netto distacco dai metodi nonviolenti.
Ma proprio a causa delle sue visioni separatiste, l’ex-leader del SNCC e
dei Black Panther, viene progressivamente isolato dagli altri leaders dei
movimenti per i diritti civili. Gli attacchi volti a discreditare la sua persona e la
sua politica non provengono più solo dai mass-media e dal Governo. Ora è la
stessa comunità nera che lo etichetta in modo dispregiativo come un “pork
chop nationalist”.
Nel 1969, Carmichael si trasferice in Guinea, essendo convinto del
bisogno per la popolazione nera di stabilire legami concreti con la Madre
Africa. Il suo incontro con Kwame Nkrumah e con Sekou Touré si rivela
determinante nella vita intellettuale del promotore del Black Power Movement,
al punto che, una volta trasferitosi in Africa, prenderà il nome di Kwame Turé.
Carmichael-Touré
abbraccia
immediatamente
l’ideologia
del
Panafricanismo. Sotto il patrocinio dell’All-African People Revolutionary
Party, cerca di organizzare un’Unione degli Stati dell’Africa orientata a un
socialismo democratico e basata sull’assunto secondo cui l’Africa debba essere
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considerata una cosa sola, essendo i confini artificiali stabiliti dalla Conferenza
di Berlino (1884-1885) i risultato della spartizione di ricchezza tra potenze
europee,
e
la
dispersione
delle
popolazioni
africane
il
risultato
dell’imperialismo europeo e del razzismo. Ogni ideologia volta a risolvere i
problemi dell’Africa e delle sue genti disperse nel mondo doveva trovare le sue
radici nel Panafricanismo (Carmichael, 1971, p.221).
Il periodo della vita di Carmichael/Turé che si prenderà in esame sarà
dunque quello che va dal 1966, anno in cui la sua espressione “Black Power”
diventa un motto di protesta, al periodo immediatamente successivo alla sua
stabilizzazione in Africa, dove si rende attivo nel movimento panafricano.
Consapevoli del fatto che il movimento del Black Power fu in realtà
ricco di sfaccettature e punti controversi, oltre che animato da diverse voci
spesso contrastanti tra loro, si è operata una scelta tra gli esponenti del
movimento e tra le sue correnti di pensiero. Si focalizzerà quindi l’attenzione su
uno dei personaggi che non rappresentarono il movimento solo nel suo aspetto
prettamente politico, ma che basarono la loro lotta sull’idea che i neri in
America, come in Africa, dovessero combattere prima di tutto per riscattare se
stessi e la propria storia. Considereremo, in altre parole, più gli aspetti del Black
Power che si riconducono a un processo di emancipazione della popolazione di
colore, di cui il movimento può essere considerato parte.
L’ultimo capitolo, in cui faremo delle considerazioni conclusive,
esaminerà il movimento da tre punti di vista: quello dello studio dei
pannazionalismi, quello psicologico e quello letterario nella prospettiva
postmodernista, mentre il primo servirà per dare un’idea generale sulle origini
del pensiero panafricanista.
7
Capitolo 1
Gli albori del Panafricanismo
1.1.
Le teorie afrocentriche del XIX secolo
Dopo l’abolizione della schiavitù e la fine della tratta atlantica degli
schiavi, si aprì un periodo in cui la fase che ne seguì aveva come quadro di
riferimento le nuove relazioni tra l’America, l’Europa e l’Africa. La creazione
della Liberia e della Sierra Leone come luoghi di reinsediamento e di
“rimpatrio” degli schiavi africani e afroamericani introdusse un mutamento
radicale nel divenire di quelle regioni, permettendo a tutto un ceto di africani
originari di quei due paesi, della Gold Coast o di quella che diverrà la
Nigeria, di diventare gli agenti del rinnovamento culturale del continente.
La presenza di missionari europei, afroamericani o antillani lungo tutta
la Costa di Guinea, svolse un ruolo determinante nella formazione di eminenti
studiosi come Crowther, Johnson, Horton o Blyden, i quali, educati localmente
o inviati in Inghilterra per proseguire i loro studi, erano poi tornati in Africa
occidentale per assumere posizioni di responsabilità, in particolare nell’ambito
religioso (cfr. J.L. Amselle, 2001).
Come i loro predecessori del XVIII secolo, questi pensatori o i loro
genitori avevano conosciuto la condizione servile, ma erano stati liberati in
Sierra Leone o erano nati in quel paese, e provavano dunque un interesse
immediato per l’Africa che desideravano rigenerare sul piano economico,
8
politico e culturale. In quanto mediatori culturali tra l’America, l’Europa e
l’Africa, tutti questi intellettuali erano ansiosi di far rinascere un’Africa
degenerata a causa della tratta degli schiavi introducendovi le acquisizioni della
scienza e della religione europea1.
Facendo tutta la loro carriera in Africa, ebbero la possibilità di
riallacciare legami con la società di origine e di riappropriarsi della loro
cultura. Mediante un repertorio nuovo attinto alle conoscenze europee del XIX
secolo, in particolare nell’ambito della razziologia, essi furono in grado di
esprimere posizioni originali e di gettare quindi le basi del nazionalismo
culturale e politico che si sarebbe sviluppato negli anni a seguire.
In Europa, i primi tentativi di classificazione dei tipi fisici umani
risalgono al XVIII secolo2, ma fu nell’ambito dell’irredentismo europeo
ottocentesco che le teorie razziologiche trovarono maggiore sviluppo. Alla
metà del XIX secolo, mentre in America cominciano a fiorire le teorie dei
filosofi dello schiavismo sudista (Thomas R. Dew, William Harper) sulla
“naturale ineguaglianza” tra gli uomini, in Francia venne pubblicato il Saggio
sulla Ineguaglianza delle Razze Umane (1858), di Joseph-Arthur de Gobineau,
un aristocratico francese che affermava la superiorità della "razza ariana",
identificata con un ipotetico popolo ariano di lingua indoeuropea, a cui si
sarebbero dovute le maggiori conquiste della civiltà. Difensore oltranzista delle
1
Sul ruolo della religione cristiana e islamica nel processo di autoaffermazione della civiltà
africana, vedi Jean-Loup Amselle, Connessioni, Torino, Bollati Boringhieri Editore, 2001; sui
sincretismi religiosi in Africa alla fine del XIX secolo: Vittorio Lanternari, Movimenti
Religiosi di Libertà e Salvezza, Roma, Editori Riuniti, 2003.
2
Linneo nel 1758 distingueva quattro sottospecie dell'Homo Sapiens: europaeus, asiaticus,
afer e americanus, mentre J.F. Blumenbach nel 1781 distinse le cinque varietà della specie
umana: caucasica, mongolica, malese, etiopica e americana. Queste varietà erano distinte
principalmente in base al colore della pelle.
9
idee aristocratiche, egli riteneva necessario opporre alle aspirazioni
democratiche dell’epoca le sue teorie sull’esistenza delle “caste naturali” che
compongono il genere umano e sulla loro “benefica necessità” (cfr. A.
Montague, 1966, p.54).
Lo sviluppo dell’antropologia fisica e della razziologia nel XVIII secolo
e ancor più nel XIX, rafforzò considerevolmente i pregiudizi di razza,
soprattutto quelli relativi ai neri. Dall’ineguaglianza fisionomica si passò
all’ineguaglianza “biologica” e si chiedeva alla scienza di suffragare questa
comoda supposizione. Si usava il darwinismo e la famosa teoria degli anelli
mancanti, pretendendo che alcune “razze” primitive di oggi costituissero
l’esempio delle ultime tappe intermedie dell’evoluzionismo, dalla scimmia
all’uomo bianco. Nella seconda metà dell’Ottocento fioriscono le società
antropologiche – Parigi, Londra, New York, Berlino, Vienna, Firenze – e
l’attenzione degli studiosi si rivolge alla ricerca delle differenze tra gli uomini
appartenenti alle varie “razze”: lunghezza degli arti, impostazione delle
mascelle, indice cefalico, eccetera. Il pensiero razziologico si estendeva oltre il
campo delle scienze esatte, andando ad alimentare la già consolidata opinione
che concetti come quello di razza, di nazione o di etnia fossero
indissolubilmente legati tra loro. La
reificazione di tali concetti produce
generalmente dei sistemi di opposizione fissi, sistemi che costituiscono il luogo
privilegiato per l’enunciazione delle identità (J.L. Amselle, 2001, p.87).
Questi sistemi di opposizione netta si possono ritrovare anche nel
quadro dell’aporia “razza pura/meticciato” entro cui operavano gli intellettuali
che che si trovavano dall’altra parte della netta “linea del colore”. Secondo
l’analisi di Jean-Loup Amselle, la definizione di una sostanza, o di un’essenza,
come la razza nera, non solo aveva come effetto immediato di generare il suo
contrario (la razza bianca), ma portava al prevalere due atteggiamenti distinti:
la volontà di isolare le due sostanze o al contrario il desiderio di mescolarle.
10
Quale che fosse l’atteggiamento adottato, valorizzazione o disprezzo del
meticciato, il risultato era in entrambi i casi un rafforzamento delle due entità
individuate (cfr. Amselle,1999).
Nel pensiero di Blyden, ad esempio, prevaleva l’ossessione del
meticciato e della degenerazione. Il suo disprezzo per i neri americani della
Liberia e per i creoli della Sierra Leone inaugurava una serie di giudizi
peggiorativi sui liberiani, in particolare sui “negri” che scimmiottavano i
bianchi. Operando in favore della rigenerazione dell’Africa da parte dei neri
americani, Blyden esigeva che i meticci venissero scartati e non cessava di
combattere i liberiani di origine afroamericana nonché i creoli della Sierra
Leone. Edward Wilmut Blyden è il primo intellettuale negro di notorietà
internazionale a dare una forma al sentimento di appartenenza alla “razza
negra”. Le sue ricerche storiche tendevano a dimostrare che la razza negra
aveva contribuito come la bianca allo sviluppo dell’umanità. Benché sostenesse
talvolta che la tratta degli schiavi avesse svolto un ruolo positivo, affermava
anche che l’Africa prima della conquista europea avesse conosciuto un alto
grado di civiltà, comparabile a quello dell’Europa medievale. Per questo essa
era la madre di tutte le culture. La cultura africana, soprattutto quella dei popoli
dell’interno che non erano stati acculturati dagli europei (peul, mandinghi), era
dunque sana e doveva essere preservata. Questa cultura si definiva con un certo
numero di qualità ed essenze che erano l’esatto contrario dei difetti che Blyden
attribuiva all’Europa. Se la razza europea era dura, individualista, combattiva,
materialista e adorava la scienza e l’industria, che per essa erano un sostituto di
Dio, la razza africana era nobile, calorosa, generosa e pacifica, praticava la
solidarietà, il socialismo, comunicava con la natura e offriva quindi il suo
contributo al patrimonio culturale dell’umanità. Blyden fu il primo difensore
della “personalità africana”, “african personality”, espressione da lui usata per
la prima volta nel 1893 durante un congresso a Freetown, ripresa pochi anni
11
dopo da Sylvester Wlliams in occasione del I Congresso Panafricano (Londra
1900) e resa internazionalmente nota, più recentemente, dal leader ghanese
Kwame Nkrumah (cfr. M.Carrilho, 1974).
Blyden pensava l’Africa come un’entità autonoma, quasi come una
categoria sui generis. A differenza dei suoi precursori e contemporanei che
insistevano nel cercare le modalità di un adattamento dell’Africa all’Europa,
prendendo così l’Europa come misura, Blyden per la prima volta propose
l’Africa come riferimento immediato per l’uomo negro. Non più un popolo
senza storia ma una civilizzazione africana organizzata attorno a un sistema
corrente di situazioni e costumi, animata da elevati valori morali e spirituali.
L’africano non era quindi inferiore all’europeo, era semplicemente diverso,
aveva una personalità propria (cfr. A. Irele, 1965, p.323)
Si noti come questo schema interpretativo possa essere inquadrato nella
prospettiva di Gobineau. Collocandosi allo stesso tempo nella linea della teoria
del Volkgeist e della razziologia poligenista del XIX secolo, Blyden postulava
una specificità della razza nera, sottolineando il fatto che essa conservasse dei
tratti distintivi. Influenzato dalle teorie di Gobineau sulla diseguaglianza tra le
razze umane e dal concetto di nazionalità dominante nel XIX secolo, Blyden
allargava l’estensione del concetto “personalità africana” a tutti i neri, in Africa
o in America, che costituivano per lui una stessa comunità biologica e
spirituale (cfr. M. Carrilho, 1974, p.35).
Blyden fu fortemente influenzato dal filosofo e scrittore francese
Constantin F. Volney (Craon 1757 - Parigi 1820). Le stesse origini del pensiero
afrocentrico contemporaneo possono essere ricondotte alle considerazioni di
Volney sul popolamento dell’Egitto. Secondo questo autore, i copti erano neri e
neri erano i primi abitanti dell’Egitto. Volney dunque connetteva gli egiziani
con i copti neri, e contemporaneamente li disconnetteva dagli arabi,
caratteristica fondamentale anche dell’afrocentrismo contemporaneo, il quale
12
tende a isolare degli elementi dal loro contesto relazionale per effettuare una
connessione esclusiva, arrivando a costituire una cultura in quanto sistema
chiuso (cfr. J.L. Amselle, 2001).
Già con gli autori antichi si operò una prima connessione tra l’Egitto e
l’Etiopia, il paese dei “volti bruciati”. Erodoto inaugurò la serie di enunciati
che facevano degli etiopi i primi abitanti della Libia e dell’Egitto meridionale,
mentre secondo Diodoro Siculo gli Etiopi sarebbero stati i primi di tutti gli
uomini, i primi a essere stati generati dalla Terra e sempre i primi ad aver
appreso a onorare gli dèi. Questi autentici fondatori della cultura umana
avrebbero inviato coloni in Egitto, i quali avrebbero influenzato la cultura di
quel paese nel campo della scrittura sacra, in quello della formazione degli
ordini sacerdotali nonché in quello della credenza nella regalità sacra. Pur
sdoppiando questa umanità in una componente selvaggia e in una civilizzata,
Diodoro Siculo assegnava all’Etiopia e agli etiopi un’origine umana assoluta
(Ibid.).
L’afrocentrismo moderno, sviluppandosi in un contesto storico e politico
completamente diverso da quello dell’Antichità, assume connotati diversi
rispetto a quelli rintracciabili nelle testimonianze di storiografi vissuti
nell’epoca della Pax Romana. Diodoro Siculo fornisce semplicemente una
tavola di orientamento strutturale da un punto di vista geografico, culturale e
politico, e il dibattito su una possibile componente razzista presente nella
connessione tra Egitto ed Etiopia da egli formulata resta tuttora aperto.
L’afrocentrismo moderno, all’inverso, crea delle categorie identitarie
rivendicandone una valenza scientifica, in risposta alle pretese di scientificità
delle teorie razziologiche europee. Se dunque le opposizioni egiziani/etiopi,
bianchi/neri o civilizzati/selvaggi potevano apparire nell’Antichità come
elementi culturali e politici di classificazione, il criterio della razza fornì invece
ai nazionalisti africani del XIX secolo un potente strumento che permetteva
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loro, capovolgendo la razziologia dispregiativa degli eurocentristi, di sostenere
la rivendicazione di un’unità fondamentale del mondo negro-africano (Ibid.).
Come le teorie scientifiche europee fornivano un quadro concettuale da
applicare nella definizione di una identità pannegrista, così pure la religione
veniva sottoposta a una rilettura che poneva il colore della pelle in primo piano.
Sempre secondo Blyden, la popolazione etiope sarebbe stata discendente dalla
stirpe di Cush (figlio di Cam e fratello di Canaan), condannata da Noè a servire
come schiavi i suoi figli Sem e Jafet (Genesi 9.20-29). In nessun passo del
Vecchio Testamento si dice che la stirpe di Cam, di Cush e di Canaan fosse
composta da neri. E in effetti, l’attribuzione etnica o razziale alla quale Blyden
procedeva, era piuttosto prudente. Egli affermava che, sebbene Cam avesse
avuto la pelle più scura di quella dei suoi fratelli e certi discendenti di Noè
fossero di pelle nera, non era tuttavia possibile concludere che l’insieme di
questa stirpe fosse stata composta da neri. Per Blyden, solo le condizioni
climatiche dell’Africa subsahariana avevano potuto trasformare i cusciti in
quelli che i greci chiamavano etiopi, cioè i “volti bruciati”. La penetrazione dei
discendenti di Cam in Africa tropicale si concludeva con un grande processo di
degenerazione o di messa in schiavitù analogo a quello conosciuto agli schiavi
africani dal XVII secolo. Ma, stranamente, tutti gli elementi che erano la causa
del deperimento degli africani – clima, isolamento, tratta degli schiavi –
costituivano per Blyden anche le condizioni del suo isolamento e dovevano
permettere, con il ritorno dei neri americani nella loro terra di origine, di
rigenerare il continente.3
Come Volney si era prodigato ad “annerire” l’Egitto, Blyden aveva
connesso la razza nera con il popolo ebreo, stabilendo una parentela tra le
lingue etiopi o cuscitiche e babilonesi. La posizione di Blyden in ambito
3
Cfr. Edward W. Blyden, The Negro in Ancient History, in “Methodist Quarterly Review”,
XXI, 1869.
14
religioso appare, seppur originale, piuttosto contraddittoria. Pur essendo
pastore presbiteriano, non cessava di denigrare il protestantesimo a favore del
paganesimo, del cattolicesimo e dell’islam. Per Blyden, esisteva una
comunione intima tra la società africana e la religione, un vero panteismo.
Grazie a una gerarchia di spiriti e di forze multiple, gli africani erano in grado
di giungere a una divinità unica, che costituiva l’essenza della religione
africana tradizionale. Ma se questa religione doveva essere preservata, doveva
anche essere rigenerata da una religione importata, preferibilmente l’islam.
Blyden considerava in effetti che l’Africa non era matura per il cristianesimo e
che di conseguenza l’islam, più adatto alle consuetudini africane (come la
poligamia), e in grado di trascendere le divisioni etniche, avrebbe dovuto
preparare la via alla futura evangelizzazione del continente nero. Questo
atteggiamento filomusulmano non gli impediva peraltro di esprimere
sentimenti filosemiti e di manifestare interesse per il sionismo. Proponeva
quindi un parallelo tra gli ebrei che volevano tornare in Palestina e i neri
americani che desideravano rientrare in Africa ed era pronto, in ragione delle
qualità spirituali manifestate dagli ebrei, ad accoglierli in Africa.4
Al di là delle contraddizioni o delle bizzarrie che si possono individuare
nelle idee o nelle concezioni religiose di Blyden, si intravede comunque
l’ecumenismo di un profeta pronto a fare di tutto per condurre, come Mosè, il
suo popolo verso la Terra Promessa.
1.2.
Il Panafricanismo del ritorno
Come le teorie razziologiche europee ispirarono il pensiero di Blyden,
così l’idea romanticista di stato-nazione influenzò un altro “protonazionalista”
4
Cfr. Edward W. Blyden, Christianity, Islam and the Negro Race, Baltimore, USA, Black
Classic Press, 1994, (I ed. 1887).
15
afroamericano: Martin Delany. Le sue raffinate teorie circa la nazionalità e la
cittadinanza, derivate da una lettura particolare della storia europea, sono
rintracciabili in The Condition (1852), opera pubblicata il giorno del suo
quarantesimo compleanno.
Questo libro è notevole per la sua esplicita esortazione a uno stato forte
che potesse mettere a fuoco le aspirazioni di tipo “sionista” dei neri americani e
aiutare a costruire un loro contropotere politico rispetto a uno stato fondato
sulla supremazia bianca. Il testo cominciava comparando la sorte dei neri in
America a quella della minoranze senza diritti che si trovavano in Europa. Egli
affermava che, in tutte le epoche e quasi in ogni nazione, fossero esistite
nazioni all’interno delle nazioni, popoli che, sebbene fossero una parte
integrante della popolazione, non ne facevano di fatto parte, a causa della
privazione dell’uguaglianza politica rispetto agli altri soggetti. E se anche ne
facevano in qualche modo parte, non rappresentavano che un segmento ristretto
del corpo politico di quelle nazioni. Tale era la condizione di varie classi in
Europa, per secoli nazioni all’interno delle nazioni senza la speranza di
redenzione tra coloro che li opprimevano. Ma per quanto sfavorevoli fossero le
loro condizioni, secondo Delany non esisteva un popolo più svantaggiato di
quello dei neri degli Stati Uniti.5
Malgrado l’autore non ricorra mai nel testo al termine “diaspora”, egli
guardava di primo acchito all’esperienza ebraica di dispersione come a un
modello per comprendere la storia dei neri americani e, ancor più
significativamente, citava questa storia come un mezzo per focalizzare i suoi
propositi di tipo sionista riguardo la colonizzazione nera del Nicaragua e di
altri luoghi. L’acquisizione di una patria forte che potesse garantire e sostenere
5
Cfr. Martin Delany, The Condition, 1852, op. cit. in Paul Gilroy, The Black Atlantic, Roma,
Meltemi Editore, 2003.
16
la causa dei diritti degli schiavi era, per Delany, molto più importante di quei
dettagli insignificanti circa la sua localizzazione geografica all’interno di ciò
che il suo collaboratore Robert Campbell chiamò, nel suo rapporto sulla
spedizione in Niger, la madrepatria africana. In effetti, il primo interesse di
Delany non era tanto l’Africa stessa, bensì le forme di cittadinanza e
appartenenza che emergevano dalla rigenerazione della nazionalità moderna
nella forma di un autonomo stato-nazione nero. La Liberia fu in un primo
momento scartata per questo ruolo, perché non era un veicolo adeguato o
sufficientemente serio per le speranze e per i sogni dei cittadini neri e delle loro
famiglie (cfr. P. Gilroy, 2003).
Qualche anno dopo la pubblicazione di The Condition, Delany giunse a
Monrovia, la capitale della Liberia, precisamente il 12 luglio del 1859. Qui
iniziò a vedere la possibilità di un’alleanza dinamica, sia commerciale che di
civiltà, tra il capitale inglese, l’intelletto nero americano e la forza lavoro
africana.
Più di qualsiasi cosa prodotta da Edward W. Blyden e anche da
Alexander Crummell e dai suoi colleghi protonazionalisti, gli scritti di Delany
registrarono reazioni contraddittorie verso l’Africa. L’antica e ancestrale terra
natia semplicemente non andava bene così com’era. Egli era profondamente
convinto del fatto che dovesse essere trasformata completamente. In parte, dal
suo punto di vista, ciò sarebbe stato possibile attraverso grandiosi progetti di
modernizzazione, come il tratto ferroviario commerciale transafricano che
aveva proposto per la prima volta in un’appendice straordinaria di The
Condition. Per Delany poi, la superstizione e la cultura pagana africane
rappresentavano qualcosa che doveva essere spazzato via. Questi piani
rivelavano in modo evidente che la missione proposta per elevare l’identità
razziale dei neri americani era inseparabile da una seconda missione che
17
consisteva nell’elevare e illuminare gli africani incolti, offrendo loro i benefici
della vita “civilizzata” (Ibid.).
I neri americani, se volevano la libertà, dovevano contribuire alla
fondazione di una forte nonché del tutto artificiale nazione sovraetnica, che
Delany considerava indispensabile sia alla lotta in corso per sconfiggere
l’oppressione razziale ovunque nel nuovo mondo, sia a quel progetto di
rigenerazione africana di lungo termine. Questo razionalismo razziale
antimistico richiedeva che tutti i neri (di tutti i tipi, di tutte le classi e di ogni
gruppo etnico) mettessero da parte le differenze semplicemente accidentali,
utili soltanto a mascherare un’unità più profonda, non tanto in base a una
comune eredità africana, quanto all’orientamento comune verso il futuro
prodotto dalle loro lotte militanti contro la schiavitù e l’oppressione. Questa
posizione è chiara in uno dei suoi romanzi più famosi: Blake; or, the Huts of
America (1860). Il protagonista, Henry Blake, rappresenta la trasposizione in
chiave romanzata di ciò che Delany proponeva alla gente di colore: lasciare gli
Stati Uniti e costruire una nazione nera indipendente in Centro America, che
costituisse la base per la liberazione di tutti gli schiavi.6 Blake narra di un
cubano che, dopo essersi imbarcato per l’Africa su una nave negriera come
marinaio, viene fatto schiavo negli Stati Uniti. Varie vicissitudini lo portano da
qui a intraprendere dei viaggi che lo avrebbero condotto da una parte all’altra
dell’Atlantico, facendo assumere al romanzo e al suo eroe rivoluzionario un
sapore transnazionale e transculturale. Nell’evocare con forza il terrore della
schiavitù, la blackness diventa in Blake più una questione politica che una
comune condizione culturale. Per Delany la sopravvivenza dei neri dipendeva
dalla creazione di nuovi mezzi per costruire alleanze al di sopra e al di là di
questioni di poco conto quali la religione, la lingua o il colore della pelle. Ciò
che avrebbe permesso di creare una nuova identità metaculturale, necessaria
6
Martin R. Delany, Blake; or, the Huts of America, Boston, Beacon Press, 1971 (1.ed. 1860)
18
alla nuova cittadinanza nera, era la comune esperienza abietta della schiavitù
(cfr. P. Gilroy, 2003, pp.84-85).
Qualche decennio più tardi, l’idea di un ritorno in Africa come unico
mezzo di redenzione riprese vigore sotto la guida di un leader che, in meno di
un decennio, tra il 1918 e il 1927, riuscì ad influenzare il pensiero di molti
afroamericani. Stiamo parlando di Marcus Garvey, un giamaicano che, una
volta giunto negli Stati Uniti, fondò e fu leader indiscusso della Universal
Negro Improvment Association.7 Le attività e gli obiettivi dell’associazione
avevano carattere internazionale ed i suoi sostenitori erano sparsi in diversi
continenti del mondo, ma fu negli Stati Uniti che Garvey riscosse maggior
successo. Attraverso i suoi viaggi in Centro America e in Gran Bretagna,
conobbe gli aspetti della rivoluzione capitalista in atto in gran parte del sistema
economico mondiale. Ben presto vide, in quel sistema economico, una stretta
connessione tra imperialismo economico e sfruttamento del proletariato nero
(cfr. T. Filesi, 1966).
Agli inizi del ventesimo secolo, le élite intellettuali occidentali
fondavano sulla concezione di superiorità della razza bianca e su una parziale
ricostruzione storica, che negava il ruolo avuto dall’Africa nel processo
mondiale di sviluppo scientifico e culturale, la convinzione che l’estensione del
capitalismo era l’unica via percorribile in direzione del progresso universale.
Quindi, nel Primo Dopoguerra, una volta ultimata la conquista e la spartizione
delle regioni non ancora occupate, gli ideologi dell’imperialismo europeo, nel
tentativo di dimostrare la superiorità del nuovo modo di produzione e dei
corrispettivi fondamenti filosofici e religiosi, reclamarono il riconoscimento
7
Sulla vita e le opere di Marcus Garvey, vedi Tony Martin, Race First: The Ideological and
Organizational Struggle of
Marcus Garvey and the UNIA, Greenwood Press, 1976, e
E.David Cronon, Story of Marcus Garvey. Black Moses and the UNIA, Madison, University
of Wisconsin Press, 1955
19
universale del sistema capitalistico quale unico strumento di progresso. D’altra
parte, i neri degli Stati Uniti avevano dato il loro contributo di sangue e di
denaro nella Prima Guerra Mondiale per la vittoria degli Alleati. A questi si
chiedeva ora giustizia e rispetto per le umiliazioni subite nei secoli e per i
sacrifici compiuti nel presente dalla razza nera (Ibid).
Garvey assunse la missione di diffondere tra i neri un messaggio fondato
su concetti d'orgoglio, solidarietà ed autodeterminazione razziale. Al contrario
di molti rappresentanti afroamericani riformisti che adottarono una politica
“accomodante”, egli guardò sempre alla nazione americana come a un paese
controllato politicamente ed economicamente dall’uomo bianco, dove i neri
non avrebbero mai potuto costituirsi un solido futuro. Egli sosteneva che,
sfruttando appieno le sue doti e le crescenti opportunità di formazione
culturale, l’uomo di colore avrebbe ricoperto al più presto ruoli molto influenti
all’interno della società statunitense entrando in stretta competizione con la
tradizionale struttura di potere bianca (cfr. G. Finazzo, 1978).
Mentre Martin Delany ebbe un cambio repentino riguardo le sue
prospettive di un “ritorno” in Africa solo negli ultimi anni della sua vita,
Garvey al contrario passò da una visione ottimistica riguardo il destino dei neri
che vivevano negli Stati Uniti, a una decisamente più “sionista”. Delany
partecipò alla Guerra Civile col grado di maggiore dell’Esercito dell’Unione.
Questa esperienza riaccese il suo entusiasmo per un futuro americano per i neri
americani, lasciando trapelare una fusione ideologica tra il suo nazionalismo e
un patriottismo di stampo decisamente americanocentrico. Marcus Garvey,
all’inverso, partì da considerazioni simili, ma le avrebbe abbandonate dopo
poco tempo, in favore di un progetto che avrebbe finalmente redento tutti gli
schiavi solo grazie al ritorno nella propria terra di origine (cfr. P. Gilroy, 2003).
Secondo Garvey, entro cinquanta o cento anni, la rivalità sarebbe
sfociata inevitabilmente in un conflitto razziale dall’epilogo certamente tragico
20
per i discendenti africani. Spinto da tali pessimistiche considerazioni, egli
abbracciò allora la tesi della separazione razziale, secondo cui l’unica via di
salvezza per i neri del mondo era quella di unire le loro risorse intellettuali e
materiali, bloccare la colonizzazione dell’Africa e lavorare per la costruzione di
una grande nazione africana. La volontà dei garveysti era quella di costituire
nel continente nero uno stato libero e indipendente, dove ogni uomo di colore
avrebbe potuto vivere sotto la protezione delle più moderne istituzioni
democratiche. Egli individuò nella situazione politica internazionale del
dopoguerra le condizioni ideali per i neri, che avrebbero dovuto reclamare
l’indipendenza
del
continente
africano
unendosi
alle
rivendicazioni
autonomiste di popoli come quello irlandese, quello indiano e quello ebreo
(Ibid.).
Garvey, con lo slogan “Africa for the Africans”, propose ai suoi seguaci
una concezione storica di natura divina, che utilizzò ogni qualvolta si trovò a
rivendicare l’indipendenza dell’Africa. A suo avviso Dio aveva creato gli
uomini uguali e con pari diritti attribuendo ad ogni particolare razza una
particolare porzione della Terra. Perciò, se l’Europa era stata destinata
all’uomo bianco e l’Asia era la legittima dimora delle popolazioni orientali, ne
conseguiva che l’Africa doveva essere la casa dei neri.
In realtà Garvey, pur credendo che una volta costruita una forte nazione
africana i neri di tutto il mondo avrebbero guadagnato in forza e rispetto ed
avrebbero potuto godere della eventuale protezione di quel governo, nel 1924,
di fronte al pubblico del Madison Square Garden, affermò che l’obiettivo
dell’UNIA non era quello di riportare tutti i neri del Nuovo Mondo in Africa.
Piuttosto considerava necessario in un primo momento trasferire solo persone
qualificate – ingegneri, artigiani e volenterosi lavoratori specializzati – pionieri
che avrebbero costruito le basi della nuova nazione. Soltanto in una fase
21
successiva ed indeterminata essi sarebbero stati raggiunti dalla massa della
popolazione (T. Filesi, 1966).
L’apparato spettacolare di Garvey, il suo simbolismo spinto fino all’eccesso
anche nel campo religioso (ad una Chiesa cristiana, Garvey opponeva una
Chiesa africana ortodossa nella quale la Madonna era nera, gli angeli neri e il
satana bianco come la razza dominatrice); i suoi progetti diretti a realizzare un
governo provvisorio africano, una nobiltà africana, un esercito africano, una
linea di navigazione africana, un trasferimento massiccio di negri di origine
africana sul continente dei loro avi, esaltavano le numerose schiere di seguaci e
finivano pre preoccupare la stessa opinione pubblica americana ed europea
(Ibid.).
Nonostante le dichiarazioni di smentita dello stesso Garvey, autorevoli
storici
suoi contemporanei quali John Hope Franklin e Theodore Draper
interpretarono
il
garveysmo
come
un
irrealizzabile
“Back-to-Africa
Movement” che forgiò nelle menti dei suoi sostenitori un’Africa più
psicologica che reale, nella quale i neri poterono ritirarsi per autodifesa pur
rimanendo negli Stati Uniti. Franklin sosteneva che l’ampio consenso ottenuto
dal progetto dell’UNIA era più una protesta contro le reazioni razziste del
primo dopoguerra che una cosciente approvazione degli schemi idilliaci del
nazionalismo di Garvey.8
L’analisi storica proposta da Robert Hill fornisce ancora un altro punto
di vista. L’autore sottolineò come per il leader dell’UNIA e i suoi sostenitori il
concetto di “Africa” esistesse su due piani ontologici separati, uno psicologico
e l’altro reale. Il primo era un richiamo esclusivamente culturale ed ideologico
al continente nero che fornì al leader dell’UNIA un efficace strumento
d’attrazione e di aggregazione delle masse. Il secondo, chiaramente espresso
8
John Hope Franklin, Alfred A. Moss jr., From Slavery to Freedom, (1.ed. 1947), 8.ed., New
York, A.A. Knopf, 2003, p.387
22
nell’iconografia della Black Star Line che dipingeva il continente nero come la
“terra delle opportunità”, intese l’Africa come un qualcosa di concreto. Qui il
popolo africano disperso nel mondo si sarebbe riunificato, avrebbe costruito
città, creato istituzioni politiche, industrie, scuole e tutto ciò di cui necessitava
una democrazia moderna. L’idea di un’Africa libera e indipendente che Garvey
elaborò e propose alla comunità nera internazionale non fu quindi qualcosa di
mitico, ma un progetto dal contenuto visibile e dagli obiettivi concreti.9
La violenta retorica di Garvey fu ciò che maggiormente determinò il suo
declino. Alcuni giornalisti e diverse autorità coloniali considerarono il pericolo
di un attacco militare per la liberazione dell’Africa. In realtà la radicalità delle
parole non fu mai sostenuta da azioni concrete di stampo rivoluzionario. In più,
le disavventure finanziarie della Black Star Line, l’insuccesso nella Liberia, le
accuse e i reati (dalla bancarotta fraudolenta all’incitamento all’odio di razza),
finirono ben presto per screditare il Movimento e l’uomo che lo impersonava.
La meteora di Marcus Garvey si spegneva miseramente nel nulla. Nel 1940 egli
moriva nell’esilio londinese dimenticato da tutti. Ma a distanza di poco più di
un decennio una generazione più fortunata rimarrà suggestionata dalle idee di
Marcus Garvey, trovando in esse ispirazione per un’incisiva lotta politica (T.
Filesi, 1966).
1.3. Il Panafricanismo della solidarietà
La dottrina del Panafricanismo ebbe il merito di saper risvegliare gli
africani più sensibili alla coscienza di un’unità originaria per tutti i negri
dovunque questi si trovassero dopo la loro diaspora dovuta alla tratta. Tutti i
popoli neri di ascendenza africana dovevano riconoscersi nell’origine comune.
Tale dottrina nacque al di fuori del continente africano. Il Panafricanismo
trasse comunque proprio dall’Africa la sua matrice ispiratrice. Fu un avvocato
9
Robert Hill, a cura di, The Marcus Garvey and the UNIA Papers, 1983, vol. I, p.XXXV
23
di Trinidad, Sylvester Williams, ad indicare il cammino che andava percorso.
Svolgendosi la prima esposizione universale a Parigi, nel 1900, trovò il modo
di coinvolgere in una riunione a Londra, al Westminster Hall, una trentina di
negri, già a Parigi, per protestare contro l’accaparramento delle terre degli
autoctoni da parte degli Europei. Questa riunione ebbe larga risonanza in quel
settore dell’opinione pubblica inglese di tradizioni abolizioniste, e dell’appello
lanciato da Williams in appoggio alle popolazioni indigene, tramite
l’Arcivescovo di Londra, fu informata la stessa Regina Vittoria (cfr. G.
Finazzo, 1978).
W.E.B. Du Bois, un altro “padre” del Panafricanismo, affermò più tardi
che fu esattamente durante questa riunione di Londra ad essere usata per la
prima volta la parola Panafricanismo. Intellettuale raffinato, Du Bois aveva
prima ancora di Garvey dato vita a un movimento panafricano che anziché
spegnersi avrebbe acquistato mano a mano più importanza, fino al trionfo
completo, dell’uomo e del programma. Le sue teorie della storia, del
particolarismo razziale, della cultura e della civiltà si ispirarono in modo
selettivo a temi hegeliani, fondendoli con una genealogia afroasiatica della
storia dello sviluppo della civilizzazione. (T. Filesi, 1966)
Du Bois cessava di usare la storia europea semplicemente per generare
esempi comparativi di nazionalità negata e di identità etnica subordinata, come
avevano fatto Delany e Crummel. Al posto di questa tendenza a senso unico,
emerse lentamente un resoconto sistematico dell’interconnessione tra Africa,
Europa e Americhe che complicava e ampliava la visione della sofferenza nera
e dell’autoemancipazione negli Stati Uniti. La schiavitù internazionale fornì la
giustificazione logica a questa prospettiva, andando di pari passo con il
desiderio di Du Bois di mettere in evidenza la situazione dei neri, rigidamente
imprigionati all’interno di quel mondo moderno reso possibile dal lavoro
forzato (Gilroy, 2003). Du Bois era dell’avviso che la gente di colore
24
statunitense poteva sperare in un avvenire diverso solo mediante un’effettiva
integrazione nel contesto americano, giacché secoli di schiavitù passati in
America l’avevano legata a doppio filo al nuovo continente, lasciandone le
impronte nei diversi campi della vita americana.
Presupposto di una integrazione non umiliante era la riconquista della
fiducia in se stessi, della propria identità. Questa prospettiva è chiaramente
rintracciabile in una delle sue opere più note, The Souls of Black Folk. Il libro,
che in realtà è una raccolta di suoi saggi scritti precedentemente e integrata con
saggi inediti, può essere suddiviso in tre momenti che coincidono con quelle
che secondo Paul Gilroy rappresentano le tre fasi del processo di
autorealizzazione dei neri. Tale processo è caratterizzato dalla presenza di una
tradizione in movimento continuo, un medesimo che cambia. La prima fase
può essere definita dalle lotte contro l’istituzione della schiavitù condotte in
ogni parte del mondo. La seconda va individuata nelle continue lotte per
ottenere uno status di esseri umani e i conseguenti diritti e libertà borghesi, per
le popolazioni nere libere dei paesi modernizzati e industrializzati nei quali la
Libertà, la Giustizia e il Diritto presentano il marchio “Solo per Bianchi”. Il
terzo filo conduttore delle lotte politiche può essere definito dalla ricerca di uno
spazio indipendente, nel quale la comunità e l’autonomia nere possano
svilupparsi seguendo una loro direzione. Questa componente finalistica
racchiude il desiderio dei neri americani e caraibici di assicurarsi una patria
africana indipendente in Liberia e altrove. Nell’opera di Du Bois, la prima
dimensione viene espressa dal bisogno di accedere alla comunità nazionale e
alla società politica e civile americana; la seconda dal bisogno di far mantenere
a quella comunità nazionale le promesse proprie della sua retorica politica e
giuridica; e la terza dal bisogno o di integrarsi o di dissociarsi da quella
comunità una volta che sia stato riconosciuto il suo carattere essenzialmente
illusorio. A questo punto, altri tipi di associazione razziale, di natura locale,
25
urbana o persino internazionale, possono dimostrarsi più significativi rispetto
alla possibilità, da troppo tempo attesa, di essere un americano. (P. Gilroy,
2003)
IN THE SOULS, DU BOIS SPIEGA COME LE DIVERSE MENOMAZIONI
EREDITATE DAL TRADIZIONALE ORDINE RAZZIALE DEL PAESE AVEVANO
FINITO CON IL REGALARE AI NERI UNA “SECONDA VISTA” E, ATTRAVERSO
LA SUBLIMAZIONE DELLE PROPRIE SOFFERENZE, AVEVA FORNITO A TUTTA
L’UMANITÀ CONCEZIONI DI LIBERTÀ E DEMOCRAZIA PIÙ ELABORATE E
PROFONDE DI QUELLE FINO AD ALLORA CONOSCIUTE.
Il popolo nero era, secondo Du Bois, una sorta di “settimo figlio”
dell’umanità, nato con un velo, dotato di una “seconda vista” nel mondo
americano, un mondo che non gli concedeva una vera coscienza di sé, ma che
gli consentiva di vedere se stesso solo attraverso la rivelazione del suo punto di
vista: “è una sensazione peculiare, questa doppia coscienza, la sensazione di
guardare se stessi sempre attraverso gli occhi di un altro, di misurare il proprio
spirito con il metro di un mondo che lo considera con divertito disprezzo e
compassione.” (Du Bois, 1997, p.3)
Il sentimento che ne conseguiva era quindi quello di una eterna dualità,
“un Americano e un Nero, due ideali belligeranti dentro un corpo scuro”. Tutta
la storia del Nero Americano era la storia della sua lotta interiore di fondere il
suo sé sdoppiato per crearne uno più autentico e migliore. Cercando di non
perdere né l’uno né l’altro, egli “non Africanizza l’America, perché essa ha
troppo da insegnare al mondo e all’Africa”, e tuttavia “non scolorisce la sua
anima in un diluvio di bianco Americanismo, perché sa che il sangue Negro ha
un messaggio per il mondo”. Egli vorrebbe essere semplicemente entrambi,
senza vedersi più chiudere brutalmente in faccia le porte dell’Opportunità (Du
Bois, 1903, p.3).
Trovandosi per metà da entrambe le parti, i Neri d’America restavano
perennemente deboli a causa della contraddizione del proprio doppio obiettivo,
ossia quello di appartenere alla nazione americana a pieno titolo da un lato o
26
quello di
non voler abbandonare la propria cerchia comunitaria unita dal
colore dall’altro.
Secondo Du Bois, questa continua ricerca aveva indotto decine di
migliaia di persone di colore a invocare falsi ideali e falsi miti, che talvolta
producevano il risultato di farli vergognare di se stessi. E’ in questa prospettiva
che si colloca l’aspra critica al progetto di emancipazione di Booker T.
Washington, un afroamericano suo contemporaneo che fondò una scuola per
soli neri a Tuskegee, in Alabama. Il repentino successo di Booker T.
Washington iniziò nel periodo di grande ascesa dello sviluppo commerciale,
caratterizzato da un forte senso di disorientamento della comunità
afroamericana di recente affrancata dalla schiavitù e da un senso di vergogna
da parte della nazione per aver concesso tanti sentimentalismi nei confronti dei
neri. Il programma di Washington ebbe la forza di apportare nuove prospettive
per le popolazioni di colore, libere ma in povertà, e presentava un progetto che
si iscriveva pienamente nella nuova “corsa all’oro” del periodo. Washington
proponeva di rinunciare, almeno in un primo momento, alla lotta per il potere
politico, per i diritti civili e per un’istruzione di alto livello per i giovani neri,
esortando la comunità nera a concentrare piuttosto le proprie energie
sull’apprendimento tecnico, l’accumulazione di benessere economico e la
riconciliazione con la comunità bianca. Du Bois, da suo canto, sosteneva che
non solo il rinunciare volontariamente a dei diritti e continuare a ridicolizzarsi
accettando sommessamente i pregiudizi e il razzismo non avrebbe portato mai
a dei miglioramenti nella vita dei neri, ma che gli stessi assunti del progetto di
Washington presentavano dei paradossi. In primo luogo, gli artigiani, gli
uomini d’affari e i proprietari terrieri che Washington cercava di formare,
avrebbero intrapreso una partita persa in partenza, dato che nell’economia
moderna dai metodi competitivi essi non avrebbero mai potuto difendere i
propri diritti. In secondo luogo, l’esortare i neri alla parsimonia e al rispetto di
27
se stessi strideva con il suggerimento di sottomettersi silenziosamente alla
propria inferiorità civica. Infine, sostenere scuole per la sola istruzione tecnica,
disprezzando gli istituti che impartivano un’educazione di maggior livello, non
teneva conto del fatto che ogni scuola per neri, compreso il Tuskegee Institute
fondato dallo stesso Washington, esisteva grazie al lavoro di insegnanti formati
nei college o dai suoi laureati (Du Bois, 1903, p.53).
Il primo obiettivo di Booker T. Washington fu quello di guadagnare la
fiducia e il consenso dei vari elementi che componevano la società bianca del
Sud, affermando che le varie parti sociali potevano operare separatamente
come le cinque dita di una mano, e, come esse, restare comunque unite
nell’obiettivo del progresso comune. La retorica tesa a enfatizzare i benefici
della prosperità materiale, poi, gli consentì di acquisire la considerazione
positiva degli industriali del Nord, che investivano nelle imprese del Sud e
vedevano in lui l’uomo del compromesso tra forze economiche in conflitto
sociale (Du Bois, 1997, p.55).
Lo scontro tra Washington e Du Bois verteva principalmente sul tema
dell’alfabetizzazione, mezzo di rappresentazione culturale da sempre
inaccessibile alle persone razzialmente subordinate, che diventò un terreno di
rivalsa privilegiato nel momento in cui gli afroamericani iniziarono a voler
vedere riconosciuti i propri diritti di cittadini. Nella prospettiva di Du Bois,
l’apprendimento culturale di tipo intellettuale era una condizione necessaria,
anche se non sufficiente, per l’emancipazione delle popolazioni di colore, che
prima del benessere economico avrebbero dovuto cercare il potere decisionale
a livello istituzionale. Sottomettersi alla discriminazione razziale, come
sembrava suggerire Washington, avrebbe relegato la comunità nera in una
condizione di eterna povertà, e soprattutto di inevitabile ignoranza. Lo stesso
diritto di voto di cui gli ex-schiavi avevano potuto godere dopo la
Ricostruzione veniva meno proprio perché la comunità di colore gradualmente
28
aveva smesso di esercitarlo dopo essersi convinta che la politica fosse
un’attività non adatta a loro (Du Bois, 1997, p.57).
Più che cercare un compromesso incondizionato con la comunità bianca
o acclamare il mito di un drastico separatismo, secondo Du Bois i neri del
ventesimo secolo avrebbero dovuto cercare di superare la “linea del colore”.
Questa linea, concretamente percepibile in tutti i villaggi e le città del Sud dove
la comunità nera era nettamente separata da quella bianca, caratterizzava le
divisioni sociali a tutti i livelli, primo fra tutti quello intellettuale. Lo scambio
culturale tra il numero crescente di sacerdoti, insegnanti, medici, mercanti,
meccanici e coltivatori indipendenti che costituivano l’aristocrazia nera da un
lato, e gli elementi della classe dirigente bianca dall’altro, era inesistente,
impossibile da realizzarsi. Essi frequentavano chiese separate, vivevano in
diverse sezioni della città, erano severamente divisi nelle assemblee pubbliche
e leggevano giornali e libri differenti. I quotidiani riportavano i fatti del mondo
nero come se accaduti in un mondo lontano, accentuando il senso di estraneità
che ognuna delle due comunità sentiva verso l’altra. Bisognava quindi entrare
in un rapporto di consapevolezza e comprensione reciproca, oltrepassando la
linea del colore per il bene comune (Du Bois, 1997, p.61).
SUL PIANO RAZZIALE L’IMPOSTAZIONE DI DU BOIS NON SI TRADUCEVA
QUINDI, COME IN GARVEY, NELL’OPPOSIZIONE DELLA RAZZA NERA ALLA
RAZZA BIANCA, IN UN “RAZZISMO ANTIRAZZISTA”. MIRAVA PIUTTOSTO A
COMBATTERE L’ARROGANZA RAZZIALE E LO SCIOVINISMO SOCIALE DA
AMBEDUE LE PARTI, DENUNCIANDO IL MITO DELLA SUPERIORITÀ RAZZIALE.
FERMAMENTE CONTRARIO AD OGNI RIMPATRIO DI NEGRO-AMERICANI IN
AFRICA (CHE GARVEY PONEVA INVECE IN TESTA AI SUOI PROGRAMMI), DU
BOIS ERA UN CONVINTO ASSERTORE DEL PIENO AUTOGOVERNO DEGLI
AFRICANI IN AFRICA E DELLA COSTITUZIONE DI UNA SOCIETÀ SOCIALISTA,
SU BASI COOPERATIVISTICHE, CHE NON AVREBBE LASCIATO POSTO NÈ AI
CAPITALISTI BIANCHI NÈ AI CAPITALISTI NERI. AUTODETERMINAZIONE
NAZIONALE, LIBERTÀ INDIVIDUALE E SOCIALISMO DEMOCRATICO
29
COSTITUIVANO, IN SOSTANZA, LE BASI DEL
FILESI, 1958).
PANAFRICANISMO (CFR. T.
L’idea del Panafricanismo, concepita e formulata nelle sue grandi linee
da un avvocato di Trinidad, Henry Sylvester Williams, quale “manifestazione
di fraterna solidarietà tra africani e popoli di discendenza africana”, affascinò
subito Du Bois, che ad essa fu per la prima volta iniziato in occasione di un
Convegno convocato nel 1900 a Londra dallo stesso Sylvester-Williams.
La battaglia di Di Bois, un uomo quasi solitario e comunque legato più
all’azione penetrante delle élites che a quella sconvolgente ma irrazionale delle
piazze, era cominciata nel 1905 presso le Niagara Falls e si era andata
sviluppando subito dopo il primo conflitto mondiale attraverso il Pan-African
Congress. Tra il 1919 e il 1927 egli riuscirà ad organizzare, in Europa e negli
Stati Uniti, quattro Congressi panafricani, nei quali saranno fissate le basi
programmatiche del movimento destinato a restituire l’Africa agli africani in
nome di una libertà troppo a lungo ignorata, e di una giustizia per troppi secoli
calpestata. Era l’appello sofferto del mondo dei diseredati e degli inermi, che
chiedeva a un mondo orgoglioso ed egoista di rinunciare alle sue manifestazioni
di potenza. Ma erano appelli troppo arditi per quel tempo: nulla più di una voce
che gridava nel deserto (cfr. T. Filesi, 1966).
Tuttavia, quando nel 1945 Du Bois, ormai settantenne organizza a
Manchester il V Congresso Panafricano, il clima è cambiato. La voce degli
africani ha un altro accento: non è più il lamento dell’oppresso, ma è il grido
dell’uomo determinato a conquistarsi il riscatto con ogni mezzo, anche con la
violenza e la ribellione, ove necessario. “Se il mondo occidentale – dirà la
Dichiarazione finale indirizzata dal Congresso alle potenze coloniali – è ancora
deciso a governare l’umanità con la forza, allora gli africani dovranno, quale
ultima ratio, fare appello alla forza per conquistare la libertà... Noi chiediamo
per l’Africa nera l’autonomia e l’indipendenza... Non ci vergogniamo di essere
stati un popolo paziente per così lungo spazio di tempo. Continuiamo volentieri
30
a sacrificarci e a lottare. Ma non desideriamo in alcun modo continuare a
morire di fame facendo i lavori più umili del mondo allo scopo di sostenere con
la nostra povertà una falsa aristocrazia e un imperialismo screditato. Noi
condanniamo il monopolio del capitale e il dominio della ricchezza e
dell’industria privata, rivolti unicamente a un profitto privato. Auspichiamo
l’avvento di una democrazia economica come la sola reale democrazia. Per
tutto ciò noi leveremo la nostra protesta, lanceremo appelli, ci rivolgeremo
all’opinione pubblica. Faremo in modo che il mondo possa udire la realtà della
nostra situazione. Combatteremo in tutti i modi possibili per la libertà, la
democrazia e il miglioramento sociale”10.
Questa tematica e questo linguaggio non corrispondono più alla tematica
e al linguaggio del solo Du Bois; non è cambiato, infatti, soltanto il clima, sono
cambiati anche gli uomini. C’è stato una specie di cambio della guardia tra la
vecchia e la nuova generazione, tra coloro che avevano dovuto accontentarsi
delle formulazioni teoriche ecoloro che si sentivano impegnati a trasferire tali
formulazioni e tali istanze sul terreno dell’esecuzione e della lotta. Il vessillo
del Panafricanismo, mai ammainato dal giorno della sua creazione, stava
passando nelle mani dell’allievo prediletto di Du Bois, George Padmore, e di
africani che corrispondono al nome di Kwame Nkrumah, T.R. Makonen, Peter
Abrahmas, Nnamdi Azikiwe, Jomo Kenyatta (T. Filesi, 1958).
10
W.E.B. Du Bois, Declaration to the Colonial Powers, in C. Legum, Pan-Africanism,
Londra, Dunmow, Pall Mall Press, 1962, p. 137
31
Capitolo 2
Riscatto culturale e potere politico
2.1. Aspetti ideologici della Négritude
Il Panafricanismo di Du Bois venne inteso come dottrina politicosociale. A fianco di esso si ebbe in America un movimento letterario, quasi un
Rinascimento Nero, guidato da alcuni saggisti quali Laugston Hughues, Claude
Mc Kay, Jean Toomer e Countee Cullen. Negli anni dal 1920 al 1929 tale
movimento riuscì a creare una moda o un interesse quasi snobistico che
suscitava entusiasmo per ogni manifestazione artistica negra. Si ebbe un
risveglio non solo nel campo letterario ma anche e soprattutto in quello
artistico (cfr. G. Finazzo,1978).
Allo stesso modo, grande interesse suscitò in Francia l’apparizione nel
1928 dell’opera Ainsi Parle l’Oncle di un haitiano, Price-Mars. Questi,
terminati gli studi liceali a Port-au-Prince, si iscrisse alla facoltà di medicina di
Parigi. La sua opera, nel suo complesso, viene considerata quale un unico
ampio studio a carattere etnografico. Price-Mars espresse idee oggi ormai
superate che al loro apparire furono viste come rivoluzionarie. Il giovane
haitiano sosteneva infatti uno dei motivi dominanti della tematica panafricana:
l’origine nobile della civiltà africana, apportatrice anch’essa di civiltà e dunque
non soltanto schiava. Descrivendo le ricchezze della sua terra natale, PriceMars le inseriva in una visione panafricana del mondo. Si andava delineando
32
una Weltanschauung africana, una visione del mondo che si ricollegava alle
cosmogonie e ai miti africani. Price-Mars rinnegava l’assimilazione, mettendo
piuttosto in risalto il diverso apporto delle culture negre ed europea alla
civilizzazione mondiale. Egli ancora esaltava, costantemente, in tutte le sue
opere, le gesta degli eroi di razza nera. Osservazioni incisive e appassionate
sulle società africane e la loro incidenza sul mondo circostante fanno di Ainsi
Parle l’Oncle uno dei classici del Panafricanismo, con le opere di Alan Locke,
che venivano pubblicate nello stesso periodo in America (cfr. P. Decraene,
1964).
Al tempo di Price-Mars, critiche contro l’organizzazione meccanica
della vita e la standardizzazione dell’uomo si stavano già diffondendo in
Europa. Gli autori neri cercarono di dare una soluzione del tutto originale a tali
problemi. Per ritrovare la validità dei propri valori essi si dovettero rivolgere
all’Africa, convinti che la “razza negra” avrebbe ritrovato se stessa, qualora si
fosse dedicata fino allo spasimo alla ricerca delle proprie origini (G. Finazzo,
1978).
Il fiorire del surrealismo in Europa, all’indomani della prima guerra
mondiale, portò la risposta che inconsciamente il mondo africano da lungo
tempo aspettava, dando, inavvertitamente, il via a una nuova concezione
dell’“essere negro”. Come infatti il surrealismo consisteva essenzialmente in
una rivolta contro tutte le norme convenzionali e i canoni dell’estetica classica,
così la Négritude, rigettando la raison-discursive in favore di una raisonintuitive, poneva le basi di una nuova estetica e di un nuovo linguaggio che
meglio si adattasse alla complessa realtà africana (Triulzi, 1965).
Proprio in Europa avvenne l’incontro dei negri africani con i negri
nordamericani e caraibici. Di fronte al mondo della civiltà occidentale tutti i
negri si riconoscevano fratelli, perché la loro situazione era pressoché identica,
ma soltanto a Parigi, per merito di questi giovani poeti afro-antillani, la rivolta
33
e l’autoaffermazione assunsero l’aspetto e l’ampiezza di un movimento
culturale, letterario e quindi politico.
A Parigi, nel 1939, la rivista “Volontés” pubblicò una lunga poesia,
Cahier d’un Retour au Pays Natal, di uno sconosciuto giovane poeta
martinicano, Aimé Césaire. In esso era riassunta la sua esperienza personale ed
il cammino dei suoi consimili fino a quel momento. Con il Cahier si rifiutava,
perché assurdo, quanto era stato fatto accettare di forza alla “razza” nera: la
condizione perenne di inferiorità, di dipendenza totale e immutabile da altri che
non fossero negri. Il messaggio che Césaire lanciava era il grido della
liberazione, il grido dell’angoscia esistenziale, ma era un grido sano, di
riscossa: alla disperazione dissolutrice contrapponeva la speranza costruttrice
(cfr. G. Finazzo, 1978).
Nato in una colonia francese da umile famiglia, cresciuto nella miseria,
sottoposto a ogni genere di umiliazioni, Césaire scopriva in sé la fierezza di
appartenere alla sua razza e lanciava con la Négritude il suo grido di sfida. Egli
scriveva: “Accetto... accetto... interamente, senza riserve... la mia razza che
nessuna abluzione d’issopo potrà purificare... Nessuna razza possiede il
monopolio della bellezza, della intelligenza, della forza, e c’è posto per tutti
all’appuntamento della conquista...”11
La complessità del fenomeno della Négritude non consente tuttavia di
parlarne come se fosse un sistema di pensiero, di valori e di programmi di
azione omogeneo al suo interno, e soprattutto uniformemente e unanimemente
accettato. In questa sede prenderemo dunque in considerazione quasi
esclusivamente gli intellettuali che ne sono considerati i fondatori, Aimé
Césaire e Leopold S. Senghor, e seguiremo nell’analisi del fenomeno le linee
11
Aimé Césaire, Le Armi Miracolose, Parma, Ed.Guanda, 1962, a cura di Anna Vizioli e
Franco De Poli, p.23
34
guida proposte da Alessandro Triulzi nel suo prezioso saggio Il Problema della
Négritude12.
Il messaggio che la Négritude propone può essere scomposto in due
aspetti: il primo può essere connesso alla reazione antirazionalista ed intuitiva
dell’arte e della filosofia francese del principio del secolo; il secondo può
invece condurre a una presa di posizione ostile nei confronti degli altri gruppi.
Lo sviluppo di questa idea avviene in due momenti essenziali: quello poetico –
cioè i sentimenti del negro nei confronti della natura, il senso del ritmo che da
questa relazione promana, e lo stile particolare attraverso il quale l’africano
esprime la sua vitalità – e quello etico-culturale, cioè il rapporto uomo-Dio, la
relazione dell’Io con l’Altro, e i nuovi simboli che costellano il firmamento
della nuova realtà africana. Accanto a questi aspetti ve ne sono tuttavia degli
altri che più direttamente si pongono in connessione all’“inversione del
razzismo”, e cioè quelli che a volte vengono indicati come terapeutici
dell’abituale sentimento di inferiorità del negro, e che potrebbero rivelarsi
direttamente tendenti al potenziamento della coscienza dell’in-group, come ad
esempio la deformazione della storia ai fini della costruzione di una coscienza
africana del proprio passato, e quelli che potrebbero manifestare una
dimensione di aggressività quale risposta a una certa situazione psicologica di
frustrazione (Triulzi, 1965).
2.1.1 La Négritude e la Poesia
L’idea della Négritude nasce come un modo di difendersi, come una
risposta al razzismo della società bianca, al paternalismo della cultura europea.
Non per caso il primo mezzo di espressione di questa presa di coscienza è di
12
Alessandro Triulzi, Il Problema della Négritude, in “Rivista di Sociologia”, n.7, 1965,
pp.5-50
35
natura specificatamente culturale: la poesia. Una poesia che però non aveva più
niente a che vedere con quella delle élite colonizzate, che imitavano
servilmente la poesia conformista, esportata dall’Europa. Non più i poeti negri
la cui meta era scrivere in modo che il lettore non indovinasse la loro
pigmentazione (cfr. Carrilho, 1974).
Nel 1929 Césaire conosce Léopold Sédar Senghor, uno studente
senegalese che, sui banchi del liceo Louis-le-Grand prima e nelle aule della
Sorbonne dopo, scriveva commossi versi sulla “sua” Africa. Figlio di un ricco
mercante del Senegal, Senghor aveva avuto un’infanzia agiata e serena e
un’educazione tutta francese prima a Dakar e poi in Francia, a Parigi. Proprio a
Parigi, lontano dal suo paese e dalla sua famiglia, al contatto con intellettuali e
studenti francesi, americani e africani, Senghor si scopre vir africanus per la
prima volta. I due poeti Césaire e Senghor, pur così differenti per origine,
educazione e mentalità, si stringono in un legame di profonda amicizia e
insieme combattono una causa che è la causa del loro popolo. Nel 1934,
sempre a Parigi, fondano la rivista L’Etudiant Noir (Triulzi,1965).
I caratteri fondamentali che presiedono ad ogni forma di espressione
artistica – musica, canto, scultura – sono per Césaire e Senghor le immagini e il
ritmo. Essi si fondono nella Négritude come i due tratti caratteristici dello stile
africano. Ogni rappresentazione si traduce in immagini ma, a differenza
dell’estetica occidentale, quella africana verrebbe a basarsi sull’assunto
fondamentale per cui l’oggetto non significa quello che rappresenta, ma quello
che suggerisce e crea. Così l’elefante rappresenta la forza, il ragno è simbolo
della prudenza, e la luna è l’immagine della fecondità (Carrilho, 1974).
Il ritmo a sua volta è inseparabile dall’immagine-simbolo; l’immagine
da sola è inerte, è sprovvista di vita. Solo il ritmo porta a perfezione la
rappresentazione che il negro si fa dell’universo, perché il ritmo è la forza
vitale che informa il mondo, che gli conferisce un senso. Secondo un mito
36
dogon del Mali, dice Senghor, il tam-tam, cioè il ritmo musicale, è apparso
sulla terra prima di ogni altra espressione artistica, prima ancora della danza,
della scultura o della pittura. Esso era lo strumento della preghiera, era parola
ritmata e quindi poesia. I suoni del tam-tam erano espressioni delle forze
cosmiche e permettano così al suonatore di partecipare, identificandosi, all’atto
creativo di Dio. Ecco perché, secondo il poeta della Négritude, ritmo e
immagine, poesia e preghiera, segno e senso, sono inscindibili nell’estetica
africana (Senghor, Liberté, I, 1964).
Questa si distingue inoltre da quella occidentale per il suo carattere
collettivo. L’arte, nell’Africa nera, non è separata né dalla conoscenza, né dalla
società. Ogni opera d’arte, scrive Senghor, è fatta da tutti e per tutti.
Naturalmente, esistono i professionisti dell’arte e della letteratura, ma accanto a
loro c’è il popolo, la folla anonima che canta, danza, suona, facendo di ogni
manifestazione d’arte un’opera collettiva, fatta da tutti con partecipazione di
tutti. “Perché funzionali e collettive, la letteratura e l’arte negro-africana sono
impegnate... Esse impegnano la persona – e non soltanto l’individuo –
attraverso ed entro la comunità, nel senso che esse sono delle tecniche di
essenzializzazione” (Senghor, Liberté, I, 1964, ibid., p.208).
2.1.2. La Négritude e l’Altro
I capifila della Negritude, da Cesaire a Senghor, hanno fatto assumere al
negro la diversità dal bianco e l’hanno trasformata in valore positivo, di cui
nessuno si doveva più vergognare, di cui, anzi, bisognava essere fieri in quanto
costituiva la base dell’apporto della “razza” negra all’intera comunità umana,
necessario quanto l’apporto delle altre “razze”.
Il bianco europeo sarebbe “uomo di volontà, guerriero, uccello
predatore, puro sguardo, che si distingue dall’oggetto. Lo tiene a distanza,
37
l’immobilizza, lo fissa... distrugge l’Altro e, in un movimento centripeto ne fa
un mezzo per usarlo a fini pratici. L’assimila”13. L’atteggiamento conoscitivo
del negro è completamente diverso: “non vede l’oggetto, lo sente... è nella sua
soggettività, sul filo degli organi sensoriali che scopre l’Altro... è suoni, odori,
ritmi, forme e colori: tatto, prima di essere occhio, al contrario del bianco
europeo. Sente più di quanto veda: si sente. E’ in se stesso, nella sua carne che
riceve e prova le radiazioni che emette ogni esistente oggetto...”14
Per l’uomo negro, quindi, il mondo è in quanto animato dallo stesso
flusso vitale che lo pervade. Egli “sente” la sua esistenza, si mette all’unisono
con essa, e in quanto sente se stesso ha coscienza dell’Altro, partecipando al
suo essere. L’atto del conoscere diventa in questo modo accordo, incontro di
più esistenze, coscienza e creazione dello stesso momento cognitivo. Questo
esistenzialismo religioso e animista sarebbe la vera religione del continente
africano, in quanto esso è il legame che conferisce la sua unità all’universo, che
stringe gli uomini tra di loro, che unisce Dio al granello di sabbia (Senghor,
Liberté, I, p.206). “Tutto l’universo visibile e invisibile – da Dio fino al grano
di sabbia, passando per i Geni, gli Antenati, gli animali, le piante, i minerali – è
composto di “vasi comunicanti”, di forze vitali soldali tra loro che emanano
tutte da Dio” (Senghor, Liberté, I, p.246).
La Négritude di Césaire e Senghor si impegna a delineare le differenze
tra lo spirito della civiltà negro-africana e quello dell’Occidente europeo
moderno. Secondo il pensiero negritudiniano, per l’europeo l’atteggiamento
dell’uomo di fronte alla natura si è tradizionalmente posto, dal Rinascimento in
poi, in termini di conoscere per dominare. L’homo faber europeo ha voluto
13
L. S. Senghor, Elements Costitutifs d’une Civilization d’Inspiration Negro-Africaine, in
“Negritude et Humanisme”, Seuil, Paris, 1964, pp.258-9
14
L. S. Senghor, Ce Que l’Homme Noir Apporte (1939), cit. in M. Carrilho, 1974, op.cit.,
p.70
38
conoscere la natura per farne strumento della propria volontà di potere, he
voluto utilizzarla. E’ al contrario nella sua soggettività che il negro africano
scopre l’oggetto nella sua realtà essenziale, nel suo movimento dinamico, nel
suo ritmo (cfr. Triulzi, 1965, p.22).
Una diversa interpretazione dell’universo richiama parimenti un nuovo
modo di conoscenza del mondo esterno e, quindi, un nuovo modo di
esprimerlo. Il nuovo metodo di conoscenza è l’entusiasmo, e le sue componenti
sono l’istinto, la sensibilità, l’intuizione mistica. Tutto ciò contrapposto alla
razionalità del mondo bianco, per il quale non ha senso tutto ciò che il negro
riveste invece di significato. Scrive Césaire: “Coloro che non hanno inventato
né la polvere né la bussola / coloro che mai seppero domare il vapore o
l’elettricità / coloro che non hanno esplorato né terra, né cielo / ma coloro senza
i quali la terra non sarebbe terra”15.
E ancora, nel suo Discours sur le Colonialisme, Aimé Césaire contesta
violentemente l’equazione “civiltà-colonizzazione”, muovendo una polemica
più con la cultura dei bianchi che con il loro pregiudizio razziale: “Mi si parla
di progresso, di realizzazioni, di malattie guarite, di livelli di vita accresciuti.
Io, parlo di civiltà svuotate, di culture calpestate, di istituzioni minate, di terre
confiscate, di religioni assassinate... Mi si lanciano alla testa fatti, statistiche,
chilometraggi di strade, di canali, di ferrovie... Io parlo di milioni di uomini
strappati al loro dio, alla loro terra, alle loro abitudini, alla loro vita, alla vita,
alla danza, alla saggezza. Parlo di milioni di uomini nei quali è stata
saggiamente inculcata la paura, il complesso di inferiorità, il timore,
l’inginocchiamento, la disperazione...”16.
Nel suo processo di purificazione dei valori occidentali, la Négritude
include anche i principi della morale e della religione cristiana; in parte anche
15
Aimé Césaire, Le Armi Miracolose, op. cit., p.15
16
Aimé Césaire, Discours sur le Colonialisme, in “Présence Africaine”, Paris, 1955, p.22
39
perché questi principi sono stati considerati alla base stessa della
colonizzazione,
intesa
come
opera
di
civilizzazione
cristiana.
Tale
atteggiamento di opposizione al Cristianesimo si trova a più riprese tra gli
scrittori e i poeti africani della generazione tra le due guerre (cfr. Triulzi, 1965).
In realtà, raramente è messa in causa la concezione cristiana di Dio; sono
piuttosto i ministri del suo culto ad essere incriminati, e li si accusa proprio di
aver tradito il loro Dio. Il dio dei cristiani sembra infatti vicino, come simbolo
e immagine dell’Essere Supremo, alla cosmogonia animista africana. Non di
rado il passaggio dalla credenza animista alla fede cristiana avviene senza
brusche scosse nell’animo del neo-convertito che fonde, e spesso confonde,
l’una e l’altra in una specie di sincretismo religioso. Anche qui, come nel
campo politico e in quello culturale, egli si trova di fronte a un vicolo cieco che
consente solo due soluzioni: o la rottura violenta (con la “creazione” di un
proprio Dio), oppure l’accettazione della religione occidentale, sotto forma di
innesto da compiere sull’albero dell’animismo africano. (Triulzi, ibid.).
Esempio della seconda soluzione è quella propugnata da Senghor: “Come la
colonizzazione francese, nella sua azione “civilizzatrice” non può ignorare la
civiltà negro-africana, così il Cattolicesimo non può ignorare l’Animismo
senza esporsi ad un grave fallimento. In questi paesi dalle pianure sabbiose,
egli non potrà costruire nulla di solido e di durevole se non sulle assise delle
pietre dell’Animismo”17.
“Je suis catholique”, afferma chiaramente Senghor18. Il teorico della
specificità e della diversità della cultura africana non trova alcuna incongruenza
nell’essere allo stesso tempo difensore dei valori culturali del mondo negro e
sostenitore del cattolicesimo. Anzi, lungo la sua opera Senghor si sforza di
dimostrare le affinità tra le religioni africane e quella cattolica. Per spiegare
17
Leopold S. Senghor, Liberté, I, op. cit., p. 56
18
Ibid., p.55
40
l’animismo, tanto biasimato dai missionari cristiani, si parla della forza vitale
che viene identificata dal negro con la vita stessa. Ma esisterebbe una gerarchia
di Forze: “Il Negro ha stabilito una gerarchia rigorosa delle Forze. Al vertice,
un Dio unico, non creato e creatore, Colui che ha la forza, la potenza per se
stesso. Dà l’esistenza, sostanza e accrescimento di altre forze” (Carrilho, op.
cit., p.100).
L’intenzione di Senghor sembra essere quella di collocarci di fronte alla
rivelazione del concetto di Dio all’uomo, non solo all’uomo ebreo, bianco, ma
anche al negro. Molti altri etnologi africani, di formazione cattolica e
protestante, hanno particolarmente insistito sul fatto che le religioni africane
riconoscono l’esistenza di un Dio simile al Dio biblico: Jomo Kenyatta, A.
Raponda Walker, Paul Hazoumé e altri (Ibid.).
2.1.3. La Négritude e la Storia
La Négritude cerca di inserire l’Africa millenaria nella complessa realtà
del mondo contemporaneo, cerca cioè di metterla in grado di guardare a se
stessa con fierezza, di darle una coscienza non solo spirituale, ma anche storica
e politica, di dotarla di una sicurezza della sua missione nel mondo, capace di
servire come merce di scambio e di confronto con i valori della civiltà europea.
Per lungo tempo etnologi e storici dell’Africa nera credettero che questo
continente fosse senza passato storico, e quindi senza “storia”. L’argomento
più frequentemente prodotto a favore di questa tesi riposava sul fatto
incontestabile che la maggior parte dei documenti storici negro-africani
risiedeva nella tradizione orale e concerneva quindi più la mitologia che la
storia19.
19
Cfr. Thomas L.V., Temps, Mythe et Histoire en Afrique de l’Ouest, in “Présence Africaine”,
n.XXXIX, 1961, p.16
41
L’Africa nera si rende così conto oggi di essere stata privata di uno degli
elementi fondamentali per la sua rinascita: la storia. Fino a quel momento essa
era stata scritta dal di fuori, come una proiezione della storia nazionale del
paese coloniale: come oggetto e non come soggetto storico. Tuttavia i giovani
intellettuali africani, posti di fronte all’opera di ricomporre il mosaico africano
nella sua interezza politica e nella sua unità di ispirazione ideologica, hanno
spesso idealizzato il passato pre-coloniale contribuendo così alla costruzione di
una vera e propria mitologia. Certo non manca, accanto a questa visione
misticheggiante della storia, una produzione scientifica ed a-mitica, anch’essa
tuttavia preoccupata ad “aiutare l’africano a prendere coscienza del suo passato
e a realizzare la sua unità nazionale” (L.V. Thomas, op. cit., p.53).
Durante l’epoca coloniale, la giustificazione dello sfruttamento di cui gli
africani erano oggetto trovava appoggio nella loro presunta primitività, nel
“fatto” che non avevano contribuito allo sviluppo storico mondiale e il loro
ruolo veniva quasi descritto come parassitario nei confronti della civilizzazione
bianca. La rivendicazione di una cultura propria divenne sempre più estesa,
soprattutto a partire dalla seconda guerra mondiale, quando cominciavano a
prospettarsi le possibilità di indipendenza per i paesi colonizzati (cfr.
M.Carrilho, op. cit., p.76).
La riscoperta della propria storia è una delle esigenze che ricorrono in
tutte le correnti politiche e culturali africane, in maniera diversa a seconda
dell’indirizzo politico nazionale e internazionale. Per quanto riguarda il
movimento della Négritude, assume particolare importanza l’opera dello
storico senegalese Cheikh Anta Diop. Negli anni Cinquanta Diop, constatando
le istanze indipendentistiche di una gran parte dei paesi africani, era convinto
che ci si stava avviando verso “uno stato multinazionale coprendo la quasi
totalità del continente”. Bisognava quindi provvedere alla costruzione di “una
sovrastruttura ideologica e culturale che costituirà uno dei cardini essenziali di
42
sicurezza. Ciò vuol dire che bisognerà che questo Stato, nel suo insieme, sia
cosciente del proprio passato, ciò che suppone l’elaborazione di una Storia
generale del Continente che inglobi le storie particolari delle differenti
nazionalità”20.
Nel 1955 appare il suo Nations Nègres et Culture, un libro che provocò
enorme scalpore. La tesi centrale dell’opera è che la civilizzazione dell’antico
Egitto fu una civilizzazione negra. Secondo Diop, i Greci erano coscienti del
fatto che gli Egiziani erano di origine nera e a tale proposito cita interessanti
passi di Erodoto, Strabone, Diodoro Siculo, in cui gli Egiziani vengono più o
meno direttamente chiamati negri. I negri, scrive Anta Diop, avendo
contribuito a formare la cultura egiziana, che si è sparsa in seguito in tutto
l’Occidente europeo, “hanno inventato per primi la matematica, l’astronomia, il
calendario, le scienze in generale, le arti, la religione, l’agricoltura,
l’organizzazione sociale, la medicina, la scrittura, le tecniche, l’architettura...
Dicendo tutto ciò, non si dice che la modesta e pura verità che nessuno all’ora
attuale può rifiutare con argomenti degni di questo nome”21.
Nella Bibbia inoltre si rintraccerebbe l’inizio del mito Camita: con la
maledizione dei filgi di Cam (neri), gli ebrei hanno voluto colpire gli egiziani,
loro nemici, di cui era conosciuta l’origine nera. Diop fa inoltre notare che la
divinità più importante della religione egiziana, Osiride, viene rappresentata
come un nero nelle pitture dell’Antico Egitto.
Come gli egiziani da neri siano diventati chiari rimane un punto
problematico. Secondo Diop questa trasformazione sarebbe dovuta ai continui
mescolamenti e agli spostamenti, verso l’interno, causati dagli invasori (ibid.).
20
C. A. Diop, Apports et Perspectives Culturels de l’Afrique, in “Présence Africaine”, 8-9-10,
1956, p. 342,343
21
C. A. Diop, Nations Nègres et Cultures, Editions Présence Africaine, Paris, 1955, p.253
43
La tesi sull’origine negra della civilizzazione egiziana, già avanzata da
Volney e Blyden, permette ad Anta Diop di ritrovare il tanto cercato filo
conduttore della storia africana, dalla preistoria ai nostri tempi. Diop spiega che
soprattutto a causa delle invasioni di popoli stranieri i neri egiziani si sono
addentrati sempre di più verso l’interno del continente, cacciando davanti a
loro i boscimani. A questo lungo percorso risalirebbe la fondazione di alcuni
tra i più importanti stati africani: Nubia, Ghana, Ciad, Congo, Zimbabwe. La
dispersione e l’isolamento progressivo, in regioni dall’ambiente abbastanza
favorevole per ridurre lo sforzo di adattamento, provocano una “regressione”
della civilizzazione negra, almeno dal punto di vista tecnico; ed è in questo
stato di inferiorità tecnica che si verifica l’impatto con gli europei a partire dal
XV secolo (ibid.).
Le argomentazioni di Diop, se hanno entusiasmato molti nazionalisti
africani, non hanno però trovato molti consensi tra gli studiosi europei più
esigenti.
2.2. Négritude e Politica nel Secondo Dopoguerra
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Damas, Césaire e Senghor si
ritrovano a Parigi, all’Assemblea Nazionale Francese, come rappresentanti dei
rispettivi territori di origine. È significativo il fatto che tutti, o quasi, i profeti
della Négritude, abbiano successivamente ricoperto incarichi politici e abbiano
operato sul piano sociale e politico: da Cheik H. Kane, ministro degli affari
economici nel Governo del Senegal, a Cheik A. Diop, uno dei capi
dell’opposizione nel Parlamento dello stesso Paese; da Aimé Césaire, sindaco
di Fort-de-France nelle Antille Francesi, a Leopold S. Senghor, ex-deputato al
Parlamento metropolitano e poi Presidente del Senegal. Se la Négritude quindi
44
si fa messaggio di una razza, questo messaggio si fa altresì strumento di una
rivendicazione politica.
Nel 1950, la parte più valida e sostanziale delle idee della Négritude era
stata prodotta e probabilmente il movimento si sarebbe esaurito, disciolto, se
non fossero subentrate delle esigenze di carattere politico. E’ proprio tra il ’50
e il ’60 che la Négritude raggiunge l’acme del successo in quanto movimento
“per sé”. Avviene quel salto qualitativo per cui la negritudine diventa
strumento ideologico di una certa politica, dalla quale si allontanano molti
nazionalisti africani che fino ad allora guardavano con una certa simpatia i
prodotti letterari dei poeti e scrittori del movimento (Carrilho,1974).
Se il rifiuto dell’assimilazione culturale fu uno dei temi predominanti
per i teorici della Négritude, il rifiuto dell’assimilazione politica divenne,
soprattutto nelle parole di Senghor, più ambiguo. Mentre la colonizzazione
britannica
era
caratterizzata
dall’esercizio
della
Indirect
Rule,
le
amministrazioni francesi si servirono delle élite locali “assimilate” alla cultura
occidentale per gestire la dominazione coloniale.
L’assimilazione voleva che il colonizzato adottasse la lingua, la
religione, i valori dominanti del paese colonizzatore. Dimenticate le forme
tradizionali di espressione, convertito al cattolicesimo o al protestantesimo,
allontanatosi dal popolo di cui faceva parte, l’intellettuale nero era un uomo
che comunque non poteva integrarsi mai completamente nel mondo che gli
veniva proposto come superiore e nel quale si sforzava di entrare. Il colore
della pelle era per il dominatore un modo sicuro per garantire una
discriminazione che prima di tutto era di origine economico-politica. Più
facilmente di una borghesia bianca, poteva governare nelle colonie una
borghesia nera, subalterna, che difendesse gli interessi del colonizzatore. Era
necessario preparare questa borghesia intermediaria. Ma il negro, anche se
appartenente alla nascente borghesia del proprio paese, anche se privilegiato
45
nei confronti dei suoi fratelli, rimaneva sempre alla porta del mondo politico e
culturale bianco (europeo o americano) che gli insegnavano ad ammirare. Era
un uomo in bilico tra due mondi culturali, una personalità di confine culturale
(M. Carrilho, 1974).
Il potere straniero si era fatto forza degli antichi privilegi in uso presso le
società africane, perché aveva ben capito che solo appoggiandosi e lusingando i
capi tradizionali poteva reggersi impunemente. I “regimi” tradizionali africani
sembrava si fossero cristallizzati, impedendo ogni evoluzione e progresso in
senso africano. E tuttavia si erano avute rivolte in Africa; ogni colonia
sottoposta a regime coloniale europeo aveva avuto i suoi partigiani ante
litteram: vi furono proteste a carattere religioso e militare nelle colonie francesi
dell’Africa Occidentale. Ma non solo. Già nel primo dopoguerra si ebbero delle
sommosse nelle colonie inglesi e nello stesso Kenia, che fu teatro più tardi
(1950) della rivolta sanguinosa dei Mau-Mau (G. Finazzo, 1978).
La protesta si fece sentire in nuovi canti, nell’Africa del Nord francese
serpeggiava già l’ideologia comunista, mentre i primi richiami all’unità
culturale arrivavano, sia pure offuscati, tramite gli appelli degli intellettuali
panafricanisti.
Per il gruppo del vecchio L’Etudiant Noir, l’esperienza della guerra
determina un cambiamento di rotta. Senghor spiega: “La sconfitta della Francia
e dell’Occidente nel 1940, ci avevano da prima stupito, noi intellettuali negri.
Ci svegliamo ben presto, sotto il pungolo della catastrofe, ignudi e non più
ebbri. Ecco dunque dove avevano portato, nell’odore dei carnai e nei fragori
dei plotoni di esecuzione, l’odio della ragione e il culto del sangue”. E avendo
capito i rischi inerenti “alla solitudine culturale, al ripiegamento su se stessi,
alla volontà di costruire solo sulla razza, sulla nazione, sulle virtù natie”, i
giovani poeti diventano più “politici”, consapevoli che “non si può edificare la
46
nuova città della Négritude sui soli valori letterari e artistici, che questa deve
riflettere la nostra evoluzione economica e sociale”22.
A Parigi, all’Assemblea Costituente già subito al termine del conflitto,
delegati di Paesi africani si ritrovarono a fianco dei deputati francesi. Il primo
progetto, che prevedeva per le colonie il graduale accesso all’autonomia venne
respinto dal Governo Bidault. La Costituzione del settembre del 1946
trasformò l’antico impero coloniale nell’Union Française. Una legge emanata
al momento concedeva la cittadinanza francese a tutti gli africani delle colonie
di lingua francese (cfr. J. Ki-Zerbo, 1977).
In ogni territorio venne costituita un’assemblea di deputati autoctoni,
eletta dalla popolazione e dotata di poteri consultivi. Ma i fatti dimostrarono
ancora una volta che le buone intenzioni erano in realtà prive di contenuto.
Numerose dichiarazioni e disposizioni stabilivano in modo perentorio la
volontà di controllare, di dirigere e di integrare. L’amministratore capo Delmas
dichiarava: “Le finalità dell’opera civilizzatrice realizzata dalla Francia nelle
colonie scartano qualsiasi concetto di autonomia, qualsiasi possibilità di
evoluzione al di fuori del blocco francese dell’impero. L’eventuale
costituzione, anche a lungo termine, di un self-government nelle colonie è da
rifiutare. Nella grande Francia coloniale non vi sono popoli da liberare né
discriminazioni razziali da abolire... Vi sono popolazioni che noi intendiamo
condurre passo passo allo stato giuridico, le più mature alle libertà politiche,
ma che non intendono conoscere altra indipendenza che l’indipendenza della
Francia”23.
E’ pur vero che nel corso di una seduta il governatore generale Eboué
fece conoscere l’opinione degli indigeni sui problemi posti all’attenzione della
22
Leopold Sédar Senghor, Le Message de Goethe aux Nègres Nouveaux, in “Negritude et
Humanisme, op.cit., p.83-86
23
Cit. in J. Ki-Zerbo, Storia dell’Africa Nera, Torino, Einaudi, 1977, p.656
47
conferenza sotto forma di alcuni rapporti redatti dagli “intellettuali neri”; uno
di questi definiva la colonizzazione “sotto il profilo umano l’atto con cui
l’uomo cerca di stabilire l’equilibrio vitale tra tutti i gruppi che formano
l’umanità... Noi siamo per estendere integralmente la civiltà occidentale in
Africa”24.
Per quanto riguarda il Senegal di Senghor, l’atteggiamento adottato dal
nuovo capo di stato può definirsi “accomodante” nei confronti della potenza
francese. Scrive Senghor: “La Francia non ha da giustificare le sue conquiste
coloniali più della annessione della Bretagna o del Paese Basco... La Francia
deve soltanto conciliare i propri interessi con quelli degli autoctoni. Il problema
coloniale non è altro, in fondo, che un problema provinciale, un problema
umano” (Senghor, Négritude et Humanisme, p.56). Si partiva dal fatto
compiuto del colonialismo, sul quale si era disposti a non insistere a patto che
la Francia considerasse i possedimenti africani come le province del territorio
europeo, cooperatori ma partecipi al progresso francese. Appartenere all’Union
Française diventava per il leader della Négritude quasi un punto d’orgoglio,
neanche eccessivamente mascherato: “Una Union Française, più di un sistema
economico, diversa da una dittatura o da un compromesso politico. Una
simbiosi di civilizzazioni, un nuovo umanesimo a scala universale. Noi avremo
rinunciato a un orgoglio fratricida, a una purezza sterile, impossibile... Noi
avremo scelto liberamente, musulmani, cristiani, negri, europei. Per il nostro
popolo e ognuno per se stesso. La nostra Union Française sarà così a misura di
uomo” (Senghor, ibid., p.92).
La realizzazione di una “Union Française à la mésure de l’Homme”
sarebbe dovuto passare, secondo il leader senegalese, attraverso un processo di
“assimilazione” e di “associazione”. Senhgor spiega che per “assimilazione”
intende “assimilare”, non “essere assimilati” (ibid., p.39). Da oggetto
24
Ibid., p.656
48
dell’assimilazione, i negro africani sarebbero dovuti diventare soggetto della
stessa assimilazione – non essere assimilati dalla cultura europea, ma
assimilare la cultura europea – distinzione che risulta alquanto acrobatica (cfr.
Carrilho, p.109). Senghor afferma che si è lontani dal pretendere che “la
Metropoli adotti i costumi e le istituzioni indigene. Ciò nonostante essa ne deve
comprendere lo spirito... Per la colonia si tratta soprattutto di assimilare lo
spirito della civilizzazione francese. Si tratta di una assimilazione attiva e
giudiziosa, che fecondi le civilizzazioni autoctone e le faccia uscire dalla loro
stagnazione e decadenza. Si tratta di una assimilazione che permette
l’associazione. E’ solo a questa condizione che ci sarà un ideale comune e una
comune ragione di vivere, solo a questa condizione un Impero Francese”
(Senghor, op.cit., p.45).
Diverso fu l’atteggiamento di Sekou Touré e dello Stato da lui guidato,
la Guinea. A Conakry il generale De Gaulle si trovò di fronte a una
popolazione disposta all’amicizia ma a certe condizioni, che furono definite da
Sekou Touré con tono fiero e insolito per l’ospite; nel film girato in
quell’occasione si può vedere e sentire Sekou Touré mentre si rivolge
all’uditorio per affermare: “Alla ricchezza nella schiavitù noi preferiamo la
miseria nella libertà!”25. La Guinea fu l’unico territorio a votare quasi
all’unanimità “no” a referendum e che conseguì quindi l’indipendenza,
proclamata il 12 ottobre 1958 (cfr. B. Davidson, 1990).
2.3. Pannegrismo e Panafricanismo
Nelle zone anglofone dell’Africa, la Négritude, abbastanza legata alla
influenze coloniali francesi, non ebbe successo in quanto movimento. Alcuni
25
Cit. in Joseph Ki-Zerbo, op.cit., p.673
49
ideologi della Négritude, però, sostengono che il concetto di “African
Personality” sia la versione anglofona del concetto di negritudine. Infatti, oltre
la comune aspirazione alle idee di Blyden, varie somiglianze si possono
riscontrare: il “comunitarismo” africano è il concetto fondamentale e i valori
africani costituiscono l’etica da seguire (cfr. Carrilho, 1978).
Uomini come George Padmore e Kwame Nkrumah accusavano la
Négritude di essere una forma di razzismo nero che non valeva più di quello
bianco. In verità, la critica di Nkrumah è tanto più sorprendente se si pensa che
egli espresse una sua teoria dell’“essere negro” cui aveva dato il nome di
Consciencism26, e se si ricorda che all’inizio del 1960 egli autorizzò la
diffusione in Ghana di dodici cartoline a colori in cui si rivendicava agli
africani in generale, e all’antico impero del Ghana in particolare, invenzioni
quali la medicina, l’architettura o l’uso della carta (L.V. Thomas, 1962, p. 42).
W.A. Jeanpierre attribuisce l’avversione nei confronti della Négritude da
parte degli anglo-africani alla diversa impostazione delle due culture che hanno
informato le due élites, quella di espressione francese e quella di espressione
inglese. Si può pensare che i due diversi filoni culturali abbiano caratterizzato i
due modi di espressione: è possibile infatti trovare da parte francese una
feconda vena di poesia che non trova riscontro nella produzione di scrittori
anlgo-africani, i quali nella maggioranza sono e restano romanzieri o critici, più
che poeti27.
Già nel secondo dopoguerra, l’espressione “African Personality”, usata
da Nkrumah, aveva dei connotati panafricani piuttosto che pan-negri. Con
l’indipendenza del Ghana (1957), Nkrumah diventa il leader più appassionato
del panafricanismo. Il nuovo panafricanismo fa però riferimento a uno spazio
26
Vedi, K. Nkrumah, Le Consciencisme, Paris, Payot, 1964
27
W.A. Jeanpierre, La Négritude vue par un Afro-Américaine, in “Présence Africaine”, n.
XXIX, 1961, p.106, cit. in A. Triulzi, Op. Cit., p.41
50
geo-politico in cui la componente etnica negra, anche se predominante, convive
con la componente bianca, araba. L’azione antimperialista dell’Egitto di Nasser
e la rivoluzione algerina, infatti, non fanno che sottolineare l’importanza araba
in seno al continente (Carrilho,1974).
Il concetto di negritudine, anche per necessità di coerenza filologica,
riguardava solo la componente nera, quindi era circoscritto a una parte
dell’Africa, ma aveva il vantaggio di comprendere anche la “black America”.
Scriveva Senghor: “Quello che mi colpisce dei Negri dell’America è la
permanenza dei caratteri non solo fisici ma psichici del Negro-africano,
malgrado i vari incroci, malgrado l’ambiente nuovo. Non vengano a parlarci
della ‘segregazione’. Certamente la segregazione razziale spiega in parte la
permanenza dei caratteri psichici, soprattutto il dono dell’emozione; ma non
spiega tutto,
soprattutto tra i negri dell’America Latina, dove la
discriminazione è meno reale” (cit. in Carrilho, op. cit., pp. 69-70).
L’espressione di “personalità africana”, più generale, malgrado le sue affinità
iniziali con la “negritudine”, era più facilmente integrabile in un concetto in
evoluzione, quindi meno soggetta alle critiche soprattutto da parte dell’Africa
araba. Comunque, l’idea di appartenenza alla “razza negra”, in qualunque
lingua venisse espressa, sembrava aver fatto ormai la sua epoca (Carrilho,
1974).
Lo stesso Jean-Paul Sartre vide nel movimento della Négritude il debole
momento di una progressione dialettica: “l’affermazione teorica e pratica della
supremazia del bianco è la tesi, la posizione della negritudine, come valore
antitetico è il momento della negatività. Ma questo momento negativo non è
sufficiente in se stesso e i negri che ne usano lo sanno assai bene: sanno che
mira a preparare la sintesi o realizzazione dell’umano in una società senza
razza. Così la negritudine è destinata a distruggersi, è transizione e non
51
raggiungimento, mezzo e non fine ultimo”28. Per questo, secondo Sartre, la
nozione soggettiva, esistenziale, etnica di negritudine, passa di colpo in quella
oggettiva (in senso hegeliano), positiva, esatta, di proletariato. “Per Césaire,
dice Senghor, il bianco è il simbolo del capitale come il negro è quello del
lavoro... Attraverso gli uomini di pelle nera della sua razza canta la lotta del
proletariato mondiale”29
Il panafricanismo del secondo dopoguerra, quello di Du Bois, di
Nkrumah, di Padmore, e di tutti i promotori di Congressi Panafricani, non ruota
più tanto intorno alla questione del colore, ma a quella dell’oppressione dei
popoli del mondo vittime del colonizzatore europeo. Siamo in un periodo in cui
gli africani, sempre divisi per l’innanzi da guerre fratricide e da odi atavici,
avevano trovato ora un comune nemico esterno che li univa in un sentimento di
rivolta comune. Le potenze coloniali – costrette, per perseguire i propri fini, a
rendere partecipe l’Africa di istituti politici, di costumi e di confessioni
religiose proprie dell’Occidente – inoculavano inconsapevolmente, nelle
popolazioni autoctone le nozioni di democrazia, di patria e di libertà (cfr.
Filesi, 1958).
I due conlfitti mondiali erano penetrati materialmente e
moralmente nel cuore dell’Africa. La Carta Atlantica, la Carta di San
Francisco, la Dichiarazione Generale dei Diritti dell’Uomo (10 dicembre
1948), l’azione stessa dell’ONU da un lato e degli Stati Uniti d’America
dall’altro, la propaganda comunista e in particolre l’offensiva dell’Unione
Sovietica, la Conferenza afro-asiatica di Bandung (aprile 1955), il
trasferimento sul suolo africano del movimento panafricano tenacemente
perseguito da Du Bois e validamente raccolto dai suoi più giovani seguaci, la
nascita di veri e propri partiti politici e di una coscienza sindacale, costituirono
tutti motivi convergenti e determinanti del risveglio dell’Africa (Filesi, 1966).
28
J.P. Sartre, Orphée Noir, prefazione a Anthologie de la Poèsie Négre et Malgache, p. XL
29
Ibid.
52
2.4. Il risveglio politico
Nel periodo compreso tra le due guerre si manifestarono i primi segnali
di un attivismo politico che si sarebbe sviluppato poi nel secondo dopoguerra,
portando all’indipendenza. Per secoli il contatto degli africani con gli europei
era stato quello “ottocentesco” del padrone e del servo; il lavoro forzato nelle
miniere, nei campi o nei porti, si svolgeva secondo contratti fissati
unilateralmente. Il concetto di lavoro all’europea, i nuovi criteri della divisione
dei compiti, l’introduzione dei mezzi meccanici di lavorazione ebbero sì un
aspetto positivo, ma non sempre “spiegati” a chi li usava per la prima volta,
divennero altrettanti mezzi di potere per il bianco e di alienazione per chi non li
aveva saputi o potuti produrre prima dell’uomo bianco (T. Filesi, 1966).
L’afflusso, sempre più compatto, di giovani alle città in cerca di lavoro
permise, sia pure timidamente all’inizio, il contatto con le prime cellule
sindacaliste. Le campagne si spopolavano, mentre in certe colonie
l’introduzione della monocoltura provocava danni ingenti per lo stesso
equilibrio ecologico, prima ancora che nel settore economico in generale; in
altre i coloni europei, occupate le terre migliori, le avevano adattate secondo i
tipi di coltura a cui erano stati abituati nelle nazioni di origine. La miseria delle
genti africane, gli espropri che lasciavano le tribù senza terra, l’assillo del
denaro che mancava per pagare le tasse ed evitare così la galera nelle
amministrazioni coloniali, l’attrazione delle città furono tutte cause di un esodo
sempre più accentuato dalle campagne (cfr. B. Davidson, 1990)
Ma nei centri urbani c’era solo miseria ed emarginazione per il giovane
che, uscito dalla brousse, “usciva” dal cerchio comunitario del suo gruppo.
L’individuo non ha ragion d’essere nella società africana, ed in città, tipica
creazione europea, l’africano si perdeva cadendo in stati mai prima conosciuti
di prostrazione e di avvilimento. Il giovane così conosceva la disoccupazione o
53
otteneva dei salari ben miseri; doveva vivere in slums o bidonvilles, e la polizia
lo teneva d’occhio. Nel villaggio la miseria era comune, tutto era diviso con gli
altri membri della comunità, ma in città la miseria economica diveniva miseria
spirituale, umiliazione, solitudine, squallore (ibid.).
Abbandonando la sua “tribù” l’indigeno restava solo, egli cercava allora
di fronteggiare la disgregazione delle antiche forze con la sostituzione di nuove
forme di collaborazione umana. Dal 1920 al 1930 sorsero le prime cellule
sindacali, a cui naturalmente le potenze europee coloniali opposero il loro veto.
Sindacalisti furono Kwame Nkrumah, Sekou Touré, Assalé, Mboya, Adoula.
Essi vennero arrestati perché giudicati sovversivi agli occhi europei, ma furono
esaltati come eroi dai loro conterranei. Iniziarono gli scioperi, i distretti
minerari vennero paralizzati e, dalle ferrovie del Sudafrica, la protesta si
allargò, raggiunse l’Africa Occidentale Francese, quella Orientale Inglese e
ancora la Rhodesia del Nord. Dappertutto si ebbe una cruda reazione.
Cominciò così a prendere forma una classe politica africana che avrebbe
sviluppato nel secondo dopoguerra un’azione ancora più incisiva sull’opinione
pubblica africana, mediante l’istituzione di partiti politici “africani” (cfr. T.
Filesi, 1966).
Durante la Seconda Guerra Mondiale, forti contingenti di truppe di
colore vennero arruolati nell’esercito francese e come già nel primo conflitto
anche questa volta si trovarono a combattere sul fronte tedesco. Molti africani
caddero sui fronti europei e altrove, ma poca fu la riconoscenza francese. Una
volta terminato il conflitto tutte le forze belliche straniere tornarono in patria.
Gli africani, che avevano combattuto e condiviso con i soldati delle altre
nazioni pericoli e disagi, speravano, con maggiore illusione questa volta date le
frequenti dichiarazioni alle libertà dei popoli fatte da Churchill durante il corso
della Guerra, di ottenere le quattro libertà conclamate dagli Alleati: libertà di
parola, libertà di culto, libertà dal bisogno, libertà dalla paura.
54
Tornati alla vita di tutti i giorni, gli africani poterono ancora fregiarsi il
petto con le medaglie meritate, ma non ebbero privilegi. Molti erano morti per
una libertà che non era la loro, sempre c’era quel colore della pelle, quel nero
che impediva loro di farsi ascoltare per se stessi (G. Finazzo, 1978). In Europa
si condannava sdegnatamente il razzismo tedesco, si diceva di star lottando per
la libertà del mondo. Ma finita la guerra, dopo gli elogi ufficiali, gli excombattenti si sono ritrovati, nel ritorno in Africa, ad affrontare delle situazioni
non meno umilianti di quelle imposte dai nazisti tedeschi agli ebrei.
I politici africani più intransigenti vennero arrestati ed espulsi e dopo
pochi anni ancora una volta l’Africa dava i suoi figli quali combattenti per la
Francia per lontane guerre in terre asiatiche (Indocina). Già si erano formate
delle élites africane e queste, conscie dell’importanza di una resistenza al
colonialismo, indissero una riunione a Bamako nel 1946. Si dette vita così al
primo grande partito africano, il Ressemblement Démocratique Africain (cfr. J.
Ki-Zerbo, 1977).
Houphouet Boigny, abile politico e futuro capo di stato (Costa d’Avorio)
si batté contro la tendenza autonomista. A capo della tendenza moderata, seppe
imporsi su tutti, soprattutto grazie alla sua valutazione realistica della
condizione africana nella sua globalità. Ma dal Congresso di Bamako, una
tappa fondamentale per la storia della nuova Africa, nacque la determinazione
di fondare un fronte unico di combattimento: l’unità ideale culturale delle genti
africane si tramutava ora in unità di volontà unica rivoluzionaria.
Come abbiamo visto, il V Congresso Panafricano (Manchester, 1945)
assunse una fisionomia più dinamica rispetto ai quattro precedenti Congressi.
Questo in virtù dei leaders del nascente nazionalismo africano che vi
parteciparono: non più i portavoce delle élites intellettuali e della borghesia, ma
i rappresentanti dei movimenti politici, delle organizzazioni sindacali, dei
settori rurali, degli ambienti studenteschi e delle categorie meno privilegiate
55
delle popolazioni di colore. “Per la prima volta” – scriverà Nkrumah – fu posto
l’accento sulla necessità di ben organizzati e saldamente uniti movimenti quale
condizione primaria del successo nella lotta di liberazione nazionale”30.
Nella Dichiarazione ai Popoli Coloniali l’impostazione e la fermezza di
Nkrumah, che ne è stato il redattore, sono più che evidenti: “Noi affermiamo il
diritto di tutti i popoli coloniali di essere arbitri del loro destino. Tutte le
colonie debbono essere libere dal controllo imperialista straniero, sia politico
che economico. Le popolazioni delle colonie debbono avere il diritto di
eleggere i propri Governi, senza restrizioni da parte delle potenze straniere. Noi
diciamo alle popolazioni delle colonie che debbono combattere per questi fini
con tutti i mezzi a loro disposizione. Lo scopo delle potenze imperialiste è lo
sfruttamento. Concedendo ai popoli coloniali il diritto di autogovernarsi tale
scopo è frustrato. Pertanto, la lotta per il potere politico da parte dei popoli
coloniali e assoggettati è il primo passo e il presupposto necessario per la
completa emancipazione sociale, economica e politica. Il V Congresso
Panafricano invita perciò i lavoratori e gli agricoltori delle colonie a
organizzarsi efficientemente. [...] Oggi v’è una sola strada per un’azione
efficace: l’organizzazione delle masse. E in quella organizzazione le persone
evolute delle colonie debbono convergere. Popoli coloniali e assoggettati del
mondo, Unitevi!”31.
Quando nell’aprile del 1958 Nkrumah riunirà la prima Conferenza dei
Capi di Stato dell’Africa indipendente e quando nel dicembre dello stesso anno
realizzerà il primo Congresso Panafricano nella homeland africana, Accra sarà
riguardata veramente come il polo di attrazione e la massima fonte di speranze
per gran parte del continente. Nkrumah appare insieme l’immagine della
saggezza e l’antidoto ad ogni e qualsiasi debolezza: egli ha una fede cieca
30
K. Nkrumah, Africa Must Unite, Londra, Heinemann, 1963, p. 134
31
K. Nkrumah, Declaration to the Colonial Peoples, in C. Legum, op.cit., p.149
56
nell’Africa e ha la sensazione precisa che nessuna forza è in grado ormai di
resistere a quest’Africa ridestatasi dal letargo dei secoli (cfr. T. Filesi, 1966).
“Allorché – scriveva – io porsi il benvenuto, il 15 aprile 1958, ai rappresentanti
convenuti alla Conferenza, sentii che finalmente il Panafricanismo muoveva
verso il continente africano, al quale veramente apparteneva. Questa era
un’occasione storica. Africani liberi si ritrovavano effettivamente insieme, in
Africa, per esaminare e considerare i problemi africani. [...] La personalità
africana si stava facendo conoscere. E poiché molti dei discorsi pronunciati alla
Conferenza si assomigliavano nel contenuto, fu affermato in qualche ambiente
che c’era stata una preventiva intesa. Sono in grado di asserire categoricamente
che quanti di noi parlarono avevano preparato i loro discorsi l’uno all’insaputa
dell’altro. Se essi mostrarono una identità di pensiero e di fede, ciò fu perché i
nostri atteggiamenti nei confronti dell’Africa stavano assumendo una identità
di vedute e di propositi”32.
Sékou Touré e Kwame Nkrumah decisero, il 23 novembre del 1958, di
unire la Guinea e il Ghana per creare il primo nucleo embrionale e l’elemento
generatore della più ampia piattaforma degli Stati Uniti d’Africa. Nonostante
un articolo della Costituzione Guineana stipulasse che “la Repubblica della
Guinea può concludere con tutti gli Stati africani degli accordi di associazione
o di comunità comprendenti l’abbandono parziale o totale della sovranità in
vista della realizzazione dell’unità africana”, pochi dei costituenti avevano
veramente creduto alla messa in pratica di tale proposizione. Questo spiega le
reazioni sconcertate che si susseguirono alla cerimonia tenuta ad Accra che
diede luogo alla pubblicazione del comunicato che affermava: “Noi ci
ispiriamo all’esempio delle tredici colonie americane che finirono per dar
luogo agli Stati Uniti d’America; noi ci ispiriamo inoltre alla tendenza in atto
32
K. Nkrumah, Africa Must Unite, op. cit., p.136
57
presso i popoli dell’Europa, dell’Asia, del Medio-Oriente a organizzarsi in
modo razionale” (cit. in P. Decraene, 1959, p.64).
Nkrumah e Touré, ai quali nel dicembre del 1960 si sarebbe unito – in
seguito alla dissoluzione della federazione del Mali – il Presidente della nuova
repubblica del Mali, Modibo Keita, si troveranno ad assumere una linea
politica apertamente critica nei confronti dell’Occidente.
Nel 1958, Nkrumah dichiarava che “il comunismo è una realtà; volerlo
ignorare non significherebbe cancellare tale realtà, e volerlo distruggere
sarebbe un’utopia. Come certi ordigni pericolosi esso può tuttavia essere
utilizzato anche positivamente; l’essenziale è non restarne intossicati” (cit. in
T. Filesi, 1966, p.42). Ad un dato momento, però, l’ago della sua bussola si
sposterà verso Est. Egli sarà oggetto di particolari lusinghe e di espansive
manifestazioni di solidarietà durante il suo soggiorno a Mosca e a Pechino. I
risultati non avrebbero tardato a mostrarsi. L’influenza britannica aveva ceduto
ormai il passo a quella russa: l’ambasciatore del governo di Mosca ebbe da
quel momento in poi la precedenza sul rappresentante di Sua Maestà a
Flagstaff House.
Quando il 6 marzo 1957 la colonia della Costa d’Oro era diventata lo
stato indipendente del Ghana, l’economia e le risorse finanziarie del Paese
assicuravano al nascente governo africano solide e promettenti basi di lavoro.
Ma nel dicembre del 1965, sotto il profilo economico, il futuro del Ghana si
presentava ormai soverchiato da insostenibili ipoteche. Il socialismo
“coscienzista” di Nkrumah aveva perduto la prova sul piano interno, e
soprattutto aveva subito una vera spaccatura sul piano panafricano. L’unità
dell’Africa che si era realizzata, almeno sul piano formale, nell’Assise dei Capi
di Stato e di Governo dell’Africa del maggio 1963, non si identificava con
l’unità fervosamente patrocinata da Nkrumah. La Carta dell’Organizzazione
dell’Unità Africana, formulata in questa occasione e sottoscritta da 30 Paesi,
58
costituiva un punto di incontro su un minimo denominatore comune e un
motivo di intesa su taluni principi, tuttavia molto flessibili. Sulla stessa linea
antioccidentale di Nkrumah e Touré si erano ritrovati la Repubblica Araba
Unita di Nasser, il cui conflitto con le due grandi potenze coloniali occidentali
era stato ben più aspro e drammatico, il Fronte di Liberazione Nazionale
algerino, in lotta cruenta con la Francia per l’indipendenza del paese, e, per le
sue mire territoriali sulla Mauritania non condivise dall’opinione pubblica
africana, il regno del Marocco (cfr. Filesi, 1966).
L’allontanarsi di questo gruppo dall’Occidente comportava un quasi
automatico avvicinamento all’Est comunista e ai Paesi cosiddetti non allineati.
Da ciò nasceva, nel 1961 il Gruppo di Casablanca, l’Africa da molti
contraddistinta con l’etichetta di “rivoluzionaria” o “radicale”. Il che stava a
significare, in un certo senso, il fallimento dell’unità africana e l’eclissarsi
dell’astro luminoso di Nkrumah. Dov’era, infatti, il resto dell’Africa? Il
Senegal, il Madagascar, la Costa d’Avorio, e ancora la Liberia, l’Etiopia, la
Somalia, e tutta l’Africa che non era più l’Africa che Nkrumah aveva sognato
di collocare e di ordinare nel suo grande quadro panafricano, si era attestata ora
su posizioni più elastiche e prudenti. Quest’Africa, una volta indipendente,
aveva respinto ogni suggestione di intransigente anticolonialismo. Era l’Africa
“moderata” di fronte all’Africa “rivoluzionaria” di Casablanca (ibid.).
Secondo un’analisi di Philippe Decraene, gli ostacoli alla realizzazione
del progetto panafricano di Nkrumah furono molteplici e di varia natura. In
primo luogo, andrebbe considerato, secondo l’autore, il nazionalismo in seno
ad ogni singolo paese africano di nuova indipendenza. Se si fa eccezione della
Liberia, dell’Unione Sudafricana, e dell’Etiopia, gli stati africani indipendenti
agli inizi degli anni Sessanta erano di formazione molto recente. Erano quindi
gelosi della loro sovranità e non avevano intenzione di delegarne la minima
parte ad alcuno. Interrogato sulla mancata partecipazione del suo paese al
59
progetto dell’unificazione africana concepito dal leader ghanese, Abubakar
Tafewa Balewa, Primo Ministro federale della Nigeria, rispose nel dicembre
del 1960: “Noi siamo grandi, loro sono piccoli. La nostra presenza indurrebbe
in loro un senso di inferiorità...” (cit. in P. Decraene, 1964, p.90). I giovani
Stati africani intendevano più estendersi che fondersi. Ne erano la
dimostrazione le soventi manifestazioni di nazionalismo che spesso
prendevano forme estremamente violente.
In più, grande influenza ebbero i particolarismi tribali. Nessuno Stato
africano aveva una reale omogeneità etnica, i particolarismi tribali si
manifestavano con una forza più o meno estesa, su tutto il continente nero.
Questo si traduceva in lotte intestine per il potere. Inoltre, i leader tradizionali,
culturali e religiosi, nonostante le nuove istituzioni risultanti dal suffragio
universale,
conservavano,
all’interno
di
certi
territori,
un’influenza
preponderante, contribuendo al processo di balcanizzazione dell’Africa. La
competizione per la leadership, fortemente impregnata di questioni di carattere
personale, giocò anch’essa a sfavore di un’unità armoniosa tra i nuovi Stati
africani. Decraene porta l’esempio della rivalità intercorrente tra Senghor e
Keita per quanto riguarda l’Africa occidentale francofona, e tra Nkrumah e
Azikiwé per quella anglofona. Fra gli altri ostacoli troviamo poi quello
linguistico, la pressione a opera delle minoranze bianche esautorate del loro
antico potere, le insormontabili differenze tra Stati ricchi e Stati poveri e la
conseguente concorrenza economica tra di essi (cfr. P. Decraene, 1964).
All’interno della stessa formulazione dell’idea di un unità panafricana,
risulta difficile isolare gli elementi prettamente “afrocentrici” del progetto, data
la notevole influenza che le idee socialiste (di origine europea) ebbero sui
costituenti. Non si può certo prescindere dagli elementi politici nel ricostruire
in modo esauriente il pensiero e le opere dei promotori degli Stati Uniti
d’Africa, ma ciò che in questo lavoro interessa prendere in esame è piuttosto il
60
carattere intercontinentale e diasporico che caratterizzò il “risveglio” delle
popolazioni di colore. Gli elementi più avanzati del movimento del Black
Power, di cui parleremo estesamente nei prossimi capitoli, si resero conto delle
implicazioni internazionali nella lotta per la liberazione nera. Diventava sempre
più chiaro che la lotta non poteva essere ristretta nei confini della vita
nazionale. La lotta degli afroamericani era collegata in modo inestricabile alla
lotte mondiali dei popoli oppressi contro sistemi politici ed economici
decadenti. Da Malcolm X a Martin Luther King, dagli esponenti del Black
Power più intransigenti a qualcuno dei sostenitori dell’integrazione, gran parte
di coloro che si facevano portavoce della protesta per l’emancipazione dei neri
d’America identificava il Potere Bianco euro-americano come un nemico
comune a tutti i popoli che si trovavano in condizioni di povertà (cfr. B.
Cartosio, 1955).
I viaggi verso i paesi che in quel momento si trovavano a lottare contro
l’imperialismo statunitense, come Cuba e il Vietnam, divennero prassi
frequente tra gli attivisti del Black Power. Ancor più frequenti furono i viaggi
verso l’Africa, che da sempre aveva rappresentato per gli “africani della
diaspora” l’origine della propria identità, una sorta di “Terra Madre”, come
venne definita qualche decennio prima da W.E.B. Du Bois (cfr. Du Bois,
1997).
I tentativi di collocare la lotta su un piano internazionale trovavano le
loro radici negli scritti di pensatori del diciannovesimo secolo come Martin R.
Delany, e del ventesimo come Garvey, Du Bois e Malcolm X, che esaminarono
più a fondo le relazioni tra la lotta degli afroamericani e la la situazione
internazionale. Durante gli anni Venti, Garvey usò lo slogan di Delany
“l’Africa agli africani” come parole d’ordine per la United Negro Improvement
Association. Du Bois scrisse in The Souls of the Black Folk: “il problema del
ventesimo secolo è il problema della barriere di colore, delle relazioni tra le
61
razze scure e le razze chiare di uomini in Asia e in Africa, nelle Americhe e
nelle isole dei mari”33. Malcolm X, riferendosi sia a Garvey che a Du Bois,
spinse costantemente il movimento ad internazionalizzarsi.
Le tendenze internazionaliste di gruppi di protesta come lo SNCC e il
CORE fanno quindi parte di quel processo storico che iniziò con Garvey e la
NAACP. Fu Garvey uno dei primi a formulare una minaccia concreta agli
interessi coloniali europei in Africa. E fu la NAACP, sotto la direzione di Du
Bois, che stabilì un panafricanismo vitale, che influenzò durevolmente i capi
nazionalisti come Kwame Nkrumah e Jomo Kenyatta. Alla fine degli anni
Cinquanta, la NAACP dichiarava di appoggiare guerre di liberazione
nazionale: “Noi stendiamo le mani di là dai mari al nuovo Stato indipendente
dell’India. Acclamiamo gli indonesiani nella loro lotta per la libertà. Siamo
tutt’uno con gli africani nel loro sforzo di liberarsi dal giogo del colonialismo.
Offriamo loro ogni assistenza entro le nostre possibilità. Il problema della razza
è più importante di quei pochi uomini schiavi dei loro pregiudizi che
influenzano il Congresso degli Stati Uniti. E’ più grande di alcuni stati del
profondo Sud. E’ un problema che ha assunto proporzioni mondiali e il negro
americano è pronto a occupare il proprio posto in questa lotta ormai estesa a
tutto il mondo”34.
Mentre l’obiettivo più importante del NAACP negli anni Sessanta, era
diretto ad assimilare i neri nelle strutture socio-economiche statunitensi, i
militanti del Potere Nero promuovevano un separatismo dalla società bianca
americana che giudicavano razzista a livello istituzionale.
33
W.E.B. Du Bois, The Souls of the Black Folk, New York, Barnes and Noble Classics, 2003,
(I ed. 1903), p.9.
34
Dichiarazione redatta da Roy Wilkins per il Quarantesimo Congresso Annuale della
NAACP del 12 luglio 1949. In Floyd B. Barbour, a cura di, Il black Power in Azione, Milano,
Sugar Editore, 1969, p.184.
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CAPITOLO 3
NERI D’AMERICA
La Seconda Guerra Mondiale segnò un punto di svolta nella presa di
coscienza del potenziale politico delle popolazioni oppresse che sotto la
bandiera dei propri oppressori vi avevano partecipato. Nelle prossime pagine,
ci occuperemo del risveglio culturale e politico di coloro che si possono
definire gli “africani della diaspora”. Analizzeremo ora il fermento politico e
culturale della popolazione di colore in atto negli Stati Uniti nell’immediato
dopoguerra.
Se in precedenza i neri si erano preoccupati principalmente di non
provocare i bianchi perché ne conoscevano e temevano le conseguenze, dopo
l’entrata
dell’America nella Seconda
Guerra
Mondiale
essi persero
progressivamente la loro paura dell’uomo bianco e trovarono una via d’uscita
alla rabbia accumulata ormai da tempi immemorabili. La Guerra, combattuta in
nome delle “quattro libertà”, in realtà si svolse conservando la segregazione
anche all’interno degli apparati militari. Migliaia di ribellioni spontanee ed
individuali avvennero in seno all’esercito senza che nessuno sapesse mai nulla,
eccetto forse gli esperti di statistica del ministero della Guerra, che rimasero
sorpresi nel notare il numero eccezionalmente elevato di caduti tra gli ufficiali
bianchi che avevano il compito di condurre i soldati neri in battaglia. Ma ciò
63
che è importante, a parte gli atti di sfida, è che la guerra mutò completamente il
rapporto tra bianchi e neri.
Nel 1945 un milione di neri portava la divisa militare. Era ormai poco
probabile che uomini che erano stati decorati per “coraggio e ingegnosità
eccezionali” conservassero la stessa paura per l’autorità bianca che avevano
avuto i loro padri. Ciò che i neri scoprirono durante la guerra fu la loro forza di
intimidazione, non con la violenza, ma con la loro sola presenza. Così i neri,
sia i civili che i militari, persero la loro paura di parlare e di agire (cfr. C.
Silberman, 1965).
Gli anni Cinquanta furono caratterizzati dall’azione non-violenta di
movimenti di ispirazione cristiana, che premevano per accedere a un benessere
negato a causa di un razzismo ancora fortemente radicato nella società. Il
mancato riconoscimento dei diritti più elementari, nonostante lunghi anni di
lotte pacifiche, tenutesi nelle piazze e all’interno dei tribunali, determinò la
radicalizzazione di alcuni movimenti di protesta, che gradualmente si
arroccarono verso posizioni separatiste. Uno di questi fu il movimento del
Black Power, capeggiato da un giovane studente nero, Stokely Carmichael.
Dopo aver frequentato per un breve periodo gli ambienti filo-comunisti della
Howard University, Carmichael capì di voler portare avanti la lotta per
l’emancipazione della gente di colore seguendo un’ideologia, e soprattutto una
retorica, che prescindesse da dottrine politiche di stampo europeo. La questione
del colore e dell’oppressione razziale andava affrontata seguendo le orme dei
grandi intellettuali e leaders carismatici di pelle nera che lo avevano preceduto.
Sarà questo però argomento del prossimo capitolo.
In questo, cercheremo di delineare invece un breve quadro storico e
sociale delle condizioni di vita della popolazione afro-americana. Ci
soffermeremo inoltre sull’azione di gruppi di protesta che proclamavano la
non-violenza e cercavano l’integrazione. Ciò al fine di sottolineare la
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persistente presenza dell’aporia integrazione/separatismo che Du Bois definì
con l’espressione di “doppia coscienza”.
3.1. I neri nelle città del Secondo Dopoguerra statunitense
La mobilitazione prebellica, in atto alla fine degli anni Trenta, aveva
tirato fuori gli Stati Uniti dalla Grande Depressione. La guerra, poi, fino alla
fine del ’41, era stata occasione per un’ulteriore espansione economica. Infine,
il 7 dicembre di quell’anno, era venuta l’aggressione giapponese di Pearl
Harbor e quindi l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Quell’espansione
produttiva, insieme con il decentramento industriale e con la chiamata sotto le
armi di milioni di giovani, in prevalenza maschi bianchi, aveva creato una
domanda pressante e diffusa di manodopera. Alcuni milioni di migranti,
bianchi e neri, uomini e donne, si riversarono nelle città, verso le industrie,
dalle campagne e dalle aree depresse. L’assunzione dei bianchi avvenne senza
traumi, se non per chi entrava per la prima volta in una fabbrica dopo una vita
passata nei campi. Non fu così per la gente nera. Le aziende e una parte
consistente dei movimenti sindacali non volevano operai neri. Mentre la
disoccupazione bianca diminuiva vistosamente, aumentava quella nera (cfr. W.
Logan, 1962).
Nella loro corsa verso l’occupazione industriale, i neri confluirono nella
torrenziale corrente di poveri che si rovesciò nelle città statunitensi. Le città
non avevano alloggi per questi milioni di nuovi arrivati. La depressione
economica aveva bloccato l’edilizia residenziale per quasi un decennio e, ora,
la guerra convogliava in altre direzioni gli investimenti sia pubblici, sia privati.
Nelle città maggiori, gran parte della nuova popolazione veniva assorbita dai
vecchi quartieri e dagli esistenti ghetti etnici o razziali.
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Il problema delle abitazioni si accompagnava a una crescente tensione
sociale tra i residenti e i nuovi arrivati. La massiccia migrazione di neri verso i
centri urbani durante la Seconda Guerra Mondiale, fornì la scintilla per nuove
tensioni, soprattutto perché essi appartenevano a una minoranza etnica
disprezzata dall’esistente maggioranza e vista da essa come una minaccia (cfr.
J. Teaford, 1986).
Comunque sia, anche i neri, come tutti i precedenti gruppi di emigranti,
si stabilirono nel tradizionale “porto d’arrivo”, ossia il quartiere più vecchio e
meno desiderabile della città, generalmente dentro o intorno al centro
industriale. E’ là che di solito si trovavano le case ad affitto più basso, ed era
anche l’unico posto dove i nuovi arrivati potevano abitare, dato che il
pregiudizio nei loro confronti e la paga li tenevano lontani da quartieri più
decenti. Inoltre, come nel caso di tutti gli emigranti europei, i nuovi residenti
neri figuravano in modo sproporzionato sui registri della polizia, della cassa
mutua, dei disoccupati, degli alloggi trascurati, dei morfinomani, ecc. (ibid.).
In ogni città, sia i cittadini bianchi che le autorità municipali erano
preoccupati per il deterioramento fisico dei quartieri abitati dai neri, per il
continuo aumento della criminalità e della delinquenza minorile nei “ghetti”,
per il peso dell’assistenza sociale, per lo sforzo economico di costruire scuole
ad un ritmo tale da permettere di tenere il passo con l’aumento rapidissimo
delle iscrizioni. D’altro canto, in ogni città, i residenti di colore provavano un
profondo risentimento per il prezzo elevato che dovevano pagare per abitazioni
malandate e vergognosamente trascurate in quartieri segregati; per la
discriminazione praticata da industrie e da sindacati, che li escludeva da lavori
specializzati e dagli impieghi; per l’affollamento eccessivo e per la mancanza
di serietà delle scuole frequentate dai loro figli; per le mortificazioni, le offese e
le umiliazioni – grandi e piccole, vere e immaginarie – che costituivano la loro
vita di ogni giorno; e per l’indifferenza generale della loro condizione. Nel
66
Secondo Dopoguerra non vi era, insomma, una grande città che non avesse un
grave e potenzialmente esplosivo “problema negro” (C. Silberman, 1965).
Il luogo di provenienza degli emigranti di colore erano le zone rurali
degli Stati del Sud. Nel Sud, la meccanizzazione dell’agricoltura aveva
“cacciato” dai campi milioni di bianchi e di neri, anche nei periodi in cui le
possibilità di lavoro nelle città erano scarse. L’emigrazione afro-americana
verso le città ebbe realmente inizio intorno alla fine del 19° secolo, quando il
modo di trattare i neri “alla Jim Crow”35 incominciò a diffondersi nel Sud e i
bianchi presero provvedimenti energici e brutali per ricacciare i neri al posto
che occupavano prima della Ricostruzione. Contrariamente alla convinzione
generale che l’atteggiamento della gente del sud latifondista e schiavista fosse
intrasformabile, i primi venticinque anni successivi alla Guerra Civile (186165) videro un considerevole rilassamento delle barriere di razza, sebbene il
razzismo fosse naturalmente ancora diffuso in tutto il suo orrore. A partire dal
1890 circa, le forze che avevano tenuto sotto controllo il razzismo e il
fanatismo meridionale si indebolirono e si screditarono rapidamente. Nel Nord,
il desiderio di riconciliare le varie tendenze di partito indusse i liberali ad
abbandonare il loro interesse per i neri, che erano appunto il simbolo di tale
conflitto.36
Nel Sud, il primo e fondamentale passo fu l’annullamento totale dei
diritti civili ed elettorali della popolazione afro-americana, annullamento che
35
Jim Crow era un personaggio caricaturiale creato da Daddy Rice negli anni Trenta del 19°
secolo. Dalla seconda metà del 19° secolo, il personaggio di Jim Crow diventa, nella cultura
popolare statunitense, l’immagine stereotipata dell’inferiorità razziale dei neri.
36
Ci si riferisce a uno dei provvedimenti presi da Abrahm Lincoln contro gli Stati
secessionisti durante la guerra civile, che aboliva la schiavitù solo negli Stati che si
opponevano al Governo Federale, colpendo una della maggiori risorse economiche degli Stati
del Sud. Cfr. “Proclama sull’Emancipazione”, in R. W. Logan, op.cit., 1962, Documento 1-A.
67
servì come garanzia che nessuna corrente bianca avrebbe mai perseguito il
potere accumulando voti neri contro un altro gruppo di bianchi. Questa
abrogazione dei diritti civili fu preceduta e accompagnata da un’intensa
campagna di odio razziale. Il risultato fu una selvaggia esplosione di violenza
razzista, mentre la rigida segregazione divenne rapidamente la regola. E’ in
questo periodo che iniziò la prima grande migrazione di cittadini di colore dalle
campagne del Sud verso i centri urbani del Nord. Nell’ultimo decennio del 19°
secolo, il numero di neri che avevano abbandonato la vecchia confederazione
meridionale salì a più di duecentomila, contro i sessantamila degli anni dal
1880 al 1890; e durante il primo decennio del ventesimo secolo si ebbe un
ulteriore aumento. Poi, la partecipazione degli Stati Uniti alla Prima Guerra
Mondiale favorì una nuova ondata migratoria di contadini verso le città, per la
stessa necessità di manodopera che, come abbiamo visto, si sarebbe verificata
anche durante il secondo conflitto (C. Silberman, 1965).
Le leggi segregazioniste ponevano i cittadini di colore in uno status che
era il più disagiato dell’intera società, e gli Stati del Nord rappresentavano per
la popolazione nera una sorta di “Terra Promessa”. Ma nonostante le grandi
ondate migratorie che si succedettero tra la fine del periodo della Ricostruzione
e la fine della Seconda Guerra Mondiale, negli anni Cinquanta del 20° secolo la
maggior parte della popolazione afro-americana risiedeva nei 13 Stati del Sud
degli Stati Uniti in cui le leggi segregazioniste erano ancora vigenti.37 Qui, le
discriminazioni razziali venivano praticate in vari settori, quali quello del
lavoro, delle forze armate, dei matrimoni. La segregazione, inoltre, scindeva in
due tutto il settore dei servizi (trasporti, ristoranti, scuole, ospedali ecc.). Lo
37
Alabama, Arkansas, Florida, Georgia, Louisiana, Maryland, Mississippi, Carolina del nord,
Carolina del sud, Oklahoma, Tennessee, Texas, Virginia. Cfr. i dati in: Dando Dandi, “I negri
negli stati del Sud”, in Il Colore della Pelle, Torino, Centro Studi Sociali Torino, 1964
68
stesso diritto al voto e all'esercizio dei diritti civili e politici degli afroamericani
era ancora fortemente contrastato dai governi e dalle amministrazioni locali38.
La pratica politica che consisteva nella restrizione dei diritti civili su
base razziale, venne istituita per legge nei vari Stati del Sud grazie all’adozione
del principio della separazione in condizioni di eguaglianza, che ammetteva la
segregazione razziale in vari settori della vita civile, politica e pubblica, purché
fosse garantita la pari qualità delle istituzioni e dei servizi. Il principio del
“separate but equal” venne formulato per la prima volta in un regolamento
della Louisiana, approvato nel 1890, e successivamente riconosciuto non in
contrasto col XIV Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti dalla
Corte Suprema nel 1896, nella causa “Plessy contro Ferguson”39.
La pratica della segregazione su base razziale si consolidò nei decenni a
seguire, accompagnata sì da episodi di violenza e da tentativi isolati di minare
lo status quo a livello istituzionale, ma senza una vera e propria azione di
protesta di massa da parte della comunità afro-americana.
Alcuni dei più importanti passi verso l’integrazione vennero finalmente
compiuti negli anni Cinquanta all’interno dei Tribunali. Sempre più di
frequente, minori di “razza” nera, attraverso i loro rappresentanti legali, si
rivolsero alle Corti Distrettuali per essere ammessi nelle scuole pubbliche delle
rispettive comunità, su una base non segregata. Le Corti Distrettuali, tuttavia,
respingevano le ragioni dei ricorrenti in base al principio “separati ma eguali”.
Ma in alcuni casi, il ricorso alla Corte Suprema segnò un punto di svolta
favorevole alla causa dell’integrazione. La decisione emanata dalla Corte
38
Cfr. AA. VV., “Giorni di Storia”, n. 21, 2004
39
“Plessy contro Ferguson”, in Rayford W. Logan, op. cit., 1962, Documento 9-A, p.169
69
Suprema il 17 maggio 1954 nel caso “Brown contro il Consiglio dell’Istruzione
di Topeka, Kansas” ne rappresenta una prova40.
Alla base di tale sentenza, emessa all’unanimità dai nove membri della
Corte, era il riconoscimento che le strutture educative separate fossero di per sé
diseguali. Era la prima volta che un aspetto così importante del
segregazionismo razziale, legge assoluta nel Sud, veniva dichiarato illegale. In
particolare, la norma cancellava il principio del “separati ma uguali”, che era
stata fissata nel 1896 nella sentenza storica “Plessy contro Ferguson”, e che era
stata impiegata per sconfiggere Brown ai livelli giudiziari inferiori. Grazie
all’appoggio e alla consulenza legale del NAACP, e nonostante le ripetute
sconfitte, Brown aveva sempre fatto appello alle istanze superiori, fino a
portare la sua causa davanti alla Corte Suprema. Nonostante ciò, molti degli
Stati del Sud perseverano nella pratica della segregazione razziale. Sembrava
che il sistema avesse comunque il sopravvento.
3.2. Martin Luther King e la lotta nonviolenta
Un altro settore su cui la Corte Suprema intervenne fu quello relativo ai
trasporti. Grazie all’attivismo di un sempre crescente numero di dimostranti, la
segregazione dei mezzi pubblici iniziò ad essere giudicata anti-cosituzionale. Il
primo evento significativo a tale riguardo ebbe luogo il 1 dicembre 1955, su un
autobus extra-urbano. Accadde che la signora Rosa Parks di Montgomery,
Alabama, si rifiutò di cedere il posto da lei occupato ad un uomo bianco. Rosa
40
“Brown contro Consiglio dell’Istruzione”, in Rayford W. Logan, op. cit., 1962, Documento
22-A, p.221
70
Parks venne arrestata e accusata di aver violato una delle ordinanze sulla
segregazione della città.
In risposta a tale evento, un allora sconosciuto Martin Luther King
organizzò un boicottaggio pacifico delle autolinee di Montgomery, per
protestare contro la segregazione razziale. La comunità di colore di
Montgomery non avrebbe più preso gli autobus per spostarsi verso i posti di
lavoro. La protesta si protrasse per ben 381 giorni. M.L.King venne arrestato in
quell’occasione insieme ad altre 90 persone di colore con l’accusa di aver
intralciato un servizio pubblico. King ricorse in appello e vinse. Il 4 giugno
1956, una Corte Distrettuale degli Stati Uniti d’America emanò la sentenza che
la segregazione razziale sugli autobus di linea urbana era anticostituzionale41.
La resistenza pacifica del reverendo King e della comunità di
Montgomery non solo aveva causato l’emanazione di quella sentenza, ma
aveva anche dimostrato che il boicottaggio era un valido ed efficace strumento
di lotta. Per coordinare l’azione, fu costituita la Montgomery Improvement
Association (MIA), capeggiata dallo stesso Martin Luther King jr., allora
reverendo nella città di Montgomery. Principale esponente della dottrina della
non-violenza, King arriva di colpo alla ribalta della fama internazionale come
capo della Montgomery Improvement Association. Cosciente della sua
influenza sulla collettività, capì che se si voleva non sciupare quanto fatto fino
a quel momento e non limitare la sua voce a una sola località, era necessario
creare un organismo che abbracciasse tutto il Sud.
Fu così che, nel 1957, venne fondata la Southern Christian Leadership
Conference (SCLC). Le basi della nuova organizzazione erano costituite da
associazioni locali, quali ad esempio la Alabama Christian Movement for
Human Rights e da gruppi che avevano condotto il boicottaggio degli autobus
41
Cfr. “Giorni di Storia”, op. cit.
71
in città come Baton Rouge, in Lousiana, e Tallahassee, in Florida (cfr. J. Grant,
1968).
L’azione della SCLC e le sue vittorie nella lotta per l’abolizione della
segregazione razziale portarono grande popolarità e visibilità alla condizione
degli afro-americani. Grazie al carisma del leader del movimento, centinaia di
migliaia di “confratelli” si mobilitarono nella protesta, mentre il suo modello di
lotta non violento riuscì a conquistare l’appoggio di personaggi di rilievo a
livello istituzionale.
Ispirato all’esempio del satyagraha di Ghandi42, il reverendo King
proponeva di opporsi ai propri “fratelli bianchi” non con l’intimidazione, ma
con i principi più profondi della propria fede cristiana (J. Grant, op. cit., p.232).
Un’altra caratteristica della lotta non-violenta è che si propone non di
sconfiggere o umiliare l’avversario, ma di conquistarne l’amicizia e la
comprensione. “L’attacco è diretto contro le forze del male più che contro
coloro che fanno il male. […] Un [altro] punto che caratterizza la resistenza
non-violenta è la determinazione ad accettare la sofferenza senza ritorsioni, a
subire i colpi dell’avversario senza restituirli. […] Essa evita non soltanto la
violenza fisica esteriore ma anche la violenza interiore dello spirito […] Al
cuore della non-violenza c’è il principio dell’amore”.43
La dottrina della non-violenza ebbe numerosissimi sostenitori. Tutti i
più importanti movimenti per i diritti civili sorti tra la fine degli anni Cinquanta
e i primi anni Sessanta vi si ispiravano. Le manifestazioni di protesta pacifiche
andarono sempre aumentando, ottenendo successi relativamente importanti. Ma
42
Il Satyagraha, inaugurato da Ghandi nel 1919 in India, è il principio della “resistenza attiva
non-violenta” o della “non-cooperazione”, e ha un fondamento religioso oltreché sociale e
politico. Cfr. Vittorio Lanternari, Movimenti Religiosi di Libertà e Salvezza, Roma. Editori
Riuniti, 2003
43
Martin Luther King, in J. Grant, op. cit., p.233
72
l’applicazione pratica ed etica della non-violenza, che dette l’impulso alle
dimostrazioni dirette, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, ebbe sempre il
contrappunto della violenza. In tutte le dimostrazioni di massa del 1963,
quando le marce e gli arresti raggiunsero il culmine, se i dimostranti furono
non-violenti non si può dire altrettanto della polizia. La violenza che i neri si
trovavano a dover affrontare dipese talvolta, indirettamente, dall’inattività delle
autorità. Il 20 maggio del 1961, una folla di uomini e donne aggredì, senza che
la polizia intervenisse, un gruppo di giornalisti e di diciannove studenti, neri e
bianchi, scesi al terminal dei pullman Greyhound, a Montgomery (Alabama).
Si trattava di un autobus di Freedom Riders.44 L’azione dei Freedom Riders
consisteva nel viaggiare in autobus interrazziali attraverso gli Stati del Sud, con
l’intento di verificare la de-segregazione del servizio interstatale. A
Greyhound, pur essendo stata avvertita dell’arrivo dell’autobus de-segregato
già al terminal di Birmingham, la polizia non si fece vedere e la folla bianca
ebbe tutto il tempo di sfogare il suo furore (J. Grant, op. cit., 1968).
Già nella prima metà degli anni Sessanta, la dottrina della non-violenza
inizia a perdere proseliti. All’interno di gruppi di protesta di orientamento
pacifista, alcune voci dissidenti abbracciano sempre più il principio
dell’autodifesa. Esasperati dai continui attacchi violenti in occasione di
manifestazioni di protesta pacifiche, un certo numero di attivisti arriva alla
conclusione che sia giunto il momento di agire.
In Negroes with Guns, Robert F. Williams sostiene che l’uso delle armi
per legittima difesa sia l’unico modo per combattere l’ingiusto criterio di
applicazione della legge nel Sud. Williams scrive da Cuba, dove si rifugia dal
44
Il primo Freedom Ride fu organizzato da James Farmer, direttore nazionale del Congress
of Racial Equality (CORE), nel 1960, in occasione del processo Boynton contro lo Stato della
Virginia.
73
1962 dopo l’accusa formale del rapimento di una coppia di bianchi durante i
disordini razziali scoppiati nel 1961 a Monroe, nella Carolina del Nord. “E’
sempre stato un diritto comunemente riconosciuto in America, e lo dimostra la
storia del nostro West, che dove la legge non può, o non vuole, instaurare
l’ordine, i cittadini possono, e devono, agire per difendersi dalla violenza
criminale.45 Credo che questo diritto valga per gli americani di colore come per
i bianchi.” (R. F. Williams, 1962, VII cap.)
Una conseguenza delle ripetute violenze subite da parte della
popolazione afro-americana, fu quella del sorgere di organizzazioni che
adottavano come principio di base quello dell’autodifesa armata nei confronti
delle aggressioni razziste e delle brutalità perpetrate dalla polizia. E’ il caso del
Black Panthers Party, formatosi nell’ottobre del 1966 a Oakland, in California,
a opera di Bobby Seale e Huey Newton. Le Pantere riuscirono da subito a
catturare l’interesse dei media grazie a due strategie combinate. Da un lato, essi
usavano una retorica di tipo militare, che attirava sia l’attenzione delle masse
nere, sia la preoccupazione della classe media bianca; dall’altro, condannavano
apertamente l’uso ingiustificato delle armi da parte della polizia, riuscendo
talvolta a documentare, con immagini e filmati, il comportamento
arbitrariamente violento delle forze dell’ordine di Oakland nei confronti della
comunità afro-americana.
La formulazione del programma dei Black Panthers derivava
dall’ideologia nazionalista alla base dell’organizzazione, secondo cui la
comunità Afro-Americana sarebbe stata una colonia all’interno di un Paese di
45
L’autore si riferisce al II Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, che
afferma: “Essendo necessaria, per la sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben
organizzata, non sarà violato il diritto del popolo di tenere e portare armi.”
74
bianchi. Le Pantere Nere avrebbero assunto il compito di liberare tale colonia
creando delle istituzioni indipendenti46.
Il Black Panthers Party nasce e si sviluppa in un contesto di tipo urbano.
E’ nei ghetti e nelle periferie metropolitane che il Partito trova consenso e
riempie le sue fila, attirando la partecipazione di uomini stremati dalla povertà
e dai soprusi. E’ un movimento che preferisce l’azione diretta alle parole,
cercando redenzione attraverso il contrattacco armato nei fatti e fanoniane
teorie di liberazione nell’animo. L’organizzazione si espande velocemente su
tutto il territorio nazionale, mantenendo un rapporto spesso ambiguo con le
altre associazioni che nello stesso periodo lottano per la stessa causa.
La mancata protezione da parte della polizia nelle zone rurali del Sud,
portò alcuni componenti dei movimenti per i diritti civili a prendere
attivamente le difese della propria gente. In molti centri degli Stati del Sud,
vennero organizzate delle “guardie di protezione”. L’attività di questa sorta di
polizia indipendente, consisteva nel sorvegliare le case e i quartieri della
popolazione di colore, continuamente bersagliati dalle incursioni cruente del
Ku Kux Klan e dei “cavalieri della notte”47.
L’organizzazione
dei
Deacons
for
Defence
and
Justice
fu
un’organizzazione che si impegnava a difendere la giustizia negata alla gente di
colore, usando come primo e possiamo dire unico mezzo quello della lotta
armata. Tuttavia, il possesso delle armi aveva, secondo lo Statuto
dell’organizzazione, uno scopo esclusivamente difensivo ed intimidatorio verso
i razzisti bianchi. I Deacons non negarono mai l’efficacia della lotta nonviolenta dei movimenti per i diritti civili. Questa veniva anzi considerata
46
Cfr. “Guardian”, 24 Agosto 1968, p. 6
47
Erano così chiamati, nel Sud degli Stati Uniti, gli uomini mascherati che partecipavano alle
spedizioni punitive notturne.
75
l’unico metodo giusto per ottenere risultati politici ed economici, ma dietro la
non-violenza si riteneva necessario che ci fossero organizzazioni come la loro,
che proteggessero i diritti dei movimenti non-violenti e l’incolumità fisica della
popolazione. Le autorità locali cercarono ovviamente in varie occasioni di
bloccare l’azione del movimento, ma con scarsi risultati48.
In questo clima sempre più turbolento, le manifestazioni di protesta si
moltiplicarono, e con esse le esplosioni di violenza e gli arresti. Ciò portò al
progressivo cambiamento, all’interno degli stessi movimenti, di prospettive e di
strategie di lotta. In certi casi alcune correnti di movimenti tendenzialmente pacifici e
integrazionisti si scissero dall’organizzazione originaria per formarne altre di stampo
più radicale; in altri, alcune organizzazioni nate come “non-violente” cambiarono
progressivamente il loro orientamento verso dottrine più combattive. Gli avvenimenti
politici e sociali, nel corso degli anni Sessanta, determinarono un punto di svolta
nell’ideologia sottostante l’azione di alcuni dei più importanti movimenti per i diritti
della popolazione di colore Statunitense.
3.3. Separatismo e Integrazione
Pur nella consapevolezza dell’eterogeneità e della complessità dei
contesti storici e sociali in cui i diversi movimenti di protesta emersero,
possiamo tuttavia tentare di delineare un quadro generale riguardo agli obiettivi
e all’ideologia relativi ai vari gruppi di protesta attivi nel corso degli anni
Sessanta. Prenderemo quindi in considerazione alcune delle associazioni di
maggior rilievo, in quanto a dimensioni e impatto sulle masse, riassumendone
48
Cfr. Intervista con Charles R. Sims, fatta da William A. Price per il settimanale “National
Guardian” il 20 Agosto 1965 a Bogalusa, Louisiana. In James Grant, op. cit., 1968
76
brevemente i principi concettuali a cui si ispirano, nonché le attività in seno
alla lotta per l’emancipazione delle minoranze di colore49.
Nell’ambito dei movimenti di ispirazione integrazionista, abbiamo visto
come la Southern Christian Leadership Conference e il suo leader Martin
Luther King ebbero un ruolo di primo piano nella lotta contro la segregazione
razziale negli Stati del Sud. La SLCL fu fondata nel 1957 al fine di coordinare
negli Stati del Sud i movimenti di protesta locali che si ispiravano al principio
della non-violenza. I principali funzionari dell’organizzazione erano sacerdoti,
per la maggior parte appartenenti alla Chiesa Battista. L’organizzazione aveva
come obiettivo quello di ottenere la piena uguaglianza per i neri, attraverso
l’uso della lotta non-violenta, e la conquista delle simpatie e del supporto
dell’opinione pubblica. Il principio di base a cui si faceva riferimento, era
quello di ispirazione gandhiana della redenzione attraverso l’amore, principio
che avrebbe non solo migliorato la condizione disagiata della popolazione di
colore, ma sanato le ingiustizie dell’intera società americana.50
La prima manifestazione organizzata dalla SLCL, che ebbe luogo nel
1957, consisté in un pellegrinaggio di preghiera verso Washington, alla guida
del reverendo King. Più di venticinque mila persone aderirono all’iniziativa.
Successivamente, nel 1959, una seconda marcia su Washington contò circa
quaranta mila partecipanti. Nel 1960, il primo di una lunga serie di sit-in venne
organizzato a Greensboro, nel North Carolina. I numerosi sit-ins che da allora
vennero organizzati dalla SLCL, oltre che da altre organizzazioni che
49
Le informazioni che seguono hanno come fonte principale Charles D. Lowery, John F.
Marszalek, The Greenwood Encyclopedia of African American Civil Rights. From
Emancipation to the 21th Century, Greenwood Press, Westport (CT), 2003, fatta eccezione
per i riferimenti bibliografici a cui si rimanda nelle rispettive note.
50
“Giorni di Storia. N.21”, op. cit.
77
prenderemo in esame in seguito, avevano l’obiettivo primario di pubblicizzare
le ingiustizie della segregazione.
L’interessamento dei mass-media a tali avvenimenti ebbe effettivamente
un ruolo di prim’ordine nel portare all’attenzione della causa dei neri un
pubblico di livello internazionale. Attraverso la televisione e la stampa, milioni
di persone vennero a conoscenza dell’ingiustificata violenza di molti bianchi
del Sud nei confronti della popolazione di colore, nonché della privazione di
alcuni dei più fondamentali diritti civili, primo fra tutti il diritto di voto (B.
Cartosio, 1992).
Come accennato sopra, altri movimenti di protesta furono protagonisti
della lotta per i diritti civili.
Da una frangia giovanile della SCLC sorse nel 1960 la Student
Nonviolent Coordinating Committee (SNCC). L’organizzazione nacque
dall’esigenza di coordinare l’attività di protesta degli studenti universitari,
ormai diffusasi su tutto il territorio nazionale. I membri e volontari della SNCC
parteciparono ai Freedom Rides del 1961, oltreché a numerose altre
manifestazioni di protesta attraverso gli Stati del Sud. L’arrivo di James
Forman nell’organizzazione e la sua nomina a segretario esecutivo nel 1961,
portarono una maggior stabilità all’interno del movimento, oltre che una più
precisa strutturazione programmatica. Se prima ci si chiedeva se concentrare le
proprie energie su un tipo di azione diretta, o se invece porre maggiore enfasi
sulla iscrizione ai registri elettorali dei cittadini di colore negli Stati del Sud, da
quel momento si raggiunse il compromesso di dedicarsi a entrambi.
La SNCC guidò la campagna per le iscrizioni elettorali nel Mississippi e
in altri Stati del Sud, e contemporaneamente organizzò sit-ins nelle mense
segregate, wade-ins nelle spiagge segregate, pray-ins e kneel-ins nelle Chiese
segregate. Oltre settanta mila studenti, bianchi e neri, parteciparono alle
78
dimostrazioni, molti dei quali furono arrestati dalla polizia. In molti casi
l’azione portò i suoi frutti e molti dei luoghi pubblici teatro di protesta vennero
desegregati.
La National Association for Advancement of Colored People (NAACP)
fu un’altra organizzazione di grande rilievo nella lotta per i diritti civili. Nata
già nel 1909 per impulso di cinque bianchi antisegregazionisti, si prefiggeva
l’abolizione della segregazione razziale e l’ottenimento del suffragio universale
attraverso strumenti giuridici. Nel 1947 la NAACP presentò all’ONU un
documento di denuncia di violazione di diritti umani negli Stati Uniti nei
confronti della popolazione di colore. Negli anni Sessanta l’associazione era
ancora attiva, costituendo un elemento di grande rilievo nell’affiancare l’azione
di altri movimenti integrazionisti con le sue battaglie nei Tribunali.
I fondatori del Congress On Racial Equality (CORE) all’opposto, non
si accontentavano di una lotta basata solo su strumenti giuridici, ma volevano
un’azione più diretta. Il CORE venne fondato da un gruppo di studenti, bianchi
e neri, nel campus dell’Università di Chicago. Nato da una frangia
dell’organizzazione pacifista Fellowship of Reconciliation (FOR), sorta durante
la Prima Guerra Mondiale, il CORE era un’organizzazione prevalentemente
presente nel Nord, composta per la maggior parte da membri della classe media
bianca che credevano nella non-violenza come forza di cambiamento. Nel
Febbraio del 1953 James Farmer, ex-segretario della Fellowship of
Reconciliation, diventò il primo Direttore Nazionale del CORE. Fu lui ad
organizzare, nel 1961, il primo Freedom Ride negli Stati del Sud, dove il
CORE aveva iniziato ad operare già da qualche anno. Tra le battaglie affrontate
dal Congress troviamo quella al diritto di voto dei neri del Sud, nonché la
79
partecipazione ai boicottaggi degli autobus in Alabama, alla marcia su
Washington nel 1963 e al Freedom Summer51 nel 1964.
Come abbiamo visto, gli attacchi di violenza nei confronti degli attivisti
dei diritti civili non accennano a diminuire nel corso delle varie manifestazioni
pacifiche. In tutte le occasioni, numerosi furono i pestaggi da parte di razzisti
bianchi o talvolta della polizia, e ancor più numerosi gli arresti arbitrari e le
carcerazioni di manifestanti di colore. La prima conseguenza di tali fatti fu un
progressivo abbandono dell’idea dell’integrazione e una crescente presa di
posizione verso un’idea di separatismo. Un esempio di questo tipo può essere
rintracciato nell’esperienza del CORE. Nel 1966 la guida del movimento venne
affidata a Floyd McKissick, un leader dalle idee decisamente più radicali e
separatiste rispetto al suo predecessore. Anche la composizione interna del
gruppo cambiò notevolmente: se prima si contavano numerosi membri
“bianchi” tra le fila dell’associazione, ora il gruppo prediligeva di gran lunga la
collaborazione di soli attivisti “neri”.
L’idea di indipendenza politica ed economica della comunità di colore
non era tuttavia cosa recente. Già nei decenni precedenti erano sorte
associazioni che predicavano la necessità di riscatto dalla sottomissione da
parte dei bianchi attraverso l’istituzione di forme di emancipazione non solo
culturale, ma che abbracciassero ogni sfera della vita delle minoranze di colore.
Uno dei primi a dire che “il negro è bello”, a rifiutare gli usi, i costumi, la
religione, i parametri estetici, la scuola e i condizionamenti imposti dai bianchi
fu, come abbiamo visto nel primo capitolo, Marcus Garvey, grande leader
nazionalista nero degli anni Venti.
51
Progetto di ”addestramento” alla non-violenza e per la registrazione alle liste elettorali, nato
a opera dello SNCC e diretto da Robert Moses, a cui parteciparono numerosi movimenti per i
diritti civili, tra i quali appunto il CORE.
80
Il “ritorno” alla Terra Madre, che aveva elettrizzato milioni di afroamericani, appariva già nei primi anni Trenta un mito irrealizzabile. Ma la
bandiera del nazionalismo non si spense, passando alla Nation of Islam di
Elijah Muhammad, che sosteneva la necessità di uno Stato separato e,
anch’esso, si manteneva con una catena di negozi e lavanderie di proprietà
negra, all’insegna del motto “Buy Black”, compra negro.
La Nation of Islam (NOI) era un’organizzazione di stampo religioso e
nazionalista fondata intorno al 1930 a Detroit, nel Michigan, da W.D. Fard.
Fard era convinto che i neri potessero ottenere il successo attraverso la
disciplina, l’orgoglio razziale, la conoscenza di Dio e la separazione fisica dalla
società bianca. Nel Giugno del 1934, Fard scomparse in circostanze misteriose.
Venne succeduto alla guida della setta da Elijah Muhammad, il quale proclamò
che Fard fosse Allah e che avesse scelto lui come suo messaggero. Dopo aver
trasferito i quartier-generali a Chicago, Muhammad continuò l’opera del suo
predecessore incarnando una vera e propria guida spirituale per gli adepti del
movimento. I Black Muslims (termine coniato dallo scrittore C. Eric Lincoln
per indicare i membri della Nation of Islam) promuovevano l’integrità, l’onore,
la purezza e praticavano l’astinenza da qualsiasi sostanza dannosa per
l’organismo, quali ad esempio gli alcolici.
Ritenendo
di
primaria
importanza
l’indipendenza
economica,
acquistarono migliaia di acri di terra nelle campagne del Sud, e investirono
ingenti somme in avventure finanziarie. L’indipendenza politica venne
esercitata soprattutto con l’esercizio di negoziati indipendenti con Governi
stranieri. La NOI creò un suo proprio sistema educativo, aveva un suo
quotidiano e un suo esercito paramilitare, il Fruit of Islam. Il movimento tornò
alla ribalta della scena politica afro-americana tra la fine degli anni Cinquanta e
i primi anni Sessanta, grazie un portavoce di rilievo quale fu Malcolm X, e
grazie alle congiunture internazionali che intercorsero in quel periodo. La
81
conquistata indipendenza dalle potenze europee di alcuni Paesi africani e la
sfida all’imperialismo euro-americano apportata dalla rivoluzione castrista,
diedero nuovo impulso a quelle correnti di pensiero che auspicavano una nuova
epoca di prosperità per tutte le popolazioni oppresse dal “dominio bianco”.
Nel prossimo capitolo approfondiremo tali argomenti, prendendo in
esame i massimi esponenti del separatismo afro-americano che si resero
protagonisti nella lotta alla discriminazione razziale nella seconda metà degli
anni Sessanta.
82
CAPITOLO 4
POTERE BIANCO E POTERE NERO
4.1. Lo Student Nonviolent Coordinating Committe.
I movimenti nazionalisti neri sorti negli Stati Uniti tra le due guerre si
erano posti il problema di assicurare una certa misura di potere alla minoranza
nera. Il programma dell’UNIA aveva sottolineato la necessità di raggiungere un
grado di autonomia economica (negozi gestiti da neri, fattorie, piccole
industrie, una linea di navigazione per il ritorno in Africa), ma dalla sua visione
mancava ogni dimensione politica. Si trattava più che altro di creare dei
sodalizi tenuti insieme dalla solidarietà del colore.
I Black Muslims ripresero da Garvey i temi dell’autonomia economica e
della finale costituzione di una nazione nera. La “Nazione dell’Islam” non
doveva cercare potere all’interno della struttura bianca, ma distaccarsi
completamente da quella. Diverse invece sono la posizione iniziale e la storia
dello Student Nonviolent Coordinating Committee (SNCC, letto e talvolta
scritto Snick). Lo SNCC era, alle sue origini, ben lontano da affermazioni di
nazionalismo o di separatismo. A differenza del gruppo dei Muslims, lo SNCC
non si era dato, all’epoca della sua fondazione, un’impronta di distacco rispetto
al generale movimento di liberazione, né aveva adottato quel caratteristico
atteggiamento da esiliati in patria che i Muslims coltivavano con tenacia. Al
contrario, il gruppo si era costituito all’ombra della teoria riformista e
83
integrazionista del movimento per i diritti civili e sotto il patrocinio del
maggior esponente della non-violenza, Martin Luther King.
Lo SNCC fu uno dei movimenti che si resero protagonisti della lotta
anti-segregazionista negli Stati del Sud, partecipando in prima linea ai vari sitins e freedom-rides che ebbero luogo negli anni 1960-1961. L’obiettivo
principale delle azioni di protesta di tale periodo, era quello di superare le
barriere del razzismo, della rappresaglia locale, degli arresti, tentando di far
giungere la propria voce oltre i confini settentrionali della Virginia, ai liberali
del Congresso, agli uomini politici di Washington, ai grandi quotidiani di New
York e di Chicago. Si ricercavano dunque la presenza e l’amicizia dei
giornalisti, della televisione; molte tattiche venivano studiate apposta per
richiamare l’attenzione, per creare un caso.
Il passaggio dalla tecnica dei sit-ins a un nuovo piano di lavoro fu
originato da una proposta dei consiglieri di Robert Kennedy, allora ministro
della Giustizia, e dei rappresentanti di due fondazioni private, la Taconic e la
Field Foundation. Lo SNCC avrebbe dovuto intraprendere, con l’aiuto
finanziario di questi promotori, il lavoro della registrazione nelle liste elettorali
dei neri del Sud, fino ad allora esclusi dal voto. Tra gli esecutori del progetto vi
era il gruppo di Stokely Carmichael, Bill Mahoney, Ivanhoe Donaldson,
Courtland Cox, tutti provenienti dalla Howard University di Washington; e
Robert Moses, che aveva da poco lasciato New York e il suo posto di
insegnante presso la Horace Mann High School. Fu quest’ultimo a prendere la
guida dell’intero progetto.
L’intento dell’amministrazione Kennedy, probabilmente, era quello di
stabilire una tregua nell’azione febbrile dei gruppi di protesta e di deviarne le
energie verso un lavoro più lento e, all’apparenza, meno insidioso. In realtà, il
progetto diede l’occasione ai membri dello SNCC di vivere un’esperienza
determinante, che li avrebbe gradualmente portati negli anni successivi ad
84
assumere posizioni sempre più anti-integrazioniste. In questo periodo infatti,
gli studenti approfondirono i rapporti con gli strati più oppressi della
popolazione rurale del Sud, prendendo coscienza del latente potenziale
rivoluzionario di queste classi. A differenza di altri gruppi che partecipavano al
movimento per i diritti civili, lo SNCC riteneva che, per poter spezzare il
cerchio della società razzista del Mississippi, i neri dovessero risvegliare il loro
potere politico potenziale. Come lo stesso Carmichael afferma, “per esso la
dissegregazione razziale non era un fine in se stesso, ma solo un aspetto dello
sforzo di sollevare la gente e spingerla ad esigere la conquista del potere
politico. Molto tempo prima che venisse usata l’espressione, lo SNCC aveva in
mente il Black Power.”52
L’episodio determinante nel cambio di prospettiva dei membri dello
SNCC avvenne nel 1965, quando il Mississippi Freedom Democratic Party
(MFDP) venne respinto alle elezioni primarie del Partito Democratico.53 Il
Partito Democratico della Libertà del Mississippi, “democratico” in quanto
mirava a farsi riconoscere dal Partito nazionale come unico Partito democratico
dello Stato, si era costituito come partito alternativo al Partito Democratico del
Mississippi - ancora apertamente arroccato su posizioni razziste - con l’intento
di sostituirsi ad esso nel rappresentare localmente il Partito Democratico
nazionale.
Il MFDP dedicò quell’estate a reclutare attivisti e a rafforzare le proprie
strutture in vista della Convenzione democratica nazionale che si aprì
nell’agosto del 1964 ad Atlantic City, nel New Jersey. Alla Convenzione i
delegati del MFDP presentarono una petizione in cui si chiedeva il diritto di
rappresentare lo Stato del Mississippi, al posto della delegazione di bianchi
52
S. Carmichael, C. V. Hamilton, Strategia del Potere Negro, Bari, Laterza, 1967, p.132
53
Cfr. Maria Piccone Stella, “Saggio Introduttivo”, in Roberto Giammanco, Black Power.
Analisi e Testimonianze, Bari, Ed. Laterza, 1967
85
segregazionisti inviata dal Partito democratico locale, insistendo in particolare
su quattro punti. In primo luogo venne precisato che il MFDP era un partito
aperto, che non avrebbe escluso nessuno a causa della razza, del colore o delle
credenze. Si sottolineò poi che si aderiva al programma del Partito democratico
nazionale, che si era disposti a firmare una solenne promessa di fedeltà, e si
prendeva l’impegno a condurre un’attiva campagna in favore dei candidati
democratici nazionali, tutti argomenti verso cui il Partito “regolare” si era
dimostrato in tempi recenti ostile.54
Come prevedibile, la richiesta del MFDP venne respinta e, più tardi, nel
gennaio del 1965, fallì anche il tentativo di contestare l’elezione dei cinque
rappresentanti segregazionisti al Congresso.
Il dato più importante dell’episodio di Atlantic City fu la rottura con i
leader moderati, che portò come conseguenza la necessità di appoggiarsi a
elementi più radicali. Il piano della lotta si spostò dall’uso dell’intervento
esterno, delle pressioni congiunte dei “liberali” e degli organismi più illuminati
del governo di Washington, al piano delle iniziative locali in scala minore,
ossia ad una specie di esperienza teorica dell’autogoverno. Così, mentre una
parte degli alleati del MFDP si allontanarono silenziosamente andandosi a
schierare al fianco dei liberali bianchi che proponevano un compromesso ai
delegati del Partito della Libertà, i neri rimastigli fedeli andavano elaborando
una loro concezione della realtà politica. Questi, infatti, erano stremati da “una
lunga serie de rifiuti, differimenti, promesse non mantenute, una lunga serie di
anni pieni di tradimenti da parte dei bianchi e dei negri loro alleati. La realtà, e
cioè l’insieme di tutte le lezioni imparate in anni di dure sofferenze tradimenti,
diceva loro che era necessario porre fine all’abitudine del compromesso […] e
54
Cfr. la mozione del 28 luglio 1964 del Partito democratico del Mississippi, in S.
Carmichael, C. V. Hamilton, op. cit., p. 138
86
che l’unica speranza per i negri andava cercata in un nuovo approccio” (S.
Carmichael, C.V. Hamilton, 1967, p.138).
Nel 1965, lo SNCC cominciò gettare le basi per un nuovo partito, che si
sarebbe chiamato Lowndes County Freedom Organization (LCFO), meglio
conosciuto e abitualmente nominato dalla stampa come Black Panther Party55,
dall’assunzione della pantera nera come simbolo del partito. Esso
rappresentava il secondo tentativo di allargare il discorso politico elaborato dal
piccolo nucleo di attivisti radicali nel Sud. Nonostante l’eccezionale
preponderanza della popolazione nera sulla bianca (81%), alle elezioni dell’8
settembre del 1966, il Partito della Pantera Nera di Lowndes riuscì a strappare
solo il 42% dei voti. Le cause del fallimento elettorale venivano attribuite
all’intimidazione ricevuta dai bianchi di Lowndes56.
La grande affluenza dell’elettorato nero alle urne e il riconoscimento
ufficiale della Pantera Nera come partito politico della contea erano comunque
considerati dai promotori come un notevole successo. Una così larga
partecipazione dimostrava che un elemento fondamentale della lotta si era
insolitamente rafforzato: un intero gruppo aveva finalmente preso di coscienza
di se stesso.
55
Da distinguersi dal Black Panther Party for Self-Defence fondato a Ouckland da Bobby
Seale e Heuy Newton. Esso assunse il simbolo della Pantera ispirandosi a quello della
Lowndes County Freedom Organization. Quest’ultima, in realtà, deve il suo secondo nome
alla creatività dei giornalisti, che ribattezzarono l’organizzazione Black Panther Party in
riferimento al simbolo da essa assunto.
56
Cfr. “The Militant”, 21 dicembre 1966
87
4.2. Potere Nero
Il 1966 rappresentò per i militanti dello SNCC il periodo di massimo
distacco dalle prospettive integrazioniste precedentemente adottate dal
movimento. I leader della Pantera Nera erano giunti alla convinzione che le
tattiche gradualiste, a medio raggio, non solo si limitavano a graffiare solo in
superficie il problema delle richieste del popolo nero, ma rallentavano un
processo assai più importante: quello dell’investigazione in profondità della
logica interna del sistema americano.
Nei due anni successivi la nascita dello SNNC, i legami con la SCLC - il
movimento di cui era figlio - si mantennero piuttosto stretti, malgrado gli
studenti avessero manifestato una precisa volontà di autonomia fin dalle prime
riunioni. E successivamente, fino ai primi mesi del 1965, il concetto di potere o
di nazionalismo nero così come era adombrato dagli ultimi discorsi di Malcolm
X veniva ripudiato con decisione dai rappresentanti dello SNCC. Ma, come
abbiamo visto, l’esperienza di Lowndes diede l’impulso per un cambio di
prospettive decisivo all’interno del movimento.
Il punto di rottura definitivo tra i leader dello SNCC e lo SCLC, ebbe
luogo nel giugno del 1966, durante la marcia di protesta a Jackson, nel
Mississippi. La marcia era stata iniziata da James Meredith, uno studente che
già dal 1962 aveva sfidato le autorità del Mississippi e conquistato la
desegregazione dell’università dello Stato. Durante la manifestazione, Meredith
fu ferito con un colpo d’arma da fuoco. Solo le tre organizzazioni più
combattive decisero di portare a termine la marcia: lo SNCC, rappresentato dal
suo nuovo leader Stokely Carmichael; la SCLC, rappresentata da Martin Luther
King; e il CORE, la più vecchia delle tre, rappresentata da Floyd McKissick.
In quella occasione, Stokely Carmichael pronunciò un discorso in cui
per la prima volta venne lanciata la “parola d’ordine” del Black Power. Durante
88
il suo discorso, Carmichael insistette sulla necessità di far risiedere il potere
politico all’interno della comunità, rifiutando, una volta per tutte, gli
ingannevoli compromessi con i politici bianchi.
La proclamazione dello slogan del “Black Power!” scatenò un coro di
proteste nella stampa ufficiale, bianca e nera. In risposta a tale tumulto di
opinioni e giudizi, Carmichael pubblicò un testo che rappresentava la messa a
punto teorica del motto da lui coniato. Esso fu presto considerato come il
manifesto del Potere Nero. Nel testo, l’autore spiega il significato di “Black
Power”. Potere nero significava che bisognava cercare di partire da posizioni di
forza, non più di debolezza come nel passato. Il movimento nonviolento per i
diritti civili, “il cui tono era adatto a un uditorio di liberali bianchi e che ha
funzionato da zona cuscinetto tra di quelli e i giovani negri arrabbiati”57,
sarebbe risultato, secondo Carmichael, per sempre fallimentare. Il punto era
che non si accettava più di subire violenze e intimidazioni “per poi dire ai
bianchi: Via, andiamo, infondo siete brave persone”. Bisognava smettere di
illudersi che lo fossero e agire per proprio conto, da una posizione di potere.
Negli ultimi anni, tutte le attività del movimento dello SNCC avevano
avuto questo obiettivo: dalla creazione del MFDP alle candidature nei collegi
scolastici a contadini, fino alla creazione di un vero e proprio partito nella
Contea di Lowndes. La scelta della pantera nera come simbolo di quest’ultimo
non fu ovviamente casuale. La pantera era un “animale bello e coraggioso che
[rappresentava] la forza e la dignità delle richieste negre”. La figura della
pantera richiamava anche l’allusione alla necessità dei neri, sia del Nord che
del Sud, di possedere un’arma: “si ha bisogno di una pantera nera al proprio
fianco quando, come è successo a centinaia di abitanti dell’Alabama, si è
costretti a subire a causa della propria attività politica, lo sfratto, la fame e
57
Stokely Carmichael, What We Want, “New York Review of Books”, settembre 1966, in R.
Giammanco, op. cit., 1967, p.234
89
talvolta la morte, ci può anche essere bisogno di un’arma. Lo SNCC riafferma
il diritto dei negri, in qualunque luogo, a difendere se stessi, quando sono
minacciati o attaccati” (S. Carmicheal, ibid. p.236).
Per quanto riguardava invece il dare l’avvio all’uso della violenza,
Carmichael dichiarò che il dare indicazioni in questo senso alle comunità nere
non sarebbe stata prerogativa del movimento da lui capeggiato: “non spetta a
noi dire alle comunità negre se possono o non possono usare una forma
particolare di azione per risolvere i loro problemi” (ibid. p.236). Il deterrente
all’uso della violenza sarebbe stato semmai la piena realizzazione del
programma del Black Power. Dal momento che i comportamenti aggressivi da
parte della comunità afro-americana erano la diretta conseguenza del loro
malessere economico e sociale, l’acquisizione di pieni poteri decisionali
avrebbe privato qualsiasi individuo della necessità di ricorrere alle armi quale
estremo strumento di rivalsa. Relativamente all’autodifesa, “il Potere Negro
vorrà dire che se un negro viene eletto sceriffo, potrà porre la parola “fine” alla
brutalità della polizia”; riguardo all’aspetto socio-economico, “se [un nero]
sarà eletto assessore delle tasse, potrà raccogliere e incanalare i fondi per la
costruzione di nuove strade e scuole che servano la gente negra – aiutando così
il passaggio dal potere politico all’arena economica” (ibid., p.236).
Le fondamenta economiche stesse della nazione andavano scosse, ma la
società bianca sembrava non essere disposta a così grandi stravolgimenti. Per
questo, secondo Carmichael, la società americana preferiva parlare di
integrazione. Quel tipo di integrazione, però, significava “l’uomo che sfonda,
lasciandosi dietro i suoi confratelli nel ghetto, tanto in fretta quanto glielo
permette la sua macchina sportiva” (ibid., p.238). L’integrazione che si era
verificata fino ad allora era “una strada a senso unico”, perché si era
manifestata sempre come l’estensione dei benefici economici della società
bianca verso un numero esiguo e simbolico di cittadini neri, ignorando le
90
grandi porzioni di poveri che rimanevano indietro nelle comunità negre. La
vera integrazione sarebbe potuta avvenire solo nel momento in cui i neri
avessero preso possesso del potere politico: “solo così essi diventeranno uguali
in una maniera che significherà qualcosa e cesserà di essere una strada a senso
unico. Finalmente non si limiterà a prosciugare le energie e le capacità
lavorative del ghetto per immetterle nei quartieri bianchi; ma potrà voler dire
che i bianchi si spostano da Beverly Hills a Watts, che si uniscono alla
Freedom Organization della Contea di Lowndes. In questo modo l’integrazione
assumerà un valore” (ibid., p.240).
In realtà, il rifiuto dell'integrazione sembra derivasse soprattutto dal
disprezzo che gli esponenti del Black Power dimostravano nei confronti della
natura stessa della società bianca. I valori della società americana sostenevano
e alimentavano, secondo Carmichael, un sistema razzista. Per questo i neri
avrebbero dovuto rifiutarsi di fare propri e sostenere tali valori. “Sono i suoi
valori che permettono il perpetuarsi dei soprusi e delle violenze ai danni della
comunità negra, i suoi valori che si fondano esclusivamente sull’acquisizione
materiale e non su di un arricchimento dell’uomo. […] Sono valori che non
conducono affatto alla creazione di una società aperta: quella classe dice di
volere una società basata sulla libera iniziativa, ma nello stesso tempo, con la
forza e con l’inganno, nega ai negri come gruppo ogni possibilità di
competere.[…] In questo paese, la classe media è la spina dorsale del razzismo
istituzionalizzato.”58
L’idea dell’integrazione, in definitiva, non era ripudiata a priori.
Piuttosto era visto come un passo successivo, un qualcosa che si sarebbe
dovuto verificare in seguito al rafforzamento della solidarietà di un gruppo
unito dalla “linea del colore”. Come Carmicheal afferma, “il concetto di Potere
Negro si fonda su di una premessa precisa, e cioè che prima che un gruppo
58
Ibid. p. 79-80. Corsivo dell’autore.
91
possa entrare a far parte della “società aperta” deve serrare le proprie file.
Vale a dire, la solidarietà di gruppo è necessaria, in una società pluralistica,
perché un gruppo possa operare con efficacia da posizioni di forza”.59
4.3.
Nazionalismo nero e New Left
Le idee anti-integrazioniste ispirate a ciò che verrà chiamato
"nazionalismo negro", si svilupparono, nella seconda metà degli anni
Sessanta, nei ghetti urbani delle città settentrionali.
Lo sforzo di mettere in moto il processo di organizzazione dal basso nel
Sud, non aveva toccato le masse che risiedevano nel Nord, già integrate
formalmente, ma di fatto più che mai segregate. Contemporaneamente
all’approvazione del Voting Rights Bill nell’agosto del 1965, scoppiavano i
riots nel ghetto di Watts, Los Angeles; l’estate precedente vi era stato lo stesso
tipo di rivolta degli strati più derelitti dei neri di Harlem a New York e
successivamente sarebbero esplose Cleveland, Chicago, Omaha, Newark e
tante altre aree degradate del Nord urbano e industriale. A ribellarsi con rabbia
erano proprio quei neri per i quali le nuove leggi del 1964 e del 1965 non
avevano arrecato alcun cambiamento nelle condizioni di vita e nella situazione
di individui e masse senza potere, economicamente disperati, socialmente
disintegrati e geograficamente reclusi nei ghetti urbani. Di fronte a una
situazione in cui la conquista legale dei diritti civili non era altro che una
piccola parte nella più generale lotta per l’uguaglianza, il Sud non
rappresentava altro che una situazione marginale rispetto all’intero paese. Ma
al Nord le cose non stavano allo stesso modo che nel Sud.
59
Ibid. p. 84. Corsivo dell’autore.
92
Si può dire che la “vera” battaglia nera consistesse in diverse battaglie
su diversi fronti, tutti legati tra loro. I neri meridionali si trovavano a
combattere per diritti tra i più elementari: il diritto di sedersi su qualunque
sedile in un autobus, di passeggiare sui marciapiedi, il diritto di non soffrire
umiliazioni in migliaia di forme diverse di segregazione. Tutto ciò in aggiunta
ai problemi a cui i neri del Nord e dell’Ovest dovevano far fronte. Le lotte del
Sud venivano ingaggiate soprattutto per conquistare forme di integrazione di
cui i neri in altri luoghi già “godevano”. Fuori dal Sud, i loro interessi più
immediati riguardavano salari più alti, condizioni migliori di vita e di lavoro,
opportunità di impiego, di istruzione e potere politico. Essi volevano una
società in cui potessero sentirsi a casa come popolo, come esseri umani; potersi
attribuire l’immagine di gente che fa parte dell’umanità (cfr. C. Silberman,
1965).
L'idea che la vera battaglia negra fosse concentrata interamente a Sud e
che il suo fine fossero l'integrazione e l'assimilazione nel Sogno Americano
così come se lo raffiguravano i neri del Sud, gli integrazionisti borghesi del
Nord, i liberali bianchi e alcuni radicali, era, rispetto alla battaglia dei ghetti
settentrionali, nociva e fuorviante. E l'idea che la conquista e il progresso più
completi che i neri potessero sperare fosse l'essere accettati dai bianchi in
qualità di fratelli americani, era altrettanto insultante (cfr. K. Clark, 1969).
Il grosso dei neri settentrionali, per la sua situazione economica, viveva
confinato in edifici fatiscenti e costretto ai più sporchi dei lavori mal pagati.
Questo si poteva dire anche dei gruppi immigrati del passato. Ma finché questi
ultimi sapevano che qualcuno dei loro confratelli era riuscito a raggiungere il
"successo" e potevano sperare per i loro figli che crescevano nel mondo
americano, non smarrirono la fede nella way of life del paese. Pochi di loro
divennero radicali, per perdere subito ogni interesse per "quelle sciocchezze"
non appena la società si diede da fare per assorbirli. In nessuna epoca ci fu un
93
rifiuto massiccio dell'America paragonabile a quello che si riscontrava nel
periodo di cui stiamo parlando (cfr. K. Clark, ibid.).
Un esponente della New Left statunitense, Robert Vernon, fece notare
che, malgrado il Sud nero fosse prevalentemente integrazionista come
tendenza, sotto la sua superficie si celava in realtà un formidabile potenziale
nazionalistico. Il bisogno di integrazione dei negri meridionali mirava al
rovesciamento di certe barriere segregazioniste alla Jim Crow, non a mescolarsi
e ad assimilarsi con i bianchi. Uno degli scogli più grossi che intralciavano il
diffondersi di un aperto nazionalismo tra i neri del Sud era, secondo l'autore,
l'atteggiamento settario dei nazionalisti del Nord; essi mancavano di flessibilità
nell'adattarsi ai bisogni e alle ispirazioni dei neri del Sud, che vivevano in
condizioni diverse60.
In sostanza, se le prime attività politiche degli esponenti del Black
Power si svilupparono nelle comunità afro-americane meridionali, fu solo nei
centri urbani a Nord e a Ovest che le idee separatiste del nazionalismo nero
trovavano terreno fertile, perché erano questi gli ambienti a cui si rivolgeva. Le
vecchie strutture politiche ed economiche che poggiavano, secondo
Carmichael, sui vecchi valori della società americana, dovevano essere
“modernizzate”. Carmichael e Hamilton fecero una distinzione tra “struttura” e
“sistema”: “Per sistema intendiamo il complesso degli istituti fondamentali,
valori, credenze in vigore nella società americana, mentre per strutture
intendiamo le istituzioni specifiche (partiti politici, gruppi di interessi, organi
burocratici) la cui funzione è di gestire il sistema.[…] Noi riteniamo che, data
l’illegittimità del sistema, non sia possibile trasformarlo per mezzo delle
strutture esistenti” (S.Carmichael, C.V. Hamilton, 1967, p.81).
60
Robert Vernon, White Radicals and Black Nationalism, in "International Socialist Review",
winter 1964.
94
Lo stesso sistema bipartitico non sarebbe stato adeguato a creare un
Governo che facesse fronte alla complessità della società statunitense. La crisi
razziale era, secondo un cronista dell’epoca, Walter Lippman, il sintomo più
grave di una grossa carenza delle istituzioni politiche americane. “Il processo
di modernizzazione sarà molto difficile, perché le strutture esistenti, le forme di
comportamento cristallizzate, hanno una grande capacità di perpetuarsi. […]
Dobbiamo smascherarli con decisione e chiarezza. Se questo volesse dire
creare delle istituzioni comunitarie parallele, ebbene si abbia il coraggio di
ricorrere a questa soluzione.”61
Essenziale per la formazione di nuove strutture indipendenti, era
l’allargamento della base di partecipazione politica. Ciò significava che non
solo ogni cittadino di colore doveva poter esercitare il proprio diritto di voto,
ma anche che la comunità nera avrebbe dovuto scegliersi i propri leaders, che
sarebbero stati responsabili solo di fronte alla loro gente. I neri dovevano
cessare di essere oggetti dell’azione civica, e iniziare a esserne i soggetti. Se
prima le cose venivano fatte per i neri o a causa dei neri, ora dovevano essere
fatte dai neri.
L'aspra critica al sistema (estabilishment) e il richiamo a una democrazia
partecipatoria che avrebbe dovuto sostituire quella rappresentativa in auge,
sono principi che il movimento del Black Power condivideva pienamente con
l'ideologia della New Left statunitense.
La New Left (Nuova Sinistra) comprendeva i movimenti della sinistra
radicale che si svilupparono negli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta.
Questi
61
movimenti
differivano
dalla
Ibid. p.82
95
sinistra
tradizionale,
orientati
prevalentemente all'attivismo sulle tematiche inerenti il lavoro, in quanto
adottarono una più larga visione dei campi di intervento dell'attivismo stesso.62
Lo Students for a Democratic Society (SDS) fu una delle organizzazioni
che meglio rappresentavano l'ideologia della Nuova Sinistra. Lo statuto di
questa organizzazione, il Port Huron Statement, scritto da Tom Hayden nel
1962, richiedeva una democrazia molto più partecipata. Al pari delle
organizzazioni dello SNCC e del CORE, lo Students for a Democratic Society
incanalava le sue energie verso l'organizzazione comunitaria locale. A questo
livello si riteneva infatti realizzabile la democrazia "partecipatoria", in
contrasto con l'autoritarismo della democrazia "rappresentativa".
I concetti fondamentali su cui si sarebbe dovuta basare la
“modernizzazione politica” secondo Carmichael, combaciavano quindi con la
critica dei vecchi valori e delle istituzioni della società che la Nuova Sinistra
propagandava. La ricerca di forme nuove e diverse di struttura politica, capaci
di risolvere i problemi economici e politici, ma soprattutto il rifiuto in blocco
del mito dell'American Dream, furono un terreno comune di lotta per i due
movimenti per tutta la prima metà degli anni Sessanta. Ma, a partire
dall'enunciazione del Potere Nero, lo SNCC, che era stato un'importante parte
del movimento e che insieme con altre organizzazioni a partecipazione mista di
bianchi e neri aveva costituito la base per una posizione di Nuova Sinistra,
cercò di sviluppare un'autonoma organizzazione per i neri.
62
Le origini di questo movimento possono essere ricondotte ad una lettera scritta nel 1960 dal
sociologo Charles Wright Mills, intitolata Letter to the New Left. Mills argomentò su una
nuova ideologia di sinistra, focalizzata non sulle istanze riguardanti i problemi dei lavoratori,
come aveva fatto la vecchia sinistra, ma piuttosto su più personali istanze sull'alienazione, sul
disagio, sull'autoritarismo e sugli altri mali della società moderna. Cfr. Vernon, 1964
96
A questo punto i due movimenti, di liberazione dei neri e dei radicali
bianchi, si separarono sviluppandosi in modi autonomi (se pure con notevoli
parallelismi). Del resto la stessa autonomia dello SNCC, e la sua ricerca di una
strategia politica indipendente di potere per i neri, non faceva altro che
rispondere al principio di base che governava e ispirava gran parte della Nuova
Sinistra, cioè che gruppi, classi e individui avrebbero dovuto governare
direttamente le istituzioni che riguardavano i propri destini e che
rappresentavano i veicoli per mutamenti sociali. Così, dall'estate del 1966, lo
SNCC fu composto di soli neri, e servì soprattutto come piattaforma per il
Potere Nero perdendo progressivamente il carattere di organizzazione di base,
mentre l'SDS e le altre organizzazioni della Nuova Sinistra ne accettarono e
sostennero il nuovo corso (cfr. M. Teodori, 1970)
Tuttavia, molti esponenti della New Left si trovarono d'accordo nel
definire la strategia del Black Power ambivalente e inadeguata alla risoluzione
di problemi socio-economici di una certa entità. Secondo Paul Feldman, ad
esempio, il rifiuto di una politica di coalizione, che da sempre aveva
caratterizzato la lotta delle minoranze escluse (etniche, religiose o razziali),
avrebbe portato a risultati insufficienti. Le forme di organizzazione economica
e politica che sottolineavano un'unità etnica, religiosa o razziale, in base al
principio che la solidarietà di gruppo avrebbe dovuto avere la meglio nei
confronti della solidarietà di classe, erano caratterizzati, generalmente, da
tendenze piuttosto conservatrici e quindi poco adatte al cambiamento (cfr. M.
Duberman, 1968).
4.4. Potere Bianco
Dopo la sconfitta subita alla Convenzione democratica nazionale del
1964 ad Atlantic City, e nel formulare il programma per il nascente Partito
della Pantera Nera nel 1965, i rappresentanti dello SNCC dichiararono, per la
97
prima volta, di avvicinarsi alle posizioni dei nazionalisti neri e di avere una
visione molto simile a quella esposta da Malcolm X durante l’anno precedente
la sua morte.63
Cresciuto politicamente nei Black Muslims e staccatosi da questi nel
1964, Malcolm X emerse come portavoce di una proposta rivoluzionaria che,
pur mantenendosi all’interno di un grande internazionalismo islamico,
prendeva corpo come afro-americanismo. Malcolm X sottolineava che, nel
contesto della struttura di potere sociale, fedelmente rispecchiata dalle
istituzioni politiche, gli afro-americani avevano da sempre occupato una
condizione relativa, di generazione in generazione, con le stesse proporzioni di
distanza e dipendenza, e sempre in fondo alla piramide sociale. Egli affermava
con decisione che tale condizione era oggettiva, strutturata in primo luogo
nell’immaginario collettivo, oltre che nella dinamica di classe e nel quadro
economico sociale. Durante il secondo raduno della Organization for the
African-American Unity (OAAU)64, tenutosi il 5 luglio del 1964 all’Audubon
Ballroom di New York, Malcolm X espresse la sua opinione riguardo la
promulgazione del Civil Rights Act avvenuta in quello stesso anno. Nel suo
discorso, egli sottolineò come gli amministratori del potere bianco stessero
ancora una volta “prendendo in giro politicamente” il popolo nero, perché
perfettamente consci del fatto che quelle leggi non solo non avrebbero
migliorato le condizioni della popolazione di colore, ma soprattutto non
avrebbero eliminato il razzismo intrinseco alla loro società. Come non si riuscì
a far rispettare la decisione della Corte Suprema del 1954 che avrebbe dovuto
63
Malcolm X venne assassinato il 21 febbraio 1965 nella Audubon Ballroom di Harlem, New
York..
64
L’OAAU venne fondata da Malcolm X immediatamente dopo il suo ritorno dall’Africa il
21 maggio del 1964. Ispirandosi alla Organization for the African Unity (OAU),
l’organizzazione decise di adottare un atteggiamento non religioso e non settario nella difesa
dei diritti umani.
98
sopprimere per sempre la segregazione razziale nel Sud, allo stesso modo,
secondo Malcolm, le ultime leggi sui diritti civili non sarebbero state mai
rispettate in luoghi come il Mississippi, l’Alabama o la Georgia. Egli riteneva
che questa legge non fosse altro che “un trucco del XX secolo, uno dei soliti
vecchi trucchi legislativi che voi e io e le nostre madri e i nostri padri ci siamo
visti regalare negli ultimi cinquanta, sessanta o cento anni. Prima di cento anni
fa non avevano bisogno di trucchi. Avevano le catene. […] Fu solo dopo che lo
spirito del nero fu completamente spezzato e il suo desiderio di essere uomo
completamente distrutto, che essi dovettero ricorrere ad altri trucchi. Tolsero
semplicemente le catene dalle caviglie del nero per mettergliele al cervello.”65
Per Malcolm X, il fatto che i cittadini di colore avessero bisogno di leggi
create appositamente per loro per esercitare i diritti di qualsiasi altro cittadino,
costituiva semplicemente “una forma di schiavitù più aggiornata”, “uno
schiaffo in faccia”. Esse infatti erano la dimostrazione lampante che il solo
colore della pelle privava i cittadini neri di qualsiasi diritto, poiché i nuovi
arrivati bianchi provenienti dai paesi della “cortina di ferro”, o dalla Germania,
contro cui si era combattuto pochi anni prima, non necessitavano di alcuna
legislazione per essere immessi nel sistema di vita americano.
La consapevolezza che i possibili rimedi offerti dal sistema non
rappresentassero che soluzioni illusorie, ruotava quindi intorno alla questione
della razza. Questa aveva una correlazione diretta e biunivoca con quella della
privazione economica. Questa impostazione è riscontrabile nell’idea della
società che gli esponenti dello SNCC hanno dalla seconda metà degli anni
Sessanta. Mentre i movimenti integrazionisti per i diritti civili non mettevano
in discussione i valori della classe media né le istituzioni degli Stati Uniti, i
65
Malcolm X, Con Ogni Mezzo. Discorsi e Interviste, a cura di George Breitman, Torino,
Giulio Einaudi Editore, 1973, pp.83-84
99
promotori del Black Power all’inverso, rifiutavano drasticamente l’obiettivo
dell’assimilazione. I primi accettavano i valori della società bianca senza
attribuire loro un carattere razzista in senso intrinseco, contestando piuttosto
l’ingiusta esclusione della popolazione di colore dalle istituzioni e dalle
strutture della società americana; i secondi, invece, ritenevano i valori della
classe media statunitense in sé e per sé “contrari alla aspirazioni umane”, per
usare un’espressione di Carmichael, poiché tale classe perpetuava il razzismo
in quanto forza sociale stessa (B.Cartosio, 1992).
Questo approccio è chiaramente esposto nel saggio di Carmichael e
Hamilton del 1967, in cui i due autori distinguono tra due forme di razzismo.
Nella società americana esiste “il razzismo individuale, cioè questo o quel
bianco che agisce contro questo o quel negro; e il razzismo istituzionalizzato,
cioè la comunità bianca come tale che si pone globalmente contro la comunità
negra. La prima forma consiste in una serie di atti compiuti apertamente da
individui, che provocano morte, ferite o distruzione violenta di beni
materiali.[…] La seconda forma, quella istituzionalizzata, è meno esplicita, più
sottile,
meno
smascherabile
attraverso
l’identificazione
di
specifici
responsabili; ma non è meno distruttiva dell’altra” (S. Carmichael, C. V.
Hamilton, 1967, pp. 38-39)
Il razzismo istituzionalizzato era la causa del continuo perpetuarsi della
condizione di povertà dei neri. Sul piano politico, infatti, le decisioni che
riguardavano la vita dei neri erano sempre state prese dai bianchi, dalla
“struttura di potere bianca”. Carmichael usa questa espressione, semplificando
volutamente l’eterogeneità delle forze in gioco nella scena politica statunitense.
Pur consapevole dell’esistenza di numerosi centri di potere, egli riscontrava il
fatto che, “quando si tratta dei problemi razziali, il pluralismo americano si
trasforma rapidamente in una struttura monolitica. […] Inoltre, i vari gruppi
bianchi tendono a considerare i loro interessi in maniera particolarmente
100
unitaria e solidale, quando si trovano di fronte a richieste negre che giudicano
nocive per i loro interessi costituiti” (S. Carmichael, C. V. Hamilton, 1967, p.
42).
Come Malcolm X, anche gli esponenti del Black Power affermavano
che la comunità afro-americana costituisse una colonia interna agli Stati Uniti
d’America. Il rapporto oggettivo tra coloni e colonizzati in America, infatti,
sembrava essere identico a quello intercorrente tra i coloni europei e i
colonizzati africani. Come la colonia africana vendeva manodopera senza avere
mai il possesso della terra o dei suoi prodotti, allo stesso modo i neri degli Stati
del Sud coltivavano il cotone per un salario bassissimo con cui compravano dai
fabbricanti bianchi abiti di cotone, cibo ed altre merci. I missionari delle
colonie africane si presentavano spesso come “amici del negro” benché “mossi
soltanto dalla sete di guadagno”; allo stesso modo molte organizzazioni
assistenziali pubbliche e private operanti nei ghetti spesso pretendevano di
volere “l’emancipazione” del negro, ma in realtà creavano un “sistema che
disumanizza gli individui perpetuandone la dipendenza. Su un piano di
consapevolezza o in modo del tutto inconscio, l’atteggiamento paternalistico di
parecchie di queste organizzazioni non [differiva] da quello di molti missionari
in Africa” (S. Carmichael, C. V. Hamilton, 1967, p.54).
Il potere politico detenuto dai bianchi era la forza che permetteva il
permanere dello sfruttamento economico della popolazione nera. “Il rapporto
economico delle comunità negre d’America con la società in generale”, scrive
Carmichael, “riflette anch’esso la loro condizione coloniale. Il potere politico
che viene esercitato su di esse procede di pari passo con lo sfruttamento
economico di cui sono oggetto i negri” (ibid. p. 53).
Già nel “manifesto” del Black Power del 1965, Carmichael mise in
evidenza la connessione tra il colore della pelle e il disagio economico
affermando che “i negri americani hanno due problemi: sono poveri e sono
101
neri”66. Tutti gli altri problemi sorgevano da questa realtà a due facce. Solo con
l’acquisizione del potere politico i problemi derivanti dal “razzismo
istituzionalizzato” sarebbero potuti essere superati. Carmichael continua
sostenendo che gli attivisti dello SNCC furono “costretti a lavorare per il
potere, perché questo paese non funziona in base alla moralità, all’amore o alla
non-violenza, ma al potere. Così, decidemmo di conquistare un potere politico,
con l’idea di partire da quello per sviluppare un’attività capace di produrre
degli effetti economici”67.
L’obiettivo dei promotori del Black Power era quindi quello di
disinnescare il meccanismo economico di tipo coloniale imposto ai neri
d’America, attraverso l’acquisizione di pieni poteri decisionali in seno alla
propria comunità. Essi ritenevano, tuttavia, che il superamento della
separazione-contrapposizione tra bianchi e neri fosse possibile solo attraverso
un rovesciamento di tutte le forme in cui questa contrapposizione era
interiorizzata e vissuta. In altre parole, sarebbe stato necessario, prima di
intraprendere qualsiasi azione di tipo politico, che i neri d’America,
congiuntamente alle popolazioni oppresse di tutto il mondo, si liberassero
definitivamente della colonizzazione culturale e psicologica imposta da secoli
di dominio da parte dell’uomo bianco.
4.5. Da Stokely Carmichael a Kwame Turé
In Strategia del Potere Nero, Carmichael sostiene che il primo
fondamentale passo che i neri d’America avrebbero dovuto compiere fosse
quello di ridefinire se stessi: “solo quando i neri avranno sviluppato pienamente
un senso collettivo e una nuova immagine di se stessi, potranno iniziare ad
66
R. Giammanco, op. cit., 1967, p.234
67
Ibid., p.234
102
affrontare efficacemente i problemi del razzismo. Quello di cui abbiamo
principalmente bisogno”, scrive Carmichael, “è riscattare la nostra storia e la
nostra identità dal terrorismo culturale, dalla spoliazione che il senso di colpa
dei bianchi ha operato nei nostri confronti per potersi giustificare” (S.
Carmichael, C. V. Hamilton, 1967, p.73).
Sarebbe proprio l’acquisizione di questa “nuova consapevolezza” il
primo momento imprescindibile della lotta, il punto cardine del concetto di
Black Power. Il significato di Potere Nero consiste, nelle parole di Carmichael,
“nel sentire il bisogno di proclamare le proprie definizioni, recuperare la
propria storia e la propria cultura, creare il proprio senso della comunità e dei
legami collettivi. La comunità negra”, prosegue, “avrà un’immagine positiva di
se stessa, un’immagine che essa si è creata. Non ci chiameremo più pigri,
apatici, ottusi, incostanti, amanti della bella vita: questi sono i termini di cui si
serve l’America bianca per definirci, e se noi li accettiamo, come alcuni di noi
hanno fatto in passato, ci consideriamo solo al negativo, proprio come
l’America bianca vuole che ci si consideri. Lo stimolo che ci spinge cade, e la
nostra volontà viene meno. D’ora in poi noi ci considereremo afro-americani,
gente di pelle nera piena di energie, risoluta, intelligente, bella e amante della
pace ” (ibid., p.76).
La perdita di una propria tradizione e di una identità culturale veniva
fatta risalire agli inizi della tratta degli africani nel continente americano.
Secondo un’analisi di Charles Silberman, il processo di asservimento, avvenuto
secoli prima, assoggettò l’africano ad una serie di traumi che tendevano a
separarlo dalla sua civiltà e dalle sue istituzioni e a distruggere il suo senso di
identità: dalla lunga marcia dal luogo di cattura al mare, alla terribile traversata
transoceanica, fino all’essere marchiati con un numero all’arrivo nei campi di
“adattamento” nelle Indie Occidentali. Poiché nelle società dalla cultura orale il
nome di un uomo viene considerato parte essenziale della sua personalità,
103
l’essere marchiati con un numero, e perdere quindi il proprio nome, significava
la perdita della propria identità (C. Silberman, 1968).
Si può dire che sia in questa perdita originaria che risieda il significato
che Malcolm X e i Black Muslims attribuivano al rifiuto dei propri cognomi
“da schiavi”. Essi usavano talvolta sostituire i cognomi dati ai loro antenati
dall’uomo bianco con una “x”, talvolta invece adottavano per intero nomi
africani nel tentativo di recuperare quell’identità sottrattagli secoli prima dai
conquistatori europei.
Secondo i sostenitori del Black Power, anche l’atteggiamento dei
bianchi nei confronti dei neri affondava le sue radici nell’antico rapporto di
schiavitù: “il fatto della schiavitù doveva avere una profonda ripercussione sui
successivi atteggiamenti della società in generale nei confronti dei negri. Esso
contribuì a stabilire la superiorità di gruppo. […] L’emancipazione degli
schiavi per mezzo di un atto giuridico non poteva certamente togliere simili
concezioni dalla mente dei razzisti. Essi credevano nella loro superiorità
sociale, non nei pezzi di carta; e tale credenza è rimasta” (S. Carmichael, C. V.
Hamilton, 1967, p.63).
Nel ridefinire l’identità storica delle popolazioni afroamericane,
Carmichael insisteva sulla connessione culturale tra tutte le genti di colore del
mondo. I richiami a una comune origine africana, e quindi a un’identità
spirituale comune, erano frequenti nei suoi discorsi di piazza. Nella sua
autobiografia, scritta a pochi anni dalla sua morte (1998) e pubblicata
postuma68, possiamo ritrovare chiaramente e a più riprese questa convinzione.
Accanto all’aspetto strettamente politico della lotta per l’emancipazione delle
68
S. Carmichael; E. M. Thelwell, Ready for Revolution. The Life and Struggle of Stokely
Carmichael (Kwame Turé), New York, Scribner, 2003
104
genti di colore, si può individuare un vero e proprio sentimento di appartenenza
alla “Madre Africa” (espressione da lui stesso usata varie volte nel testo).
Dopo essere stato a Cuba, nel Vietnam, in Algeria, Carmichael
raggiunge il luogo in cui realmente desiderava dare il suo contributo, la
Guinea, nelle sue parole la “ancestrale terra madre”: “dopo aver visto tutte
queste società rivoluzionarie, volevo ora vedere come la lotta andava avanti
nella mia casa ancestrale, tra la mia gente, il sangue del mio sangue. E la
Guinea era il posto giusto” (Carmichael, Thelwell, 2003, p.608). Carmichael si
trasferì definitivamente in Guinea nel 1969, con l’intento di collaborare nella
creazione di un’organizzazione che riunisse non solo tutta l’Africa, ma tutte le
genti di colore sparse per il mondo. Qui cambiò il suo nome da Stokely
Carmichael a Kwame Turé.
Nell’anno precedente il suo arrivo, Sékou Touré aveva dichiarato
ufficialmente Kwame Nkrumah co-presidente della Repubblica di Guinea,
dopo che il leader ghanese, nel 1966, era stato deposto da un colpo di stato e
costretto all’esilio. “Ciò che più mi impressionò” scriverà Carmichael “fu il
modo sensibile e onesto in cui Sékou Touré, il suo governo, il suo partito
fecero questo, nel vero spirito del Panafricanismo e in nome dei più alti valori
della nostra cultura tradizionale” (ibid., p. 610).
Quando alla fine del 1960 i due terzi dell’Africa erano ormai liberi, la
voce di Nkrumah seguitava a parlare il linguaggio del Panafricanismo, degli
Stati Uniti d’Africa, dell’unità continentale. Ma l’Africa libera non lo ascoltava
più con la stessa attenzione con cui lo ascoltava l’Africa assoggettata. Il ruolo
di guida gli sfuggì di mano. Ad affievolire la popolarità di Nkrumah contribuì
poi la sua gestione politica ed economica del Ghana indipendente, che negli
anni assunse le caratteristiche di un vero e proprio totalitarismo (cfr. T. Filesi,
1966).
105
Nel settembre del 1959 scompariva prematuramente anche l’abile
compagno di lotta che era stato George Padmore, l’uomo che Nkrumah aveva
voluto con sé nel Ghana quale consigliere e forse ispiratore; di lì a non molto
sarebbe uscito per sempre di scena anche lo scrittore negro-americano Richard
Wright, che a Nkrumah e alla Costa d’Oro aveva dedicato l’opera che con il
suo titolo Black Power voleva celebrare nella indipendenza della Costa d’Oro il
rito dell’Africa risorta e liberata. Ma la sua prospettiva panafricanista non si
spense, e anzi ritrovò nuovo vigore durante il suo esilio, grazie alla
collaborazione più stretta con il leader guineiano e al lavoro di giovani attivisti
arrivati in Africa, e in Ghana, appositamente per rendersi utili alla causa – tra
cui appunto Stokely Carmichael.
Nel suo Handbook of Revolutionary Warfare del 1968, Nkrumah
chiedeva la formazione di un partito di tutti i popoli del continente come
veicolo permanente della lotta. Egli immaginava “un partito politico che unisca
tutti i territori liberi e i partiti combattenti sotto una comune ideologia, e che
spiani quindi la strada per un’unità continentale nell’assistere la prosecuzione
della battaglia di tutte le genti africane”69. L’azione di Carmichael, dopo aver
incontrato Nkrumah a Conakry nel 1968, perseguiva questo obbiettivo, ma non
solo. Egli proporrà al leader ghanese la creazione di un partito panafricano che
comprendesse tutte le genti di colore del mondo. Scrive Carmichael: “Osageyfo
aveva già scritto che ‘tutti i popoli di ascendenza africana, sia che vivano nel
Nord o nel Sud America, nei Caraibi, o in qualsiasi altra parte del mondo, sono
Africani e appartengono alla nazione Africana’. Quindi fu facile per me
convincerlo che gli Africani della diaspora avevano un ruolo importante da
assumere in questa campagna. Questo avrebbe richiesto ovviamente
consapevolezza, organizzazione e unità di propositi da parte nostra. Fu allora
69
K. Nkrumah, Handbook for Revolutionary Warfare, New York, International Publishers,
1969, p.49
106
che egli mi onorò di affidarmi la missione di iniziare il lavoro... La missione:
lavorare per costruire un partito usando un semplice messaggio: ‘We are an
African peolple’” (Carmichael, Thelwell, 2003, p.675. Corsivo dell’autore).
Il concetto di consciousness – che qui tradurremo con il termine
“consapevolezza” – di Nkrumah, venne pienamente adottato da Carmichael,
che nella sua autobiografia afferma: “la consapevolezza viene raggiunta con
l’acquisizione di conoscenza... Tutte le persone consapevoli, e specialmente noi
Africani, abbiamo la responsabilità di combattere attraverso la raffica di
informazioni e disinformazioni che arrivano dai media capitalisti, così da
capire nella giusta maniera i conflitti sociali, politici ed economici che ci
affliggono. Quindi di capire il nostro dovere storico di portare avanti la
trasformazione delle nostre genti e delle nostre società verso un migliore e più
umano stile di vita. Questa è una responsabilità che abbiamo per tutta la vita.
Essa inizia con la consapevolezza” (Carmichael, Thelwell, 2003, p.674).
“Forse la prima cosa veramente importante che Osageyfo mi disse –
durante il nostro primissimo incontro – riguardava la consapevolezza e l’unità
delle nostre battaglie. Che ce ne rendessimo conto o no, disse, la lotta degli
Afro-Americani è inestricabilmente legata alla lotta in Africa e viceversa. Tra
noi, coloro i quali erano consapevoli di questo avevano la responsabilità di
spiegare questa connessione a coloro che non se ne accorgevano. L’arma
migliore del nemico, disse, era la mancanza di consapevolezza tra la nostra
gente. Osaygefo in questo aveva ragione” (ibid., p. 675).
Insieme agli altri giovani che costituivano l’entourage che Nkrumah si
era creato, Carmichael lavorerà da quel momento in poi all’organizzazione di
un nuovo partito panafricano, che prenderà il nome di All-African People’s
Revolutionary Party (A-APRP). In quello stesso anno venne organizzato il
primo circolo di lavoro/studio del partito a Conakry, e contemporaneamente
Carmichael, allora leader dei Black Panthers, organizzò a Washington D.C. un
107
incontro per la formazione dello stesso partito. L’A-APRP venne fondato
ufficialmente nel 1968 da Kwame Nkrumah. Ogni membro del partito, dopo un
iniziale orientamento sugli obbiettivi, i principi e l’ideologia del partito,
venivano assegnati a dei circoli di lavoro e studio, che costituivano le unità di
base. Le letture formative comprendevano autori quali C. L. R. James, Franz
Fanon, George Padmore, Kwame Nkrumah, Karl Marx.
108
Capitolo 5
Considerazioni conclusive
Il movimento del Black Power può essere considerato il momento di un
processo più ampio che comprende tutti i movimenti della blackness, di stampo
politico o culturale, che auspicano una rottura con la società dominante nella
ricerca di una propria identità, da rinvenirsi nel legame con l’Africa. In questo
lavoro, abbiamo segnato un punto di origine di tale processo, individuando
nelle teorie afrocentriche del XIX secolo gli albori del pensiero panafricanista.
Movimenti come la Négritude o il Garveysmo, trovano ispirazione nel pensiero
di “protonazionalisti” quali furono Blyden e Volney. Le radici del
Panafricanismo di Nkrumah sono rintracciabili invece più nel pensiero e
nell’attivismo di W.E.B. DuBois, che attribuiva alla comune esperienza della
schiavitù, più che alla “razza” in senso stretto, la fonte del senso di
appartenenza a una comunità nera che si estendeva dall’Africa all’Europa e alle
Americhe.
Il movimento del Black Power trova la sua peculiarità nel particolare
periodo storico in cui si sviluppa. La Seconda Guerra Mondiale segna un punto
di svolta nella presa di coscienza del potenziale politico delle popolazioni
afroamericane, mentre la decolonizzazione in Africa costituisce un’ulteriore
spinta a ricercare il potere politico e ad internazionalizzare il movimento. In
questa sezione esamineremo più nel dettaglio le tre direttive principali del
109
movimento del Black Power e degli elementi che costituiscono il pensiero del
suo leader. Stokely Carmichael – come Malcolm X prima di lui – riteneva che
il primo passo che i neri d’America avrebbero dovuto compiere per la propria
emancipazione fosse quello di ridefinire se stessi (crf. § 4.5.). In altre parole,
occorreva liberarsi del senso di inferiorità, a livello psicologico, che secoli di
dominio avevano infuso nella gente di colore, cercando una definizione del sé
africano che permettesse l’acquisizione di una propria dignità personale. La
ridefinizione di se stessi, comportava anche una ridefinizione della propria
storia. Ma se Blyden, Volney, Cheik Anta Diop avevano tentato di riscrivere la
storia dell’Africa in risposta a una produzione intellettuale europea che la
voleva selvaggia e senza passato, il Panafricanismo di Nkrumah e di
Carmichael ha l’intento di iniziare ad essere parte di quella storia. Accanto a
questi due aspetti, va preso in considerazione il carattere pan-nazionalista del
movimento del Black Power e del Panafricanismo a cui si lega. Inizieremo la
nostra analisi proprio da questo punto.
5.1. Black Power e pan-nazionalismo
Negli scritti del movimento della Négritude e del Panafricanismo, la
“nazione” assume un significato che non è legato a un’entità geografica o
politica, ma si riferisce al senso di una cultura e di una soggettività condivisa e
all’essenza spirituale che si estende al di sopra delle divisioni e delle entità
politiche. Entrambi questi movimenti hanno sostenuto una solidarietà razziale
pan-nazionale, hanno chiesto la fine della supremazia bianca e della
dominazione imperialista e hanno celebrato in maniera positiva l’essere neri e
specialmente l’essere africani neri, come un modo di essere culturale e razziale
differente (cfr. A. Loomba, 2000).
110
Jean-Paul Sartre, nella sua antologia di poesia nera, ha identificato il
sentimento condiviso di una coscienza nera nella poesia di diversi scrittori neri
che stava presentando70. Per Sartre, la Négritude era una particolare fase storica
della coscienza nera, mentre per Senghor la differenza e la coscienza razziali
facevano parte della realtà umana, formata storicamente, ma che riflette uno
stato interiore che non è soltanto una fase transitoria della storia. Per Senghor,
l’esperienza del colonialismo, è un’esperienza razziale e crea quella che egli
chiama “una personalità collettiva del popolo nero” (Senghor, 1994, cit. in
Loomba, 2003, p.207). Nell’opera di Senghor, la razza nera è associata
esclusivamente con l’Africa, nel senso che l’Africa fornisce una radice comune
per i popoli neri di tutto il mondo e una cultura africana comune gli sembra che
sopravviva nelle sotto-culture nere, ovunque e soprattutto nelle Americhe.
Franz Fanon è stato molto critico verso il movimento della Négritude e
ha descritto la sua letteratura come “scritti violenti, risonanti, floridi che
nell’insieme serve a rassicurare il potere di occupazione”, dal momento che
sono scritti nei termini, con il linguaggio e a favore di quel potere da parte di
una intelligentia indigena, assimilata anche se protestataria (Fanon, 2000,
p.192). Fanon, al contrario, propone una “letteratura nazionale”, una
“letteratura di combattimento” diretta verso il popolo, coinvolta nella
formazione di una coscienza nazionale e impegnata nella lotta per la
liberazione nazionale. Per Fanon, gli intellettuali indigeni che si impegnano
“per l’affermazione incondizionata della cultura africana” sbagliano, perché
questa categoria semplicemente inverte gli stereotipi coloniali. Per Césaire,
d’altro canto, è la nazione che è un “fenomeno borghese” e il vero radicalismo
richiede che si creino solidarietà al di sopra dei suoi confini (Césaire, 1999).
A questo proposito, Benedict Anderson, in Comunità Immaginate, ci
avverte che gli stati-nazione nati dalle lotte anti-imperialiste, sono ovunque
70
J. P. Sartre, Orphée Noir, op. cit.
111
pensate secondo le linee di modelli precedenti. Anderson spiega la dipendenza
dai modelli europei con il fatto che le esperienze americane ed europee
“venivano ormai immaginate modularmente in diversi luoghi” in parte perché
gli “idiomi europei che usavano come lingue di stato erano l’eredità
dell’ufficial-nazionalismo imperialista” (Anderson, 1996, p. 119). Nelle
colonie l’intelligentia indigena giocava un ruolo cruciale nella creazione della
coscienza nazionalista, perché era bilingue e aveva accesso “alla cultura
occidentale nel senso più ampio, e in particolare ai modelli del nazionalismo,
della nazion-ità e dello stato-nazione, che erano stati prodotti altrove nel corso
dell’Ottocento” (ibid. p. 122). In altre parole, il nazionalismo anti-coloniale è
esso stesso reso possibile e generato dalla storia politica e intellettuale europea.
Partha Chatterjee precisa, a tale proposito, che mentre il nazionalismo come
movimento politico può essere considerato un “discorso derivativo” – come
sosteneva Anderson – il nazionalismo come costruzione culturale che rende
possibile al colonizzato di affermare la propria differenza e autonomia ottiene
la propria energia da altre fonti. L’anti-colonialiso non sarebbe modellato solo
su un’imitazione, ma anche sulla definizione della sua differenza rispetto alle
nozioni occidentali di libertà e di dignità umana (cfr. Chatterjee, 1993).
Ben prima di lanciarsi contro lo stato coloniale, il nazionalismo
anticoloniale cerca di creare “il proprio campo di sovranità all’interno della
società coloniale”: “in effetti, il nazionalismo lancia qui il suo progetto più
potente, creativo e storicamente significativo: creare una cultura che sia
nazionale e “moderna” ma che non sia occidentale. Se la nazione è una
comunità immaginata, allora questo è il luogo dove si mostra di più. In questo
campo, che è quello più suo e più vero, la nazione è già sovrana anche se lo
stato è nelle mani del potere coloniale” (ibid., pp. 6-7).
Ritenendosi gli stessi promotori del Black Power in una situazione del
tutto assimilabile a quella coloniale (cfr. § 4.4.), possiamo estendere questo
112
schema anche alle dinamiche del nazionalismo nero statunitense degli anni
Sessanta. Il “campo di sovranità” a cui si riferisce la Chatterjee, che è di
carattere prima culturale che politico, è costituito dalla produzione intellettuale
afroamericana e dall’azione dei precursori del nazionalismo nero. DuBois vede
nella “linea del colore” l’ostacolo principale al benessere economico e alla
libertà politica dei neri in America; il cosiddetto “Rinascimento Nero”
americano esalta le produzioni artistiche afroamericane mentre il separatismo
di Garvey prima e della Nation of Islam poi spingono oltre la protesta creando
istituzioni nere parallele. Il Black Power, attraverso l’azione dello SNCC e di
altri movimenti quali il CORE o il BPP, ricerca il “proprio campo di sovranità
all’interno dello stato coloniale” creando delle strutture di potere politico locali,
come basi di un obiettivo lungimirante: far arrivare la comunità nera a
posizioni di forza a livello governativo (cfr. § 4.1). La ricerca di un proprio
spazio politico legato al “colore” è ancor più evidente se si considera il distacco
dalla Nuova Sinistra americana, che pur basandosi su un’ideologia antioccidentale e anti-imperialista in comune con il movimento del Black Power,
viene da quest’ultimo rifiutato come collaboratore nella lotta per il potere degli
esclusi dal Sogno Americano (cfr. § 4.3). La “comunità immaginata” del
movimento è creata quindi sulla base del “colore”. Per questo motivo essa
trascende i confini statunitensi, ed è costituita da tutte le genti di colore in
Africa e nelle Americhe. Da qui la spinta all’internazionalizzazione del
movimento e il tentativo di Stokely Carmichael di creare un partito politico che
unisse la lotta all’emancipazione dell’Africa con quella in corso negli Stati
Uniti (cfr. § 4.5).
Sia il nazionalismo che i pan-nazionalismi creano delle comunità che
poi devono essere dotate di un’unicità storica, razziale e culturale, che in
pratica semplifica formazioni culturali complesse e mette in opera le proprie
esclusioni. Il libro di Paul Gilroy, The Black Atlantic, individua invece una
113
cultura nera pan-nazionale lungo linee molto diverse. Gilroy è critico sia
dell’assolutismo etnico che del nazionalismo culturale. Egli sottolinea che la
nazione è troppo spesso considerata, anche dagli analisti radicali, come il luogo
privilegiato della produzione materiale, della dominazione politica e della
ribellione. Raramente si ammette quanto la nazione stessa sia sincretica. Gilroy
descrive una cultura nera condivisa, una formazione transculturale e
internazionale “che io chiamo Atlantico Nero” e che non è radicata in una
essenza nera ma nelle esperienze storiche condivise e nei movimenti dei popoli
neri durante il periodo coloniale (cfr. Gilroy, 2003, p. 19). Egli suggerisce che
le nazioni occidentali sono esse stesse profondamente permeate e costituite da
questa diaspora africana, le cui esperienze storiche formano la base di una
cultura nera condivisa, a cui quindi non si può pensare nei termini di un
essenzialismo razziale o semplicemente ritornando alle radici africane precoloniali. Così, la sua idea di Atlantico nero arriva a mostrare l’inadeguatezza
sia della “nazione” che della “razza” come elementi privilegiati dell’identità
culturale (cfr. Loomba, 2000).
The Black Atlantic va inquadrato nello scenario dei più recenti black
studies, i quali hanno accusato il nazionalismo culturale nero di aver promosso
una visione essenzialista dei concetti di cultura e di soggetto e quindi di aver
riprodotto le stesse strutture razziste che intendeva combattere. Pur
collocandosi all’interno della prospettiva postmoderna, uno degli obbiettivi
primari di Gilroy è la riforma dell’anti-essenzialismo corrente nell’analisi
socio-culturale e nella lettura politica dell’identità nera (cfr. M. Mellino, 2003).
Nell’ottica di Gilroy, essenzialismo e anti-essenzialismo rappresentano due
approcci ugualmente limitanti: il primo, privilegiando le affinità tra le diverse
comunità nere, a scapito delle differenze, finisce per ricreare un’essenza di tipo
ontologico, una soggettività nera che non fa che riproporre la concezione
umanistica moderna del soggetto, alla base dell’etnocentrismo occidentale; il
114
secondo, favorendo le differenze a scapito delle affinità, finisce per rendere del
tutto impensabile l’idea di una comunità black e quindi si dimostra innocuo nel
combattere la forza della discriminazione razziale (cfr. M. Mellino, 2003).
Diversamente da alcuni degli autori maggiormente associati agli
sviluppi del paradigma degli studi postcoloniali, come Edward Said, Homi K.
Bhabha o Gayatri Spivak, impegnati soprattutto nel lavoro di decostruzione di
ogni pretesa di soggettività culturale, il progetto di Gilroy è finalizzato alla
costruzione di un nuovo o diverso “soggetto” (cfr. Loomba, 2000). In termini
più precisi, il suo tentativo è quello di recuperare all’approccio antiessenzialista il progetto politico trans-culturale del primo attivismo nero, vale a
dire quella ricerca, tipica di movimenti quali il Panafricanismo e la
Negritudine, di elementi e caratteri particolari che possano definire in qualche
modo la comune condizione storico-sociale di africani, afroamericani,
afrocaraibici e afroeuropei al di là delle loro ineliminabili differenze. L’essenza
dell’Atlantico nero è costituita da una cultura nera diasporica, intesa come una
forma transnazionale di creatività culturale, irriducibile a qualsiasi tradizione
nazionale o base etnica. L’Atlantico nero di Gilroy si presenta quindi in una
dimensione diversa, per non dire opposta, da quella della stato-nazione
moderno, ovvero propone forme di identità diverse da quelle nazionali. Non è
l’eredità o la radice culturale africana a garantire di per sé la conformazione
della diaspora, anche se ne costituisce uno degli elementi chiave. Secondo
Gilroy, il perno attorno a cui occorre costruire l’idea di una diaspora africana è
invece la memoria della schiavitù, dell’esperienza coloniale e delle diverse
forme di discriminazione razziale subite nel corso della storia. Per Gilroy, ciò
che unisce tutte le comunità della diaspora africana disseminate in diverse zone
del mondo è un sentimento di appartenenza razziale prodotta dall’esperienza
sociale stessa, come effetto di una tecnologia di potere che si iscrive sul corpo
(cfr. P. Gilroy, 2003, pp. 41-42).
115
La nazione del panafricanismo non è quindi un luogo, ma un popolo,
distribuito geograficamente tra le sponde dell’Atlantico Nero, e attraversato
culturalmente dalla linea del colore e dall’esperienza della schiavitù.
5.2. Aspetti psicologici del dominio sul nero
In epoca di regime schiavista gli africani si rivelarono la salvezza
economica per l’uomo bianco poiché a causa del loro colore li si poteva
sorvegliare facilmente. Dopo l’Emancipazione la passata condizione di schiavi
restava immediatamente visibile per via di tratti fisici facilmente riconoscibili.
Così, se i bianchi poveri immigrati dall’Europa che erano stati dei servi (anche
se mai usati come beni patrimoniali sanciti dalla legge), una volta fuggiti
riuscivano ad assimilarsi con la società e a scrollarsi di dosso, nelle generazioni
successive, l’umiliazione di un passato degradante, per i neri ciò risultò da
sempre impossibile (cfr. J.H. Franklin, A.A. Moss, 2003, p. 49).
Il perpetuarsi nel tempo della condizione di sottomissione di un intero
gruppo sociale era garantito, quindi, dal colore della pelle. In altre parole, i neri
che vivevano negli Stati Uniti erano portatori di uno stigma goffmaniano che
condizionava irrevocabilmente sia l’atteggiamento della popolazione bianca nei
loro confronti, sia l’atteggiamento che questi adottavano nei confronti di se
stessi. Il fatto della schiavitù, infatti, contribuì a stabilire il senso di superiorità
di gruppo nella popolazione bianca e, cosa ancor più importante, a radicare il
senso di inferiorità nella popolazione nera.
Di generazione in generazione, questa convinzione sottintesa trovava
conferma nella situazione socio-economica che permaneva nella comunità afroamericana, sia rurale che urbana. In Ghetto Negro, lo psicologo Kenneth Clark
afferma che “gli esseri umani che sono costretti a vivere nelle condizioni che
116
sole offrono i ghetti e a cui le esperienze quotidiane insegnano che quasi mai
nella società essi sono rispettati e trattati con il rispetto e la cortesia
comunemente accordati agli altri, finiranno naturalmente col dubitare del loro
stesso valore. Poiché ogni essere umano, soprattutto per la considerazione in
cui deve tenere se stesso, dipende dalle esperienze che ha accumulato nei suoi
rapporti con gli altri, è comprensibile che i bambini che vengono
continuamente respinti comincino a dubitare e a chiedersi se essi, la loro
famiglia e il loro gruppo, davvero non meritino dal resto della società più
rispetto di quanto ricevano. Questi dubbi sono il seme di un odio pernicioso,
individuale e di gruppo, e dei complessi e del debilitante pregiudizio che il
negro ha verso se stesso: i negri hanno finito col credere nella propria
inferiorità” (K. B. Clark, 1969, pp. 97-98).
Già alle sue origini, negli Stati Uniti e in tutte le altre colonie inglesi, la
schiavitù venne associata alla razza e la razza all’inferiorità. Qui la schiavitù si
manifestò sotto una forma particolarmente brutale, perché essa, all’interno di
quelle società, non trovava precedenti, né nella tradizione, né nel diritto
comune. Mentre in Portogallo e in Spagna, paesi cattolici, la schiavitù veniva
considerata come una normale condizione umana, l’America e l’Inghilterra,
paesi protestanti, vedevano invece la schiavitù come una condizione
completamente innaturale. In questi paesi la servitù era stata abolita da tempo,
mentre la schiavitù era scomparsa con gli antichi romani. L’introduzione della
schiavitù in una società di uomini liberi creò quindi un vero dilemma, che fu
comodamente risolto ammettendo a priori l’inferiorità degli africani. Se i neri
erano degli esseri intrinsecamente inferiori, se mancava loro la capacità di
essere liberi, allora la schiavitù poteva essere giustificata ed anche difesa come
un beneficio reso agli stessi schiavi oltre che ai loro padroni. Le norme e le
abitudini che si svilupparono da questo fondamento logico crearono a loro
volta un sistema che trasformò gli schiavi in esseri dipendenti, servili ed
117
infantili che sembravano veramente incapaci di essere liberi (cfr. C. Silberman,
1968).
Per il movimento nero degli Stati Uniti, lo psicanalista martinicano
Franz Fanon rappresenta un’immagine chiave: le sue analisi sul contrasto e la
contrapposizione fra due mondi, del colono e del colonizzato, così come la
teoria della violenza rivoluzionaria, si applicano in modo pertinente a molti
aspetti della condizione dei neri in America (cfr. G. Pirelli, 1971). Il pensiero
di Fanon psichiatra va ricercato in alcuni aspetti degli scritti generalmente
considerati come “politici”. Ciò che interessa a Fanon non è di commentare e
di spiegare il significato psicologico delle particolarità del singolo caso clinico,
o di un certo tipo di disturbo, in rapporto a interpretazioni psicoanalitiche,
psichiatriche o socio- psichiatriche. L’obiettivo di Fanon è puntato sulla
psichiatria tutta intera, che egli mette in questione e di cui egli cerca una nuova
definizione: per questo motivo talora egli allarga il significato del termine
“alienazione” alla condizione psicologica dell’intero popolo colonizzato, talora
mostra come la comparsa di particolari crisi comportamentali sia dovuta a
fattori strettamente storici e di classe, più spesso analizza le modalità
psicologiche dell’oppressione e della liberazione dell’uomo e della donna, in
cui si dissolvono le concezioni tradizionali del normale e dell’abnorme
psichico (cfr. Pirelli, ibid).
Così, il modo in cui il colonizzato vede se stesso, e il mondo, e il
colono; il modo in cui il colono, il medico e lo psichiatra bianchi vedono il
colonizzato; e in seguito l’insubordinazione del colonizzato, che trova
finalmente un oggetto reale alla propria aggressività, che è l’aggressività che il
colonialismo ha portato in lui; e infine la presa di coscienza, l’aspetto
psicologico della trasformazione politica del militante nella sua azione: tutti
questi sono elementi di un unico discorso che Fanon conduce sulla psichiatria,
contro la psichiatria occidentale, sul problema della coscienza, della presa di
118
coscienza, e degli ostacoli e delle spinte su questo itinerario umano di
liberazione dei suoi pazienti, dei suoi algerini, dei dannati della terra. Fanon
non sfugge al problema disturbante della reale inferiorità personale, della
miseria psicologica delle masse: i contadini, gli inurbati delle bidonvilles,
coloro che da generazioni si riconoscono solo come sudditi , non sono solo
persone prigioniere di tradizioni e condizionamenti reazionari e ottusi: sono
individui diminuiti e sviati nelle loro stesse capacità psicologiche, per
l’insufficiente alimentazione, la poca salute, ma soprattutto l’umiliazione e
l’aridità quotidiana della miseria. Da qui l’impossibilità a farsi soggetto politico
e a entrare nella storia, e la sofferenza che di questa impossibilità è concausa e
conseguenza (cfr. Pirelli. 1971).
Il Black Power indica come primo passo dell’acquisizione di potere
politico la spoliazione dal senso di inferiorità razziale e la presa di coscienza
del proprio potenziale. Tutti i promotori del Black Power considerano lo stato
di menomazione psicologica la causa prima dell’inattività politica della
popolazione afroamericana, che pur consistente nel numero non aveva mai
fatto sentire la propria voce da posizioni di forza.
Fanon denuncia l’inganno della inferiorità di classe spacciata per
inferiorità psico-biologica, che tende a estendersi al di là del modulo razzista
tradizionale, per essere copertura scientifica che risponde a precisi interessi del
capitale. E in effetti, alcuni dei concetti più importanti del marxismo, come
l’alienazione o l’ideologia, hanno una dimensione psicologica e non solo
sociale. Il contributo cruciale di Antonio Gramsci, ad esempio, è stato quello di
riconoscere l’importanza della soggettività nello studio della dominazione (cfr.
Loomba, 2000). Una soggettività annientata dal “segno del plurale” – come ci
spiega Albert Memmi – un “segno della depersonalizzazione del colonizzato”:
“Il colonizzato non è mai caratterizzato in modo individuale e appare solo
all’interno di una collettività anonima” (A. Memmi, 1979, p.52). Descrivendo e
119
patologizzando gli africani e i neri in generale, in modo da poter definire gli
europei come assolutamente differenti, il bianco risultava essere sempre
soggetto (individuale) di contro a un oggetto (collettivo) psicologicamente
inferiore. Il discorso della psicologia e della psichiatria coloniali patologizzava
la differenza, perché “non era in grado di contenere qualsivoglia nozione della
differenza che non fosse direttamente legata alla questione dell’inferiorità e alla
necessità della subordinazione” (Vaughan, 1991, p.115).
Il lavoro di Franz Fanon interveniva direttamente sull’eredità delle teorie
razziste sullo sviluppo biologico e psicologico, ad esempio sulla concezione
freudiana dello sviluppo culturale. In Totem e Tabù (1913) e ne Il Disagio della
Civiltà (1930), Freud considerava lo sviluppo storico e culturale delle
popolazioni simile alla crescita individuale psichica e biologica. La crescita di
un bambino verso l’età adulta e il progresso sociale dalla barbarie verso il
monoteismo e il patriarcato (i criteri di Freud della civilizzazione umana) erano
costruiti l’uno sull’altro. I “primiitvi” erano quindi simili ai bambini e ai
“nevrotici” civilizzati, perché non avevano raggiunto la crescita psicologica
dell’europeo adulto (cfr. Loomba, 2000).
Il “complesso di dipendenza” di Adler inoltre, venne ripreso da Octave
Mannoni per spiegare il meccanismo psicologico sottostante il processo della
colonizzazione europea. Fanon criticò aspramente il saggio di Octave Mannoni,
Prospero e Calibano. La Psicologia della Colonizzazione71. In quest’opera
l’autore sosteneva che alcuni popoli (“arretrati”) venivano colonizzati perché
affetti da un “complesso di dipendenza” irrisolto che li portava a rivedere i loro
antenati e a trasferire la stessa riverenza sui loro colonizzatori. In questo modo
egli spiegava la colonizzazione suggerendo che si trattasse del risultato delle
71
O. Mannoni, Prospero and Caliban. A Study of the Psycology of Colonization, Methuen,
Londra, 1956
120
differenze psichiche tra quelli che mostravano tale dipendenza e altri, che
diventavano i colonizzatori, che temevano invece la propria inferiorità e
cercavano modi per dimostrare il proprio valore. “A mio parere non c’è dubbio
che la colonizzazione ha sempre dipeso dal bisogno di dipendenza. Non tutti i
popoli possono essere colonizzati: solo quelli che provano questo bisogno” (O.
Mannoni, 1956, p.85). Mentre Mannoni aveva considerato il colonialismo
come risultato delle differenze psichiche fra le razze, Fanon sosteneva che in
realtà il colonialismo era la causa che creava la differenza psichica fra le razze
e annichiliva il soggetto nero fino ad annullarlo (Fanon, 1996).
Secondo Fanon, il colonizzato non poteva affrontare la sua condizione di
sottomesso, perché il colonialismo erodeva il suo stesso essere e la sua
soggettività. Fanon apriva il suo Pelle Nera, Maschere Bianche asserendo:
“Anche se dovessi espormi al risentimento dei miei fratelli di colore, direi che
il Nero non è un uomo” (F. Fanon, 1996, p.8). L’esperienza coloniale annullava
cioè il senso del sé del colonizzato, lo congelava in una forma di oggettività e
questo era il motivo per cui “non è un uomo”.
Fanon rielabora lo schema di Lacan della “fase dello specchio”,
considerato da questi il passaggio fondamentale nella formazione del soggetto.
Secondo Lacan, quando il bambino si vede per la prima volta in uno specchio,
vede un riflesso più tranquillo, più coordinato e stabile di se stesso. Il soggetto
costruisce se stesso imitando e allo stesso tempo opponendosi a
quell’immagine (cfr. Loomba, 2000, p.147). Scrive Fanon: “Una volta
compreso il meccanismo descritto da Lacan, non si può più avere alcun dubbio
sul fatto che il vero Altro per l’uomo bianco è e continuerà ad essere il nero. E
viceversa. Ma per l’uomo bianco l’Altro è percepito a livello della sua
immagine corporale, assolutamente come il non-sé, cioè il non identificabile, il
non assimilabile” (Fanon, 1996, p.171). Per l’uomo bianco (e la donna bianca)
il nero è caratterizzato dal suo colore e dalla sua sessualità, che si suppone
121
illimitata. La “negrofobia” accende la paura e il desiderio della grande
sessualità nera. Per il soggetto bianco, l’Altro nero è tutto quello che si trova
fuori del sé. Per il soggetto nero, però, l’Altro bianco definisce tutto ciò che è
desiderabile, tutto ciò che il sé desidera. Il desiderio è inserito in una struttura
di potere per cui l’uomo bianco non è solo l’Altro ma anche il padrone, vero o
immaginario. Quindi l’Altro nero conferma il soggetto bianco, ma il bianco
svuota il soggetto nero, che non può definirsi con ciò che è continuamente
negato dalla struttura razzista e colonialista. La persona di colore cercherà di
affrontare la situazione adottando una maschera bianca che renderà possibile
nascondere il suo essere nero (cfr. Fanon, 1996).
Abbiamo visto che già alcuni scrittori della corrente della Négritude, in
primis Aimé Césaire, rifiutavano di adottare tale “maschera bianca”, e
condannavano gli “assimilati”, coloro i quali adottavano i costumi occidentali
nel tentativo di acquisire una propria dignità individuale considerata altrimenti
irraggiungibile (cfr. Cap. 2). Il soggetto diviso di Fanon si lega a questa visione
in quanto lo spaesamento psichico di egli cui parla riguarda in realtà più spesso
le élite degli indigeni o gli individui colonizzati che sono stati educati
all’interno del sistema coloniale, in cui sono stati invitati a muoversi con una
certa libertà, piuttosto di quanti vivono ai margini (Loomba, 2000). Nel caso
del separatismo nero americano, sono invece proprio i marginalizzati coloro ai
quali si rivolge il messaggio della presa di coscienza psicologica. E
l’acquisizione di consapevolezza della propria dignità “razziale” diventa in
questo caso strumento politico, non fine ultimo. Si supera il livello prettamente
intellettuale e ci si ispira proprio a Fanon per il suo tentativo di combinare una
critica e un attivismo socio-politico con un’analisi di soggettività coloniali ed
anti-coloniali. Ma non solo: Pelle Nera, Maschere Bianche ispira il movimento
del
Black
Power
a
prendere
una
posizione
di
distacco
dall’idea
dell’integrazionismo promulgata dal Martin Luther King, proprio per aver
122
rifiutato di adottare quella “maschera bianca” che impediva ai neri d’America
di essere totalmente liberi dal giogo razzista “istituzionalizzato” (cfr, § 3.2 e §
4.2).
5.3. Riscrivere la storia
Alla base delle dottrine che hanno preparato e accompagnato
l’emancipazione dell’Africa c’era l’esigenza prioritaria di dimenticare e far
dimenticare la maledizione che incombeva sul “continente nero”. La tratta e la
schiavitù, il razzismo e il colonialismo avevano umiliato l’Africa fino ad
escluderla dalla storia dell’umanità e dalla stessa civiltà. L’Africa
corrispondeva alla “fine” delle conoscenze dell’Europa, come risulta dal
proverbiale hic sunt leones che le carte geografiche hanno mantenuto per tanto
tempo appena sotto il litorale mediterraneo.
Il verdetto senza appello che ne penalizzava la lunga storia non marcava
solo la percezione dell’Africa che si era formata nel resto del mondo, e in
particolare in Europa e in Occidente. I suoi argomenti ricadevano direttamente
o indirettamente sulla coscienza degli africani e dei neri di tutto il mondo,
condizionando la cognizione che essi avevano di se stessi e quindi i loro
progetti come individui, collettività o nazioni. Anche dopo che con la
decolonizzazione e l’indipendenza l’Africa è rientrata a tutti gli effetti nella
comunità internazionale su un piede di parità, almeno virtuale, con gli altri
popoli e Stati, agli occhi dei più l’Africa continua ad apparire una specie di
“paria” del mondo, senza un retroterra storico degno di essere registrato e senza
speranze per il domani (cfr. B. Davidson, 1990, p.11).
I luoghi comuni e preconcetti presenti già nei testi classici non
implicavano di per sé propositi di sopraffazione. Un’opera del francese Alain
123
Bourgeois, apparsa nel 1971 con una prefazione di Senghor, allora presidente
del Senegal, passa in rassegna i testi più importanti della Grecia antica
sull’Africa, arrivando alla conclusione che le loro relazioni, tutt’altro che
trascurabili per durata e intensità, furono reciprocamente rispettose e feconde
(Calchi Novati, Valsecchi, 2005). E ugualmente il rapporto fra l’Europa e
l’Africa non era preordinato, dall’inizio, alla conquista. Con le parole di Basil
Davidson: “gli europei credevano di aver trovato [in Africa] forme di civiltà
che spesso erano paragonabili alle loro, per quanto diversamente e variamente
addobbate e modellate. [...] Dovremmo ricordare che un diffuso disprezzo degli
europei per gli africani [...] fu un atteggiamento nato dalla tratta atlantica degli
schiavi e più tardi dalle culture del capitalismo europeo” (Davidson, 1990, p.
28). Dell’Africa “continente senza storia” si discetta dai tempi di G. W. F.
Hegel, che scrive, nella Filosofia della Storia: “L’Africa non è una parte
storica del mondo, non offre alcun movimento o sviluppo, alcuno svolgimento
proprio. Vale a dire che la parte settentrionale appartiene al mondo asiatico ed
europeo. Ciò che noi intendiamo propriamente per Africa è lo spirito senza
storia, lo spirito non sviluppato, ancora avvolto nelle condizioni naturali” (cit.
in Calchi Novati, Valsecchi, 2005, p. 29).
Con gli scritti dei viaggiatori e degli esploratori del XIX secolo prese
corpo quella che Valentin Mudimbe, critico letterario e filosofo di origine
congolese, chiama la “biblioteca coloniale”: un corpo di conoscenze costruito
allo scopo di tradurre e decifrare l’oggetto Africa, con i suoi segreti e le sue
potenzialità , in vista della conquista e di una sottomissione incondizionata. In
un certo senso l’Africa viene “inventata” dall’Europa con la mediazione dei
sistemi concettuali e scientifici che appartengono alla cultura europea. È una
rappresentazione dell’Africa che può dare l’impressione di essere più vera
persino della realtà, talmente diffusa e ben motivata che neppure gli africani, a
cominciare dalle élites intellettuali che assorbono i metodi educativi
124
dell’Europa, riusciranno a farne completamente a meno (cfr. V. Mudimbe,
1988).
Invasa e spogliata, l’Africa viene sospinta verso un’alienazione che
l’abituerà
a
cogliere
se
stessa attraverso
le
categorie
dell’Europa.
Paradossalmente, persino i cultori del filone afrocentrico, che esalta
appassionatamente il contributo dell’Africa e dei neri alla civiltà universale,
impiegheranno lo stesso apparato epistemologico (cfr. Calchi Novati,
Valsecchi, 2005, p.31). Ne sono una dimostrazione le ricostruzioni storiche a
opera di coloro che abbiamo collocato tra i primi scrittori dell’afrocentrismo,
come Blyden e Volney, notevolmente influenzati dalle teorie razziologiche
europee, o i poeti della Négritude che scrivono dell’emancipazione dell’Africa
usando esclusivamente una lingua europea.
Gli studi postcoloniali, la corrente postmodernista che si rifaceva al
“discorso sul potere” di Foucault, nonché quella poststrutturalista del
decostruzionismo di Derrida, hanno avuto un impatto rivoluzionario sia sulla
critica letteraria che su movimenti politici come il femminismo o le lotte anticoloniali. Per la critica letteraria ha significato che la storia non solo fornisce
uno sfondo per lo studio dei testi, ma forma una parte essenziale del significato
stesso del testo. All’inverso, i testi e le rappresentazioni devono essere
considerati fondamentali per la creazione della storia e della cultura. Per gli
studi storici questo ha significato che le pretese di oggettività e di verità
venissero ridotte, perché la storiografia doveva essere considerata soggetta alle
stesse regole, errori e strategie delle altre narrazioni. Per quanto riguarda le
donne e i popoli colonizzati, entrambi vivevano in economie che si fondavano
sulla loro forza lavoro ed entrambi erano soggetti ad ideologie che
giustificavano lo sfruttamento. Quindi, i movimenti anticolonialisti, dovevano
attaccare le idee dominanti sulla storia, sulla cultura e sulla rappresentazione
(cfr. A. Loomba, 2000).
125
Ciò ebbe degli effetti anche sulla lotta all’emancipazione dei neri in
America. Nonostante l’Emancipazione e successivamente il processo di
desegregazione negli Stati del Sud, le comunità afroamericane negli Stati Uniti
continuavano ad occupare i gradini più bassi della scala sociale. Vittime di
pregiudizi, emarginati e soprattutto poveri, le voci di protesta passarono da un
desiderio di integrazione a uno di rivalsa. E in questa rivalsa, la ricostruzione di
una propria storia ebbe un ruolo determinante. Lo ebbe principalmente sugli
intellettuali africani, che ispirarono la lotta per il potere di movimenti, quale è
quello del Black Power, che nella rivalutazione di se stessi trovavano la loro
essenza vitale.
126
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Ringraziamenti
I miei più sentiti ringraziamenti vanno a tutti coloro che con la loro
collaborazione e il loro sostegno hanno permesso la buona riuscita del presente
lavoro.
Ringrazio il Prof. Pino Schirripa per l’attento contributo intellettuale e
per i preziosi suggerimenti in fase di stesura.
Ringrazio tutti gli amici e le persone che mi sono state vicine durante il
corso di studi, e ancor più sentitamente ringrazio la mia famiglia per tutta la
fiducia datami in ogni circostanza, e per il costante e insostituibile appoggio
senza cui la realizzazione di questo lavoro non sarebbe stato possibile.
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