Disabilità. Quanto è amaro il caffè di Michele
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Disabilità. Quanto è amaro il caffè di Michele
DISABILITÀ. QUANTO È AMARO IL CAFFÈ DI MICHELE In un libro di racconti di Silvia Leuzzi l’umanità, ma anche la rabbia e la solitudine. Spesso causate proprio da chi vorrebbe aiutare Di Mimmo Guaragna D opo aver letto una trentina di pagine del libro “Il Caffè di Michele” ho pensato di telefonare all’autrice per farle la domanda più naturale che può venire in mente in certe situazioni di lettura o di ascolto: dove ci stai portando? Perché ci stai raccontando queste storie? Ma poi ho proseguito nella lettura fino all’ultima pagina. Perché un libro dovrebbe portarci da qualche parte? O forse questo libro ci trasporta in un mondo che ci fa paura perché ci priva di certezze? Ci ritroviamo in luoghi così lontani da noi eppure così vicini, luoghi che visitiamo quotidianamente, ma Silvia Leuzzi ce li presenta sotto un’altra luce: la luce abbagliante di un fulmine in una notte buia, che illumina il paesaggio per un attimo e poi lo fa ricadere in una oscurità più profonda. “Il Caffè di Michele” è un libro di rac76 Leggere, ascoltare, navigare conti che ruotano attorno al tema dell’handicap, fisico e psichico. Lo ha pubblicato l’associazione Nuove frontiere, a cui ci si può rivolgere per averne una copia ([email protected]) Se volessimo dare una forma geometrica al libro, lo raffigureremmo con una parabola. Di racconto in racconto c’è un crescendo di intensità, di rabbia, di umanità, ma anche di umanità negata. Nei racconti centrali vieni immobilizzato da quelle verità che i protagonisti ti sputano in faccia e che tu vorresti non sapere. Avviandosi verso la parte finale il cammino si addolcisce un poco, hai come un sollievo, le ultime storie le potresti anche accettare, quasi quasi è come se ti sentissi riconciliato. Ed è qui che scatta la trappola tesa da Silvia: sono proprio gli ultimi racconti meno drammatici, meno sofferti, che non ti riconciliano affatto ma sanciscono definitivamente e senza possibilità di remissione il tuo distacco, la tua alterità rispetto all’universo del diverso. Nel libro non c’è, né ci può essere riconciliazione. Almeno finchè noi, anche se inconsciamente e contro i nostri intenti, ci atteggeremo a vincitori e non udiremo le parole silenziose dei vinti. Dopo aver letto il libro, non si può più chiedere a Silvia dove ci voleva portare. L’autrice ci lascia lì dove eravamo prima di aprire il libro. A questo punto tocca a noi decidere se vogliamo intraprendere un cammino pericoloso, che ci porta a fare veramente i conti con la disabilità. I conti o si fanno anche con la nostra emotività, con tutta la nostra rabbia, con il nostro corpo, oppure i conti non si fanno affatto. Cento pagine distruggono quanto si è costruito in tanti anni di impegno a fianco dei disabili. “Diversamente abili” questa maniera educata di designarli, così limpida, così buona, così partecipata, ti rimbalza in faccia per quell’ossimoro che è; “diversamente abili” è tutta e nient’altro che la falsità ipocrita di cui è capace un fariseo. Riflettendo sui racconti di Silvia, mi son venuti alla mente due americani che niente, ma proprio niente, hanno a che vedere con la disabilità. Stokely Carmichael, leader del Black Power, il movimento afroamericano degli anni 60, in uno dei tanti processi che lo vedevano protagonista, apostrofò il giudice dicendo “non mi fido dell’uomo bianco”, ed il suo avvocato di rimando “neanche di me, Stokely?”, “neanche di te” fu la risposta. E nel libro di Silvia è un continuo non fidarsi da parte del disabile; diffidenza e rancore soprattutto nei riguardi di chi vorrebbe essergli vicino ma invece di costruire un ponte senza volerlo allarga un fossato. L’altro americano che ho collegato al “Caffè di Michele” è Edgar Lee Masters con la sua “Antologia di Spoon River”. Gli abitanti del cimitero di Spoon River ci raccontano quello che sono stati, ma anche come avrebbero voluto essere. Ogni storia raccontata dal protagonista è diversa da come l’hanno vista e giudicata gli altri, che pure stavano nello stesso tempo e nello stesso luogo. Nell’“Antologia di Spoon River” c’è un baratro tra la vita e la morte, ma anche tra la vita che uno si porta dentro e non riesce ad esprimere e la vita che lo collega ai suoi simili. Nel libro di Silvia ricorre spesso la parola buio, il sentirsi in fondo al pozzo, il vivere prigionieri in un corpo ostile. A volte percepisci che il vero protagonista non è il disabile, ma la sofferenza e la disperazione della madre che si prodiga, si annulla, si annichilisce per il figlio, che però non può non odiarla, proprio perché gli ha donato una vita che è una vita da inferno. L’associazione Nuove Frontiere non fa per mestiere l’editore. Il suo proposito è tenere insieme quei genitori che né per scelta, né per vocazione, si prodigano a favore dei disabili. Genitori costretti a stare in trincea perché la vita può dare qualche speranza, ma anche inchiodarti con prove durissime che distruggono tutti i progetti. Silvia in uno dei racconti cita Mario Monicelli “la speranza è una trappola”. Ed io, dopo la lettura sofferta del libro che mi ha messo in guerra con me stesso, mi ritrovo a chiedermi se la speranza è l’ultima a morire o se è la morte l’ultima speranza. ■ Leggere, ascoltare, navigare 77