associazione italiana di psicologia

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associazione italiana di psicologia
AIP
ASSOCIAZIONE ITALIANA DI PSICOLOGIA
CONGRESSO NAZIONALE
DELLA SEZIONE DI
PSICOLOGIA SPERIMENTALE
‡&DSUL1RYDQWDQRYH‡
RIASSUNTI DELLE COMUNICAZIONI
a cura di Giovanna Nigro
Capri, 27 – 29 Settembre 1999
A.I.P.
ASSOCIAZIONE ITALIANA DI PSICOLOGIA
CONGRESSO NAZIONALE DELLA SEZIONE DI
PSICOLOGIA SPERIMENTALE
Capri, 27-29 Settembre 1999
COMITATO SCIENTIFICO
Direttivo della Sezione di Psicologia Sperimentale
Anna Paola Ercolani (Università di Roma “La Sapienza”) – (Coordinatore)
Silvana Contento (Università di Bologna) – (Segretario)
Luciano Mecacci (Università di Firenze)
Roberto Nicoletti (Università di Padova)
Giovanna Nigro (Seconda Università degli studi di Napoli)
SEGRETERIA SCIENTIFICA
Giovanna Nigro
Carla Poderico
Seconda Università degli studi di Napoli
Corso di Laurea in Psicologia
Via Vivaldi, 43
81100 Caserta
Con il patrocinio e il contributo
della Seconda Università degli studi di Napoli,
della Facoltà di Lettere e Filosofia della Seconda Università degli studi di Napoli,
del Dipartimento di Studio delle Componenti Culturali, Umane e Relazionali del
Territorio della Seconda Università degli studi di Napoli.
Presentazione
Signore e Signori,
per questa terza edizione del Congresso Nazionale di Psicologia Sperimentale
dell’AIP ho deciso di optare per una presentazione del volume degli abstract che si
collocasse a metà strada tra lo stile del Dottor Freud (absit iniuria verbis) ed uno stile
epistolare non privo di quella certa eleganza che ancora si ritrova nelle missive vergate a
mano e che, sventuratamente, non contraddistingue l’E-mail, mezzo di comunicazione
francamente troppo ruspante (adsit 1 iniuria verbis) per conquistare l’animo del lettore
fine. Che dire di questo Capri Novantanove? È fin troppo banale affermare che il tre è
per tradizione numero sacro e magico e che queste caratteristiche si estendono – come è
ovvio – al Congresso ed a tutti quelli che vi partecipano. Lo so che la maggior parte
degli psicologi è più sensibile al magico numero sette (più o meno due) e che sulla
scorta di questa “dipendenza” ci imporrà almeno altri quattro congressi, perché noi
possiamo conquistare quella perfezione alla quale palesemente miriamo e – ahinoi! –
non solo nell’ambito della psicologia sperimentale. E comunque, è sempre meglio un
fedele del signor Miller che un devoto di Garibaldi e dell’eroica impresa (in questo caso
avremmo da allestire altri 997 meeting). Ottimismi a parte, c’è da dire che noi veterani
del congresso all’ombra dei Faraglioni, noi veterani del Direttivo di Sperimentale,
siamo rimasti letteralmente travolti dal grande successo di critica e di pubblico che
puntualmente premia le nostre iniziative congressuali 2. Il compiacimento che ne è
derivato e che così bene lega con quell’ombra di narcisismo di cui alle affermazioni
iniziali, ha costituito un ottimo antidoto a quelle gravi forme di depressione che
avrebbero potuto innescare i 30-40 lavori denominati “abstract.doc”, e gli altrettanti
contributi battezzati “Capri99.doc”, ed è riuscito ad annullare la delusione legittima
legata alla constatazione che la pregevole presentazione del volume di Capri ‘96, in cui
il tema della denominazione dei file costituiva il piatto forte, non era stata letta o
addirittura compresa.
Nell’allestimento di questa terza kermesse la cultura di noi umili curatori del
volume di abstract ha subìto più che un incremento, un consolidamento, almeno per ciò
che attiene alle aree tematiche del Congresso. Abbiamo avuto modo di apprezzare la
fedeltà degli autori ai loro cavalli di battaglia, la tenacia negli approfondimenti e la
consueta riottosità al rispetto delle regole di presentazione degli abstract. Da qui
l’inseguimento telematico per ottenere qualche riferimento bibliografico, una razionale
scansione del lavoro secondo tradizione e chiarimenti di omologa natura. Il vantaggio
1
Attenzione proto! È proprio “adsit”!
È d’obbligo un ringraziamento a tutti coloro che hanno reso possibile l’organizzazione del Congresso. Mi
riferisco in particolare agli impeccabili colleghi che hanno svolto il lavoro di referee con la competenza solita
e con tutta la rapidità che situazioni di emergenza impongono (come è noto Capri Novantanove è impresa
varata in ritardo). Ringrazio ancora gli amici che hanno accettato con il garbo consueto di presiedere le
sessioni. Ringraziamenti e gratitudine eterna ai Dottori Roberto Marcone e Vincenzo Paolo Senese che si sono
accollati l’onere dell’editing del volume. È il caso di dire – ed è proprio vero – che senza il loro aiuto questo
volume non avrebbe visto la luce. Pentimenti a parte.
2
principale dell’E-mail è la rapidità con cui si riesce a raggiungere l’altro. E l’altro
veloce ti risponde. Quando ti risponde. Talvolta fa finta di niente. Alla richiesta “...la
preghiamo pertanto di riscrivere l’abstract secondo le norme contenute nel call for
papers, pena l’esclusione del suo lavoro dal volume degli abstract”, si sono registrate
repliche ovviamente tardive del tipo: “Leggo la posta elettronica di rado”, “scarico la
posta una volta al mese”, espressioni queste che se ci tranquillizzano sulla complessiva
buona salute mentale dei nostri colleghi, ci fanno rimpiangere altre e più sicure forme di
comunicazione e di scambio, dai piccioni viaggiatori ai segnali di fumo. A metà giugno
(la dead-line era fissata per il 15 di maggio dello stesso anno) non erano infrequenti i
messaggi del tipo “per motivi di studio sono stato all’estero per un mese ...”, “sono
appena tornato da un congresso negli Stati Uniti ...”, con un seguito uguale per tutti:
“potrei inviare un abstract anche se è un po’ tardi?” Ciò a dimostrare che l’eufemismo è
figura retorica ben frequentata almeno dagli psicologi che viaggiano molto e per mete
mai al di sotto delle sei ore d’aereo. Sarebbe stata più graziosa una missiva che
giustificasse il ritardo o la distrazione facendo riferimento ad altri luoghi e ad altri
impegni: “Di ritorno da un lungo soggiorno a Cerreto Sannita, dove ebbi a ritemprami
delle fatiche accademiche nella magione della nonna, …”, “Negli ultimi due mesi sono
stato ospite di un cugino di secondo grado (non informatizzato) che abita ad Attigliano
…”, e così via. Confido in prossimi scambi epistolari di massa per leggere missive in
stile minimalista. E per non leggere comunicazioni irose, ferocemente ironiche e
sostanzialmente irragionevoli. Il programma provvisorio del Congresso vi è stato
trasmesso, ancora una volta, utilizzando la posta elettronica e le risposte risentite
(pochissime, lo riconosco) mi hanno folgorata nel giro di 48 ore. Un signore ritira i
lavori e la quota di iscrizione perché i suoi abstract erano stati collocati nella sessione
poster, un altro si arrabbia moltissimo per un refuso contenuto nel programma, un altro
ancora per una collocazione oraria non gradita3. Devo dire che non ci sono provenienze
geografiche, collocazioni accademiche o extra-accademiche, età o ruolo che possano
agire da denominatore comune per spiegare reazioni governate da cotanto risentimento.
Chiederò ai colleghi della neonata Sezione di Psicologia Clinica, che ci seguiranno a
ruota nell’avventura congressuale caprese, di studiare il fenomeno. Posto che ne valga la
pena. Si potrebbe anche pensare ad una giornata comune, rubando il titolo ad un’opera
teatrale di Thomas Bernhard4. Estendendo quanto basta ciò che ebbe a dire Jean de La
Bruyère (1645-1698), si potrebbe concludere:
La gloire ou le mérite de certain hommes est de bien écrire;
et de quelques autres, c’est de n’écrire point.
Les Caractères ou les Mœurs de ce siècle
Per la terza volta: vi aspetto a Capri!
Giovanna Nigro
3
Il cliente ha sempre ragione. È vero. Purtoppo la ragione non ha sempre clienti.
Mi riferisco all’ultima raccolta, per quanto è a mia conoscenza, delle opere per la scena di Bernhard Teatro
IV, pubblicato dalla Ubulibri di Milano nel febbraio 1999. La raccolta comprende tre lavori: L’ignorante e il
folle, Immanuel Kant e Prima della pensione. Nella scelta del tema e del titolo della ipotetica e tuttavia
auspicabile giornata comune escluderei le ultime due pièces.
4
COMUNICAZIONI
ATTENZIONE
EFFETTI DELL’ATTIVITÀ MOTORIA SU UN COMPITO DI
DISCRIMINAZIONE VISIVA
Claudia Bonfiglioli{xe "Bonfiglioli C."}1,2, Chris Rorden{xe "Rorden C."}2,3, John
Duncan{xe "Duncan J."}2
1
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna, Italia
2
MRC Cognition and Brain Sciences Unit, Cambridge, UK
3
Institute of Cognitive Neuroscience, University College London, UK
L’ipotesi che l’attività motoria possa influenzare il modo in cui l’attenzione
visiva viene distribuita nello spazio è stata avanzata da Rizzolatti e collaboratori, i quali
hanno proposto la Teoria Premotoria dell’Attenzione (Rizzolatti, Riggio, Dascola e
Umiltà, 1987; Rizzolatti, Riggio e Sheliga, 1994). Secondo tale teoria, l’orientamento
dell’attenzione verso una specifica regione dello spazio dipende dalla programmazione
di un movimento verso quella stessa regione. È possibile dunque ipotizzare che la
prestazione ad un compito svolto nella posizione dello spazio in cui si trova il bersaglio
dell’azione sia più accurata.
Lo scopo del presente studio è stato quello di stabilire se la Teoria Premotoria
dell’Attenzione sia verificata nel caso di movimenti di raggiungimento, valutando il
ruolo di questo tipo di movimenti sulla prestazione ad un compito di discriminazione
visiva. Il compito sperimentale consisteva nell’identificare una lettera (“S” o “Z”)
presentata brevemente 15 cm a destra o a sinistra del punto di fissazione, senza che
nessuna enfasi venisse posta sulla velocità di emissione della risposta.
Contemporaneamente al compito visivo, ai soggetti (cinque soggetti di età compresa tra
i 62 ed i 68 anni) era richiesto un compito motorio di raggiungimento, che doveva
essere eseguito il più velocemente possibile, verso uno di quattro pulsanti. Tali pulsanti
erano posti a coppie 11.5 cm sotto ciascun LED e ad una distanza di 8 cm l’uno
dall’altro. La visione sia dei pulsanti sia dell’arto in movimento era impedita, in quanto
l’intero movimento veniva svolto sotto un pannello di legno. All’inizio di ciascuna
prova un segnale acustico informava i soggetti su quale pulsante doveva essere premuto.
Dopo un intervallo di 200, 500, 800 o 1100 ms (SOA) dalla comparsa del suono veniva
presentata la lettera bersaglio.
In base alla Teoria Premotoria dell’Attenzione si prevede una maggiore
accuratezza nelle condizioni in cui il bersaglio del compito visivo si trovi nella stessa
posizione spaziale del bersaglio del raggiungimento, rispetto alle condizioni in cui i
bersagli si vengano a trovare in posizioni differenti. Le prove sono state considerate
“compatibili”, quando la coppia di pulsanti ed il bersaglio visivo si trovavano nello
stesso emispazio (ad esempio, entrambi a destra); “incompatibili” quando la coppia di
pulsanti ed il bersaglio visivo si trovavano in emispazi opposti (ad esempio, i pulsanti a
destra ed il bersaglio a sinistra). La percentuale di errori commessa dai soggetti nel
compito di identificazione è stata analizzata con una ANOVA a due fattori,
Compatibilità x SOA. Contrariamente a quanto previsto dalla Teoria Premotoria, da tale
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
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analisi non è emerso alcun effetto dell’attività motoria sulla prestazione al compito di
identificazione.
Per verificare che il compito di discriminazione utilizzato fosse sensibile a
manipolazioni attentive è stato condotto un secondo esperimento, in cui l’orientamento
dell’attenzione veniva determinato da un segnale visivo posto in corrispondenza di uno
dei due LED. I sei soggetti (età compresa tra i 58 e i 67 anni) dovevano svolgere lo
stesso compito di discriminazione dell’esperimento precedente, con la differenza che la
presentazione della lettera era preceduta da un breve flash luminoso. Tale flash si
verificava nel 70% dei casi nella stessa posizione in cui sarebbe poi comparsa la lettera
bersaglio (prove valide), e nel restante 30% dei casi nella posizione opposta a quella in
cui sarebbe comparsa la lettera bersaglio (prove invalide). In base ai dati riportati in
letteratura (si veda ad esempio Posner, 1980) si può ipotizzare che un segnale visivo
esogeno quale quello da noi utilizzato determini un orientamento automatico
dell’attenzione verso la posizione dello spazio in cui il flash si è verificato, rendendo la
prestazione dei soggetti al compito di discriminazione più accurata nelle prove valide
rispetto alle prove invalide. Le medie degli errori sono state analizzate con una analisi
della varianza, da cui è emerso che la prestazione dei soggetti è migliore nel caso delle
prove valide (23% di errori) rispetto alle prove invalide (35% di errori; F(1, 5)=10.36,
p<.03).
Sulla base di questi risultati si può concludere che, nel caso di un paradigma
che preveda un compito di discriminazione visiva, gli effetti dell’attività motoria
sull’orientamento dell’attenzione non sono tali da determinare una prestazione più
accurata per gli stimoli visivi che vengono a trovarsi nella stessa posizione spaziale del
bersaglio dell’azione.
Riferimenti bibliografici
Posner, M.I. (1980). Orienting of attention. Quarterly Journal of Experimental
Psychology, 32, 3-25.
Rizzolatti, G., Riggio, L., Dascola, I., & Umiltà, C. (1987). Reorienting attention across
the horizontal and vertical meridians: Evidence in favour of a premotor theory
of attention. Neuropsychologia, 25, 31-40.
Rizzolatti, G., Riggio, L., Sheliga, B.M. (1994). Space and selective attention. In: C.
Umiltà & M. Moscovitch (a cura di), Attention and Performance XV.
Cambridge, MA: MIT.
CONTROLLO ATTENTIVO DELL’INTEGRAZIONE
PERCETTIVA IN UN COMPITO DI DISCRIMINAZIONE PER
L’ORIENTAMENTO
David Burr{xe "Burr D."}*†, Stefano Baldassi{xe "Baldassi S."}•*†
*
Istituto di Neurofisiologia del CNR
•
Facoltà di Psicologia, Università degli studi di Roma “La Sapienza”
†
Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Firenze
10
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
Introduzione
Nel paradigma di “Visual Search” il soggetto deve effettuare un task percettivo
su uno stimolo bersaglio in presenza di un numero variabile di distrattori neutri. Ciò
permette di inferire le proprietà dei meccanismi attentivi di selezione dell’informazione
rilevante. In alcuni casi la prestazione percettiva, storicamente misurata attraverso tempi
di reazione, non dipende in alcun modo dal numero di distrattori, in altri si osserva un
peggioramento della prestazione con l’aumentare degli elementi presenti. Tale
differenza è stata utilizzata per affermare una dicotomia tra processi paralleli
(preattentivi) e processi seriali (attentivi). Questo studio misura soglie psicofisiche per
analizzare gli effetti attentivi dovuti all’aumento di informazione potenziale disponibile
su due diversi compiti di discriminazione per l’orientamento: un compito di
identificazione dell’orientamento del bersaglio ed uno di locazione del bersaglio stesso
in presenza di un numero variabile di distrattori.
Metodo
Gli stimoli erano reticoli sinusoidali, spazialmente circoscritti una funzione
gaussiana, presentati tachistoscopicamente per 100 ms a 5° di eccentricità. Il bersaglio,
leggermente inclinato in senso orario o antiorario, era presentato da solo o in presenza di
un numero variabile (da 0 a 15) di distrattori normalmente verticali. In sessioni separate
i soggetti dovevano indicare la direzione di inclinazione dello stimolo bersaglio, oraria o
antioraria (identificazione) rispetto alla verticale, o indicare la sua posizione. Le soglie
di orientamento corrispondevano in ambedue i compiti al valore di orientamento del
bersaglio che produceva il 75% delle risposte corrette. Nella condizione attentiva, un
piccolo punto bianco, il “cue”, segnalava la posizione del bersaglio 20 ms prima della
sua comparsa. Gli stimoli erano presentati su un fondo a luminanza media o con
contrasti variabili di rumore visivo applicato su tutto lo schermo.
Risultati
Il risultato principale dello studio (vedi figura) è che nel compito di
identificazione le soglie di discriminazione per l’orientamento mostravano una
dipendenza dal numero di elementi con una inclinazione su assi logaritmici di 0.5;
mentre nel compito di locazione tale dipendenza, seppur non nulla, risultava fortemente
ridotta a circa 0.2. A conferma della robustezza di questi risultati, le due diverse
inclinazioni erano mantenute applicando diversi livelli di rumore su tutto lo schermo: il
rumore sposta le curve verso l’alto in ambedue i compiti risultando in una perdita
complessiva di sensibilità, ma non sposta in alcun modo le dipendenze ottenute. Nella
condizione di “cue” l’attenzione sul bersaglio annulla l’effetto del numero dei
distrattori, mantenendo le soglie allo stesso livello della condizione senza distrattori. I
diversi risultati ottenuti nei due compiti sembrano essere ben spiegati da due diversi
meccanismi. Modelli basati sulla Teoria della Detezione del Segnale predicono che una
dipendenza logaritmica di 0.5 (radice quadrata) del numero degli elementi, suggerisca
che il compito di identificazione sia eseguito integrando i segnali rumorosi di
orientamento provenienti dai detettori locali relativi ai singoli elementi. La dipendenza
più leggera ottenuta nel compito di locazione è in stretto accordo con un meccanismo
che tratti i singoli segnali, indipendenti e rumorosi, separatamente sino al livello della
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
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decisione, dove viene scelto l’elemento che genera il segnale di orientamento più forte.
Ulteriori evidenze verso queste due spiegazioni sono state ottenute inclinando
sistematicamente i distrattori nella stessa direzione del bersaglio o in quella opposta:
come prevedibile sulla base dei modelli, distrattori inclinati come il bersaglio
miglioravano le soglie nel compito di identificazione, aumentando il segnale di
orientamento nell’operazione di integrazione percettiva, ma peggioravano la prestazione
nel compito di locazione, riducendo il contrasto di orientamento tra i singoli elementi.
Inoltre, inclinazioni opposte dei distrattori provocavano un quadro di risultati opposto a
quello appena
Conclusioni
Il complesso dei risultati ottenuti rielabora in buona parte la dicotomia serialeparallelo, deponendo a favore dell’idea che la discriminazione dell’orientamento di un
bersaglio orientato sia operata da semplici meccanismi percettivi paralleli. In ambedue i
casi la principale fonte di limitazione sarebbe il rumore dei singoli elementi ad un primo
livello di elaborazione
Nel compito di locazione gli outputs dei singoli elementi non sarebbero
integrati e manderebbero la loro risposta rumorosa indipendentemente e parallelamente
allo stadio della decisione. In questo caso il numero degli elementi avrebbe l’unico
effetto, statistico, di aumentare la probabilità di errore nella risposta. Nel compito di
identificazione avverrebbe invece una semplice somma percettiva che integra i segnali
rumorosi generati dai singoli stimoli. L’attenzione agirebbe riducendo l’estensione
spaziale su cui l’operazione di integrazione avrebbe luogo. Questo tipo di integrazione
globale di “secondo-ordine” potrebbe essere il risultato sia di un operazione percettiva
ad alti livelli di elaborazione neurale, o quello di interazione neurali di lunga distanza
intercorrenti tra detettori per della corteccia visiva primaria. In entrambi i casi il
processo sarebbe sotto rapido controllo attentivo attraverso meccanismi top-down.
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
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10
Soglie di Orientamento
Identificazione
Locazione
SB
0.16
0.49
1
1
10
N. di elementi
VERIFICA DELLA DISSOCIAZIONE DEGLI EFFETTI DEI
MERIDIANI VERTICALI VISIVO E CENTRATO SULLA TESTA
IN UN PARADIGMA DI POSNER
Fabio Ferlazzo{xe "Ferlazzo F."}^, Franco Pestilli{xe "Pestilli F."}^, Marta
Olivetti Belardinelli{xe "Olivetti Belardinelli M."}^*
^Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
*ECONA, Centro Interuniversitario per la Ricerca sull’Elaborazione Cognitiva in
Sistemi Naturali e Artificiali
Introduzione
Nell’ambito degli studi sull’attenzione un problema che ha destato particolare
interesse è quello relativo alle caratteristiche della distribuzione della attenzione nello
spazio. In particolare, un dato ormai comunemente accettato è quello che si riferisce alla
anisotropia dello spazio nel quale si sposta l’attenzione. In questo senso un effetto molto
noto è il cosiddetto effetto meridiano, che si riferisce al costo maggiore associato, in un
paradigma di Posner (Posner, 1978), alle prove invalide che comportano
l’attraversamento dei meridiani visivi verticale e orizzontale rispetto alle prove invalide
che non comportano un tale attraversamento, a parità di distanza. Questo effetto è stato
spiegato nell’ambito della Teoria Premotoria (ad esempio, Rizzolatti et al., 1994) come
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
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dovuto al riaggiornamento del programma motorio oculare sia per la distanza che per il
verso dello spostamento. L’esistenza di un effetto meridiano dimostra una delle
anisotropie riscontrate nello spostamento dell’attenzione spaziale visiva. In un
precedente studio (Ferlazzo et al., 1998; Padovani et al., 1999) abbiamo dimostrato lo
stesso effetto anche nella modalità acustica, ed inoltre abbiamo osservato che il
meridiano che dà origine all’effetto è quello centrato sulla testa e non quello visivo. In
questo studio il nostro obiettivo è stato da un lato quello di confermare i precedenti
risultati sull’esistenza di un effetto meridiano anche nella modalità acustica e la
dissociazione in questa modalità tra meridiano visivo e meridiano centrato sulla testa
utilizzando cues cognitivi anziché periferici come nello studio precedente, e dall’altro
quello di verificare la consistenza della dissociazione osservata nella modalità acustica
verificando l’ipotesi che nella modalità visiva il meridiano responsabile dell’effetto sia
quello visivo e non quello centrato sulla testa.
Metodo
I due esperimenti sono stati condotti rispettivamente su 13 e 15 soggetti di età
compresa tra 20 e 30 anni, normoudenti e con vista normale o corretta normale. In
entrambi gli studi è stato utilizzato un classico paradigma di Posner nel quale gli stimoli
cues consistevano nei numeri da 1 a 4 che apparivano in corrispondenza del punto di
fissazione e che indicavano, nelle prove valide, la locazione spaziale dello stimolo
target. Inoltre, in entrambi gli esperimenti il punto di fissazione era spostato sulla destra
o sulla sinistra rispetto all’allineamento della testa del soggetto, dissociando in questo
modo i due meridiani visivo e centrato sulla testa. In particolare, il punto di fissazione
era posto tra le posizioni 1 (estrema sinistra) e 2 in metà delle prove e tra le posizioni 4
(estrema destra) e 3. Nel primo esperimento gli stimoli target erano acustici mentre nel
secondo erano visivi. In ciascun esperimento i tempi di reazione agli stimoli target sono
stati analizzati mediante analisi della varianza ad una via sia per il confronto tra le prove
(valide vs neutre vs invalide) sia, limitatamente alle prove invalide, per la verifica della
dissociazione tra i meridiani visivo e centrato sulla testa (attraversamento del meridiano
visivo vs attraversamento del meridiano somatico vs non attraversamento).
Risultati
I risultati dell’esperimento condotto utilizzando target acustici hanno
confermato i precedenti risultati dimostrando un costo maggiore nelle prove invalide
che implicavano l’attraversamento del meridiano centrato sulla testa rispetto sia alle
prove invalide che implicavano l’attraversamento del meridiano visivo sia alle prove
invalide che non comportavano l’attraversamento di uno dei due meridiani
(F(2,24)=10.42, p<.001). I risultati del secondo esperimento hanno inoltre confermato
che l’effetto del meridiano centrato sulla testa può considerarsi specifico della modalità
acustica.
Conclusioni
I risultati di questo studio confermano l’esistenza di una anisotropia nello
spostamento dell’attenzione spaziale selettiva, determinata dai meridiani verticali visivo
e centrato sulla testa. Inoltre, appare confermata l’ipotesi che tali effetti siano specifici
della modalità sensoriale utilizzata.
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
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Riferimenti bibliografici
Ferlazzo, F., Rossi-Arnaud, C., Olivetti Belardinelli, M. (1998). Is there any anisotropy
in the acoustic representation of space? Proceedings of the Second Conference
on Music Informatics, Gorizia.
Padovani, T., Ferlazzo, F., Rossi-Arnaud, C., Olivetti Belardinelli, M. (1999). Effects of
visual and head centred meridians on reorienting spatial attention. Paper
presented at the VI European Congress of Psychology, Rome.
Posner, M.I. (1978). Chronometric explorations of mind. Hillsdale, N.J: Erlbaum.
Rizzolatti, G., Riggio, L., Sheliga, B.M. (1994). Space and selective attention. In: C.
Umiltà and M. Moscovitch (Eds.) Attention and Performance XV. Cambridge:
MIT Press.
IL RAGGRUPPAMENTO PERCETTIVO DI SEQUENZE
RITMICHE DI STIMOLI ACUSTICI IN UN COMPITO DI
ATTENZIONE SELETTIVA
Marta Olivetti Belardinelli{xe "Olivetti Belardinelli M."}*°, Sabina D’Amato{xe
"D’Amato S."}°
*Econa, Centro Interuniversitario per la Ricerca sull’Elaborazione Cognitiva in
Sistemi Naturali e Artificiali
° Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Il contesto definito dalla organizzazione degli stimoli acustici è un tema
scarsamente studiato in letteratura, probabilmente a causa della difficoltà di studiare
stimoli che vengono ad essere organizzati nel tempo. Si ritiene d’altro canto che anche i
soggetti abbiano dei ritmi spontanei di elaborazione che difficilmente coincidono con il
ritmo dello stimolo che debbono elaborare (Olivetti Belardinelli, 1993). L’obiettivo di
questo lavoro, che si inquadra in una direttrice di ricerca sviluppata in collaborazione
con Fabio Ferlazzo, è pertanto duplice: 1- indagare se l’organizzazione temporale
(ritmica) di una sequenza di suoni ha un effetto sulla capacità del soggetto di
discriminare stimoli target rari inseriti all’interno di sequenze acustiche standard; 2indagare se le modalità di elaborazione (evidenziate mediante ERP) differiscono in base
al ritmo spontaneo di elaborazione dei soggetti.
Metodo
Lo studio è stato condotto su 20 soggetti impegnati in un compito classico di
discriminazione di uno stimolo target acustico raro all’interno di una sequenza di stimoli
standard (odd-ball). Sono state utilizzate due sequenze che differiscono per
l’organizzazione temporale degli stimoli: una sequenza era composta da uno stimolo
forte ed uno stimolo debole regolarmente alternati (ritmo binario), l’altra sequenza era
composta da uno stimolo forte e due deboli regolarmente alternati (ritmo ternario). Gli
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
15
stimoli forti erano costituiti da toni a 1000 Hz presentati a 60 Db Spl. Gli stimoli deboli
erano toni a 1200 Hz presentati a 60 Db Spl. Inoltre i soggetti sono stati sottoposti a
registrazione psicofisiologica degli ERP con elettrodi posti sullo scalpo nelle posizioni:
Fz, Cz, F3, F4, C3, C4, secondo indicazioni di Alain et al. (1994). Gli indici
elettrofisiologici presi in esame sono stati l’ampiezza della N100 e della P300 elicitate
dagli stimoli target e standard nelle due sequenze. Nella fase di elaborazione dei dati si è
proceduto anzitutto all’averaging per l’estrapolazione del potenziale evento correlato e
successivamente sono state eseguite analisi della varianza sia sul numero di risposte
corrette date dal soggetto che sull’ampiezza della N100, concernente l’attenzione, che
sulla P300 che è correlata all’elaborazione cognitiva dello stimolo.
Risultati
Le analisi condotte sulla ampiezza della N100 non hanno dimostrato un effetto
significativo della sequenza temporale, mentre le analisi condotte sulla ampiezza della
P300 hanno mostrato che essa è più ampia quando elicitata dagli stimoli target
presentati nella sequenza ternaria rispetto alla sequenza binaria, pure esistendo
differenze tra i soggetti a diverso ritmo spontaneo.
Conclusioni
I risultati dimostrano come il processo di elaborazione degli stimoli sia
influenzato dal contesto temporale nel quale essi sono presentati (effetto rilevabile da
una misura psicofisiologica come i potenziali correlati ad eventi) e come le
caratteristiche personali influiscono sul pattern di elaborazione.
Riferimenti bibliografici
Gupta L., Molfese D.L., Tammana R. (1995). An artificial neural network approach to
ERP classification. Brain and Cognition, 27, 311-330.
Kandel E.R., Schwartz J.H., Jessel T.M. (1994). Principi di Neuroscienze. Milano CEA.
Mecacci L. (a cura di) (1982). Tecniche psicofisiologiche. Bologna Zanichelli.
Olivetti Belardinelli, M. (Ed.) (1993). Processi ritmici nella elaborazione cognitiva.
Comunicazioni Scientifiche di Psicologia Generale. V.10. Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane.
IL RUOLO DEL MECCANISMO ATTENTIVO
DELL’ORIENTAMENTO NELLA PREFERENZA PER IL
VOLTO ALLA NASCITA
Viola Macchi Cassia{xe "Macchi Cassia V."}°, Francesca Simion{xe "Simion
F."}°, Carlo Umiltà{xe "Umiltà C."}*
°Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione
*Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
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COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
Numerosi dati testimoniano l’esistenza di una preferenza per il volto alla
nascita (Goren, Sarty e Wu, 1975; Johnson, Dziurawiec, Ellis e Morton, 1991; Kleiner,
1987; Maurer e Young, 1983; Valenza, Simion, Macchi Cassia e Umiltà, 1996). Il
modello teorico più accreditato in letteratura (modello strutturale), formulato da Morton
e Johnson (1991), spiega tale preferenza come il risultato dell’attivazione di un
meccanismo specifico, chiamato Conspec, selettivamente sensibile alle caratteristiche
strutturali del volto, definite dalla reciproca relazione spaziale che lega le componenti
interne presenti in tale stimolo. Tale meccanismo avrebbe sede nei collicoli, e avrebbe la
funzione di far sì che il neonato orienti l’attenzione e lo sguardo su qualsiasi stimolo che
compare alla periferia del campo visivo e che possiede le proprietà strutturali che sono
tipiche del volto. Secondo Morton e Johnson, quindi, la preferenza per il volto alla
nascita sarebbe imputabile esclusivamente dall’azione di un meccanismo di
orientamento, le cui basi neurali andrebbero rintracciate a livello sottocorticale.
I risultati delle ricerche da noi condotte confermano solo in parte tale modello.
In particolare, i risultati di un esperimento nel quale è stata utilizzata la tecnica della
preferenza visiva e nel quale sono state presentate due rappresentazioni schematizzate di
un volto che differivano unicamente per la disposizione spaziale degli elementi interni,
dimostrano che i neonati fissano più lungo lo stimolo che rappresenta il volto (Valenza
et al., 1996). Più precisamente, i risultati indicano la presenza di una differenza
significativa tra la durata della fissazione visiva sui due stimoli, mentre non vi è nessuna
differenza tra il numero degli orientamenti emessi dai soggetti verso l’uno o l’altro
stimolo. Questi dati sono stati da noi interpretati come una dimostrazione del fatto che il
Conspec non è il solo meccanismo responsabile della risposta di preferenza per il volto
mostrata dai neonati, e che tale preferenza implica, almeno in una certa misura, il
coinvolgimento di strutture corticali (Simion, Valenza e Umiltà, 1998).
Tuttavia, Johnson (comunicazione personale, 1998) ha recentemente proposto
un’interpretazione alternativa di questi dati, secondo la quale anche i risultati relativi ai
tempi di fissazione possono essere spiegati come il risultato del funzionamento del
Conspec sottocorticale. Johnson sostiene infatti che i tempi di fissazione sullo stimolo
sono determinati dallo stimolo che è in periferia. Più precisamente, poiché il Conspec si
attiva ogni volta che un volto compare alla periferia del campo visivo, quando il neonato
orienta lo sguardo sul volto dritto tende a fissarlo più a lungo perché il Conspec non
viene attivato dal volto inverso presente alla periferia del campo visivo. Al contrario,
quando il neonato fissa il volto inverso, il tempo di fissazione sarà inferiore perché la
presenza del volto alla periferia del campo visivo attiva il Conspec, che porta il neonato
a riorientare velocemente lo sguardo.
L’obiettivo della ricerca che viene presentata è quello di verificare la validità di
tale interpretazione. Due gruppi formati ciascuno da 17 neonati di tre giorni di vita sono
stati testati mediante l’utilizzazione di una versione modificata della tecnica della
preferenza visiva, che prevede la presentazione di una coppia di stimoli uguali, ossia, in
questo caso, due volti dritti o due volti inversi. Secondo l’interpretazione fornita da
Johnson, l’ipotesi prevedeva che, nel caso in cui la coppia di stimoli fosse formata da
due volti, il Conspec avrebbe dovuto essere continuamente attivato e, di conseguenza, i
neonati avrebbero dovuto produrre un numero elevato di orientamenti associato a
fissazioni medie di breve durata. Al contrario, quando la coppia di stimoli fosse stata
formata da due volti inversi, i neonati avrebbero dovuto produrre un numero inferiore di
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
17
risposte di orientamento, associate a fissazioni medie di durata superiore, in quanto il
Conspec non avrebbe dovuto essere attivato.
I risultati ottenuti confermano le ipotesi, dimostrando che, nelle due condizioni
considerate, i tempi di fissazione sullo stimolo sono determinati più dalla natura dello
stimolo che cade nel campo visivo periferico, che di quello sul quale il neonato ha
orientato lo sguardo. Inoltre, essi vengono avvalorati dal confronto effettuato tra i dati
emersi dalla presente ricerca e quelli ottenuti presentando contemporaneamente due
rappresentazioni schematiche del volto, una dritta e una inversa (Valenza et al., 1996).
Riferimenti bibliografici
Goren C., Sarty M. e Wu P. (1975).Visual following and pattern discrimination of facelike stimuli by newborn infants. Pediatrics, 56, 54-549.
Johnson M. H., Dziurawiec S., Ellis H. e Morton J. (1991). Newborns’ preferential
tracking of face-like stimuli and its subsequent decline. Cognition, 40, 1-19.
Johnson M. H. e Morton J. (1991). Biology and cognitive development. The case of face
recognition. Oxford, Basil Blackwell.
Kleiner K. A. (1987). Amplitude and Phase Spectra as indices of infants’ pattern
preferences. Infant Behavior and Development, 10, 49-59.
Maurer D. e Young R. (1983). Newborns’ following of natural and distorted
arrangements of facial features. Infant Behavior and Development, 6, 127-131.
Simion F., Valenza E. e Umiltà, C. (1998). Mechanisms underlying face preference at
birth. In F. Simion, G. Butterworth (Eds.), The development of sensoty, motor
and cognitive capacities in early infancy: From perception to cognition, pp. 87101. Hove, UK, Psychology Press.
Valenza E., Simion F., Macchi Cassia V. e Umiltà C. (1996). Face preference at birth.
Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance, 22,
892-903.
EFFETTO SIMON E RAPPRESENTAZIONE DEI NUMERI
Daniela Mapelli{xe "Mapelli D."}, Carlo Umiltà{xe "Umiltà C."}
Università di Padova
Introduzione
Il termine “compatibilità stimolo-risposta” si riferisce al fatto che alcune
coppie stimolo-risposta (S-R) sono più facili e più veloci da processare rispetto ad altre.
Ci sono due tipi di fenomeni di compatibilità S-R, entrambi dipendenti dal
processamento dell’informazione spaziale: ‘compatibilità spaziale’ e ‘effetto Simon’
(Umiltà e Nicoletti, 1990).
Ai fini del nostro lavoro ci limiteremo qui ad una descrizione dell’effetto
Simon. Un compito tipico in cui si verifica tale effetto è quello in cui al partecipante
vengono presentate due luci colorate (es. rosso e blu) ed egli è istruito a rispondere
premendo un tasto alla sua sinistra al colore rosso ed un tasto posto alla sua destra al
colore blu. Anche se la posizione dello stimolo è irrilevante ai fini del compito, le
18
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
risposte sono più veloci e spesso più accurate quando la posizione dello stimolo
(destra/sinistra) corrisponde alla posizione del tasto di risposta (destra/sinistra) (S-R
corrispondenti) rispetto a quando le due non corrispondono. Un’assunzione
generalmente accettata è che nei compiti Simon viene generato un codice spaziale per
l’attributo locazionale irrilevante dello stimolo (Lu e Proctor, 1995). Nella presente
ricerca l’effetto Simon viene utilizzato come uno strumento efficace per investigare la
rappresentazione mentale dei numeri. L’assunzione di base è che la presenza dell’effetto
Simon attesti la presenza di una rappresentazione di tipo spaziale. In letteratura
(Dehaene, Bossini e Giraux, 1993) viene ormai considerato un dato acquisito che il
continuum numerico sia rappresentato lungo un’asse spazialmente orientato da sinistra
verso destra, unicamente in funzione della magnitudo del numero per se.
Metodo
Esperimento 1
Al centro dello schermo di un computer vengono presentati singolarmente dei
numeri (cifre comprese tra 1 e 9 escluso il 5). Compito dei partecipanti è di valutare se il
numero che compare è maggiore o minore di 5 premendo un tasto della tastiera del
computer. Vengono registrati i tempi di reazione. I tasti di risposta sono disposti a destra
o sinistra sulla tastiera. Nella situazione corrispondente il tasto per la risposta ‘minore di
cinque’ è a sinistra, e il tasto per la risposta ‘maggiore di cinque’ è a destra. Nella
situazione non corrispondente il tasto per la risposta ‘minore di cinque’ è a destra,
mentre il tasto per la risposta ‘maggiore di cinque’ è a sinistra. Ogni partecipante svolge
il compito in entrambe le situazioni, corrispondente e non corrispondente, in due
sessioni sperimentali svolte a distanza di un giorno l’una dall’altra. I tempi di reazione
per le risposte corrette sottoposti ad ANOVA dimostrano una differenza significativa tra
le due situazioni sperimentali (situazione corrispondente 469 msec vs. situazione non
corrispondente 506 msec). I risultati dimostrano che sebbene non vi siano coordinate di
tipo spaziale nella presentazione degli stimoli (tutti i numeri sono al centro) i
partecipanti svolgano il compito su una rappresentazione mentale che prevede i numeri
disposti sequenzialmente lungo un’asse da sinistra verso destra.
Esperimento 2
In questo esperimento vengono presentati nuovamente dei numeri al centro
dello schermo (cifre comprese tra 1 e 11 escluso il 6) ma ai partecipanti si chiede di
svolgere il compito considerando i numeri come delle ore e di decidere se il numero che
compare corrisponde ad un’ora prima o dopo mezzogiorno premendo uno dei due tasti
della tastiera. Nella situazione corrispondente il tasto per la risposta ‘ora prima di
mezzogiorno’ è posizionato a sinistra e il tasto per la risposta ‘ora dopo mezzogiorno’ è
posizionato a destra. Nella situazione non corrispondente i tasti sono invertiti. Ogni
partecipante svolge il compito in entrambe le situazioni, corrispondente e non
corrispondente, in due sessioni sperimentali, svolte a distanza di un giorno l’una
dall’altra. I tempi di reazione per le risposte corrette sottoposti ad analisi dei BIN
mostrano una differenza significativa solamente al quinto bin (cioè, per i TR più lunghi;
situazione corrispondente 643 msec Vs. situazione non corrispondente 764 msec). I
risultati dimostrano che per i tempi di reazione più lenti (quinto bin) i partecipanti
svolgono il compito su di una rappresentazione mentale di tipo circolare (l’orologio).
Esperimento 3
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
19
Nell’esperimento 2 non compare l’effetto Simon sui TR veloci: questo
suggerisce che i partecipanti non utilizzino in partenza una rappresentazione spaziale.
L’effetto Simon, e di conseguenza la rappresentazione spaziale, compare nei TR lunghi:
ciò fa presumere che venga attuato un qualche processo di ricodifica. In quest’ultimo
esperimento si cerca di indurre nuovamente una rappresentazione spaziale di tipo
orizzontale (sinistra-destra) che compaia solo a seguito di una ricodifica degli stimoli.
Al partecipante vengono presentate delle lettere al centro dello schermo (dalla lettera A
alla lettera I esclusa la E), ed il suo compito è quello di valutare se la lettera comparsa
venga ‘prima’ o ‘dopo’ la E premendo un tasto. Il tasto può essere a sinistra per le
lettere prima della E e a destra per quelle dopo la E (situazione corrispondente), o
viceversa (situazione non corrispondente). I tempi di reazione per le risposte corrette
sottoposti ad analisi dei BIN mostrano una differenza significativa solo per i tempi di
reazione più lunghi (situazione corrispondente 606 msec Vs. situazione non
corrispondente 692 msec). Anche in questo caso i risultati dimostrano che il compito
venga eseguito su una rappresentazione spaziale solo quando i tempi di reazione sono
più lenti.
Conclusione
Il primo esperimento conferma che i numeri vengano rappresentati
spazialmente lungo una dimensione orizzontale orientata da sinistra a destra (Dehaene,
1993). Secondo Dehaene, tale rappresentazione dipende dalla grandezza dei numeri per
se (SNARC-effect). Il secondo esperimento dimostra invece che, in funzione del tipo di
istruzioni assegnate al soggetto, è possibile invertire la rappresentazione prevista in
funzione della semplice grandezza numerica: se nell’esperimento. 1 il “3” è a “sinistra”
ed il “9” è a “destra”, nell’esp. 2 avviene l’esatto contrario. La rappresentazione
orizzontale sinistra-destra è comunque di tipo più immediato: infatti, i tempi di reazione
nell’esperimento 1 sono in assoluto i più veloci; ed inoltre la necessità di una ricodifica
secondo altre rappresentazioni (esp. 2 e esp. 3) fa sì che l’effetto Simon possa essere
osservato solo sui tempi di reazione più lunghi. È importante notare che gli esperimenti
dimostrano la possibilità di osservare un effetto Simon anche qualora gli stimoli siano
presentati privi di attributi locazionali.
Riferimenti bibliografici
Dehaene, S. (1992). Varieties of numerical abilities. Cognition, 44, 1-42.
Dehaene, S., Bossini, S. & Giraux, P. (1993). The mental representation of parity and
number magnitudo. Journal of experimental psychology: general, 122, 371396.
Lu, C.H. & Proctor, R.W. (1995). The influence of irrilevant location information on
performance: a review of the Simon and spatial Stroop effect. Psychonomic
bulletin and review, 2, 174-207.
Umiltà, C.A. & Nicoletti, R. (1990). Spatial S-R compatibility. In R.W. Proctor & T.G.
Reeve (eds.), Stimulus-response compatibility: an integrated perspective.
Amsterdam: North Holland.
20
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
SENTIRSI TOCCARE LE MANI DI GOMMA: STUDIO SULLA
CATTURA VISIVA DI STIMOLI TATTILI
Francesco Pavani{xe "Pavani F."} °, Charles Spence{xe "Spence C."} *, Jon
Driver{xe "Driver J."} ^
°Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
*Department of Psychology, University of Oxford
^Institute of Cognitive Neuroscience, University College London
Introduzione
La codifica della posizione di uno stimolo tattile rispetto alle coordinate dello
spazio esterno è il risultato di un’integrazione sensoriale, in quanto si basa su
informazioni somatosensoriali derivate dalla modalità tattile, su informazioni
propriocettive relative alla posizione della parte del corpo stimolata e, presumibilmente,
su informazioni visive. In questo lavoro è stato studiato il ruolo delle informazioni
visive nella localizzazione spaziale di uno stimolo tattile, creando una situazione di
conflitto sensoriale tra la posizione delle mani percepita tramite la propriocezione e la
posizione delle mani percepita tramite la vista. Tale conflitto è stato ottenuto impedendo
ai soggetti la vista delle proprie mani e mostrando invece loro una coppia di arti
artificiali.
I Esperimento:
Metodo
Nel primo esperimento è stato chiesto ad un gruppo di 10 soggetti di afferrare
fra il pollice e l’indice di ciascuna mano una coppia di stimolatori tattili, al di sotto di un
pannello orizzontale opaco che impediva la visione delle braccia. In corrispondenza di
ciascuna mano, 15 cm al di sopra del pannello, era posta una coppia di LED orientati
verticalmente. In ogni prova dell’esperimento i soggetti ricevevano una vibrazione da
uno dei quattro stimolatori tattili, ed uno stimolo luminoso da uno dei quattro LED. Il
compito dei soggetti era quello di discriminare il più velocemente possibile la posizione
della stimolazione tattile (alto, in corrispondenza dell’indice; basso, in corrispondenza
del pollice) ignorando l’informazione visiva (LED in alto o LED in basso). Spence,
Pavani e Driver (1998) hanno recentemente dimostrato che questo compito di
discriminazione tattile subisce l’interferenza dello stimolo luminoso quando
quest’ultimo è incongruente rispetto alla codifica alto/basso, ed in particolare che
l’interferenza è maggiore quanto più lo stimolo visivo incongruente è vicino alle dita
della mano stimolata. In metà dei blocchi sperimentali, due mani di gomma erano
appoggiate sul pannello, allineate con le braccia del soggetto, le dita di gomma accanto
ai distrattori visivi. Se la presenza degli arti di gomma determina una cattura visiva del
senso di posizione delle mani, i soggetti dovrebbero percepire le loro mani nella
posizione in cui vedono gli arti di gomma e quindi gli stimoli tattili più vicini ai
distrattori visivi. Di conseguenza l’interferenza determinata dai distrattori visivi
dovrebbe essere maggiore quando gli arti di gomma sono presenti rispetto a quando non
lo sono.
Risultati
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
21
I risultati hanno dimostrato che i distrattori visivi posti al di sopra di ciascuna
mano interferivano maggiormente con il compito di discriminazione tattile quando gli
arti di gomma erano presenti (TdR con distrattore incongruente – TdR con distrattore
congruente = 145 ms), rispetto a quando erano assenti (TdR con distrattore incongruente
– TdR con distrattore congruente = 90 ms; p<0,005 al t-test). Inoltre, i soggetti
riportavano la sensazione illusoria di percepire gli stimoli tattili alle mani di gomma,
come dimostrato dalle risposte ad un questionario somministrato al termine
dell’esperimento.
II Esperimento:
Metodo
Il legame fra l’effetto di interferenza e il fenomeno della cattura visiva è stato
confermato in un secondo esperimento su 10 soggetti, in cui gli arti di gomma, quando
presenti, erano posti sul pannello in posizione ortogonale rispetto agli arti del soggetto.
In questa condizione, in cui gli arti di gomma occupano una posizione implausibile
rispetto a quella degli arti reali, non dovrebbe verificarsi nessuna illusione del senso di
posizione e quindi nessuna modulazione dell’interferenza esercitata dei distrattori visivi.
Risultati
I risultati hanno dimostrato che in questo secondo esperimento l’esperienza
soggettiva dell’illusione scompariva e non si osservava più alcuna modulazione
dell’effetto di interferenza in relazione alla presenza degli arti di gomma (interferenza
media quando gli arti erano presenti = 85 ms; interferenza media quando gli arti erano
assenti = 82 ms; n.s. al t-test).
Conclusioni
In conclusione, questo studio documenta, attraverso la misura oggettiva della
modulazione dell’interferenza, un effetto di cattura visiva di uno stimolo tattile. Questi
risultati dimostrano il ruolo cruciale dell’informazione visiva (quando presente) nello
stabilire la posizione spaziale di una stimolazione somatosensoriale. L’illusione
descritta sembra riflettere un fenomeno percettivo piuttosto che un fenomeno di
suggestione, poiché i soggetti erano costantemente consapevoli del fatto che gli arti di
gomma non appartenevano al loro corpo.
Riferimenti bibliografici
Spence, C., Pavani, F., & Driver, J. (1998) What crossing the hands can reveal about
visuotactile links in spatial attention. Abstract of the Psychonomic Society,
Psychonomic Society, 3, 13.
RAPPORTI TRA RESTORATIVENESS DEI LUOGHI E
PREFERENZA ESPRESSA
Terry Purcell{xe "Purcell T."}∗, Erminielda Peron{xe "Peron E."}∗∗, Rita
Berto{xe "Berto R."}∗∗
22
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
∗ Department of Architectural and Design Science, Sydney University, Australia
∗∗Dipartimento di Psicologia Generale, Università degli Studi di Padova, Italia
Introduzione
La psicologia ambientale è quel settore della psicologia che si “interessa ai
rapporti tra processi psicologici e processi dell’ambiente sociofisico” (Bonnes e
Secchiaroli, 1992, p.94). Il settore della psicologia ambientale al quale si fa riferimento
in questo lavoro è quello della preferenza ambientale. Sono stati considerati due modelli
di preferenza ambientale : il “modello di preferenza ambientale” di Kaplan .e Kaplan
(1989) e il “modello della discrepanza” di Purcell (1986). Secondo Kaplan e Kaplan
(1989) la preferenza ambientale è determinata dalle caratteristiche fisiche dell’ambiente.
Purcell (1986) invece nel “modello della discrepanza” collega la preferenza ambientale
alla cognizione ambientale. Da recenti studi è emerso che la preferenza ambientale è
determinata soprattutto dal tipo di scena valutata (Purcell, Lamb, Peron e Falchero,
1994). Questo risultato però non è spiegabile né in base al modello di Kaplan e Kaplan
(1989), troppo legato alle caratteristiche fisiche dell’ambiente, né in base al modello di
Purcell (1986), legato soprattutto ai processi cognitivi del soggetto. Visti quindi i limiti
dei due modelli si ipotizza che la preferenza per tipi di ambienti diversi possa essere
spiegata da un altro fattore, non considerato dai due modelli, e cioè dalla restorativeness
dei luoghi. Il concetto di restorativeness è collegato al concetto di stress ambientale. Un
restorative place cioè un luogo rigenerativo, consente ad una persona di distrarsi, di
rilassarsi, favorisce gli stati emotivi positivi e consente uno stacco dalla routine
quotidiana. Sono state considerate due teorie sui luoghi rigenerativi : “la teoria del
recupero dallo stress” (Ulrich, 1981) e “la teoria dell’attenzione rigenerata” (Kaplan S.,
1995). Per entrambe le teorie i luoghi naturali sono più rigenerativi di quelli costruiti.
Metodo
Per verificare se la restorativeness dei luoghi può effettivamente spiegare
perché la preferenza ambientale varia in relazione a tipi di ambienti diversi e quindi se
esiste una relazione tra preferenza ambientale e restorativeness, relazione finora mai
considerata in letteratura, è stato condotto un esperimento che consiste nel valutare la
restorativeness e la preferenza per cinque tipi di luoghi diversi usando la Perceived
Restorativeness Scale. La scala si basa sulla “teoria dell’attenzione rigenerata” (Kaplan
S., 1995) e consente di rilevare il grado di restorativeness di un luogo misurando la
percezione individuale di cinque fattori rigenerativi: being-away, fascination,
coherence, scope e compatibility (Korpela e Hartig, 1996). Oltre alle informazioni sul
grado di restorativeness di un luogo, la scala consente di valutare anche la familiarità e
la preferenza per lo stesso. Sono state utilizzate dieci diapositive rappresentanti a due a
due, cinque tipi di ambienti diversi che variano da costruito a naturale e che coprono
l’intera gamma della preferenza ambientale, come già dimostrato nel lavoro di Purcell et
al. (1994) : zona industriale, case, strade di città, colline, laghi. Queste diapositive sono
state randomizzate in modo da ottenere cinque coppie costituite da diapositive
appartenenti a due diverse categorie ambientali. Cinque gruppi di 20 studenti
universitari (10 maschi e 10 femmine) hanno valutato una coppia di diapositive
ciascuno. Ogni soggetto ha valutato la restorativeness e la preferenza per i due luoghi
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
23
rappresentati dalle diapositive rispondendo a due Perceived Restorativeness Scale, una
per diapositiva.
Risultati
Dai risultati emerge che la preferenza ambientale è determinata dal tipo di
scena valutata. I punteggi di preferenza dimostrano che i soggetti preferiscono i luoghi
naturali cioè le colline e i laghi, rispetto a quelli costruiti cioè la zona industriale, le
strade di città e le case. Inoltre i luoghi preferiti sono stati valutati come più rigenerativi
rispetto a quelli non preferiti. Infatti i luoghi naturali oltre ad ottenere alti livelli di
preferenza presentano anche alti livelli dei fattori rigenerativi being-away, fascination,
scope e compatibility. Il fattore coherence invece non si è rivelato un fattore che
caratterizza esclusivamente le esperienze nei luoghi naturali. La preferenza ambientale e
la restorativeness presentano il medesimo andamento all’interno delle cinque categorie :
alti livelli di preferenza sono accompagnati ad alti livelli di restorativeness e viceversa.
Conclusione
Se la preferenza per tipi di ambienti diversi non è spiegabile né in base al
“modello di preferenza ambientale” di Kaplan e Kaplan (1989), né in base al “modello
della discrepanza” di Purcell (1986), concludendo possiamo dire che i nostri dati
suggeriscono che la restorativeness invece, potrebbe spiegare perché la preferenza
ambientale varia in relazione a tipi di ambienti diversi. La preferenza espressa per un
luogo sembra dipendere infatti dal suo grado di restorativeness; gli ambienti valutati
come più rigenerativi (colline e laghi) sarebbero preferiti rispetto a quelli valutati come
poco rigenerativi (zona industriale, strade di città, case), tuttavia sono necessarie
ulteriori ricerche che considerino altre categorie ambientali.
Riferimenti bibliografici
Bonnes M. e Secchiaroli G. (1992). Psicologia ambientale. Introduzione alla psicologia
sociale dell’ambiente. La Nuova Italia Scientifica, Roma.
Kaplan S. e Kaplan R (1989). The experience of nature: a psychological perspective.
Cambridge, Cambridge University Press.
Kaplan S. (1995). The restorative benefits of nature: Toward an integrative framework.
Journal of Environmental Psychology, 15, 169-182.
Korpela K. e Hartig T. (1996). Restorative qualities of favourite places. Journal of
Environmental Psychology, 16, 221-233.
Purcell A. T. (1986). Environmental perception and affect. A schema discrepancy
model. Environment and Behavior, 18(1), 3-30.
Purcell A. T., Lamb R. J., Peron E. e Falchero S. (1994). Preference or preferences for
landscape? Journal of Environmental Psychology, 14, 195-209.
Ulrich R. S. (1981). Natural versus urban scenes. Some psychological effects.
Environment and Behavior, 13(5), 523-556.
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
24
PREVEDIBILITÀ E CONTROLLO DEL CAMBIAMENTO DI
COMPITO
Franca Stablum1{xe "Stablum F."}, Sergio Morra2{xe "Morra S."}
Università di Padova
2
Università di Genova
1
La possibilità di predisporsi mentalmente all’esecuzione di un compito e la
necessità di cambiare predisposizione (mental set) al momento del cambiamento di
compito (task shift) sono da lungo tempo documentate (Jersild, 1927) ma la loro
spiegazione è tuttora controversa. Morra e Roncato (1988a) proposero l’esistenza di
processi di controllo, consistenti nell’attivare programmi per l’esecuzione del compito
che inizia e disattivare quelli relativi al compito già concluso. Allport, Styles e Hsieh
(1994) proposero invece una spiegazione in termini di interferenza proattiva del primo
compito sul secondo. Rogers e Monsell (1995) sostennero l’esistenza di processi di
controllo relativi all’avvio del compito nuovo.
I risultati di diverse ricerche (Morra e Roncato, 1988b; Rogers e Monsell,
1995; Stablum, Leonardi, Mazzoldi, Umiltà e Morra, 1994) depongono a favore della
capacità dei soggetti di controllare il cambio di predisposizione; Rogers e Monsell
(1995) la chiamano “componente endogena” del task shift. I nostri precedenti
esperimenti, peraltro, suggeriscono che ciò accada solo in condizioni di elevata
prevedibilità del cambiamento. Tuttavia, anche nelle condizioni più favorevoli, rimane
regolarmente un costo dello shift di poche decine di millisecondi (Meiran, 1996; Morra
e Roncato, 1988b; Rogers e Monsell, 1995; Stablum e al., 1994); tale componente
“esogena” potrebbe essere compatibile con l’esistenza di interferenza proattiva, o di
operazioni di inibizione controllata del programma irrilevante. I due esperimenti qui
riferiti intendono contribuire al confronto di tali spiegazioni ed esplorare il ruolo della
memoria di lavoro nei processi di controllo del task shift.
Metodo
In ognuno dei due esperimenti si utilizzano due compiti: discriminazione di
numeri (pari/dispari) e discriminazione di lettere (vocale/consonante). Nel primo
esperimento la risposta è vocale ai numeri e manuale alle lettere; nel secondo
esperimento viceversa. A parte questo, i due esperimenti sono identici, con 8 soggetti
(studenti universitari) ciascuno.
Vi sono quattro livelli del fattore “lunghezza delle serie”, per cui si alternano
regolarmente sequenze di 2, 4, 7, o 10 numeri ad altrettante lettere, e due livelli del
fattore “cue”, per cui, nella condizione di cue presente, un suono preavvisa i soggetti del
cambiamento di compito.
Si analizzano i tempi di risposta al primo e al secondo stimolo di ciascuna
serie, in funzione del compito, della lunghezza delle serie, e della presenza/assenza del
cue. Il costo dello shift è dato dalla differenza fra i tempi di risposta al primo e il
secondo stimolo della serie.
Risultati e discussione
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
25
In entrambi gli esperimenti, il costo dello shift dipende dalla lunghezza della
serie (p<.001 in entrambi i casi), dalla presenza del cue (p<.01 nel primo e p<.001 nel
secondo esperimento), e dalla loro interazione (p<.001 in entrambi gli esperimenti). In
media, fra i due esperimenti, in presenza del cue il costo dello shift è di 29, 38, 37, 34
msec rispettivamente con serie di 2, 4, 7, 10 item; in assenza del cue, il costo dello shift
è rispettivamente di 50, 42, 154, 176 msec.
In altri termini, in presenza di cue il costo dello shift è esiguo (ma significativo)
e non dipende dalla lunghezza della serie. In assenza di cue il costo è più elevato, ma lo
è in particolare con lunghe sequenze di stimoli, che impediscono al soggetto di tenere a
mente (oltre alle informazioni necessarie per lo svolgimento del compito) anche la
posizione attuale nella serie, e quindi prepararsi, dopo l’ultimo stimolo della serie, al
cambiamento di compito. Quando, cioè, si eccede la capacità della memoria di lavoro, la
componente “endogena” dei processi di controllo non è in grado di operare.
Sebbene in ciascun esperimento il TR sia maggiore per il compito a risposta
vocale, complessivamente risulta più difficile la discriminazione di numeri. È con
questo compito che si ha anche il costo maggiore (84 vs 57 msec, p<.01, unendo
insieme i due esperimenti); inoltre, il costo dello shift è influenzato dalle interazioni
compito x cue (p<.03) e compito x lunghezza della serie x cue (p<.02), nel senso che il
compito più difficile (numeri) accentua ulteriormente gli effetti di cue e lunghezza della
serie. Ciò conferma i risultati di Morra e Roncato (1988b) riguardo l’effetto della
difficoltà dei compiti, e contrasta coi risultati di Allport e al. (1994), che tale effetto non
avevano trovato.
Neppure in presenza di cue, però, i processi endogeni di controllo eliminano
totalmente il costo dello shift. Se fosse vera l’ipotesi dell’interferenza proattiva, ci si
dovrebbe attendere che questa fosse maggiore dopo una serie lunga che dopo una breve;
invece, in presenza di cue, il costo dello shift non cresce con la lunghezza della serie.
Pertanto, la componente residua del costo (quella non spiegata da processi endogeni di
attivazione del programma relativo al compito da iniziare) sembra difficilmente
spiegabile in termini di semplice interferenza. Ricerche future possono esplorare
l’eventualità di processi di controllo per l’inibizione attiva del programma irrilevante.
*Gli autori ringraziano Agnese Figus e Michela Perini per la raccolta dei dati, e Paola Calza per la
collaborazione a un esperimento preliminare.
Riferimenti bibliografici
Allport A.D., Styles E., Hsieh S. (1994). Shifting intentional set: Exploring the dynamic
control of tasks. In: Umiltà C., Moscovitch M. (eds.), Attention and
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Morra S., Roncato S. (1988a). Latenza della risposta in funzione del contenuto e
dell’ordine di presentazione degli stimoli (l’effetto sorpresa). Giornale Italiano
di Psicologia, 15, 101-122.
26
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
Morra S., Roncato S. (1988b). L’effetto del cambiamento di compito con sequenze di
lunghezza fissa. Abstracts del VII Congresso SIPs Ricerca di Base (Palermo),
pp.211-213.
Rogers R.D., Monsell S. (1995). Costs of a predicatable switch between simple
cognitive tasks. Journal of Experimental Psychology: General, 124, 207-231.
Stablum F., Leonardi G., Mazzoldi M., Umiltà C., Morra S. (1994). Attention and
control deficits following closed head injury. Cortex, 30, 603-618.
DOMINANZA VISIVA: UNA NUOVA PROSPETTIVA
Massimo Turatto{xe "Turatto M."}, Giovanni Galfano{xe "Galfano G."},
Francesco Benso{xe "Benso F."}
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo
Dipartimento di Psicologia Generale Università di Padova
Introduzione
Il presente studio si propone di indagare i meccanismi attentivi legati al
processamento di stimoli visivi ed uditivi. Dalle prime ricerche su questo argomento (es.
Gibson, 1943; Posner, Nissen e Klein, 1976) nacque il concetto di dominanza visiva
(DV), per descrivere il fatto che la prestazione dei soggetti in vari paradigmi
sperimentali appariva essere controllata dalla modalità visiva. Studi successivi basati sul
paradigma di facilitazione intersensoriale (es., Posner et al., 1976) riscontrarono un bias
nella distribuzione delle risorse attentive verso la modalità visiva rispetto a quella
uditiva, dato che fu interpretato come ulteriore indice di DV. Secondo Posner et al.
(1976), la DV era dovuta al fatto che il sistema visivo, rispetto a quello uditivo e
propriocettivo, sarebbe meno legato a meccanismi di allerta importanti per la
sopravvivenza. Per compensare tale “deficit” del sistema visivo, gli esseri umani
svilupperebbero un bias attentivo inconsapevole verso la visione. I risultati emersi da
questo e da altri studi risultano, tuttavia, essere viziati da una serie di problemi
metodologici che sono stati ben evidenziati da Spence e Driver (1997), il più importante
dei quali è il cosiddetto artefatto spaziale, legato alla scelta di sorgenti di stimolazione
aventi posizioni differenti nello spazio. Scopo di questa ricerca è investigare i
meccanismi attentivi coinvolti nella selezione di stimoli provenienti da canali sensoriali
diversi evitando gli artefatti metodologici delineati da Spence e Driver (1997).
Esperimento 1
Con questo esperimento eravamo interessati ad indagare la possibilità che la
detezione di uno stimolo bersaglio S2 potesse essere influenzata dalla modalità di un
segnale di warning S1, anche quando la modalità di questo non fosse predittiva della
modalità del bersaglio.
Metodo
Hanno preso parte all’esperimento 25 studenti universitari, i quali erano
informati del fatto che la modalità del segnale S1 non era informativa rispetto alla
modalità dello stimolo bersaglio S2. I soggetti sedevano di fronte ad un tavolo su cui si
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
27
trovava un dispositivo costituito da una scatola in plastica su cui erano assemblati
coassialmente uno speaker ed un LED (le due sorgenti di stimolazione avevano la stessa
posizione nello spazio). Per la modalità visiva, S1 era rappresentato dall’accensione del
LED in una colorazione rossa, mentre S2 era costituito dall’accensione in colorazione
verde. Per la modalità acustica, S1 era un tono a 900 Hz, mentre S2 era un tono a 1800
Hz. Compito dei soggetti era premere un tasto il più rapidamente possibile non appena
veniva presentato lo stimolo bersaglio, a prescindere dalla sua modalità (TR semplice).
Nel 50% dei casi le prove erano ipsimodali e nel restante 50% crossmodali. Erano
inoltre presenti dei catch trials. I SOA (stimulus onset asynchrony) utilizzati per
indagare il decorso temporale del fenomeno erano di 150, 600 e 1000 ms. Ad ogni
prova, la relazione tra S1 e S2 cambiava casualmente.
Risultati e discussione
Abbiamo utilizzato le seguenti convenzioni: VV (S1 visivo-S2 visivo), VA (S1
visivo-S2 acustico), AA (S1 acustico-S2 acustico) e AV (S1 acustico-S2 visivo). I TR
sono stati analizzati per mezzo di un’ANOVA a misure ripetute in cui i fattori
considerati erano la modalità di S1 (visiva o acustica), la modalità di S2 (visiva o
acustica) ed il SOA (150, 600 oppure 1000). Di seguito riportiamo soltanto gli effetti
principali e le interazioni che hanno raggiunto la significatività. Il fattore modalità di S2
è risultato significativo [F(1,24) = 26.946, p < .001]: i soggetti si sono dimostrati più
rapidi nel rilevare il bersaglio uditivo [M = 411 ms, SD = 92] rispetto al visivo [M = 444
ms, SD = 87]. Anche il fattore SOA è risultato significativo [F(2,48) = 54.827, p <
.001]. L’interazione modalità di S1 x modalità di S2 è risultata significativa [F(1,24) =
13.680, p < .005; VV, M = 437 ms, SD = 85; AV, M = 451 ms, SD = 90; AA, M = 395
ms, SD = 83; VA, M = 427 ms, SD = 98]: i soggetti hanno risposto più rapidamente
nelle prove ipsimodali [M = 416 ms, SD = 81] rispetto alle prove crossmodali [M = 439
ms, SD = 88]. Anche l’interazione triplice ha raggiunto la significatività statistica
[F(2,48) = 60.402, p < .001], mostrando che i TR per le prove ipsimodali erano più
veloci rispetto alle crossmodali soltanto al SOA più breve (150 ms). Ai dati sono state
applicate delle analisi post-hoc (t-tests). Al SOA più breve, i TR nella condizione VV
erano più rapidi rispetto alla condizione AV [differenza: 74 ms, p < .01]; allo stesso
modo, i TR nella condizione AA sono risultati più veloci rispetto alla condizione VA
[differenza: 101 ms, p < .01]. Al SOA intermedio, i TR delle condizioni VV ed AV non
sono risultati significativamente diversi, così come nelle condizioni AA e VA. Al SOA
più lungo, i soggetti erano invece più rapidi nella condizione AV rispetto alla
condizione VV [differenza 27 ms, p < .01] e più rapidi anche nella condizione VA
rispetto alla condizione AA [differenza 21 ms, p < .05]. La nostra ipotesi era che la
presentazione di uno stimolo S1, sia esso visivo che uditivo, avrebbe determinato uno
spostamento dell’attenzione sulla modalità corrispondente, determinando TR più rapidi
nella detezione di un successivo bersaglio S2 ipsimodale: ciò si è verificato al SOA di
150 ms. La scomparsa di questo effetto al SOA intermedio (600 ms) può essere legata
alla non informatività del segnale di allerta S1. Il pattern riscontrato all’intervallo più
lungo (1000 ms) è invece interpretabile, a nostro avviso, come la prima dimostrazione
del fenomeno dell’inibizione di ritorno tra modalità sensoriali. Per concludere, i dati di
questo esperimento non forniscono alcuna evidenza per la DV, almeno nei termini
ipotizzati da Posner et al. (1976).
28
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
Esperimento 2
Scopo di questo secondo esperimento era indagare ulteriormente il grado di
automaticità del meccanismo esogeno responsabile dello spostamento dell’attenzione tra
le modalità per trovare eventuali indicazioni di DV non emerse nel primo esperimento.
Abbiamo utilizzato lo stesso paradigma sperimentale, con un’unica eccezione: i soggetti
(24 nuovi osservatori) erano informati che, all’interno di un determinato blocco di
prove, la modalità dello stimolo bersaglio rimaneva sempre la stessa. In base a questa
procedura, i soggetti potevano focalizzare l’attenzione sulla modalità del bersaglio in
anticipo, ignorando, se possibile, la modalità del segnale di allerta S1. Come
nell’esperimento precedente, il 50% delle prove erano ipsimodali e il 50% crossmodali.
Erano presenti anche dei catch trials. L’ordine di presentazione dei blocchi era
bilanciato tra i soggetti.
Risultati e discussione
I TR sono stati analizzati tramite un’ANOVA per misure ripetute con gli stessi
fattori del primo esperimento. Riportiamo di seguito solo il dato più rilevante: la triplice
interazione ha raggiunto la significatività [F(2,46) = 16.120, p < .001], mostrando come
l’effetto della modalità di S1 sulla modalità del bersaglio variasse in funzione del SOA.
Ai dati sono state quindi applicate delle analisi post-hoc (t-test). Al SOA più breve, i TR
nella condizione VV non sono risultati significativamente diversi da quelli per la
condizione AV. Invece, la condizione AA ha mostrato TR più rapidi rispetto alla
condizione VA [differenza: 101 ms, p < .01]. Al SOA intermedio ed a quello più lungo
non è emersa alcuna differenza tra VV e VA, e tra AA ed AV. I risultati hanno mostrato
una forte asimmetria tra le due modalità nel catturare l’attenzione. Infatti, sembrano
suggerire che quando l’attenzione è completamente rivolta alla modalità visiva, uno
stimolo acustico non riesce a catturarla, mentre quando l’attenzione è concentrata sulla
modalità acustica, la comparsa improvvisa di uno stimolo visivo è in grado di produrre
tale cattura involontaria. Tale asimmetria sembra poter essere interpretata come prova a
favore dell’esistenza del fenomeno della DV, la quale, contrariamente da quanto
ipotizzato da Posner et al. (1976), non sarebbe dovuta al fatto che l’attenzione è spostata
verso la modalità visiva per ovviare ad uno scompenso nella capacità allertante del
segnale. Al contrario, i nostri dati suggeriscono che la DV può essere vista come un
accesso privilegiato dei segnali visivi al sistema attentivo in grado di causare un
processamento obbligatorio ogniqualvolta questi vengano percepiti.
Riferimenti bibliografici
Gibson, J. J. (1943). Adaptation, after-effect and contrast in the perception of curved
lines. Journal of Experimental Psychology, 16, 1-31.
Posner, M. I., Nissen, M. J. e Klein, R. M. (1976). Visual dominance: An informationprocessing account of its origins and significance. Psychological Review, 83,
157-171.
Spence, C. e Driver, J. (1997). On measuring selective attention to an expected sensory
modality. Perception & Psychophysics, 59, 384-403.
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
29
ESEMPIO DI UTILIZZO STRATEGIE DI ORIENTAMENTO
DELL’ATTENZIONE BASATE SULL’OGGETTO PIÙ EFFICACI
DELL’ORIENTAMENTO BASATO SULLE COORDINATE
SPAZIALI
Alec Vestri{xe "Vestri A."}*, Tiziana Metitieri{xe "Metitieri T."}^, Valentina
Angeli{xe "Angeli V."}^
*Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di
Padova
^Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
Introduzione
Gli studi sull’orientamento dell’attenzione visiva spaziale (OA) hanno
mostrato che è possibile utilizzare due tipi di strategie attentive. Una strategia è basata
sulla rilevanza degli oggetti presenti nel campo visivo: le configurazioni visive che
formano dei percetti dovrebbero, in quanto tali, facilitare la selezione delle informazioni
rilevanti (Duncan, 1984; Baylis & Driver, 1993) . L’altra strategia è basata sulle
coordinate spaziali: la selezione dell’informazione avverrebbe in base alla rilevanza di
determinate localizzazioni nella mappa del campo visivo (Posner, 1980). I lavori
sperimentali effettuati in questo ambito partono dall’assunto che una delle due strategie,
piuttosto che l’altra, sia più efficace. Da un punto di vista teoretico, è interessante notare
che gli autori hanno raramente valutato una strategia rispetto all’altra in condizioni che
permettessero un confronto sull’efficacia di entrambe. Solo negli ultimi anni sono stati
pubblicati alcuni lavori che hanno dimostrato la possibilità della coesistenza dei due tipi
di OA (Egly et al., 1994; Heslenfeld et al., 1997; Buck et al., 1998).
Scopo di questo lavoro è confrontare le due strategie di OA in condizioni dove
possano essere valutate entrambe e dove sia possibile misurare l’efficacia di una rispetto
all’altra.
Ipotesi
Diversamente da altri autori, non riteniamo che, a priori, una strategia di OA
debba essere più efficace rispetto all’altra, ma che entrambe abbiano un ruolo funzionale
che si manifesta a seconda delle richieste del compito. Le richieste possono essere sia
esplicite (istruzioni) che implicite (tipo di stimoli, difficoltà del compito). Pur
manipolando le istruzioni, quindi, è ipotizzabile che la forte rilevanza informativa di
oggetti semplici presenti nel campo visivo condizioni le prestazione in favore di OA
basato sull’oggetto anche in un compito dove sarebbe teoricamente possibile utilizzare
OA basato solamente sulle coordinate spaziali.
Metodologia
Sono stati condotti 4 esperimenti su un totale di 38 soggetti volontari (tra i 21 e
29 anni, 29 donne, tutti con vista normale o corretta). Per ogni esperimento la procedura
è quasi identica e venivano utilizzati soggetti diversi: su un monitor Nec MultiSync
4Fge, mediante un PC 486 ed il software MEL, venivano disegnati due oggetti di forme
(vedi figura 1) e colori diversi (blu e grigio). Gli oggetti misuravano 6x1.5 gradi di
30
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
angolo visivo (g.a.v.) e distavano l’uno dall’altro di 5 g.a.v. In mezzo ad essi vi era una
crocetta bianca che fungeva da punto di fissazione. La procedura prevedeva che per
alcune centinaia di msec (variabili) il soggetto aspettasse la comparsa di un cerchietto
verde (indizio) che poteva apparire in uno dei quattro vertici all’interno degli oggetti;
l’indizio permaneva per circa 110 msec e quindi spariva; dopo un intervallo variabile
(210, 360, 510 msec) appariva lo stimolo imperativo (SI: un cerchietto identico al
precedente, ma di colore rosso). Sul totale di 320 prove per soggetto, nella metà, fra
indizio e stimolo imperativo, avveniva uno scambio di posizione dei due oggetti (quello
a destra appariva a sinistra e viceversa). Compito principale del soggetto era rispondere
premendo la barra spaziatrice della tastiera del computer non appena vedeva apparire lo
SI. I primi tre esperimenti erano divisi in due blocchi di prove: i soggetti venivano
istruiti a tener conto del fatto che l’indizio suggeriva l’oggetto (in un blocco) o la
posizione spaziale (nell’altro blocco) dove successivamente sarebbe apparso lo SI. Lo
SI poteva apparire secondo 4 possibilità in base all’indizio: a) stesso oggetto e stessa
posizione, b) stesso oggetto e diversa posizione (l’altro vertice), c) oggetto diverso e
stessa posizione (scambio degli oggetti), d) diverso oggetto e diversa posizione. La reale
probabilità che lo SI apparisse in maniera compatibile alle istruzioni era del 70%; nel
restante 30% lo SI appariva in una delle posizioni incompatibili rispetto alle istruzioni.
Nell’ultimo esperimento non venivano date istruzioni sulle strategie: i due blocchi erano
identici e le probabilità di apparire un una delle posizioni era identica.
Il secondo esperimento è stato condotto per bilanciare il fenomeno di flickering
che teoricamente poteva disturbare in maniera sistematica le prove in cui avveniva lo
scambio di posizione degli oggetti; il terzo era diviso in due parti per separare i due
aspetti visivi di colore e forma; il quarto era senza istruzioni specifiche.
Risultati
I risultati del secondo esperimento confermano tutti quelli del primo
(l’interferenza visiva del flickering dunque non disturbava le strategie attentive): fra i
dati rilevanti, sono significativi l’effetto di compatibilità (p.<.01) e l’interazione
istruzioni per compatibilità (p<.01; vedi grafico 1). In particolare si nota che la
differenza tra compatibili e incompatibili con istruzioni date per l’oggetto è significativa
(post-hoc con t-student: p<.001) mentre non lo è per le istruzioni date per lo spazio (c’è
una tendenza inversa rispetto all’attesa: le valide sono più lente delle invalide).
L’esperimento 3 non ha messo in luce differenze significative interessanti (solo una
leggera tendenza in direzione della maggiore pregnanza del colore). L’esperimento 4 ha
confermato alcune analisi separate degli esperimenti precedenti che tenevano conto solo
delle strategie possibili a prescindere delle istruzioni: l’effetto di validità permane a
favore delle strategie per l’oggetto (p<.001) e mai per lo spazio (viene un effetto
contrario – p<.01- spiegabile in base alle strategie per l’oggetto).
Conclusioni
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
31
I dati dei nostri esperimenti sono a favore della predominanza della strategia di
OA basata sull’oggetto in un compito di confronto rispetto alla strategia di OA basata
sulle coordinate spaziali. Gli esperimenti dimostrano inoltre che ciò avviene in maniera
250
242
Compatibile
240
Incompatibile
230
221
220
210
206
211
200
190
180
Figura 1. Stimoli utilizzati con esempio di indizio
Istruzioni per Istruzioni per
OA – Oggetto OA - Spazio
Grafico 1.
Dati relativi
all’esp. 2:
Istruzioni x
compatibilità
automatica e non volontaria.
Riferimenti bibliografici
Baylis G.C., & Driver J. (1993). Visual Attention and Objects: Evidence for
Hierarchical Coding of Location. Journal of Experimental Psychology: H.P.P.,
19 (3): 451-470.
Buck-BH; Black-SE; Behrmann-M; Caldwell-C; Bronskill-MJ (1998). Spatial- and
object-based attentional deficits in Alzheimer’s disease. Relationship to
HMPAO-SPECT measures of parietal perfusion. Brain, 120 (Pt 7): 1229-44.
Duncan J. (1984). Selective Attention and the Organization of Visual Information.
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Egly R., Driver J., Rafal R.D. (1994). Shifting visual attention between objects and
locations: Evidence from normal and parietal lesion subjects. Journal of Exp.
Psych.: G., 123 (2): 161-177.
Heslenfeld D.J., Henemans J.L., Kok A., Molenaar P.C.M. (1997). Feature Processing
and Attention in the Human Visual System: an Overview. Biological
Psychology, 45: 183-215.
Posner M.I (1980). Orienting of Attention. Quarterly Journal of Experimental
Psychology, 32: 3-25.
PLASTICITÀ COGNITIVA CROSSMODALE ED EFFETTO
SIMON
32
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
Marco Zorzi{xe "Zorzi M."}, Mariaelena Tagliabue{xe "Tagliabue M."}, Carlo
Umiltà{xe "Umiltà C."}
Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
Introduzione
L’effetto Simon è quell’effetto per cui risposte lateralizzate a stimoli
lateralizzati sono più veloci quando le posizioni dello stimolo e della risposta sono
uguali (rispetto a quando non corrispondono) anche se la risposta deve essere
selezionata sulla base di caratteristiche non spaziali dello stimolo (colore, forma ecc.). I
modelli attualmente più accreditati a rendere conto di questo fenomeno sono i modelli a
due vie (De Jong, Liang e Lauber, 1994 e Kornblum, Hasbroucq e Osman 1990) che
prevedono l’esistenza di una via automatica di codifica della posizione che si attiva
sempre alla comparsa di uno stimolo. Contemporaneamente si attiva anche una via
controllata, più lenta, che determina le associazioni arbitrarie tra caratteristiche non
spaziali dello stimolo e posizione della risposta in base alle istruzioni. La via automatica
crea una preattivazione sulle unità di selezione della risposta e quindi la selezione della
risposta spazialmente corrispondente è più veloce, mentre viene rallentata la selezione
della risposta non corrispondente.
Alcuni studi hanno cercato di verificare se esistono compiti di addestramento
che possono alterare le prestazioni al compito Simon (Proctor e Lu, 1999). In un recente
lavoro (Tagliabue, Zorzi, Umiltà e Bassignani, in stampa) è stato dimostrato che se il
compito Simon è preceduto da un compito compatibile i TR hanno l’andamento del
classico effetto Simon, mentre se il compito Simon viene svolto dopo un compito
incompatibile, l’effetto Simon si inverte. Tale inversione viene registrata quando i due
compiti vengono svolti ad una settimana di distanza, mentre si ha solo una riduzione
dell’effetto Simon quando il compito incompatibile precede il compito Simon solo di 5
minuti o di 24 ore. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che le associazioni arbitrarie che si
creano durante il compito incompatibile e che si mantengono nel successivo compito
Simon (modificando l’azione della via automatica) sono associazioni di tipo
ippocampale che si consolidano nel tempo. In questo caso le conseguenze
dell’addestramento incompatibile sull’effetto Simon dovrebbero trasferirsi da una
modalità all’altra.
Metodo
Sono stati realizzati tre esperimenti. In ogni esperimento i soggetti venivano
sottoposti a due condizioni sperimentali: una di addestramento nella compatibilità
spaziale in modalità acustica e una successiva condizione Simon in modalità visiva. Nel
primo esperimento le due condizioni erano separate da una breve pausa (5 min. circa);
nel secondo il compito Simon veniva svolto 24 ore dopo la compatibilità spaziale; nel
terzo esperimento le due condizioni erano separate da 7 giorni. In ogni esperimento 8
soggetti svolgevano il compito compatibile come addestramento, mentre altri 8 soggetti
svolgevano il compito incompatibile. Nel compito compatibile i soggetti dovevano
premere un tasto a destra quando sentivano un suono all’orecchio destro e un tasto a
sinistra quando il suono arrivava all’orecchio sinistro. Nel compito incompatibile i
soggetti sentivano sempre il suono all’orecchio destro o sinistro, ma dovevano premere
il tasto di sinistra nel primo caso e quello di destra nel secondo. Nel compito Simon ai
COMUNICAZIONI - ATTENZIONE
33
soggetti veniva presentato un quadrato a destra o a sinistra di un punto centrale di
fissazione; il quadrato poteva essere rosso o verde, e i soggetti dovevano rispondere col
tasto di destra ad un colore e col tasto di sinistra all’altro colore.
Risultati
I risultati mostrano che, anche quando l’addestramento incompatibile viene
svolto in modalità acustica e la condizione Simon in quella visiva, a distanza di una
settimana di tempo, il compito incompatibile produce una netta inversione dell’effetto
Simon, mentre alle altre due distanze temporali l’effetto Simon subisce una semplice
riduzione.
Conclusioni
L’influenza della posizione dello stimolo sulla velocità delle risposte
selezionate sulla base di caratteristiche non spaziali dello stimolo stesso, è un fenomeno
sempre presente. Malgrado la stabilità di questo fenomeno alcune condizioni
sperimentali possono alterare le dinamiche temporali di interazione tra le due vie di
elaborazione chiamate in causa (una automatica e una controllata), in modo da invertire
o annullare l’effetto Simon. Ciò avviene quando i soggetti svolgono, prima del Simon,
un compito incompatibile che li induce a creare delle associazioni tra stimolo a sinistra e
risposta a destra e viceversa. L’azione di queste ultime sulle associazioni automatiche
preesistenti continua ad essere presente anche nella successiva condizione Simon. Tali
associazioni sono di tipo crossmodale, come dimostrano gli esperimenti descritti. Le
dinamiche temporali di interazione tra vie automatiche (perciò relativamente rigide) e
vie controllate, conferiscono al sistema cognitivo una certa plasticità, senza per questo
rinunciare all’efficienza.
Riferimenti bibliografici
De Jong, R., Liang, C.C. & Lauber, E. (1994). Conditional and unconditional
automaticity: A dual-process model of effects of spatial stimulus-response
correspondence. Journal of Experimental Psychology: Human Perception and
Performance, 20, 731-750.
Kornblum, S., Hasbroucq, T. & Osman, A. (1990). Dimensional overlap: Cognitive
basis for stimulus-response compatibility – A model and a taxonomy.
Psychological Review, 97,253-270.
Proctor, R.W. & Lu, C.H. (1999). Processing irrelevant location information: Practice
and transfer effects in choice-reaction tasks. Memory and Cognition, 27, 63-77.
Tagliabue, M., Zorzi, M., Umiltà, C. & Bassignani F. (in stampa). The role of LTM
links and STM links in the Simon effect. Journal of Experimental Psychology:
Human Perception and Performance.
34
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
EVOLUZIONE PROGRESSIVA DELLE REGOLAZIONI
EMOZIONALI E COMUNICATIVE IN PRE-ADOLESCENTI
IMPEGNATI IN ATTIVITÀ DI GRUPPO
Pina Boggi Cavallo{xe "Boggi Cavallo P."}, Mauro Cozzolino{xe "Cozzolino M."},
Daniel Donato{xe "Donato D."}, Antonio Iannaccone{xe "IannacconeA."}{xe
"Iannaccone A."}
Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Salerno
Lo studio dei gruppi in psicologia, inaugurato da K. Lewin con una serie di
ricerche ormai classiche, è andato perfezionandosi negli ultimi 50 anni con
l’introduzione di metodologie particolarmente raffinate. È il caso, ad esempio, delle
griglie di Bales (1950), delle reti di comunicazione di Flament (1974) della prospettiva
psicosociale nell’interazione in-group e out-group (Palmonari, 1995; Petter, 1998).
La presente ricerca intende esplorare il problema classico dell’organizzazione e
del funzionamento di gruppi, centrandosi, in modo specifico, sulle variazioni dei
processi comunicativi e delle regolazioni emozionali in relazione alla dimensione
temporale della vita di gruppo. In particolare, ricorrendo a tecniche di self-report e
strumenti di osservazione delle dinamiche organizzative e comunicative, la ricerca si è
posta l’obiettivo di individuare i processi di costruzione di significati (ed azioni)
condivisi, anche in relazione alla progressiva modifica dei vissuti emozionali dei
partecipanti alle diverse sessioni interattive.
Metodologia
Sono stati formati tre gruppi di adolescenti, impegnati nella realizzazione di
una messa in scena di un breve atto di teatro dialettale. Le attività dei gruppi che si sono
protratte in quattro sessioni successive, sono state completamente videoregistrate e le
conversazione trascritte con l’ausilio di software specifico. Per ognuna delle sessioni è
stata prevista una rilevazione dei vissuti emozionali all’inizio e alla fine della stessa.
Risultati
I risultati, ancora in corso di definitiva elaborazione, mostrano che le
dinamiche di realizzazione delle attività collaborative sono in relazione con le modalità
di condivisione e i vissuti emozionali dei membri del gruppo, sia nello spazio a breve
termine della sessione che in quello a medio termine (inizio - fine della ricerca).
Lo studio consente di delineare un’analisi della dinamica di gruppo
potenzialmente interessante e ricca di prospettive di approfondimento.
Riferimenti bibliografici
Bales R.F. (1950). Interaction Process Analysis: a Method for the Study of Small
Groups, Addison-Wesley, Cambridge (Mass.)
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
35
Flament, C. (1965). Réseaux de communication et structures de groupe. Trad. it. Isedi,
Milano, 1974.
Palmonari, A. (1995). Processi simbolici e dinamiche sociali, Bologna, Il Mulino.
Petter, G. (1998), Lavorare insieme nella scuola. Aspetti
Psicologici della
collaborazione fra insegnanti. Firenze, La Nuova Italia.
SETTING SPERIMENTALE E RISPOSTE EMOTIVE
Maria Teresa Cattaneo{xe "Cattaneo M.T."}°, Elisa Frigerio{xe "Frigerio E."}°,
Milena Peverelli{xe "Peverelli M."}°, Giorgio Annoni{xe "Annoni G."}*
°Istituto di Psicologia, Facoltà Medica, Università di Milano
*Dipartimento di Medicina Interna, Cattedra di Geriatria, Facoltà Medica, Università
di Milano
Uno dei problemi più dibattuti nell’ambito della psicologia delle emozioni è
quello di suscitare risposte emozionali in laboratorio: le difficoltà incontrate riguardano
soprattutto la specificità degli stimoli.
È stato approntato un piano generale di ricerca di tipo metodologico con
l’obiettivo di individuare una procedura adeguata a stimolare una risposta emotigena
costante e specifica. Il contesto teorico fa riferimento sia al modello di Scherer (1984),
che considera le risposte emozionali come insieme complessi, dinamici, costituiti da
diversi componenti organizzate gerarchicamente, sia ad approcci di tipo dimensionale
(Osgood, Suci e Tannenbaum, 1957).
In una prima fase, è stato selezionato, attraverso una procedura che ha cercato
di ridurre al minimo l’intervento degli sperimentatori, un set di stimoli filmici, che è
stato validato su un campione di 60 soggetti (Galati, Cattaneo, Cesa-Bianchi, 1996). Lo
studio prevedeva la rilevazione e l’analisi solo della componente cognitiva delle
emozioni: i dati in letteratura permettono di avanzare l’ipotesi che il confronto tra più
indicatori, quali la componente cognitiva, la componente espressivo-motoria
(espressione facciale), la componente fisiologica (f.c., p. a., e.d.a.) possa portare ad una
migliore differenziazione delle risposte emotigene. In questa fase della ricerca, si è
deciso di limitare il numero degli indici considerati alle componenti cognitiva ed
espressivo - motoria.
Il materiale stimolo è costituito da un set di 12 scene filmiche, organizzato in
tre sequenze random, che vengono presentate al soggetto in una situazione che cerca di
rispettare il più possibile le condizioni in cui il fenomeno si presenta nella realtà
quotidiana. Si è cercato, infatti, di coniugare l’esigenza di controllare il maggior numero
di variabili con il rispetto dei criteri che garantiscono validità ecologica all’esperimento.
Per valutare la componente cognitiva è stato utilizzato un questionario che
indaga se il film è già stato visto in precedenza, e tipo ed intensità dell’emozione
elicitata. La componente espressiva - motoria si rileva dalla videoregistrazione delle
espressioni facciali, che verranno valutate attraverso il FACS (Ekman, Friesen, 1978).
L’espressione delle emozioni ha anche una funzione comunicativa che si attiva in
presenza di altre persone (Rimé, 1989): si è deciso di predisporre un piano sperimentale
36
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
che comprendesse quattro diverse situazioni: soggetti da soli, con o senza
sperimentatore; a coppie: con e senza sperimentatore.
Questa fase della ricerca è stata condotta su 40 soggetti. Le elaborazioni
confermano nuovamente la validità del set di stimoli. Ogni scena è in grado di elicitare
emozioni differenziate e di intensità variabile. Gli stimoli sembrano, inoltre, confermare
le loro caratteristiche prototipiche; ogni sequenza possiede elementi strutturali e causali
che le permettono di essere associata con grande facilità e frequenza ad una determinata
esperienza emozionale (Fehr e Russel, 1984; Galati, 1993).
L’analisi della componente cognitiva delle risposte emotive evidenzia la
difficoltà, già rilevata da altri ricercatori, di individuare degli stimoli puri, in grado cioè
di evocare un’unica e specifica emozione. Questo è valido soprattutto per alcune
emozioni, in particolare la rabbia, che viene indicata spesso in associazione al disgusto.
Si ipotizza che il successivo confronto tra indici cognitivi ed espressivi migliori la
capacità discriminativa degli stimoli.
I dati indicano come variabile critica la presenza dello sperimentatore che
svolgerebbe una funzione inibitoria nei confronti della componente espressivo –
motoria. Le situazioni in cui i soggetti assistono da soli alla proiezione sembrano,
inoltre, differenziarsi dalle situazioni ‘in interazione’, che facilitano una maggiore
espressività facciale.
Questi risultati, ancorché preliminari, confermano la validità della procedura
utilizzata e incoraggiano un’ulteriore estensione della ricerca a soggetti anziani e con
eventuali patologie.
Riferimenti bibliografici
Ekman P, Friesen WV, 1978. Manual for facial action coding system. Palo Alto:
Consulting Psychologist Press.
Fehr B, Russell JA, 1984. Concept of emotion viewed from a prototype perspective. J
Exper Psychol Gen, 113: 464-486.
Galati D, Cattaneo MT, Cesa-Bianchi G, 1996. Elaborazione di stimoli emozionali:
criteri metodologici. Ikon, 32: 251-267.
Galati D. (ed), 1993. Le emozioni primarie. Torino: Boringhieri.
Osgood CE, Suci GJ, Tannenbaum PM, 1957. The measurement of meaning, Urbana:
Univeristy of Illinois Press.
Rimé B, 1989. Le partage social des émotions. In: Rimé B, Scherer KR (eds), Les
émotions, Neuchatel: Delachaux et Niestlé.
Scherer KR, Ekman P, 1984. Approaches to emotion. Hillsdale: Erlbaum.
L’ENTUSIASMO
Michela Checchi{xe "Checchi M."}, Isabella Poggi{xe "Poggi I."}
Università di Roma Tre
L’entusiasmo è un’emozione molto bella, e forse anche molto utile, ma poco
studiata, con alcune rare eccezioni (Greenson, 1984; Lyotard, 1986). In questo lavoro
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
37
vogliamo presentare un’analisi dell’emozione dell’entusiasmo in termini di scopi e
conoscenze, e una ricerca empirica volta a verificare alcuni punti della nostra analisi.
Come sappiamo, ogni emozione è uno stato soggettivo complesso che
comprende aspetti cognitivi, di vissuto interiore, fisiologici, espressivi e motivazionali
(Battacchi, Renna e Suslow, 1995). Di un’emozione inoltre è possibile individuare le
funzioni adattive, cioè gli scopi biologici a cui serve. Ogni emozione, infine, è attivata
da una specifica classe di eventi (o antecedenti situazionali), che vengono categorizzati
dall’individuo in base a una serie di elementi cognitivi, o ingredienti mentali
(Castelfranchi e Poggi, 1992).
Come possiamo caratterizzare l’entusiasmo riguardo a questi diversi aspetti
della “sindrome” emotiva?
Cominciamo dagli ingredienti mentali che devono essere presenti nella mente
di una persona affinché possa provare entusiasmo. Noi proviamo entusiasmo quando
abbiamo raggiunto, o stiamo ancora perseguendo, uno scopo per noi molto importante.
L’entusiasmo appartiene infatti alla stessa famiglia della gioia, e anche la gioia si prova
al raggiungimento di uno scopo per noi importante, uno scopo di alto coefficiente di
valore. Tuttavia, l’entusiasmo è una gioia di tipo ben particolare: da un lato, certo,
perché la gioia la sentiamo in genere quando lo scopo è effettivamente raggiunto,
mentre l’entusiasmo si può provare anche mentre lo stiamo perseguendo; ma inoltre,
probabilmente, fra gli scopi che ci provocano gioia, solo alcuni ci possono far provare
entusiasmo: dobbiamo dunque individuare le specificità qualitative di questi scopi.
Secondo la nostra ipotesi, gli scopi il cui raggiungimento (o anche solo il
perseguimento) ci fa provare entusiasmo sono particolarmente gli scopi del piacere
estetico (possiamo entusiasmarci alla vista di un bel quadro o di un bel paesaggio, o al
sentire un’esecuzione magistrale di una musica che amiamo) e gli scopi dell’autostima
(ci entusiasma far bene qualcosa a cui teniamo molto); e all’interno di questi ultimi
spesso ci fanno provare entusiasmo gli scopi morali (pensare di aver svolto o di stare
svolgendo un’azione, magari faticosa ma socialmente utile, altruistica, importante per il
bene degli altri).
Un altro elemento rilevante nell’entusiasmo sembra essere la consapevolezza
che quello scopo particolarmente importante lo raggiungiamo o lo stiamo perseguendo
insieme ad altri: vi è, in altre parole, una forte tendenza alla socialità nell’entusiasmo: se
siamo insieme ad altri, nel godere di uno scopo raggiunto, ci entusiasmiamo molto di
più.
Venendo agli aspetti fisiologici ed espressivi dell’entusiasmo, anche da questo
punto di vista tale emozione condivide molte caratteristiche della gioia; ma gli aspetti
espressivi dell’entusiasmo appaiono ancor più marcati: occhi che brillano, voglia di
muoversi, di saltare, di abbracciare gli altri ecc..
Dal punto di vista motivazionale, cioè degli scopi attivati dall’emozione,
l’entusiasmo ci dà tanta voglia di fare, o aumenta la voglia di continuare a fare ciò che
stiamo facendo.
Qual è dunque la funzione adattiva dell’entusiasmo?
A nostro avviso, la grande energia attivata da questa emozione serve a
permetterci di perseguire con maggiore costanza e determinazione proprio gli scopi visti
sopra: scopi estetici, morali e dell’autostima. E questo si spiega a nostro avviso con
l’importanza che tali scopi hanno per la sopravvivenza e il benessere dell’individuo.
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
38
Queste sono le ipotesi che avanziamo sulla natura dell’entusiasmo, a partire da
un’analisi concettuale di questa emozione, così come la si deduce dal modello teorico
qui adottato. Per sottoporre a verifica queste ipotesi, abbiamo somministrato, a 120
studenti universitari, un questionario con domande aperte e a scelta multipla, i cui
risultati saranno esposti durante l’intervento.
Riferimenti bibliografici
Battacchi W., Renna M., Suslow T. (1995): Emozioni e linguaggio. Carocci, Roma.
Castelfranchi C. e Poggi I. (1992): “Gli ingredienti delle emozioni”. Comunicazione al
XI Congresso SIPS, Cagliari, 23-25 settembre 1992.
Greenson R.R. (1984): Esplorazioni psicoanalitiche. Boringhieri, Torino 1984.
Lyotard, J.F. (1986): L’enthousiasme. Editions Galilee, Paris.
STUDIO STORICO SUL COMPORTAMENTO DI
INCLINAZIONE LATERALE DELLA TESTA NELLE ARTI
FIGURATIVE
Marco Costa{xe "Costa M."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Introduzione
Il comportamento di inclinazione laterale della testa consiste in un piegamento
angolare del capo rispetto all’asse di congiunzione delle spalle. Esso è stato interpretato
come gesto di sottomissione (Key, 1975), diminuendo l’altezza complessiva del corpo,
come esempio di differenziazione dello status sociale (Ragan, 1982), come domanda di
protezione (Morris, 1977) e come modo per comunicare amicizia e disponibilità al
contatto sociale (Halberstad e Saitta, 1987).
Scopo della presente ricerca è stato quello di studiare come questo
comportamento sia stato utilizzato da pittori di diverse epoche storiche nelle
rappresentazioni di figure umane in funzione dei seguenti parametri: a) Genere: figure
maschili vs. figure femminili; b) Lato di inclinazione: destra, sinistro o dritto; c) Età del
soggetto rappresentato: bambino, giovane, adulto o vecchio; d) Status: religioso (cristo,
madonna, santo, angelo, personaggio biblico, religioso), personaggio mitologico, nobile
(re, regina, principe, nobile), artista (pittore, musicista, scrittore, ballerino, cantante,
buffone, poeta) e professionista (militare, umanista, mercante, archeologo, studioso,
filosofo, medico e altri personaggi ben caratterizzati da una professione specifica); e)
Contesto: soggetto in posa vs. rappresentazione naturalistica; f) Direzione dello sguardo:
occhi puntati sull’osservatore vs. occhi puntati in altra direzione.
Metodo
Dalle opere omnie dei 10 autori studiati sono state esaminate tutte le figure
umane che rispettassero i seguenti criteri di inclusione: a) meno di 10 personaggi nello
stesso quadro; b) testa non rappresentata di profilo, da dietro, inclinata in avanti o
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
39
dietro; c) corpo non coricato o sdraiato. Di seguito è riportato l’elenco degli autori in
ordine cronologico di nascita, con indicato il numero di figure esaminate: Simone
Martini (1284 - 1344): 126; Hubert Van Eyck (m 1426) e Jan Van Eyck (m 1441): 162;
Hans Holbein il Giovane (1497/98 - 1560): 147; Ludovico Carracci (1555 - 1619),
Annibale Carracci (1560 -1609) e Agostino Carracci (1557 -1602): 235; Velazquez
(1599 -1660): 111; Rembrandt (1606 - 1669): 282; Edgar Degas (1834 - 1917): 122;
Cézanne (1839 - 1906): 184; Gustav Klimt (1862 - 1918): 76; Amedeo Modigliani
(1884 - 1920): 330. Il totale delle figure esaminate è stato di 1775. Gli autori sono stati
scelti tenendo conto di due fattori: la loro rappresentatività rispetto ad un certo periodo
artistico e la focalizzazione sulla figura umana con preponderante produzione di ritratti
o rappresentazioni con un numero limitato di figure per quadro. Per ciascuna figura
esaminata, la posizione angolare del capo è stata determinata calcolando l’ampiezza
dell’angolo formato dalla retta congiungente il nasion (punto di innesto del naso fra le
arcate ciliari) con il punto mediano delle labbra e la retta perpendicolare all’asse di
congiunzione delle spalle.
Risultati
Le analisi condotte su tutte le figure complessive hanno evidenziato i seguenti
risultati: a) l’inclinazione della testa è significativamente più accentuata nei soggetti
femminili (media 12,9°) rispetto a quelli maschili (7,2°): F(1, 1496) = 50,3, p < .001; b)
l’inclinazione verso sinistra (guardando il volto) è significativamente più probabile
rispetto a quella a destra e quando è a sinistra è maggiore (20,2°) rispetto a quando è a
destra (17,5°): F(2, 1495) = 750,5, p < .001; c) riguardo all’età dei soggetti è risultato
che i bambini vengono dipinti con maggior inclinazione (11,2°) rispetto a giovani ed
adulti (8,8°) mentre i vecchi tendono ad essere rappresentati con una minor inclinazione
(4,1°); d) lo status sociale si è rivelato una variabile molto importante, le analisi hanno
infatti messo in luce un primato dell’inclinazione per soggetti inerenti la religione
(18,3°) e la mitologia (18,7°) mentre è risultata scarsa nella rappresentazione di artisti
(3,9°) e professionisti (4,7°) e quasi del tutto assente nelle raffigurazioni di nobili (1,8°):
F(4, 1003) = 117,4, p < .001; e) l’inclinazione della testa è maggiore quando il soggetto
è rappresentato in un contesto naturalistico (17,5°) rispetto a quando è dipinto in
atteggiamento di posa (4,3°): F(1, 1217) = 45,7, p < .001; f) l’inclinazione della testa
non è stata utilizzata in egual misura dai vari autori ma in particolare da quelli che
hanno centrato la loro produzione su soggetti sacri e mitologici come Carracci (20,9°),
Martini (13°) e van Eyck (17,3°), autori che hanno operato fino al XVI secolo. Nei
pittori successivi come Rembrandt (3,1°) e Velazquez (5,9°) risulta fortemente
diminuito essendo prevalentemente ritrattisti di nobili e professionisti mentre in autori
moderni come Cezanne (9.8°) e Modigliani (9,8°) ritorna ad essere fortemente utilizzato
come strumento espressivo raggiungendo l’apice in Klimt (15,04°) dove in alcuni volti
si superano gli 80° di inclinazione, ben al di là dei limiti fisiologici di possibile
inclinazione della testa. Effetto principale per autore: F(9, 1488) = 35,5, p < .001.
Discussione
La frequenza del comportamento di inclinazione della testa negli autori
considerati, tenendo conto di tutte le figure esaminate è risultata del 49%. Una
percentuale molto alta che supera la frequenza del 38,4% indicata da Halberstadt e
40
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
Saitta (1987) per persone in contesti naturalistici. Tale elevata frequenza e le forti
significatività dimostrano quanto diffusamente l’inclinazione della testa sia stata
adottata dai pittori come strumento espressivo. La diffusione dell’inclinazione della
testa nell’arte sacra laddove il tema principale era quello della devozione, della
sottomissione alla divinità, la sua assenza nei ritratti su commissione nei quali l’artista
era chiamato ad esaltare l’immagine di potere e di ricchezza del committente nobile o
professionista e la maggior frequenza nei bambini e nei soggetti di sesso femminile
dotati nei secoli passati di uno status sociale inferiore rispetto ai soggetti maschili
portano sostegno ai dati precedenti della letteratura che vedono nella presenza di questo
comportamento una espressione di sottomissione e di disponibilità al contatto sociale e
nella sua assenza una espressione di potere e di dominanza.
Riferimenti bibliografici
Halberstadt, A.G. e Saitta, M.B. (1987). Gender, nonverbal behavior, and perceived
dominance: A test of the Theory. Journal of Personality and Social
Psychology, 53, 257-272.
Key, M.R. (1975). Male/female language. Metuchen, NJ: Scarecrow Press.
Morris, D. (1977). Manwatching: A field guide to human behavior. New York: Abrams.
Ragan, J.M. (1982). Gender display in portrait photographs. Sex Roles, 8, 33-43.
DETERMINANTI COGNITIVE DELLA CONDIVISIONE
SOCIALE DELLE EMOZIONI
Antonietta Curci{xe "Curci A."}*, Bernard Rimé{xe "Rimé B."}**
* Dottorato di Ricerca in Psicologia della Comunicazione, Dipartimento di Psicologia
Università degli studi di Bari
** Unité de Psychologie Clinique et Sociale, Département de Psychologie Université
Catholique de Louvain (Louvain-la-Neuve, Belgique)
La condivisione sociale è un effetto normale dell’esperienza emozionale.
Consiste nella rievocazione dell’episodio emozionale da parte dell’individuo che l’ha
vissuto, in presenza di un altro soggetto, attraverso il linguaggio scritto o orale o altre
forme espressive (Rimé, 1997; Rimé & al. 1992). Secondo la letteratura sull’argomento,
l’emozione è un’esperienza che necessita di articolazione cognitiva. Il linguaggio e la
comunicazione contribuiscono alla sistemazione del materiale emozionale in conformità
alle regole ordinarie del pensiero logico (Rimé & al., 1997). Accanto alla condivisione,
un’altra modalità di sistemazione dell’esperienza emozionale è la ruminazione mentale
(Tait & Silver, 1989).
Scopo del presente lavoro è lo studio delle determinanti di base della
condivisione dell’emozione. Dal momento che la condivisione obbedisce a particolari
esigenze del sistema cognitivo, le stesse determinanti cognitive (appraisal)
dell’emozione potrebbero rientrare tra gli antecedenti della condivisione. Le
determinanti cognitive potrebbero, inoltre, influire sulla ruminazione mentale.
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
41
Allo scopo di testare queste ipotesi a 144 studenti dell’Université Catholique de
Louvain (Belgio) e a 200 studenti dell’Università di Bari è stato proposto un
questionario volto ad indagare la relazione tra appraisal, intensità emozionale,
condivisione e ruminazione mentale. Nella prima sezione, veniva chiesto agli
intervistati di rievocare una recente esperienza di paura, collera o tristezza. I soggetti
erano casualmente assegnati ad una delle tre condizioni. Nella seconda sezione gli
intervistati completavano una serie di scale sull’intensità dell’emozione, sulle
dimensioni di appraisal (valenza, inaspettatezza, certezza, familiarità, importanza,
controllabilità, azione, causalità, valutazione morale, autovalutazione) (Frijda, 1987;
Frijda & al., 1989; Smith & Ellsworth, 1985) e sulla distintività dell’esperienza. La terza
sezione conteneva scale di condivisione e ruminazione dell’esperienza.
I dati raccolti sono stati sottoposti ad analisi strutturale secondo un modello di
path analysis (Jöreskog & Sörbom, 1996). Il modello ipotizzato prevedeva che le
dimensioni di appraisal avessero influenza diretta sull’intensità dell’emozione e sulla
condivisione e ruminazione dell’esperienza. L’intensità emozionale avrebbe dovuto
influenzare direttamente la condivisione e la ruminazione. I risultati confermano
parzialmente l’ipotesi in quanto le dimensioni di appraisal si connettono in modo non
uniforme all’intensità dell’emozione, alla condivisione e alla ruminazione. Per di più, il
modello esclude la relazione causale diretta tra emozione e condivisione-ruminazione.
In sostanza, gli antecedenti cognitivi dell’emozione rendono ragione della condivisione
e ruminazione, escludendo l’impatto diretto dell’intensità dell’emozione. In questo
senso, la sistemazione dell’esperienza emozionale opera come prosecuzione del
processo di valutazione cognitiva che precede l’emozione.
La presente ricerca opera su materiale rievocato e le misure di appraisal
sentono gli effetti delle operazioni ricostruttive della memoria. Successive linee di
ricerca possono concentrarsi sulla relazione tra emozione, appraisal e condivisione in
contesti naturali, non basandosi su esperienze di rievocazione.
Riferimenti bibliografici
Frijda, N.H. (1987). Emotion, Cognitive Structure, and Action Tendency. Cognition and
Emotion, 1 (2), 115-143.
Frijda, N.H., Kuipers, P. & ter Schure, L. (1989). Relations among emotion, appraisal
and action tendency. Journal of Personality and Social Psychology, 57, 212228.
Jöreskog, K. & Sörbom, D. (1996). LISREL 8: User’s Reference Guide. Chicago:
Scientific Software International, Inc.
Rimé, B. (1997). Emotion et cognition. In J.P. Leyens & J.L. Beauvois (Eds.), L’ère de
la cognition. Grenoble: Presses Universitaires de Grenoble, 107-125.
Rimé, B., Finkenauer, C., Luminet, O., Zech, E. & Philippot, P. (1997). Social Sharing
of Emotion: New Evidence and New Questions. In W. Stroebe & M. Hewstone
(Eds.), European Review of Social Psychology, 7, Chilchester: Wiley.
Rimé, B., Philippot, P., Boca, S. & Mesquita, B. (1992). Long-lasting Cognitive and
Social Consequences of Emotion: Social Sharing and Rumination. In W.
Stroebe & M. Hewstone (Eds.), European Review of Social Psychology, 3,
Chilchester: Wiley, 225-258.
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
42
Smith, M.B. & Ellsworth, P.C. (1985). Pattern of cognitive appraisal in emotion.
Journal of Personality and Social Psychology, 48, 813-838.
Tait, R. & Silver, R.C. (1989). Coming to terms with major negative life events. In J.S.
Uleman & J.A. Bargh (Eds.). Unintended thought. New York: Guilford Press,
351-381.
MODELLI DI PERSONALITÀ A CONFRONTO MEDIANTE
TECNICHE DI GENETICA COMPORTAMENTALE
Carlamaria Del Miglio{xe "Del Miglio C."}, Sabina D’Amato{xe "D’Amato S."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Nel campo della psicologia moderna, la genetica del comportamento si occupa
di indagare gli effetti dei geni sul comportamento nelle sue diverse manifestazioni.
Nell’ambito della psicologia della personalità si ritiene (Loehlin et al. 1994) che le
differenze individuali possono essere attribuite a due componenti: genetiche
(Zuckerman M., 1991) e ambientali, che risultano strettamente interrelate. Lavori
condotti da diversi autori (Cattell, 1982; Loehlin, 1992; Eaves, et al.,1989), sono giunti
alla conclusione che l’effetto che i geni esercitano sulle differenze individuali nella
personalità può essere stimato attraverso i questionari self-report. Lo scopo di questo
studio consiste nel confrontare diversi modelli di personalità utilizzando il metodo del
confronto controllato tra gemelli (o metodo gemellare). I modelli considerati sono:
Modello dei Big Five di Costa & McCrea, Modello dei Big Five proposto da
Zuckerman, Modello PEN proposto da Eysenck.
Metodo
Il campione analizzato è composto da 40 coppie gemellari (MZ e DZ) di età
media 35 anni. Ai soggetti sono stati somministrati tre questionari di personalità: BFQ,
ZPQ, EPQ. Per analizzare i dati sono stati utilizzati indici di ereditabilità in accordo con
i modelli biometrici proposti dai genetisti comportamentali (Loehlin et al., 1988, Plomin
et al., 1991) con lo scopo di stimare il peso dei fattori genetici.
Risultati
I risultati di maggior rilievo ottenuti da questo studio preliminare sono
tendenzialmente in accordo con quelli emersi in cinque importanti studi condotti sui
gemelli, dal 1976 al 1989, in diverse popolazioni (USA, Gran Bretagna, Svezia,
Australia, Finlandia). In particolare si evidenziano coefficienti di somiglianza più
elevati nelle coppie di soggetti Mz. Il carattere preliminare di questo lavoro è
determinato dal fatto che si inserisce in una linea di ricerca del tutto innovativa in Italia,
mirata alla comprensione della trasmissione e del mantenimento dei tratti di personalità
negli individui.
Conclusioni
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
43
Sebbene l’idea che i tratti di personalità possano essere in qualche modo
ereditabili non sia da tutti condivisa, oggi l’aumentare delle conoscenze sul
funzionamento del cervello in relazione tanto alle malattie mentali, quanto alle abilità
cognitive, sta determinando la diminuzione di questo scetticismo.
Riferimenti bibliografici
Del Miglio C. (1995). Il Sé gemellare. Roma: Borla.
Loehlin J. C. (1992). Genes and environment in personality devlopment. Newbury Park,
CA: SAGE Publications.
Plomin R. & Bergerman, C.S. (1991). The nature of nurture: Genetic influence on
“enviromental” measures. Behavioral and Brain Science, 14, 373-427.
Plomin R., DeFries J., McClearn G., Rutter M., (1997) Behavioral Genetics. New York:
Freeman.
Zuckerman M. (1991). Psychobiology of personality. Cambridge: Cambridge University
Press.
EMOZIONI, PROCESSI COGNITIVI E MOTIVAZIONI
ATTRIBUITE, NELLA FRUIZIONE DI RACCONTI
ILLUSTRATI
Anna Maria Giannini{xe "Giannini A.M."}, Paolo Bonaiuto{xe "Bonaiuto P."},
Martina D’Ercole{xe "D’Ercole M."}
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Esaminando numerose sequenze di racconti letterari, racconti a fumetti, filmati,
appartenenti ai generi contrapposti “giallo” e “horror”, fu possibile in passato
individuare la maggior frequenza di immagini visive (sia percepibili direttamente, sia
evocate tramite il racconto verbale) improntate ai noti processi del completamento
amodale nel genere “giallo”; o della contraddizione (paradossi, incongruenze) nel caso
dell’ “horror” (Bonaiuto, 1983). Anche processi emotivi e motivazionali pertinenti ai
due opposti generi narrativi risultarono in quell’indagine ben differenziati e consonanti
coi processi cognitivi con cui di volta in volta si articolavano. Il genere “giallo” fu colto
far leva soprattutto su istanze alla soluzione di problemi di tipo convergente, sul piacere
di scoprire schemi già esistenti, di architettare e produrre insiemi organizzati a partire da
pochi elementi, di controllare, di riparare e ripristinare forme di integrità dopo
esperienze disgregative e aggressive. Tali operazioni presuppongono appunto il
completamento come procedimento cognitivo interessante per il fruitore specificamente
motivato (conoscenza ordinata, costruzione, socialità, affermazione rispettosa di
schemi). All’opposto, il genere “horror” fa leva su istanze alla sfida, alla dissonanza, al
sovvertimento di schemi comunemente accettati; cioè al conflitto: oggetto-meta di
istanze quali l’aggressione, la conoscenza esplorativa, i bisogni di tensione emotiva,
l’affermazione attraverso l’indipendenza. Riflettendo su quella prima indagine e su altre
44
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
affini, ci è parso che un panorama non meno produttivo e denso di informazioni sulle
relazioni fra processi emotivi e cognitivi proposti al fruitore, fosse reperibile
esaminando i racconti illustrati del genere fiabesco. In questa direzione si è mossa una
complessa ricerca promossa presso gli insegnamenti di Psicologia generale e di
Psicologia dell’arte e della letteratura nella nostra Facoltà di Psicologia.
Metodo
Sono state esaminate 100 fiabe illustrate a colori, edite in Italia negli ultimi
trent’anni. Per ciascuna si sono evidenziate tre illustrazioni caratterizzanti: una di
apertura, una centrale e una conclusiva. Ogni immagine, vagliata da tre esaminatori
esperti (individualmente e poi in concorso fra loro) ha dato luogo a una scheda che
compendia: a) le qualità emotive dominanti, con riferimento ad una gamma d’un
centinaio di differenti emozioni: allegria, tristezza, serenità, rabbia, amore, odio,
ammirazione, disgusto, ecc. (Giannini, 1997); b) i principali processi cognitivi proposti:
completamento, contraddizione, risalto, mascheramento, coesione, segregazione,
contrasto, assimilazione, regolarizzazione prospettica, aspetti del movimento, aspetti del
colore, attribuzioni causali, ecc. (Bonaiuto, 1983; Bartoli, Giannini, Bonaiuto, 1996); c)
le motivazioni attribuibili ai personaggi, e quindi proposte anch’esse al fruitore in chiave
di identificazione o contrapposizione: socialità, sessualità, aggressione, affermazione,
esigenze nutrizionali, bisogni di tensione emotiva, esigenze di movimento, di
costruzione, di conoscenza variata (curiosità) o di ordine e congruenza cognitiva
(Bonaiuto, 1967); d) i principali temi e significati rappresentati: conflitto, superamento
di ostacoli, magia, rivalità, solidarietà, violenza, vendetta, obbedienza, ribellione, cura,
maltrattamento, dipendenza, autonomia, astuzia, inventiva, ricerca di identità, accordo,
ecc. (Propp, 1966; Bettelheim, 1976). Sono state così allestite 300 schede complete, per
gli opportuni rilievi statistici.
Risultati, discussione, prospettive
Calcolando distribuzioni di frequenza e correlazioni fra i diversi item si
individuano varie strategie di comunicazione e relazioni cariche di significato
psicologico. I principali temi si accompagnano in modo congruente a proposte formali
allestite favorendo tonalità emotive e attribuzioni motivazionali consonanti (e non altre);
nonché processi cognitivi atti a veicolarle ed esprimerle. Ad esempio, temi di conflitto
interpersonale, violenza e maleficio si accompagnano a tonalità emotive di attività,
minaccia, ostilità, rabbia, angoscia, a loro volta veicolate da forme angolate, asperità,
colorazioni “allarmanti” (viola, verde oliva, grigio, nero...) e dai processi visivi del
contrasto e del risalto. Temi di amore, pacificazione, accordo nella coppia o nel gruppo,
vengono proposti con tonalità emotive di serenità, quiete, tenerezza, gioia, fiducia,
veicolate da forme tondeggianti e colorazioni “rasserenanti” (rosa, pastello, ecc.), in
concomitanza con la coesione e l’assimilazione. L’indagine ha pure confermato e
ampliato relazioni già colte per altra via, quali i nessi profondi fra processi cognitivi del
completamento amodale e oggetti-meta di specifiche esigenze, che implicano vissuti
iniziali di insufficienza e incompletezza del sé (sessualità, nutrizione, socialità); oppure
fra contraddizione (incongruità) e motivazioni basate sul conflitto. Le immagini di
apertura, descrittive, e di chiusura, risolutive, si differenziano fra loro e ancor più dalle
immagini centrali, riferite sovente a conflitti aperti e fortemente dipendenti dai temi
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
45
principali del racconto. Fra le prospettive di sviluppo emergono le analisi delle
preferenze in funzione di esigenze dominanti nel fruitore e quindi del suo assetto
motivazionale: su cui influiscono fattori culturali, stili educativi, fasi di sviluppo
attraversate.
Riferimenti bibliografici
Bartoli, G., Giannini, A. M., Bonaiuto, P. (1996). Funzioni della percezione nell’ambito
del museo. Firenze: La Nuova Italia.
Bettelheim, B. (1976). The uses of enchantment. The meaning and importance of fairy
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Bonaiuto, P. (1967). Le motivazioni dell’attività nell’età evolutiva. Milano: C.M.S.R.
Pubbl. anche in P. Bonaiuto, A. M. Giannini, V. Biasi (a cura di), Motivazioni
umane, processi cognitivi, emozioni, personalità. Vol. 2 (pp. 15-99). Roma: Ed.
Psicologia, 1994.
Bonaiuto, P. (1983). Processi cognitivi e significati nelle arti visive. Relazione al
Convegno Nazionale “Linguaggi visivi, Storia dell’Arte, Psicologia della
percezione”, Roma. Pubbl. anche in P. Bonaiuto, G. Bartoli, A. M. Giannini (a
cura di), Contributi di psicologia dell’arte e dell’esperienza estetica. Vol. 1
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Giannini, A. M. (1997). Emozioni, motivi, interessi. In: C. M. Del Miglio (a cura di),
Manuale di psicologia generale (pp. 225-266). Roma: Borla.
Propp, V. (1966). Morfologia della fiaba. Torino: Einaudi.
PERCHÉ CONDIVIDERE EMOZIONI? VERSO UN MODELLO
PREDITTIVO
Emanuela Greci{xe "Greci E."}, Isabella Poggi{xe "Poggi I."}
Università di Roma Tre
La letteratura recente sulle emozioni si è spesso concentrata sulla cosiddetta
“condivisione delle emozioni”: ci si è chiesto a chi si raccontano le proprie emozioni,
quali si condividono più spesso, quali funzioni possa svolgere la condivisione, e se
esistano differenze individuali nella scelta di condividere o meno. (Ricci Bitti, 1998;
Bellelli, 1995). Ma il tema della condivisione s’intreccia con diversi tipi di ricerche,
come la differenza fra internalizzatori ed esternalizzatori, o addirittura il dibattito sulla
teoria della catarsi, sulla questione se esprimere le emozioni le faccia “raffreddare” o
meno.
In questo lavoro proponiamo un’analisi concettuale del concetto di
condivisione e illustriamo una ricerca empirica mirante a individuare gli scopi per cui si
condividono le emozioni.
Innanzitutto, ci sembra importante osservare che l’espressione condividere
un’emozione può avere in italiano almeno due significati diversi. Da un lato, può
significare solo che uno vuole raccontare a un’altra persona un’emozione provata e
l’evento che l’ha causata: tornando a casa dopo una litigata in ufficio posso raccontare
46
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
ai miei familiari che mi sono molto arrabbiata col capufficio e perché. Ma in certi casi,
condividere un’emozione vuol dire non solo che voglio far conoscere all’altro
l’emozione che ho provato, ma voglio che un poco la provi anche lui; come quando alla
fermata dell’autobus esprimo la mia indignazione per i ritardi e le inefficienze della rete
filotranviaria, per suscitare negli astanti la mia stessa indignazione. Inoltre, la
condivisione può avvenire in situazioni diverse, a maggiore o minore distanza di tempo,
con persone diverse e per scopi diversi, a seconda che si condivida un’emozione
positiva o negativa. Infine, l’espressione condividere in certi casi non sembra
appropriata per riferirsi a ciò che le persone fanno quando esprimono in maniera non
verbale, ma anche verbale, una propria emozione. Talvolta raccontiamo una nostra
emozione non tanto per “condividerla”, metterla in comune, per farla conoscere o
addirittura provare all’altro, quanto, semplicemente, per “sfogarci”. È necessario, in
altre parole, distinguere i casi in cui lo scopo per cui raccontiamo o esprimiamo una
nostra emozione menziona un’altra persona, e quelli in cui invece il nostro scopo è solo
“buttar fuori”, liberarci, sollevarci almeno in parte da quello sconvolgimento fisiologico
e psicologico in cui un’emozione consiste.
Per chiarire le diverse letture del concetto di condivisione, che potranno essere
rappresentate come significati almeno in parte diversi di questa parola, ci può aiutare
un’indagine sugli scopi del condividere. Una persona quando condivide una propria
emozione può avere scopi diversi: può voler essere consolata, voler ricevere aiuto o
consiglio, può cercare empatia o volere dall’altro un’oggettivazione, un rispecchiamento
o una rassicurazione sull’emozione provata; a meno che non lo faccia semplicemente,
come nei casi accennati, solo per “sfogarsi”.
Per indagare sugli scopi della condivisione di emozioni abbiamo condotto una
ricerca: prima attraverso interviste strutturate e poi attraverso un questionario, abbiamo
chiesto a due diversi campioni di soggetti in quali casi hanno raccontato ad altri una loro
emozione piacevole o spiacevole, a chi e perché l’hanno raccontata, come si aspettavano
che l’altro reagisse, come in realtà ha reagito, e qual è stato l’effetto che ha avuto su loro
stessi questo atto di condivisione. I risultati della ricerca saranno presentati durante
l’intervento.
Sulla base di questi verrà proposto un modello predittivo della condivisione
delle emozioni. Quando, con chi e perché decidiamo di condividere una nostra
emozione? Il potenziale Mittente di un messaggio comunicativo “decide” (a livelli
diversi di consapevolezza) se comunicare una propria emozione, a chi comunicarla e
come, sulla base di un modello del contesto che egli si rappresenta nella propria mente
(Poggi e Pelachaud, 1998). Questo modello comprende da un lato la rappresentazione
della propria mente, in particolare dei propri scopi cui può servire il comunicare
l’emozione, dall’altro la rappresentazione della mente del Destinatario, dei suoi possibili
scopi e della sua personalità, e infine la rappresentazione dei rapporti (affettivi e di
potere) fra Mittente e Destinatario.
Riferimenti bibliografici
Bellelli G. (a cura di): Sapere e sentire. Liguori, Napoli 1995.
Poggi I. e Pelachaud C. (1998): “Performative faces”. Speech Communication 26, pp.521.
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
47
Ricci Bitti P.E. (a cura di): Regolazione delle emozioni e arti-terapie. Carocci, Roma
1998.
NARRAZIONE DI EPISODI EMOZIONALI IN ADOLESCENZA
Olimpia Matarazzo{xe "Matarazzo O."}, Dario Bacchini{xe "Bacchini D."}
Corso di Laurea in Psicologia, Seconda Università degli studi di Napoli
Introduzione
Alcuni degli studi che hanno indagato le teorie ingenue delle emozioni a partire
dalle narrazioni delle esperienze emozionali hanno mostrato che esse possono essere
concettualizzate come script (Conway e Bekerian, 1987; Fisher, 1991; Shaver et
al.,1987) comprendenti sequenze di eventi tipici e con contenuti specifici per ogni
emozione. Da tali ricerche si evince una sostanziale convergenza tra quelle teorie
scientifiche che sostengono la dimensione processuale delle emozioni e il senso
comune, anche se la metodologia adottata, in cui veniva richiesto di rispondere a
domande più o meno dettagliate su vari aspetti dell’esperienza emozionale, non
consente di stabilire se narrazioni spontanee si organizzino effettivamente in termini di
script e, in caso affermativo, quali componenti essi contemplino e se presentino
caratteristiche formali analoghe per tutte le emozioni.
Il lavoro che presentiamo, e che è parte di una più ampia ricerca sulla
competenza emotiva in adolescenza (Matarazzo e Bacchini, 1997, 1999), mira ad
affrontare queste questioni attraverso un’indagine sulle narrazioni di episodi emozionali
effettuate da adolescenti. Nello specifico, ci proponiamo di mettere alla prova l’ipotesi
secondo cui la struttura delle narrazioni, pur potendo essere rappresentata in termini di
script, vari non solo qualitativamente ma anche formalmente a seconda delle emozioni
descritte e del livello di competenza emotiva dei soggetti, vale a dire che riteniamo che
le componenti in cui può essere articolato il processo emozionale siano presenti in modo
non equanime e assumano una rilevanza diversa in funzione delle due variabili
considerate.
Metodo
A 275 soggetti di età compresa fra i 12 e i 20 anni, frequentanti il terzo anno di
scuola media, il secondo e il quinto anno di scuola superiore, equidistribuiti rispetto al
sesso, è stato chiesto di indicare le emozioni provate più frequentemente nell’ultimo
anno e di descrivere per tre di esse, indicandone il nome, un episodio in cui erano state
sperimentate Nessuna ulteriore specificazione veniva richiesta nella consegna al fine di
lasciare emergere il modo in cui i soggetti organizzavano spontaneamente la narrazione
degli episodi emozionali.
Le descrizioni così raccolte sono state analizzate in relazione alle diverse
componenti dell’esperienza emotiva: condizioni elicitanti, vissuto fenomenologico,
reazioni fisiologiche, manifestazioni espressive e comportamentali, durata, eventuali
modalità di autoregolazione e di coping, conseguenze sulle azioni future.
Risultati
48
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
Sono stati raccolti 781 episodi (un soggetto non ha descritto alcun episodio,
264 ne hanno descritti due e 243 hanno rispettato pienamente la consegna): di questi, 91
erano stati etichettati o con termini non emozionali (es. cambiato, testardo) o con
l’indicazione delle situazioni elicitanti (es. partita di calcio, primo bacio, ingiustizia); 64
riportavano nel titolo due emozioni e 15 tre. Tale scelta rifletteva nella maggior parte
dei casi una concomitanza di stati emozionali innescati dall’episodio mentre in altri
indicava piuttosto il susseguirsi di emozioni in funzione dello sviluppo degli eventi.
Gli episodi descritti più frequentemente, e che vengono analizzati in questa
sede, si riferiscono alle seguenti emozioni, citate sia da sole che insieme ad altre: felicità
(66 episodi), amore (62), paura (50), gioia (34), tristezza (32), solitudine (28), rabbia
(27). È da notare che tali emozioni, anche se non rigorosamente nello stesso ordine,
sono quelle che avevano fatto registrare le più elevate frequenze alla richiesta di
indicare le emozioni provate più spesso nell’ultimo anno.
Nell’analizzare gli episodi si è proceduto dapprima a registrare quali
componenti del processo emozionale venivano descritte in ognuno di essi e si è poi
passati a classificare i resoconti mediante una procedura di progressiva astrazione del
contenuto, analoga a quella messa a punto da Boucher (1983). Sono state pertanto
costruite, per ogni componente del processo emozionale, apposite categorie di codifica
in grado di sussumere la varietà delle descrizioni individuali anche se nelle analisi
successive sono state eliminate, secondo la procedura seguita da Shaver et al. (1987),
quelle idiosincratiche.
I dati così sistematizzati sono stati sottoposti alle seguenti elaborazioni
statistiche: 1) analisi log-lineare per individuare se la scelta delle emozioni di cui si
erano descritti gli episodi variava in funzione dell’età e del sesso dei soggetti; 2) analisi
delle corrispondenze basata sul computo delle componenti presenti o assenti nei
resoconti relativi a ciascuna delle sette emozioni per accertare se si delineavano profili
emozionali formalmente diversi a seconda della predominanza di specifiche componenti
in ognuna di esse; 3) analisi della varianza (classe x sesso) per valutare se in funzione
dell’età e del sesso dei soggetti variava il numero delle componenti presenti nelle
descrizioni; 4) analisi delle corrispondenze basata sulla distribuzione delle categorie di
codifica di ciascuna componente, e considerando le 7 emozioni come variabili
supplementari, per individuare se i profili emozionali erano sufficientemente
discriminati qualitativamente.
I risultati hanno messo in luce che le emozioni descritte variavano sia in base al
numero delle componenti utilizzate nella descrizione degli episodi ad esse relativi, sia in
base alle caratteristiche qualitative delle stesse componenti. Le descrizioni delle
femmine sono risultate tendenzialmente più ricche di quelle dei maschi mentre non è
stata riscontrata una relazione lineare tra età e numero delle componenti utilizzate nei
resoconti.
Riferimenti bibliografici
Boucher, J. (1983). Antecedents to emotions across cultures. In S.H. Irvine, J.W.Berry
(Eds.), Human Assessment and cultural factors. New York: Plenum Press,
pp.407-420.
Conway, M.A. e Bekerian, D.A. (1987). Situational knowledge and emotions. Cognition
and Emotion, 1, 2, 145-191.
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
49
Fisher, A. (1991). Emotion scripts. A study of social and cognitive facets of emotions.
Leiden: DSWO-Press.
Matarazzo, O. e Bacchini, D. (1997). Comunicare e descrivere le proprie emozioni:
studio sulla competenza emotiva in adolescenza. Comunicazione presentata al
Congresso nazionale della Sezione di psicologia sperimentale dell’A.I.P.,
Capri 22-24 settembre.
Matarazzo, O. e Bacchini, D. (1999). Denominare e valutare le proprie emozioni in
adolescenza. Psicologia e Società, XXV (XLVI), 59-87.
Shaver, P., Schwartz, J., Kirson, D. e ÒConnor, C. (1987). Emotion knowledge: further
exploration of a prototype approach. Journal of Personality and Social
Psychology, 52, 6, 1061-1086.
APERTURA MENTALE E STRATEGIE COGNITIVE NEL
PROBLEM SOLVING QUOTIDIANO
Silvana Miceli{xe "Miceli S."}, Raffaella Misuraca{xe "Misuraca R."}, Daniela
Donato{xe "Donato D."}, Maurizio Cardaci{xe "Cardaci M."}
Università degli Studi di Palermo
Introduzione
All’interno del modello dei “Big Five” (Caprara e Perugini, 1991a; Digman,
1990; John, 1990; McCrae e Costa, 1992), l’Apertura Mentale appare il fattore più
controverso e di difficile definizione. Le ragioni di ciò sono riconducibili all’esiguo
numero di ricerche specifiche, nonché ai dubbi sollevati da numerosi autori (p.e. Cattell,
1943; Eysenck, 1947; Guilford, 1959), circa la possibilità di considerare l’intelligenza
una delle dimensioni della personalità. Attualmente, il fattore Apertura Mentale viene
considerato una “dimensione intrapsichica” (McCrae, 1996) caratterizzabile in termini
di larghezza di vedute, profondità di pensiero, creatività, intelligenza, fantasia, talento,
ecc. Secondo Caprara e coll.(1993), l’Apertura Mentale si compone di due fondamentali
sottodimensioni: Apertura alla Cultura e Apertura all’Esperienza. La prima riguarda
l’inclinazione a tenersi informati e ad acquisire conoscenze. La seconda è relativa a una
disposizione favorevole nei confronti delle novità, alla capacità di considerare ogni cosa
da più prospettive e ad una apertura nei confronti di valori, stili, modi di vita e culture
diverse. Per queste sue caratteristiche, si può avanzare la duplice ipotesi che l’Apertura
Mentale possa essere sensatamente considerata un antecedente sia delle strategie
cognitive attraverso le quali il soggetto fronteggia nella vita quotidiana concrete
situazioni problemiche, sia della ricerca di una pluralità di spiegazioni nel ragionamento
attribuzionale (più “cause” per uno stesso comportamento; più comportamenti per una
stessa “causa”). Il presente studio si propone di fornire una verifica empirica delle
suddette ipotesi.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 74 studentesse universitarie, alle quali sono stati
somministrati tre questionari. Il primo era una check list di Apertura Mentale ispirata al
50
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
NEO-PI (Costa e McCrae,1985) e al BFQ (Caprara et al. 1993), composta da 26 item
(Likert), 13 dei quali riguardanti la sottodimensione di Apertura alla Cultura, gli altri
relativi all’Apertura all’Esperienza. Il secondo strumento esplorava il problem solving
situazionale (S.P.S.I.), presentando 10 situazioni specificamente riferite a differenti
concrete situazioni (domain-dependent), (ad esempio, quale strategia scegliere per
superare un conflitto lavorativo, come risolvere una situazione imprevista durante un
viaggio in un paese straniero, ecc.). Per ciascuna situazione problemica il soggetto
doveva scegliere tra quattro possibili alternative (1.apertura alla cultura, 2.apertura alla
esperienza, 3.risparmio cognitivo, 4.passività) la strategia cognitiva percepita come più
efficace. Il terzo strumento era un questionario “multiattribuzionale” (M.I.), articolato in
30 item: il soggetto poteva attribuire una o più motivazioni ad un certo comportamento
(ad esempio, una persona ama leggere perché: a) desidera arricchire il proprio bagaglio
culturale; b) vuole lasciare vagare la sua mente; c) si vuole rilassare). Il rationale dello
strumento si basa sull’assunto che i soggetti con un alto livello di Apertura Mentale
sono capaci di fornire spiegazioni multiattribuzionali al contrario di quelli con un basso
livello di Apertura Mentale. Dopo aver sottoposto i soggetti alle tre prove, sulla base dei
risultati ottenuti alla check list di Apertura Mentale, sono stati individuati due gruppi
contrapposti: soggetti ad alto livello di Apertura Mentale (rango = 75% percentile) e
soggetti a basso livello di Apertura Mentale (rango = 25% percentile). Per ogni soggetto
veniva inoltre calcolato un punteggio totale basato sul numero di scelte “apertura
mentale” (AC+AE), “risparmio cognitivo” (RC) al questionario S.P.S.I e un punteggio
basato sul totale di risposte attribuzionali al M.I.
Risultati
Dal confronto tra il gruppo a bassa e ad alta apertura mentale (t test) è emerso
quanto segue: i soggetti ad alta apertura mentale ottengono punteggi significativamente
più alti in ordine alle due strategie di Apertura (AC: p=.0259; AE: p=.0317), quelli a
bassa apertura mentale, ottengono invece punteggi significativamente più alti nel
numero di preferenze relative alla dimensione “passività” (p=.0026), mentre nessuna
differenza significativa è emersa rispetto alla strategia “risparmio cognitivo”. Per quanto
riguarda il questionario M.I., non sono state riscontrate differenze significative tra i due
gruppi.
Conclusioni
Questi risultati supportano l’ipotesi che l’Apertura Mentale come dimensione
di personalità, si traduce in specifici stili di funzionamento cognitivo-situazionale. Non
risulta sorprendentemente confermata l’ipotesi secondo cui l’Apertura Mentale
costituisce l’antecedente di capacità di giudizio multiattribuzionale. Ulteriori ricerche si
rendono necessarie, in particolare per comprendere quali siano i correlati di personalità
sottostanti alle evidenti differenze individuali da noi trovate nei processi di
multiattribuzionalità.
Riferimenti bibliografici
Caprara, G.V. e Perugini, M. (1991 a), L’approccio Psicolessicale e l’emergenza dei Big
Five nello studio della Personalità. Giornale Italiano di Psicologia, XVIII, 5,
721-747.
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
51
Costa, P.T. e McCrae, R.R. (1985), The NEO Personality Inventory Manual. Odessa,
Fla, Psychological Assessment Resources.
Mc Crae, R.R. e John, O.P. (1992), An Introduction to the Five-Factor Model and its
Applications. Journal of Personality, 60, 2, 175-215.
UMANO CHI LEGGE (DUE RACCONTI IN DUE CULTURE)
Sergio Morra{xe "Morra S."}
Università di Genova
Introduzione
Questa ricerca considera la risposta alla letteratura da un punto di vista
interculturale, finora preso in considerazione solo in pochi studi (p.es. Halász, 1991;
Larsen e László, 1990; László e Larsen, 1991). Oltre agli effetti della distanza culturale
sulla comprensione e l’apprezzamento dei racconti, vengono riesaminati problemi
classici della psicologia della risposta alla letteratura, quali le relazioni fra familiarità,
comprensione e interesse (p.es. Asher, 1980; Sadoski, Goetz e Fritz, 1993) e quelle fra
comprensione, immaginazione ed emozioni (p.es. Brewer e Liechtenstein, 1981; Miall,
1989).
L’Islanda è un paese in cui la cultura letteraria ha profonde radici e vasta
diffusione (cfr. Guðbjörnsdóttir e Morra, 1997, 1998). In questa ricerca si utilizzano due
racconti folklorici (uno italiano e uno islandese), di circa duemila parole ciascuno,
accomunati dal tema principale dell’incontro con un mondo “altro” e misterioso (i morti
nel racconto italiano, gli elfi in quello islandese) e anche da un tema secondario, l’amore
coniugale. Due gruppi di soggetti, italiani e islandesi, dopo avere letto ciascun racconto,
lo hanno ripetuto oralmente e valutato mediante un questionario.
Metodo
I soggetti sono 55 studenti dell’università di Padova e 60 dell’università
d’Islanda. I due racconti sono presentati ai soggetti in ordine bilanciato. Di ogni
racconto si chiede l’immediata ripetizione orale, di cui si valuta la percentuale di ricordo
delle proposizioni e degli eventi. Quindi, il soggetto risponde a un questionario
riguardante la familiarità con storie e temi di quel tipo, l’interesse e il piacere provato
nella lettura, la facilità di comprensione, l’immaginazione visiva, diversi aspetti della
conclusione del racconto, la sua eventuale identificazione con qualche personaggio, e un
elenco di 23 emozioni. La procedura viene poi ripetuta per l’altro racconto.
I dati sono analizzati mediante analisi di varianza 2x2 a disegno misto
(campioni indipendenti per la nazionalità dei soggetti, osservazioni ripetute per i due
racconti) e con analisi correlazionali e di covarianza. Queste ultime si propongono di
fare luce su possibili relazioni causali (quali variabili potrebbero spiegarne altre).
Primi risultati
La raccolta dei dati nel campione islandese è in via di completamento.
Un’analisi limitata al campione italiano indica un ricordo delle due storie simile quando
52
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
si considerino le proposizioni (cioè il ricordo dei dettagli), mentre il racconto italiano è
ricordato meglio quando si considerino gli eventi cruciali (cioè la comprensione della
struttura). Per i soggetti italiani, il racconto italiano è più piacevole e interessante, più
facile da comprendere, più simile a storie già conosciute, più positivo e più coerente
nella conclusione, e suscita più immagini visive, più emozioni positive e più emozioni
“drammatiche”, mentre il racconto islandese suscita più emozioni negative. Col
racconto islandese, ma non con quello italiano, la valutazione della comprensibilità della
storia correla con l’esperienza di immagini visive.
Sempre nel campione italiano, le analisi di covarianza indicano che le
differenze di gradimento fra i due testi possono essere spiegate dalle differenze nella
memoria di eventi, nella facilità di comprensione, nell’esperienza di immaginazione
visiva, di emozioni positive e “drammatiche”, e nella percezione di una conclusione
“positiva” (lieto fine, trionfo del bene). A sua volta, la differenza nelle emozioni
“positive” può essere spiegata dalla familiarità con storie simili, dalla facilità di
comprensione, dall’immaginazione visiva e dalla percezione di una conclusione
“positiva”. In breve, sembra che vi sia un’influenza massiccia dell’elaborazione
cognitiva sulle esperienze emotive, piuttosto che viceversa.
Tale conclusione, peraltro, potrà essere meglio valutata non appena siano
disponibili per le analisi anche i dati del campione islandese.
Riferimenti bibliografici
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Bruce B.C., Brewer W.F. (Eds.), Theoretical issues in reading comprehension.
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theory of stories. Journal of Pragmatics, 6, 473-486.
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pupils’ interest and experience in Icelandic culture. Scandinavian Journal of
Educational Research, 41, 141-163.
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Journal of Educational Research, 42, 85-99.
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Miall D.S. (1989). Beyond the schema given: Affective comprehension of literary
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Sadoski M., Goetz E.T., Fritz J.B. (1993). A causal model of sentence recall: Effects of
familiarity, concreteness, comprehensibility, and interestingness. Journal of
Reading Behaviour, 25, 5-16.
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
53
INTERESSI PROFESSIONALI, SELF-EFFICACY E
DIFFERENZE DI GENERE
Francesco Pace{xe "Pace F."}, Giovanni Sprini{xe "Sprini G."}, Velia di
Benedetto{xe "di Benedetto V."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Palermo
Negli ultimi anni gli studi che si sono concentrati sull’assessment delle
dimensioni psicologiche intervenienti nei processi di scelta professionale, nelle aree
dell’orientamento, del ri-orientamento e della selezione del personale, hanno aperto
interessanti prospettive per il collegamento tra i fattori più tradizionalmente esplorati
(abilità, interessi, valori professionali, personalità) ed i correlati motivazionali delle
scelte (Betz et.al., 1996). Si è, più in generale, concentrata maggiormente l’attenzione su
alcuni aspetti che apparentemente costituiscono importanti indicatori della volontà del
soggetto di “mettersi in gioco” nel proprio sviluppo professionale (Solberg et.al., 1994).
Tra questi indicatori, il concetto di self-efficacy di Bandura (1977) ha certamente
assunto un ruolo di primaria importanza: si tratta infatti di un costrutto che spiega la
percezione personale che un soggetto ha di essere capace di adottare con successo un
comportamento (in campo professionale, sociale, ecc.).
Gli studi sugli interessi professionali, d’altronde, hanno da molti anni segnalato
l’importanza di una teoria capace di rendere ragione delle conclusioni di ricerche dalle
quali emergeva come solo una parte dei soggetti che ottenevano una marcata e precisa
configurazione di interessi svolgevano in seguito con successo e soddisfazione la
professione indicata come preferita, soprattutto nei casi in cui questo fenomeno non
fosse legato alla mancanza di abilità specifiche. È apparso chiaro come un modello
esaustivo di spiegazione dello sviluppo delle carriere, pur tenendo in debita
considerazione le variabili legate alle limitazioni strutturali del mercato del lavoro,
debba dare ampio spazio agli aspetti motivazionali e di personalità. Alcuni lavori, in
particolare Lent et. al.(1995) ed il già citato lavoro di Betz et.al., hanno sottolineato
come un basso livello di self-efficacy può ostacolare persino l’iniziale interesse in
un’area specifica: questi autori arrivano inoltre! alla conclusione che l’indagine sugli
interessi, i valori e le abilità di un soggetto non sono sufficienti a valutare la potenzialità
dell’individuo nello sviluppo della propria carriera.
La presente ricerca si prefigge di esplorare le linee di connessione tra gli
interessi professionali e la efficacia percepita, tenendo in considerazione le differenze
legate al sesso. Abbiamo fatto perciò riferimento alla teoria di Holland (1985) sulle
tipologie professionali, che rappresenta un importante punto di incontro tra personalità
ed interessi, e che è universalmente riconosciuta come modello semplice ed intuitivo.
Tale modello prevede sei differenti tipologie professionali (Realistica, Investigativa,
Artistica, Sociale, Imprenditoriale e Convenzionale), che rappresentano anche sei
differenti ambiti lavorativi.
Metodo. Per valutare le tipologie di Holland abbiamo utilizzato la versione
italiana dello Strong-Campbell Interest Inventory (Sprini e Pace, 1998). Per esplorare la
dimensione della self-efficacy abbiamo utilizzato il questionario General Self Efficacy
(GSE) proposto da Pierro (1997). Il nostro campione é composto da 150 soggetti che
frequentano il Liceo Classico. Le nostre ipotesi erano: 1) che alti punteggi alla scala
54
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
GSE fossero correlati alle tipologie professionali di Holland collegate a professioni che
prevedono un alto livello di approfondimento culturale e/o di alto rischio professionale
(in particolare le tipologie Investigativa ed Imprenditoriale); 2) che i soggetti con alti
interessi nelle aree professionali stereotipicamente non attribuite al loro sesso (ad es.
area Realistica per i maschi, area Sociale per le femmine) avrebbero ottenuto un
punteggio più alto alla scala GSE rispetto a tutti i soggetti di sesso opposto. Sono state
effettuate delle analisi correlazionali e multivariate.
Risultati. I risultati confermano pienamente la prima ipotesi. La seconda ipotesi
è confermata soltanto per quel che riguarda le aree professionali stereotipicamente
maschili, verso le quali le femmine con alti punteggi risultano avere un punteggio
maggiore alla scala GSE rispetto ai maschi.
Conclusioni. Le nostre analisi sembrano suggerire che la combinazione di alti
interessi professionali ed efficacia percepita sia capace di limitare (almeno nella
dimensione delle possibilità) uno dei maggiori ostacoli alla realizzazione professionale,
costituito dagli stereotipi sessuali. In accordo con le conclusioni di Betz et al. (1996),
possiamo affermare che la valutazione della self-efficacy, soprattutto nella fase
adolescenziale nella quale é più vivo il processo di sviluppo delle scelte scolastiche e
professionali, può essere un efficace strumento di supporto alle attività orientative.
Riteniamo opportuno, in tal senso, avviare la costruzione di uno strumento che valuti in
particolar modo la self-efficacy negli studi e lavorativa.
Riferimenti bibliografici
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Solberg, V.S., Good, G.E., Nord, D., Holm, C., Hohner, R., Zima, N., Hefferman, M.,
Malen, A. (1994). Assessing career search expectations: development and
validation of the Career Search Efficacy Scale. Journal of Career Assessment,
2, 111-124.
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
55
ANALISI STRUTTURALE DELL’EMOZIONE DI SORPRESA:
UNO STUDIO INTERCULTURALE CONDOTTO ATTRAVERSO
INTERNET
Donatella Pagani{xe "Pagani D."}, Luigi Lombardi{xe "Lombardi L."}
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di
Padova.
Introduzione
La sorpresa occupa spesso una posizione particolare se confrontata con quella
delle altre emozioni considerate “universali” (Frijda e Tcherkassof, 1997; Katsikitis,
1997; Mc Andrew, 1986; Russel, 1997).
Diversi autori (Ekman e Friesen, 1978; Izard, 1971; Katsikitis, 1997; Smith e
Scott, 1997) hanno evidenziato il ruolo delle componenti della regione superiore del
volto, occhi e sopracciglia, nell’identificazione della sorpresa. In questo lavoro viene
presentato uno studio esplorativo condotto attraverso Internet sulla comunicazione
iconografica dell’emozione di sorpresa in diversi gruppi di partecipanti classificabili in
accordo a distinte aree geografiche e culturali. A questo scopo è stato costruito un
esperimento on-line per investigare il ruolo delle componenti dell’area superiore del
volto (occhi e sopracciglia) nella valutazione di sorpresa in un set di pittogrammi
sintetici generati attraverso una apposita interfaccia grafica chiamata MAS (Modello di
Analisi Strutturale) (Lombardi, 1997).
Metodo
Soggetti
742 partecipanti (68,9% femmine, 30.1% maschi) nell’arco di 5 mesi si sono
connessi da 45 paesi differenti al nostro laboratorio on-line della facoltà di psicologia di
Padova. La dimensione del campione e l’eterogenea provenienza dei partecipanti ha
permesso di costituire otto gruppi geografici, quattro dei quali (gruppo nord americano
[478 ss.], gruppo nord europeo [99 ss.], gruppo sud europeo [87 ss.] e gruppo asiatico
[33 ss.]) con sufficiente dimensione campionaria.
Materiale
9 pittogrammi rappresentanti la parte superiore del volto sono stati utilizzati
come stimoli sperimentali. I pittogrammi potevano variare nel grado di apertura degli
occhi (3 livelli: media, medio-massima, massima), nella posizione delle sopracciglia (3
livelli: media, medio-alta, alta), e nell’inclinazione delle sopracciglia (3 livelli: nessuna
inclinazione, convergenza verso l’alto, convergenza verso il basso). I nove pittogrammi
utilizzati nell’esperimento sono stati selezionati dall’insieme totale delle 27 possibili
combinazioni attraverso un opportuno quadrato latino e successivamente organizzati
secondo tre differenti ordini di presentazione.
Procedura
I partecipanti avevano accesso all’esperimento on-line attraverso quattro
possibili link (APS (American Psychological Society) On-line, WWW Università di
Padova, WWW University of Tuebingen, WWW University of Plymouth). Per ciascun
pittogramma presentato veniva richiesto di valutare il grado di sorpresa ad esso
56
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
associato attraverso una scala a 7 punti (0=totale assenza di sorpresa, 6=massima
sorpresa).
Disegno
Tre ANOVA a misure ripetute:
a) 3(posizione delle sopracciglia)×3(apertura degli occhi)×2(sesso)×4(area
geografica);
b) 3(posizione delle sopracciglia)×3(inclinazione delle sopracciglia)×2(sesso)×4(area
geografica);
c) 3(apertura degli occhi)×3(inclinazione delle sopracciglia)×2(sesso)×4(area
geografica);
aventi come componente within-ss le tre possibili coppie di variabili definenti i
fattori strutturali dello stimolo, e come componente between-ss le variabili sesso e area
geografica.
Risultati
Un primo risultato importante è emerso, rispettivamente, dall’interazione
significativa tra il fattore apertura degli occhi e l’area geografica di provenienza dei
partecipanti: F(6,1246)=4,30 (p<0,001), e tra il fattore posizione delle sopracciglia e l’area
geografica: F(6,1246)=2,40 (p<0,05). L’analisi dei confronti multipli (eseguiti attraverso
opportuni contrasti) ha evidenziato come una generale espansione delle componenti
dell’area superiore del volto ha prodotto una valutazione superiore del grado di sorpresa
indipendentemente dai distinti gruppi geografici. Nel particolare, si è registrata una
pressoché identica modalità di valutazione tra il gruppo nord americano e quello nord
europeo, che si sono differenziati chiaramente da quello asiatico, che è apparso
assegnare maggior peso nel processo di attribuzione del grado di sorpresa all’apertura
degli occhi piuttosto che alle sopracciglia. I sud europei si sono collocati in una
posizione intermedia rispetto alle due tipologie descritte.
Il secondo risultato importante è rappresentato dalle interazioni statisticamente
significative tra il genere sessuale dei partecipanti e il fattore apertura degli occhi:
F(2,1246)=6.07 (p<0,005), oltre che tra lo stesso fattore between e l’inclinazione delle
sopracciglia: F(2,1246)=13,37 (p<0,001). In particolare, abbiamo osservato una tendenza
relativamente più accentuata del gruppo femminile ad assegnare valori di sorpresa più
alti in relazione alla crescente apertura degli occhi.
Conclusioni
I laboratori on-line costituiscono a nostro parere un nuovo e affascinante
strumento per la progettazione di esperimenti a carattere interculturale, in modo
particolare per gli studi sulla comunicazione pittografica delle emozioni.
La possibilità di accedere ad un bacino eterogeneo e pressoché illimitato di
individui (la popolazione della rete), fa di Internet lo strumento più interessante in
termini di costi e di accessibilità che al giorno d’oggi il ricercatore che si occupa di
problematiche interculturali ha concretamente a disposizione.
Riferimenti bibliografici
Ekman, P. & Friesen, W. V. (1978). Facial action coding system. Palo Alto: Consulting
Psychologists Press.
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
57
Frijda, N. H. & Tcherkassof, A. (1997). Facial expressions as modes of action
readiness. In The Psychology of Expression. Eds J. A. Russell, J. M. Fernàndez
Dols. New York: Cambridge University Press.
Izard, C. E. (1971). The face of emotion. New York: Appleton Century Crofts.
Katsikitis, M. (1997), The classification of facial expressions of emotion: a
multidimensional-scaling approach. Perception, 26, 613-626.
Lombardi, L. (1997, Settembre). Rappresentazione delle espressioni del volto: proposta
di un modello insiemistico orientato ad oggetti. Contributo presentato al 1997
Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia Sperimentale, Capri.
Russel, J. A. (1997). Reading emotions from and into faces: Resurrecting a
dimensional-contextual perspective. In The Psychology of Expression. Eds J.
A. Russell, J. M. Fernàndez Dols. New York: Cambridge University Press.
Smith, C. A. & Scott, H. (1997). A componential approach to the meaning of facial
expressions. In The Psychology of Expression. Eds J. A. Russell, J. M.
Fernàndez Dols. New York: Cambridge University Press.
SUONO ED EMOZIONI: ALCUNE CONSIDERAZIONI
SULL’ASCOLTO OLOFONICO
Tito Pavan{xe "Pavan T."}, Roberto Caterina{xe "Caterina R."}
Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Bologna
Introduzione
Con lo sviluppo della stereofonia nei decenni passati furono messi in atto
diversi tentativi per migliorare il realismo spaziale del suono, come la quadrifonia o
altre sperimentazioni multi-speaker, tipo il sistema Dolby Surround o il sistema inglese
Ambisonic. Questi sistemi hanno soltanto in parte raggiunto lo scopo di dare una
maggiore naturalezza e spazialità al suono e richiedono sia in fase di registrazione sia di
ascolto l’impiego di ingombranti e complicate apparecchiature.
Utilizzando una tecnologia differente, basata su un più approfondito studio dei
meccanismi relativi all’ascolto binaurale e dei moduli che sottostanno alla ricezione,
alla percezione e all’interpretazione del segnale acustico (Blauert,1983; Lehnert and
Blauert, 1992), dai primi anni ‘80, si è sviluppata una linea di ricerca tesa alla
costruzione di speciali microfoni -trasduttori olofonici che consentono di riprodurre le
caratteristiche spaziali del suono con un impianto stereofonico tradizionale. Le ricerche
sull’olofonia al di là della loro applicazione commerciale in vari contesti hanno una
notevole rilevanza scientifica in quanto ci consentono di delineare meglio l’influenza
che la qualità del suono può avere sulla rappresentazione del significato che ad esso
attribuiamo.
In quest’ottica ci siamo proposti di iniziare un’indagine su quanto la tecnica
olofonica possa essere un fattore importante nell’induzione delle emozioni.
L’esperimento che presentiamo costituisce, naturalmente, soltanto un primo, limitato,
passo in questa direzione.
58
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
Metodo
Dopo un pre-test effettuato su un ampio campione di stimoli si sono prodotti
una serie di 6 brevi stimoli sonori riguardanti rispettivamente il suono di una campana
tibetana, di un carillon, di un paio di nacchere, il rumore di un asciugacapelli e due
diverse voci umane maschili. Ogni stimolo è stato prodotto in tre diverse modalità:
registrazione monofonica, stereofonica e olofonica per un totale, quindi di 18 stimoli.
25 soggetti in gran parte studenti universitari o loro familiari (età media anni
25,2; range 16-38), 19 maschi e 6 femmine hanno ascoltato in cuffia in una serie di
sedute individuali gli stimoli prima descritti presentati in ordine casuale e con un
intervallo di 20 secs tra uno stimolo e l’altro. Su un apposito foglio di risposta i soggetti
hanno indicato per ogni stimolo: 1) la direzionalità del suono (frontale, sinistra-destra,
alto-basso); 2) il grado di movimento attribuito allo stimolo, su una scala unipolare a 6
punti da 0=immobile a 5=estremamente mosso; 3) il grado di piacevolezzaspiacevolezza attribuito allo stimolo, su una scala bipolare a 7 punti da –
3=estremamente spiacevole a +3=estremamente piacevole; 4) il grado di naturalezzainnaturalezza attribuito allo stimolo su una scala bipolare a 7 punti da –3=estremamente
innaturale a +3=estremamente naturale.
Secondo la nostra ipotesi il suono o il rumore olofonico avrebbe dovuto essere
percepito come più mosso, più piacevole e più naturale rispetto allo stesso suono o
rumore prodotto sia in modalità monofonica sia in modalità stereofonica.
Risultati
I risultati hanno confermato ampiamente la nostra ipotesi. Per quanto riguarda
la direzionalità i soggetti hanno ben percepito le differenze tra i suoni monofonici,
stereofonici e olofonici: i primi sono stati percepiti come prevalentemente frontali, i
secondi come frontali o provenienti da destra e sinistra, i terzi come provenienti da più
direzioni (frontali, destra-sinistra, alto-basso). Per quanto riguarda l’attribuzione del
grado di movimento, piacevolezza e naturalezza i risultati sono sintentizzati nella tabella
in calce. Tutte le differenze tra le tre condizioni sono altamente significative (p<.001),
ad eccezione del rapporto tra stimoli monofonici e stereofonici che è risultato non
significativo per quanto riguarda il grado di piacevolezza e che presenta una minore
significatività (p<.05) per quanto riguarda il grado di naturalezza.
Condizione
Movimento
Piacevolezza
Naturalezza
Monofonica
Stereofonica
Olofonica
1,147
2,407
4,280
-,167
+,067
+1,327
-,067
+,240
+1,480
Conclusioni
In sostanza l’ascolto olofonico risulta più piacevole e naturale sia di quello
monofonico sia di quello stereofonico. È importante sottolineare che la differenza tra
olofonia e stereofonia appare quasi sempre più marcata rispetto a quella tra monofonia e
stereofonia nelle dimensioni della piacevolezza e della naturalezza. Questi primi dati ci
consentono di ipotizzare che il sistema olofonico permetta un ascolto reale e consenta
un più efficace trasferimento delle informazioni emotive che si vogliono indurre. I
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
59
risultati di alcune indagini preliminari sugli spettri di potenza del segnale
elettroencefalografico (EEG), nonché variazioni del ritmo cardiaco e respiratorio,
rilevabili in alcuni stimoli olofonici emotivamente connotati rispetto a stimoli neutri
sembrano andare in questa direzione.
Riferimenti bibliografici
Blauert, J. (1983). Hearing - Psychological Bases and Psychophysics, Springer, Berlin
New York.
Lehnert, H. and J. Blauert, J.(1992). Principles of Binaural Room Simulation. Journ.
Appl. Acoust., 36:259-291.
PERCEZIONE CORPOREA E RELAZIONI INTERPERSONALI
ALL’INTERNO DELLE DINAMICHE DI CLASSE
Annalisa Pelosi{xe "Pelosi A."}, Marina Pinelli{xe "Pinelli M."}, Raffaele Tucci{xe
"Tucci R."}
Università degli Studi di Modena, Dipartimento di Scienze Biomediche
Introduzione
Intento della nostra ricerca è quello di mettere in correlazione fenomeni sociali
e di gruppo con vissuti dell’individuo, ovvero verificare l’esistenza di modulazioni tra
gli aspetti cognitivi (misurati attraverso il rendimento scolastico), ed emozionali (in
specifico la percezione del sé corporeo) dell’adolescente e dinamiche sociali, sia
genericamente amicali, sia più specificatamente legate alla coesione del gruppo-classe
d’appartenenza del singolo. L’importanza che il gruppo riveste nella acquisizione di una
buona percezione di sé dell’adolescente è già stata ampiamente dimostrata dalla
letteratura (Muss, 1976; Coleman, 1983; Loprieno, 1986; Berndt, 1992; Damon, Hart,
1992; De Wit, Van der Veer, 1993; Palmonari,1993): nel gruppo di amici l’adolescente
si rispecchia e conferma o disconferma la propria immagine. Particolarmente critico
durante questo periodo della vita è il vissuto corporeo, che sembra influenzare le
relazioni sociali in senso positivo o negativo, anche se con intensità diverse tra maschi e
femmine. Il fenomeno potrebbe essere letto anche nell’altro senso: relazioni sociali non
buone si accompagnano a un senso di inadeguatezza da un punto di vista fisico. Rispetto
al gruppo degli amici, come si colloca il gruppo classe? Quale importanza ha
relativamente alle relazioni sociali, al vissuto corporeo e non ultimo al rendimento
scolastico? La classe è un gruppo orientato funzionalmente e/o un gruppo di amici? Una
classe coesa è una classe orientata al compito o una classe solidale? Un’alta coesione
all’interno della classe è funzionale alla performance del singolo?
Metodo
Il campione è costituito da 636 studenti di un Istituto Tecnico per Geometri
(463 maschi - 73,7% - e 165 femmine -26,3% -), di età media 16.7 anni.
Ad essi è stata somministrata durante il normale orario scolastico, in forma
collettiva e anonima, dagli insegnanti stessi, la seguente batteria di test: un questionario
60
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
(che prende spunto dal Group Environment Questionnaire, Carron, 1985) per la
misurazione della coesione nei cinque domini dell’attrazione individuale per il gruppo
focalizzata ai rapporti sociali (AGS), dell’attrazione individuale per il gruppo
focalizzata sul compito (AGC), dell’integrazione del gruppo focalizzata ai rapporti
sociali (IGS), della solidarietà di classe e della coesione di genere; un questionario
(Kellman, 1993) per le relazioni interpersonali di tipo amicale; una scala del Test
Multidimensionale dell’Autostima (TMA: Bracken, 1993) relativa al vissuto corporeo.
Sono state inoltre raccolte informazioni relative ai voti scolastici nelle materie
professionalizzanti.
Risultati
Nella coesione, il peso del dominio “orientamento al compito” è
significativamente maggiore dell’integrazione orientata ai rapporti sociali (t= 4.3,
p<.01). Non è stata trovata nessuna correlazione tra i cinque domini della coesione di
classe e le relazioni amicali. Il vissuto corporeo è correlato con le relazioni
interpersonali (r=.472, p>.01) e con la coesione di genere, ma non con le scale della
coesione di orientamento sociale e al compito. Vi sono differenze significative nel TMA
tra maschi e femmine (F= 84.2, p<.01), che ottengono un punteggio inferiore di 10
punti. Anche nelle relazioni interpersonali sono i ragazzi ad ottenere un maggior
punteggio (F= 3.7, p<.05); i punteggi delle relazioni interpersonali sono
significativamente peggiori (F= 4.7, p<01) in relazione a performance scolastiche alte.
La solidarietà di classe presenta variazioni significative in relazione alla classe
d’appartenenza (F= 4.3, p< .01). La coesione di genere mostra differenze significative
per sesso (t= -7.9, p<.01) e per rendimento scolastico (F= 3.1, p< 05).
Conclusioni
Per quanto riguarda il campione preso in esame sembrerebbe che la percezione
del sé corporeo sia in relazione con le scelte amicali, ma che sia indipendente dalle
dinamiche di attrazione o esclusione verso o dal gruppo classe. Probabilmente
quest’ultimo, in quanto gruppo imposto e non scelto, è orientato funzionalmente, per cui
vengono a mancare le motivazioni affettive e le motivazioni di durata. La classe si
prefigura dunque come un gruppo di lavoro temporaneo, le cui dinamiche prosociali non
devono essere equivocate con le relazioni amicali, da esse distinte per essere spontanee
e durature. Buone relazioni all’interno della classe non preservano quindi il ragazzo/a
dallo sviluppare un negativo schema corporeo. Inoltre migliori performance scolastiche
corrispondono a peggiori relazioni interpersonali, e sembrano essere indipendenti dai
domini della coesione.
Riferimenti bibliografici
Berndt, T.J. (1992) Friendship and fiends’ influence in adolescence. Current Directions
in Psychological Science, 1:156-159.
Bracken, T. (1993). Test multidimensionale dell’autostima.. Trento, Edizioni Erikson.
Carron, A.V., Widmeyer, W.N., Brawley, L.R. (1985). The development of an
instrument to assess cohesion in sport teams: the Group Environment
Questionnaire. Journal of Sport Psychology, 7: 244-266.
Coleman, J.C. (1980). La natura dell’adolescenza. Bologna, Il Mulino.
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
61
Damon, W., Hart, D. Self-understanding and its role in social and moral development.
In M.H. Bornstein e M.E. Lamb (Eds,) Developmental Psychology: An
advanced textbook, Hillsdale NJ:Erlbaum.
De Wit, J., Van der Veer, G. (1993). Psicologia dell’adolescenza. Teorie dello sviluppo
e prospettive di intervento. Firenze, Giunti.
Loprieno, M., a cura di (1986). Identità e valori nell’adolescenza. Pisa, ETS.
Muss, R.E. (1976). Le teorie psicologiche dell’adolescenza. Firenze, La Nuova Italia.
Palmonari A., a cura di (1993) Psicologia dell’adolescenza. Bologna, Il Mulino.
ATTENZIONE, PERICOLO!
IL PROCESSAMENTO EMOZIONALE DI STIMOLI
MINACCIOSI
Michela Sarlo{xe "Sarlo M."}, Giulia Buodo{xe "Buodo G."}*
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
*Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
Da un punto di vista evoluzionistico, appare verosimile che stimoli minacciosi,
e quindi potenzialmente dannosi per la sopravvivenza, abbiano una priorità di
elaborazione: l’analisi dei semplici attributi percettivi di tali stimoli avverrebbe in stadi
molto precoci dell’elaborazione dell’informazione e farebbe capo a meccanismi di
processamento preattentivi, automatici ed estremamente rapidi, in grado di favorire il
successivo processo di completa estrazione del significato (Öhman, 1997). Una tale
priorità sarebbe inoltre funzionale alla preparazione all’azione (attacco/fuga),
dimensione implicitamente sottostante al concetto stesso di emozione.
Parallelamente, numerosi studi sostengono che i volti godano di
un’elaborazione privilegiata, essendo processati in modo olistico, come un’unica
configurazione, piuttosto che come insieme di caratteristiche discrete (Tanaka e Farah,
1993) e che l’identificazione delle espressioni facciali avvenga in modo automatico,
senza gravare sull’impiego di risorse di processamento (White, 1995). L’universale
capacità di riconoscere ed identificare le diverse espressioni facciali, fondamentale
meccanismo adattivo di comunicazione sociale ed emozionale, sarebbe infatti innata, o
“hard-wired” e favorirebbe un’estrazione rapida e automatica dell’informazione
emozionale. In linea con quanto affermato in precedenza, alcuni dati empirici
sostengono, anche se non univocamente, che il meccanismo che governa l’elaborazione
dei volti raggiunga la massima efficienza nell’individuare segnali di potenziale minaccia
(Hansen e Hansen, 1988).
Scopo del presente esperimento era di mettere in relazione la ribadita rilevanza
motivazionale di alcune categorie di stimoli con l’impegno attentivo richiesto per la loro
elaborazione.
Si intendeva valutare: a) il processamento delle informazioni di minaccia,
contrapposte ad altri contenuti emozionali, veicolate o meno dallo stimolo “volto”; b)
62
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
l’andamento temporale e la peculiare precocità di elaborazione legata ad emozioni
evoluzionisticamente rilevanti; c) l’eventuale influenza dell’impegno attentivo sul
consolidamento delle tracce mnestiche.
Sono state presentate a 49 soggetti 36 immagini standardizzate tratte
dall’International Affective Picture System (IAPS, Center for the Study of Emotion and
Attention, 1999), a contenuto piacevole, spiacevole e neutro, suddivise nelle seguenti
classi: volti (sorridenti, minacciosi e neutri) e non-volti (avventura/sport, minacce e
oggetti domestici). Nell’ambito di un paradigma del doppio compito sono stati misurati
i tempi di reazione (TR) semplici ad un tono acustico presentato durante la visione delle
immagini a 300, 800 o 1800 msec dall’onset. Subito dopo la sessione sperimentale è
stata effettuata una prova di rievocazione libera delle immagini mostrate chiedendo al
soggetto di riportare il maggior numero di dettagli possibile.
I risultati hanno mostrato TR globalmente inferiori per le immagini spiacevoli
rispetto alle neutre e alle piacevoli, sostenendo la priorità di elaborazione per le
informazioni di minaccia, in linea con quanto riportato in letteratura. Inoltre, i volti
minacciosi hanno prodotto i TR più rapidi, mostrando di richiedere una quantità minima
di risorse di processamento, probabilmente perché veicolano l’informazione rilevante
per la sopravvivenza attraverso l’espressione facciale, immediatamente e
automaticamente analizzata. Dall’analisi dell’andamento temporale dell’impegno
attentivo è emerso che le informazioni a contenuto spiacevole vengono estratte
precocemente permettendo una successiva e progressiva maggiore disponibilità di
risorse (riduzione dei TR), mentre per le altre categorie si verifica una stabilizzazione.
Nonostante la minor quantità di risorse richiesta per l’elaborazione, la
rievocazione degli stimoli spiacevoli è risultata globalmente più dettagliata rispetto a
quella degli stimoli piacevoli e neutri. Appare vantaggioso, d’altra parte, in funzione
della rilevanza evoluzionistica di tali stimoli, ricordare i particolari di una situazione
minacciosa, utili per il consolidamento di uno schema mnestico efficace. Tale effetto
non è così evidente per i volti minacciosi, per i quali, verosimilmente, i dettagli non
risultano di grande utilità una volta identificato il messaggio che il volto esprime.
Riferimenti bibliografici
Center for the Study of Emotion and Attention {CSEA-NIMH} (1999). The
international affective picture system: digitized photographs. Gainesville, FL:
The Center for Research in Psychophysiology, University of Florida.
Hansen, C.H., & Hansen, R.D. (1988). Finding the face in the crowd: an anger
superiority effect. Journal of Personality and Social Psychology, 54, 917-924.
Öhman, A. (1997). As fast as the blink of an eye: evolutionary preparedness for
preattentive processing of threat. In: P.J. Lang, R.F. Simons, & M.T. Balaban
(Eds.), Attention and orienting: sensory and motivational processes. Hillsdale,
NJ: Erlbaum.
Tanaka, J.W., & Farah, M. (1993). Parts and wholes in face recognition. Quarterly
Journal of Experimental Psychology, 46A, 225-245.
White, M. (1995). Preattentive analysis of facial expression of emotion. Cognition and
Emotion, 9, 439-460.
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
63
RELAZIONI PERSONALI, ANTECEDENTI DI EMOZIONI, ED
ETICHETTE EMOZIONALI 5
Vanda L. Zammuner{xe "Zammuner V.L."}
Dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
Secondo i risultati di varie ricerche, la conoscenza che gli individui hanno delle
emozioni comprende anche informazioni circa gli eventi che tipicamente suscitano
questa o quella emozione (e.g., Shaver et al. 1987). I termini del lessico emozionale a
loro volta presumibilmente denotano, oltre ad altri aspetti (e.g., l’intensità
dell’emozione), anche tali legami (e.g., Conway e Beckerian, 1987). La ricerca che
verrà presentata si prefiggeva di analizzare le rappresentazioni dei legami eventiemozioni allo scopo di indagare quali e quanti termini emotivi sono associati a diversi
tipi di eventi che possiamo ipotizzare siano antecedenti (più o meno) prototipici di
questa o quell’emozione. L’ipotesi era che il grado di omogeneità, o uniformità tra i
soggetti, nell’etichettare l’esperienza emotiva suscitata dagli eventi variasse in funzione:
(i) della natura dell’esperienza emotiva (più o meno articolata e complessa), (ii) di
alcune caratteristiche specifiche del tipo di evento - in particolare, a seconda della
natura del rapporto interpersonale che lega chi esperisce l’emozione, che chiameremo
protagonista (P), a chi causa l’evento, che chiameremo agente (A), e infine (iii) del
grado in cui uno specifico termine è di livello “basilare”, utile a designare
economicamente esperienze emotive anche tra loro diverse, piuttosto che di livello
“subordinato”, atto cioè a specificare una gamma ristretta di esperienze. In altre parole,
dovremmo trovare che se un certo evento tende a suscitare esperienze emotive piuttosto
simili nella maggior parte delle persone, i soggetti le etichetteranno in modo omogeneo,
utilizzando pochi termini, di significato molto simile; viceversa, se l’evento suscita
un’esperienza emotiva complessa ed articolata, e/o esperienze diverse a seconda di
certe sue caratteristiche specifiche e/o di chi ne sono i protagonisti, soggetti diversi
etichetteranno l’esperienza in modi anche piuttosto dissimili.
Metodo
La ricerca verte su 10 emozioni, spesso indagate in letteratura e
presumibilmente frequenti, sia “di base” che “complesse”: Gioia, Orgoglio, Tristezza,
Paura/Ansia, Sorpresa, Rabbia, Disgusto, Colpa, Imbarazzo, e Gelosia. I rapporti
interpersonali tra protagonista (P) e agente (A) indagati furono 7: A è rispettivamente
(i) Sé stesso, (ii) Genitore (padre/madre) di P, (iii) Fratello/sorella, (iv) Partner, (v)
Amico/a, (vi) Conoscente, (vii) Boss (capo/un superiore) nell’ambito del lavoro. Per
ogni emozione furono costruite 7 vignette che riportavano un evento causato da uno di
questi 7 agenti, per un totale di 69 eventi (non fu testato, in quanto irrealistico, l’evento
di gelosia causato dal Sé) - per es., P scopre che A, suo fratello, spaccia droga; P litiga
con A, suo partner; P “perde” A, suo amico, perché la famiglia di A si trasferisce
all’estero; A, padre di P, viene ricoverato all’ospedale per un incidente d’auto; A, capo
di P, lo promuove e gli aumenta lo stipendio; A, amico di P, vince un importante
5
Desidero ringraziare N. Girtler per il suo prezioso aiuto nella preparazione degli stimoli sperimentali, nella
raccolta e nell’analisi dei dati
64
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
concorso; P fallisce un esame perché non ha studiato a sufficienza. Le vignette furono
presentate ai soggetti (N= 81; 42 M, 39 F) in uno di più ordini randomizzati in un
questionario che chiedeva loro di esprimere 2 giudizi: dire quale emozione (un solo
termine) proverebbe nella situazione descritta (a) la maggior parte delle persone, (b) essi
stessi. I soggetti sceglievano l’emozione da un elenco di 80 termini prescelti come
rilevanti in base alla letteratura, comprendenti, oltre a quelle sopracitate, emozioni quali
allegria, dispiacere, indignazione, stupore, preoccupazione, soddisfazione, invidia, e
terrore. Se lo ritenevano necessario, potevano supplire essi stessi un termine diverso.
Le scelte dei termini emozionali da parte dei soggetti in rapporto alle vignette
proposte (138 giudizi per ciascun soggetto) furono tabulate in una matrice e sottoposte a
varie analisi, tra le quali l’analisi delle corrispondenze (AC).
Risultati
Per etichettare le vignette loro proposte, i soggetti utilizzarono 236 termini in
tutto - 156 termini ‘nuovi’, oltre agli 80 pre-elencati. Una prima analisi dei giudizi
permise di ridurre a 94 (80 originali, più 14 ‘nuovi’) il numero di termini emozionali
necessari a dar conto di tali giudizi. La riduzione fu effettuata considerando sia la
frequenza di ciascuno dei termini prodotti spontaneamente, sia il grado di somiglianza
concettuale con i termini pre-elencati nel questionario. La risultante matrice di dati (94
termini x 69 situazioni x 2 giudizi (sé stessi, in generale) fu sottoposta ad una prima
AC, i cui risultati permisero di ridurre ulteriormente la matrice a 17 categorie
emozionali - le 10 elencate sopra, più altre 7, quali Contentezza, Indignazione e
Preoccupazione - e 69 eventi, matrice che fu sottoposta ad una ulteriore AC i cui
risultati permisero di ridurre ulteriormente il numero di tipi di eventi distinti. La (terza
ed ultima) analisi AC riguarda la matrice ‘definitiva’ di 17 categorie emozionali x 32
eventi - sono state mantenute le distinzioni dovute alla natura del rapporto
interpersonale implicato soprattutto per Rabbia, Disgusto, Sorpresa, e Imbarazzo;
viceversa, non vi sono distinzioni significative connesse all’etichettamento degli eventi
di Gioia e Paura, e sono poche quelle per gli eventi di Colpa, Orgoglio e Tristezza). I
risultati mostrano che l’etichettamento degli eventi è spiegato da 6 fattori (varianza
spiegata: 80.9%): non sorprendentemente, il primo (22.4%) distingue tra (eventi che
suscitano) emozioni di tono edonico positivo, e quelle di tono negativo; il secondo
(15.9%) distingue tra Paura/preoccupazione e Rabbia/gelosia, il terzo (12.9%) tra
Colpa/imbarazzo e Sorpresa/Dispiacere, il quarto (12.1%) tra Colpa/sorpresa/stupore e
Gelosia/rabbia/imbarazzo, il quinto (10.1%) tra Tristezza/dispiacere e Imbarazzo, e
infine il sesto (7.4%) tra Disgusto (anche nell’accezione di Indignazione)/gelosia/rabbia
e Sorpresa/stupore. I dati mostrano in sintesi che il tipo specifico di evento considerato
(Sé/qualcuno viene promosso sul lavoro, vince un concorso, ecc.) non influisce molto
sulla natura delle emozioni positive che suscita, perlomeno secondo l’opinione dei
soggetti - ad esempio, gioia è l’etichetta scelta non solo in rapporto alla quasi totalità
degli eventi di Gioia, ma anche l’etichetta che definisce molti eventi di Orgoglio; questi
ultimi, naturalmente, sono spesso etichettati anche come Orgoglio, oltre che, come
alcuni di quelli di Gioia, come Contentezza o Soddisfazione. La Sorpresa - ma anche
Sbalordimento e Stupore - è, sempre secondo i soggetti, un’emozione che caratterizza
non solo gli eventi ipotizzati quali antecedenti tipici di questa emozione, ma abbastanza
spesso anche gli eventi che suscitano Disgusto, e meno frequentemente, Tristezza,
COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
65
Rabbia, e altre emozioni negative. Tristezza e Dispiacere sono a loro volta emozioni che
caratterizzano non solo gli eventi loro prototipici, ma emozioni onnipresenti, associate
cioè alla maggior parte degli eventi che suscitano emozioni negative, e dunque anche in
relazione a tutti i tipi di rapporto interpersonale indagati. Lo stesso vale per la Rabbia
che, associata in misura prevalente agli eventi prototipici, è tuttavia spesso presente
come etichetta per altri tipi di eventi negativi. Paura, Gelosia, Disgusto/indignazione, e
Colpa e Imbarazzo sono infine etichette che i soggetti attribuiscono prevalentemente
solo agli eventi ipotizzati come prototipici per ciascuna di esse - anche se vi è uno
stretto rapporto tra Colpa e Imbarazzo (nell’accezione spesso di Vergogna).
Nel complesso i dati ottenuti mostrano: (i) la maggiore articolazione presentata
dalle emozioni negative rispetto a quelle positive; (ii) il fatto che certi termini emotivi
(quali rabbia, disgusto, imbarazzo) designano esperienze emotive di natura molto
diversa tra loro; (iii) gli eventi variano significativamente tra loro nel grado in cui i
soggetti ritengono che suscitino un’esperienza emotiva di questa piuttosto che quella
natura (e.g., rabbia piuttosto che tristezza; disgusto piuttosto che rabbia, sorpresa,
tristezza); (iv) la natura del rapporto interpersonale tra l’agente A, cioè chi causa
l’evento, e il protagonista P, colui/colei che esperisce l’emozione, è una variabile
importante nel definire la natura dell’esperienza emotiva soprattutto quando essa è di
tono edonico negativo, e quando implica che l’azione di A blocca (Rabbia), ‘ferisce’
(Disgusto), o mette a repentaglio in qualche modo (Imbarazzo, Colpa, Gelosia) gli scopi
immediati o a lungo termine di P (e.g., ottenere x, dove x può essere il superamento di
un esame, una promozione, l’amore del partner, ecc.).
I dati ottenuti, oltre che nella definizione del significato dei termini del lessico
emozionale (e.g., vedi Zammuner 1998; Zammuner e Galli 1997), sono a mio avviso
pertinenti anche allo scopo di costruire un data-base dei legami eventi-emozioni così
come se li rappresentano gli individui.
Riferimenti bibliografici
Zammuner, V.L. (1998). Concepts of emotion: ‘Emotionness’, and dimensional ratings
of Italian emotion words. Cognition and Emotion, 12, 243-272.
Zammuner, V.L., Galli, C. (1997). La conoscenza del lessico emozionale negli
adolescenti e nei giovani. Congresso AIP, Sezione di Psicologia Sperimentale,
Capri.
COMUNICAZIONI - ERGONOMIA
66
ERGONOMIA
ASSESSMENT ON LINE DEL PROFILO COGNITIVOMOTIVAZIONALE DI UTENTI INTERNET. UNO STUDIO
PILOTA
Maurizio Cardaci{xe "Cardaci M."}, Amedeo Claudio Casiglia{xe "Casiglia
A.C."}, Barbara Caci{xe "Caci B."}, Alessandra Attardi{xe "Attardi A."}
Università degli studi di Palermo
Introduzione
La sempre più rapida diffusione del fenomeno Internet (in particolare del
World Wide Web) ha generato una popolazione di utenti, il cui profilo cognitivomotivazionale è ancora poco conosciuto. A fronte dell’aumento esponenziale di
variegate tipologie di “navigatori”, diventa oggi possibile utilizzare le risorse di Internet
per condurre ricerche on-line (OLR) attraverso strumenti presentati e supportati
direttamente dal network. Da un punto di vista metodologico, nelle indagini on-line i
soggetti non sono estratti secondo specifiche procedure di campionamento né contattati
direttamente dal ricercatore. Questi non ha dunque altra possibilità di sollecitarne la
partecipazione se non quella di costruire e diffondere in rete strumenti, con
caratteristiche di veri e propri “attrattori virtuali”, cioè ben visibili e adeguatamente
pubblicizzati. Utilizzando un’apposita check-list multidimensionale fatta circolare su un
certo numero di siti WEB del circuito universitario italiano, la presente indagine
fornisce una prima descrizione di alcuni aspetti del profilo cognitivo-motivazionale di
utenti Internet.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 160 soggetti (64 donne e 96 uomini)
rispondendo nell’arco di circa 5 mesi alla check-list raggiungibile sotto forma di link
nelle home pages di diversi atenei italiani (Palermo, Padova, Lecce, Perugia ecc.). Per
evitare all’utente un sovraccarico attenzionale il tempo necessario alla compilazione era
di circa tre minuti e le modalità di risposta (assai semplici) si basavano sul point and
click. Per la restituzione automatica dello strumento era sufficiente cliccare sul pulsante
“invia form”. Lo strumento utilizzato è composto da 60 item relativi a quattro differenti
aree: 1. informazioni generali (genere; età; livello di istruzione; professione;
provenienza geografica); utilizzo della rete (modalità e motivazioni) 2. caratteristiche di
personalità (riferibili al modello dei Big Five) 3. stile cognitivo-percettivo (modello
ecologico di Satow); 4. convinzioni psicoepistemiche (razionalismo vs. irrazionalismo;
dualismo mente/corpo)
Risultati
I soggetti si caratterizzano per un livello di istruzione medio-alto (il 56% ha la
laurea). La maggior parte risiede al sud, benché anche il nord ed il centro siano
COMUNICAZIONI - ERGONOMIA
67
adeguatamente rappresentati. Per quanto riguarda le loro caratteristiche di personalità e
lo stile cognitivo, emerge un atteggiamento aperto e positivo nei confronti della realtà.
Analogamente, la buona stabilità emotiva, le convinzioni prevalentemente
“razionalistiche” e l’uso contenuto di Internet rilevati nella popolazione della ricerca
non avvalorano le tesi di quanti associano l’interesse per Internet a bisogni di fuga in
mondi virtuali. Differenze individuali percettivo-cognitive quali la preferenza per
ambienti ricchi di stimoli sensoriali e percettivamente vari costituiscono altresì
l’antecedente del livello di interesse verso l’uso di una pluralità di servizi Internet.
Conclusioni
Nonostante il loro carattere provvisorio, i suddetti risultati rivestono, a nostro
parere, un certo interesse. Le risorse telematiche disponibili in Internet possono infatti
offrire allo psicologo un adeguato supporto per nuovi strumenti di assessment costruiti
secondo appropriati criteri ergonomici.
Riferimenti bibliografici
Cardaci, M., Ceresia, F. (1995) Psycho-Epistemic Inventory. Uno strumento di
valutazione di costrutti psico-epistemologici. Bollettino di Psicologia
Applicata, 213, 27-30.
Mc Crae, R.R. e John, O.P. (1992), An Introduction to the Five-Factor Model and its
Applications. Journal of Personality, 60, 2, 175-215.
Satow A., (1986), An ecological approch to mechanisms determining individual
differences in perception. Perceptual and Motor Skills, 62, 983-998.
FRASEOLOGIA STANDARD E DEVIAZIONI PROCEDURALI
NELLE COMUNICAZIONI FRA CONTROLLORI DI VOLO E
PILOTI
Paola Corradini{xe "Corradini P."} *, Cristina Cacciari{xe "Cacciari C."} *,
Silvana Contento{xe "Contento S."} **, Roberto Nicoletti{xe "Nicoletti R."} ***
* Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Modena
** Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di
Bologna
*** Dipartimento di Psicologia, Università di Padova
Introduzione
Questa ricerca è parte di un più ampio progetto che indaga aspetti
cronobiologici e comunicativi dell’attività di un campione di controllori di volo di un
aeroporto dell’Italia settentrionale (Nicoletti, R. et al., 1998; Cicogna, P. et al., 1998). È
particolarmente rilevante l’analisi delle comunicazioni in questo ambito perché queste si
dovrebbero svolgere nel rispetto di una fraseologia operativa standardizzata che
stabilisce l’uso di contenuti, sintassi, formati, regole di pronuncia convenzionali.
Deviazioni da questa fraseologia possono comportare ambiguità comunicative e dare
68
COMUNICAZIONI - ERGONOMIA
luogo a problemi di varia entità a livello operativo (Morrow, D. et al., 1993; Billings, C. E. &
Cheaney, E. S., 1981; Grayson, R. L. & Billings, C. E., 1981). Per quanto riguarda i fattori
comunicativi sono stati analizzati dei campioni di comunicazioni svoltesi fra controllori
di radar e di torre e piloti con l’obiettivo di valutare: a) se e con quale entità si
verificassero fenomeni di ambiguità, attraverso lo studio dell’organizzazione delle
comunicazioni e di quanto queste rispettassero le procedure operative e la fraseologia
standard prescritta; b) quali difficoltà comunicative o deviazioni procedurali si
verificassero più frequentemente e che ricadute avessero sulle successive comunicazioni
ed operazioni; c) se ci fossero delle correlazioni fra caratteristiche delle comunicazioni
ed altre variabili di tipo ambientale (carico di lavoro) e cronopsicologico (livello di
vigilanza). La presente comunicazione si limiterà ai punti a) e b).
Metodo
Durante l’arco di una settimana, considerata rappresentativa del traffico aereo
medio dell’Aeroporto, sono stati selezionati 5 giorni lavorativi (4/8 maggio 1998); per
ogni giorno e per ognuna delle due posizioni operative oggetto di studio, sono stati
raccolti campioni di sequenze comunicative svoltesi tra controllori di torre e di radar ed
equipaggi di volo (piloti). Sono state considerate le seguenti variabili:
a) turno di lavoro (sono previsti tre tipi di turni: mattino, pomeriggio, notte);
b) carico di lavoro (massimo e minimo) stimato sul numero di aeromobili
gestiti durante il turno in base al riassunto dei movimenti aerei fornito dal CAV (Centro
di Assistenza al Volo).
Sono stati così ottenuti, per ogni giorno, dodici campioni di sequenze
comunicative (postazione × turno × carico di lavoro) di 10’ circa. Le comunicazioni
sono poi state trascritte, revisionate con la consulenza di un controllore esperto, quindi
analizzate.
Per l’analisi, di tipo qualitativo e quantitativo, è stata elaborata una tassonomia
degli aspetti comunicativi ritenuti rilevanti in base sia ai dati e alle osservazioni riportati
in letteratura (Cushing, 1994; Morrow, D. et al., 1991; Seamster, T., et al., 1992; ; NASA-ASRS,1994),
sia ad interviste svolte con piloti e controllori di volo. Le categorie così determinate
sono le seguenti:
1) transazione routinaria vs. non-routinaria (cioè in cui si sia verificata una
qualche forma di incomprensione che abbia poi alterato il normale svolgersi della
conversazione);
2) problemi dovuti a malfunzionamenti del canale (radio);
3) confusioni fra omofoni (numeri, callsign, parole);
4) mancato/scorretto uso della fraseologia:
4.a) problemi interlinguistici (uso della lingua italiana, passaggio dall’italiano
all’inglese e vv.);
4.b) uso di prassi linguistiche (prassi collettive, prassi individuali, prassi nella
dizione dei numeri);
4.c) omissioni (di clearances, di informazioni, di parametri, di parole o
numeri);
4.d) acknowledgements (a. assente, a. privo di readback, a. con readback
parziale);
COMUNICAZIONI - ERGONOMIA
69
4.e) callsign (sigla di identificazione dell’aeromobile)/nome della stazione di
controllo assenti o detti scorrettamente, relativamente sia alla stazione emittente che a
quella ricevente;
4.f) ridondanze (ripetizioni o locuzioni inutili, forme di cortesia e saluti,
espressioni di negoziazione più o meno esplicita);
5) comunicazioni basate su modelli mentali inadeguati.
Per ogni categoria sono state calcolate: 1) la frequenza di occorrenza di ogni
fenomeno e 2) la media di occorrenza, considerando come universo (n) il numero totale
di turni di parola verificatosi nel turno di lavoro in questione, separatamente per
controllori e piloti.
Risultati
I dati ottenuti consentono, in prima istanza, alcune osservazioni di carattere
qualitativo.
a) La distribuzione dei fenomeni comunicativi considerati non sembra
presentare differenze significative e sistematiche né in relazione ai diversi tipi di turno,
né in relazione al maggiore o minore carico di lavoro. Per quanto riguarda i controllori,
questi dati sembrano essere coerenti con i risultati relativi al livello di vigilanza
autovalutato dai soggetti per mezzo della scala GVA (Global Vigor Affect Scale): i
controllori percepiscono il proprio livello di vigilanza sempre piuttosto elevato e non
riferiscono cali nei periodi in cui questi fisiologicamente si determinano, come durante
la notte.
b) Non sembrano esservi differenze sistematiche nei formati comunicativi
utilizzati da controllori di radar vs. controllori di torre, e nemmeno fra controllori e
piloti. Le comunicazioni si realizzano in base ad una fraseologia di uso diffuso e
condiviso che si discosta considerevolmente da quella standardizzata.
c) A conferma del punto b) è la diversa frequenza con cui si manifestano le
deviazioni procedurali analizzate: in circa un terzo degli scambi comunicativi vengono
utilizzate “prassi collettive”, cioè espressioni non conformi ai formati standard ma
ampiamente adottati e compresi, quindi resi convenzionali dall’uso. Prassi collettive
molto diffuse sono pure una serie di omissioni di termini che comunemente vengono
tralasciati perché inferibili dal contesto (ma che invece dovrebbero essere enunciati) e
l’uso di forme di cortesia e saluti che, al contrario, dovrebbero essere omessi. Molto rare
sono invece deviazioni più gravi, come omissioni di autorizzazioni (mai verificatesi) o
di parametri rilevanti o acknowledgements assenti o totalmente privi di readback.
d) Molto frequente è l’uso della lingua italiana quando dovrebbe invece essere
usato solo l’inglese. Ciò si associa, inoltre, ad un forte aumento di espressioni ridondanti
che sembra rendere molto più probabile lo “scivolamento di codice”, cioè il passaggio
dal linguaggio standard a quello naturale con il conseguente appesantirsi della
comunicazione e possibili ambiguità semantiche e lessicali.
Conclusioni
Il dato più evidente che emerge è l’utilizzo, nella prassi operativa, di un
linguaggio che si basa sì sulla fraseologia standard, ma che se ne discosta in modo
rilevante attraverso l’uso di prassi comunicative ampiamente condivise, utilizzate e
comprese. In condizioni normali questo sembra non produrre fenomeni di ambiguità con
70
COMUNICAZIONI - ERGONOMIA
conseguenti rischi per la sicurezza, ma si può ipotizzare che, in particolari situazioni, il
discostarsi dalla fraseologia standard costituisca un indebolimento delle misure di
sicurezza e salvaguardia dall’errore del sistema (si tenga presente che la fraseologia
standard è proprio mirata a minimizzare il verificarsi di ambiguità, fraintendimenti e
incomprensioni).
I risultati sono comunque ancora in corso di analisi. Ulteriori approfondimenti
riguarderanno sia gli aspetti comunicativi che le possibili correlazioni fra questi e le
altre variabili ambientali e cronopsicologiche considerate.
Ricerca eseguita con il contributo MURST ex 40% - 97
Riferimenti bibliografici
Billings, C. E. & Cheaney, E. S. (1981a). Information transfer problems in the aviation
system. (NASA TP 1875) Moffet Field, CA: NASA-Ames Research Center.
Billings, C. E. & Cheaney, E. S. (1981b). The information transfer problem: summary
and content. In: Billings, C.E. & Cheaney, E.S. (Eds.). Information transfer
problems in the aviation system (NASA TP 1875). Moffet-Field, CA: NASAAmes Research Center.
Cicogna, P., Nicoletti, R., Alzani, A., Iani, C. & Natale, V. (1998). Livelli di vigilanza
soggettiva e tipologia circadiana nel controllo del traffico aereo. Presentato al
VI Congresso della Società Italiana di Cronobiologia, Chianciano, 1998.
Cushing, S. (1994). Fatal words. Communication clashes and aircraft crashes.
Chicago:The University of Chicago Press.
Grayson, R. L. & Billings, C. E. (1981). Information transfer between Air Traffic
Control and aircraft: communication problems in flight operations. In: Billings,
C.E. & Cheaney, E.S. (Eds.). Information transfer problems in the aviation
system (NASA TP 1875). Moffet-Field, CA: NASA- Ames Research Center.
Morrow, D., Lee, A. & Rodlov, M. (1991). Collaboration in pilot-controller
communication. In: Proceedings of the 6th International Symposium on
Aviation Psychology. Columbus: Ohio State University.
Morrow, D., Lee, A. & Rodvold, M. (1993). Analysis of problems in routine controllerpilot communication. The International Journal of Aviation Psychology, 3(4),
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NASA-ASRS (1994). Synopsis of pilot/controller communications reports. Mountain
View, CA: ASRS.
Nicoletti, R., Alzani, A., Depolo, M., Iani, C., Scozzari, M. (1998). Livelli di vigilanza
nel controllo del traffico aereo. Presentato al Congresso Nazionale della
Sezione di Psicologia Sperimentale dell’AIP, Firenze, 1998.
Seamster, T., Cannon, J. R:, Pierce, R. M. & Redding, R. E. (1992). Analysis of en
route air traffic controller team communication and controller resource
management (CRM). In: Proceedings of the Human Factors Society 36th
Annual Meeting.
COMUNICAZIONI - ERGONOMIA
71
L’USABILITÀ A QUATTRO DIMENSIONI
Francesco Di Nocera{xe "Di Nocera F."}, Rosaria Salpietro{xe "Salpietro R."}
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Nella letteratura sulla Human-Computer Interaction si fa spesso riferimento
alla natura multi-dimensionale dell’usabilità (Chin et al., 1988; Jordan, 1994). Tuttavia,
malgrado l’accordo sull’idea che diversi fattori contribuiscano a definire questo
costrutto, due possibili impostazioni si contrappongono nel tentativo di definire l’esatta
natura di tali dimensioni. Fondamentalmente, l’usabilità può essere considerata in
termini di attributi specifici di un prodotto o in termini di criteri soggettivi di
valutazione adottati dall’utente che interagisce con quel prodotto. La prima prospettiva
di ricerca è spesso adottata in contesti aziendali, per soddisfare esigenze di mercato e, in
tal senso, risulta più assimilabile al marketing che all’ergonomia cognitiva. Nella ricerca
psicologica sull’usabilità, invece, la problematica centrale dovrebbe essere rappresentata
proprio dal processo soggettivo di valutazione, un processo che probabilmente opera
attraverso diverse dimensioni le quali, a loro volta, contribuiscono alla definizione del
sistema di riferimento adottato dall’utente.
Questo contributo si propone di dimostrare l’esistenza di tale sistema, nonché
di definire le dimensioni che lo costituiscono. In particolare, per le potenzialità che offre
e per la capacità che ha mostrato di imporsi in breve tempo come standard per la
comunicazione, l’editoria e il commercio, abbiamo ritenuto opportuno, tra le tecnologie
disponibili, indagare l’usabilità di Internet.
Nelle prime fasi di questa ricerca (Di Nocera et al., 1999) sono stati identificati,
attraverso un’indagine pilota, gli aspetti generali che, secondo gli utenti, caratterizzano
la navigazione in Internet. Sulla base di tali informazioni è stato possibile generare un
elevato numero di affermazioni, settanta delle quali sono state selezionate al fine di
realizzare un questionario per la valutazione dell’usabilità dei siti Internet.
I dati riportati nel presente contributo fanno riferimento ad un campione di 320
soggetti. Metà del campione ha risposto al questionario on-line [forma elettronica],
mentre l’altra metà ha compilato una tradizionale forma “carta e matita” dello stesso
strumento durante sessioni di valutazione in laboratorio [forma cartacea].
I risultati di questo studio confermano la nostra ipotesi di un costrutto
multidimensionale di usabilità. In particolare, l’analisi fattoriale condotta sui dati
raccolti ha mostrato l’esistenza di quattro dimensioni, parzialmente correlate tra loro e
con coefficienti di attendibilità sufficientemente elevati. In base ai risultati ottenuti
sembrerebbe che gli utenti valutino il sito in funzione:
- del livello di SODDISFAZIONE in termini di mancato raggiungimento
dell’obiettivo, un’etichetta alternativa potrebbe difatti essere quella di “utilità emotiva”;
- della MANEGGEVOLEZZA, cioè controllo, gestione e manipolazione del
sito, probabilmente la dimensione più propriamente “ergonomica” dell’usabilità,
condivisa dall’uso di oggetti concreti (realmente manipolabili);
- dell’ATTRATTIVA, cioè presenza di elementi inattesi che, in funzione degli
obiettivi e delle preferenze dell’utente, possono rendere più piacevole la visita al sito;
- dell’UTILITÀ della visita definita in termini di conseguimento degli specifici
obiettivi dell’utente.
72
COMUNICAZIONI - ERGONOMIA
Tali fattori potrebbero essere considerati una cornice di riferimento generale,
uno spazio di lavoro entro il quale l’utente organizzerebbe le proprie valutazioni.
Inoltre, proprio questa caratteristica di generalità dei fattori emersi, suggerisce che tale
organizzazione del costrutto di usabilità sia propria dell’utente e che quest’ultimo la
utilizzi ogniqualvolta necessiti di fornire una valutazione, indipendentemente dal
prodotto da valutare.
L’Analisi della Varianza Multivariata (MANOVA) condotta sui punteggi
fattoriali utilizzando la forma (elettronica vs. cartacea) come variabile indipendente, ha
mostrato differenze statisticamente significative tra le due modalità di
somministrazione. In questo studio, inoltre, è stata adottata la procedura bootstrap
(Efron, 1979; Efron e Tibshirani, 1993) per valutare la attendibilità e la consistenza dei
risultati della Analisi Fattoriale e della MANOVA. Nonostante tale approccio non sia di
uso frequente nella ricerca psicologica, esso appare di grande utilità nella definizione di
nuovi costrutti. Questo studio mostra inoltre, come era da attendersi, un effetto del
livello di esperienza sul processo di valutazione, anche all’interno dello stesso schema
di riferimento. In particolare, soggetti esperti e inesperti mostrano pattern
completamente opposti su tutte le dimensioni ad eccezione della SODDISFAZIONE.
Riferimenti bibliografici
Chin, J.P., Diehl, V.A., & Norman, K.L. (1988). Development of a tool measuring user
satisfaction of the human-computer interface. Proceedings of the SigChì88:
Human Factors in Computer Systems, 213-218.
Di Nocera, F., Ferlazzo, F., Renzi, P. (1999). Us.E. 1.0: costruzione e validazione di uno
strumento in lingua italiana per valutare l’usabilità dei siti Internet. In M.F.
Costabile, & F. Paternò (a cura di), HCITALY’99: Giornata Italiana su
Human-Computer Interaction. Rapporto CNUCE-B4-1999-003. Pisa: CNUCECNR.
Efron, B. (1979). Bootstrap methods: another look at the jackknife. Annals of Statistics,
7, 1-26.
Efron, B., & Tibshirani, R.J. (1993). An introduction to bootstrap. New York: Chapman
and Hall.
Jordan, P. W. (1994). What is usability? In S. A. Robertson (Ed.), Contemporary
Ergonomics 1994. London: Taylor & Francis, 454-458.
COMUNICAZIONI - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
73
LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
METAFORE E ALTRI TROPI NEL LINGUAGGIO ICONICO
Alberto Argenton{xe "Argenton A."}
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione Università di Padova
L’obiettivo della mia comunicazione è quello di presentare i risultati fino ad
ora ottenuti tramite alcune ricerche che, nel loro insieme, concorrono a costituire un
progetto d’indagine ad ampio raggio, il quale ha come oggetto la presenza, la tipologia,
l’origine, la comprensione e le funzioni cognitive delle figure retoriche nel linguaggio
iconico.
Con linguaggio iconico mi riferisco al linguaggio delle immagini statiche,
bidimensionali e tridimensionali, ottenute tramite tecniche diverse (in particolare,
disegno, grafica, pittura, fotografia, computer graphics, scultura) e prodotte in campi
specifici (in particolare, le arti visive, il disegno umoristico, la satira, i comics, la
pubblicità). E con figure retoriche mi riferisco ai tropi o traslati o alle figure del
pensiero (ad esempio, metafora, metonimia, sineddoche, sinestesia, iperbole, ossimoro,
personificazione, ecc.) che vengono usati nel linguaggio iconico al fine di rendere
efficace — espressivo — il processo comunicativo o, in altri termini, secondo una
definizione di carattere psicologico, a tutti quegli espedienti formali, frutto di un
“pensiero figurato” (R.W. Gibbs, 1994), che contribuiscono a dare “qualità espressive”
(R. Arnheim, 1966; 1974) al “significato percettivo e rappresentativo” (A. Argenton,
1996) dei prodotti del linguaggio iconico.
Su questo oggetto di indagine esistono sporadici e non sistematici studi (ad
esempio, J.M. Kennedy, 1982) o lavori che, rivolti principalmente alla comunicazione
letteraria, ne accennano soltanto (ad esempio, R. Arnheim, 1966; R.W. Gibbs, 1994;
C.R. Hausman, 1989), anche se sembra inizi a manifestarsi un maggiore e più deciso
interesse nei suoi confronti (V. Kennedy, J.M. Kennedy, 1993). Tuttavia, sulla base
degli assunti che il linguaggio figurato è manifestazione del pensiero e non mero fatto
linguistico (G. Lakoff, M. Johnson, 1980), che il pensiero e l’immaginazione hanno
origini e fondamento nella percezione (R. Arnheim, 1969) e nell’esperienza corporea
(M. Johnson, 1987), che fra linguaggio verbale e linguaggio visivo vi siano, oltre alle
differenze, delle similarità (R. Arnheim, 1986a; 1986b; 1992; W.J.T. Mitchell, 1995; J.
Muhovic, 1997), non mancano i riferimenti teorici a cui ricondurre l’indagine stessa e
che sono integrabili con quelli, anche di carattere metodologico, presenti nella
psicologia delle arti visive (R. Arnheim, 1974; J. Willats, 1997; R. Wollheim, 1987).
Le ricerche, di cui verranno presentati i principali risultati attraverso una serie
di esempi, sono state svolte adottando una metodologia diversificata a seconda dei
campi ai quali erano rivolte. In sintesi, è stata esaminata — tramite analisi formale, di
contenuto e contestuale, ricorrendo, in alcuni casi, al giudizio di esperti e attuando un
confronto, laddove possibile, con la letteratura specialistica in proposito — la
produzione iconica di singoli artisti, appartenenti a varie epoche e tendenze stilistiche, la
produzione iconica a noi contemporanea di tipo pubblicitario, satirico, umoristico,
74
COMUNICAZIONI - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
fumettistico, presente in pubblicazioni edite in un determinato lasso di tempo e scelte
seguendo alcuni criteri di campionamento, e si sono individuate e classificate le
metafore e gli altri tropi usati nelle produzioni stesse.
I risultati, allo stato di analisi e di interpretazione a cui si è giunti, sembrano
confermare la possibilità di trovare corrispondenze tra figure del linguaggio verbale e
figure del linguaggio iconico; di iniziare a creare, così, una tipologia di queste ultime
con lo scopo di indagare a fondo l’origine, la comprensione e le caratteristiche
funzionali di tipo cognitivo delle stesse.
Riferimenti bibliografici
Argenton, A. (1996) Arte e cognizione. Introduzione alla psicologia dell’arte, Raffaello
Cortina, Milano.
Arnheim, R. (1966) Linguaggio astratto e metafora, in R. Arnheim, Verso una
psicologia dell’arte, tr. it. Einaudi, Torino 1969, pp. 323-344.
Arnheim, R. (1969) Il pensiero visivo, tr. it. Einaudi, Torino 1974.
Arnheim, R. (1974) Arte e percezione visiva. Nuova versione, tr. it. Feltrinelli, Milano
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COMUNICAZIONI - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
75
FALLIMENTI COMUNICATIVI: UNA PROSPETTIVA
EVOLUTIVA
Francesca M. Bosco{xe "Bosco F.M."}
Centro di Scienza Cognitiva, Università di Torino
La comunicazione è un’attività cooperativa e intenzionale di un agente volta
modificare gli stati mentali del proprio interlocutore (Austin 1962, Grice 1989, Searle
1969). In particolare la comunicazione di successo consiste nel cambiamento degli stati
mentali di una persona, in seguito al riconoscimento dell’intenzione comunicativa
espressa da un altro agente: la comunicazione fallisce se l’attore non riesce a modificare
gli stati mentali del partner nel senso desiderato.
Da un punto di vista pragmatico i fallimenti comunicativi non hanno ricevuto
grande attenzione e, in ogni caso, nessuna delle correnti teorie considera quali siano le
rappresentazioni mentali e i processi cognitivi implicati nel riconoscimento e recupero
di differenti tipi di fallimenti comunicativi.
Questa ricerca rappresenta sia una estensione teorica che una validazione
empirica, della Pragmatica Cognitiva di Airenti, Bara & Colombetti (1993a; 1993b),
una teoria dei processi cognitivi umani sottostanti la comprensione e produzione di atti
comunicativi. Questa teoria ha già permesso di effettuare ipotesi sullo sviluppo di
differenti abilità comunicative come la comprensione di atti linguistici semplici e
complessi, ironia e inganno in bambini normali e con danni cerebrali (Bara, Bosco &
Bucciarelli 1999a; 1999b).
Secondo Airenti et al. un enunciato di successo richiede la costruzione, da
parte del partner, di una rappresentazione mentale per cui: è riconosciuto l’atto
espressivo dell’enunciato, riconosciuto il significato inteso dall’attore nell’emetterlo ed
è riuscito l’effetto comunicativo desiderato dell’attore, l’effetto cioè che chi pronuncia
l’enunciato vuole raggiungere sul partner.
Sulla base della teoria della Pragmatica Cognitiva è possibile proporre una
tassonomia che individua differenti tipi di fallimenti comunicativi.
Fallimento dell’atto espressivo: consiste nella incomprensione o nel
fraintendimento, da parte del partner, dell’aspetto espressivo dell’enunciato.
Fallimento del significato inteso dall’attore. consiste nella incomprensione o
nel fraintendimento del significato che l’attore voleva esprimere pronunciando
l’enunciato.
Fallimento dell’effetto comunicativo: consiste nel rifiuto del partner ad
accettare il gioco proposto. In questo caso, a differenza dei precedenti, il partner
comprende la mossa proposta dall’attore ma la rifiuta. Il partner può quindi rifiutare la
mossa, cioè non accettando quella particolare proposta che realizza il gioco, o rifiutare
il gioco, non accettando nessuna fra le mosse disponibili congruenti con il gioco
proposto.
È possibile ipotizzare un trend di difficoltà crescente sia nel riconoscimento
che nel recupero dei differenti tipi di atti comunicativi. Tali predizioni dipendono dalla
complessità delle rappresentazioni mentali e dei processi cognitivi implicate nei
differenti compiti.
76
COMUNICAZIONI - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
Riconoscimento: dal compito più semplice al più difficile, fallimento
dell’effetto comunicativo, fallimento dell’atto espressivo, fallimento del significato
inteso dall’attore. Un’assunzione sottostante tale ipotesi è che comprendere quale sia il
gioco agito da un attore sia più difficile che riconoscere quale sia la mossa agita.
Recupero: dal compito più semplice al più difficile: fallimento dell’atto
espressivo, fallimento del significato inteso dall’attore, fallimento dell’effetto
comunicativo. In particolare recuperare il rifiuto della mossa è più facile che recuperare
il rifiuto del gioco. Nel formulare tale ipotesi assumiamo che cambiare gioco sia più
difficile che cambiare mossa scegliendone una alternativa ma congruente con quel
gioco. Inoltre assumiamo che cambiare la formulazione della mossa, sia più difficile che
la semplice ripetizione della mossa.
È possibile ipotizzare infine che riconoscere un fallimento comunicativo è più
semplice del rispettivo recupero. Il recupero del fallimento richiede un’attiva
pianificazione, e questo è più difficile del semplice riconoscimento di una data
situazione. Per recuperare con successo un fallimento il partner deve infatti avere, oltre
una rappresentazione mentale, che gli consenta di comprendere che è avvenuto un
fallimento, una strategia che gli permetta di superarlo.
Un gruppo di ottanta bambini appartenenti alle seguenti fasce d’età ha
partecipato all’esperimento: 3-3;6, 4;6-5 6-6;6, 7;6-8. L’esperimento consiste nella
presentazione di brevi (10-15 secondi) scenette videoregistrate (4 per ogni compito + 4
prove di controllo) in cui è rappresentata una semplice interazione comunicativa. Le
prove rappresentano una situazione in cui il protagonista chiede qualcosa ad un partner e
questi o non comprende, o fraintende, o si rifiuta di accogliere la proposta dell’attore: in
ogni caso la meta che si era prefissato l’attore nel proferire l’enunciato fallisce. Al
termine di ogni prova lo sperimentatore chiede al bambino di riconoscere e recuperare il
fallimento.
I risultati dell’esperimento confermano tutte le predizioni circa la crescente
difficoltà implicata nei compiti di riconoscimento e recupero del fallimento di un atto
comunicativo. È possibile concludere che la teoria della Pragmatica cognitiva fornisce
un frame-work teorico che differenzia tra diversi tipi di fallimenti comunicativi e spiega
la crescente capacità dei bambini a trattare con essi.
Riferimenti bibliografici
Airenti, G., Bara, B.G. & Colombetti, M. 1993a. Conversation and behavior games in
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ed. revised by J.O. Ormson & M. Sbisà. London: Oxford University Press,
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stampa.
COMUNICAZIONI - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
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Grice, H.P. 1989. Studies in the way of words. Cambridge, MA, & London: Harvard
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Cambridge University Press.
LA TEORIA DELLA MENTE NEI RECUPERI DEI FALLIMENTI
COMUNICATIVI: IL CASO DELL’AUTISMO
Livia Colle{xe "Colle L."}, Monica Bucciarelli{xe "Bucciarelli M."}
Centro di Scienza Cognitiva, Università di Torino
Secondo la teoria della comunicazione umana da qui origina questo lavoro, la
Pragmatica Cognitiva (Airenti, Bara e Colombetti, 1993), esistono due diverse modalità
di comprensione di un atto comunicativo: un processo inferenziale standard ed uno non
standard. Nel primo caso un atto comunicativo viene compreso per mezzo di regole per
default, in altre parole il contesto permette di comprendere pienamente il significato
dell’enunciato. Atti comunicativi non standard, invece, necessitano dell’applicazione di
inferenze più complesse, dal momento che il contesto immediato non è sufficientemente
informativo. Secondo questa prospettiva, la comprensione di un atto comunicativo
richiede un numero di inferenze minori rispetto alla comprensione e al recupero di un
fallimento comunicativo. Per riconoscere un fallimento è infatti necessario confrontare
la rappresentazione di ciò che l’attore intendeva, con la rappresentazione che
l’interlocutore si è costruito; quindi, per recuperare il fallimento è necessario formulare
un strategia consistente con l’intenzione originaria dell’attore (Bara, Bosco e
Bucciarelli, 1998).
Riguardo alla capacità di assumere punti di vista diversi – sia percettivi che
epistemici - esiste un’estesa letteratura che prende il nome di teoria della mente (e.g.
Premack e Woodruff, 1978). La capacità di “decoupling”, cioè di tenere
contemporaneamente a mente l’effettivo stato del mondo e una, o più, sue
interpretazioni soggettive, è da considerarsi un’abilità cognitiva di base da cui,
successivamente dipendono altre capacità quali il gioco simbolico, le competenze
linguistiche, la comprensione di comportamenti e atti altrui. Sembra perciò un’abilità
molto vicina a ciò che noi riteniamo necessario per la comprensione e il recupero di atti
comunicativi falliti. Entrambi infatti, teoria della mente e recuperi di fallimenti
richiedono di lavorare contemporaneamente su differenti rappresentazioni della realtà
(metarappresentazioni). (cfr. Feldman e Kalmar 1996).
La teoria della mente ha dedicato molta attenzione al disturbo dell’autismo,
individuando all’origine della patologia proprio l’impossibilità di considerare l’altro
come un individuo capace di formulare rappresentazioni del mondo non
necessariamente coincidenti con le proprie (Baron Cohen, Frith e Leslie, 1985).
Un’ipotesi alternativa ad una mancanza di teoria della mente è quella che
indica come deficit originario dell’autismo quello attentivo. Diversi autori (Ozonoff et
78
COMUNICAZIONI - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
al., 1991, Pierce et al., 1997) sottolineano come il problema dei soggetti autistici sia una
generale impossibilità nel controllo del meccanismo attentivo (funzione esecutiva).
Questa difficoltà attentiva spiegherebbe di conseguenza molti dei problemi cognitivi dei
soggetti autistici.
In accordo con questa seconda linea teorica la nostra ipotesi di lavoro prevede
che una volta individuata una metodologia sperimentale che riduca il carico attentivo, le
prestazioni dei soggetti autistici in compiti pragmatici (quali il recupero di fallimenti
comunicativi) e in compiti di teoria della mente migliorino vistosamente, non
discostandosi dalle prestazioni dei soggetti normali. In secondo luogo ipotizziamo di
rintracciare delle correlazioni fra le prestazioni dei soggetti sperimentali nei due
compiti.
Venti soggetti autistici con diagnosi di autismo (DSM-IV) hanno partecipato al
nostro esperimento. Il criterio di selezione dei soggetti ha riguardato la loro abilità
nell’utilizzo della Comunicazione Facilitata (Biklen, 1991). Questa tecnica permette
loro di utilizzare la tastiera di un computer per comunicare in quasi completa
autonomia. La possibilità di mantenere lo stimolo visivo per tutto il tempo necessario
alla generazione di una risposta e la possibilità di elaborare una risposta per iscritto, ha
permesso di superare almeno in parte le difficoltà attentive di questi soggetti. Il
campione era costituito da soli maschi di età compresa tra i 7 e i 18 anni (età media 11),
la maggior parte completamente muti. Il gruppo di controllo Ë stato costruito in base
all’età, il sesso, la comprensione del linguaggio scritto (punteggio medio Test di Bada =
43) e le abilità di ragionamento non verbali (punteggio medio Matrici Colorate di Raven
= 31). L’esperimento si Ë svolto individualmente in una stanza tranquilla alla presenza
dello sperimentatore, del soggetto e di una figura familiare per il soggetto autistico.
Questa figura Ë stata introdotta per rendere il più possibile semplice l’approccio a questi
soggetti. Il protocollo sperimentale prevedeva 2 compiti di teoria della mente presentati
per iscritto (False Belief, Smarties Test) e tre compiti di recupero di fallimenti, sempre
per iscritto. In particolare, recupero di atto linguistico diretto, indiretto, e inganno.
I risultati dell’esperimento relativi alla capacità di recuperare un fallimento
comunicativo non rilevano differenze significative nella prestazione globale dei due
gruppi (88% di risposte corrette negli autistici, 92% nei soggetti normali, MannWhitney: z =-0.35, p = 0.73). Anche nell’analisi dei diversi recuperi considerati
separatamente non si riscontrano differenze significative (Mann-Whitney: z con un
valore da 0.000 a –0.281, p con un valore da >0.999 a 0.7787).
In accordo con le nostre previsioni, anche in compiti di teoria della mente non
ci sono differenze significative fra i due gruppi (Mann-Whitney: z = -2.18, p<.03).
Infine, i risultati delle correlazioni fra le prestazioni dei soggetti autistici in
compiti di teoria della mente e compiti di recupero di fallimenti rivelano una stretta
relazione fra le due prestazioni (correlazioni di Spearman: z con valore da 3.571 a 2.868
, p con valore da .0041 a .0004).
I risultati dell’esperimento sono a conferma del fatto che esiste una stretta
relazione fra teoria della mente e recupero di fallimenti comunicativi. Suggeriscono
inoltre che una volta aggirate le difficoltà attentive dei soggetti autistici le loro
prestazioni nei due compiti non differiscono dalle prestazioni dei soggetti normali.
Riferimenti bibliografici
COMUNICAZIONI - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
79
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PERTINENZA E CREDIBILITÀ NELL’INTERAZIONE IN
TRIBUNALE
Renata Galatolo{xe "Galatolo R."}, Marina Mizzau{xe "Mizzau M."}
Dipartimento di Discipline della Comunicazione, Università di Bologna
Premessa
Rispetto alla conversazione ordinaria e ad altri contesti istituzionali la seduta di
tribunale sembra essere il luogo privilegiato di applicazione del principio di
cooperazione di Grice (1967) tanto che lo schema dello scambio processuale è stato
considerato (Penman, 1987), in quanto troppo coercitivo, inadeguato ad assicurare una
coerenza discorsiva. Il perseguimento di questo modello è quanto meno alla base della
consapevolezza esplicitata di regole (o metaregole) riconducibili alle massime
conversazionali in cui si articola il principio di cooperazione: quantità, qualità, relazione
e modo. La constatazione dell’adesione alle massime tiene però in modo stretto solo per
una di esse, quella della “pertinenza”, mentre per le altre il discorso è più complesso.
Per quanto riguarda la pertinenza, in tribunale vigono leggi esplicite e
codificate che vincolano gli interroganti; leggi meno esplicite, ma che vengono evocate
almeno al momento della trasgressione, che vincolano gli interrogati ai quali
l’osservanza della massima è imposta da chi è in quel momento il rappresentante della
legge. Nel primo caso le sanzioni hanno per oggetto la non pertinenza delle domande, in
quanto ritenute tendenziose (leading and speculative questions) o fuori luogo. Nel
secondo, la pertinenza è definita in termini di precisa corrispondenza della coppia
domanda-risposta (Mizzau, 1998).
80
COMUNICAZIONI - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
Quanto alla massima della qualità, a un livello macro è ovvio che il tribunale è
il luogo paradigmatico della sua osservanza. La massima della qualità prescrive di dire
la verità, di non mentire e la ricerca della verità costituisce l’obiettivo stesso del
processo. Alla verità si è vincolati con il giuramento iniziale, al quale però sono tenuti
solo i testimoni, non gli accusati. In questo modo gli imputati sono sottoposti al
dilemma di perseguire i loro interessi, ma rischiare che la loro versione non sia creduta
proprio perché interessata (Kompter, 1998). Del resto, rifacendosi alla discussione
generale sullo statuto delle massime: la massima della qualità deve intendersi non come
massima etica ma, come le altre, massima conversazionale; non può quindi suonare che
come “dire ciò che appare vero”. Il punto su cui interrogarsi quindi è: cos’è che rende
una deposizione (degli imputati, dei testimoni) verosimile?
Obiettivo
Servendoci di interrogatori videoregistrati e trascritti secondo il metodo
dell’analisi della conversazione, si intende analizzare che cosa in tribunale venga
considerata osservanza delle massime, come vengono sanzionati i tentativi di
trasgressione delle stesse e le negoziazioni conflittuali che ne conseguono. In
particolare, si analizzerà il concetto di verosimiglianza proprio di questo contesto.
L’analisi riguarda sia il far credere vero di chi fornisce la testimonianza, sia le strategie
dell’interrogante qualora interroghi la sua parte e qualora cerchi invece di mostrare la
menzogna di un testimone chiamato dalla parte avversa.
Ipotesi
La verosimiglianza in tribunale sembra essere direttamente proporzionale alla
non contraddittorietà, alla ricchezza di dettagli e alla completezza della ricostruzione,
alla spontaneità della narrazione e alla specificità con cui si differenzia l’esperienza
diretta da quella indiretta e dalle proprie inferenze (Bogen e Lynch 1989, Caesar-Wolf
1984, Penman 1987, Wodak-Engel 1984). Ad ognuna di queste caratteristiche
corrispondono strategie di squalificazione della testimonianza e del teste da parte
dell’interrogante. In particolare, le contestazioni del rispetto della massima della qualità
sono caratterizzate dall’essere indirette e dall’essere costruite ad arte per stimolare
inferenze da parte della giuria (Drew 1992).
Risultati
Oltre a mostrare il particolare statuto della massima della qualità rispetto alle
altre massime, l’analisi mostra come la verità sia un costrutto interazionale che risponde
a regole contestuali. Dall’analisi, inoltre, emerge e trova conferma l’inevitabile intreccio
tra le massime (fenomeno che del resto si verifica in ogni ambito conversazionale).
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COMUNICAZIONI - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
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IL PROCESSO PERSUASIVO IN AMBITO SANITARIO: UNA
PROPOSTA DI ANALISI
Tiziana Panero{xe "Panero T."}, Fiorella Scotto{xe "Scotto F."}
Università di Roma Tre
Secondo il Modello della comunicazione in termini di conoscenze e scopi
proposto da Castelfranchi e Parisi (1980), dire una frase per comunicare equivale a
compiere un tipo particolare di azione, per cui le frasi e le azioni sono attività volte al
raggiungimento di scopi; ed anche la conversazione è un’azione guidata da scopi.
Un’analisi adeguata della conversazione presuppone pertanto che vengano tenuti
presenti contemporaneamente i processi cognitivi dei singoli individui coinvolti
nell’interazione verbale, gli scopi attivi nella loro mente e i processi che regolano le loro
interazioni sociali.
All’interno dello stesso quadro teorico generale si inserisce il Modello della
Persuasione (Poggi, 1998) che spiega in termini di scopi e conoscenze i processi di
influenza che si realizzano nel corso di qualsiasi interazione persuasiva. Secondo questo
modello, la persuasione è un modo di influenzare la gente (Conte e Castelfranchi, 1996),
ovvero uno dei tanti modi in cui un agente A induce un altro agente B ad avere degli
scopi che non aveva precedentemente. Ma ciò che distingue la persuasione dalle altre
forme di influenzamento è il fatto che essa non si realizza attraverso l’esercizio della
forza o del potere, ma grazie al fatto che essa produce, nella mente del persuadendo, un
forte convincimento circa l’utilità di perseguire lo scopo proposto dal persuasore. I tre
elementi essenziali su cui si fa leva per persuadere l’agente B sono, secondo questo
modello, gli stessi già individuati da Aristotele: il LOGOS (la parte razionale del
discorso), l’ETHOS (il carattere dell’oratore) e il PATHOS (le passioni dell’uditorio).
Il modello di analisi della persuasione e della conversazione in termini di
conoscenze e scopi è stato applicato in una ricerca mirante ad analizzare due diversi tipi
di interazioni verbali persuasive: l’interazione tra il Medico e l’Informatore Scientifico
del Farmaco (ISF: in termini quotidiani, il “rappresentante di medicinali”) e quella tra
82
COMUNICAZIONI - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
l’Operatore Sanitario e il Paziente. Nel primo tipo di interazione, l’ISF cerca di
persuadere il medico a prescrivere i farmaci dell’Azienda da lui rappresentata piuttosto
che i farmaci concorrenti. Nel secondo tipo di interazione, l’Operatore Sanitario
(medico o infermiere) cerca di indurre nel paziente comportamenti utili alla sua salute
(ad esempio, ad adottare forme di prevenzione).
Nell’analisi della comunicazione tra l’ISF e il medico, l’obiettivo della ricerca
è stato duplice: da un lato si è ricostruito il percorso comunicativo seguito dall’ISF
durante il colloquio con il Medico, rappresentando la gerarchia di scopi comunicativi
sottesa al suo discorso; dall’altro, attraverso la rilevazione dei tre elementi base del
processo persuasivo, logos, ethos e pathos, utilizzati dall’ISF durante il colloquio, si è
cercato di verificare l’ipotesi secondo cui il pathos può risultare elemento determinante
ai fini della persuasione. Per verificare questa ipotesi, sono state raccolte un certo
numero di conversazioni tra l’ISF e il Medico durante le loro rispettive routines
lavorative, e se ne sono analizzati alcuni frammenti cercando di ricostruire gli scopi
comunicativi perseguiti dall’ISF durante il colloquio. Grazie a tale analisi si è potuto
evidenziare come l’ISF utilizzi gli elementi di logos, ethos e pathos nell’ambito della
conversazione e quali siano le strategie persuasive adottate momento per momento
durante l’interazione verbale.
Riguardo al processo persuasivo nella relazione tra l’Operatore Sanitario e il
Paziente, l’analisi delle conversazioni in questo ambito da un lato ha permesso di
mostrare la carente competenza comunicativa del personale sanitario e dall’altro di
evidenziare, anche in questo caso, il ruolo determinante del pathos quando si intenda
innescare, all’interno di una relazione asimmetrica (Operatore Sanitario/Paziente), un
processo di comunicazione volto alla modificazione di uno stile di vita.
Dalle analisi svolte nei due contesti sembra emergere che, in entrambi i tipi di
relazioni sociali analizzate, l’utilizzo di strategie basate unicamente su elementi di logos
e di ethos non garantisce l’effetto persuasivo auspicato, che invece si verifica più
frequentemente grazie all’elemento pathos, per il ruolo fondamentale che questo svolge
nel dirigere il comportamento degli individui.
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COMUNICAZIONI - MEMORIA E APPRENDIMENTO
83
MEMORIA E APPRENDIMENTO
CORRETTEZZA E CONFIDENZA NELLA DATAZIONE DI
EVENTI PUBBLICI A VALENZA POSITIVA E NEGATIVA IN
MEMORIA AUTOBIOGRAFICA
Elena Calamari{xe "Calamari E."}, Mauro Pini{xe "Pini M."}
Università di Pisa
La datazione degli eventi pubblici accaduti nel corso della vita è un processo
costruttivo che si avvale del ricordo autobiografico delle circostanze concomitanti e di
punti di riferimento sia pubblici che privati (Thompson, Skowronski, Larsen e Betz,
1996). In una precedente ricerca (Calamari, Greco e Pini, 1997) abbiamo rilevato una
valutazione metacognitiva realistica della correttezza della datazione di eventi storici
contemporanei scelti dagli stessi partecipanti. La correttezza non mostrava però alcuna
relazione significativa con il grado di dettaglio del ricordo del contesto della notizia, sul
quale si basava invece il livello di confidenza. Inoltre gli eventi positivi erano datati più
correttamente di quelli negativi, che venivano ricordati in modo più dettagliato. Questo
risultato aveva lasciato aperti alcuni interrogativi perché la valutazione era stata
effettuata post hoc dagli sperimentatori. Nell’ambito della ricerca sui ricordi Flashbulb
si discute circa il ruolo di variabili come importanza, sorpresa ed emozionalità
(Finkenauer et al., 1998), che risultano per lo più collegate tra loro. Il lavoro che
presentiamo si propone di contribuire al chiarimento della questione e di verificare, con
una diversa metodologia, il rapporto tra correttezza e confidenza e il ruolo della valenza
positiva e negativa degli eventi ricordati.
A 53 studenti universitari di età media 22 anni e mezzo abbiamo presentato una
lista predefinita di 10 eventi pubblici, politici e non politici, che sono stati ricordati,
datati (mese e anno) e valutati su alcune rating scales a 7 punti: grado di confidenza
nella data, sorpresa ed emozione al momento dell’evento, frequenza del ripasso,
importanza dell’evento e vividezza di un’eventuale immagine relativa ad esso, che si
chiedeva di descrivere. Il ricordo delle circostanze è stato siglato contando il numero
degli elementi Flashbulb (Fl): dove, quando, con chi, da chi, seguito, reazione
emozionale propria e altrui. La valenza positiva e negativa è stata ricavata da una scala
di valutazione attuale dell’evento, effettuata dagli stessi partecipanti, da molto negativo
(-3) a neutro (0) a molto positivo (+3).
Per le 504 risposte ottenute (il 45,2% di date corrette anno contro il 67% della
ricerca precedente), l’errore medio di datazione risulta di circa quattro mesi. Sono state
fornite in tutto 350 risposte complete (anno e mese), di cui solo 63 corrette, una
percentuale del 12,5% del totale degli eventi ricordati, analoga a quella riportata in
letteratura (Brown, 1990). Gli elementi Fl sono in media circa uno per evento ma un
terzo degli eventi non ha suggerito alcun ricordo di dettagli. Per 281 eventi (il 55,7%)
sono state descritte immagini e valutato il grado di vividezza.
84
COMUNICAZIONI - MEMORIA E APPRENDIMENTO
L’ipotesi del rapporto fra correttezza e confidenza viene confermata, con la
metodologia della lista di eventi predefinita, sia dalla correlazione negativa con l’errore
di datazione degli eventi (p<.001), sia dalla differenza di medie nella valutazione della
confidenza fra risposte corrette e scorrette (p<.001). Diversamente dalla ricerca
precedente, la correttezza della datazione per gli eventi è correlata anche con il numero
di elementi Fl, sia come scarto anno (rho=.19 p<.001) sia, in misura minore, come
scarto mese (rho=.10 p<.1), e risulta significativa la differenza nel numero medio di
dettagli fra risposte corrette e scorrette anno (t=3,07 p<.001) e mese (t=1,9 p=.05).
Vengono riportati più dettagli per gli eventi datati correttamente (t=4,5 p<.001) rispetto
alla ricerca precedente, dove risultava maggiore confidenza (t=3,8 p<.001) nelle date
scorrette attribuite agli eventi scelti da alcuni soggetti. Proponendo a tutti i soggetti gli
stessi eventi si ristabilisce la relazione funzionale tra ricostruzione dettagliata di notizie
coinvolgenti, uso del ricordo per la datazione corretta e fiducia realistica nella
correttezza. Sui soggetti si ottiene infatti una correlazione positiva del numero di
risposte corrette con la confidenza nella data (r=.38 p<.01) e il numero dei dettagli
(r=.37 p<.01), che non risulta correlato con la confidenza. Per gli eventi il grado di
confidenza nella datazione prodotta è positivamente correlato con tutte le variabili
valutate e col numero di elementi Fl (p<.001).
La valutazione dell’emozione al momento dell’evento è correlata con la
correttezza della data (p<.05). L’ANOVA fra le medie degli elementi Fl, per gli eventi
positivi (n=151), negativi (n=270) e neutri (n=83) secondo i soggetti è significativa e ne
vengono prodotti di più per gli eventi valutati negativamente (F=8,2 p<.001). Si
conferma quindi anche con una differente metodologia che la valenza negativa è una
caratteristica degli eventi ricordati con più dettagli contestuali, che si prestano a divenire
ricordo Flashbulb. L’ANOVA risulta significativa anche per la confidenza (p<.05) e per
tutte le altre scale di valutazione (p<.001) eccetto la vividezza, e gli eventi neutri
presentano valori inferiori a quelli positivi e negativi. Questi ultimi ottengono valori
medi più elevati di sorpresa, emozione e ripasso, mentre sono giudicati più importanti
quelli positivi. I risultati verranno discussi in relazione agli specifici eventi pubblici
proposti, evidenziando il ruolo dell’emozione e della valenza nel ricordo.
Riferimenti bibliografici
Brown N.R. (1990). Organization of public events in long-term memory Journal of
Experimental Psychology: General, 119, 297-314.
Calamari E., Greco E., Pini M. (1998). Contenuto e datazione degli eventi “storici” in
memoria autobiografica. Atti del Congresso nazionale della sezione di
psicologia sperimentale AIP (Firenze, 28-30 settembre 1998), 223-5.
Finkenauer C., Luminet O., Gisle L., El-Ahmadi, van der Linden M. (1998). Flashbulb
memories and the underlying mechanisms of their formation: toward an
emotional-integrative model. Memory & Cognition, 26, 516-31.
Thompson C. P., Skowronski J.S., Larsen S.F., Betz A.L. (1996). Autobiographical
memory: remembering what and remembering when. Mahwah, NJ: Lawrence
Erlbaum.
COMUNICAZIONI - MEMORIA E APPRENDIMENTO
85
STRATEGIA DI CHUNKING E CAPACITÀ DELLA MEMORIA
DI LAVORO VISUO-SPAZIALE
Sara Mondini{xe "Mondini S."}, Luca Lucidi{xe "Lucidi L."}, Cesare Cornoldi{xe
"Cornoldi C."}
Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
Lo studio delle componenti della memoria di lavoro visuo spaziale (MLVS) ha
avuto grande impulso negli ultimi anni. Dopo essere stata a lungo trascurata per dare
spazio a tutta la ricerca sulla memoria verbale, recentemente molti autori, riprendendo il
modello di Baddeley (1986) e le sue successive elaborazioni (Logie, 1995), si sono
occupati di distinguere le sottocomponenti del sistema specifico di elaborazione di
materiale visivo. La ricerca è stata, spesso, guidata da uno studio per analogia
ipotizzando che la MLVS avesse le stesse caratteristiche della elaborazione verbale.
Uno degli effetti che con il materiale verbale è stato a lungo descritto e studiato
(Baddeley, Thompson & Buchnam, 1975), è relativo alla “lunghezza” degli item da
memorizzare. Questa influisce sul loop articolatorio del sistema, limitandone la
capacità: infatti il tempo necessario alla ripetizione della parola (verbale o subvocalica)
correla con la successiva quantità di ricordo. Questa variabile non ha una
corrispondenza diretta nel materiale visuo-spaziale: potrebbe, però, ragionevolmente
corrispondere alla sua complessità. Per complessità si intende il numero di elementi
dello stimolo che devono essere codificati, tenendo conto, però, che cruciale è il modo
con cui tali elementi interagiscono fra loro. Anche con il materiale verbale, infatti,
fondamentale è come le parole vengono memorizzate. Ad es. Ericsson, Chase & Faloon
nel 1980 hanno descritto gli effetti di una strategia, il chunking, che permetteva di
raggruppare il materiale verbale. In questo modo si memorizzava un numero di stimoli
(numeri), maggiore a quello raggiunto con la codifica senza chunking.
Nello studio che qui si vuole descrivere si è cercato di applicare la stessa
strategia di chunking alla codifica di materiale visuo-spaziale. L’ipotesi era che, anche
con materiale visuo-spaziale, questa strategia avvantaggiasse il ricordo di pattern
complessi.
Gli stimoli sperimentali erano costituiti da 3 cerchi con al loro interno un
numero variabile di posizioni spaziali (identificate con un punto) da memorizzare. Il
compito veniva sempre svolto contemporaneamente ad un altro compito, i.e. la
soppressione articolatoria, che permetteva di controllare l’utilizzo di strategie verbali.
Tre gruppi di soggetti hanno ricevuto istruzioni diverse per facilitare o inibire l’utilizzo
di strategie di chunking in codifica: il primo gruppo vedeva il materiale con il chunking
indotto dagli stimoli stessi, infatti, le posizioni nei cerchi erano collegate da una sottile
linea nel materiale semplice e da 2 linee, nel materiale complesso (gruppo chunk); il
secondo gruppo era istruito ad immaginare attivamente la linea o le linee che univano i
punti (gruppo chunk imagery) ed un terzo gruppo di controllo doveva memorizzare
singolarmente uno dopo l’altro, da sinistra a destra i punti nella loro posizione (gruppo
no-chunk).
L’analisi statistica ha evidenziato un forte effetto dovuto alla complessità del
materiale e l’interazione significativa tra complessità e strategia. Con il materiale
semplice (6 posizioni), le 3 strategie portavano a risultati differenti: il gruppo chunk
86
COMUNICAZIONI - MEMORIA E APPRENDIMENTO
aveva un ricordo significativamente migliore del gruppo no-chunk, mentre il gruppo
imagery attivo otteneva una prestazione intermedia rispetto agli altri due gruppi. Con il
materiale complesso (12 punti) il ricordo era, globalmente, molto inferiore e l’efficacia
delle 3 strategie si equivaleva. In questo caso, evidentemente, il materiale superava la
capacità del sistema e le strategie di chunking non aiutavano il ricordo.
Lo studio ha evidenziato che anche con materiale visuo-spaziale la strategia di
chunking può aiutare il ricordo, ma che esistono dei limiti di capacità del sistema che ne
limitano l’efficacia. Il chunking, inoltre, determinava un miglioramento della
prestazione solo quando gli stimoli stessi ne permettevano una utilizzazione immediata
e automatica (elaborazione passiva). Al contrario, quando il chunking doveva essere
attivamente costruito dal soggetto, modificando lo stimolo, i risultati erano limitati. Ciò
conferma l’importanza di distinguere nella MLVS anche tra processi passivi ed attivi di
elaborazione (Vecchi e Cornoldi, 1998).
Riferimenti bibliografici
Baddeley, A.D. (1986) Working memory. Oxford, Claredon Press.
Baddeley, A.D., Thompson, N. & Buchanan, M. (1975). Word lenght and the structure
of short-term memory. Journal of Verbal Learning and Verbal behaviour,
14:575-589.
Ericsson, K.A., Chase, W.G. & Faloon, S. (1980). Acquisition of a memory skill.
Scienze, 208:1181-1182.
Logie, R.H. (1995). Visuo-spatial working memory. Hove, Earbaum Associates.
Vecchi, T. & Cornoldi, C. (1998). Differenze individuali e memoria di lavoro visuospaziale. Giornale Italiano di Psicologia, 25:491-530.
MEMORIA DI IMMAGINI MENTALI: QUANDO LA
RICCHEZZA DELLA RAPPRESENTAZIONE NON FAVORISCE
IL RICORDO
Paola Palladino{xe "Palladino P."}
Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
Introduzione
Il declino mnestico che si osserva con l’invecchiamento, e che riguarda anche il
funzionamento della memoria di lavoro, viene attribuito principalmente ad una
riduzione della velocità di elaborazione dell’informazione o anche ad una riduzione
della capacità di memoria o di “spazio” di elaborazione delle informazioni (Light,
1991). Le difficoltà che quindi incontra l’anziano rispetto al giovane vengono
interpretate come una perdita di efficienza, una riduzione e un impoverimento dei
contenuti e del funzionamento cognitivo. L’anziano è più lento, ha minori risorse
cognitive ed è in difficoltà se deve tenere a mente un certo numero di informazioni e,
ancor più, se queste informazioni devono essere, oltre che mantenute, anche elaborate
(Light, 1991, Salthouse e Meinz, 1995).Queste descrizioni sperimentali delle capacità
COMUNICAZIONI - MEMORIA E APPRENDIMENTO
87
cognitive degli anziani poco si combinano con l’esperienza comune di persone anziane
che mostrano grande ricchezza, nei propri pensieri e nelle proprie memorie, ricchezza
che è frutto di esperienza, e che è stata culturalmente e socialmente riconosciuta nei
secoli. Un recente approccio teorico ha voluto fornire una spiegazione che potesse
conciliare l’abilità dell’anziano in vari aspetti della sua comunicazione linguistica e del
suo pensiero con la perdita di efficienza in compiti cognitivi complessi di memoria e/o
di elaborazione dell’informazione. Hasher e Zacks (1988) hanno individuato nel calo di
efficienza dei meccanismi inibitori una della cause del declino mnestico osservato
nell’anziano: l’ipotesi è che un ridotto funzionamento dei meccanismi inibitori
“arricchisca” il contenuto della memoria di lavoro di informazioni irrilevanti che creano
interferenza e sottraggono risorse alle informazioni più importanti.
Il presente lavoro vuole indagare il cambiamento nella natura e nella ricchezza
delle immagini mentali generate e nel loro successivo ricordo con l’invecchiamento.
L’obiettivo dell’indagine consiste nel verificare l’ipotesi che il funzionamento cognitivo
dei soggetti anziani sia caratterizzato da una ricchezza di contenuti i quali però sono
solo in parte rilevanti ai fini del compito. La numerosità dei dettagli irrilevanti non
inibiti può contribuire a sovraccaricare le strutture di memoria di lavoro a danno delle
informazioni rilevanti. Più in generale, si ipotizza che un buon funzionamento della
memoria sia dovuto anche al controllo che i meccanismi inibitori operano sugli effetti di
interferenza.
Metodo
A ottanta soggetti di quattro diverse fasce di età, giovani, di età compresa tra
19 e 22 anni, giovani-anziani, di età compresa tra 55-65 anni, anziani, di età compresa
tra 66-75 anni, e anziani-anziani di età superiore ai 75 anni, tra loro omogenei per
educazione e livello socioculturale, è stato chiesto di generare un’immagine mentale per
ogni parola presentata e di descriverne le caratteristiche. Al termine del compito di
generazione di immagini veniva richiesto al soggetto di rievocare il maggior numero
possibile di parole presentate. Sono state presentate 40 parole concrete tutte con un
medio-alto valore di immagine (6.40>valore di immagine, I>5.23) e medio-alta
frequenza d’uso (36.16>frequenza d’uso, U>2.15) tratte dal repertorio di Cornoldi
(1974). Al soggetto venivano concessi 40 secondi per ogni parola al fine di consentire
anche la formazione di immagini complesse. Al termine della presentazione, dopo circa
un minuto di intervallo, veniva chiesto al soggetto di ricordare, in un tempo massimo di
5 minuti, il maggior numero possibile delle 40 parole ascoltate nel corso della prova.
Risultati
La prestazione dei soggetti è stata categorizzata ed analizzata sulla base dei
seguenti indici:
• Tipo di immagine prodotta e numerosità. Due giudici indipendenti hanno
classificato le immagini generate in 4 categorie; generale, specifica, contestuale e
autobiografica. I soggetti anziani hanno prodotto un maggior numero di immagini
generali ed autobiografiche.
• Dettagli rilevanti e irrilevanti. Di ogni immagine generata sono stati distinti i
particolari ad essa associati in rilevanti, ovvero dettagli dell’immagine, e
irrilevanti, dettagli non in relazione con l’immagine. I soggetti più anziani hanno
88
COMUNICAZIONI - MEMORIA E APPRENDIMENTO
prodotto un numero comparabile ai giovani di particolari rilevanti ma un numero
significativamente superiore di particolari irrilevanti.
• Ricordo incidentale finale, determinato dal numero di parole correttamente
rievocate alla fine del compito di generazione di immagini. I soggetti più anziani
hanno ricordato un minor numero di parole.
La presente ricerca ha mostrato che con l’invecchiamento si osserva un declino
della memoria: tale declino non sembra però essere dovuto ad una riduzione della
capacità mnestica né ad un impoverimento delle rappresentazioni mentali, quali le
immagini mentali generate. Sembra piuttosto che, come ipotizzato, le difficoltà degli
anziani siano riconducibili ad una eccessiva ricchezza e densità delle informazioni che
hanno accesso alla memoria di lavoro.
Riferimenti bibliografici
Hasher, L. e Zacks, R. (1988). Working memory, comprehension, and aging: A review
and a new view. In G. H. Bower (Ed.), The Psychology of Learning and
Motivation (vol. 22), San Diego, CA: Academic Press.
Light, L. L. (1991). Memory and aging: Four hypotheses in search of data. Annual
Review of Psychology, 42, 333-376.
Salthouse, T. A. e Meinz, E. J. (1995). Aging, inhibition, working memory, and speed.
Journal of Gerontology: Psychological Sciences, 6, 297-306.
IL RUOLO DELL’INFORMAZIONE SPAZIO-TEMPORALE IN
COMPITI DI IMMAGINAZIONE
Lara Pelizzon{xe "Pelizzon L."}, Maria Antonella Brandimonte{xe "Brandimonte
M.A."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Trieste
Introduzione
Quando osserviamo una figura, noi percepiamo sia l’oggetto disegnato che lo
sfondo su cui l’oggetto è disegnato. Un noto principio di organizzazione percettiva è
quello secondo il quale la figura e i suoi attributi costituiscono un’unità percettiva e lo
sfondo e i suoi attributi costituiscono un’altra unità percettiva (Koffka, 1935; Koehler,
1947). Nel dominio della memoria, è stato mostrato che c’è più coerenza tra una figura
ed il suo colore che tra una figura ed il colore dello sfondo (Asch, 1969; Ceraso, 1985).
L’interpretazione comune è che, in memoria, la figura ed il suo sfondo sono
rappresentati separatamente. Recenti ricerche hanno però messo in dubbio questa
conclusione generale, mostrando che la forma del cartoncino (tipicamente percepita
come un attributo dello sfondo) sul quale una figura è disegnata può fungere da cue per
il recupero della rappresentazione dell’oggetto (Brandimonte, Pelizzon, Schooler e
Luccio, in revisione). Questo risultato pone la questione di base se figura e sfondo, pur
costituendo rappresentazioni distinte, possano, in certe condizioni, essere associate
attraverso particolari “mediatori”. Uno di questi mediatori potrebbe essere
l’informazione relativa alla congruenza tra ordine di presentazione degli stimoli alla
COMUNICAZIONI - MEMORIA E APPRENDIMENTO
89
codifica e ordine di recupero. Infatti, l’informazione sull’ordine potrebbe servire da cue
“spazio-temporale” per creare un legame tra la figura ed il suo sfondo.
Metodo
Nel presente lavoro, abbiamo manipolato il tipo di cue di recupero, la presenza
della Soppressione Articolatoria (d’ora in poi SA) e la congruenza tra l’ordine di
presentazione degli stimoli alla codifica e al recupero. Sono stati utilizzati tre tipi di cue:
visivo, spazio-temporale e visivo + spazio-temporale. Il compito immaginativo
consisteva nella rotazione e scoperta mentale di lettere (cf. Brandimonte, Hitch e
Bishop, 1992). Gli stimoli erano costituiti da 6 figure facili da denominare disegnate su
cartoncini di forma diversa, difficili da denominare. Al momento del recupero, prima
del compito di rotazione, ai soggetti venivano presentati 6 fogli bianchi su ognuno dei
quali si trovava a) la sagoma del cartoncino sul quale, alla codifica, era disegnata la
figura (condizione “cue visivo”); b) il numero corrispondente all’ordine di
presentazione, alla codifica, di ogni figura (condizione “cue spazio-temporale”) oppure
c) entrambe le informazioni (condizione “cue visivo + spazio-temporale”).
I soggetti dovevano memorizzare le figure (con o senza SA). Dopo la fase di
addestramento, venivano dati loro i 6 fogli con il cue corrispondente alla condizione.
Veniva detto loro di formarsi l’immagine mentale della figura corrispondente alla
sagoma o al numero del cartoncino, ruotarla, identificare le due lettere da cui era
formata e scriverle sul foglio.
Risultati
La SA non ha avuto nessun effetto, mentre si è riscontrato un effetto
significativo della congruenza tra l’ordine di presentazione degli stimoli alla codifica e
quello al recupero ed un effetto del tipo di cue.
L’effetto della congruenza riguarda soltanto la condizione “cue visivo”. Il cue
“visivo+spazio-temporale” produce un miglioramento significativo, rispetto agli altri, in
tutte le condizioni, mentre il cue “visivo” e il cue “spazio-temporale” producono
prestazioni simili.
Conclusioni
Con questo esperimento abbiamo scorporato la componente visiva da quella
spazio-temporale, dimostrando che da sole non sono sufficienti a produrre una buona
prestazione in compiti immaginativi, è necessaria l’unione delle due componenti.
Contemporaneamente, abbiamo escluso la presenza di una componente verbale nel
recupero della rappresentazione visiva, infatti tale componente sarebbe stata eliminata
dalla SA e quindi avremmo dovuto trovare prestazioni significativamente peggiori nelle
condizioni “con SA”.
Possiamo quindi concludere che figura e sfondo non sono unificate in un’unica
rappresentazione, bensì in due rappresentazioni associate. Se la rappresentazione fosse
unica, allora anche la presentazione del solo “cue visivo” dovrebbe migliorare la
prestazione dei soggetti. Questo non avviene e perciò è possibile ipotizzare che, di
fronte ad uno stimolo composito, in memoria si formino due rappresentazioni (figura e
sfondo), associate attraverso la “mediazione” dell’ordine degli stimoli (“cue spazio-
90
COMUNICAZIONI - MEMORIA E APPRENDIMENTO
temporale”) che, tuttavia, da solo non è sufficiente a determinare una prestazione
elevata.
Riferimenti bibliografici
Asch, S.E. (1969). A reformulation of the problem of associations. American
Psychologist, 24 (2).
Brandimonte, M.A., Hitch, G.J. & Bishop, D.V.M. (1992c). Verbal recoding of visual
stimuli impairs mental image transformations. Memory & Cognition, 20, 449455.
Brandimonte, M.A., Pelizzon, L., Schooler, J.W., & Luccio, R. Attenuation of verbal
overshadowing: The effectiveness of background shape as a retrieval cue,
Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory & Cognition,
manoscritto in revisione.
Brandimonte, M.A., Schooler, J.W., & Gabbino, P. (1997). Attenuating verbal
overshadowing through color retrieval cues, Journal of Experimental
Psychology: Learning, Memory & Cognition, 23, 915-31.
Ceraso, J. (1985). Unit formation in perception and memory. In G. Bower (Ed.), The
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Koehler, W. (1947). Gestalt psychology. New York: Liveright.
Koffka, K. (1935). Principles of Gestalt psychology. New York: Harcourt, Brace &
World.
Schooler, J.V. & Engstler-Schooler, T.Y. (1990). Verbal overshadowing of visual
memories: Some things are better left unsaid. Cognitive Psychology, 22, 36-71.
I RAPPORTI TRA SCRITTURA E LETTURA: UNO STUDIO
PRELIMINARE
M. Carmen Usai{xe "Usai M.C."}, Paola Viterbori{xe "Viterbori P."}
Università di Genova
Uno degli aspetti che ha suscitato interesse nella letteratura relativa ai processi
di alfabetizzazione riguarda i rapporti tra abilità di lettura e scrittura.
Alcuni autori hanno ipotizzato l’interdipendenza delle due abilità. Gough, Juel
e Griffith (1992; si veda anche Shankweiler e Lundquist, 1992) sostengono che le
strategie utilizzate in lettura e scrittura sono le stesse. Stuart e Masterson (1992),
riprendendo un’osservazione di Seymour e MacGregor (1984), suggeriscono che lo
strutturarsi del lessico ortografico per la scrittura avvenga attraverso il trasferimento
delle rappresentazioni dal lessico per la lettura a quello per la scrittura.
Altri autori sostengono, invece, l’esistenza di una certa indipendenza tra abilità
di lettura e di scrittura. Secondo Bryant e Bradley (1980), i bambini imparano a leggere
e scrivere in modi differenti: la lettura avverrebbe per riconoscimento di insiemi di
lettere (visual chunks), mentre la scrittura attraverso l’utilizzo di segmenti fonologici.
Per quanto riguarda lo studio delle prestazioni deficitarie, sono state riscontrate
dissociazioni fra le due abilità. Sebbene in età evolutiva sembri esserci un’alta
COMUNICAZIONI - MEMORIA E APPRENDIMENTO
91
correlazione fra le prestazioni in lettura e scrittura, sono segnalati quadri in cui a un
problema in scrittura corrisponde un’adeguata prestazione in lettura (Frith, 1980).
Obiettivo del presente studio é analizzare le prestazioni di lettura e scrittura di
un campione di bambini selezionati per la presenza di problemi di apprendimento della
scrittura.
Metodo
Partecipanti
41 bambini frequentanti il secondo ciclo della scuola elementare (18 di IV e 23
di V), selezionati per la presenza di difficoltà in scrittura.
Materiali e procedura
Una prova di scrittura costituita da tre dettati (Usai, 1996) é stata somministrata
ai bambini di alcune scuole elementari di Genova dalle rispettive insegnanti. I bambini
con prestazioni inferiori al primo decile sono stati selezionati ed hanno eseguito le
seguenti prove:
- scrittura sotto dettatura di una lista di parole (n=141) e di una lista di non
parole (n=24);
- lettura delle medesime liste.
Nella lista di parole sono state bilanciate le variabili relative alla lunghezza
misurata in numero di sillabe e alla frequenza d’uso (FdU) per scrittura e lettura nel
lessico italiano infantile (Marconi, Ott, Pesenti, Ratti e Tavella, 1994). La lista di parole
era rappresentativa di specifiche difficoltà ortografiche.
A ciascun bambino individualmente è stata proposta la prova di scrittura
seguita dalla prova di lettura. Per entrambe sono stati registrati i tempi di esecuzione.
Risultati
I tempi di lettura e scrittura sono stati trasformati in punteggi standard per
consentirne un confronto. I risultati preliminari relativi alla sola lista di parole indicano
l’esistenza di un’interazione significativa fra i tempi di lettura e scrittura e le FdU (alta e
bassa): F(1,39)=18.640 p<0.001. Le prestazioni per le parole ad alta e bassa FdU
differiscono significativamente sia in scrittura (rispettivamente 0.13 e -0.03) che in
lettura (rispettivamente 0.27 e -0.22) ma con un maggior divario in lettura. Il dato è
spiegabile alla luce della strategia utilizzata dai bambini: prevalentemente di tipo
lessicale in lettura e di tipo fonologico in scrittura.
La prestazione in lettura è significativamente migliore di quella in scrittura solo
per le parole con doppio cluster consonantico (es. sponda) o con cluster a tre consonanti
(es. strada) e per le parole relative all’uso di ‘cù e ‘q’ (es. cuoco).
I dati dimostrano alcune differenze relative a particolari tipologie di difficoltà
evidenziate in lettura e scrittura che suggeriscono l’utilizzo di un differenziale sviluppo
delle due abilità.
Riferimenti bibliografici
Bryant P.E., Bradley L. (1980). Why children sometimes write words which they do not
read. In U. Frith (Ed.), Cognitive processes in spelling (pp.355-370). San
Diego, CA: Academic Press.
92
COMUNICAZIONI - MEMORIA E APPRENDIMENTO
Frith U. (1980). Unexpected spelling problems. In U. Frith (Ed.), Cognitive processes in
spelling (pp.495-515). San Diego, CA: Academic Press.
Gough P.B., Juel C., Griffith P.L. (1992). Reading, spelling and the ortographic cipher.
In P.B. Gough, L.C. Ehri & R. Treiman (Eds.), Reading acquisition (pp.35-48).
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Dati statistici sull’italiano scritto e letto dai bambini delle elementari.
Zanichelli, Bologna.
Seymour P.H.K., MacGregor C.J. (1984). Developmental dyslexia: a cognitive
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Cognitive Neuropsychology, 1(1), 43-83.
Shankweiler D., Lundquist E. (1992). On relations between learning to spell and
learning to read. In R. Frost, L. Katz (Eds.), Ortography, phonology,
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Stuart M., Masterson J. (1992). Patterns of reading and spelling in 10-years old children
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Usai M.C. (1996). Aspetti metodologici dello studio sull’acquisizione delle competenze
ortografiche. Tesi di Dottorato, Università di Genova.
COMUNICAZIONI - NEUROPSICOLOGIA
93
NEUROPSICOLOGIA
MENTE E MOVIMENTO: UNO STUDIO PET SULLA
PERCEZIONE ED INTERPRETAZIONE DI MOVIMENTI
INTENZIONALI COMPLESSI
Fulvia Castelli{xe "Castelli F."} 1, Francesca Happè{xe "Happè F."} 1,2, Uta
Frith{xe "Frith U."} 1, Chris Frith{xe "Frith C."} 3
1
Institute of Cognitive Neuroscience, University College London
2
Institute of Psychiatry, De Crespigny Park, London
3
Wellcome Department of Cognitive Neurology, London
Introduzione
L’attività cerebrale sottostante la “teoria della mente”, ovvero la capacità di
attribuire pensieri ed emozioni a se stessi e ad altri al fine di descriverne e prevederne il
comportamento, è stata negli ultimi anni oggetto di studio nel campo della neuroimmagine. A differenza dei precedenti paradigmi impiegati per investigare la “teoria
della mente” (Fletcher et al, 1995, Happè 1996), basati sulla comprensione verbale, il
presente lavoro si basa esclusivamente sulla percezione visiva.
Heider e Simmel (1944) hanno dimostrato che è possibile attribuire stati
mentali a figure geometriche semplicemente osservando la traiettoria dei loro
movimenti. Inoltre, Berry et al. (1992, 1993) hanno sottolineato che la propensione di
adulti e bambini a descrivere le animazioni in termini antropomorfici è basata sulle
proprietà del movimento caratteristiche del filmato, e non sulle caratteristiche degli
stimoli.
Prendendo spunto da questi lavori, abbiamo creato dei cartoni animati muti i
cui protagonisti sono un triangolo grande e uno più piccolo che si muovono su di uno
sfondo bianco. Per poter investigare l’attività cerebrale associata all’attribuzione di stati
mentali (capacità anche denominata “mind-reading”), abbiamo creato tre tipi di
animazioni, caratterizzate da diversi tipi di movimento. Nella condizione “teoria della
mente” i due triangoli interagiscono in modo complesso, come se il loro movimento
fosse determinato dai loro pensieri o sentimenti. Nella condizione “comportamentale” goal-directed- i triangoli si muovono prendendo in considerazione le reciproche azioni.
L’ultimo tipo di movimento è di tipo “random”, senza alcuna interazione tra i due
triangoli.
L’ipotesi riguarda l’attività celebrale associata all’osservazione delle
animazioni in cui i soggetti attribuiscono stati mentali complessi. Si prevede un
incremento di attività nell’area prefrontale media, simile ai risultati di precedenti studi
PET.
Metodo
Il campione consiste in sei soggetti volontari adulti maschi (20-31 anni) a cui è
dato un rimborso spese. Durante lo scanning i soggetti hanno osservato in totale 12
94
COMUNICAZIONI - NEUROPSICOLOGIA
cartoni animati sullo schermo di un computer, quattro per ogni tipo di movimento:
movimento che elicita l’attribuzione di stati intenzionali, di azioni finalizzate, e di
traiettoria random. Ogni sequenza dura circa 34-45 secondi. La presentazione delle
animazioni era controbilanciata tra soggetti, ed era divisa in due blocchi: in uno veniva
suggerito al soggetto, prima di ogni scan, che tipo di animazione avrebbe visto,
nell’altro non veniva dato alcun suggerimento. Il compito richiesto consisteva
nell’osservare attentamente il filmato e, alla fine dello scanning, rispondere alla
domanda “Che cosa succedeva in questa animazione?”. Le risposte sono state registrate
e codificate relativamente al tipo di descrizione fornita: termini intenzionali, lunghezza,
correttezza, esitazione.
L’analisi statistica dei dati PET è stata eseguita con la tecnica di “Statistical
Parametric Mapping” implemented in SPM97 (Wellcome Department of Cognitive
Neurology, Friston et al. 1995a). Per ogni soggetto, un set di 12 PET scan è stato
automaticamente ri-allineato e normalizzato sulla dimensione di Tailarach e Tournoux
(1988).
Risultati
Descrizioni verbali
I soggetti hanno attribuito al movimento dei protagonisti delle animazioni un
diverso grado di intenzionalità (F (2,10)= 154.75, p< .000): maggiore intenzionalità alle
animazioni “teoria della mente” rispetto alle “comportamentali” (t-value= -5.89, p=
.002) e alle “random” (t-value= -16.04, p< .000). Al movimento random sono stati
attribuiti significativamente meno stati intenzionali rispetto alle animazioni
comportamentali (t-value= 17.43, p< .000). La condizione relativa al suggerimento non
ha fornito alcun effetto significativo.
Attività cerebrale
Non si è osservata alcuna differenza relativa all’ordine di presentazione o alla
condizione di suggerimento. I tre tipi di animazione hanno provocato invece
significative differenze nel flusso cerebrale sanguigno. I risultati intenzionali (metodo
della sottrazione: animazioni “teoria della mente” meno animazioni “comportamentali”
e “random”), indicano un aumento di attività cerebrale in associazione con
l’attribuzione di stati intenzionali in quattro aree principali: il solco temporale superiore,
il giro occipitale, il giro fusiforme ed il giro frontale medio.
Conclusioni
Il risultato riguardante l’aumento di attività nell’area medio-frontale
(Broadman area 9) durante l’osservazione di movimenti intenzionali conferma
precedenti risultati PET. La stessa area è stata associata all’osservazione del movimento
di un essere umano rappresentato da un tracciato luminoso (Bonda et al., 1996).
L’attività della regione medio-frontale è stata osservata anche in studi di automonitoraggio mentale. La giuntura temporo-parietale fa parte del network cerebrale
attivato durante l’osservazione di movimenti biologici.
L’interesse nell’attività cerebrale durante l’attribuzione di stati mentali nasce
dalla speranza di una migliore comprensione del funzionamento neurale anormale in
individui che presentano un deficit cognitivo specifico riguardante la capacità di
“mentalizzare” (Autismo e Sindrome di Asperger).
COMUNICAZIONI - NEUROPSICOLOGIA
95
Riferimenti bibliografici
Berry,-Diane-S.; Misovich,-Stephen-J.; Kean,-Kevin-J.; Baron,-Reuben-M.(1992)
Effects of disruption of structure and motion on perceptions of social causality.
Personality-and-Social-Psychology-Bulletin. Apr; Vol 18(2): 237-244
Berry,-Diane-S.; Springer,-Ken (1993) Structure, motion, and preschoolers’ perceptions
of social causality. Ecological-Psychology. Vol 5(4): 273-283
Bonda-E; Petrides-M; Ostry-D; Evans-A (1996). Specific involvement of human
parietal systems and the amygdala in the perception of biological motion JNeurosci, Jun 1; 16(11), 3737-44
Fletcher, P.C., Happé, F., Frith, U., Baker, S.C., Dolan, R.J., Frackowiak, R.S.J., &
Frith, C.D. (1995) Other minds in the brain: a functional imaging study of
“theory of mind” in story comprehension. Cognition, 57, 109-128.
Friston, K.J., Holmes, A.P., Worsley, K.J., Poline, J-B., Frith, C.D. & Frackowiak,
R.S.J. (1995a) Statistical parametric maps in functional imaging: A General
Linear approach. Human Brain Mapping, 2, 189-210.
Happé, F., Ehlers, S., Fletcher, P., Frith, U., Johansson, M., Gillberg, C., Dolan, R.,
Frackowiak, R. & Frith, C. (1996) ‘Theory of mind’ in the brain: Evidence
from a PET scan study of Asperger syndrome. NeuroReport, 8, 197-201.
Heider,-F.; Simmel,-M. (1944) An experimental study of apparent behavior. AmericanJournal-of-Psychology, 57, pp. 243-259.
Talairach, J. & Tournoux, P. (1988) A Co-planar Stereotaxic Atlas of a Human Brain.
Stuttgart, Thieme-Verlag.
PIANO MEDIANO SAGITTALE E BISEZIONE DI LINEE IN
PAZIENTI CON NEGLECT: EFFETTI DIREZIONALI
DIVERGENTI
Giorgia Committeri{xe "Committeri G."}, Gaspare Galati{xe "Galati G."},
Fabiana Patria{xe "Patria F."}, Luigi Pizzamiglio{xe "Pizzamiglio L."}*
Centro Ricerche Neuropsicologia, IRCCS S. Lucia
* Dipartimento di Psicologia, Università “La Sapienza”, Roma
Introduzione
Il piano mediano sagittale del corpo è un riferimento di primaria importanza
per la costruzione di rappresentazioni spaziali egocentriche. Le teorie attuali
sull’eminegligenza spaziale (Karnath, 1997) riconoscono nella deviazione ipsilesionale
di tale sistema un aspetto fondamentale e causale del disturbo. La maggioranza degli
studi ha descritto uno spostamento sistematico verso destra della posizione percepita del
piano mediano in pazienti con eminegligenza sinistra, misurata con un compito di
puntamento manuale al buio o chiedendo ai soggetti di fermare uno stimolo visivo in
movimento nel punto ritenuto essere “dritto davanti a sé”. Negli ultimi anni, però, sono
emerse evidenze a favore di un andamento più complesso e non direzionale delle
96
COMUNICAZIONI - NEUROPSICOLOGIA
prestazioni di questi pazienti. In particolare, Farné e collaboratori (1998) hanno
evidenziato nel compito visivo uno spostamento ipsilesionale solamente nelle prove in
cui lo stimolo visivo si muoveva in direzione controlesionale: un chiaro effetto della
direzione di scansione. Analogamente, il compito di puntamento manuale potrebbe
risentire di bias motori direzionali, che sono stati descritti nei pazienti eminegligenti
(Heilman, 1985). Il presente lavoro ha voluto verificare l’esistenza o meno di uno
spostamento ipsilesionale del piano mediano sagittale, cercando di eliminare i bias
appena descritti. Per fare ciò, è stata utilizzata la tecnica psicofisica degli stimoli
costanti, chiedendo ai soggetti di giudicare se una barretta verticale posta in posizioni
prestabilite lungo la dimensione orizzontale dello spazio, fosse a destra oppure a sinistra
rispetto al piano mediano (Hasselbach e Butter, 1997): tale paradigma non prevede
stimoli in movimento e, esteso alla modalità propriocettiva, non richiede risposte
motorie. L’utilizzo dello stesso paradigma anche in un compito di bisezione di linee ha
inoltre permesso di effettuare il confronto tra giudizi di natura egocentrica e giudizi di
natura allocentrica.
Metodo
Sono stati esaminati 10 cerebrolesi destri con neglect per lo spazio sinistro, 10
cerebrolesi destri senza neglect e infine 10 soggetti senza lesioni cerebrali. Il lato e la
localizzazione di queste ultime è stato verificato mediante TAC o MRI. Le sessioni
sperimentali erano due: 1) una sessione “visiva”, costituita da due compiti, nella quale i
soggetti, posti di fronte ad uno schermo con la testa bloccata, dovevano riportare
verbalmente se una barretta bianca verticale si trovava a destra oppure a sinistra rispetto
al loro piano mediano oppure rispetto al centro di una linea orizzontale; 2) una sessione
“propriocettiva”, nella quale i soggetti, con gli occhi coperti da una mascherina,
dovevano riportare verbalmente se la loro mano destra, portata passivamente dallo
sperimentatore in posizioni prestabilite lungo il piano perpendicolare al piano mediano
sagittale, si trovava a destra oppure a sinistra di esso. Attraverso il modello probit di
“stima della massima verosimiglianza” è stato calcolato, per ciascun soggetto, il punto
in cui la probabilità di dire “destra” e quella di dire “sinistra” si equivalevano (PSE o
punto di uguaglianza soggettiva ). Oltre ad esso, è stato stimato anche l’intervallo di
differenza appena percepibile (JND): minore tale intervallo, maggiore la consistenza da
parte del soggetto nel fornire le proprie risposte. Le differenze tra i gruppi nei tre
compiti per quanto riguarda il PSE e il JND sono state valutate con una serie di analisi
della varianza.
Risultati
Piano mediano soggettivo visivo e propriocettivo: il punto di uguaglianza
soggettiva (PSE) non differiva significativamente nei tre gruppi esaminati. Negli stessi
due compiti la differenza appena percepibile (JND) era invece significativamente più
grande nel gruppo di pazienti con neglect rispetto ai cerebrolesi destri e ai controlli.
Bisezione di linee (modalità visiva): il PSE presentava una significativa
differenza nei pazienti con neglect, nei quali il punto mediano era spostato verso la
destra del segmento. Anche in questo compito la JND dei pazienti con neglect era
significativamente maggiore rispetto agli altri due gruppi; tale valore era comunque
significativamente minore rispetto a quello da loro ottenuto ai due compiti di midline.
COMUNICAZIONI - NEUROPSICOLOGIA
97
Conclusioni
Il presente lavoro ha evidenziato una netta dissociazione tra la prestazione dei
pazienti con neglect sinistro in un compito classico di bisezione di linee e quella in un
compito di midline soggettiva: mentre nella bisezione é emerso l’atteso spostamento
verso destra del punto di uguaglianza soggettiva, i giudizi di midline non sono risultati
affetti da errori direzionali, in entrambe le modalità investigate. Nonostante ciò, essi
erano caratterizzati da una variabilità di giudizio molto elevata, maggiore rispetto a
quella del compito di bisezione: questi dati depongono a favore di una difficoltà
qualitativamente diversa, da parte dei pazienti con neglect, nel compiere giudizi di
localizzazione in relazione al proprio corpo (egocentrici) o in relazione ad un oggetto
esterno ad esso (allocentrici). In conclusione, il sistema di riferimento egocentrico
sembra essere effettivamente danneggiato nel neglect, ma questo danneggiamento
sembra essere di tipo più complesso di una semplice deviazione del piano mediano.
Me d ie
cm
P SE
M edie JND
2
9
bisezione visiva
1 .5
8
midline visiva
1
7
midline propriocettiva
.5
6
0
5
4
-. 5
3
-1
2
- 1. 5
1
-2
0
C
N+
N-
C
N+
N-
Riferimenti bibliografici
Farné A., Ponti F., Làdavas E. (1998). Neuropsychologia 36 (7): 611-623.
Hasselback M., Butter C.M. (1997) In: Thier P., Karnath H.-O. (Eds), Parietal lobe
contributions to orientation in 3D space. Springer-Verlag, Heidelberg, pp.579595.
Heilman K.M., Bowers D., Coslett H.B., Whelan H., Watson R.T. (1985) Neurology 35:
855-859.
Karnath H.O. (1997) In: Thier P., Karnath H.-O. (Eds), Parietal lobe contributions to
orientation in 3D space. Springer-Verlag, Heidelberg, pp.497-520.
COMUNICAZIONI - NEUROPSICOLOGIA
98
VALUTAZIONE DELL’ANISOMETRIA ORIZZONTALE
NELL’EMINATTENZIONE MEDIANTE COMPITI
NAVIGAZIONALI E NON NAVIGAZIONALI
Giuseppe Iaria{xe "Iaria G."}, Cecilia Guariglia{xe "Guariglia C."}*, Gaspare
Galati{xe "Galati G."}, Luigi Pizzamiglio{xe "Pizzamiglio L."}*
Centro Ricerche Neuropsicologia, IRCCS Ospedale S. Lucia
*Dipartimento di Psicologia, Università “La Sapienza”, Roma
Introduzione
Negli ultimi anni, una serie di lavori ha dimostrato che nell’eminattenzione è
presente un’anisometria della rappresentazione dello spazio lungo la dimensione
orizzontale (Bisiach, Rusconi, Peretti, & Vallar, 1994), consistente in un’espansione
della rappresentazione dell’emispazio sinistro ed in una compressione di quello destro.
Recentemente, Doricchi ed Angelelli (Doricchi & Angelelli, 1999) hanno rilevato come
l’anisometria sia maggiore nei pazienti eminattenti con concomitante deficit di campo
visivo, rispetto a quelli senza deficit di campo visivo. Poiché i compiti utilizzati negli
esperimenti che valutano la presenza di anisometria orizzontale sono per lo più compiti
di elaborazione visuo-spaziale, ci siamo chiesti se l’effetto di anisometria sia presente
solo quando si richiede un’elaborazione visuo-percettiva o visuo-immaginativa dello
stimolo, o anche in un compito navigazionale, in cui si richieda una valutazione delle
distanze percorse tramite locomozione passiva, compito che richiede l’elaborazione di
informazioni principalmente di tipo vestibolare (Israël, Grasso, Georges-François,
Tsuzuku, & Berthoz, 1997).
Metodo
Hanno preso parte a questo studio tre gruppi di soggetti: un gruppo composto
di pazienti cerebrolesi destri con eminattenzione, diviso in due sottogruppi in base alla
presenza o meno di deficit di campo visivo (N+E+, N+E-); un gruppo composto di
pazienti cerebrolesi destri senza eminattenzione (N-); ed un gruppo di soggetti di
controllo normali (C). Tutti i pazienti cerebrolesi sono stati sottoposti ad una batteria di
test per la valutazione dell’eminattenzione (Pizzamiglio, Judica, Razzano, & Zoccolotti,
1989), ad esame neurologico, esame campimetrico ed un esame neuroradiologico (RM o
TC). Erano proposti due compiti:
a. nel compito navigazionale, i soggetti sedevano su un robot mobile che poteva
essere guidato da un computer o dal paziente stesso tramite un joystick. Il computer
era programmato per eseguire percorsi rettilinei in tre condizioni diverse: in avanti,
verso sinistra e verso destra. Compito dei soggetti era quello di replicare il percorso
effettuato dal robot, guidandolo tramite il joystick.
b. Nel compito non navigazionale, i soggetti sedevano di fronte ad un’asta orizzontale,
sulla quale era possibile far scorrere con la mano destra un cursore; il centro
dell’asta veniva fatto corrispondere al piano mediano corporeo del soggetto. In ogni
trial la mano dei soggetti veniva posta sul cursore, posizionato ad una distanza
prefissata a destra o a sinistra dal centro. Compito dei soggetti era spostare il
cursore fino al centro dell’asta, dove era posto un fermo mobile. Successivamente il
COMUNICAZIONI - NEUROPSICOLOGIA
99
fermo veniva rimosso ed i soggetti dovevano muovere il cursore nella stessa
direzione, percorrendo la stessa distanza.
Ambedue i compiti erano eseguiti in due condizioni diverse: occhi chiusi ed
occhi aperti
Risultati e conclusioni
Sono stati analizzati gli errori compiuti dai soggetti nel replicare i percorsi
effettuati dal robot (compito navigazionale) e nel replicare la distanza effettuata con il
cursore (compito non navigazionale).
I pazienti eminattenti compivano errori significativamente maggiori di quelli
commessi dagli N- e C sia nel compito navigazionale che in quello non navigazionale.
In ambedue i compiti, non si sono rilevate differenze significative tra le prestazioni
fornite dai 4 gruppi di soggetti nelle due condizioni occhi chiusi/occhi aperti. Per quanto
riguarda la direzione del movimento, era presente una tendenza dei pazienti N+ a
compiere pattern diversi di errori nelle due direzioni: ciò avveniva nel compito non
navigazionale, ma non in quello navigazionale.
Questi dati sembrano dimostrare che l’anisometria della rappresentazione dello
spazio sia rilevabile in compiti di tipo non navigazionale, ma non in compiti
navigazionali, in cui la rappresentazione delle distanze da riprodurre viene elaborata
prevalentemente sulla base di informazioni vestibolari e non visive.
Riferimenti bibliografici
Bisiach, E., Rusconi, M. L., Peretti, V., & Vallar, G. (1994). Challenging current
accounts of unilateral neglect. Neuropsychologia, 32, 1431-1434.
Doricchi, F., & Angelelli, P. (1999). Misrepresentation of horizontal space: the role of
hemianopia. Neurology, in press.
Israël, I., Grasso, R., Georges-François, P., Tsuzuku, T., & Berthoz, A. (1997). Spatial
memory and path integration studied by self-driven passive linear
displacement. I. Basic properties. Journal of Neurophysiology, 77, 3180-3192.
Pizzamiglio, L., Judica, A., Razzano, C., & Zoccolotti, P. (1989). Toward a
comprehensive diagnosis of visual-spatial disorders in unilateral braindamaged patients. Psychological Assessment, 5, 199-218.
COME LA POSIZIONE DELLA TESTA INFLUENZA LA
PERCEZIONE DELLA DIREZIONE DELLO SGUARDO:
IMPRECISIONE DEL SISTEMA PERCETTIVO
Paola Ricciardelli1{xe "Ricciardelli P."},2, Jon Driver{xe "Driver J."}1
Institute of Cognitive Neuroscience, University College London, UK
2
Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Modena
1
Introduzione
100
COMUNICAZIONI - NEUROPSICOLOGIA
Diversi lavori hanno dimostrato che la posizione della testa influenza la
percezione della direzione dello sguardo altrui (Gibson & Pick, 1963; Cline, 1966;
Anstis et al., 1969; Perrett et al., 1985; Vecera & Johnson, 1995). Dato che le orbite
oculari sono parte della testa stessa non sorprende che l’orientamento del capo limiti o
influenzi la posizione degli occhi all’interno dell’orbita. Posizione questa che permette
ad un individuo di dirigere il proprio sguardo su un dato punto nell’ambiente, e ad un
osservatore esterno di percepire la direzione dello sguardo. Tuttavia, ciò che è tuttora
confuso è in che modo la testa influenzi la percezione dello sguardo e, se e come, il
sistema percettivo sia in grado di compensare o meno questa “distorsione”.
Metodo
I soggetti partecipanti allo studio erano tutti volontari, la maggior parte studenti
universitari, e ricevevano un rimborso spese per la loro partecipazione. Come stimoli
sono state impiegate fotografie di una persona con la testa girata a destra o a sinistra
rispetto all’osservatore e lo sguardo diretto nella stessa direzione assunta dalla testa o
nella direzione opposta. Il compito richiesto era di giudicare la direzione dello sguardo
della persona ritratta in fotografia, premendo uno di due tasti sulla tastiera di un
computer. I tempi di risposta sono stati sottoposti al test dell’Analisi della Varianza con
un unico fattore (congruenza) a due livelli (testa e sguardo congruenti vs incongruenti).
Risultati e conclusioni
Tempi di risposta significativamente più lunghi (F(1,31)=5.26, p<.05) sono
stati riscontrati in tutte le condizioni in cui sia la testa che la direzione dello sguardo
erano allineati e congruenti (620 ms) rispetto a quando la testa e lo sguardo erano
incongruenti (578 ms), indicando un’influenza della posizione della testa sulla
percezione della direzione dello sguardo nella direzione opposta a quella della testa. In
particolare, sembrerebbe essere la quantità visibile di sclera all’interno dell’orbita
oculare a risentire maggiormente dell’influenza della posizione della testa. Risultato
questo che consoliderebbe ulteriormente studi psicofisici precedenti (Anstis et al., 1969)
secondo i quali sarebbe proprio questo uno degli elementi su cui il sistema percettivo si
baserebbe per giudicare la direzione dello sguardo. Inoltre, il costo pagato nei tempi di
risposta quando testa e sguardo sono allineati suggerirebbe un’incapacità del sistema
percettivo di tenere in debito conto la posizione della testa relativamente alla direzione
dello sguardo.
Riferimenti bibliografici
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portrait is looking. American Journal of Psychology, 82, 474-489.
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Perrett, D.I., Smith, P.A.J., Potter, D.D., Minstlin, A.J., Head, A.S., Milner, A.D. &
Jeeves, M.A. (1985). Visual cells in the temporal cortex sensitive to face view
and gaze direction. Proceeding of the Royal Society of London, B223, 293-317.
COMUNICAZIONI - NEUROPSICOLOGIA
101
Vecera, S.P., & Johnson, M.h. (1995). Gaze detection and the cortical processing of
faces: Evidence from infants and adults. Visual Cognition, 2, 59-87.
102
COMUNICAZIONI - PERCEZIONE
PERCEZIONE
EFFETTI DI PRIMING NEGATIVO NELLA PERCEZIONE DEL
MOVIMENTO
Raffaella Delbello{xe "Delbello R."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Trieste
Introduzione
Gli effetti di priming negativo consistono in un rallentamento della risposta ad
uno stimolo identico o correlato ad uno presentato nella prova immediatamente
precedente. Tali effetti compaiono in diversi ambiti cognitivi e ciò ha dato lo spunto per
ampliare le indagini su questo fenomeno utilizzando degli stimoli che possiedono delle
qualità dinamiche. Treisman e DeShepper (1996) sono stati i primi ad indagare gli
effetti di priming utilizzando degli stimoli in movimento. I risultati del loro esperimento
hanno portato delle prove a favore dell’esistenza di effetti di priming in un compito in
cui sono stati impiegati stimoli con caratteristiche dinamiche. Gli stimoli utilizzati da
Treisman e DeShepper potevano contenere oltre ad una informazione relativa al
movimento, delle informazioni spaziali che permettevano di codificare lo stimolo anche
come una forma bidimensionale. Tale ambiguità non ha permesso di attribuire gli
effetti di priming riscontrati in quell’esperimento alla sola percezione del movimento.
Nel presente lavoro, viene presentata una nuova metodologia per lo studio degli effetti
di priming negativo nella percezione del movimento, che si è dimostrata in grado di
ovviare ai limiti del paradigma utilizzato da Treisman e DeShepper. Per scindere il
movimento da qualsiasi indizio di forma sono stati impiegati degli stimoli costituiti da
configurazioni casuali di punti in traslazione sullo schermo del computer. Nel 1998,
Raymond e Isaack hanno studiato l’influenza che un episodio di movimento esercita
sulla percezione di un episodio di movimento immediatamente successivo. I loro
risultati hanno evidenziato un fenomeno chiamato contrasto direzionale (da ora in poi
CD). Tale fenomeno consiste in una significativa diminuzione della soglia di detezione
di movimento coerente in configurazioni casuali di punti, quando l’episodio a cui il
soggetto era chiamato a rispondere veniva preceduto da un episodio di movimento con
direzione opposta. Per studiare gli effetti di priming negativo nella percezione del
movimento, nella presente ricerca il paradigma del CD è stato modificato introducendo
dei distrattori nello stimolo, con l’obiettivo di indurre una modulazione dell’attenzione
che fosse in grado di generare effetti di priming negativo.
Metodo
All’esperimento hanno partecipato due soggetti esperti e quattro soggetti
ingenui. Gli stimoli erano costituiti da due configurazioni sovrapposte di punti casuali
in traslazione, una di colore bianco (stimolo target) e una di colore giallo (distrattore).
Ogni prova comprendeva una fase di prime e una fase di probe, separate da una
schermata vuota. Le condizioni sperimentali a cui tutti i soggetti venivano sottoposti si
COMUNICAZIONI - PERCEZIONE
103
differenziavano in base al rapporto tra lo stimolo target presentato nel probe e gli
stimoli presentati nel prime.
- Nella condizione di facilitazione lo stimolo target al probe si muoveva nella
stessa direzione dello stimolo target al prime.
- Nella condizione di priming negativo lo stimolo target al probe si muoveva
nella stessa direzione dello stimolo distrattore al prime.
- Nella condizione di controllo alla fase di probe lo stimolo presentava due
direzioni mai comparse nel prime.
La proporzione di moto coerente al prime era sempre del 100%, mentre la
proporzione di moto coerente al probe variava in base al metodo della staircase. La
misura dipendente era la soglia di detezione di moto coerente alla fase di probe.
Secondo l’ipotesi sperimentale, la soglia di detezione di moto coerente doveva
innalzarsi significativamente nella condizione di priming negativo, in quanto il
movimento del target al probe corrispondeva al movimento del distrattore al prime che
veniva volontariamente ignorato.
Risultati e conclusioni
Come previsto nell’ipotesi sperimentale, oltre a replicare i risultati sul CD è
stato trovato un significativo aumento nella soglia di detezione di moto coerente nella
condizione di priming negativo. Dato l’accorgimento metodologico che ha permesso di
eliminare la possibile confusione tra forma e movimento, questi risultati possono venire
interpretati come un effetto di priming negativo nella percezione del movimento. Infatti
l’innalzamento della soglia registrato nella condizione di priming negativo è attribuibile
all’inibizione attiva del distrattore al prime. La diminuzione della soglia di detezione di
moto coerente rilevata nella condizione di facilitazione è per contro imputabile
all’elaborazione del target al prime che si ripresenta identico nella fase di probe.
Riferimenti bibliografici
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Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory, and Cognition, 23,
1291-1305.
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Treisman, A. e DeSchepper, B. (1996). Object tokens, attention, and visual memory. In
Inui, T., McClelland, J. L. (Eds.),. Attention and Performance, XVI:
Information integration in perception and communication (pp. 15-46).
Cambridge, MA, USA: Mit Press.
EFFETTI DI PRIMING SEMANTICO A SEGUITO DELLA
PRESENTAZIONE SUBLIMINALE DI FIGURE
Roberto Dell’Acqua{xe "Dell’Acqua R."}, Jonathan Grainger{xe "Grainger J."}
Università di Padova e CNRS, Aix en Provence
104
COMUNICAZIONI - PERCEZIONE
Introduzione
Quali sono le informazioni che è possibile estrarre da uno stimolo presentato
subliminalmente? Questa domanda ha suscitato l’interesse di un numero notevole di
ricercatori fin dall’inizio del secolo, e continua a suscitarne anche ai nostri giorni (si
veda Draine e Greenwald, 1998). La ragione per cui una risposta soddisfacente sembra
ancora lontana è legata a difficoltà di ordine tanto teorico quanto metodologico. Da un
punto di vista teorico, va ravvisata una scarsa concordanza sulla definizione di
‘subliminalità’ degli stimoli (si veda Holender, 1986); da un punto di vista
metodologico, la difficoltà è legata alla stima della potenza statistica necessaria per la
rilevazione di effetti comportamentali elicitati dalla stimolazione subliminale.
Scopo del presente lavoro è quello di fornire evidenza empirica a favore della
dissociazione tra una misura diretta dell’influenza sul comportamento osservabile di
stimolazione subliminale e una misura indiretta in forma di ‘effetto priming’ (si veda
Greenwald, Klinger, e Schuh, 1995). Nello specifico, la presente indagine empirica si è
concentrata sulla misurazione di effetti determinati dalla presentazione subliminale di
figure-prime in un compito di categorizzazione di parole-target (viventi/non-viventi) e
in un compito di denominazione di figure-target. L’assenza di riconoscimento delle
figure-prime (da parte degli stessi soggetti sperimentali che eseguivano i compiti
sperimentali) è stata dimostrata tramite due prove sperimentali di categorizzazione delle
figure-prime come 1) viventi/non-viventi, e 2) esistenti/non-esistenti.
Metodo
In ciascuna prova dei presenti esperimenti, una serie di stimoli era presentata
sullo schermo di un computer. Il primo stimolo era costituito da un punto di fissazione
su cui il soggetto era invitato a focalizzare la propria attenzione (800 ms). La
presentazione del punto di fissazione era seguita dalla presentazione di premascheramento (100 ms). Veniva quindi presentata una figura-prime (17 ms), seguita da
una schermata ‘blank’ (17 ms), e da post-mascheramento (100 ms). Al termine della
presentazione del post-mascheramento, veniva presentata una parola-target
(Esperimento 1a), o una figura-target (Esperimento 2a). Il compito del soggetto era
quello di categorizzare (risposta manuale) la parola-target come indicante un concetto
vivente/non-vivente (Esperimento 1a), o di denominare (risposta vocale) la figura-target
(Esperimento 2a). Ogni soggetto era invitato ad eseguire il compito sperimentale il più
velocemente e accuratamente possibile.
In prove diverse, lo stimolo-prime e lo stimolo-target potevano essere identici
(es. cane-cane; condizione ID), semanticamente congruenti (es. cane-gatto; condizione
SC), o semanticamente incongruenti (es. cane-bottiglia; condizione SI).
Al termine degli Esperimenti 1a e 2a, ogni soggetto era esplicitamente invitato
a tentare di riconoscere le figure-prime, che venivano presentate una alla volta,
all’interno della stessa sequenza di eventi descritta per gli Esperimenti 1a e 2a. I soggetti
erano invitati a categorizzare le figure-prime come indicanti concetti viventi/non-viventi
(Esperimento 2a), o concetti reali/non-reali (Esperimento 2b). Negli esperimenti 2a e
2b, gli stimoli-target erano sostituiti con una stringa di 5 ‘X’.
Risultati
COMUNICAZIONI - PERCEZIONE
105
L’analisi dei tempi di reazione ha messo in luce i seguenti risultati. Il tempo
impiegato tanto per categorizzare (Esperimento 1a) quanto per denominare
(Esperimento 2a) gli stimoli-target era inferiore nelle condizioni ID e SC rispetto alla
condizione SI (effetto priming). La quantità di effetto priming era statisticamente
equivalente nelle condizioni ID e SC. L’analisi dei risultati ottenuti dalla
somministrazione degli Esperimenti 2a e 2b ha messo in luce valori medi di d’ prossimi
allo 0, ovvero, i risultati suggerivano che i soggetti eseguivano i compiti previsti per gli
Esperimenti 2a e 2b con prestazioni a livello del caso.
Conclusioni
I risultati dei presenti esperimenti supportano ed estendono studi precedenti che
hanno indagato l’influenza della stimolazione subliminale sul comportamento osservato.
L’originalità della presente ricerca sta nell’aver usato stimoli pittorici e non stimoli
verbali, ovvero, gli stimoli usati nella totalità degli studi precedenti. I due esperimenti
riportati nel presente contributo fanno parte di una più ampia linea di ricerca
sull’elaborazione di stimolazione subliminale che ha lo scopo di indagare una serie di
questioni centrali in questo campo. Ad esempio, verranno citati risultati di altri
esperimenti volti ad indagare le caratteristiche temporali dell’attivazione di
informazione semantica. Inoltre, si daranno cenni dei risultati di una serie di esperimenti
volti ad indagare possibili influenze del compito sperimentale sulla quantità di effetto
priming a seguito della presentazione subliminale di figure.
Riferimenti bibliografici
Draine, S. C., e Greenwald, A. G. (1998). Replicable unconscious semantic priming.
Journal of Experimental Psychology: General, 127, 286-303.
Greenwald, A. G., Klinger, M. R., e Schuh, E. S. (1995). Activation by marginally
perceptible (‘subliminal’) stimuli: Dissociation of unconscious from conscious
cognition. Journal of Experimental Psychology: General, 124, 22-42.
ORIENTAMENTO ATTENTIVO E STRUTTURA TEMPORALE
NELLA VALUTAZIONE DELLA DURATA
Rosalia Di Matteo{xe "Di Matteo R."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”, ECONA
Introduzione
I modelli che tentano di spiegare la capacità di valutare il tempo possono essere
suddivisi in due ampie categorie: alcuni, attribuendo tale capacità all’attività di un
orologio interno, individuano una relazione diretta tra l’accuratezza delle stime
temporali e il grado di attenzione dedicata al tempo (Macar, 1996; Bueno, 1994), altri,
considerandola un prodotto collaterale dei normali processi di elaborazione
dell’informazione, attribuiscono un ruolo principale alle modalità di rappresentazione
delle informazioni in memoria (Ornstein, 1969; Block 1990; Zakay, 1990). Alcune
ipotesi alternative, tuttavia, sottolineano l’importanza della segmentazione e della
106
COMUNICAZIONI - PERCEZIONE
coesione nel flusso degli eventi nella valutazione della durata. In questa ottica Jones e
Boltz (1989) suggeriscono che gli eventi del mondo naturale, essendo caratterizzati da
un grado elevato di coerenza strutturale, tendono ad evocare modalità attentive di tipo
automatico. Gli eventi caratterizzati da un livello basso di coerenza interna richiedono,
al contrario, una modalità attentiva di tipo controllato ed una segmentazione attiva del
flusso di stimolazione attraverso il ricorso a strategie di conteggio e raggruppamento. Su
questa base e nell’ambito della linea di ricerca sviluppata in collaborazione con Olivetti
Belardinelli viene ipotizzato che la coerenza strutturale degli eventi interagisca con
l’attenzione dedicata al tempo nel determinare l’accuratezza nella valutazione della
durata.
Metodo
È stato utilizzato un paradigma di doppio compito per esaminare l’accuratezza
della valutazione prospettica della durata di eventi acustici strutturati in diverse
condizioni di orientamento attentivo. All’esperimento hanno partecipato 50 studenti
iscritti al primo anno di Psicologia. È stato impiegato un disegno fattoriale misto, nel
quale la misura ripetuta era rappresentata dal grado di coerenza strutturale dell’evento,
mentre il fattore indipendente era costituito dalle differenti richieste attentive del
compito.
Gli eventi acustici derivavano dalla rielaborazione di alcuni frammenti musicali
divisi in 5 categorie: tonali salienti (TOSA), tonali non-salienti (TONS), non-tonali e
salienti (NTSA), non-tonali e non-salienti (NTNS) e isocrone (ISOC) come categoria di
controllo. I frammenti originali sono stati rielaborati in modo tale da conservare soltanto
le relazioni temporali tra battiti consecutivi. L’ANOVA condotta sulle durate fisiche
(media=7.413 sec; d.s.=1.225 sec) e sul numero di battiti (media=20,5 battiti; d.s.=5.9)
non ha evidenziato differenze significative.
L’orientamento attentivo è stato variato mediante 4 diverse istruzioni
sperimentali, nelle quali veniva chiesto di prestare maggiore o minore attenzione ad un
compito secondario di conteggio dei battiti: massima attenzione al tempo (Max D),
stessa attenzione al tempo e ai battiti (D = B), massima attenzione ai battiti (Max B), e
attenzione ad un singolo compito (Solo D / Solo B) come condizione di controllo. La
valutazione della durata consisteva in un compito di riproduzione.
Risultati
Per ogni soggetto e per ogni categoria di eventi è stato calcolato l’errore medio
assoluto di valutazione della durata che è stato utilizzato come variabile dipendente.
L’ANOVA condotta sull’errore di valutazione della durata evidenzia un effetto
principale del fattore STRUTTURA (F4,144=8.045; p<0.000) dovuto ai giudizi differenti
ottenuti per gli eventi TOSA e ISOC rispetto agli eventi TONS, NTNS e NTSA (test di
Tukey con p<0.05). È stata riscontrata inoltre una interazione significativa tra
STRUTTURA e ATTENZIONE (F12,144=2.049; p<0.05) dovuta alle differenti stime
ottenute per gli eventi NTSA e NTNS nelle varie condizioni attentive.
L’ANOVA condotta sugli errori di conteggio dei battiti mostra un effetto
principale significativo sia per il fattore STRUTTURA (F4,144=28.113; p<0.005) sia per
il fattore ATTENZIONE (F3,36=5.758; p<0.000). L’analisi rivela inoltre una interazione
significativa tra i due fattori (F12,144=3.040; p<0.001). Il post hoc indica che le differenze
COMUNICAZIONI - PERCEZIONE
107
riguardano gli eventi TOSA, TONS, NTSA e NTNS nella condizione EQUAL e
SINGLE rispetto alle condizioni MAXIM e MINIM.
Conclusioni
I risultati nel loro complesso indicano che la durata soggettiva si riduce sia al
diminuire della prevedibilità degli eventi, sia al crescere delle richieste attentive da parte
del compito secondario. Tuttavia il quadro emerso dall’analisi delle risposte relative al
compito di conteggio dei battiti impone una certa cautela nell’interpretazione. In
generale il lavoro conferma l’influenza della struttura degli eventi sulla valutazione
della durata e suggerisce la necessità di considerare modalità di interazione tra fattori
strutturali, attentivi e mnestici anche più complesse.
Riferimenti bibliografici
Block, R.A. (1990). Models of psychological time. In R.A. Block (Ed.), Cognitive
models of psychological time (pp. 1-36). Hillsdale: Lawrence Erlbaum
Associates.
Bueno, B.M. (1994). The role of cognitive changes in immediate and remote
prospective time estimations. Acta Psychologica, 85, 99-121.
Jones, M.R., Boltz, M. (1989). Dynamic attending and responses to time. Psychological
Review, 96, 459-491.
Macar, F. (1996). Temporal judgements on intervals containing stimuli of varying
quantity, complexity and periodicity. Acta Psychologica, 92, 297-308.
Ornstein, R.E. (1969). On the experience of time. Harmondsworth: Penguin Books.
Zakay, D. (1990). The evasive art of subjective time measurement: some
methodological dilemmas. In R.A. Block (Ed.), Cognitive models of
psychological time (pp. 59-84). Hillsdale: Lawrence Erlbaum Associates.
MECCANISMI VISIVI PER LA PERCEZIONE DELL’ANALISI
DEL MOVIMENTO COMPLESSO
M. Concetta Morrone{xe "Morrone M.C."}, David C. Burr{xe "Burr D.C."},
Paola Neri{xe "Neri P."}
Istituto di Neurofisiologia, CNR Pisa
Dipartimento di Psicologia, Università di Firenze
Il flusso delle immagini che cadono sulla nostra retina sono una ricca sorgente
di informazione del nostro moto e della struttura tridimensionale degli oggetti del
mondo esterno. Il cervello umano ha un’abilità particolare nel ricostruire una forma
partendo da pochi e sparsi segnali di movimento. È, per esempio, sufficiente una decina
di punti luminosi posti sulle articolazioni perché un essere umano riesca, al buio, ad
avere una percezione precisa del soggetto in movimento (moto biologico, Johansson,
P&P,1973). Oltre a questo tipo di analisi di moto, estremamente precisa e locale, il
nostro cervello effettua anche un analisi globale del flusso delle nell’immagine
108
COMUNICAZIONI - PERCEZIONE
retiniche, importante per esempio nella locomozione. In questa ricerca abbiamo studiato
e confrontato le proprietà spaziali e temporali dei meccanismi visivi che analizzano i
segnali di moto biologico e di flusso ottico. Per questi ultimi abbiamo anche studiato la
loro localizzazione cerebrale nell’uomo utilizzando le tecniche di fMRI.
Moto biologico
11 luci posizionate sulle articolazioni di un uomo, altrimenti al buio, sono
sufficienti per percepire e discriminare il soggetto e il suo moto. Tuttavia se l’uomo si
ferma qualunque percezione organizzata sparisce. In questa ricerca (Neri et al, Nature,
1998) abbiamo per la prima volta valutato quantitativamente questo fenomeno, detto di
“Movimento Biologico” e ne abbiamo caratterizzato le proprietà spaziali e temporali.
Utilizzando una tecnica in cui le singole articolazioni vengono campionate per un breve
periodo della traiettoria, abbiamo misurato la sensibilità di localizzare o di discriminare
il moto di un ometto sintetico, riprodotto su un monitor, in funzione del numero di
articolazioni simultaneamente illuminate. La sensibilità per il movimento biologico
(numero massimo di punti di rumore aggiunti allo schermo tollerati) cresce molto più
rapidamente rispetto ad altri moti più semplici, come la traslazione. Inoltre,
l’informazione è integrata per tempi molto più lunghi dell’ordine di 3-8 sec (8-20 volte
più lunghi che per la traslazione). Questi risultati indicano che la percezione del moto
biologico non è mediata da integratori specializzati che sommano l’informazione su un
campo recettivo a forma di ometto che cammina. Piuttosto, se un detettore specializzato
esiste, esso si adatta dinamicamente alla natura dello stimolo. Questo offre il vantaggio
di ridurre il numero possibile di detettori che servirebbero per analizzare ogni
movimento biologico, però comporta una perdita di efficienza.
Flusso ottico
I campi associati al flusso ottico retinico, come per un generico campo di
flusso, possono essere decomposti matematicamente in cinque componenti indipendenti,
di cui una associata ad un moto radiale e un’altra ad un moto circolare. Utilizzando la
stessa tecnica di sommazione spaziale descritta per il movimento biologico, si è studiato
1) se esistono meccanismi che integrano il moto lungo queste traiettorie complesse su
un’ampia regione di spazio; 2) se essi siano specifici per la rotazione, espansione (moto
radiale) e per la traslazione; 3) dove essi siano localizzati nel cervello dell’uomo. Gli
stimoli utilizzati consistono in schermi di punti stocastici dove una proporzione
variabile di punti vengono spostati consistentemente lungo una traiettoria
predeterminata (punti che costituiscono il segnale) ed i rimanenti vengono visualizzati
in posizioni spaziali casuali da quadro a quadro. I punti che costituiscono il segnale
seguivano o una traiettoria puramente radiale, o una puramente rotazionale o traiettorie
ottenute da combinazioni lineari di rotazioni e di moti radiali (moti lungo spirali). Sono
state misurate le soglie di sensibilità al rumore a questi stimoli stocastici su una
popolazione omogenea e con visione normale di giovani soggetti. Sono state anche
misurare le soglie quando i punti di segnale venivano confinati a settori circolari, che
suddividevano lo schermo in 16 parti uguali.
I risultati mostrato che la tolleranza per il rumore cresce con il numero di
settori utilizzati, anche quando il moto è confinato a settori opposti. La dipendenza tra
rumore tollerato e numero di settori è risultata essere quella prevista da un modello di
COMUNICAZIONI - PERCEZIONE
109
detettore ideale che integra l’informazione su tutto lo schermo. I risultati di tolleranza al
rumore in funzione del tipo di movimento (radiale, circolare e spirale) sono stati
analizzati utilizzando la tecnica di decomposizione in componenti principali (Principal
Component Analysys) della matrice di correlazione. L’analisi statistica effettuata ha
mostrato che i dati di sensibilità possono essere descritti da solo due sistemi neuronali
con massima selettività lungo il moto circolare e lungo il moto radiale. La banda di
selettività del sistema è molto ambia e tale che permettere una buona rappresentazione
di tutti i moti lungo spirali. Questi risultati mostrano che nel cervello dell’uomo esistono
detettori specializzati per l’analisi del flusso ottico retinico (Morrone, Burr & Vaina,
Nature 1995; Burr et al. Vision Res. 1998) e che meccanismi indipendenti integrano il
moto lungo le direzioni cardinali di rotazione e di espansione/contrazione.
Questi stessi stimoli sono stati usati anche per evocare una risposta BOLD in
esperimenti di Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI). Stimoli in cui tutti i punti si
muovevano coerentemente lungo una traiettoria radiale, circolare o di traslazione
venivano alternati a stimoli di rumore. Una attività BOLD, correlata con l’alternanza
delle fasi dello stimolo, è stata misurata solo nella parte posteriore della area 37 di
Brodmann. Stimoli con moto circolare e radiale evocano risposte localizzate in aree
sovrapposte, mentre stimoli di traslazione eccitano un’area corticale vicina ma distinta e
più ventrale.
Conclusioni
Questi risultati mostrano che il flusso ottico è analizzato da meccanismi ad alta
efficienza che sono selettivi ai moti radiali di rotazione e di traslazione e che questi
meccanismi sono localizzati in aree visive secondarie, probabilmente omologhe delle
aree MT e MST della scimmia. In contrasto, il movimento di forme complesse, come
può essere la percezione del movimento biologico, non sembra essere effettuato da un
detettore ideale ad efficienza costante, ma piuttosto da una rete diffusa che si adatta
dinamicamente allo stimolo.
Riferimenti bibliografici
Burr, D. C., Morrone, M. C., Vaina, L. (1998). Large receptive fields
direction in humans. Vision Research, 38, 1731-1743.
Johansson, G. (1973). Visual perception of biological motion and a
analysis. Perception & Psychophysics, 14, 201-211.
Morrone, M. C., Burr, D. C., Vaina, L. (1995). Two stages of visual
radial and circular motion. Nature, 376, 507-509.
Neri, P., Morrone, M. C., Burr, D. C. (1997). Spatial and temporal
biological motion. Perception, 26, 90.
for optic flow
model for its
processing for
integration of
COPLANARITÀ E PERCEZIONE DEL MOVIMENTO:
EVIDENZA A FAVORE DELL’IPOTESI DELLA
SOPPRESSIONE
110
COMUNICAZIONI - PERCEZIONE
Fauzia Mosca{xe "Mosca F."}
Università degli Studi di Trieste Facoltà di Psicologia
Introduzione
Per recuperare il movimento di un oggetto, il sistema visivo deve risolvere il
cosiddetto problema dell’apertura. Esistono motivi di ritenere che la soluzione sfrutti
un processo di integrazione dei moti cinematici locali tenendo conto della struttura
spaziale dello stimolo (Wallach, 1935). In letteratura sono state proposte due ipotesi
alternative, quella della soppressione e quella della competizione, le quali si basano su
un principio di coplanarità per spiegare l’integrazione di tali moti. L’oggetto di questa
ricerca è lo studio dell’informazione spaziale fornita dalla parallasse binoculare
(scomponibile in disparità retinica e stereopsi di “Da Vinci”) e il suo ruolo
nell’integrazione cinematica. Vengono riportati i risultati di tre esperimenti sulla
percezione della velocità di un contorno presentato all’interno di una cornice
rettangolare. Le componenti presenti all’interno di questa configurazione corrispondono
al vettore perpendicolare all’orientazione del contorno (Vp) e al moto dei terminatori
del contorno lungo i margini della cornice (Vt).
Metodo e stimoli
Nel primo esperimento è stato condotto usando il metodo degli stimoli costanti,
il secondo e il terzo usando il metodo della doppia staircase. Veniva presentata una
cornice rettangolare, orientata verticalmente (esperimenti 1 e 2) oppure orizzontalmente
(esperimento 3) la quale poteva apparire di fronte (disparità crociata) o dietro (disparità
non-crociata) il piano del monitor, ed era attraversata da una barra orientata a 45 gradi,
della quale veniva misurata la velocità attraverso un compito 2AFC rispetto ad una
seconda barra, dalle medesime caratteristiche, posizionata sullo stesso piano
stereoscopico della prima, ma presentata successivamente ed in campo omogeneo. Per
controllare eventuali effetti dei movimenti oculari la durata della presentazione era pari
a 204 ms. In ogni prova, prima di dare il giudizio sulla velocità veniva svolto un
compito secondario di aggiustamento in profondità mediante il quale era possibile
controllare disparità retinica e fissazione. Per misurare eventuali bias soggettivi nel
compito di confronto successivo, nel secondo e nel terzo esperimento è stata aggiunta
una condizione di controllo nella quale gli osservatori confrontavano due barre
presentate in campo omogeneo, entrambe con movimento verticale o perpendicolare
(esperimento 2) oppure orizzontale o perpendicolare (esperimento 3). I PES ottenuti in
queste misure di controllo sono stati utilizzati come baseline per valutare l’effetto della
parallasse binoculare.
Analisi e risultati
L’analisi dei dati è stata svolta in tre stadi. Per prima cosa sono stati
determinati i PES, utilizzando l’analisi dei probit (primo esperimento) o calcolando la
media delle inversioni nelle staircase (secondo e terzo esperimento). Successivamente è
stata analizzata la variabilità dei giudizi nelle diverse condizioni. Infine, sono stati
confrontati i coefficienti angolari delle rette che meglio fittavano i PES in funzione della
velocità fisica dei contorni e della parallasse binoculare, con quelli attesi in base alle due
ipotesi. I risultati hanno confermato che è possibile studiare l’integrazione cinematica
COMUNICAZIONI - PERCEZIONE
111
usando confronti di velocità e stimoli molto brevi. In particolare, è emerso che i PES
nella condizione con disparità crociata risultano sistematicamente più alti rispetto alla
condizione con disparità non-crociata. Inoltre negli esperimenti 2 e 3 i PES della
condizione con disparità crociata sono risultati simili alla baseline di Vt, mentre i PES
della condizione disparità non-crociata sono risultati simili a quella di Vp. Non sono
state trovate differenze per quanto riguarda la variabilità nei giudizi fra le due
condizioni studiate. Infine, la differenza fra i coefficienti angolari delle rette che fittano i
PES è di circa 10 gradi.
Conclusioni
Nel loro complesso, i risultati confermano primo che il sistema visivo utilizza
un principio di coplanarità nell’integrazione delle velocità locali, e secondo che il
processo di integrazione è coerente con quanto proposto dall’ipotesi della soppressione.
Quando il contorno appare davanti alla cornice rettangolare, la sua velocità appare
uguale a quella di un contorno con uguali lunghezza, orientazione, e componenti locali
Vt e Vp. Viceversa, quando il contorno appare dietro la cornice la sua velocità appare
uguale a quella di un contorno che si muove lungo la sola componente Vp. Il risultato a
favore della soppressione viene inoltre confermato dall’andamento della variabilità dei
giudizi (se, come ipotizza l’ipotesi della competizione, in circa metà delle prove venisse
percepita Vt e nell’altra metà venisse percepita Vp, i PES dovrebbero avere una
variabilità maggiore rispetto al caso in cui una delle due componenti viene favorita
rispetto all’altra) e dalla differenza fra i coefficienti angolari delle rette che fittano i PES
(che risulta sempre di circa 10 gradi esattamente come ci si aspetterebbe se nella
condizione in cui la barra viene percepita dietro Vt venisse soppresso). Queste
conclusioni rimangono valide anche quando la coplanarità viene suggerita dalla sola
disparità retinica (finestra orizzontale, esperimento 3) in assenza di stereopsi di “Da
Vinci”.
Riferimenti bibliografici
Castet, E., Charton, V. & Dufour, A. (1999) The extrinsic/intrisic classification of 2D
motion signals with barber-pole stimuli. Vision Research, 39, 915-932.
Shimojo, S., Silverman, G. H., & Nakayama, K. (1989) Occlusion and the solution to
the aperture problem for motion. Vision Research, 29, 619-626.
Wallach, H. (1935) Über visuell wahrgenommene Bewegungsrichtung. Psychologische
Forscheung, 20, 325-380.
PROCESSI SERIALI NELLA COSTANZA DEL COLORE
Sabrina Plet{xe "Plet S."}, Walter Gerbino{xe "Gerbino W."}
Università di Trieste
Introduzione
Il fenomeno della costanza del colore si riferisce all’apparenza invariante del
colore delle superfici sotto sorgenti luminose cromaticamente differenti. In ricerche
112
COMUNICAZIONI - PERCEZIONE
precedenti (Foster et al., 1992, 1998a, 1998b), sono state simulate delle superfici
costituite da un numero variabile di regioni colorate per valutare l’ipotesi che i
cambiamenti di riflettanza di una regione simultanei a un cambiamento globale
dell’illuminazione sono elaborati in parallelo. In tali esperimenti la numerosità delle
regioni e la numerosità dei bordi di colore covariavano.
Metodo
Per evitare la confusione tra la numerosità delle regioni e la numerosità dei
bordi di colore, la costanza del colore è stata studiata usando 6 condizioni sperimentali.
Nelle condizioni c1, c4 e c6 erano presenti rispettivamente 2, 6 e 10 quadratini su uno
sfondo uniforme; nelle condizioni c2 e c5 erano presenti rispettivamente 2 e 6 quadratini
su uno sfondo articolato in 5 regioni; nella condizione c3 erano presenti 2 quadratini su
uno sfondo articolato in 9 regioni. Nelle condizioni c2 e c4 erano presenti 6 bordi di
colore, mentre nelle condizioni c3, c5 e c6 erano presenti 10 bordi di colore.
In ciascuna prova venivano presentate in sequenza 2 immagini, senza intervallo
di tempo. La prima immagine, presentata per 1s, era costituita da colori che simulavano
carte Munsell sotto l’illuminante D65. La seconda immagine, in cui l’illuminazione
cambiava da D65 alla sorgente luminosa A, scompariva alla risposta del soggetto.
Nella metà delle prove, nella seconda immagine, aveva luogo un simultaneo
cambiamento di riflettanza di un quadratino (target), corrispondente alla sua
illuminazione locale da parte della sorgente di luce C (invece di A). I soggetti venivano
informati che le regioni presenti sullo sfondo non cambiavano mai la loro riflettanza e
che quindi soltanto uno dei quadratini poteva essere il target.
Il compito consisteva nel decidere il più velocemente possibile se c’era stato un
cambiamento di riflettanza di uno dei 2, 6 o 10 quadratini presenti nello stimolo.
Risultati
Confrontando la prestazione nelle 6 condizioni non è stata trovata una
differenza significativa nel criterio di risposta. Ciò ha consentito di individuare la
funzione lineare nel dominio velocità della risposta e d’: velocità = .07 d’ + 1.10. In
base a questo è stata calcolata una misura sintetica dell’efficienza della prestazione che
combinava d’ e velocità della risposta, data dalla distanza tra l’intercetta della retta di
regressione e la proiezione ortogonale dei punti (d’, velocità) su tale retta.
La prestazione migliore è stata ottenuta nella condizione con il minor numero
di quadratini e la maggiore articolazione dello sfondo (c3). Dall’analisi delle condizioni
c1, c2 e c3, in cui il numero di quadratini era costante (= 2), è emerso che la prestazione
migliorava all’aumentare dell’articolazione dello sfondo. Dall’analisi delle condizioni
c3, c5 e c6, in cui il numero di bordi di colore era costante (= 10), è stato trovato un
peggioramento della prestazione all’aumentare del numero di quadratini. Dall’analisi
delle condizioni c1, c4 e c6, in cui l’articolazione dello sfondo era costante (= sfondo
uniforme), la prestazione non differiva a causa di una compensazione dovuta all’effetto
positivo del numero di bordi di colore e all’effetto negativo del numero di quadratini.
Da una regressione multipla sulle variabili articolazione dello sfondo e numero di bordi
di colore è risultato che la varianza spiegata era pari al 40% e la variabile numero di
bordi di colore non risultava significativa. Calcolando una regressione semplice sulla
COMUNICAZIONI - PERCEZIONE
113
variabile articolazione dello sfondo la varianza spiegata non diminuiva in modo
significativo ed era pari al 36%.
Conclusioni
Questi risultati suggeriscono che l’articolazione dello sfondo, costituita dalle
regioni irrilevanti dal punto di vista della ricerca del target, aumenta l’informazione sul
cambiamento di illuminazione e quindi favorisce la discriminazione tra gli stimoli in cui
le relazioni cromatiche sono preservate (cambiamento di illuminazione) da quelli in cui
sono violate (cambiamento di riflettanza di un quadratino simultaneo al cambiamento di
illuminazione). Questo effetto è consistente con quanto trovato da Melfi e Schirillo
(1999) in una ricerca in cui sono state utilizzati degli stimoli statici e acromatici.
I risultati suggeriscono che i cambiamenti di riflettanza sono elaborati in modo
seriale: quando il numero dei bordi di colore è costante la prestazione peggiora
all’aumentare della numerosità dei quadratini. Non è stata trovata nessuna differenza tra
le condizioni quando l’effetto negativo della numerosità dei quadratini viene
compensato dall’effetto positivo del numero di bordi di colore.
Riferimenti bibliografici
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and Physiological Optics, 12, 157 - 160.
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Parallel processing of surface-reflectance change under illuminant change.
Perception Supplement, vol. 27, 43a.
Foster D.H., Nascimento S.M.C., Arend L., Linnell K.J., Nieves J.L., Plet S. (1998b).
Parallel detection of violations in relational colour constancy. Investigative
Ophthalmology and Visual Science, vol. 39, no. 4, 2049.
Melfi T.O., Schirillo J.A., (1999). Lightness judgments on articulated surrounds suggest
an enhanced inference of illumination gradients. Investigative Ophthalmology
and Visual Science, vol. 40, no. 4, 3952.
114
COMUNICAZIONI - PSICOLINGUISTICA
PSICOLINGUISTICA
FREQUENZA E NUMEROSITÀ DEI NEIGHBORS: DECISIONE
LESSICALE E LETTURA DI NON-PAROLE
Lisa Arduino{xe "Arduino L."}*, Cristina Burani{xe "Burani C."}**
* Università “La Sapienza” e Istituto di Psicologia del CNR, Roma
** Istituto di Psicologia del CNR, Roma
Gli studi sul riconoscimento visivo di parole e di non-parole suggeriscono che
l’identificazione di un dato stimolo non dipende solo dalla sua forma ortografica, ma
anche dal numero (Coltheart, Davelaar, Jonasson e Besner, 1977) e dalla frequenza delle
forme ortograficamente simili (Segui e Grainger, 1990). Coltheart et al. (1977) e
Andrews (1989), esaminando gli effetti del numero di vicini ortografici in compiti di
decisione lessicale, hanno mostrato che i tempi di reazione per le non parole sono più
lenti quando queste hanno molti vicini, rispetto a quando ne hanno pochi.
Successivamente Grainger e Jacobs (1996) hanno trovato che il fattore che incide
maggiormente sulla velocità di riconoscimento di una non-parola, non è tanto la
numerosità, quanto piuttosto la frequenza dei vicini: gli autori hanno mostrato un effetto
facilitatorio della frequenza dei vicini e un non significativo effetto inibitorio della
numerosità degli stessi (l’effetto inibitorio era presente solo nel caso in cui tutti i vicini
erano di bassa frequenza). Sembra quindi che entrambi questi fattori siano determinanti
per la velocità e l’accuratezza con cui una non-parola viene riconosciuta come tale. Ciò
che è ancora oggetto di discussione è la direzione degli effetti e se e come questi due
fattori interagiscano.
I dati presenti in letteratura mostrano spesso dei risultati contrastanti,
soprattutto per quanto concerne la decisione lessicale. L’accordo è maggiore per i
compiti di lettura ad alta voce: sono molte le evidenze a favore di un effetto facilitatorio
della numerosità dei vicini sulla velocità con cui vengono lette le non-parole (McCann e
Besner, 1987; Peereman e Content, 1995; Weeks, 1997).
Scopo del nostro lavoro è stato di accertare quale ruolo possono avere il
numero dei vicini ortografici, la loro frequenza e la possibile interazione dei due fattori
nella lettura e nel riconscimento di non-parole. A questo fine abbiamo condotto due
esperimenti, il primo di decisione lessicale visiva, il secondo di lettura ad alta voce.
Metodo
Sono state create 60 non-parole, partendo da altrettante parole della lingua
italiana (tutte di 5 lettere) e cambiando la prima lettera. Abbiamo così ottenuto due
gruppi di stimoli caratterizzati dall’avere un alto o un basso numero di vicini ortografici
(media dei vicini ortografici: 4.3 versus 1.3). Inoltre le non-parole sono state
differenziate per la frequenza dei vicini: metà degli stimoli era caratterizzata dall’avere
un vicino di alta frequenza, mentre il/i vicino/i dell’altra metà era/erano sempre di bassa
frequenza (frequenza media: 229 e 19 calcolate su un milione di occorrenze).
COMUNICAZIONI - PSICOLINGUISTICA
115
Abbiamo così ottenuto un disegno fattoriale 2 x 2 (Numerosità dei vicini
ortografici: Alta/Bassa - Frequenza dei vicini ortografici: Alta/Bassa).
Hanno partecipato agli esperimenti 51 soggetti per il compito di decisione
lessicale e 30 soggetti per quello di lettura ad alta voce (età compresa tra i 20 e i 30
anni).
Risultati
I risultati dei due esperimenti mostrano un pattern contrastante. Nel compito di
lettura ad alta voce i TR variano in funzione della numerosità dei vicini ortografici: i
soggetti leggono più velocemente le non-parole che hanno un alto numero di vicini.
L’analisi degli errori mostra invece che è la frequenza dei vicini ad avere un ruolo
significativo: gli errori di lettura sono significativamente inferiori in presenza di quelle
non-parole che hanno un vicino di alta frequenza.
Per quanto riguarda la decisione lessicale, il solo fattore significativo risulta
essere la frequenza dei vicini ortografici: questa variabile esercita un ruolo inibitorio,
nel senso che basta che ci sia un vicino di alta frequenza perché i tempi della decisione
vengano penalizzati, e questo indipendentemente dalla numerosità. Lo stesso risultato lo
si ottiene dall’analisi sugli errori.
I risultati verranno discussi alla luce dei correnti modelli di accesso lessicale e
di lettura.
Riferimenti bibliografici
Andrews, S. (1992). Frequency and neighborhood effects on lexical access: Lexical
similarity or orthographic redundancy? Journal of Experimental Psychology:
Learning, Memory and Cognition, 18, 2, 234-254.
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New York: Academic Press.
Grainger, J., & Jacobs, A.M. (1996). Orthographic processing in visual word
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Performance, 13,1, 14-24.
Peereman, R., & Content, C. (1995). Neighborhood size effect in naming: Lexical
activation or sublexical correspondences? Journal of Experimental Psychology:
Learning, Memory and Cognition, 21, 2, 409-421.
Segui, J., & Grainger, J. (1990). Priming word recognition with orthographic neighbors:
Effects of relative prime-target frequency. Journal of Experimental
Psychology: Human Perception and Performance, 16, 65-76
Weeks, B.S. (1997). Differential effects of number of letters on word and nonword
naming latency. The Quarterly Journal of Experimental Psychology, 50A (2),
439-456.
116
COMUNICAZIONI - PSICOLINGUISTICA
EFFETTI SINTATTICI E SEMANTICI NELLA PRODUZIONE DI
NOMI E VERBI
Simona Collina{xe "Collina S."}, Patrizia Tabossi{xe "Tabossi P."}, Francesca
Cancian{xe "Cancian F."}
Università di Trieste
Nel corso degli ultimi anni, uno degli aspetti più studiati nell’ambito della
produzione del linguaggio riguarda il ruolo che le informazioni semantiche e sintattiche
delle parole hanno nei processi di recupero lessicale (Levelt, Roelofs, Meyer, in stampa;
Caramazza, 1997). Nonostante vi sia un grande interesse per questi temi, i modelli di
produzione restano tuttavia, nella maggior parte dei casi, sottospecificati a questi livelli
a causa delle difficoltà metodologiche che si incontrano nello studio on-line di questi
processi (Dell, 1986; Caramazza, 1997). Uno dei paradigmi al momento più usati per
indagare il corso dei processi lessicali per classi di parole quali i nomi e i verbi è il
picture-word interference. Il compito consiste nel denominare delle figure il più
velocemente ed accuratamente possibile ignorando dei distrattori parola che compaiono
sotto o sopra la figura. Alcuni studi hanno mostrato che quando il distrattore ha una
relazione semantica e/o sintattica con la figura, la latenza di inizio risposta è più lunga
rispetto a quando non esiste alcuna relazione(Glaser & Dungelhoff, 1984; Schriefers,
1993). Nella lingua olandese, lungo queste linee, sono stati trovati sia effetti semantici
di appartenenza categoriale sia effetti sintattici legati al genere grammaticale per i nomi
(Roelofs, 1992; Schriefers, 1993)che sono stati però solo parzialmente replicati in
italiano (Caramazza e Miozzo, 1998). Per ciò che riguarda i verbi gli unici effetti
evidenziati sono di natura semantica (Roelofs, 1993). I pochi dati presenti e i diversi
risultati ottenuti rendono il quadro di difficile interpretazione. In questo studio abbiamo
cercato di chiarire il ruolo che le informazioni sintattiche e semantiche dei nomi e dei
verbi hanno nel processo di produzione in italiano.
Nel primo esperimento abbiamo considerato i processi sintattici e semanticolessicali coinvolti nella produzione di sintagmi nominali articolo + nome. Sono stati
selezionati nomi, metà di genere grammaticale maschile e metà femminile, appartenenti
a cinque diverse categorie semantiche. Per ciascun nome è stata costruita una figura che
compariva in quattro diverse condizioni: 1)congruenza di genere e relazione semantica
tra figura e distrattore (ad es. gatto-lupo) 2) incongruenza di genere e relazione
semantica tra figura e distrattore (gatto-capra) 3) congruenza di genere ma diversa
categoria semantica (gatto-collo), 4)incongruenza di genere e diversa categoria
semantica (gatto-bocca). I partecipanti dovevano produrre il sintagma nominale articolo
+ nome (ad es. il gatto) ignorando la parola distrattore (ad es. lupo). La variabile
dipendente considerata era la latenza di inizio risposta.
Nel secondo esperimento abbiamo replicato in italiano lo studio condotto da
Roelofs (1993) sugli effetti semantici dei verbi. In questo caso la figura, che
rappresentava l’azione denotata dal verbo, era presentata in due diverse condizioni:
1)figura e distrattore avevano una relazione semantica (ad es. rotolare-scivolare) 2)
figura e distrattore non avevano relazione semantica (ad es. rotolare-cavalcare). La
procedura sperimentale era la stessa del precedente esperimento.
COMUNICAZIONI - PSICOLINGUISTICA
117
Nel terzo esperimento abbiamo invece cercato di estendere lo studio sugli
effetti sintattici trovati nei nomi alla categoria dei verbi indagando i processi relativi
alla selezione dell’ausiliare (essere vs avere). In questo caso i partecipanti dovevano
denominare la figura producendo il passato prossimo del verbo (ad es. ha corso). Il
distrattore, presentato anch’esso nella forma passata, poteva o prendere lo stesso
ausiliare del verbo da denominare(ha dormito) oppure ausiliare diverso (è esploso). La
procedura sperimentale era la stessa usata nei precedenti esperimenti.
I risultati ottenuti indicano che esistono effetti di interferenza per le diverse
classi di parole studiate, ma evidenziano anche come il paradigma sperimentale
utilizzato sia solo parzialmente sensibile nello studio di questi diversi aspetti
(Caramazza & Miozzo, 1998). Ulteriori analisi sono in corso. Le implicazioni per gli
attuali modelli di produzione e le future linee di ricerca sono al momento in discussione.
Riferimenti bibliografici
Caramazza, A. (1997). How many levels of processing are there inlexical access?
Cognitive Neuropsychology, 14, 177-208.
Dell, G. S. (1986). A spreading activation theory of retrieval insentence production.
Psychological Review, 97, 332-361.
Glaser, W. R., & Dungelhoff, F. (1984).The time course ofpicture-word interference.
Journal of Experimental Psychology:Human Perception and Performance, 10,
640-654.
Levelt, W. J. M., Roelofs, A., Meyer, A. S. (in stampa). A theory oflexical access in
speech production. Behavioural and Brain Science.
Miozzo, M., & Caramazza, A. (1998). The selection of lexical-syntactic features:
Evidence from the picture-word interference paradigm. Paper presented at the
Psychonomics Society, Dallas,November 1998.
Roelofs, A. (1992). A spreading activation theory of lemma retrievalin speaking.
Cognition, 42, 107-142.
Roelofs, A. (1993). Testing a non-decompositional theory of lemmaretrieval in
speaking: Retrieval of verbs. Cognition,47, 59-87.
Schriefers, H. (1993). Syntactic processes in the production of nounphrases. Journal of
Experimental Psychology: Learning, Memory and Cognition, 19, 841-850.
COMPRENSIONE DI FRASI INTERROGATIVE IN BAMBINI
DAI 3 AGLI 11 ANNI.
Marica De Vincenzi{xe "De Vincenzi M."}*, Lisa Arduino{xe "Arduino L."}**,
Laura Ciccarelli{xe "Ciccarelli L."}***, Remo Job{xe "Job R."}***
* Università di Chieti e Istituto di Psicologia del CNR, Roma
** Università “La Sapienza” e Istituto di Psicologia del CNR, Roma
*** Università di Padova
La frase interrogativa è una delle strutture più comuni e fondamentali del
linguaggio. In questo lavoro ci concentriamo su un tipo particolare di frasi interrogative:
118
COMUNICAZIONI - PSICOLINGUISTICA
quelle introdotte dai pronomi interrogativi CHI/QUALE, che possono avere il ruolo di
oggetto o soggetto della frase. Prendiamo ad esempio la frase (1):
Chi ha chiamato la vecchietta?
Questa frase può essere interpretata con il pronome CHI come soggetto oppure
come oggetto del verbo CHIAMARE. Le nostre conoscenze pragmatiche o il contesto
nel quale la frase è inserita permettono di disambiguare questa frase che, presa
isolatamente, è di per sé ambigua.
Un altro fattore di disambiguazione è rappresentato dall’accordo morfologico
di numero tra il soggetto e il verbo. In (2) il CHI è soggetto, ma in (3) il CHI è oggetto,
in quanto il verbo plurale concorda con il nome post-verbale CANI:
(1) Chi inseguiva i cani?
(2) Chi inseguivano i cani?
In ambito psicolinguistico, diversi lavori hanno dimostrato che le frasi
interrogative impegnano in maniera considerevole l’analizzatore del linguaggio, in
quanto il pronome interrogativo deve essere tenuto in memoria fino a che non si arrivi
ad una interpretazione univoca del suo ruolo all’interno della frase. Il Principio di
Catena Minima (De Vincenzi, 1991) prevede che, data la struttura Pronome
Interrogativo – Verbo – Nome, l’analisi preferita è quella con il pronome interrogativo
interpretato come soggetto. Questa ipotesi di scelta immediata di una interpretazione è
stata confermata sperimentalmente su soggetti adulti italiani (De Vincenzi, 1991) e per
lingue diverse dall’Italiano (es. Frazier, Clifton, 1989; Frazier, Flores D’Arcais, 1989)
in compiti che ponevano il soggetto in condizioni di pressione temporale.
Scopo di questo lavoro è stato di indagare il comportamento di soggetti in età
evolutiva, in modo da valutare a quale età le diverse interpretazioni delle frasi
interrogative Soggetto/Oggetto vengano correttamente comprese.
L’ipotesi sperimentale è che i bambini, così come gli adulti sotto pressione
temporale, risentano delle limitate capacità della memoria di lavoro e pertanto mostrino
di preferire l’interpretazione del pronome interrogativo come soggetto, nonostante
conoscano già l’accordo soggetto-verbo.
Tale ipotesi è stata confermata in uno studio precedente (De Vincenzi, Rellini,
e Arduino, 1997) condotto su un campione di 176 bambini dai 3 agli 11 anni, della città
di Roma. Ai bambini è stato somministrato un test (De Vincenzi, 1996) composto da 72
frasi, di cui 36 sperimentali e 36 fillers. Abbiamo utilizzato i pronomi interrogativi CHI
e QUALE+NOME in frasi come:
(3)
a. Chi sta inseguendo i gatti? (CHI Soggetto)
b. Chi stanno inseguendo i gatti? (CHI Oggetto)
c. Quale cane sta inseguendo i gatti? (QUALE Soggetto)
d. Quale cane stanno inseguendo i gatti? (QUALE Oggetto)
Compito del bambino era di indicare la risposta corretta su un disegno che
illustra i personaggi dell’azione. I risultati hanno confermato le nostre predizioni; per
tutte le fasce d’età risulta significativo il ruolo grammaticale: i bambini commettono più
errori nell’interpretare il pronome interrogativo quando riveste il ruolo di “oggetto”
della frase interrogativa. Un secondo risultato riguarda i bambini fino ai 6 anni d’età: la
comprensione della frase interrogativa, quando il pronome è “oggetto” della frase,
risulta significativamente più difficile in presenza del QUALE+NOME.
COMUNICAZIONI - PSICOLINGUISTICA
119
Il presente lavoro ha avuto lo scopo di estendere lo studio precedentemente
compiuto, in modo da valutare la persistenza dei risultati ottenuti, estendendo il
campione ad altre città e quindi ad un gruppo numericamente più consistente e
rappresentativo della popolazione nazionale. La prova è stata infatti somministrata a 300
bambini delle città di Padova e Palermo.
Verranno discussi i dati relativi al confronto tra i campioni esaminati.
Riferimenti bibliografici
De Vincenzi, M. (1991). Syntactic Parsing Strategies in Italian. Kluwer Academic.
Dordrecht: The Netherlands.
De Vincenzi, M., (1996). Test di Comprensione delle frasi Interrogative
Soggetto/Oggetto in Italiano. Istituto di Psicologia del CNR, Roma.
De Vincenzi, M., Rellini, E., Arduino, L. La comprensione delle frasi interrogative.
Relazione presentata al Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia
Sperimentale, 22-24 settembre 1997, Capri, Italia.
Frazier, L., & Clifton, C. (1989). Successive cyclicity in the grammar and the parser.
Language and Cognitive Processes, 4, 2, 93-126.
Frazier, L., & Flores D’Arcais, G.B. (1989). Filler-driven parsing: A study of gap-filling
in Dutch. Journal of Memory and Language, 28, 331-344.
LE RAPPRESENTAZIONI SEMANTICO-LESSICALI
NELL’ELABORAZIONE DELLA PAROLA SCRITTA
Massimo Girelli{xe "Girelli M."}, Remo Job{xe "Job R."}
DPSS, Università di Padova
Rispetto all’organizzazione del lessico mentale, molte teorie sulla produzione
del linguaggio convergono su due punti fondamentali: primo, le informazioni
semantiche, morfo-sintattiche, fonologiche di una parola sono rappresentate
autonomamente: la semantica (il significato della parola) è codificata nel sistema
concettuale, la sintassi e la fonologia sono codificate nel magazzino lessicale. Secondo,
l’accesso a tali informazioni avviene in maniera sequenziale.
L’ipotesi di un’ulteriore distinzione tra rappresentazione della morfo-sintassi e
della fonologia all’interno del lessico è sostenuta da evidenze provenienti dall’analisi
degli errori linguistici, dalla neuropsicologia, dai dati sperimentali in prove di decisione
lessicale e di denominazione di figure, dallo studio di fenomeni che occorrono nel
linguaggio normale (“la parola sulla punta della lingua”). Nel processo di produzione
del linguaggio vengono selezionate inizialmente le proprietà sintattiche della parola, il
lemma, e successivamente viene recuperata la struttura fonologica dell’item lessicale, il
lessema (Levelt, Roelofs & Meyer 1999).
La nostra ricerca indaga i processi di recupero dell’informazione semantica,
grammaticale e fonologica a partire da una parola presentata visivamente. Considerando
l’autonomia delle rappresentazioni cognitive all’interno del lessico mentale, avanziamo
l’ipotesi che si possano distinguere tre diversi stadi di elaborazione anche in compiti che
120
COMUNICAZIONI - PSICOLINGUISTICA
prevedono l’analisi di un input ortografico. Dal punto di vista sperimentale, si può
assumere che la fase di recupero della semantica sia computazionalmente autonoma dal
recupero della sintassi; é possibile affrontare questo aspetto osservando se la
manipolazione di una proprietà semantica (es. la prototipicità) influisce su un giudizio di
categorizzazione semantica, ma non su una prova di attribuzione del genere
grammaticale. In due diversi esperimenti sono stati scelti compiti sperimentali che
indagano selettivamente i processi di recupero dei livelli di rappresentazione semantici,
sintattici e fonologici della parola. Nel primo esperimento veniva usato un compito di
categorizzazione (oggetto biologico vs. manufatto) e un compito di assegnazione
dell’articolo determinativo, (articolo “il” vs. articolo “la”). Le parole differivano per il
grado di tipicità rispetto alla categoria di appartenenza (alto vs. basso) e per la
trasparenza morfologica (opaca vs. trasparente). I tempi di risposta agli stimoli
sperimentali (N=64) di 24 soggetti sono stati sottoposti ad analisi della varianza,
considerando i seguenti fattori: compito, prototipicità e morfologia. I risultati mostrano
un effetto di interazione tra il tipo di compito e il tipo di variabile linguistica
manipolata: nella categorizzazione semantica si osserva un effetto della prototipicità ma
non della morfologia, nell’assegnazione dell’articolo determinativo si osserva il pattern
opposto.
Nel secondo esperimento abbiamo verificato l’ipotesi della distinzione lemmalessema utilizzando compiti e modalità di registrazione della risposta differenti rispetto
al primo esperimento: in una condizione, i soggetti eseguivano una prova di lettura e la
risposta veniva registrata mediante voice-key. La seconda condizione consisteva nella
produzione del sintagma nominale (articolo determinativo + sostantivo). Sono state
manipolate la morfologia (vedi sopra) e la struttura dell’accento (regolare: sulla
penultima sillaba vs. irregolare: sull’antepenultima sillaba), in base all’assunzione che
questa caratteristica influenzi la velocità di lettura. In entrambe le prove sullo schermo
compariva la parola-stimolo costituita dal solo sostantivo. L’analisi della varianza
(fattori: compito, tipo di accento e morfologia) ha dato i seguenti risultati: nella
produzione del sintagma nominale è significativa la morfologia, ma non il tipo di
accento. Nella prova di lettura invece non si osserva né un effetto della morfologia, né
un effetto dell’accento. Complessivamente i risultati dei due esperimenti sembrano
sostenere l’ipotesi che esistano tre stadi distinti di elaborazione dell’input ortografico. È
interessante sottolineare che anche nell’elaborazione di una parola scritta si possa
identificare una fase di recupero della rappresentazione cognitiva del genere
grammaticale distinta dal recupero della semantica e della fonologia della parola. Resta
da chiarire se il lemma svolge un ruolo di mediazione tra semantica e fonologia, come
nella produzione del linguaggio (vedi però Caramazza 1997) e in quali situazioni
sperimentali - ad es. lettura di singoli sostantivi - si possa prevedere un’attivazione
dell’informazione contenuta nel lemma. Ulteriori studi in questa direzione
consentirebbero di definire la sequenza di attivazione delle rappresentazioni cognitive
all’interno del lessico e della memoria concettuale.
Riferimenti bibliografici
Caramazza, A. (1997). How many levels of processing are there in lexical access?
Cognitive Neuropsychology, 14, 177-208.
COMUNICAZIONI - PSICOLINGUISTICA
121
Levelt, J. M., Roelofs, A. & Meyer, A. S. (1999). A theory of lexical access in speech
production. Behavioral and Brain Sciences (in press).
EFFETTI DI PRIMING INTRA-LESSICALE NELLA
COMPRENSIONE DEI NOMI PROPRI
Corrado Lo Priore{xe "Lo Priore C."}, Tim Brennen{xe "Brennen T."}°
Istituto di Psicologia, Università di Pavia
°Dipartimento di Psicologia, Università di Tromsø, Norvegia
La comprensione di un nome scritto in termini cognitivi viene identificata nel
processo tramite il quale un soggetto che legge un nome proprio a lui noto, riesce dal
codice visivo di input ad attivare la rappresentazione semantica della persona (o del
luogo, del mese, dell’opera ecc.) corrispondente.
Il primo modello funzionale del riconoscimento di volti e nomi è stato proposto
da Valentine et al. (1991). Questo modello definisce esplicitamente una analogia fra il
riconoscimento dei nomi propri scritti ed il riconoscimento di altre parole; in specifico
vengono postulate delle word recognition units (WRUs) che identificano le parole
all’interno dei codici visivi di input e delle name recognition units (NRUs) che tra le
parole identificano i nomi propri conosciuti.
Nel 1996 Valentine, Brennen & Brédart operano una generale revisione del
modello (Fig. 1).
122
COMUNICAZIONI - PSICOLINGUISTICA
Figura 1 La struttura interna del lessico semantico (adattato da Valentine, Brennen &
Brédart, 1996)
Relativamente alla comprensione di parole scritte e alla produzione di nomi,
questi autori introducono e motivano i seguenti aggiustamenti al modello: alle NRUs
vengono sostituiti i lemmi, unità linguistiche non specificate fonologicamente, comuni
ai lessici di input e output; i lessici di input ed output vengono entrambi frazionati in un
lessico fonologico (WRUs per l’input e lessemi per l’output) ed un lessico semantico
(lemmi); all’interno del lessico semantico comune i lemmi per i nomi propri vengono
organizzati secondo la struttura proposta da Burke et al. (1991), ovvero con i lemmi per
il nome completo (primo nome + cognome oppure iniziale + cognome) sovraordinati ai
lemmi per i primi nomi ed ai lemmi per i cognomi.
In particolare si noti che le connessioni tra le WRUs e i lemmi sono
bidirezionali, così come le connessioni tra lemmi per nomi o cognomi e lemmi per nomi
completi. Questa assunzione del modello implica la possibilità di osservare effetti di
priming top-down nel processo di comprensione dei nomi scritti. Abbiamo esplorato
questa possibilità tramite due esperimenti.
L’esperimento 1 intende verificare la presenza di un effetto facilitante da parte
dei lemmi per i nomi completi sulla velocità di attivazione dei lemmi per i primi nomi e
per i cognomi. È stato utilizzato un paradigma sperimentale di decisione lessicale: a 30
soggetti norvegesi sono stati presentati su un monitor dei nomi propri completi (primo
nome + cognome). Sia i primi nomi che i cognomi utilizzati erano molto comuni in
Norvegia, in metà dei trials però uno di questi conteneva un errore (sostituzione di una
lettera). Il compito del soggetto era quello di giudicare la correttezza di entrambi i nomi
(ad es. Roald Hansen = ‘Si’, Poald Hansen = ‘No’) tramite tastiera ed il tempo di
reazione di scelta veniva registrato.
In realtà metà dei trials “corretti” (risposta ‘Sì) contenevano delle associazioni
di nome e cognome corrispondenti a noti personaggi norvegesi (ad es. Bjørn Dæhlie,
Morten Harket), mentre nell’altra metà di trials erano stati accostati gli stessi nomi, ma
in associazioni non esistenti nella realtà (Bjørn Harket, Morten Dæhlie). Nonostante il
fatto che non fosse richiesto ai soggetti alcun giudizio di familiarità sui nomi, il tempo
di scelta medio per i nomi di persone famose è stato di 997 msec (SD=293), rispetto ad
un tempo medio di 1200 msec (SD=347) per le associazioni inesistenti degli stessi
componenti. La differenza di 203 msec è significativa al t-test (p<.001).
Si conclude che, in linea con quanto previsto dal modello, la familiarità con un
nome completo (ovvero la presenza di un relativo lemma nel lessico semantico) esercita
un effetto facilitante sulla velocità di elaborazione dei suoi componenti.
L’esperimento 2 utilizza un paradigma di decisione lessicale simile al
precedente per verificare la presenza di un effetto facilitante sulla velocità di attivazione
delle WRUs da parte dei lemmi del lessico semantico. Gli stessi 30 soggetti dovevano
decidere se fosse possibile dividere le parole che venivano presentate sullo schermo in
altre due parole norvegesi esistenti.
In realtà metà dei trials “scomponibili” (risposta ‘Si’) era costituita da parole
che sono anche cognomi norvegesi molto noti (ad es. Båtnes, Forberg), mentre le altre
parole, pur essendo costituite dagli stessi componenti, non erano note (Båtberg, Fornes).
Nonostante il fatto che non fosse richiesto ai soggetti alcun giudizio di familiarità sulle
COMUNICAZIONI - PSICOLINGUISTICA
123
parole, il tempo di scelta medio per i cognomi di persone famose è stato di 1022 msec
(SD=378), rispetto ad un tempo medio di 1081 msec (SD=422) per le parole ignote. La
differenza di 59 msec è significativa al t-test (p<.05).
Si conclude che, in linea con quanto previsto dal modello, la familiarità con un
cognome (ovvero la presenza di un relativo lemma nel lessico semantico) esercita un
effetto facilitante sulla velocità di elaborazione dei suoi componenti.
In conclusione i nostri due esperimenti, rilevando effetti intra-lessicali di
priming top-down, supportano l’organizzazione del lessico proposta nel modello di
Valentine, Brennen & Brédart (1996). Saranno inoltre discusse le implicazioni che i
nostri dati possono avere in relazione alla ‘summation hypothesis’ di Hillis &
Caramazza (1991) e ad una possibile interpretazione della ‘arbitrariness hypothesis’ di
Cohen (1990).
Riferimenti bibliografici
Burke, D., MacKay, D., Worthley, J., & Wade, E. (1991). On the Tip of the Tongue:
What causes word finding failure in young and older adults? Journal of
Memory and Language, 30, 542-579.
Cohen, G. (1990). Why is it difficult to put names to faces? British Journal of
Psychology, 81, 287-297.
Hillis, A.E., & Caramazza, A. (1991). Mechanisms for accessing lexical representations
for output: Evidence from a category-specific semantic deficit. Brain &
Language, 40, 106-144.
Valentine, T., Brédart, S., Lawson, R., & Ward, G. (1991). What’s in a name? Access to
information from peoplès names. European Journal of Cognitive Psychology, 3
(1), 147-176.
Valentine, T., Brennen, T., & Brédart, S. (1996). The Cognitive Psychology of Proper
Names. London: Routledge.
NUMEROSITÀ DI FORME FLESSE E PROCESSO DI
RICONOSCIMENTO DI PAROLE PRESENTATE
VISIVAMENTE
Daniela Traficante{xe "Traficante D."}*, Cristina Burani{xe "Burani C."} **
* Dipartimento di Psicologia, Università Cattolica di Milano
** Istituto di Psicologia del C.N.R., Roma
Scopo del lavoro è valutare se la numerosità delle forme flesse legate alla
stessa radice (es. cammin-are, cammin-iamo, cammin-ate, cammin-ano ecc.)
(inflectional family size) influenza le modalità di rappresentazione e le procedure di
riconoscimento delle parole che contengono tale radice.
Si può ipotizzare che quando una radice compare in molte forme flesse sia più
probabile che essa si configuri come un’unità d’accesso facilmente isolabile dai suffissi
124
COMUNICAZIONI - PSICOLINGUISTICA
a cui è collegata. Per questo motivo il riconoscimento di ciascuna forma flessa potrebbe
avvenire perlopiù mediante scomposizione morfemica.
Per il riconoscimento di una parola con elevata inflectional family size, la
procedura di scomposizione e l’accesso mediante la rappresentazione della radice può
comportare sia dei vantaggi che degli svantaggi. Da un lato, l’accesso mediante la radice
(es. cammin-) potrebbe risultare più vantaggioso, in quanto verrebbe utilizzata una
rappresentazione d’accesso con una frequenza di attivazione che, rispecchiando la
frequenza cumulata della radice, risulta molto maggiore rispetto a quella corrispondente
alla parola intera (es. camminano). D’altro lato, però, l’accesso tramite la radice
potrebbe comportare dei processi di scomposizione prelessicale e di ricomposizione
postlessicale che aumenterebbero il tempo necessario al riconoscimento della parola
presentata, come viene illustrato dal modello di Baayen, Dijkstra & Schreuder (1997) (si
veda anche, per l’italiano, Baayen, Burani e Schreuder, 1997).
Per valutare l’effetto della numerosità delle forme flesse sui processi di
riconoscimento delle parole e coglierne la direzione (cioè se esso comporti un
rallentamento o una facilitazione del processo), sono stati predisposti due esperimenti:
uno di decisione lessicale visiva e uno di riconoscimento percettivo tramite la procedura
del progressive demasking.
Esperimento 1
Metodo
Partecipanti. 40 studenti dell’Università Cattolica di Milano.
Stimoli. Utilizzando il BDVDB di Thornton, Iacobini e Burani (1997), sono stati
selezionati 28 verbi e 28 aggettivi con struttura morfologica semplice. Queste due
categorie lessicali sono state scelte in quanto sono pareggiabili per le principali variabili
psicolinguistiche, pur essendo molto diverse per la numerosità di forme flesse. I verbi
sono stati presentati nelle persone singolari dell’indicativo per pareggiarli per lunghezza
della parola e della flessione con gli aggettivi.
Procedura. È stato utilizzato un compito di decisone lessicale, in cui gli stimoli,
presentati in ordine randomizzato, insieme a parole-filler e a non-parole, permanevano
sullo schermo fino alla risposta del soggetto e, comunque, per un tempo massimo di
1000 msec.
Risultati.
È risultata una differenza altamente significativa tra i due gruppi di stimoli. I verbi
hanno prodotto tempi di reazione e un numero di errori significativamente superiori agli
aggettivi [tempi di reazione: minF’(1,78) = 10.83, p < .001; errori: F1(1,39) = 15.44, p
< .001, F2 (1,54) = 4.61, p < .05).
Esperimento 2
Metodo
Partecipanti. 26 studenti dell’Università Cattolica di Milano.
Stimoli. Gli stimoli erano le parole dell’esperimento precedente.
Metodo. Le parole sono state presentate contemporaneamente ad un mascheramento
(####). Il tempo di esposizione del mascheramento decresceva progressivamente fino a
consentire l’identificazione della parola presentata.
Risultati
COMUNICAZIONI - PSICOLINGUISTICA
125
È nuovamente emersa una differenza significativa tra verbi e aggettivi nei tempi di
reazione, con una netta penalizzazione per i primi [minF’(1,63) = 3.75; p < 0.05].
Discussione
Il risultato principale emerso da entrambi gli esperimenti è che l’alta
numerosità delle forme flesse comporta un sostanziale rallentamento del processo. In
base al modello di Baayen et al. (1997), questi dati sembrano indicare che per gli
aggettivi potrebbe prevalere una modalità di riconoscimento basata essenzialmente sulla
forma globale della parola, più rapida, mentre nel caso dei verbi verrebbe maggiormente
utilizzata una procedura di scomposizione morfemica, più lenta. Ulteriori esperimenti e
simulazioni verranno condotti per chiarire il ruolo delle variabili psicolinguistiche
considerate.
Riferimenti bibliografici
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the processing of regular nominal singulars and plurals in Italian. In: Booij, G.
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Thornton, A. M., Iacobini, C. & Burani, C. (1997). Una base di dati sul vocabolario di
base della lingua italiana. Bulzoni Editore, Roma.
126
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA ANIMALE E COMPARATA
PSICOLOGIA ANIMALE E COMPARATA
MODELLI ANIMALI PER LO STUDIO DELLA RISPOSTA AL
DOLORE: EFFETTI DELLA STIMOLAZIONE DEI RECETTORI
PER L’ADENOSINA
Valentina Borghi{xe "Borghi V."}, Flaminia Pavone{xe "Pavone F."}*
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
*Istituto di Psicobiologia e Psicofarmacologia del CNR, Roma
Una caratteristica fondamentale del sistema nocicettivo e la plasticità
dell’organizzazione funzionale. Sia le modificazioni dell’attività dei neuroni del S.N.C.
che l’effetto analgesico dei farmaci appaiono infatti in relazione a diversi fattori come il
tipo, l’intensità, la durata e la sede di applicazione degli stimoli nocivi, oltre che
all’integrità delle strutture nervose periferiche e centrali (Wall & Melzack, 1994).
Per comprendere i meccanismi fisiopatologici sottostanti al dolore acuto e
cronico nell’uomo è quindi indispensabile utilizzare modelli sperimentali animali che ci
consentono di quantificare il dolore provato dall’animale al variare di diversi parametri.
I tests sperimentali che permettono di studiare non solo i processi nocicettivi,
ma anche l’efficacia di nuovi analgesici, si dividono in due gruppi in base alla durata
dell’esperienza nocicettiva a cui viene sottoposto l’animale. Si distinguono così tests
nocicettivi che misurano la latenza delle risposte comportamentali a stimoli nocivi di
breve durata o “di tipo fasico” (Tail Flick, Paw Pressure, Hot Plate e Pinch Test) e tests
nocicettivi che misurano la latenza delle risposte comportamentali a stimoli nocivi di
lunga durata o “di tipo tonico” (Test della Formalina e Writhing Test). Trattamenti con
sostanze in grado di antagonizzare la risposta nocicettiva, come ad esempio l’utilizzo di
oppioidi, hanno dato effetti differenti a seconda dei tests utilizzati. Per ottenere quindi
un quadro completo circa gli effetti analgesici di una data sostanza è necessario
utilizzare modelli animali che differiscono tra loro per qualità, intensità e durata dello
stimolo nocicettivo applicato.
Tra le molecole maggiormente studiate per il loro coinvolgimento nella
modulazione della risposta al dolore vi sono gli Oppioidi, la sostanza P, l’Acetilcolina,
il Glutammato, la Serotonina, la Noradrenalina, il GABA, ecc.
Un numero sempre più consistente di dati in questi ultimi anni ha inoltre
attribuito un ruolo importante anche all’Adenosina, appartenente alla famiglia delle
“Purine”, nel controllo della nocicezione. I recettori purinergici sono suddivisi in 2
sottotipi recettoriali Pl e P2. L’Adenosina ed i suoi composti si legano al recettore di tipo
Pl (Ralevic & Burnstock, 1998), ulteriormente suddiviso in 4 diversi sottotipi : Al, A2A,
A2B e A3. Tra questi, i recettori Al e A2A sono quelli che sembrano maggiormente
influenzare la trasmissione del dolore sia a livello periferico che spinale (Sawynok,
1998).
Lo scopo del nostro lavoro e stato quello di valutare gli effetti di un agonista
molto selettivo per il recettore Al, la CPA (N6-Cyclopentyladenosina), sulla nocicezione
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA ANIMALE E COMPARATA
127
e di investigare se esistono delle differenze dipendenti dalla natura dello stimolo
nocicettivo (termico o chimico) e dal tipo di dolore elicitato (fasico o tonico).
A questo scopo sono state somministrate per via intraperitoneale 6 diverse dosi
di CPA (da 0,015 a 0,3 mg/Kg) a topi maschi CD1 e sono state misurate le risposte
comportamentali nei tests del Tail Flick, della Formalina e del Writhing che misurano
risposte a stimoli nocivi di diversa natura. I dati sono stati poi analizzati mediante
l’Analisi della Varianza.
I risultati indicano che la CPA ha un effetto analgesico in tutti i tests utilizzati e
che questi effetti sono dose- e tempo-dipendenti.
In conclusione, questo studio conferma l’azione analgesica dell’attivazione dei
recettori Al dell’Adenosina e dimostra che tale effetto analgesico e osservabile in tests
sia di dolore fasico che tonico.
Riferimenti bibliografici
Herrick-Davis K., Chippari S., Luttinger D., Ward S. (1989). Evaluation of Adenosine
as potential analgesics. Eur. J. of Pharmacology, 162,365-369.
Ralevic V., Bumstock G. (1998). Receptors for Purines and Pyrimidines.
Pharmacological Reviews, 50,3,413-492.
Sawynock J. (1998). Adenosine receptor activation and nociception. Eur. J. of
Pharmacology, 317,1-11.
Wall P., Melzack R. (1994). Textbook of Pain, 3rd ed. Edinburgh: Churchill
Livingstone.
DISTURBI COMPORTAMENTALI E
NEUROTRASMETTITORIALI IN TOPI PAH ENU-2: UN
MODELLO PRECLINICO DI FENILCHETONURIA
Tiziana Pascucci{xe "Pascucci T."}1,2*, Rossella Ventura{xe "Ventura R."}1,2,
Simona Cabib{xe "Cabib S."}1,2, Francesco Calì{xe "Calì F."}3, Valentino
Romano{xe "Romano V."}3, Stefano Puglisi-Allegra{xe "Puglisi-Allegra S."}1
1
Dip. di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
2
Istituto di Psicobiologia e Psicofarmacologia (C. N. R.), Roma
3
OASI Maria SS. Troina, Italia
La fenilchetonuria (PKU) è un disturbo autosomale recessivo causato da
mutazioni nel gene che codifica per la fenilalanina idrossilasi (Pah), l’enzima che
converte la fenilalanina (Phe) in tirosina. Tali mutazioni producono un’assenza o una
riduzione dell’attività della Pah nel fegato che porta ad un accumulo di Phe nel plasma
accompagnato da una riduzione dei livelli di tirosina. Questo disturbo genetico, se non
trattato, può produrre danno cerebrale e grave ritardo mentale. Il trattamento della PKU
consiste nel sottoporre, fin dai primi mesi di vita e per tutta l’adolescenza, i pazienti
fenilchetonurici ad una dieta a basso contenuto di Phe. Tuttavia in adolescenti e giovani
adulti con PKU precocemente trattata ma in modo discontinuo sono stati recentemente
128
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA ANIMALE E COMPARATA
osservati disturbi di tipo emotivo, inclusi ansia, depressione, impoverimento dei
rapporti sociali e suscettibilità emotiva, disturbi del pensiero e della personalità
(Waisbren e Levy, 1991; Waisbren e Zaff, 1994). Negli ultimi anni, utilizzando un
mutageno chimico, l’N-ethyl-N-nitrosurea (ENU), nella linea germinale del topo è stato
possibile indurre mutazioni nel locus per la Pah del topo; la mutazione PAH ENU-2
(ENU2) è quella che ha esibito le caratteristiche fenotipiche presenti nella PKU classica
osservata nell’uomo (Shedlovsky e al.,
1993).
Gli esperimenti qui riportati hanno valutato i livelli delle amine in tre strutture
cerebrali (corteccia prefrontale, nucleus accumbens e caudatus-putamen), il disturbo
cognitivo e le reazioni emozionali nei topi ENU-2 rispetto ai wild-type.
I topi ENU-2 hanno mostrato un forte disturbo di apprendimento nel test
dell’active avoidance. Inoltre hanno esibito un profilo comportamentale simildepressivo nel test del nuoto forzato. La quantificazione delle amine cerebrali in questi
animali ha rivelato una riduzione significativa dei livelli di dopamina (DA) e dei suoi
metaboliti, acido diidrossifenilacetico (DOPAC) e acido omovanillico (HVA), così
come della serotonina (5-HT) e del suo metabolita, l’acido idrossiindolacetico (5-HIIA),
in tutte e tre le strutture esaminate. Per quanto riguarda la noradrenalina (NE), invece, si
è osservata una riduzione dei suoi livelli solo nella pFC.
Questi risultati mostrano un grave deficit cognitivo e disturbi emozionali, come
pure deficit nel funzionamento dei neurotrasmettitori cerebrali nei topi ENU-2,
supportando l’uso di questi animali come modello preclinico della PKU umana.
Riferimenti bibliografici
Shedlovsky, A., McDonald, J. D., Symula, D., e Dove, W. F. Mouse models of human
phenylketonuria. Genetics 134: 1205-1210 (1993).
Waisbren, S. E. e Levy, H. L. Agoraphobia in phenylketonuria. Journal of Inherited
Metabolic Desease 14: 755-764 (1991).
Waisbren, S. E. e Zaff, j. Personality disorder in young women with treated
phenylketonuria. Journal of Inherited Metabolic Desease 17: 584-592 (1994).
RUOLO DELL’INTERAZIONE TRA IL SISTEMA
DOPAMINERGICO MESOCORTICALE E MESOLIMBICO
NELL’ADATTAMENTO ALLO STRESS CON RIFERIMENTO A
MODELLI SPERIMENTALI DI PSICOPATOLOGIE
°*Rossella Ventura{xe "Ventura R."}, °Stefano Puglisi-Allegra{xe "Puglisi-Allegra
S."}, °*Simona Cabib{xe "Cabib S."}
°Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
*Istituto di Psicobiologia e Psicofarmacologia (C. N. R.), Roma
Negli ultimi anni, un numero crescente di studi ha indicato il sistema
dopaminergico Mesocorticolimbico come uno dei possibili circuiti neuronali implicati
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA ANIMALE E COMPARATA
129
nella patogenesi di patologie associate con disfunzioni Daergiche corticali o
sottocorticali, come la depressione e la schizofrenia. L’ipotesi prevalente è quella di una
relazione inversa tra la trasmissione Daergica nella corteccia prefrontale (pFC) e nelle
aree striatali sottocorticali, come il nucleus accumbens (NAS). Se una “ipofrontalità”
DAergica (a cui corrisponde un aumento dell’attività sottocorticale) è una delle ipotesi
proposte per la schizofrenia, una “iperfrontalità”, con conseguente inibizione della
trasmissione mesolimbica, é stata avanzata come possibile modello eziologico di alcune
forme di depressione. È ormai noto che l’adattamento a fattori ambientali stressanti
agisce sui sistemi mesocorticale e mesolimbico promuovendo alterazioni del
funzionamento Daergico. È possibile quindi che in individui intatti e non trattati
farmacologicamente, l’adattamento ad eventi ambientali stressanti promuova una
“rottura” dell’interazione funzionale tra questi due sistemi portando ad una alterata
risposta a successivi fattori stressanti. Per testare questa ipotesi topi del ceppo DBA
sono stati sottoposti ad un paradigma di stress cronico (restrizione alimentare); i livelli
di DA e dei suoi metaboliti sono stati quantificati nella pFC e nel NAS di questi topi in
risposta alla successiva esposizione a stress da immobilizzazione. La condizione di
stress cronico produce una profonda iporesponività DAergica mesocorticale allo stress
acuto e una sensibilizzazione mesoaccumbens. Tuttavia se è vero che le esperienze
stressanti possono costituire un fattore determinante nel produrre un quadro patologico,
lo sviluppo e l’espressione di una psicopatologia é strettamente dipendente dalle
differenze individuali tra organismi caratterizzati da un diverso assetto genotipico. Per
valutare il ruolo dei fattori genetici nella risposta DAergica ad eventi ambientali
stressanti abbiamo sottoposto due diversi ceppi inincrociati di topi, C57 e DBA, a stress
da immobilizzazione e al test di “Porsolt”. I due ceppi rispondono con un opposto
adattamento del sistema mesocorticolimbico ad entrambi i tipi di stress e mostrano un
diverso profilo comportamentale al test di Porsolt. Inoltre, la rapida e sostenuta
attivazione corticale e la inibizione sottocorticale osservata nei C57 durante il Porsolt
ricordano l’ipotesi della “iperfrontalità” proposta come modello eziologico della
depressione. Anche il profilo comportamentale, caratterizzato dalla prevalenza di
comportamenti “inattivi”, osservato in questo ceppo, presenta le caratteristiche di quello
che Porsolt ha definito stato di “Behavioural Dispair”, una risposta classicamente
associata, nei roditori, ad uno stato depressivo. Per validare il nostro modello di
depressione abbiamo perciò sottoposto i C57 ad un trattamento cronico con un
antidepressivo comunemente usato nell’uomo, la clomipramina. Il trattamento
farmacologico attenua l’inibizione mesolimbica, osservata negli animali di controllo,
probabilmente riducendo l’eccessiva attivazione corticale che caratterizza la risposta
centrale di questo ceppo alla situazione stressante. Il ristabilito equilibrio funzionale tra
il sistema mesocorticale e mesolimbico si accompagna ad una riduzione dei
comportamenti inattivi durante il test. Per confermare l’ipotesi della iperfrontalità come
causa del quadro patologico osservato in questo ceppo nel test di Porsolt, abbiamo
sottoposto i C57 ad una lesione della pFC con 6-OHDA, una neurotossina delle
terminazioni dopaminergiche: gli animali lesi mostrano un miglioramento del pattern
comportamentale e una riduzione della inibizione mesolimbica rispetto ai controlli.
I risultati di questi esperimenti supportano l’ipotesi di una relazione inversa tra
la trasmissione Daergica corticale e sottocorticale e indicano nella “rottura”
130
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA ANIMALE E COMPARATA
dell’equilibrio funzionale tra queste due strutture uno dei possibili fattori responsabili
della insorgenza o dell’espressione di diverse psicopatologie.
Riferimenti bibliografici
Cabib S. e Puglisi-Allegra S. Stress, depression and mesolimbic dopamine system;
Psychopharmacology, 126: 331-343 (1996).
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
131
PSICOLOGIA FISIOLOGICA
RIORGANIZZAZIONE CORTICALE DEL LINGUAGGIO IN
PAZIENTI AFASICI: MAPPATURA DEI POTENZIALI
CORTICALI LENTI
Alessandro Angrilli{xe "Angrilli A."}1, Rita Minghetti{xe "Minghetti R."}1,
Stefano Cusumano2{xe "Cusumano S."}, Luciano Stegagno{xe "Stegagno L."}1,
Thomas Elbert{xe "Elbert T."}3
1
Dipartimento di Psicologia Generale, Padova
2
Ospedale Regionale di Treviso
3
Università di Costanza, Germania
Introduzione
Lo studio della riorganizzazione corticale in pazienti che hanno recuperato da
una lesione corticale ha avuto un notevole sviluppo negli ultimi anni, grazie anche alla
maggiore disponibilità di tecniche di “Brain imaging” capaci cioè di misurare l’attività
cerebrale in vivo. Il recupero delle funzioni cognitive colpite è spesso associato ad uno
spostamento dell’attività dalla zona lesionata ad aree adiacenti, o ad aree relativamente
lontane (spostamento su un altro lobo o su un altro emisfero). Una delle conseguenze
più frequenti in pazienti colpiti da un ictus, come è noto è l’afasia. Poche ricerche
tuttavia hanno indagato in maniera sistematica la riorganizzazione corticale in seguito a
parziale recupero in questi pazienti. Una difficoltà consiste nella varietà dei danni e dei
disturbi afasici. È necessario restringere l’indagine a gruppi relativamente omogenei, e
possibilmente in associazione con informazioni anatomico-strutturali sulle aree cerebrali
lesionate. La presente ricerca ha indagato la riorganizzazione corticale in un gruppo di
afasici di Broca mediante la registrazione dei potenziali corticali lenti durante compiti
linguistici differenziati.
Metodo
Hanno partecipato all’esperimento due gruppi di soggetti. Un gruppo di 10
pazienti afasici, classificati come afasici di Broca in base all’AAT (Aachen Aphasie
Test), ed un gruppo di 14 pazienti di controllo. I soggetti dovevano effettuare 2 compiti
linguistici diversi uno fonologico e l’altro di classificazione semantica. Il compito
consisteva nel leggere una parola presentata per 1 secondo, e dopo un intervallo di 2
secondi, leggere una seconda parola, alla quale rispondere premendo un pulsante. Il
soggetto doveva confrontare le due parole in base al criterio che facessero rima
(compito fonologico), o fossero della stessa classe semantica (compito semantico). Sono
state registrate le percentuali d’errore, i tempi di reazione al secondo stimolo, ed i
potenziali evocati (Variazione Contingente Negativa) misurati nell’intervallo di 2 s tra
gli stimoli. Tali potenziali sono stati registrati da 26 elettrodi situati sullo scalpo allo
scopo di poter effettuare una mappatura dell’attività elettrica evocata. Per l’analisi
statistica gli elettrodi sono stati raggruppati in quattro quadranti: anteriore sinistro,
132
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
anteriore destro, posteriore sinistro, posteriore destro, ottenendo così la combinazione
dei due fattori: lateralizzazione (destro vs. sinistro) e gradiente antero-posteriore
(anteriore vs. posteriore). Altre variabili incluse nelle statistiche erano Gruppo (afasici
vs. controlli) e Compito (fonologico vs. semantico).
Risultati
Gli indici comportamentali hanno mostrato un significativo aumento di errori e
dei tempi di reazione nei pazienti afasici rispetto ai controlli. Questo è un risultato
abbastanza tipico nei pazienti neurologici in generale. I tempi di reazione erano
significativamente più lunghi nel compito semantico rispetto a quello fonologico, in
entrambi i gruppi, mostrando una lieve maggiore difficoltà del compito semantico.
L’assenza di interazione tra compito e gruppo indica, comunque, che per i due gruppi i
compiti avevano la stessa difficoltà relativa.
L’analisi dei potenziali evocati ha mostrato una differenza significativa tra aree
anteriori e posteriori con una maggiore negatività nelle ultime. Nei compiti utilizzati ci
si aspetta una maggiore attivazione posteriore (occipitale) visto che i soggetti
elaboravano ed attendevano stimoli visivi. Anche la tripla interazione Gruppo x
Lateralizzazione x Compito è risultata significativa, mostrando una maggiore
asimmetria nei siti frontali (maggiore attivazione nel lobo frontale sinistro) durante il
compito fonologico nei controlli, mentre negli afasici tale asimmetria era assente. In
base all’interazione tripla Gruppo x Lateralizzazione x Gradiente, l’asimmetria destrosinistro era assente nelle aree posteriori dei controlli, mentre invece presente degli
afasici con un massimo proprio nell’area parietale sinistra.
Conclusioni
I risultati di questo studio indicano che i pazienti afasici mancano
dell’asimmetria frontale tipicamente indotta da compiti fonologici nei controlli, facendo
ipotizzare un relativo aumento di attivazione corticale nelle aree frontali destre. Più in
generale, gli afasici mostrano una maggiore attivazione delle aree posteriori sinistre
durante compiti linguistici. Questi dati fanno pensare che pazienti con afasia di Broca,
spesso colpiti da lesioni frontali sinistre, riorganizzano il linguaggio in parte nelle aree
posteriori sinistre ed in parte nelle aree anteriori destre.
DISSOCIAZIONE EMISFERICA NELLA LATENZA
D’ADDORMENTAMENTO: CONVERGENZA TRA INDICATORI
COMPORTAMENTALI ED ELETTROENCEFALOGRAFICI
Maria Casagrande{xe "Casagrande M."}, Giuseppe Curcio{xe "Curcio G."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Negli ultimi anni sia dati comportamentali che elettroencefalografici hanno
evidenziato delle stabili variazioni del pattern emisferico durante l’addormentamento
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
133
(ADD). Nel primo minuto di stadio 1 si è osservato un significativo decremento della
coerenza interemisferica per le bande EEG alfa e beta nelle regioni temporali e frontali
(1). Questo pattern emisferico è coerente con quello evidenziato mediante strategie
comportamentali. Infatti, con l’esecuzione di un Finger Tapping Task (FTT) o di un
compito di tempi di reazione (TR) semplici a stimoli acustici durante la transizione
veglia-sonno (W-S) si è evidenziata una cessazione di risposta più precoce per la mano
destra, suggerendo per la prima volta la presenza di un’asimmetria emisferica nella
latenza d’ADD (2). Dati successivi, analizzando le prestazioni bimanuali in un FTT
eseguito nel corso di tre ADD collocati in momenti diversi di una stessa notte, hanno
confermato una variazione del pattern emisferico durante le transizioni W-S, che è
risultata indipendente dal momento circadiano in cui l’ADD si realizzava. Poiché la
diminuzione del tasso di risposta nel FTT è associata a una riduzione del ritmo alfa (4) e
data la stretta corrispondenza tra cessazione di risposta nel FTT e occorrenza dello
stadio 1 (5), abbiamo valutato le asimmetrie emisferiche durante l’ADD considerando
sia la latenza di intervalli inter-tapping (IIT) ≥ 2.5 sec. nella mano destra e nella mano
sinistra, sia la latenza del primo episodio di ritmo theta di durata • VHF LQ
derivazioni omologhe dei due emisferi (C3 e C4).
Metodo
Hanno partecipato all’esperimento 16 studenti, destrimani, normodormienti.
Ciascuno ha trascorso sei notti consecutive nel laboratorio del sonno con
polisonnografia standard. Nella sesta notte i soggetti sono stati sottoposti a una batteria
di test cognitivi (per una durata complessiva di 45 min) immediatamente prima
dell’ADD; la stessa batteria di test veniva ripresentata due volte nel corso della notte. Il
primo risveglio era per metà dei soggetti nello stadio 2 e per l’altra metà nello stadio
REM (2° ciclo NREM-REM); il secondo risveglio era per metà dei soggetti nello stadio
REM e per l’altra metà nello stadio 2 (rispettivamente 3° e 4° ciclo NREM-REM).
Dopo il completamento dei test i soggetti si addormentavano eseguendo bimanualmente
il FTT. Le prestazioni nel FTT venivano acquisite da un personal computer, che per
ciascuna mano registrava tutti gli IIT. Per ciascun ADD due siglatori esperti hanno
indipendentemente valutato la latenza dei treni di onde theta ≥ 2.5 sec nelle derivazioni
C3 e C4. Per ciascuna mano si è anche calcolata latenza del primo IIT≥ 2.5 sec.
Risultati
Un’ANOVA: Addormentamento (Primo, Secondo, Terzo) x Misura (EEG,
FTT) x Emisfero (Destro, Sinistro) condotta sui dati sottoposti a una trasformazione
logaritmica (ln) ha evidenziato un effetto significativo per la Misura (F1,15= 16.66; p<
.001) che ha indicato che il FTT (latenza d’ADD: 3 min) consente di ottenere un
indicatore d’ADD più precoce della misura EEG (latenza d’ADD: 10 min). Si è inoltre
osservato un effetto significativo per il fattore Emisfero (F1,15= 8.78; p<.01), che ha
indicato che la latenza d’ADD è minore nell’emisfero sinistro (media= 385.26 sec)
rispetto al destro (media= 399.90 sec). Nessun altro effetto o interazione sono risultati
significativi.
Conclusioni
134
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
I risultati confermano il pattern asimmetrico precedentemente osservato nella
transizione W-S con dati comportamentali (2) ed evidenziano che l’asimmetria
emisferica nella latenza del sonno è presente anche quando si considera un indicatore
d’ADD molto precoce (IIT≥ 2.5 sec). Per la prima volta l’asimmetria emisferica nella
latenza d’ADD viene osservata mediante un’analisi visuo-ispettiva del tracciato EEG.
Questo risultato conferma la stretta relazione tra prestazioni nel FTT e attività EEG
(4,5). Infine, questo studio conferma che le variazioni del pattern emisferico durante
l’ADD rappresentano una caratteristica stabile della transizione W-S che non appare
influenzata da fattori circadiani e omeostatici, ma sembra dipendere dalla
lateralizzazione emisferica nel controllo della vigilanza.
Riferimenti bibliografici
Anliker J (1963) Variations in alpha voltage of the electroencephalogram and time
perception. Science, 140: 1307-1309.
Casagrande M, Bertini M (1998) Brain hemispheres functional asimmetry across wakesleep-wake states. Journal of Sleep Research, 7 (Suppl. 2), 80: 40.
Casagrande M, De Gennaro L, Violani C, Braibanti P, Bertini M (1997) A Finger
Tapping Task and Reaction Time Tasks as behavioral measures of the
transition from wakefulness to sleep: which task interferes less with the sleep
onset process? Sleep, 20 (4): 301-312.
Casagrande M, Violani C, De Gennaro L, Braibanti P, Bertini M (1995) Which
hemisphere falls asleep first? Neuropsychologia, 33 (7): 815-822.
Wright KP, Badia P, Wauquier A (1995) Topographical and temporal patterns of brain
activity during the transition from wakefulness to sleep. Sleep, 18: 880-889.
EFFETTI DELLA DEPRIVAZIONE DI SONNO
SULL’ATTENZIONE SPAZIALE STUDIATA ATTRAVERSO IL
PARADIGMA DI POSNER
Corrado Cavallero{xe "Cavallero C."}, Francesco Versace{xe "Versace F."}, Alice
Conte{xe "Conte A."}, Valter Tucci{xe "Tucci V."}*
Dipartimento di Psicologia, Università di Trieste
*Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
Introduzione
Il tema degli effetti della deprivazione di sonno sulle prestazioni cognitive è
probabilmente uno dei più studiati dalla psicofisiologia del sonno, anche in
considerazione della sua rilevanza applicativa: molti incidenti, anche gravi, avvenuti nel
corso della notte sono stati messi in relazione a errori commessi da operatori in debito di
sonno; l’alto numero di incidenti automobilistici che si verifica tra le 3 e le 5
antimeridiane, nonostante il basso numero di veicoli presenti sulla strada, spesso è stato
utilizzato come prova dell’importanza del ruolo giocato dalla sonnolenza nella
esecuzione di compiti complessi (Horne and Reyner, 1995). Per valutare
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
135
sperimentalmente le modificazioni delle prestazioni cognitive sono stati utilizzati per lo
più compiti semplici e di lunga durata (i tempi di reazione semplici ne sono un esempio
classico) in quanto si è notato come questi risultassero i più sensibili nell’evidenziare le
conseguenze delle manipolazioni sperimentali (Dinges and Barone Kribbs, 1991).
Purtroppo alla sensibilità di queste misure non corrisponde una sufficiente raffinatezza
in quanto, di fatto, sono rappresentative solo delle modificazioni a carico della
attenzione sostenuta nel tempo che, pur rivestendo un ruolo importante in molti contesti
anche ecologicamente significativi, non può essere fatta coincidere con il
funzionamento cognitivo in generale. La psicologia cognitivista, d’altra parte, ha
evidenziato come, attraverso adeguati paradigmi sperimentali, sia possibile individuare
diverse sottocomponenti isolabili all’interno di ciascun processo cognitivo. Purtroppo
questi paradigmi sono rimasti per lo più ignorati nell’area della psicofisiologia del
sonno che ha invece di solito utilizzato compiti alla cui risposta contribuiscono più
processi cognitivi il cui apporto differenziale non può essere quantificato. Il presente
esperimento si propone di valutare gli effetti della riduzione del tempo di sonno
sull’attenzione spaziale attraverso un paradigma divenuto ormai classico: il Paradigma
di Posner (Posner, 1980).
Metodo
Otto soggetti hanno trascorso, nel corso di tre settimane, cinque notti presso il
laboratorio di psicofisiologia del sonno della facoltà di Psicologia dell’Università di
Padova secondo il seguente schema: prima settimana una notte di adattamento; seconda
settimana una notte di baseline seguita da una notte in cui il sonno veniva interrotto nel
corso della seconda fase REM; terza settimana una notte di baseline seguita da una notte
in cui il sonno veniva interrotto nel corso dello stadio 2 che precede la seconda fase
REM. Ciascuna notte era seguita da una giornata in cui, a intervalli regolari, venivano
misurate le prestazioni a un compito di tempi di reazione semplici, al Grammatical
Transformation Test (Baddeley, 1968) e al test di Posner con cue periferico. La giornata
che seguiva la notte di adattamento era dedicata all’apprendimento dei test, mentre nelle
altre condizioni le sessioni di test avvenivano immediatamente dopo il risveglio e
successivamente ogni tre ore (8, 11, 14, 17, 20, 23), inoltre, quando il tempo di sonno
veniva ridotto, erano previste, per le prime due ore che seguivano il risveglio, delle
ulteriori sessioni di prova ogni 30 minuti.
Risultati
Per quanto riguarda gli effetti della deprivazione di sonno sulle prestazioni al
test di Posner i risultati verranno interpretati alla luce di due ipotesi alternative: l’ipotesi
della riduzione delle risorse prevede che dopo la deprivazione di sonno i tempi di
reazione siano significativamente più lenti rispetto alla condizione di baseline in tutti i
tipi di prova (valide, invalide e neutre), si dovrebbero mantenere, quindi, gli effetti
dovuti all’orientamento corretto o errato dell’attenzione (“benefici” e “costi”);
alternativamente, se la deprivazione di sonno producesse un cambiamento nella
strategia adottata dal soggetto nella esecuzione del compito (se ad esempio non venisse
considerata la probabilità con cui il cue indica correttamente la posizione di apparizione
del target) dovrebbero modificarsi gli effetti solitamente osservati in seguito
all’orientamento corretto o errato del focus attentivo. I dati, al momento analizzati solo
136
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
parzialmente, sembrano indicare come corretta la prima delle due ipotesi, dal momento
che i costi e i benefici derivanti dall’orientamento del focus attentivo si mantengono,
seppure con entità diverse, nella maggior parte delle sessioni effettuate. Se questi dati
venissero confermati potrebbero fornire suggerimenti utili per comprendere più
specificatamente gli effetti dovuti alla riduzione di sonno sulle componenti attentive.
Riferimenti bibliografici
Baddeley, A., D. (1968). A 3 min reasoning test based on grammatical transformation.
Psychonomic Science, 10 (10) 341-342.
Dinges D., F., and Barone Kribbs, N. (1991). Performing while sleepy: effects of
experimentally-induced sleepiness. In: T.H. Monk (Ed.) Sleep, Sleepiness and
Performance. John Wiley & Sons, N.Y.
Horne, J. A., and Reyner, L., A. (1995).Driver sleepiness. Journal of Sleep Research,
4(2) 23-29.
Posner, M., I. (1980). Orienting of attention. Quarterly Journal of Experimental
Psychology, 32, 3-25.
LA STABILITÀ DELLA REATTIVITÀ PSICOFISIOLOGICA A
STIMOLI VISIVI CON DIVERSO CONTENUTO SEMANTICO
Maurizio Codispoti{xe "Codispoti M."}, Michela Mazzetti{xe "Mazzetti M."},
Chiara Mattei{xe "Mattei C."}, Giovanni Tuozzi{xe "Tuozzi G."}, Bruno
Baldaro{xe "Baldaro B."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Una consuetudine consolidata nella ricerca psicologica consiste nel valutare la
fedeltà degli strumenti psicometrici. Gli studi che hanno maggiormente aderito a tale
consuetudine concernono questionari di autovalutazione. Rarissime sono le ricerche che
abbiano indagato la fedeltà delle misure di laboratorio utilizzate in psicologia
sperimentale. La contrapposizione misura soggettiva vs. misura oggettiva deve in primo
luogo confrontarsi con il problema delle qualità psicometriche degli strumenti.
Inoltre, l’utilizzo di un paradigma test-retest è particolarmente rilevante nella
valutazione dell’efficacia di differenti trattamenti terapeutici. A questo riguardo è
interessante notare che le ricerche sull’impatto di terapie farmacologiche e/o
psicologiche si avvalgono prevalentemente di misure soggettive.
Lo scopo di questo lavoro era quello di valutare la fedeltà di alcuni indici
fisiologici periferici utilizzati in uno dei paradigmi maggiormente consolidati all’interno
della ricerca psicofisiologica: la visione di immagini a diverso contenuto semantico ed
emozionale.
Metodo
In due sessioni sperimentali, a distanza di una settimana, sono state presentate a
100 partecipanti 72 diapositive, raggruppabili in nove categorie (coppie erotiche, nudi
maschili, avventura, famiglia, oggetti domestici, immagini disgustose, animali che
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
137
attaccano, uomini che attaccano e corpi mutilati). Due differenti set di 36 diapositive
sono stati presentati nelle due sessioni sperimentali in ordine controbilanciato. Ciascun
set comprendeva quattro stimoli di ogni categoria. Ciascuna immagine veniva mostrata
per sei secondi. Nei cinque minuti precedenti ciascuna sessione sperimentale e durante
la visione delle diapositive sono stati registrati i seguenti indici fisiologici: frequenza
cardiaca, conduttanza cutanea e attività elettromiografica del muscolo corrugatore.
Risultati e conclusioni
Per tutti gli indici fisiologici considerati, i risultati relativi all’andamento delle
diverse categorie nelle due sessioni sperimentali indicano pattern di risposta
sovrapponibili. Al contrario, le correlazioni tra le due sessioni sperimentali mostrano
risultati differenti in funzione delle categorie considerate. Emerge una chiara
dissociazione tra le due analisi che suggerisce la necessità di effettuare studi che
considerino le risposte di gruppi di soggetti nelle ricerche che intendono valutare
l’effetto di interventi terapeutici.
INDICI COMPORTAMENTALI E FISIOLOGICI NELLO
STUDIO DELLA RELAZIONE TRA PROCESSI
MOTIVAZIONALI E ATTENTIVI
Maurizio Codispoti{xe "Codispoti M."}, Michela Mazzetti{xe "Mazzetti M."},
Ornella Montebarocci{xe "Montebarocci O."}, Daniela Palomba{xe "Palomba
D."}*
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
*Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
Sussistono diversi argomenti che suggeriscono quanto sia rilevante indagare la
modulazione motivazionale (con particolare riferimento alla motivazione emozionale)
dei processi attentivi.
In primo luogo, la psicologia dell’attenzione e la psicologia delle emozioni
condividono il fondamentale costrutto teorico di arousal, che attraversa trasversalmente
i due settori di ricerca.
Secondariamente, pare fondamentale rendere conto di come il processamento
attenzionale sia sostanzialmente mirato alla elaborazione di stimoli rilevanti e
significativi. A questo proposito, si ricordi come nel dibattito inerente la possibilità di
processare semanticamente stimoli al di fuori del focus attentivo si siano dimostrate
determinanti quelle ricerche che hanno utilizzato stimoli significativi per il soggetto
(cioè a contenuto motivazionale).
Infine, se l’obiettivo della biopsicologia consiste nello spiegare il i meccanismi
biologici del comportamento, ci pare indispensabile indagare il comportamento
attentivo in un contesto motivazionale, per estendere all’uomo quei medesimi paradigmi
ampiamente consolidati nella ricerca animale.
138
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
Definiti questi presupposti teorici, rimane da chiarire il vantaggio fornito
dall’utilizzo di indici fisiologici: esso consiste nel fatto che, a differenza di quanto si
verifica per misure comportamentali volontarie, gli indici fisiologici centrali e periferici
non competono per le risorse o, meglio, non alterano il processo indagato.
Lo scopo del presente studio è quello di indagare come stimoli visivi a
differente contenuto semantico ed emozionale modulino il processamento attentivo. Si è
osservato in precedenti ricerche (Bradley et al., 1996; Mazzetti et al., 1998; Sarlo et al.,
1998) che stimoli spiacevoli e piacevoli ad alto arousal determinano una più ampia
decelerazione cardiaca, una maggiore risposta di conduttanza cutanea e più lenti tempi
di reazione secondari rispetto a stimoli a basso arousal, suggerendo una maggiore
allocazione di risorse attentive sui primi rispetto ai secondi. In particolare, è stata
riscontrata una correlazione significativa tra tempi di reazione secondari e risposta di
conduttanza cutanea, ad indicare un effetto dell’arousal dello stimolo sul processamento
attentivo.
Nella ricerca qui presentata sono stati utilizzati indici centrali al fine di
verificare se sussista o meno una differente modulazione attentiva in funzione della
valenza emotiva, della rilevanza motivazionale e del contenuto semantico degli stimoli,
a parità di livello di arousal (definito operativamente attraverso la risposta di
conduttanza cutanea). Come indici del processamento attentivo sono stati considerati i
potenziali evento-correlati (in particolare la componente tardiva positiva P300, con
latenza di circa 350 ms) e il riflesso di allarme (o trasalimento) ad uno stimolo acustico
aversivo presentato in concomitanza alla visione della diapositiva. Il primo di tali indici
varia in funzione dell’arousal e dell’attenzione prestata agli stimoli; il secondo presenta
una modulazione attentiva e motivazionale, variando in funzione della valenza dello
stimolo visivo, che, a parità di risorse attentive richieste, inibisce o facilita (se piacevole
o spiacevole rispettivamente) il sistema motivazionale aversivo che verrà attivato dalla
comparsa dello stimolo acustico disturbante (Codispoti et al., 1998).
Metodo
A 40 partecipanti sono state mostrate 96 diapositive, raggruppabili in otto
categorie differenti per contenuto semantico (nudi eterosessuali, coppie erotiche, oggetti
domestici, volti neutri, scene di aggressioni, corpi mutilati, diapositive colorate senza
contenuto e diapositive grigie senza contenuto). Ciascuna diapositiva è stata presentata
per sei secondi e a diversi intervalli dalla comparsa della diapositiva (300ms, 1500ms,
3500ms, 4500ms) è stato somministrato uno stimolo acustico elicitante il riflesso di
trasalimento (rumore bianco 98 dbi, tempo di salita istantaneo, durata 50 ms). Il riflesso
di trasalimento è stato registrato attraverso la risposta elettromiografica del muscolo
orbicolare dell’occhio. Inoltre, sono stati registrati i potenziali evento-correlati (rilevati
alla comparsa di ciascuna diapositiva e alla presentazione dello stimolo acustico) e la
risposta di conduttanza cutanea.
Risultati e conclusioni
Alla comparsa della diapositiva, stimoli emotigeni producono maggiore
positività corticale (in generale legata al processamento dell’informazione) rispetto a
stimoli neutri; la maggiore positività corticale si ottiene per le immagini erotiche,
seguite dalle mutilazioni e dalle scene di aggressioni. Alla comparsa del rumore bianco,
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
139
stimoli neutri sono correlati ad una più ampia P300 rispetto agli emotigeni, a
testimonianza, nel primo caso, di una minor quota di risorse attentive allocate sulla
diapositiva e di più risorse disponibili per il processamento dello stimolo acustico; tra le
diapositive ad alto arousal, la minore P300 si ottiene, in linea col dato precedente, per le
immagini erotiche, che risultano dunque gli stimoli su cui viene allocata l’attenzione
maggiore, seguite dalle mutilazioni e dalle aggressioni.
Il riflesso di trasalimento risulta inibito per gli stimoli piacevoli e potenziato
per gli stimoli spiacevoli, senza una differenziazione significativa tra mutilazioni e
aggressioni. Oltre al coerente risultato di un processamento più consistente associato ad
una inibizione della risposta d’allarme per le immagini a contenuto erotico, è possibile
ipotizzare, per la risposta agli stimoli spiacevoli, una interazione tra attivazione del
sistema motivazionale aversivo e richieste attentive: a fronte di maggiori risorse
attentive richieste dalle immagini raffiguranti corpi mutilati (come è testimoniato dai
dati di precedenti ricerche e di quelli inerenti i potenziali evento-correlati), è plausibile
che non si ottenga per questi stimoli una risposta maggiormente inibita rispetto alle
aggressioni a causa della maggiore spiacevolezza dei primi rispetto ai secondi, che
provocherebbe una maggiore pre-attivazione del sistema motivazionale aversivo.
Nel complesso, i dati sembrano suggerire che la modulazione attentiva di
stimoli visivi emotigeni non sia esclusiva funzione dell’arousal, ma che l’allocazione
delle risorse attentive varii al variare del contenuto semantico e motivazionale delle
immagini presentate. Emerge inoltre una diversa sensibilità degli indici fisiologici
considerati nel mettere in rilievo il processamento attentivo alle diverse categorie di
stimoli; in particolare, nella modulazione del riflesso di trasalimento paiono inscindibili
gli effetti dovuti alla allocazione delle risorse attentive e quelli attribuibili al
processamento motivazionale degli stimoli.
Riferimenti bibliografici
Bradley, M.M., Drobes, D., & Lang, P.J. (1996). A probe for all reasons: Reflex and RT
masures in perception. Annual Meeting of the Society for the
Psychophysiological Research. Psychophysiology, 33 (suppl. 1), S25 (abstract).
Codispoti, M., Bradley, M.M., Cuthbert, B.N., Montebarocci, O., & Lang, P.J. (1998).
Stimulus complexity and affective contents: startle reactivity over time. Annual
Meeting of the Society for the Psychophysiological Research.
Psychophysiology, 35 (suppl. 1), S25 (abstract).
Mazzetti, M., Palomba, D., Tuozzi, G., e Suzzi, E. (1998). Tempi di reazione complessi
e variazioni psicofisiologiche per stimoli visivi emozionali: richieste attentive e
tendenza all’azione. Congresso Nazionale della sezione di Psicologia
Sperimentale, 28-30 Settembre, Firenze (abstract, pp.126-127).
Sarlo, M., Palomba, D., e Buodo, G. (1998). Correlati vegetativi e attenzionali del
processamento emozionale. Congresso Nazionale della sezione di Psicologia
Sperimentale, 28-30 Settembre, Firenze (abstract, pp.52-53).
DIFFERENZE FRA MASCHI E FEMMINE NELLA
VALUTAZIONE DI NUDI, IMMAGINI SPIACEVOLI E NEUTRE
140
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
MEDIANTE VALUTAZIONI SOGGETTIVE, TEMPI DI VISIONE
E RIFLESSO DI STARTLE
Marco Costa{xe "Costa M."}, Pio Enrico Ricci Bitti{xe "Ricci Bitti P.E."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Introduzione
Vi è sempre più evidenza sperimentale che dimostra diversità nell’intensità e
nell’elaborazione emozionale fra maschi e femmine (vedi per una rassegna Brody e
Hall, 1993), anche per stimoli elementari come semplici ricordi (Costa, Ricci Bitti e
Bonfiglioli, in press). La maggioranza di questi studi, tuttavia, è basata su resoconti
soggettivi o dati comportamentali e non sulle risposte fisiologiche a stimoli emotigeni.
Risulta perciò necessario verificare fino a che punto queste differenze di genere sono
presenti anche a livello fisiologico o se viceversa sono apprezzabili solo a livello
soggettivo. A questo scopo sono state svolte due ricerche le quali hanno indagato i
rapporti fra valutazioni soggettive e tempi di visione misurati con i movimenti oculari
orizzontali (I esperimento) e le modulazioni del riflesso di startle (II esperimento).
I esperimento
Il tempo di visione di diapositive emozionali è stato associato alle valutazioni
di interesse, arousal e risposta di conduttanza cutanea (Lang, Greenwald, Bradley e
Hamm, 1993). Fino ad ora questa misura è stata usata in relazione ad una singola
diapositiva mentre in questo studio è stata adottata una nuova metodologia che permette
di studiare il comportamento di scelta fra due diapositive presentate
contemporaneamente. Il materiale era costituito da 43 coppie di diapositive tratte dallo
IAPS (International Affective Picture System, Lang, Öhman e Vaitl, 1988) che
comprendevano nudi maschili e femminili, immagini a valenza negativa ed immagini
neutre. Ciascuna coppia era presentata in modo concorrente per 8 s su due schermi
separati posti a 35° sul lato destro e sinistro mentre la testa del soggetto era fissata su
una mentoniera, ed un led rosso posto davanti alla testa costituita il punto di fissazione
nei periodi fra le successive proiezioni. Sono stati rilevati i movimenti oculari
orizzontali e successivamente si è calcolato ed analizzato la percentuale di tempo, fra gli
8 s disponibili, dedicata all’esplorazione di ciascuna diapositiva. Hanno partecipato
all’esperimento 16 femmine ed 11 maschi. La differenza fra maschi e femmine è
risultata critica nei seguenti casi: a) i maschi guardavano significativamente di più i nudi
femminili (58%) rispetto a quelli maschili (33%), mentre le femmine vedevano
esattamente per la stessa durata nudi maschili e femminili (44% e 43%); b) i maschi
guardavano per tempi maggiori immagini a valenza negativa (49%) rispetto alle
femmine (39%); c) le immagini a valenza negativa e ad alto arousal come mutilazioni,
scene di mafia o guerra erano evitate dalle femmine che le guardavano per un tempo
non significativamente diverso dalle immagini neutre (40% vs. 51%) mentre i maschi
mostravano una forte preferenza per queste immagini (25% vs. 66%); d) diapositive che
rappresentavano neonati, bambini o coppie formate da un adulto più un bambino
risultavano altamente preferite rispetto ad immagini neutre dalle femmine (28% vs.
60%) ma non dai maschi che guardano i due tipi di immagini per la stessa durata (42%
vs. 43%). Confrontando i dati dei tempi di visione con i dati soggettivi di Lang (Lang,
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
141
Öhman e Vaitl, 1988) sulla valenza, arousal e dominanza è risultata una significativa
correlazione per l’arousal (.67 per i maschi e .48 per le femmine) e, solo per i maschi,
una correlazione negativa con la dominanza (-.37).
II esperimento
Lo scopo di questo secondo studio è stato quello di studiare le differenze fra
maschi e femmine in risposta alle stesse categorie di stimoli usate nel I esperimento ma
adottando come variabile dipendente le variazioni del riflesso di startle usato come
stimolo-test (probe), per il quale vi è solida evidenza sperimentale di una sua sensibilità
alla valenza (inibizione per stimoli piacevoli ed incremento per stimoli spiacevoli). Il
riflesso veniva elicitato in modo randomizzato da 1 a 4 s dopo la comparsa della
diapositiva. Sono state utilizzate 8 diapositive per ciascuna categoria (nudi maschili,
nudi femminili, immagini spiacevoli, immagini neutre) mentre 8 riflessi sono stati
scatenati nel periodo fra due successive diapositive come controllo. I partecipanti sono
stati 41 (26 femmine e 15 maschi). I risultati sono stati i seguenti: a) lo startle era
significativamente inibito in risposta ai nudi femminili e maschili senza differenza fra le
due categorie; b) l’inibizione del riflesso nei maschi non era maggiore per i nudi
femminili rispetto a quelli maschili e lo stesso per le femmine; c) nelle femmine le
valutazioni soggettive rispecchiavano i dati fisiologici non differenziando le risposte per
le due categorie di nudi mentre i maschi si esprimevano con una netta preferenza per i
nudi femminili; d) i nudi maschili, sul piano delle valutazioni soggettive, sono stati
valutati per la valenza da maschi e femmine in modo non significativamente diverso
dalle immagini neutre mentre sul piano fisiologico erano accompagnati da una forte e
significativa riduzione del riflesso di startle; e) le femmine hanno valutato i nudi
femminili come neutri sul piano della valenza mentre i dati sullo startle dimostrano una
marcata inibizione; f) maschi e femmine hanno presentato lo stesso andamento nelle
valutazioni soggettive e nelle modificazioni del riflesso di startle per le immagini
spiacevoli.
Conclusioni
Queste ricerche hanno voluto essere un contributo per dimostrare che ad uguali
domande di natura prettamente psicologica come ad esempio quali sono le valutazioni
di piacevolezza e spiacevolezza di nudi, immagini spiacevoli e neutre si ottengono
risposte diverse a seconda che si incentri la metodologia su risposte soggettive,
comportamentali o fisiologiche. Nel particolare questo scollamento lo si è dimostrato
nelle valutazioni di valenza delle immagini di nudi che entrano sovente come
ingrediente di immagini piacevoli negli studi sperimentali sulle emozioni.
Riferimenti bibliografici
Brody, L.R. e Hall, J.A. (1993). Gender and emotion. In Lewis, M. e Haviland, J.M.
(Eds.) Handbook of Emotions. New York: Guilford Press.
Costa, M., Ricci Bitti, P.E., e Bonfiglioli, L. (in press). Psychological connotation of
harmonic musical intervals. Psychology of Music.
Lang, P., Greenwald, M.K., Bradley, M., e Hamm, A.O. (1993). Looking at pictures:
Affective, facial, visceral, and behavioral reactions. Psychophysiology, 30,
261-273.
142
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
Lang, P., Öhman, A., e Vaitl, D. (1988). The International Affective Picture System.
Gainesville: Center for Research in Psychophysiology, University of Florida.
FREQUENZA DELL’ATTIVITÀ OCULARE RAPIDA E SONNO
A ONDE LENTE (SWS) IN SEGUITO A DEPRIVAZIONE
SELETTIVA DI SWS
Luigi De Gennaro{xe "De Gennaro L."}, Michele Ferrara{xe "Ferrara M."},
Giuseppina Cerritelli{xe "Cerritelli G."}
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi “La Sapienza”
Introduzione
Nelle notti di recupero successive a deprivazioni parziali o totali di sonno è
stato più volte evidenziato un decremento della frequenza dei movimenti oculari rapidi
(REMs) durante il sonno REM (Lucidi F. et al., 1996). Il fenomeno è stato
alternativamente interpretato come l’espressione di una relazione fra decremento
dell’attività oculare rapida e aumento del “bisogno di sonno” o della sua “profondità”,
che caratterizzano le notti di recupero. Il presente esperimento si è posto l’obiettivo di
valutare il contributo di queste due componenti mediante un disegno sperimentale che
non alteri il bisogno di sonno (cioè che non manipoli la lunghezza delle notti di sonno),
ma che determini ugualmente un incremento della profondità di sonno. A queste
esigenze risponde un paradigma che consente di deprivare selettivamente di sonno a
onde lente (SWS) senza influenzare il tempo totale di sonno e che, con una
concomitante valutazione delle soglie uditive durante le notti di base e di recupero,
fornisca una misura diretta della profondità del sonno. Si ipotizza, pertanto, che in
conseguenza di una deprivazione selettiva di SWS che determini un incremento della
quantità di SWS e l’elevazione delle soglie di risveglio nelle notti di recupero, si
riscontri un parallelo decremento della frequenza dei REMs. Inoltre, con un approccio
di regressione multipla, si valuterà se questo decremento dei REMs sia ascrivibile
principalmente alla maggiore profondità del sonno (espressa dalle soglie di risveglio) o
all’aumentata quantità di SWS.
Metodo
10 soggetti maschi hanno partecipato a 6 notti consecutive in laboratorio: 1)
Adattamento, 2) Baseline (BSL), 3) Baseline con Risvegli (BSLR), 4-5) Deprivazione
SWS 1-2 , 6) Recupero (REC). Nel corso della 4a e 5a notte i soggetti sono stati
pressoché completamente deprivati di SWS (stadi 3+4) mediante la somministrazione di
stimoli acustici di intensità variabile (40-105 db). Tale procedura ha determinato nella
notte di recupero un rebound della quantità di SWS e un accorciamento della sua
latenza (Ferrara M. et al., 1999). Nelle ultime 4 notti i soggetti sono stati anche
risvegliati nello stadio 2 rispettivamente dopo 2, 5 e 7.5 ore di sonno mediante l’invio di
stimoli acustici a 1000 Hz di frequenza. L’intensità degli stimoli aumentava
progressivamente di 5 db, dai 40 fino ai 110 db, finché i soggetti non presentavano
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
143
almeno 10 sec di ritmo alfa EEG (criterio di definizione delle soglie uditive di
risveglio).
L’EEG (C3-A2 e C4-A1) e l’EMG sono stati registrati secondo criteri standard.
L’EOG bipolare orizzontale è stato utilizzato per la siglatura dei REMs maggiori di
50°/sec (De Gennaro L. et al., 1995). La frequenza dei REMs è stata calcolata come
rapporto tra il numero di REMs e la durata complessiva delle fasi di sonno REM.
Risultati e conclusioni
L’aumentata quantità di SWS conseguente alla deprivazione selettiva ha
determinato un significativo aumento (F1,9= 11.24; p=.008) delle soglie di risveglio
nelle notti di recupero (63.0 db) rispetto a quelle di baseline (48.8 db).
Un’ANOVA 2x4, NOTTE (baseline vs. recupero) x PERIODO REM (1° vs. 2°
vs. 3° vs. 4°) sui valori trasformati in logaritmo della frequenza dei REMs ha
evidenziato una loro significativa riduzione (F1,9=12.57; p=.006) nella notte di
recupero rispetto alla baseline e un significativo incremento dal primo ai successivi
periodi REM (F3,27=8.00; p=.0006).
Per chiarire se l’effetto ipotizzato sia spiegato principalmente dall’aumento
della profondità del sonno o della quantità di SWS nella notte di recupero, è stata
eseguita una regressione stepwise che ha considerato come predittori, rispettivamente
l’entità del recupero di SWS e dell’elevazione delle soglie di risveglio, mentre l’entità
del decremento della frequenza dei REMs è stato considerato come variabile criterio. I
risultati indicano una correlazione multipla di .76 (R2= .58) e l’entrata della sola
variabile “entità del recupero di SWS” nell’equazione di regressione (F1,8= 10.98).
I risultati suggeriscono, pertanto, che la diminuzione della frequenza dei REMs
non dipenda dall’aumentato bisogno di sonno (tenuto costante nel presente disegno), ma
prioritariamente dall’ammontare del recupero del SWS rispetto all’aumento della
profondità del sonno.
Riferimenti bibliografici
De Gennaro L, Casagrande M, Di Giovanni M, Violani C, Herman J, Bertini M (1995)
The complementary relationship between wake and REM sleep in the
oculomotor system. EEG clin. Neurophysiol. 95: 252-256.
Ferrara, M., De Gennaro, L. and Bertini, M. (1999) Selective slow-wave sleep (SWS)
deprivation and SWS rebound: do we need a fixed SWS amount per night?
Sleep Res. Online 2: 15-19.
Lucidi, F., Devoto, A., Violani, C., De Gennaro, L., Mastracci, P. and Bertini, M.
(1996) Rapid eye movements density as a measure of sleep need. EEG clin.
Neurophysiol. 99: 556-561.
ATTIVITÀ MUSCOLARE FASICA NEL SONNO REM
SUCCESSIVO A DEPRIVAZIONE TOTALE DI SONNO
144
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
Luigi De Gennaro{xe "De Gennaro L."}, Francesca Anzidei{xe "Anzidei F."},
Simona Baldanza{xe "Baldanza S."}, Irene Lorusso{xe "Lorusso I."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Sullo sfondo della generale atonia muscolare che caratterizza la fase REM del
sonno si riscontrano una serie di attività muscolari di tipo fasico che non determinano
interruzione del sonno: i movimenti oculari rapidi (REMs), le contrazioni dei muscoli
dell’orecchio medio (MEMA) e i burst di attività EMG localizzata in un muscolo
(TWITCH). La ricerca in psicofisiologia del sonno si è occupata lungamente di questi
eventi fasici (soprattutto dei REMs), senza peraltro pervenire a conclusioni definitive
sulla loro funzione all’interno del sonno REM. Una delle ipotesi avanzate propone che
essi siano una risposta di startle controllata da un centro unico di controllo motorio
(e.g., 1). L’ipotesi del centro unico di controllo motorio non è stata, però, mai valutata
direttamente e gli unici riscontri sono di tipo correlazionale, indicando una debole
associazione tra i tre tipi di attività muscolare fasica (e.g., 2).
Un approccio più diretto al problema potrebbe essere fornito dall’effetto, più
volte replicato, di riduzione dei REMs nelle notti di recupero dopo deprivazioni totali o
parziali di sonno (e.g., 3). Nell’ipotesi di un unico meccanismo centrale che controlli
l’attività muscolare fasica del sonno REM, si ipotizza, quindi, che nelle notti di recupero
in seguito a una deprivazione totale di sonno si riscontri un decremento di tutte le
attività muscolari fasiche del sonno REM.
Metodo
10 soggetti maschi hanno partecipato a 3 notti nel laboratorio del sonno: 1)
Adattamento, 2) Baseline (BSL), 3) Recupero (REC); le notti BSL e REC erano
separate da un intervallo di 40 ore di veglia trascorse nel laboratorio sotto il controllo di
almeno uno sperimentatore.
La registrazione notturna prevedeva un montaggio EEG (C3-A2 e C4-A1),
EMG standard e una registrazione EOG sia orizzontale che verticale. Per la
registrazione dei MEMA è stato utilizzato un trasduttore di pressione (inserito a tenuta
pneumatica nel condotto uditivo esterno) sviluppato ad hoc. Per escludere artefatti
muscolari, fonatori, da movimenti corporei o della testa sono stati utilizzati due EMG
dei muscoli masseteri destro e sinistro, un EMG laringeo e uno strain gauge collegato
all’apparato di trasduzione dei MEMA.
Per la siglatura dei REMs è stato utilizzato l’EOG orizzontale e per quella dei
TWITCH l’EMG sottomentoniero. La frequenza dei REMs, dei MEMA e dei TWITCH
è stata calcolata come rapporto tra il numero di eventi fasici e la durata complessiva
delle fasi di sonno REM.
Risultati e conclusioni
I dati relativi alla frequenza dei tre eventi fasici sono stati sottoposti a una
MANOVA a una via che ha confrontato le notti BSL con quelle REC. L’analisi ha
evidenziato una diminuzione delle attività muscolari fasiche in seguito a deprivazione
totale di sonno (Wilk’s Lambda=.048; p=.0002). Le analisi univariate suggeriscono,
però, che l’effetto complessivo di riduzione dell’attività fasica interessa solo la
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
145
frequenza dei REMs (F=33.06; p=.0004), che diminuisce significativamente nella REC
(M=11.51) rispetto alla BSL (M=16.53), e la frequenza dei TWITCH (F=3.98; p=08),
che presenta una tendenza a diminuire nella REC (M=.32) rispetto alla REC (M=.42).
Al contrario la frequenza MEMA non presenta variazioni significative (F=.39; p=.55).
I risultati indicano, quindi, che nelle notti di recupero successive a deprivazione
di sonno si verifica una diminuzione dell’attività muscolare fasica del sonno REM. La
verifica dell’ipotesi di un centro unico di controllo motorio dell’attività fasica durante il
sonno REM appare, però, limitata ai REMs e ai TWITCH, dal momento che i MEMA
non presentano alcuna variazione apprezzabile. A conferma di questa dissociazione tra
gli eventi fasici del sonno REM, le intercorrelazioni tra REMs e MEMA indicano una
relazione di tipo negativo nelle notti BSL (r=-.63), mentre tra REMs e MEMA la
relazione è positiva (r=.45).
Infine, per quanto riguarda l’interpretazione dell’effetto di riduzione
dell’attività fasica, i dati suggeriscono una relazione negativa con la quantità di sonno a
onde lente (SWS). Infatti, regressioni multiple stepwise hanno evidenziato una relazione
significativa degli eventi fasici con la durata del SWS, sia in BSL che in REC
(RBSL=.67; RREC=.60). In entrambi casi l’unica variabile che entra nell’equazione di
regressione è la frequenza dei REMs.
Riferimenti bibliografici
Geisler, P. Meier-Ewert, K., Matsubayshi, K. Rapid eye movements, muscle twitches
and sawtooth waves in the sleep of narcoleptic patients and controls. EEG clin.
Neurophysiol., 1987, 67: 499-507.
Lucidi, F., Devoto, A., Violani, C., De Gennaro, L., Mastracci, P., Bertini, M. Rapid eye
movements density as a measure of sleep need. EEG clin. Neurophysiol., 1996,
99: 556-561.
Morrison AR, Sanford LD, Ball WA, Mann GL, Ross RJ. Stimulus-elicited behavior in
rapid eye movement sleep without atonia. Behav Neurosci. 1995, 109: 972979.
POTENZIALI EVENTO-CORRELATI SOMATOSENSORIALI
(SERP) E RISPOSTE DI CONDUTTANZA CUTANEA (SC)
ELICITATI DA STIMOLI DOLORIFICI: EFFETTI DI
DIFFERENTI SUGGESTIONI DI ANALGESIA IN IPNOSI
Vilfredo De Pascalis{xe "De Pascalis V."}, Maria R. Magurano{xe "Magurano
M.R."}, Anna Bellusci{xe "Bellusci A."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
In questo studio vengono valutati gli effetti di differenti suggestioni di
analgesia ipnotica considerando il recente modello costruttivistico della coscienza di
Chapman e Nakamura (1998). Questo modello sostiene che il cervello costruisce gli
elementi dell’esperienza dolorifica e li inserisce nel flusso di coscienza. Secondo questo
146
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
modello le suggestioni di analgesia ipnotica riducono la percezione dolorifica quando
generano ‘schemi dominanti’ che influenzano la costruzione della coscienza in corso.
Scopo principale di questo lavoro è di valutare se l’analgesia ipnotica è il prodotto di un
singolo schema dominante e se una suggestione di analgesia ipnotica diventa efficace
quando è in grado di attivare tale schema. Sono stati registrati la percezione dolorifica, i
potenziali SERP e le risposte della SC a stimoli nocicettivi durante le seguenti
suggestioni in ipnosi: Rilassamento Profondo, Immaginazione Dissociativa, Analgesia
Focalizzata, Placebo. Una condizione di Riposo, nello stato di veglia, è stata utilizzata
come baseline. Le risposte fisiologiche sono state evocate mediante impulsi elettrici al
polso destro, somministrati utilizzando il paradigma ‘odd-ball’. I potenziali eventocorrelati sono stati registrati dalle regioni dello scalpo F3, F4, T3, T4, C3, C4, P3 e P4.
Hanno partecipato all’esperimento soggetti destrimani: 10 donne con alto livello di
ipnotizzabilità, 9 con medio e 10 con basso livello di ipnotizzabilità. Sono state
misurate: 1) tolleranza al dolore e alla sofferenza; 2) soglia sensoriale dolorifica; 3)
ampiezza di picco delle componenti SERP N2 (280 + 11 ms) e P3 (405 + 19 ms); 4)
numero di risposte SC evocate; 5) indice di abituazione della SC; 6) tempo di reazione
agli stimoli target e numero di risposte omesse. Tutti i soggetti hanno mostrato riduzioni
significative dei livelli di autovalutazione del dolore e della sofferenza nelle condizioni
di Rilassamento Profondo, Immaginazione Dissociativa e Analgesia Focalizzata in
ipnosi, rispetto alla condizione di Riposo in veglia.. Il gruppo con alta ipnotizzabilità,
rispetto agli altri gruppi, ha mostrato più marcate riduzioni della sofferenza nelle
condizioni di Immaginazione Dissociativa, di Analgesia Focalizzata e, in minor misura,
in quella di Rilassamento Profondo. Nella condizione di Placebo non sono state
osservate differenze significative tra i gruppi. Il livello di percezione del dolore è
risultato significativamente ridotto nei soggetti con alta ipnotizzabilità nelle condizioni
di Immaginazione Dissociativa e di Analgesia Focalizzata in ipnosi, mentre nelle altre
condizioni non è stata riscontrata una differenza significativa tra i gruppi. Tutti i
soggetti hanno mostrato significative riduzioni del picco P3 in tutte le condizioni
ipnotiche rispetto alla condizione di Riposo in veglia, sebbene tale riduzione nella
condizione di Placebo risulta meno accentuata. Le regioni corticali temporali sono state
le più sensibili a differenziare le risposte SERP tra i gruppi. Sui siti di registrazione T3 e
T4 i soggetti del gruppo con alta ipnotizzabilità, rispetto agli altri gruppi, hanno
mostrato picchi della componente P3 significativamente più piccoli e picchi N2 più
grandi durante la condizione di Analgesia Focalizzata. In questa condizione, tali
soggetti, hanno anche riportato il maggior numero di risposte omesse, minori tempi di
reazione, più piccole e meno numerose risposte SC di orientamento. Non è stata trovata
alcuna relazione tra livello di ipnotizzabilità e la vividezza dell’immagine mentale e tra
quest’ultima e le valutazioni di dolore riferito. I risultati sono stati discussi mettendo in
evidenza che ogni suggestione di analgesia è il prodotto di differenti processi
neurofisiologici che accompagnano le differenti strategie cognitive utilizzate per la
produzione dell’effetto analgesico. Quando l’effetto analgesico è in atto esso diventa il
risultato di processi inibitori che caratterizzano l’attenzione focalizzata. Tali processi
sono il prodotto dell’attività di un sistema sopraordinato localizzato nella corteccia
fronto-temporale che interagisce con la formazione reticolare limbica e con le regioni
corticali posteriori, per modulare l’input sensoriale specifico ai sistemi corticali
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
147
posteriori (Pribram, 1991). Tali sistemi, secondo Chapman e Nakamura (1998)
produrrebbero un nuovo schema dominante nel contenuto della coscienza individuale.
Riferimenti bibliografici
Chapman, C.R. & Nakamura, Y. (1998). Hypnotic analgesia: A constructivistic
framework. The International Journal of Clinical and Experimental Hypnosis,
1, 6-27.
Pribram, K.H. (1991). Brain perception: Holonomy and structure in Figural
Processing. Hillsdale, N.Y.: Erlbaum.
VARIAZIONI NELL’AMPIEZZA DELLA P300 IN FUNZIONE
DELLA QUALITÀ DEL SONNO
Alessandra Devoto{xe "Devoto A."}, Cristiano Violani{xe "Violani C."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Alcuni studi indicano che gli insonni primari, caratterizzati da un disturbo di
inizio e mantenimento del sonno indipendente da altri problemi psicologici o medici,
hanno un livello eccessivo di arousal che potrebbe interferire con il loro sonno (e.g., 1).
Tuttavia, i dati a favore di questa ipotesi sono controversi (e.g., 2, 3). È possibile che il
contrasto tra i risultati dipenda anche dal fatto che la maggior parte delle ricerche
assumono che l’eccessiva attivazione degli insonni sia una caratteristica di tratto stabile.
Tuttavia, l’iperarousal degli insonni potrebbe essere una caratteristica di stato, modulata
dalla variabilità tra notti “disturbate” e notti “normali” caratteristica di questo disturbo
(e.g., 4).
Scopo di questo studio è stato quello di valutare l’ipotesi dell’iperarausal,
considerando il possibile effetto della qualità della notte precedente. In un gruppo di
insonni primari è stato, quindi, confrontato il livello di arousal corticale dopo una notte
con disturbi del sonno (N-) e dopo una notte senza disturbi di sonno (N+). Come indice
di attivazione corticale è stata considerata l’ampiezza della P300 in un gruppo di giovani
soggetti con insonnia e di controllo. In base a precedenti studi sui potenziali evento
correlati (ERPs; e.g., 5) è stato ipotizzato che l’ampiezza della P300 fosse maggiore
negli insonni dopo la notte (N-). In entrambi i gruppi, in seguito alle due notti
considerate, sono stati valutati anche i tempi di reazione al compito di discriminazione
acustica utilizzato per la registrazione della P300.
Metodo
11 studenti universitari con insonnia primaria in base ai criteri del DSM-IV,
inseriti in un programma di valutazione e trattamento non-farmacologico dell’insonnia,
hanno costituito il gruppo “insonni”; 11 studenti, con una latenza di addormentamento
<15’, senza risvegli notturni e/o risveglio precoce hanno partecipato come controlli. Le
caratteristiche di personalità e del sonno di entrambi i gruppi sono state valutate,
rispettivamente, mediante il MMPI e un’intervista strutturata sui disturbi del sonno.
148
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
La selezione delle notti precedenti alle registrazioni della P300 è avvenuta
mediante una rilevazione giornaliera dei parametri del sonno su diari. In seguito a una
N+ e a una N- per gli insonni e a due notti di sonno abituale per i controlli, la P300 è
stata rilevata, con un montaggio standard, dalle derivazioni Fz, Cz, e Pz referenziate ai
mastoidi A1 e A2. Il segnale EEG è stato registrato, amplificato, mediato e memorizzato
con un sistema digitalizzato (Brain-Quick, Micromed). Per la rilevazione della P300 è
stato utilizzato un compito di discriminazione di stimoli acustici (Paradigma Oddball). I
soggetti dovevano rispondere solo ai suoni di altezza tonale elevata (target), premendo il
tasto di un joystick. La prova (della durata di circa 15 minuti) veniva effettuata in
laboratorio con il soggetto accomodato su una poltrona a occhi chiusi.
Analisi dei dati
Le medie dei principali parametri della qualità del sonno (latenza di
addormentamento, veglia intranotturna e indice di efficienza del sonno) della N+ e della
N- degli insonni e delle due notti normali dei controlli sono state sottoposte
separatamente ad ANOVA fattoriali considerando come fattori il GRUPPO (insonni vs.
controlli) e la NOTTE (N+ vs. N-). Le medesime analisi della varianza sono state
condotte anche sulle ampiezze medie della P300 (per ciascuna delle tre derivazioni
corticali FZ, CZ e PZ) e sulle medie dei tempi di reazione alle prove di discriminazione
degli stimoli.
Risultati
I risultati sui parametri del sonno indicano che negli insonni solo la N- è
caratterizzata da parametri del sonno peggiori rispetto ai controlli. La ampiezza della
P300 registrata da FZ mostra un’interazione significativa (F1,20=4.50, p=.046)
GRUPPO X NOTTE. I post-hoc (test di Duncan) sulle ampiezze medie dell’interazione
indicano che negli insonni vi è una maggiore attivazione corticale solo dopo la N-,
mentre nei controlli non vi sono variazioni.
Nessun altro effetto è risultato significativo.
Conclusioni
I risultati mostrano che l’ampiezza media della P300 degli insonni è
significativamente maggiore dopo la N- rispetto alla N+, suggerendo che la maggiore
attivazione corticale degli insonni dipende soprattutto dalla qualità della notte
precedente. Future ricerche che valutino il livello di arousal prima e dopo notti di
diversa qualità potranno verificare questa ipotesi.
Riferimenti bibliografici
Bonnet M.H. & Arand D.L. (1996). Insomnia -nocturnal sleep disruption-daytime
fatigue; the consequence of a week of insomnia. Sleep, 18: 581-588.
Lichstein L., Wilson N., Noe S., Aguillard R., Bellur S. (1994). Daytime sleepiness in
insomnia: behavioural, biological and subjective indices. Sleep; 17(8):693-702.
Gross R.T. & Borkovec T.D. (1982) Effects of cognitive intrusion manipulation on
sleep-onset latency of good sleepers. Behavior Therapy, 13: 112-116.
Reite M., Buysse D., Reynolds C. & Mendelson W. (1995). The use of
polisomnography in the evaluation of insomnia. Sleep, 18(1):58-70.
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
149
Harsh J., Voss U., Hull J., Schepfer S. & Badia P. (1994). ERPs and behavioural
changes during wake/sleep transition. Psychophysiology, 31:244-252.
DINAMICA DEL LIVELLO DELL’ATTIVITÀ EEG DI FONDO
DURANTE IL SONNO NREM NEL CORSO DI DUE EPISODI DI
SONNO NOTTURNO IN LATTANTI
1
2{
}
Igino Fagioli{xe "Fagioli I."} , Piero Salzarulo xe "Salzarulo P."
1
Dipartimento di Teoria, Storia e Ricerca Sociale, Università di Trento
2
Dipartimento di Psicologia generale, dei processi di sviluppo e di socializzazione,
Università di Firenze.
Il modello di regolazione dei ritmi veglia-sonno (Borbély, 1982; Daan,
Beersma, Borbély, 1984) è basato sull’interazione tra due processi tra loro indipendenti,
il processo omeostatico S (che aumenta durante la veglia e diminuisce durante il sonno)
e il processo circadiano C (il cui andamento oscilla tra un minimo nelle prime ore del
mattino e un massimo nel pomeriggio). L’andamento del processo C regola il livello di
due soglie: la soglia minima L (quando durante il sonno il processo S scende al livello di
questa soglia, il soggetto tende a svegliarsi spontaneamente) e la soglia massima H
(quando durante la veglia il processo S aumenta fino a raggiungere il livello di questa
soglia, il soggetto tende ad addormentarsi spontaneamente). I dati empirici alla base di
tale modello, ricavati da soggetti adulti che dormivano normalmente soltanto la notte
(ritmo veglia-sonno monofasico), hanno utilizzato come indicatore del livello del
processo S le misure quantificate con l’analisi spettrale dell’attività
elettroencefalografica di fondo (EEG).
Poiché nel corso del primo anno di vita è ancora molto frequente osservare
interruzioni del sonno notturno anche di lunga durata, la presente ricerca su 12 lattanti di
età compresa tra 9 e 47 settimane, il cui sonno era caratterizzato dalla presenza di
almeno due episodi di sonno separati da uno di veglia si è proposta di verificare:
a) la comparsa precoce (fin dai primi mesi di vita) dei meccanismi di
regolazione del sonno previsti dal modello omeostatico, accertando il ruolo della durata
della veglia spontanea notturna sulle caratteristiche dell’EEG del sonno successivo;
b) se durante il primo anno di vita la dinamica dell’attività EEG durante il
sonno NREM, che mostra un andamento decrescente all’interno del primo episodio di
sonno (Fagioli, Bess, Peirano, Salzarulo, 1995), abbia le stesse caratteristiche oppure ne
assuma di diverse negli episodi di sonno notturno successivi.
Per i primi due periodi di sonno NREM di ciascuno dei due episodi di sonno
successivi sono stati calcolati tre indicatori dell’andamento temporale di un parametro,
ottenuto con tecniche di analisi automatica (Fagioli, Salzarulo, 1998), che riflette il
livello di sincronizzazione dell’EEG (intendendo per sincronizzazione dell’EEG la
prevalenza di onde di elevata ampiezza e bassa frequenza su quelle di bassa ampiezza e
di elevata frequenza): i) l’ampiezza dell’escursione del parametro (differenza tra i valori
del parametro EEG massimo e minimo), ii) la latenza del valore di massima
150
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
sincronizzazione (intervallo tra inizio del sonno NREM e momento di massima
sincronizzazione), e iii) la velocità di sincronizzazione (ampiezza/latenza).
a) I tre indicatori dell’andamento temporale dell’attività EEG di fondo nel
corso del sonno NREM successivo alla veglia notturno sono stati presi come variabili
dipendenti in altrettanti modelli di regressione multipla, nella quale le variabili
indipendenti erano l’età e la durata della veglia precedente (dopo trasformazione
logaritmica, in quanto il modello prevede un andamento temporale esponenziale del
processo S, tanto durante la veglia che durante il sonno). L’ampiezza dell’escursione del
parametro è risultata correlata con il logaritmo della durata della veglia precedente
(p=.011); la latenza del valore di massima sincronizzazione (p=.048) e la velocità di
sincronizzazione (p=.013) erano invece correlati solo con l’età rispettivamente
positivamente e negativamente. La relazione tra la durata della veglia precedente e
l’ampiezza di escursione del parametro durante il sonno successivo è una ulteriore
conferma della precoce emergenza della regolazione omeostatica del sonno; la
fisiologica notevole diminuzione della velocità di sincronizzazione nel corso del primo
anno di vita (Fagioli, Bess, Peirano, Salzarulo, 1995) potrebbe invece aver mascherato
la sua probabile correlazione con la durata della veglia precedente (Fagioli, Salzarulo,
1998).
b) Tutti e tre gli indicatori sono risultati diversi tra il primo periodo di sonno
NREM e il secondo in entrambi gli episodi di sonno (rispettivamente p=.021, p=.004 e
p<.001), indipendentemente dall’età, confermando un andamento discendente del
processo S all’interno anche degli episodi di sonno successivi al primo. Inoltre, la
velocità di sincronizzazione (ma non l’ampiezza dell’escursione del parametro e la
latenza del valore di massima sincronizzazione) è risultata più elevata nel primo
episodio di sonno che nel secondo (p=.016), mostrando pertanto, fin da età molto
precoci, un andamento temporale decrescente del processo S, non solo all’interno di
ciascun episodio di sonno, ma anche nel corso di episodi di sonno successivi nell’arco
della stessa notte (Fagioli, Salzarulo, 1997).
Riferimenti bibliografici
Borbély AA. A two process model of sleep regulation. Hum Neurobiol 1 (1982) 195204.
Daan S, Beersma DGM, Borbély AA. Timing of human sleep: recovery process gated
by a circadian pacemaker. Am J Physiol 246 (1984) R161-R178.
Fagioli I, Bes F, Peirano P, Salzarulo P. Dynamics of EEG background activity level
within quiet sleep in successive cycles in infants Electroenceph Clin
Neurophysiol 94 (1995) 6-11.
Fagioli I, Salzarulo P. Dynamics of EEG background activity level during quiet sleep in
multiple nocturnal sleep episodes in infants Electroenceph Clin Neurophysiol
103 (1997) 6-11.
Fagioli I, Salzarulo P. Prior spontaneous nocturnal waking duration and EEG during
quiet sleep in infants: an automatic analysis approach Behav Brain Res 91
(1998) 23-28.
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
151
VARIAZIONI STAGIONALI DELL’UMORE E TIPOLOGIA
CIRCADIANA
Paolo Scapellato{xe "Scapellato P."}, Vincenzo Natale{xe "Natale V."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Attualmente suscitano molto interesse le ricerche sulle variazioni stagionali del
tono dell’umore, soprattutto dopo la descrizione, da parte di Rosenthal e coll. (1984), di
una vera e propria “sindrome stagionale”. Questa sindrome, chiamata Disturbo Affettivo
Stagionale (DAS), presenta caratteristiche proprie oltre al corteo sintomatologico
classico della depressione, ed è per questo motivo che molti vorrebbero dare autonomia
a questa diagnosi. Il DSM IV, in effetti, riconosce l’andamento stagionale di alcune
forme di disturbi, ma lo considera come sottotipo della depressione maggiore e dei
disturbi bipolari I e II. Il DAS può manifestarsi con fasi depressive invernali (winter
blues), che rappresenta la forma classica; esiste poi una sindrome DAS-tipo estate con
episodi depressivi in questa stagione e, infine, una forma più leggera, considerata
prodromica, che prende il nome di Subsindrome-DAS. Il disturbo stagionale compare in
genere tra i 20 e i 30 anni, e l’età dei pazienti con DAS conclamato è tra i 30 e i 40 anni.
Le femmine sono le più colpite con un rapporto col sesso maschile di circa 4 a 1.
Il presupposto è che le variazioni stagionali dell’umore siano causate
dall’effetto dei mutamenti ambientali, in particolare il fotoperiodo, sull’organismo. Tali
variazioni sono presenti, seppure in misura più lieve, anche nei soggetti normali. È
possibile che, oltre alle differenze di genere, anche altre caratteristiche individuali
possano modulare l’interazione uomo-ambiente, come ad esempio la tipologia
circadiana (mattutini-intermedi-serotini). I tipi mattutini sono caratterizzati da un ciclo
veglia-sonno più regolare e preferiscono svolgere le proprie attività in orario diurno
(luce). Al contrario, i tipi serotini mostrano un ciclo veglia-sonno più flessibile e sono
prevalentemente attivi nella seconda parte della giornata (buio) È possibile quindi
ipotizzare un differente effetto delle variazioni stagionali del fotoperiodo nelle due
tipologie circadiane estreme. In particolare, ci aspettiamo di trovare una maggiore
sensibilità alle variazioni stagionali nei tipi mattutini.
Metodo
Campione
Per questa ricerca è stato utilizzato un campione formato da 18 soggetti, 9
maschi e 9 femmine (età media 22.22 anni e DS = 2.73). Questo gruppo è stato
selezionato da una popolazione di 63 soggetti, studenti o lavoratori, in base al risultato
ottenuto al Morningness-Eveningness Questionnaire (MEQ) che indica la tipologia
circadiana di appartenenza. Costituiscono quindi il campione 3 maschi e 3 femmine per
ognuna delle tre tipologie.
Materiali
Per misurare l’umore è stata usata la versione italiana del Profile of Mood
States (POMS) (Farnè, Sebellico, Gnugnoli e Corallo, 1989). I soggetti sono stati
selezionati con la versione italiana del MEQ (Mecacci e Zani, 1983). Infine i 18 soggetti
hanno compilato la versione italiana del Seasonal Pattern Assessment Questionnaire
152
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
(SPAQ) (Ficca, Barbato, Beatrice e Muscettola, 1996), un questionario di
autovalutazione sulla sensibilità ai cambiamenti stagionali.
Disegno sperimentale
Si è adottato un disegno a modello misto a misure ripetute. Per ogni soggetto
era prevista una somministrazione a intervallo mensile del POMS per la durata di un
anno.
Risultati
Per quanto riguarda il punteggio dello SPAQ, le femmine hanno ottenuto un
punteggio significativamente più alto (11.22) rispetto ai maschi (7.77) (test di MannWhitney; p<.05). Inoltre, solo il 22.22% dei maschi valuta come problematiche le
variazioni stagionali contro l’88.88% delle femmine (χ21=5.55; p<.01).
La tipologia circadiana risulta, con i dati del POMS, una variabile importante.
L’analisi della varianza, tra tipologia (3 livelli: serotini, mattutini, intermedi) e mesi
dell’anno (12 livelli), presenta un’interazione significativa (F22,165=1.65, p<.04). I
serotini e i mattutini si differenziano soprattutto in estate, dove si registra il livello
maggiore di benessere per i primi e il peggiore per i secondi.
Conclusioni
Il risultato della maggior sensibilità ai cambiamenti stagionali nelle donne è in
linea con quanto descritto in letteratura.
Dalle analisi sulla tipologia circadiana, emerge che sono i serotini a migliorare
molto con l’estate, mentre i mattutini sembrano stare meglio nelle stagioni di passaggio
(primavera e autunno). Gli intermedi mostrano, come ci si poteva attendere, un ritmo
con valori centrali rispetto alle altre due tipologie.
Possiamo provvisoriamente concludere che entrambi i gruppi mostrano una
certa sensibilità alle variazioni stagionali, ma in modo diverso: i mattutini preferiscono i
periodi in cui le condizioni ambientali non raggiungono valori estremi, i serotini, al
contrario, stanno meglio con l’aumentare del fotoperiodo. In altre parole, i serotini, che
tendono a non rispettare il ciclo luce-buio, si trovano meglio in estate grazie al maggior
periodo di luce che riduce lo sfasamento degli orologi interni con quelli esterni; i
mattutini invece risentono delle modificazioni estreme, sia in inverno che in estate, e i
loro ritmi si adeguano meglio ai valori intermedi del fotoperiodo.
Riferimenti bibliografici
Farnè M., Sebellico A., Gnugnoli D. & Corallo A. (1989). POMS, Profile of Mood
States, Manuale OS, Firenze.
Ficca G., Barbato G., Beatrice M. & Muscettola G. (1996). Prevalenza dei disturbi
affettivi stagionali: confronto fra centri a differente profilo socioculturale.
Rivista Sperimentale di Freniatria, CXX (4), 657-671.
Mecacci L. & Zani A. (1983). Morningness-Eveningness preferences and sleep-waking
diary data of morning and evening types in student and worker samples.
Ergonomics, 26, 1147-1153.
Rosenthal N.E., Sack D.A., Gillin J.C. & coll. (1984). Seasonal Affective Disorder. A
description of the syndrome and preliminary findings with light-therapy.
Archives General Psychiatry, 41, 72-80.
COMUNICAZIONI - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
153
COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
154
RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
IL DILEMMA DEL COMMESSO VIAGGIATORE: UNO STUDIO
COMPUTERIZZATO
D. Basso{xe "Basso D."}, Patrizia S. Bisiacchi{xe "Bisiacchi P.S."}
Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
Introduzione
La ricerca si propone di studiare l’abilità di pianificazione attraverso un
esperimento computerizzato che propone ai soggetti delle situazioni rappresentanti il
classico “dilemma del commesso viaggiatore”, noto in letteratura con la sigla T.S.P. (da
Traveling Salesman Problem, Cadwallader, 1975). Il compito del soggetto è di
organizzare un itinerario passando attraverso dei punti prefissati nello spazio, in modo
tale da ottimizzare il percorso e il tempo impiegato. Il modello proposto da Gärling e
collaboratori (Gärling et al. 1986, Hirtle e Gärling, 1992): prevede che la formazione di
un piano sia un processo cognitivo soggetto a limitazioni da parte della capacità della
memoria a breve termine. Ne deriva che, in un compito quale l’organizzazione di un
viaggio di lavoro da parte di un rappresentante, il primo stadio nella formazione di un
piano consisterà nella lista delle commissioni da eseguire. In seguito, dalla mappa
cognitiva si deriveranno le localizzazioni dei luoghi. Seguirà uno stadio decisionale
riguardante l’ordine in cui eseguire le varie commissioni. Infine, si avranno le decisioni
su quale percorso seguire. Nelle decisioni sul percorso da eseguire i soggetti sembrano
utilizzare alcuni criteri ricorrenti: gli autori individuano una strategia globale, una
strategia di ordinamento in gruppi di mete (clusters) con successiva localizzazione
all’interno di ciascuno di questi cluster e sono concordi sulla presenza della strategia
della distanza minima locale.
Inoltre, per formulare un piano adeguato, occorre includere anche un processo
di decisione riguardo a quale azione eseguire. Tale decisione necessita la messa in atto
di processi anticipatori, in parte non consapevoli, che permettono di estrapolare o
anticipare il possibile risultato dell’azione. Tali processi anticipatori vengono realizzati
sulla base delle informazioni accessibili al momento e delle esperienze immagazzinate
dal soggetto precedentemente
Studi precedenti come Hayes-Roth & Hayes-Roth (1979), Gärling et al. (1986),
Hirtle & Gärling (1992), Sgaramella, Bisiacchi e Falchero (1995) hanno studiato la
pianificazione utilizzando o l’ordine delle tappe raggiunte, o la lunghezza del percorso,
o entrambi, ma mai misurando, parallelamente a questi, i tempi parziali e totali utilizzati
per risolvere il problema. La ricerca, studiando i tempi di reazione delle varie
componenti, si propone di verificare se la pianificazione sia un processo ‘a cascata’, che
continua anche durante la risoluzione del compito oppure se sia un processo
predeterminato.
Materiali e metodo
COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
155
All’esperimento hanno preso parte 52 studenti della Facoltà di Psicologia
dell’Università di Padova (26 maschi e 26 femmine, di età media 20,3 anni). I soggetti
si sedevano davanti ad uno schermo di computer e venivano loro presentate le seguenti
parti:
1- 4 prove di tempi di reazione (15 stimoli x 4 tipi di TR);
2- 6 situazioni-test per il tipo di compito ‘con scia’;
3- 6 situazioni-test per il tipo di compito ‘colori’.
Ogni sessione richiedeva circa 25-30 minuti.
Ogni situazione-test era composta da una griglia di 7 colonne e 5 righe ordinate
in modo da formare una serie di 35 incroci. Compito dei soggetti era di muovere una
silhouette attraverso i tasti freccia dalla tappa di partenza (un quadrato blu nell’incrocio
in alto a sinistra) alla tappa di arrivo (un quadrato rosso in basso a destra), toccando tutte
le tappe intermedie presenti (posizionate solamente sugli incroci). La silhouette
lasciava, al suo passaggio, una traccia sullo schermo.
Nel tipo di compito ‘con scia’ era possibile raggiungere tutte le tappe
nell’ordine preferito; le sei situazioni differiscono tra loro nel numero di tappe presenti:
nel livello di difficoltà più basso le tappe erano 4+l’arrivo, nel sesto e ultimo livello esse
erano 9+l’arrivo.
Nel tipo di compito ‘colori’ alcune tappe erano di colori differenti e potevano
essere raggiunte solamente nell’ordine descritto da una sequenza illustrata a fianco; tutte
le situazioni contenevano 9 tappe + l’arrivo e i livelli di difficoltà rappresentavano la
quantità di tappe “vincolate” presenti (difficoltà 1 aveva 7 tappe libere + 2 vincolate;
difficoltà 6 aveva 2 tappe libere + 7 vincolate).
Sono state prese le seguenti misure: 1- il tempo per cominciare la prova; 2- il
tempo e il numero di mosse richieste per raggiungere ogni tappa fino alla tappa finale;
3- l’ordine nel quale sono state raggiunte le tappe; 4- tempi di reazione e numero di
errori delle quattro prove di TR.
Per analizzare i percorsi prodotti dai soggetti sono stati definiti 4 tipi di
strategie visuospaziali e, solamente per il tipo di compito ‘colori’, 3 tipi di strategie con
vincoli: ad ogni percorso veniva attribuito l’uso di una (o più) strategie se l’ordine, nel
quale venivano raggiunte le tappe, ne soddisfava i requisiti. È stato infine calcolato un
‘indice di programmazione’ (filtrando la distanza delle tappe e le caratteristiche
individuali dei soggetti dai tempi intermedi alle tappe), che rappresenta un modo per
confrontare la programmazione richiesta per scegliere via via le tappe da raggiungere.
Risultati e conclusioni
È stata eseguita un’ANOVA sul ‘tempo di programmazione’, ossia sul tempo
che intercorre tra la comparsa delle tappe ed il primo spostamento effettuato, senza
riportare differenze per i 6 livelli di difficoltà (con scia: F(5,311)=0,96; colori:
F(5,311)=1,45). L’analisi della varianza è risultata significativa, rispetto al livello di
difficoltà (com’era lecito aspettarsi), sia per il tempo di esecuzione (con scia:
F(5,311)=8,24; colori: F(5,311)=6,31) che per il numero di passi (con scia:
F(5,311)=88,57; colori: F(5,311)=18,64).
L’analisi delle strategie del tipo ‘con scia’, attraverso l’indice rho di Spearman,
ha dimostrato che i soggetti preferiscono usare una stessa strategia dall’inizio alla fine
del percorso quando esso è composto da poche tappe, mentre quando il numero
156
COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
aumenta, essi tendono ad operare dei cambi di strategia durante la sua realizzazione
(rho(306)=.44; sig.<0.001). L’indice rho di Spearman, applicato alle strategie del tipo
‘colori’, indica che i soggetti, quando ci sono poche tappe vincolate, applicano una
strategia combinata visuospaziale e con vincoli, mentre all’aumentare del numero di
tappe vincolate, tende a sparire l’uso di strategie visuospaziali (rho(.52; sig.<0,001).
I dati precedentemente citati indicano che la programmazione iniziale non è
sufficiente per coprire tutto il compito e tendono a confermare l’ipotesi che essa
continua durante il percorso. Questa supposizione trova un’ulteriore conferma con
l’analisi dell’indice di programmazione: è stata condotta una serie di t-test a coppie per
verificare la significatività delle medie dell’indice. Per entrambi i compiti risultano
differenti i valori dell’indice nella prima tappa (perché la programmazione è avvenuta
prima della partenza) e nell’ultima (non occorre effettuare una scelta se essa è l’ultima
tappa che rimane da toccare). I valori delle altre tappe, per quel che riguarda il tipo ‘con
scia’, non sono differenti l’uno dall’altro e formano, nei grafici, una zona ‘in piano’: ciò
viene attribuito ad una programmazione in quanto nel primo e nell’ultimo tratto (quando
a ragione la p. non dovrebbe esserci) i valori sono minori, e tende a conferma di una
quantità limitata di risorse cognitive deputate dal soggetto per la risoluzione del
compito. Per quel che riguarda invece il compito ‘colori’, si assiste ad un accrescimento
globale dei valori intermedi (dovuto alla relativa maggiore difficoltà del compito per il
soggetto che, per una pianificazione proficua, deve tener conto anche delle tappe
vincolate), e specialmente per i primi 4 valori con una differenza significativa
riscontrata tra la 4a e la 5 a tappa (giustificata dalla memorizzazione no ancora
completata ed il mantenimento in memoria a breve termine dell’ordine delle tappe
vincolate).
Lo studio ha dimostrato che la programmazione non è un processo che si
esplica una tantum prima di partire, ma, una volta che il soggetto ha programmato una
certa quantità, egli parte e prosegue la programmazione della traiettoria restante durante
la realizzazione stessa del percorso.
Inoltre il test computerizzato PIANTINE si propone come un valido sussidio
per lo studio della pianificazione nei dettagli; non solo nella popolazione normale, ma
anche per la valutazione dei traumatizzati cranici frontali, i quali mostrano deficit in
questa funzione cognitiva.
Riferimenti bibliografici
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Economic Geography, 51, 339-349.
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COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
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STRATEGIE AUTO RIFERITE NELLA RAPPRESENTAZIONE
MENTALE DELLO SPAZIO. STUDIO DEI CORRELATI
COGNITIVI
Andrea Bosco{xe "Bosco A."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
Lawton (1994, 1996), sulla base delle autovalutazioni di soggetti impegnati in
compito di ritrovamento di una strada, ha individuato due strategie di recupero delle
informazioni dalla memoria basate su rappresentazioni mentali in prospettiva
egocentrica, che l’autore definisce route strategy o in prospettiva eterocentrica,
orientation strategy. Il presente lavoro si propone di indagare i correlati cognitivi delle
strategie di rappresentazione mentale dello spazio mediante uno strumento di recente
costruzione (Questionario Situazionale d’Orientamento Spaziale – QSOS; e.g. Bosco,
1999) in grado di fornire una misura auto riferita dell’uso di strategie dei due tipi: a)
route e b) survey. La presente ricerca è tesa alla verifica sperimentale delle seguenti
ipotesi:
1) è possibile identificare soggetti con preferenza per l’una o l’altra strategia di
rappresentazione mentale dello spazio ma anche soggetti che mostrano “passaggi”
dall’una all’altra strategia secondo diversi fattori;
2) se la survey knowledge rappresenta il più efficiente livello di conoscenza
dello spazio, chi usa preminentemente la strategia survey dovrebbe pure essere più abile
rispetto ad altri in compiti cognitivi spaziali semplici e complessi;
3) i soggetti con preferenza della strategia route, più ancorati cioè alla route
knowledge, dovrebbero essere più abili dei soggetti appartenenti agli altri gruppi nei
compiti di ricordo di un percorso noto;
4) se vi sono soggetti che passano dall’una all’altra rappresentazione mentale
agevolmente, tale competenza potrebbe essere legata all’abilità in compiti cognitivi
semplici.
Metodo
La misura che si ottiene dal questionario consiste nella frequenza d’uso di tre
strategie: due di tipo spaziale (route e survey) e una non spaziale. Il questionario è stato
somministrato a 413 soggetti. Mediante analisi dei cluster abbiamo ottenuto un modello
a sei gruppi Nella seconda fase 117 soggetti, ripartiti in cinque dei sei gruppi, sono stati
sottoposti alla somministrazione di una batteria di prove cognitive spaziali:
1) compito di scansione dello spazio (labirinto);
2) compito di rotazione mentale, (mani destre e sinistre);
158
COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
3) span di Corsi;
4) memoria a lungo termine;
5) Compito di ricostruzione di una mappa della città di appartenenza;
6) Compito di ricordo di un percorso molto noto della città di appartenenza.
Risultati
I Indagine
Analisi dei tre gruppi “preferenza ” (survey, Route I e Route II). La struttura
fattoriale indica che il predittore più rilevante della prima funzione discriminante è il
compito di ricostruzione di mappa (peso fattoriale: -0,57), ove il gruppo “preferenza
survey” mostra la migliore prestazione. Il predittore più rilevante della seconda funzione
discriminante è il compito di memoria a lungo termine (peso fattoriale: 0,57), ove il
gruppo “preferenza route I” mostra la peggiore prestazione.
Analisi sui due gruppi “congruenza” (con il compito, con la conoscenza). Dalla
struttura fattoriale emerge che il predittore con il maggiore contributo alla
discriminazione dei due gruppi è la prova di span visuo-spaziale (peso fattoriale: 0,47)
mediante il Corsi Block Test. La direzione dell’effetto è in termini di una migliore
prestazione del gruppo “congruente con il compito” rispetto all’altro.
II indagine
Una seconda analisi è stata condotta su una nuova batteria di prove:
1) Mental Rotation Test (Vandenberg & Kuse, 1978);
2) Digit span in avanti e indietro Le prova di span di cifre del WAIS;
3) una prova sulle strategie di ragionamento;
4) una prova di discriminazione di figure e parole che indicano direzione;
5) indice dell’“effetto destra-sinistra”.
Tale analisi comprendeva esclusivamente soggetti, del campione dei 117, di età
compresa tra 21 e 34 anni, che mostravano le distanze di Mahalanobis più piccole dal
proprio centroide di gruppo. Le analisi condotte su questi nuovi gruppi confermano e
ampliano i risultati ottenuti nella prima indagine.
Conclusioni
1) Vi sono sia gruppi con preferenza per una strategia di rappresentazione
mentale dello spazio, sia gruppi con una modalità di rappresentazione che varia
al variare di un fattore rilevante.
2) L’uso predominante della strategia survey, sembra effettivamente
identificare soggetti meglio dotati sul piano tanto delle competenze di base,
quanto dei compiti complessi: a) di ricostruzione di mappe (compito survey per
eccellenza), b) di ricostruzione di un percorso noto.
3) I soggetti con preferenza della strategia route, non mostrano maggiore
perizia dei soggetti con preferenza survey nei compiti di ricostruzione di un
percorso noto.
4) I soggetti “congruenti con il compito” e “congruenti con la conoscenza” si
differenziano tra di loro solo sulla base di prove molto semplici come la prova
di Span visuo-spaziale e di riconoscimento di etichette verbali di direzione, in
entrambi i casi a favore dei “congruenti con il compito”. Ricerche future
saranno volte alla selezione di nuovi predittori per definire meglio le
COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
159
caratteristiche dei gruppi secondo un modello multifattoriale che dovrebbe
comprendere prove di intelligenza fluida, di intelligenza cristallizzata e di
rapidità percettiva.
Riferimenti bibliografici
Bosco, A. (1999). Abilità e strategie nelle rappresentazioni mentali dello spazio.
Correlati cognitivi e differenze individuali del “senso dell’orientamento”. Tesi
di Dottorato non pubblicata.
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COSA CI INSEGNANO LE INFERENZE ILLUSORIE
RELATIVAMENTE ALLA COMPRENSIONE DEI
CONDIZIONALI
Paolo Cherubini{xe "Cherubini P."}
Università di Padova
Introduzione
Le “inferenze illusorie” sono una classe di problemi deduttivi che la quasi
totalità degli individui risolve fornendo una risposta apparentemente ovvia (“illusoria”)
ma assolutamente erronea dal punto di vista logico. La possibilità di inferenze illusorie è
una diretta conseguenza della teoria dei modelli mentali (Johnson-Laird e Savary,
1996). Un esempio di “inferenza illusoria” è il seguente (Johnson-Laird e Savary, 1996,
1998; Johnson-Laird, Legrenzi, Girotto, Sonino-Legrenzi, Caverni, 1998):
1.
2.
3.
Solo una delle due seguenti frasi si applica ad una specifica mano di carte (che non
puoi vedere):
Se nella mano c’è un Re, allora c’è anche un Asso.
Se nella mano c’è una Regina, allora c’è anche un Asso.
Gli individui tipicamente concludono che nella mano di carte è senz’altro
possibile la presenza dell’Asso, ad anzi esso è più probabile sia del Re sia della Regina
160
COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
(xxx). Da un punto di vista logico, la presenza dell’Asso nella mano è impossibile. Le
condizioni di verità logiche di una frase condizionale sono le seguenti:
antecedente (p)
conseguente (q)
SE
p
ALLORA q
vero
vero
vero
vero
falso
falso
falso
vero
vero
falso
falso
vero
In altri termini, una frase condizionale è falsa se e solo se il suo antecedente è
vero ed il suo conseguente è FALSO. Dato che la premessa 1 stabilisce esplicitamente
che una delle due premesse 2 e 3 è falsa, ne segue che l’asso non può essere presente
nella mano.
Una previsione diretta della spiegazione offerta dalla teoria dei modelli mentali
per tali fenomeni è che, facilitando la focalizzazione sulle “condizioni di falsità”, le
risposte illusorie dovrebbero ridursi (Newsome e Johnson-Laird, 1996; Johnson-Laird e
Goldvarg, 1997). Un’ipotesi alternativa è che gli individui siano in grado di
rappresentare le condizioni di falsità, ma che queste siano differenti da quelle previste
dalla logica. Nel corso di tre esperimenti esplorerò queste ipotesi, per cercare di
appurare i processi mentali soggiacenti le inferenze illusorie e la comprensione delle
frasi condizionali.
In un primo esperimento si manipola il contesto di presentazione dei problemi
illusori. I risultati (analizzati con statistiche loglineari) evidenziano un’interazione: un
contesto che enfatizzi la rappresentazione del “falso” riduce l’illusione solo nei
problemi che non contengono premesse condizionali.
In un secondo esperimento, chiedendo la valutazione vero/falso di diverse
premesse condizionali e disgiuntive alla luce di diverse possibili situazioni di
riferimento, si trova che mentre le frasi disgiuntive sono comprese secondo la loro
tavola di verità standard, le frasi condizionali vengono valutate con condizioni di verità
differenti da quelle logiche; in particolare, sembra che gli individui applichino ad esse
una tavola di verità congiuntiva (ovvero: un condizionale si rivela vero solo quando sia
il suo antecedente sia il suo conseguente sono veri). In forza di queste condizioni di
verità, le risposte illusorie non possono più essere considerate erronee.
Viene quindi avanzata un’ipotesi per spiegare perché, in questi problemi, i
condizionali vengano interpretati come congiunzioni. Si ipotizza che la valutazione di
un condizionale avvenga in due stadi:
1. stadio pragmatico: si valuta la possibilità dell’antecedente nel dominio di
riferimento della frase; se l’antecedente è impossibile (falso in tutti i “mondi
possibili” che compongono il dominio) la frase viene valutata automaticamente
falsa, e non si procede al passo successivo; se l’antecedente è possibile (vero in
almeno un “mondo possibile” del dominio) si procede allo stadio logico;
2. stadio logico: la frase viene valutata secondo le condizioni di verità standard: risulta
vera se non vengono osservati casi in cui l’antecedente é vero e il conseguente è
falso, falsa se vengono osservati tali casi.
COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
161
In altri termini, dire “Se p allora q” non significa solo “q è vero in ogni
situazione in cui p è vero”, ma, più esaustivamente, “p è possibile; inoltre, q è vero in
ogni situazione in cui p è vero”.
Il modello è stato formalizzato, ed è possibile dimostrare come esso sia
potenzialmente in grado di rendere conto di note anomalie del ragionamento
condizionale come le “tavole di verità difettive” (Wason e Johnson-Laird, 1972) e
l’esito del compito di selezione di Wason (Wason, 1968); ovviamente, esso rende anche
conto delle “tavole di verità congiuntive” osservate nell’esperimento 2.
Alla luce dell’ipotesi fatta, nel terzo esperimento si presenta un’illusione
composta da premesse condizionali in un contesto in cui le condizioni pragmatiche di
verità di tali frasi sono soddisfatte (contesto “logico”; 20 soggetti), e la si pone a
confronto con la medesima illusione presentata in un contesto dove le condizioni
pragmatiche di verità delle frasi non sono state soddisfatte (contesto “pragmatico”).
L’analisi dei risultati (chi-square) mostra come le risposte illusorie siano
significativamente superiori nel contesto pragmatico, mentre le risposte logicamente
corrette siano significativamente superiori nel contesto logico.
In breve, la facilitazione nei problemi illusori contenenti frasi condizionali non
discende tanto dall’ “enfasi sul falso”, ma piuttosto dal fornire proposizioni
pragmaticamente plausibili.
Conclusioni
Alla luce delle ricerche eseguite si conclude che la spiegazione offerta dai
modelli mentali relativamente alle inferenze illusorie non è completa. Sembra, infatti,
che esse non compaiano per una “difficoltà” nel rappresentarsi la falsità logica delle
premesse. Piuttosto, sono dovute alla rappresentazione di “condizioni di falsità”
differenti, pragmaticamente orientate. Qualora si impedisca l’uso di tali “condizioni di
falsità” pragmatiche, offrendo premesse pragmaticamente plausibili, i soggetti si
mostrano in grado di fornire le risposte logicamente corrette (sono quindi in grado di
usare le corrette condizioni di verità logiche).
Il modello a “due stadi” proposto per la comprensione delle frasi condizionali
introdotto in questo studio mostra un elevato potere esplicativo nei confronti di molti
fenomeni del ragionamento proposizionale finora studiati. Inoltre, esso costituisce una
possibile base per gettare le fondamenta di quell’ “anello mancante” tra teorie del
ragionamento proposizionale e teorie pragmatiche del linguaggio di cui da tempo si
sentiva la necessità.
Riferimenti bibliografici
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COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
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Newsome, M.R., and Johnson-Laird, P.N. (1996). An antidote to illusory inferences? In
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EFFETTO DELL’INVARIANZA NEL RISCHIO
Alessandro Couyoumdjian{xe "Couyoumdjian A."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
ECONA, Centro Interuniversitario per la Ricerca sull’Elaborazione Cognitiva nei
Sistemi Naturali e Artificiali
In letteratura la ricerca sulla psicologia del rischio è principalmente connessa
allo studio della valutazione soggettiva che gli individui fanno riguardo a particolari
eventi e alle differenze individuali relative all’attuazione di comportamenti rischiosi.
Raramente vengono prese in considerazione le componenti cognitive alla base sia della
percezione del rischio sia del comportamento rischioso. Questo stato di cose rispecchia
forse la difficoltà di inquadrare e caratterizzare il concetto di rischio a livello
dell’elaborazione cognitiva. Potrebbe sembrare inadeguato, infatti, parlare di rischio dal
punto di vista della percezione psichica in quelle attività in cui non è richiesta una
esplicita valutazione dei rischi, e quindi della probabilità di occorrenza di un evento e
della entità del danno che tale evento potrebbe arrecare verificandosi. In questi casi,
come ad esempio sciare, guidare un autoveicolo, o lavorare ad una pressa, sembra
importante individuare e comprendere i fattori che inducono errori sistematici
nell’elaborazione cognitiva della situazione.
In qualsiasi attività rischiosa che si protrae nel tempo è plausibile ipotizzare
che il comportamento dell’individuo sia influenzato, oltre che dalle informazioni
ambientali, dalla “struttura” degli eventi o degli esiti passati relativi all’attività stessa. In
particolare, nel presente studio, svolto in collaborazione con Marta Olivetti Belardinelli,
viene indagato l’effetto sul comportamento di rischio di una condizione di invarianza, in
cui la persona esperisce una serie consecutiva di successi. Si ipotizza che più questa
condizione di invarianza perdura nel tempo, meno l’individuo è in grado di elaborare e
affrontare efficacemente la situazione.
Per verificare l’ipotesi è stato sviluppato un programma informatico in cui i
soggetti (N=72) dovevano cercare di acquisire il maggior numero di punti bloccando
una sequenza di carte, rosse o blu, sulla carta su cui avevano puntato. I soggetti
dovevano eseguire il compito 140 volte. All’inizio di ogni prova la composizione del
mazzo (ossia la proporzione di carte rosse e blu) veniva cambiata e controllata
COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
163
sperimentalmente. In base a tale composizione i soggetti avevano la possibilità di
scegliere tra due strategie di rischio: una conservativa, a rischio minore; l’altra
d’azzardo, a rischio maggiore. Al di sotto dell’esperimento vi era un inganno, in quanto
i soggetti non avevano alcuna influenza sull’esito di ciascuna prova. Le vincite e le
perdite erano infatti controllate sperimentalmente in modo da costituire 14 blocchi da 10
prove ciascuno in cui all’inizio si avevano o 2 vittorie (condizione di invarianza breve)
o 4 vittorie (condizione di invarianza lunga). Per controllare un possibile effetto della
frequenza le vincite e le perdite avevano la stessa probabilità di occorrenza.
Per l’analisi dei dati sono stati considerati i tempi di reazione per ciascuna
prova e il tipo di strategia utilizzata (rischio alto, rischio basso). Se la condizione di
invarianza influenzasse l’elaborazione cognitiva e il comportamento, si dovrebbe
evidenziare una differenza significativa dei tempi di reazione della strategia di rischio
per le condizioni sperimentali considerate. Sono stati utilizzati, oltre all’analisi della
varianza, i metodi di analisi delle serie temporali (auto-correlazione, cross-correlazione,
analisi di Fourier), le analisi per l’attendibilità del test (split-half) e i test bayesiani per la
verifica delle ipotesi. I risultati confermano l’ipotesi secondo la quale una struttura
invariante degli eventi precedenti determina un ottundimento della percezione degli
indizi di rischio provenienti dall’ambiente.
GLI EFFETTI DELLA DEPRIVAZIONE VISIVA NELLA
COSTRUZIONE DEI CONCETTI
Dario Galati{xe "Galati D."}* Carla Tinti{xe "Tinti C."}°, Mauro Adenzato{xe
"Adenzato M."}°
* Dipartimento di Psicologia, Università di Torino
° Centro di Scienza Cognitiva, Università di Torino
Introduzione
Cos’è un albero? Se si pone questa domanda a qualcuno si otterrà una
definizione simile a questa: “un organismo composto da un tronco allungato che
generalmente è di colore marrone, dei rami più o meno fitti, delle foglie spesso verdi,
radici più o meno profonde e frutti di vari colori”. Una simile risposta è tipica di una
persona priva di deficit sensoriali. Dall’analisi del contenuto di una tale definizione
emerge la presenza di attributi fondamentalmente appartenenti alle categorie della forma
e del colore, e ciò non è certo casuale se pensiamo che la maggior parte delle
informazioni che dall’esterno giungono ai nostri apparati percettivi, e che da qui vanno
ad informare il nostro sistema mente/cervello, provengono dai canali visivo ed acustico.
In particolare, per quanto riguarda le informazioni visive, la definizione di albero
riportata evidenzia l’importanza che queste informazioni rivestono per la costruzione
dei concetti. Data l’importanza di una tale fonte di informazioni, una domanda che
appare legittimo porsi è: che cosa può accadere quando queste informazioni sono
assenti? Come vengono costruiti ed organizzati i concetti e i significati delle parole in
queste condizioni di deprivazione sensoriale?
COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
164
Per rispondere a queste domande abbiamo analizzato la prestazione fornita da
soggetti ciechi congeniti ed acquisiti ad un compito sperimentale da noi appositamente
ideato allo scopo di poter comprendere come i processi di significazione si organizzino
quando l’informazione visiva, a causa della cecità, è isolata.
L’ipotesi è che tanto più la comprensione di un termine richieda un riferimento
alla percezione visiva, tanto maggiore sarà la differenza tra ciechi e vedenti nella
costruzione dei significati, lasciando all’analisi dei dati la spiegazione di tali differenze.
Metodo
Soggetti
Il campione sperimentale era composto da 40 ciechi di cui 23 maschi e 17
femmine (età media 42;3 anni). Ventidue di loro erano ciechi congeniti e 18 ciechi
tardivi. Il gruppo di controllo era composto da 40 persone vedenti confrontabili per età,
sesso e scolarità al gruppo sperimentale.
Materiale
Il questionario era formato da 15 termini il cui significato implicava in gradi
diversi riferimenti a informazioni di carattere percettivo in generale o specificatamente
visivo. Venivano inoltre presentati 5 nomi di categorie sovraordinate (fiori, veicoli,
verdure, frutta e vestiario).
Procedura
I soggetti venivano testati individualmente. Lo sperimentatore leggeva loro un
item alla volta. La somministrazione degli item era randomizzata. Per ognuno dei
termini veniva chiesto sia di indicarne le caratteristiche essenziali che di darne una
definizione. Si presentavano poi tutti i termini in coppia l’uno con l’altro e per ciascuna
coppia il soggetto doveva indicare il grado di somiglianza. Per queste prove non si
poneva limite di tempo. Un ulteriore compito consisteva nel presentare una categoria
sovraordinata e nel chiedere al soggetto di elencare tutti i nomi che riusciva ad associare
a tale categoria. Il tempo a disposizione per quest’ultima prova era di 1 minuto e mezzo.
Risultati
I risultati sono in corso di elaborazione. Sulla base dei risultati finora acquisiti
emergono alcune interessanti differenze tra ciechi congeniti e vedenti.
RAPPRESENTAZIONI DIAGRAMMATICHE NELLA
SOLUZIONE DI PROBLEMI PER ANALOGIA
Francesco Saverio Marucci{xe "Marucci F.S."}, Roberto Pedone{xe "Pedone R."}
Università di Roma “La Sapienza”
Studi precedenti sulla soluzione dei problemi per analogia hanno mostrato che
le analogie-sorgente possono essere utilizzate in modo efficace dai soggetti sia quando
venivano mostrate loro in forma verbale (Gick e Holyoak, 1980, 1983; Keane, 1988;
Holyoak e Thagrad 1995; Warthon et al. 1996) che in forma di rappresentazioni visivofigurale, come disegni, figure o diagrammi (Gick e Holyoak, 1980, 1983; Gick, 1985;
COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
165
Beveridge e Parkins, 1987; Goswami, 1989, 1992; Thagard, Gochfeld e Hardy, 1992).
Inoltre, in modo indipendente dalla forma in cui le analogie vengono presentate, il
ragionamento per analogia spesso coinvolge rappresentazioni visive-mentali
specialmente quando viene usato in problemi di natura spaziale (Driestadt, 1969; Beck
1978, Chafe, 1976; Kosslyn, 1975,Shepard, 1975).
Nell’ambito dello studio dei processi cognitivi implicati nella soluzione dei
problemi tramite analogia, abbiamo condotto una serie di esperimenti che hanno fatto
uso di rappresentazioni diagrammatiche presentate visivamente sullo schermo di un
computer in condizione di staticità e in condizione di movimento dinamico. I risultati
degli esperimenti condotti hanno dimostrato gli effetti delle proprietà percettive dei
diagrammi e la loro efficacia come analogie sorgenti per la soluzione del problema delle
radiazioni di Dunker (1945) espresso in forma verbale. I diagrammi presentati in
condizione statica che rappresentavano lo stato problemico iniziale (una grande forza
diretta su un bersaglio) e lo stato finale che rappresentava la soluzione di convergenza
(forze convergenti multiple) non venivano richiamati spontaneamente dai soggetti, ma
venivano utilizzati con successo quando il richiamo delle configurazioni
diagrammatiche era favorito dallo sperimentatore attraverso un suggerimento aspecifico.
L’efficacia dei diagrammi presentati in condizione statica come analogie-sorgente non
migliorava quando si utilizzavano un numero maggiore di diagrammi, ma il richiamo
spontaneo ed il successivo mapping analogico poteva essere facilitato quando insieme ai
diagrammi veniva fornita ai soggetti una descrizione verbale del principio di
convergenza .
Il risultato di maggior rilievo è stato che il richiamo spontaneo poteva essere
notevolmente migliorato quando ai soggetti venivano mostrate le configurazioni
diagrammatiche in movimento; ciò facilitava la codifica delle frecce rappresentate nei
diagrammi come ‘movimento verso un obiettivò. Il vantaggio dei diagrammi presentati
in condizione dinamica rispetto a quelli presentati in condizione statica è stato ottenuto
sia quando i diagrammi rappresentavano frecce orientate, sia quando rappresentavano
blocchi rettangolari che a differenza delle frecce non mostravano alcun orientamento
spaziale. Il trasferimento analogico della soluzione di convergenza ottenuto mediante
l’utilizzo dei diagrammi dinamici è stato migliore di quello specificamente osservato
quando sono state utilizzate analogie espresse in forma verbale (Gigk e Holyoak,
1980,1983, Keane, 1988, Warthon et al., 1996). Inoltre, né i diagrammi presentati in
condizione statica, né quelli presentati in condizione dinamica sono stati in grado di
facilitare il trasferimento analogico della soluzione quando in essi erano rappresentate
frecce divergenti.
Ci possono essere diverse spiegazioni possibili per gli effetti di facilitazione
dimostrati dalle configurazioni diagrammatiche dinamiche. La prima riguarda il fatto
che con l’aiuto del movimento, le persone possono essere guidate a codificare i
diagrammi come schemi astratti di convergenza (Catrambone e Holyoak 1989;Gick e
Holyoak, 1983). La seconda spiegazione, che non esclude la precedente, potrebbe essere
riferita al fatto che la soluzione di convergenza dipende, in senso stretto, dalla
comprensione della realtà percettiva e fisica delle forze dinamiche convergenti; questo
tipo di comprensione poteva essere meglio ottenuta a partire dalla codifica di
rappresentazioni diagrammatiche visivo-figurali in movimento (Beveridge e Parkins
1987).
166
COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
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LA RAPPRESENTAZIONE SPAZIALE DELL’AMBIENTE NEL
NON-VEDENTE
COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
167
Carla Tinti{xe "Tinti C."}°, Dario Galati{xe "Galati D."}*
* Dipartimento di Psicologia, Università di Torino
° Centro di Scienza Cognitiva, Università di Torino
Introduzione
Per orientarsi efficacemente nell’ambiente si possono utilizzare due tipi
strategie che consistono nell’utilizzo di due diverse rappresentazioni: route o survey
(ÒKeefe e Nadel, 1978). Il primo tipo di rappresentazione è basata sull’individuazione
di alcuni punti di riferimento lungo un percorso e da una sequenza di azioni che guidano
il cammino. Le informazioni sul percorso sono organizzate serialmente e non possono
venire riorganizzate, ragion per cui se ne manca una il tragitto non può essere
completato. Lo schema di riferimento nel procedere é egocentrico e nell’insieme la
rappresentazione risulta priva di plasticità. La rappresentazione di tipo survey, invece,
implica l’elaborazione delle relazioni di direzione e distanza tra luoghi,
indipendentemente dalla posizione del soggetto. Lo schema di riferimento infatti non é
centrato sulla persona ma è assoluto e costruito sulla base di indizi distali. Nell’insieme,
queste caratteristiche rendono questo tipo di rappresentazione molto plastica.
L’esplorazione dell’ambiente circostante verrebbe cioè guidata da una “mappa
cognitiva” (Neisser, 1976).
I due tipi di rappresentazione ipotizzate vengono usate entrambe dalle persone
vedenti a seconda della situazione. La rappresentazione di tipo route sarebbe sufficiente
nel percorrere luoghi molto familiari, qualora non vi siano impedimenti lungo il
cammino; quella di tipo survey sarebbe invece importante per stimare la direzione di
luoghi al di fuori del campo visivo come quando si deve individuare la direzione di un
certo luogo immaginando di essere in un altro, o laddove insorgano degli ostacoli
durante il percorso che costringono ad una deviazione.
Lo scopo del presente lavoro è quello di capire in che modo le persone nonvedenti si rappresentino ed elaborino l’informazione spaziale e, in particolare, di capire
se anche in assenza della vista si possa riuscire ad utilizzare una rappresentazione di tipo
survey. Da un lato questo può risultare estremamente utile alla ricerca sulla
riabilitazione dell’orientamento e delle capacità di movimento autonomo. Dall’altro
studiare il tipo di rappresentazione e di elaborazione spaziale nei ciechi, capire quale
informazione viene persa in assenza della visione e come questa informazione può
essere sostituita da altre modalità sensoriali, permette di chiarire il ruolo della visione
nei processi rappresentazionali e di elaborazione stessi.
Metodo
Soggetti
Il campione sperimentale era composto da 34 ciechi di cui 20 maschi e 14
femmine (età media 42 anni). Venti di loro erano ciechi congeniti, mentre 14 avevano
perso la vista in età adulta. Tutti i partecipanti si trovavano nelle condizioni fisiche per
poter svolgere i compiti proposti, ciascuno di loro era inoltre in grado di muoversi nella
città da solo con l’aiuto del bastone. Il gruppo di controllo era composto da 60 persone
normovedenti comparabili per età e scolarità al gruppo sperimentale.
Materiale
168
COMUNICAZIONI - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
L’esperimento è stato effettuato in una sala molto spaziosa nella quale erano
stato costruiti due percorsi che differivano per lunghezza e complessità. Il percorso più
semplice era formato da 4 tratti rettilinei lunghi 1.55; 2.60; 4.70 e 1.70 m
rispettivamente e da 4 angoli di 90°. Il tragitto complessivo che i soggetti dovevano
compiere era complessivamente di 10.5 m. Il secondo percorso era più lungo e
comprendeva due svolte in più. I tratti rettilinei da percorrere erano 6 di lunghezza pari
a 1,57; 1,90; 2,00; 2,60; 4,70 e 1,70 m. Il tragitto complessivo da percorrere era dunque
di 14, 47 m e, anche in questo caso, gli angoli erano tutti di 90°.
Procedura
Il compito dei soggetti consisteva nel completare i percorsi e successivamente
di rispondere a delle domande sui percorsi stessi. I soggetti vedenti eseguivano l’intera
prova bendati. Le domande che venivano loro poste riguardavano la direzione e la
distanza che intercorreva da dei punti precedentemente stabiliti ed erano studiate in
modo tale che per rispondere il soggetto doveva fare riferimento ad una
rappresentazione spaziale di tipo survey. La parte finale della prova consisteva nel far
disegnare a ciascuno il percorso fatto.
Risultati
I risultati sono in corso di elaborazione. È stata confrontata la prestazione dei
soggetti ciechi congeniti sia con quelli vedenti che con quelli tardivi. Dalle analisi
preliminari si rileva che i ciechi congeniti hanno delle prestazioni equivalenti e, in certi
casi, migliori, rispetto ai ciechi tardivi e ai vedenti. Sembra quindi che i soggetti ciechi
siano in grado di formarsi una rappresentazione di tipo survey di un percorso fatto per la
prima volta in modo non significativamente diverso rispetto ai soggetti vedenti
Riferimenti bibliografici
Neisser, U. (1976). Cognition and reality. San Francisco: Freeman.
ÒKeefe, J., e Nadel, L. (1978). The hippocampus as a cognitive map. London: Oxford
University Press.
COMUNICAZIONI – STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
169
STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
INTERAZIONI, REGRESSIONI, LISREL: ALCUNI RECENTI
SVILUPPI NELL’ANALISI CONFERMATIVA DELLE
RELAZIONI MOLTIPLICATIVE
Luigi Leone{xe "Leone L."}
Facoltà di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Le ipotesi riguardanti interazioni fra variabili rivestono grande utilità
scientifica: esse consentono di superare l’ambiguità o banalità di interpretazioni basate
su soli effetti principali e favoriscono una maggiore articolazione delle teorie. Nella
psicologia sperimentale, la ricerca di interazioni si è spesso tradotta empiricamente nella
verifica di un modello ANOVA fattoriale Tuttavia, qualora le variabili siano misurate su
scale a intervalli può risultare più appropriato ricorrere a modelli di regressione
gerarchica al fine di testare gli effetti interattivi (Jaccard, Turrisi e Wan, 1990).
Purtroppo, i modelli di regressione includenti termini interattivi vanno incontro ad
alcune difficoltà che ne limitano l’utilizzo: 1) l’uso di variabili-prodotto si traduce nella
violazione delle assunzioni del modello; 2) il termine moltiplicativo risulta spesso poco
attendibile e gravato da una forte componente di errore; 3) ne risulta che il test
dell’effetto interattivo risente di scarso potere statistico. Nel tentativo di porre rimedio
alle limitazioni elencate, Kenny e Judd (1984) hanno proposto un modello confermativo
a variabili latenti includente interazioni. L’uso di variabili latenti e la modellizzazione
della varianza di errore avrebbero dovuto migliorare il potere statistico del test
riguardante l’interazione. Jaccard e Wan (1995) hanno sviluppato una possibile
implementazione del modello di Kenny e Judd. Recentemente il modello Kenny-Judd è
stato però criticato sia per l’eccessiva complessità del modello, sia per la mancata presa
in considerazione delle medie delle variabili, le quali sono anche funzione
dell’interazione. Joreskog e Yang (1996) hanno quindi proposto parametrizzazioni
alternative, relativamente più semplici e statisticamente più corrette. L’obiettivo della
presentazione è la descrizione dei modelli Kenny-Judd nella nuova parametrizzazione
proposta da Joreskog e Yang (1996) e l’esposizione di un esempio di ricerca, nel quale i
risultati ottenuti tramite la semplice regressione gerarchica vengono confrontati con
quelli offerti dall’implementazione delle strategie confermative.
Metodo
I diversi modelli sono stati esemplificati applicandoli ai dati di una ricerca sugli
atteggiamenti verso “seguire una dieta dimagrante”. Il campione constava di 609
soggetti. L’ipotesi principale riguardava un effetto interattivo fra le norme soggettive e
le percezioni di auto efficacia nella predizione dell’intenzione di seguire la dieta. Le
norme soggettive, le percezioni di auto efficacia e le intenzioni comportamentali sono
170
COMUNICAZIONI – STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
state misurate rispettivamente tramite 3, 14 e 2 item. In primo luogo è stata calcolata
un’equazione di regressione gerarchica per la predizione delle intenzioni includente
l’interazione. I risultati sono stati confrontati con quelli emersi dall’analisi di tre modelli
confermativi (Joreskog e Yang, 1996), che differivano fra loro principalmente per il
numero di prodotti utilizzati per specificare l’interazione (un solo prodotto, 2 prodotti, 4
prodotti).
Risultati
I risultati offerti dalla regressione gerarchica indicano l’assoluta mancanza di
significatività dell’interazione (t<1). Al contrario, nei modelli confermativi il
coefficiente relativo all’interazione risulta molto vicino alla soglia di significatività
(t≅1.9). I modelli mostrano buoni indici di fit complessivi e valori R2 generalmente più
elevati rispetto a quello offerto dalla regressione gerarchica.
Conclusioni
I risultati confermano i limiti dell’approccio di regressione gerarchica: l’errore
contenuto nella variabile-prodotto riduce notevolmente il potere statistico del test
dell’interazione. I modelli confermativi offrono una soluzione soddisfacente a tale
difficoltà. I diversi modelli testati convergono nel segnalare la presenza di un effetto
interattivo non trascurabile. I modelli con un solo prodotto sono di più semplice
implementazione, e consigliabili nel caso i campioni a disposizione non siamo grandi.
Con campioni numerosi è consigliabile analizzare anche i modelli includenti 2 o 4
indicatori-prodotto. È comunque sempre opportuno confrontare i risultati ottenuti
tramite i modelli confermativi con quelli ricavati da tecniche più semplici.
Riferimenti bibliografici
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and structural equation approaches. Psychological Bulletin, 117, 348-357.
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(Eds.), Advanced Structural Equation Models: Isuess and techniques (pagg.
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Kenny, D. A. e Judd, C. M. (1984). Estimating the nonlinear and interactive effects of
latent variables. Psychological Bulletin, 96, 201-210.
SPERIMENTAZIONE PSICOLOGICA IN INTERNET:
VANTAGGI E LIMITI DELLA RICERCA ON-LINE
Luigi Lombardi{xe "Lombardi L."}, Donatella Pagani{xe "Pagani D."}
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
COMUNICAZIONI – STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
171
Il dibattito sui vantaggi e i limiti della sperimentazione psicologica attraverso
Internet ha assunto in questi ultimi anni una certa rilevanza grazie soprattutto ai
contributi di alcuni pionieri della ricerca psicologica in rete (Reips, 1997, 1998, 1999;
Krantz e Dalal, 1999; Krantz, Ballard e Scher, 1997; Pagani e Lombardi, 1999). Nei
lavori di questi autori il problema metodologico della validità della conduzione di
esperimenti in Internet è stato affrontata sotto diverse ottiche:
a) definizione della validità espressa in termini di corrispondenza dei risultati
di uno stesso esperimento condotto sia in laboratorio che in rete (replica lab – online
lab) attraverso opportune strategie di misura della concordanza dei dati (Krantz, Ballard
e Scher, 1997);
b) progettazione di esperimenti in rete che consentissero di verificare,
attraverso il controllo di alcuni parametri, l’effetto della variabilità prodotta dall’insieme
dei molteplici setting che concretamente possono realizzarsi da partecipante a
partecipante (Pagani e Lombardi, 1999);
c) discussione teorica dei vantaggi rappresentati dalla scelta di Internet come
ambiente di ricerca sotto forma di: i. accesso a campioni internazionali, ii. assenza del
bias dello sperimentatore, iii. garanzia di campionamenti dalle dimensioni elevate, iv.
possibili vantaggi in termini di costi economici e di tempo.
Questo contributo vuole affrontare il problema della organizzazione logica
della struttura di un esperimento in rete. I vantaggi e i limiti della ricerca on-line sono
come conseguenza ridefiniti all’interno di una concettualizzazione di ordine generale.
Solitamente in un laboratorio tradizionale il setting sperimentale è immerso in
un ambiente che appare in un contesto “asettico” e fortemente controllato dalla
pianificazione dello sperimentatore. Al contrario, un esperimento condotto in Internet
possiede una struttura e organizzazione più complessa. Il contesto associato ad un
laboratorio on-line possiede due distinte componenti. La prima è caratterizzata dalla
specifica realizzazione del laboratorio on-line in termini di fattori associati alla humancomputer interaction, la seconda da un contesto reale o fisico nel quale il partecipante è
di fatto situato (es. ufficio, casa, scuola, ecc.). Mentre la prima componente può essere
in linea di principio controllata dal setting sperimentale, l’altra è di fatto un oggetto che
non può essere direttamente gestito dal ricercatore.
In termini formali un disegno sperimentale misto on-line (on-line mixed
experimental design (OEX)) può essere insiemisticamente rappresentato con (1):
(1)
OEX={Q1={Qc,Qw,Qb1,Qb1},Q2={Q2a,Qb2,Qb2}}; dove
Q1 : la componente logica direttamente controllata dallo sperimentatore;
Qc : la componente costante in Q1 del disegno sperimentale;
Qw : la componente within-subjects in Q1 del disegno sperimentale;
Qb1 : la componente between-subjects in Q1 che definisce i parametri del setting on-line;
Qb1 : la componente between-subjects in Q1 che definisce i parametri associati alle
variabili demografiche del partecipante;
Q2 : la componente logica non direttamente controllata dallo sperimentatore;
Q2a : la componente in Q2 totalmente ignorata dallo sperimentatore;
Qb2 : la componente between-subjects in Q2 che definisce i parametri del setting on-line;
172
COMUNICAZIONI – STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
Qb2 : la componente between-subjects in Q2 che definisce i parametri associati alle
variabili demografiche del partecipante;
Dalla rappresentazione insiemistica è possibile rilevare:
a) la componente {Qb1,Qb2} logicamente è esclusiva della sola sperimentazione
on-line, in quanto è norma nella ricerca di laboratorio tradizionale definire il setting
come oggetto costante;
b) la componente generale between-subjects {Qb1,Qb1,Qb2,Qb2} può essere
concettualmente interpretata come unione di parte deterministica {Qb1,Qb1} e di parte
non deterministica {Qb2,Qb2}. Ciò conduce ad un paradosso secondo la teoria dei
disegni sperimentali che assume la componente between-subjects come appartenente
alla struttura deterministica del modello;
c) da b per implicazione si ha che la componente generale between-subjects
deve essere intesa come entità spuria, o più semplicemente come variabile probabilistica
multidimensionale, inoltre, deve essere interpretata come classificatore probabilistico (la
classificazione dei soggetti e del setting è possibile solo a posteriori in funzione delle
informazioni liberamente comunicate dai partecipanti all’esperimento).
d) da b & c per implicazione la componente spuria between-subjects può
teoricamente produrre seri problemi associati all’interpretazione statistica dei risultati.
Per i punti sopra elencati è necessario dunque valutare l’uso di speciali
statistiche e procedure euristiche che permettano di affrontare creativamente da un
punto di vista metodologico i nuovi problemi posti in essere dalla ricerca condotta in
Internet. Inoltre, noi crediamo che la futura sperimentazione on-line richiederà non solo
la creazione e introduzione di nuove strategie metodologiche, ma anche e soprattutto la
nascita di una adeguata epistemologia per la definizione precisa del concetto di soggetto
virtuale o soggetto Internet.
Riferimenti bibliografici
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Birnbaum (Ed.): Psychological Experiments on the Internet. Academic Press,
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on the Internet. Academic Press, New York (in stampa).
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Germany: Hogrefe.
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Academic Press, New York (in stampa).
COMUNICAZIONI – STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
173
UNA ANALISI DELLA SODDISFAZIONE RESIDENZIALE
CONDOTTA NELLA CITTÀ DI ORVIETO
Fabio Lucidi{xe "Lucidi F."}, Maria Pia Gagliardi{xe "Gagliardi M.P."}, Marta
Maria Rosati{xe "Rosati M.M."}, Marino Bonaiuto{xe "Bonaiuto M."}, Mario
Bertini{xe "Bertini M."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Allo scopo di misurare i diversi aspetti relativi alla relazione tra i residenti e il
loro contesto residenziale sono state recentemente proposte due diverse scale: la Scala
di soddisfazione residenziale (RSS) e quella di attaccamento al vicinato (SAV) (Bonnes
et al., 1997). La prima misura si riferisce alla percezione di specifici aspetti della
qualità ambientale urbana; la seconda, invece, valuta gli aspetti globali della
soddisfazione che le persone esprimono rispetto al loro quartiere di residenza. In
sostanza la (RSS) si basa su un costrutto multidimensionale che valuta la percezione
soggettiva dei diversi aspetti dell’ambiente residenziale; la (SAV) si propone di
misurare, in senso generale, il legame affettivo delle persone con il loro ambiente
residenziale. I dati di validazione di queste due scale si riferiscono alla loro applicazione
in un contesto urbano ampio come quello romano (Bonnes et al., 1997). La presente
ricerca si è proposta di valutare le caratteristiche di queste due scale in un contesto
abitativo più ristretto come quello della città di Orvieto.
Metodo
La RSS e la SAV sono state somministrate ad un campione di 200 abitanti
estratti casualmente a gruppi di 50 per ciascuno dei quattro quartieri della città di
Orvieto (Orvieto, Orvieto Scalo, Ciconia, Sferracavallo).
Analisi dei dati e risultati
Il primo passo della presente ricerca è stato quello di valutare se la RSS e la
SAV, laddove applicate al contesto di Orvieto, mantenessero la stessa struttura fattoriale
rilevata nella città di Roma. La struttura fattoriale della RSS è stata analizzata attraverso
una serie di analisi delle componenti principali (PCA). Le PCA sono state condotte
separatamente sugli items relativi a ciascuna delle 11 aree generative del questionario, e
per ciascuna PCA, il numero dei fattori estratti è stato determinato attraverso lo Screetest.
Le PCA hanno sostanzialmente confermato i risultati rilevati sul campione
romano. Anche gli items della SAV sono stati sottoposti a PCA che ha confermato la
struttura unifattoriale della scala.
A partire da queste analisi, per ciascun fattore emerso da ogni area generativa,
sono stati calcolati i punteggi fattoriali dei singoli soggetti, che sono stati utilizzati come
variabili dipendenti nelle successive analisi.
174
COMUNICAZIONI – STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
La ricerca si è proposta anche di valutare se i punteggi alla scala SAV riescono
a discriminare i differenti livelli di attaccamento al proprio quartiere tra gli abitanti delle
quattro diverse zone che compongono la città di Orvieto (Orvieto centro storico; Orvieto
Scalo; Ciconia; Sferracavallo). A questo scopo i punteggi fattoriali dei 200 soggetti sulla
Scala di Attaccamento al Vicinato (SAV) sono stati sottoposti a una Analisi della
covarianza per gruppi indipendenti (2x4), considerando come fattori il sesso e il
Quartiere di residenza (Orvieto centro storico; Orvieto Scalo; Ciconia; Sferracavallo), e
come covariata il livello socioeconomico. È stato rilevato un effetto principale
significativo per il fattore Quartiere di residenza (F 3, 192 = 7,86; p<0,001). I confronti
post hoc indicano che i punteggi di attaccamento al vicinato sono significativamente più
alti nel centro storico di Orvieto rispetto ai quartieri fuori le mura.
Allo scopo di identificare gli aspetti della soddisfazione residenziale che
differenziano i vissuti degli abitanti delle quattro diverse zone della città di Orvieto, i
dati sono stati sottoposti ad una analisi discriminante considerando come variabile di
gruppo la zona di residenza e come variabili discriminative le scale del RSS e le
variabili socio-demografiche rilevate tramite un’intervista strutturata. L’analisi
discriminante, sulla base di queste variabili, ha evidenziato le 3 funzioni discriminanti
capaci di distinguere i quattro gruppi di residenti nei diversi quartieri. Le tre funzioni
spiegano rispettivamente 52,73%; il 35,13%, e il 12,15% della varianza del modello, e
complessivamente permettono di classificare correttamente il 95,98 dei soggetti nei
quattro gruppi.
La prima funzione permette di discriminare Orvieto centro dagli altri tre
quartieri e, da sola spiega il 52, 73% della varianza. Le medie delle variabili che entrano
nella funzione indicano che, a differenza degli abitanti dei quartieri “fuori le mura”, i
residenti al centro di Orvieto sono soddisfatti della piacevolezza estetica dei loro edifici,
dei collegamenti con le altre zone della città (gli item che saturano su questo fattore si
riferiscono principalmente ai collegamenti con il centro) dei servizi culturali e dei
luoghi d’incontro a loro disposizione e non lamentano alti livelli d’inquinamento
acustico e ambientale.
Conclusioni
I risultati del presente studio suggeriscono confermano la struttura fattoriale
delle due scale emersa nello studio condotto a Roma. Inoltre i punteggi alla scala di
soddisfazione residenziale permettono di identificare dei profili omogenei relativi a
richieste circosritte e diversificate tra i singoli quartieri, che sono alla base dei livelli
generali dell’attaccamento al quartiere di residenza in un contesto abitativo di
dimensioni limitate. Tali profili possono essere utili per indirizzare in modo mirato gli
interventi istituzionali per il miglioramento della qualità ambientale urbana nella
direzione delle esigenze espresse dai cittadini.
Riferimenti bibliografici
Bonnes M., Bonaiuto M., Aiello A., Perugini M., Ercolani A.P. 1997. A transactional
perspective on residential satifaction. A study in Rome, Italy. In: Housing
Survey; Deprès & Pichè (74-99).
COMUNICAZIONI – STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
175
ADATTAMENTO DEL GROUP ENVIRONMENT
QUESTIONNAIRE ALL’AMBITO SCOLASTICO: QUALITÀ
PSICOMETRICHE
Annalisa Pelosi{xe "Pelosi A."}, Marina Pinelli{xe "Pinelli M."}, Raffaele Tucci{xe
"Tucci R."}
Università degli studi di Modena, Dipartimento di Scienze Biomediche
Introduzione
Intento della nostra ricerca è quello di sviluppare uno strumento
psicometricamente affidabile e pratico per la misurazione della coesione, intesa come
processo dinamico che si riflette nella tendenza di un gruppo ad unirsi e a rimanere
insieme allo scopo di raggiungere mete ed obiettivi (Carron, 1982). Ciò è stato fatto in
ambito sportivo con la costruzione del Group Environment Questionnaire (G.E.Q.) da
parte di Carron (1985) allo scopo di sostituire il sociogramma di Moreno (1964): viene
data maggior evidenza alla natura multidimensionale della coesione attraverso una
misura più articolata e oggettiva. Tale necessità si avverte anche nel campo delle
relazioni scolastiche (Hallinan, 1978), in cui la coesione è dimostrato avere un ruolo
importante nella modulazione degli atteggiamenti verso la scuola (Kafer, 1976) e sulle
performance di pensiero divergente (Stam e Stam, 1977).
Metodo
Il campione è costituito da 636 studenti di scuola media superiore (463 maschi
- 73,7% - e 165 femmine -26,3% -), di età media 16.7 anni.
Ad essi è stato somministrato durante il normale orario scolastico, in forma
collettiva e anonima, dagli insegnanti stessi, il questionario elaborato sul G.E.Q.: sono
state mantenute tre delle quattro dimensioni previste dallo strumento. Due scale rilevano
l’attrazione dello studente verso il gruppo-classe, ovvero le credenze personali e le
percezioni su ciò che attrae la persona verso il gruppo: una di esse riguarda i sentimenti
sul coinvolgimento personale, sul desiderio di accettazione e sulle interazioni sociali del
gruppo (attrazione individuale per il gruppo focalizzata ai rapporti Sociali - AGS-),
l’altra misura i sentimenti dei singoli sul proprio coinvolgimento nel compito, sulla
produttività, sulle mete e sugli obiettivi (attrazione individuale per il gruppo focalizzata.
sul compito - AGC -). La terza scala prende in esame l’integrazione del gruppo, cioè le
idee e le percezioni che i membri possiedono sul gruppo come totalità, allo scopo di
rilevare quanto il gruppo si senta unito e integrato socialmente (Integrazione del Gruppo
focalizzata ai rapporti Sociali -IGS-).
Non si è ritenuto opportuno inserire la quarta scala relativa all’integrazione del
gruppo focalizzata sul compito (IGC) in quanto a nostro parere non applicabile
all’ambito scolastico, dato che nell’attuale ordinamento scolastico non sono previste
valutazioni per la performance del gruppo. Sono stati inoltre aggiunti items inerenti a tre
nuove dimensioni: la solidarietà di classe, la coesione rispetto al genere (maschio vs
femmina) e la solidarietà di ruolo (studente vs insegnante). Lo strumento è risultato così
composto da un totale di 25 items, su scala Likert da 1 a 5 (da assolutamente vero a
assolutamente falso). Al fine di avere un criterio di verifica indipendente, ai 32
176
COMUNICAZIONI – STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
insegnanti presenti durante la compilazione è stato richiesto di compilare una versione
ridotta (12 items) del questionario, relativa agli stessi domini. Infine, è stato utilizzato
uno strumento discriminante (Kellman, 1993) volto ad evidenziare le relazioni
interpersonali, composto da 10 items. Il tempo di somministrazione previsto è di 20
minuti ca.
Risultati
I dati sono stati sottoposti ad analisi fattoriale esplorativa (metodo delle
Componenti Principali, rotazione Oblimin diretto) e confermativa (metodo della
Massima Verosimiglianza) che hanno dimostrato l’emergenza dei cinque fattori previsti,
fuorché la solidarietà di ruolo, i cui items si sono disposti su un unico fattore non
saturato con la scala totale del nuovo strumento. Il coefficiente di correlazione di
Cronbach di ogni scala è risultato tra un minimo di .31 (coesione rispetto al genere) e un
massimo di .68 (AGS); il coefficiente α del test nel suo complesso è di .77. Il metodo
split-half ha fornito un coefficiente di Guttman uguale .78.
La correlazione tramite il test di Pearson con il questionario ridotto fornito agli
insegnanti dimostra che i due strumenti sono indipendenti in tutte le scale e nel loro
complesso. Lo strumento mostra infine una correlazione trascurabile (.142) con il test
sulle relazioni interpersonali che indica una buona validità discriminante del
questionario.
Conclusioni
Lo strumento così costruito, composto da 22 items, sembra soddisfare i criteri
di economicità, attendibilità e validità auspicabili. È perciò proponibile all’interno delle
scuole superiori come test di facile utilizzo, spoglio e comprensione anche da parte di
insegnanti non esperti in tecniche psicometriche, per la gestione di classi che presentino
difficoltà di comportamento e di inserimento di alunni. Il test fornisce un giudizio
obiettivo da parte dei ragazzi, diverso da quello che verrebbe espresso da parte di
osservatori e insegnanti.
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Milano: Etas Kompass.
Hallinan, M.T., Tuma, N.B. (1978). Classroom effects on change in children’s
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Kafer, N.F.(1976). Friendship choice and attitudes to school. Australian Journal of
Education, 20,3: 278-284.
Stam, P.J., Stam, J.C. (1977). The effect of sociometric grouping on task performance in
the classroom. Education, 98,2: 246-252.
COMUNICAZIONI – STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
177
ATTENDIBILITÀ E VALIDITÀ FATTORIALE DELLA
WECHSLER ADULT INTELLIGENCE SCALE- EDIZIONE
RIVEDUTA NELLA POPOLAZIONE ANZIANA: RISULTATI
PRELIMINARI
Aristide Saggino{xe "Saggino A."}*, Caterina Laicardi{xe "Laicardi C."}**, Anna
Grieco{xe "Grieco A."}*, Michela Balsamo{xe "Balsamo M."}*
*Seconda Università degli studi di Napoli
**Università “La Sapienza” Roma
Introduzione
La Scala di Intelligenza Wechsler per Adulti Edizione Riveduta (WAIS-R;
Wechsler, 1981), recentemente disponibile nel nostro paese (Orsini e Laicardi, 1997),
rappresenta il test di abilità generale più utilizzato a livello internazionale. Il campione
di taratura americano non supera i 74 anni di età, laddove quello italiano non va al di là
dei 64 anni. Per tale ragione, può essere particolarmente utile studiare l’attendibilità e la
validità di questo strumento in campioni italiani di età superiore ai 64 anni.
L’obiettivo principale di questo lavoro consiste nello studiare la struttura
fattoriale della WAIS- R dai 65 anni di età in poi. Un secondo obiettivo consiste nel
verificare se effettivamente, come è riportato da Orsini e Laicardi (1997), la percentuale
di varianza attribuibile al fattore di intelligenza generale (fattore g) aumenta con
l’avanzare dell’età. Si vuole, infine, verificare l’attendibilità della WAIS-R nei campioni
esaminati.
Soggetti
In questa ricerca sono stati utilizzati due campioni. Il primo è costituito da 100
anziani normali dai 65 ai 74 anni di età (57 femmine e 43 maschi) con un’età media di
68.69 anni (DS= 2.55). L’età media dei maschi è di 68.42 anni (DS= 2.72), quella delle
femmine è di 68.89 anni (DS= 2.42). La media degli anni di istruzione è di 5.09 anni
(DS= 2.47). La media degli anni di studio dei maschi è di 5.74 (DS= 2.28), quella delle
femmine è di 4.60 anni (DS= 2.51).
Il secondo campione è costituito da 100 anziani normali dai 75 anni di età in su
(55 femmine e 45 maschi) con un’età media di 78.61 anni (DS= 4.73). L’età media del
maschi è 79.09 anni (DS= 5.01), quella delle femmine è di 78.22 anni (DS= 4.49). La
media degli anni di istruzione dell’intero campione è di 5.81 anni (DS= 3.70). La media
degli anni di studio dei maschi è di 6.02 (DS= 3.90), quella delle femmine è di 5.64 anni
(DS= 3.56).
La selezione dei soggetti è avvenuta attraverso un colloquio preliminare teso ad
accertare l’assenza di deficit di natura psichiatrica o neurologica nonché l’eventuale uso
di psicofarmaci.
Entrambi i campioni sono costituiti quasi completamente da pensionati e
casalinghe.
Metodo
178
COMUNICAZIONI – STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
A tutti i soggetti è stata somministrata la WAIS- R. A 63 soggetti del primo
gruppo e 60 del secondo sono stati risomministrati i subtest Memoria di Cifre ed
Associazioni di Simboli a Numeri a distanza di 5-15 giorni allo scopo di studiare la
attendibilità dello strumento. Ai soggetti di entrambi i campioni sono stati somministrati
altri test che non verranno considerati in questa sede.
Risultati e conclusioni
Le attendibilità della WAIS- R appaiono in entrambi i campioni sufficienti
essendo in quasi in tutti i casi maggiori di .70 e spesso maggiori di .80.
L’analisi delle componenti principali rivela due fattori per l’età 65-74 anni (che
spiegano il 62.979% della varianza) ed uno per le età dai 75 anni in poi, che spiega il
59.253% della varianza. I due fattori del primo campione sembrano corrispondere
rispettivamente ai fattori di Comprensione Verbale ed Organizzazione Percettiva
solitamente riscontrati nelle analisi fattoriali della WAIS-R. L’eccezione maggiore è
rappresentata dal subtest di Riordinamento di Storie Figurate che satura maggiormente
sul fattore verbale. Pertanto, ci troviamo di fronte ai classici fattori di intelligenza
cristallizzata ed intelligenza fluida (Horn e Cattell, 1966). In ogni caso, i subtest
tendono ad avere quasi sempre saturazioni elevate su entrambi i fattori, lasciando
intendere che nella fascia di età 65-74 anni la WAIS- R sia soprattutto un test di
intelligenza generale. Ciò, ovviamente, appare ancora più vero per il campione dai 75
anni in poi.
Si è anche cercato di stimare il fattore g utilizzando le saturazioni del primo
fattore principale non ruotato (Kaufman, 1990). Con questo metodo si ricava che il 51%
della varianza degli 11 subtest è attribuibile all’intelligenza generale nel campione di
65-74 anni. Tale percentuale sale al 59% nel campione dai 75 anni in su,
rappresentando pertanto il valore più elevato riscontrato in campioni italiani. Appare
quindi confermata l’ipotesi riportata da Orsini e Laicardi (1997), secondo la quale la
percentuale di varianza attribuibile all’intelligenza generale (fattore g) tenderebbe ad
aumentare con l’avanzare dell’età, il che significa che la WAIS- R diventa sempre di più
un test di fattore g a mano a mano che aumenta l’età dei soggetti.
Riferimenti bibliografici
Horn, J. e Cattell, R. B. (1966). Refinement and test of the theory of fluid and
crystallised intelligence. Journal of Educational Psychology, 57, 253-270.
Kaufman, A. S. (1990). Assessing adolescent and adult intelligence. Allyn and Bacon,
Boston.
Orsini, A. e Laicardi, C. (1997). WAIS- R: contributo alla taratura italiana.
Organizzazioni Speciali, Firenze.
Wechsler, D. (1981). Manual for the Wechsler Adult Intelligence Scale- Revised.
Psychological Corporation, San Antonio, TX. Ed. It.: Manuale della Scala di
Intelligenza Wechsler per Adulti Riveduta (adattamento italiano a cura di C.
Laicardi e A. Orsini). Organizzazioni Speciali, Firenze, 1997.
COMUNICAZIONI – STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
179
LA ROME SLEEPINESS SCALE: VALUTAZIONE
PSICOMETRICA DI UNA SCALA DI MISURA DELLA
SONNOLENZA DIURNA
Cristiano Violani{xe "Violani C."}, Alessandra Devoto{xe "Devoto A."}, Fabio
Lucidi{xe "Lucidi F."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Per misurare la sonnolenza soggettiva sono stati proposti diversi questionari.
Per la sua semplicità e rapidità di compilazione, in questi ultimi anni si è
particolarmente affermata la Epworth Sleepiness Scale (ESS, 1). La ESS si compone di
8 item in cui i soggetti valutano la propria probabilità di addormentarsi in diverse
situazioni di vita quotidiana, su una scala di frequenza a quattro punti (da mai=0 a
molto spesso=3). Nello studio di validazione della ESS (2) viene riportata una alfa di
Cronbach di 0.88 su pazienti con disturbi di eccessiva sonnolenza diurna e di 0.73 per i
soggetti normali. Dal 1992 ad oggi la ESS è stata utilizzata in oltre 40 studi pubblicati,
alcuni dei quali specificamente mirati alla valutazione delle caratteristiche di validità e
attendibilità dello strumento. Alcuni autori hanno recentemente mosso delle critiche alla
validità della ESS, sottolineando che la scala esibisce correlazioni moderate o nulle con
indici di disturbo respiratorio in pazienti con sindromi apneiche (3). Questo criterio di
validazione appare però troppo severo, considerando che la gravità del problema
respiratorio non è necessariamente correlata al livello di severità della sonnolenza
diurna (p.e. 3).
Gli studi che hanno considerato valutato la coerenza interna della scala (p.e.4),
hanno rilevato alfa di Cronbach molto elevati, coerenti con l’idea che la scala misuri un
unico tratto. Tuttavia gli studi che hanno valutato la dimensionalità della scala mediante
analisi delle componenti principali, pur evidenziando un fattore primario capace di
spiegare una ampia quota di variabilità (dal 44 al 57%), suggeriscono la presenza di un
secondo fattore (p.e.2). Dall’analisi degli item marker i due fattori sembrerebbero
riferirsi rispettivamente a situazioni in cui un eventuale è appropriato (p.e. “Sdraiato e
rilassato nel pomeriggio, quando le circostanze lo permettono”) e a situazioni in cui
l’addormentamento è inappropriato (p.e.”In auto, bloccato dal traffico da alcuni
minuti”). La presenza di due fattori nella scala potrebbe essere spiegata da due
possibilità alternative: 1) gli item della ESS potrebbero riferirsi a due dimensioni
qualitativamente differenti della sonnolenza, relative l’una alla sleep-ability, ovvero alla
capacità di un individuo di addormentarsi quando le circostanze lo permettono, e l’altra
alla sleep-resistance, ovvero alla capacità di resistere all’addormentamento in
circostanze inadeguate. Questo secondo fattore potrebbe non emergere chiaramente
perché rappresentato unicamente da due item nella scala. 2) La formulazione della
Epworth, che non esplicita nelle istruzioni se il soggetto debba stimare la probabilità di
addormentarsi volontariamente o di incorrere in un colpo di sonno, potrebbe
determinare una situazione ambigua nella quale alcuni item vengono interpretati in una
direzione e altri nell’altra. Scopo dello studio è quello di confrontare la struttura
fattoriale della ESS con quella di una scala di resistenza alla sonnolenza (RSS), che si
180
COMUNICAZIONI – STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
differenzia dalla prima perché: 1) nelle istruzioni viene chiaramente esplicitato che il
soggetto deve sempre stimare la probabilità di incorrere in un addormentamento
involontario; 2) i dodici item della scala rappresentano in misura adeguata sia situazioni
in cui l’addormentamento ha conseguenze negative che situazioni senza conseguenze.
Metodo
126 pazienti, (età media = 49; da 18 a 71 anni), con vari disturbi del sonno
(Insonnia e Parasonnie, non caratterizzate da eccessiva sonnolenza diurna, N=37;
Narcolessia, Ipersonnia e Apnea, caratterizzate invece da eccessiva sonnolenza, N= 89)
hanno compilato le scale ESS e RSS presso un centro del sonno.
Analisi dei dati
La struttura fattoriale delle due scale è stata analizzata mediante differenti
analisi delle componenti principali. La consistenza interna di ognuna delle due scale è
stata valutata mediante item analysis e la valutazione del coefficiente alfa di Cronbach.
Inoltre, i punteggi della ESS e della RSS sono stati sottoposti a una analisi della
varianza One-way considerando il fattore GRUPPO a due livelli (non sonnolenti vs.
sonnolenti); per ognuna delle analisi è stata computata l’eta quadrato come indice della
dimensione dell’effetto.
Risultati
La analisi delle componenti principali sugli item della ESS ha evidenziato due
fattori con autovalore superiore a 1, che spiegano rispettivamente il 52, 9 e il 12,9%
della varianza. Gli item marker dei due fattori dopo rotazione obliqua si riferiscono
rispettivamente alle situazioni in cui l’addormentamento è appropriato e a quelle in cui è
inappropriato. L’alfa per la ESS è pari a 0.866. La medesima analisi condotta sugli item
della RSS evidenzia una struttura monofattoriale capace di spiegare il 59,6 % della
varianza. L’alfa è pari a 0.941. Il coefficiente alfa che si sarebbe raggiunto aggiungendo
4 item alla ESS (stimato con la formula profetica di Spearman Brown) è pari a 0.909.
Per raggiungere la coerenza interna della RSS, alla ESS occorrerebbe aggiungere 11
item simili. Le ANOVA sui punteggi delle due scale mostrano una differenza
significativa tra le medie dei due gruppi nella direzione attesa sia per la ESS
(F1,124=30.5; p<.0001; eta square= 0.20) che per la RSS (F1,124=38.2; p<.0001; eta
square= 0.23).
Discussione
I risultati indicano che, aumentando il numero di situazioni e specificando che
la valutazione si riferisce a un addormentamento involontario la scala assume una più
chiara struttura unifattoriale. Questo determina un incremento della coerenza interna
della RSS rispetto alla ESS, che non può essere spiegato solo considerando l’aumento
del numero degli item.
Riferimenti bibliografici
Chevrin R.D., Aldrich M.S. Neurology, 1999, 52:125-131.
Johns M.W. Sleep, 1991, 14 (16):540-545.
Johns M.W. Sleep, 1992, 15 (4):376-381.
COMUNICAZIONI – STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
181
Kingshott R., Douglas N., Deary I. Journal of Sleep Research, 1998, 7:293-294.
POSTER
ATTENZIONE
LA SUZIONE NON NUTRITIVA E L’ATTIVITÀ MOTORIA:
RISPOSTE COMPORTAMENTALI NEONATALI DI FRONTE A
STIMOLI ACUSTICI
Giuliana Giovanelli{xe "Giovanelli G."}, Ida Callegati{xe "Callegati I."},
Alessandra Sansavini{xe "Sansavini A."}, Giovanni Tuozzi{xe "Tuozzi G."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Introduzione
Nello studio delle capacità neonatali di discriminazione e preferenza degli
stimoli acustici, una risposta comportamentale frequentemente utilizzata è la suzione
non nutritiva (SNN), perché è costituita da uno schema ritmico individuale
sufficientemente stabile e modificabile in funzione degli stimoli uditi (DeCasper e
Sigafoos, 1983). In assenza di altre misure comportamentali, un indice di
discriminazione e preferenza è risultato essere anche l’attività motoria (AM) che è
organizzata in schemi già dal quinto mese di gravidanza ed è la prima a svilupparsi
(Hepper et al., 1993). In ricerche precedenti abbiamo impiegato la SNN e l’AM
separatamente di fronte al battito cardiaco materno ed estraneo presentato in due
versioni, una strutturata e una ritmica. Si è mostrato che la SNN è un indice di
discriminazione tra i due stimoli in entrambe le versioni e di preferenza dello stimolo
materno strutturato (Giovanelli et al., 1999). L’AM, d’altra parte, costituisce un indice
di discriminazione tra i due stimoli strutturati e di preferenza di quello materno
(Giovanelli et al., 1998). Non esistono tuttavia studi che abbiano analizzato l’AM
quando è presente la SNN. Questa ricerca intende quindi verificare se l’AM, in presenza
della SNN, costituisce un indice di discriminazione tra il battito cardiaco materno ed
estraneo.
Metodologia
Soggetti
Sei neonati a termine sono stati esaminati durante il sonno attivo nel terzo
giorno di vita.
Stimoli
Gli stimoli erano costituiti dal battito cardiaco della madre (BCM) e di
un’estranea (BCE), presentati in due versioni: la prima strutturata (S) (battito cardiaco
con componenti ritmiche e timbriche) e la seconda ritmica (R) (battito cardiaco
trasformato in un tono puro che ne conservava il ritmo).
Procedura
Sia lo stimolo materno che quello estraneo erano preceduti da un periodo di
baseline di silenzio di 60 s, ed erano inviati in cuffia in tempo reale in due versioni
successive, la prima strutturata e la seconda ritmica. Ciascuna versione durava 180 s. e
la durata totale dell’esperimento era di 14 minuti. È stata videoregistrata l’AM e
contemporaneamente rilevata la SNN.
POSTER - ATTENZIONE
185
Codifica dell’attività motoria
Per codificare l’AM abbiamo costruito una griglia che comprende le seguenti
categorie di movimenti: movimenti della testa, degli arti superiori, delle mani, degli arti
inferiori, dei piedi, del viso, del tronco e quelli generalizzati del corpo. Le categorie
individuate sono mutualmente esclusive. Per la codifica della SNN e i relativi risultati si
veda, Giovanelli et al., 1999.
Risultati
Per l’analisi dell’AM sono stati analizzati per ogni minuto: il numero
complessivo di movimenti di fronte a ciascuno stimolo, e il numero di movimenti nelle
categorie relative agli arti superiori e mani, agli arti inferiori e piedi e al viso. Non si
sono rilevate differenze significative tra la baseline precedente lo stimolo materno e
quella precedente lo stimolo estraneo in nessuna categoria di movimenti. Per ciascuna
categoria di movimenti sono state inoltre effettuate: l’analisi della varianza a tre fattori
within (fonte dello stimolo: materno/estraneo, tipo di stimolo: strutturato/ritmico e
andamento temporale: tre periodi di 60 s.) e l’analisi della varianza a due fattori within
(fonte dello stimolo: materno/estraneo e andamento temporale: baseline 60 s/ stimolo
strutturato primi 60 s). È risultato significativo il fattore andamento temporale nelle
seguenti categorie:
a) movimenti totali (ANOVA a due fattori, F= 9,41; gl= 1,5; p= .02): di fronte
al battito strutturato, sia materno che estraneo, i movimenti totali aumentano
significativamente dalla baseline al primo minuto del test;
b) movimenti degli arti inferiori e dei piedi (ANOVA a due fattori, F= 9,33;
gl= 1,5; p= .02): di fronte al battito strutturato, sia materno che estraneo, i movimenti
degli arti inferiori e dei piedi aumentano significativamente dalla baseline al primo
minuto del test;
c) movimenti del viso (ANOVA a tre fattori, F= 3,93; gl = 2, 10; p= .05): i
movimenti del viso hanno lo stesso andamento temporale di iniziale reazione alla novità
e successiva abituazione di fronte ai due stimoli.
Discussione
I dati mostrano che l’AM in presenza della SNN costituisce un indice di
reattività al battito cardiaco sia materno che estraneo, in quanto i movimenti aumentano
significativamente dalla baseline al primo minuto del test di fronte a entrambi gli
stimoli, ma non un indice di discriminazione tra i due stimoli né tra la versione
strutturata e quella ritmica, come invece è sia la SNN sia l’AM in assenza della SNN. Si
può ipotizzare che, quando sono presenti contemporaneamente la SNN e l’AM, la SNN,
il cui ritmo è modificabile in funzione degli stimoli ed è probabilmente controllato in
parte da meccanismi corticali, assuma un ruolo organizzatore primario rispetto all’AM,
più globale e controllata da meccanismi sottocorticali, e che quindi l’AM ne sia
influenzata.
Riferimenti bibliografici
DeCasper, A.J. & Sigafoos, A.D. (1983). The intrauterine heartbeat: A potent reinforcer
for newborns. Infant Behavior and Development, 6, 19-25.
186
POSTER - ATTENZIONE
Giovanelli, G., Callegati, I., Sansavini, A. e Tuozzi, G. (1998). La risposta motoria nel
neonato di fronte al battito cardiaco materno ed estraneo. XII Congresso
Nazionale di Psicologia dello Sviluppo. Bressanone 5-7 dicembre, pp. 201204.
Giovanelli, G., Callegati, I., Sansavini, A. e Tuozzi, G. (1999). Risposte
comportamentali e fisiologiche neonatali di fronte al battito cardiaco della
madre e di un’estranea. Giornale Italiano di Psicologia, 2, 339-357.
Hepper, P. G., Scott, D. e Shahidullah, S. (1993). Newborn and fetal response to
maternal voice. Journal of Reproductive and Infant Psychology, 11, 147-173.
COSTI E BENEFICI NELL’ELABORAZIONE ATTENTIVA DI
OGGETTI
Mapelli Daniela{xe "Daniela M."}, Paolo Cherubini{xe "Cherubini P."}
Università di Padova
Introduzione
Le attuali teorie relative all’attenzione spaziale possono essere distinte in due
grandi famiglie (Lauwereyns, 1998):
1. le teorie “space-based” sostengono che l’attenzione visiva viene diretta verso
specifiche posizioni nello spazio percettivo;
2. le teorie “object-based" suggeriscono che l’attenzione viene diretta verso
oggetti presenti nel campo percettivo, e solo indirettamente si riferisce allo
“spazio che gli oggetti occupano”.
La nostra ricerca si inserisce nella seconda classe di famiglie teoriche. Un
risultato critico a sostegno dell’approccio “object-based” è che gli individui mostrano un
costo nell’accuratezza e nel tempo di reazione quando devono confrontare due
caratteristiche che appartengono a due differenti oggetti rispetto a quando le stesse
caratteristiche appartengono ad un singolo oggetto. (Baylis e Driver, 1993; Duncan,
1984; Kramer e Watson, 1995; Vecera e Farah, 1994; Behrmann, Zemel, Mozer, 1998).
Se è ormai accertato che la presenza di due oggetti possa essere considerata un costo,
non è invece chiaro se la presenza di un singolo oggetto possa essere considerata un
minor costo oppure un beneficio: chiarire questo punto è l’obiettivo della nostra ricerca.
Se la presenza di un oggetto costituisse un beneficio, allora il confronto tra due
caratteristiche presentate al di fuori di qualsiasi oggetto dovrebbe richiedere più tempo
del confronto delle stesse caratteristiche presentate nello spazio occupato da un oggetto.
Viceversa, se la presenza di un oggetto potesse essere intesa come minor costo,
il confronto tra due caratteristiche presentate al di fuori di qualsiasi oggetto dovrebbe
richiedere meno tempo rispetto al confronto delle stesse caratteristiche presentate
sull’oggetto.
Come terza alternativa, un oggetto potrebbe rivelarsi un beneficio quando il
compito è eseguibile mantenendo l’attenzione distribuita sull’intero oggetto, ed un
minor costo quando il compito richiede la focalizzazione attentiva sui singoli target.
POSTER - ATTENZIONE
187
Metodo
In tutti gli esperimenti eseguiti si utilizza lo stesso metodo: ai soggetti vengono
presentate alcune configurazioni sullo schermo di un computer; nella configurazione
compaiono due caratteristiche target. Compito del soggetto è confrontare le due
caratteristiche e stabilire se esse sono uguali o diverse. Viene registrato il tempo di
reazione per le risposte corrette. Le tre configurazioni base utilizzate sono:
1. i target compaiono sui due lati più corti di un rettangolo (condizione “1
oggetto”)
2. i target compaiono su due lati opposti di due quadrati (condizione “2 oggetti”)
3. i target compaiono in assenza di qualsiasi altra figura (condizione “target
isolati”)
Nell’esperimento 1, i target sono due linee composte da tre o quattro tratteggi.
Il compito richiede focalizzazione attentiva sui singoli target. I risultati, sottoposti ad
ANOVA, confermano che la condizione “1 oggetto” è più veloce della condizione 2
oggetti; la condizione “target isolati” si rivela la più veloce in assoluto. Questo risultato
sembra supportare l’ipotesi del “costo minore”.
Nell’esperimento 2 cerchiamo una replica dell’esperimento 1 che elimini il
possibile confounding legato alla presenza di un processo di conteggio nel confronto tra
i due target. I target presentati sono segmenti di colore uguale o diverso. I risultati
mostrano lo stesso andamento osservato nell’esperimento 1.
Nell’esperimento 3 i target sono costituiti da protuberanze di forma
emirettangolare o emicircolare. Il loro confronto nella condizione “1 oggetto” può
essere portato a termine mantenendo l’attenzione distribuita sull’oggetto (con target
uguali, l’oggetto è simmetrico; con target diversi, è asimmetrico). I risultati, sottoposti
ad ANOVA, evidenziano come, in questo caso, la condizione “1 oggetto” sia la più
veloce in assoluto, mentre la condizione “target isolati” e “2 oggetti” non mostrano
differenze statisticamente significative.
Conclusioni
La focalizzazione automatica dell’attenzione spaziale sugli oggetti si rivela un
beneficio quando il compito può essere portato a termine processando le caratteristiche
figurali globali dell’oggetto stesso (esperimento 3). Quando invece l’elaborazione delle
caratteristiche globali non consente di eseguire il compito, la presenza di un oggetto si
rivela un potenziale costo (pur sempre inferiore al costo legato alla presenza di due
oggetti). Tale costo è probabilmente connesso alla necessità di rifocalizzare l’attenzione,
già catturata dall’oggetto, sulle sue componenti; o, in altri termini, dalla necessità di
“estrarre” percettivamente le componenti dalla configurazione globale dell’oggetto.
Riferimenti bibliografici
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coding of location. Journal of Experimental Psychology: Human perception
and performance, 19, 451-470.
Behrmann, M., Zemel, R.S. & Mozer, M.C. (1998). Object-based attention and
occlusion: evidence from normal participants and a computational model.
Journal of experimental psychology: human perception and performance, 24,
1-27.
188
POSTER - ATTENZIONE
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uniform connectedness. In A.F. Kramer, M.G.H. Coles & G.D. Logan (eds.),
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Vecera, S.P. & Farah, M.J. (1994). Does visual attention select object or locations?
Journal of experimental psychology: general, 123, 146-160.
SUPERIORITÀ DELLA CODIFICA SPAZIALE ORIZZONTALE
SU QUELLA VERTICALE
Sandro Rubichi{xe "Rubichi S."}, Roberto Nicoletti{xe "Nicoletti R."}°
Istituto di Psicologia, Università di Urbino
°Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di
Padova
Nel compito di compatibilità spaziale l’informazione rilevante è la posizione
dello stimolo (destra o sinistra), e la risposta consiste nella pressione di uno fra due
pulsanti collocati a destra e a sinistra. Alla comparsa dello stimolo (ad es., a destra), è
richiesta una risposta compatibile (pulsante di destra) o incompatibile (pulsante di
sinistra). La risposta compatibile genera una prestazione più veloce ed accurata.
L’effetto di compatibilità spaziale si verifica anche quando stimoli e risposte sono
organizzati verticalmente (Nicoletti e Umiltà, 1984). È stato dimostrato che quando la
codifica spaziale è effettuabile contemporaneamente per la dimensione orizzontale e per
quella verticale, l’effetto di compatibilità spaziale si verifica solo per la dimensione
orizzontale (Nicoletti e Umiltà, 1984; 1985). Di recente, Hommel (1996) ha sostenuto
che l’effetto di superiorità della codifica orizzontale è un artefatto dovuto all’utilizzo di
effettori codificabili in base alla dimensione orizzontale (mano e piede controlaterale).
Utilizzando un singolo effettore, Hommel (1996) ha trovato l’effetto di compatibilità
spaziale S-R in entrambe le dimensioni. Tuttavia questi risultati non sono definitivi in
quanto il numero di effettori è una variabile importante nella modulazione degli effetti
di compatibilità spaziale (Stins e Michaels, 1997).
Allo scopo di valutare la superiorità della codifica orizzontale alla luce delle
critiche di Hommel (1996), sono stati condotti tre esperimenti in cui gli effettori erano
inequivocabilmente codificabili solo per una dimensione spaziale.
Metodo
Soggetti
I soggetti che hanno preso parte agli esperimenti erano rispettivamente 16 nel
primo (8 per l’esperimento 1A e 8 per l’esperimento 1B), 8 nel secondo e 16 nel terzo.
POSTER - ATTENZIONE
189
Materiale e procedura
Il display dei tre esperimenti consisteva in uno stimolo visivo che appariva
casualmente in una di quattro posizioni collocate in prossimità degli angoli dello
schermo del computer. Le risposte erano fornite tramite due pulsanti per gli effettori
superiori e due pedali per gli effettori inferiori. Nell’esperimento 1A i soggetti
rispondevano con effettori orizzontali (mani o piedi) e le istruzioni descrivevano
l’accoppiamento S-R in termini orizzontali, mentre nell’esperimento 1B gli effettori
erano verticali (mano e piede ipsilaterale) e l’accoppiamento S-R era in termini verticali.
Nell’esperimento 2 gli effettori erano orizzontali e l’accoppiamento S-R descriveva gli
stimoli in termini verticali (ad es.: se lo stimolo è in alto premi il pulsante di destra).
Nell’esperimento 3 gli effettori erano verticali e le istruzioni descrivevano gli stimoli in
termini orizzontali (ad es.: se lo stimolo è a destra premi il pulsante in alto). Di
conseguenza ogni accoppiamento S-R poteva essere definito sulla base di entrambi gli
effetti di compatibilità per tutti gli esperimenti. La coppia di effettori utilizzati (mani o
piedi negli esperimenti 1A e 2; arti di destra o di sinistra negli esperimenti 1B e 3) e
l’accoppiamento compatibile o incompatibile sono stati bilanciati entro i soggetti.
Risultati e conclusioni
I tempi di reazione corretti sono stati sottoposti a quattro analisi della varianza
con due fattori entro i soggetti: compatibilità orizzontale (compatibili vs. incompatibili)
e compatibilità verticale (compatibili vs. incompatibili).
Nell’esperimento 1A è risultato significativo il fattore compatibilità orizzontale
(p<.0001, 49 msec.) e nell’esperimento 1B il fattore compatibilità verticale (p<.005, 55
msec.). Nell’esperimento 2 è risultato significativo il fattore compatibilità orizzontale
(p<.001, 36 msec.), mentre nell’esperimento 3 sono risultati significativi sia il fattore
compatibilità orizzontale (p<.05, 19 msec.), sia il fattore compatibilità verticale (p<.001,
18 msec.).
I risultati dell’esperimento 1 hanno dimostrato che quando gli effettori e
l’accoppiamento S-R si basano su una dimensione, l’effetto di compatibilità spaziale si
manifesta solo in quella dimensione (orizzontale nell’esperimento 1A e verticale
nell’esperimento 1B). Il confronto tra l’esperimento 2 e l’esperimento 3, in cui
l’accoppiamento S-R si basa su entrambe le dimensioni spaziali, permette di affermare
che ci sia un effetto di superiorità della codifica orizzontale. Infatti, con effettori
orizzontali l’effetto di compatibilità spaziale si manifesta solo per la dimensione
orizzontale (esperimento 2), mentre con effettori verticali è presente in entrambe le
dimensioni (esperimento 3). È possibile che la superiorità della codifica orizzontale
abbia luogo in quanto sull’asse orizzontale la codifica è basata su coordinate assolute
(asse corporeo) e su coordinate relative (posizione relativa degli stimoli), mentre
sull’asse verticale solo su coordinate relative.
Riferimenti bibliografici
Hommel, B. (1996). No prevalence of right-left over top-bottom spatial codes.
Perception & Psychophysics, 58, 102-110.
Nicoletti, R., Umiltà, C. (1984). Right-left prevalence in spatial compatibility.
Perception & Psychophysics, 35, 333-343.
190
POSTER - ATTENZIONE
Nicoletti, R., Umiltà, C. (1985). Responding with hand and foot: The right-left
prevalence in spatial compatibility is still present. Perception & Psychophysics,
38, 211-216.
Stins, J.F., Michaels, C.F. (1997). Stimulus-target compatibility for reaching
movements. Journal of Experimental Psychology: Human Perception &
Performance, 23, 756-767.
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
191
EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
INTOLLERANZA DELL’INCONGRUITÀ ED EMOZIONE
ESTETICA NEL RAPPORTO CON IMMAGINI PITTORICHE
Valeria Biasi{xe "Biasi V."}, Paolo Bonaiuto{xe "Bonaiuto P."}
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Raffigurazioni di situazioni conflittuali o armoniche sono state ottenute in vari
modi nella storia della pittura. Il denominatore comune di quelle conflittuali è dato dalla
contraddizione vistosa di aspettative. Di solito ciò viene realizzato mantenendo
riconoscibili personaggi, oggetti, ambienti, ma introducendo alcune varianti rispetto a
schemi mentali corrispondenti; così da consentire sia l’esperienza del riconoscimento,
sia (per contrasto) quella dell’anomalia. Nell’arte moderna il ricorso a simili incongruità
è divenuto frequente, dopo i portati della pittura metafisica, del surrealismo, del
dadaismo, ecc., fino a quelli più recenti della pop art e poi del graffitismo. La
contraddizione delle aspettative aveva avuto luogo classicamente con una procedura
apparentemente diversa, ma affine: raffigurando molto realisticamente situazioni che
sono conflittuali in quanto basate, in generale, su violazioni di norme ed esigenze umane
fondamentali. Ne sono esempi le frequenti raffigurazioni dell’uccisione di persone o
animali, e di torture, violenze, sacrifici, dannazioni, incendi, guerre, duelli, ecc.
(Bonaiuto, 1983). In indagini precedenti il nostro gruppo di ricerca aveva già potuto
stabilire significative correlazioni fra il tipo e l’intensità di emozioni estetiche favorite
da raffigurazioni intensamente conflittuali o armoniche, e determinati indicatori
personali di atteggiamenti difensivi o favorevoli verso il conflitto; quali l’indice
individuale di “intolleranza dell’incongruità”, ottenuto mediante il cosiddetto Building
Inclination Test (BIT). Si tratta d’una procedura veloce che consente, fra l’altro, di
selezionare persone con livelli molto elevati o molto bassi di intolleranza delle anomalie
e dei conflitti. A tali livelli (compresi fra punti 14 e 0) corrispondono costellazioni
contrapposte dei tratti di personalità e dell’assetto motivazionale (in funzione del carico
attuale e/o pregresso di esperienze conflittuali; Bonaiuto, Giannini, Bonaiuto, 1987;
Bonaiuto, Giannini, Biasi, Bartoli, 1996; Giannini, Bonaiuto, 1997). Riferiamo qui su
nuovi esperimenti specifici.
Metodo
Dopo prove preliminari, sono state scelte 16 riproduzioni a colori di dipinti
classici o moderni, fra cui 8 intensamente conflittuali (da Bosch e Goya a Picasso,
Bacon, Botero) e 8 palesemente armonici (da Raffaello, Caravaggio e ancora Goya, a
Hayez e Renoir). Con il BIT sono stati selezionati 48 giovani adulti (studenti in età dai
19 ai 39 a., equamente distribuiti per generi), di cui 24 molto intolleranti
dell’incongruità (indice oltre punti 11.30) e 24 molto tolleranti dell’incongruità (indice
inferiore a 8.30). Ciascuno è stato esaminato individualmente, anche con inventari di
192
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
personalità. Per le valutazioni estetiche sono state impiegate scale bipolari a 7 passi, fra
cui la scala “Bella / Brutta”, esponendo ciascuna tavola su apposito leggio. Le cautele
hanno comportato la condizione di “doppio cieco”, intervalli di riposo, rotazioni
sistematiche delle immagini, dei vari item e dell’ordine delle prove.
Risultati, discussione, prospettive
L’esperimento ha sviluppato su scala molto più ampia le informazioni ottenute
con le precedenti indagini. In generale, le immagini armoniche hanno suscitato il vissuto
del bello in misura significativamente più accentuata (t 47 = 4.37; p < 0.001). Le
differenze fra i due gruppi sperimentali sono tuttavia cospicue e decorrono nel modo
previsto, risultando significative a livello di entrambi i gruppi di immagini. I soggetti
molto intolleranti dell’incongruità hanno largamente svalutato le immagini conflittuali,
vissute in media come “brutte”; mentre i tolleranti sono risultati discretamente accettanti
al riguardo (t 46 = 2.15; p < 0.02). Gli intolleranti hanno esaltato le immagini
armoniche; che i tolleranti hanno apprezzato moderatamente (t 46 = 2.43; p < 0.01).
Ulteriori analisi confermano la relativa equivalenza fra immagini classiche o moderne e
la contrapposizione, piuttosto, delle conflittuali rispetto alle armoniche. Fra le
prospettive di sviluppo sembrano meritevoli le repliche dell’indagine con dipinti
originali; anche se l’impiego di riproduzioni per valutazioni estetiche concernenti forme
e colori si è dimostrato adeguato alla luce di lavori recenti di Locher e altri (1999).
Inoltre sarà interessante studiare i risultati ottenibili con soggetti e con tavole di tipo
intermedio; nonché prevedere e controllare il contributo di singoli fattori fra quelli in
grado di determinare l’emozione estetica, accentuando o attenuando le differenze fra i
gruppi.
Riferimenti bibliografici
Bonaiuto, P. (1983). Processi cognitivi e significati nelle arti visive. Relazione al
Convegno “Linguaggi Visivi, Storia dell’Arte, Psicologia della percezione”,
Roma. Pubbl. anche in P. Bonaiuto, G. Bartoli, A. M. Giannini (a cura di),
Contributi di psicologia dell’arte e dell’esperienza estetica. Vol. 1 (pp. 39-84).
Roma: Ed. Psicologia, 1994.
Bonaiuto, P., Giannini, A. M., Biasi, V., Bartoli, G. (1996). Stili cognitivi, intolleranza
dell’incongruità e atteggiamenti verso le trasgressioni di regole sportive. In G.
V. Caprara, G. P. Lombardo (a cura di), Temi di Psicologia e Sport (pp. 57-93).
Roma: C. O. N. I. & Univ. degli Studi di Roma “La Sapienza”.
Bonaiuto, P., Giannini, A. M., Bonaiuto, M. (1987). Piloting mental schemata on
building images. Relazione presentata alla 3rd Italian-Polish Conference of
Psychology, Cassino. Pubbl. anche in A. Fusco, F. Battisti, R. Tomassoni
(Eds.), Recent experiences in general and social psychology in Italy and
Poland (pp. 85-129). Milano: Angeli, 1990.
Giannini, A. M., Bonaiuto, P. (1997). Incongruity intolerance and the aesthetic
evaluation of devitalized or realistic human figure representations. In L.
Dorfman, C. Martindale, D. Leontiev, G. Cupchik, V. Petrov, P. Machotka
(Eds.), Emotion, Creativity and Art. Vol. 2 (pp. 21-44). Perm: Perm State
Institute of Arts & Culture.
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
193
Locher, P., Smith, L., Smith, J. (1999). Original paintings versus slide and computer
reproductions: A comparison of viewer responses. Empirical Studies of the
Arts, 17 (2, Special Issue).
GIOVANI E RAPPRESENTAZIONE DELLA VIOLENZA
Maria Vittoria Carbonara{xe "Carbonara M.V."}
Dipartimento di Scienze dell’Educazione
Università degli studi di Salerno
Introduzione
Quotidiani fatti di cronaca ampiamente diffusi dai mass media, osservazioni
personali sulle interazioni familiari e sociali in genere, confidenze raccolte presso il
servizio di aiuto psicologico della Università, mi hanno spinta a intraprendere questo
lavoro di ricerca che è ancora in corso e di cui qui presento i primi risultati.
Il moltiplicarsi negli ultimi anni di studi e ricerche (Olweus, 1993; Caffo, 1994;
Montecchi, 1994; Attili, 1996; Caprara, 1996; Di Blasio, 1996; Fonzi, 1997; AleniSestito, 1997; Bacchini, Bolzan e Valerio, 1997; Mazzoni, 1999) su argomenti
apparentemente molto diversi, ma sostanzialmente e per alcuni versi assimilabili fra
loro, come l’abuso sessuale, il maltrattamento dei minori, il bullismo, la camorra, ecc.,
sta a testimoniare la grande attenzione della psicologia dello sviluppo al fenomeno della
prevaricazione nelle sue diverse forme e alle diverse età della vita. Tali studi stanno
ampliando le nostre conoscenze sulle dinamiche psicologiche che sottostanno al
comportamento violento e sugli effetti che esso produce in coloro cui capita di esserne
“vittima”.
A questo punto sorge una domanda: quali rappresentazioni si producono nella
mente di chi, pur non essendo necessariamente coinvolto in prima persona in episodi
specifici di violenza, tuttavia cresce e vive in un contesto in cui tali episodi sono
all’ordine del giorno?
Metodo
Il presente studio, che fa parte di un progetto di ricerca più ampio, costituisce
un tentativo di fornire una risposta a tale quesito. Esso intende cogliere alcuni aspetti
della rappresentazione sociale (Moscovici, 1989) della violenza nelle persone giovani.
I soggetti sono studenti del Corso di laurea in Scienze dell’educazione
dell’Università di Salerno, frequentanti un primo e un secondo corso di lezioni di
Psicologia dello sviluppo. I risultati che qui vengono presentati si riferiscono a 300
studentesse di ceto sociale medio e di età compresa fra i 20 e i 25 anni. I dati sono stati
analizzati suddividendo il campione in due fasce di età (20-22, 23-25) al fine di porle a
confronto.
Sono state condotte delle interviste collettive, impiegando una tecnica
proiettiva originale che richiedeva l’esecuzione di un disegno su tema e la risposta ad
alcune domande di un breve questionario. Tanto nella consegna del tema del disegno,
194
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
quanto nelle domande del questionario, non veniva fatto alcun riferimento esplicito alla
violenza.
Risultati
Sui dati è stata condotta un’analisi qualitativa e quantitativa. Erano state
preventivamente selezionate delle categorie di osservazione tanto del contenuto dei
disegni quanto delle risposte al questionario. Di ciascuna categoria se ne è calcolata la
frequenza nelle due fasce di età e successivamente alle frequenze è stato applicato il test
del χ2 per valutarne la significatività delle differenze.
I risultati mostrano una precisa tendenza verso una differenziazione nel
contenuto delle rappresentazioni col crescere dell’età. Tale differenziazione si nota non
solo nei personaggi coinvolti e nel tipo di prevaricazione immaginata, ma anche nella
descrizione del contesto in cui avviene l’episodio di violenza rappresentato.
Conclusioni
I risultati ottenuti incoraggiano verso un proseguimento della ricerca che
coinvolga anche altre età. Sarebbe interessante poter ottenere una mappa delle diverse
rappresentazioni della violenza nel corso della vita, articolata per età e per sesso.
Tale mappa potrebbe fornire indicazioni utili per eventuali progetti volti alla
individuazione di strategie finalizzate alla prevenzione della violenza e da attuare in
diversi contesti educativi, in particolar modo nella scuola.
Riferimenti bibliografici
Aleni Sestito, L. (1997). La camorra e i bambini. Un’indagine nel contesto scolastico
napoletano. Milano: Edizioni Unicopli.
Attili, G. (1996). Il nemico ha la coda. Psicologia Contemporanea, 134, 4-10.
Bacchini, D., Bolzan, M., Valerio, P. (1997, settembre). Il fenomeno del bullyng nella
città di Napoli. Lavoro presentato al Convegno A.I.P., X Congresso Nazionale
della Divisione di Psicologia dello Sviluppo, Capri.
Caffo, E. (a cura di), (1994). L’ascolto del bambino. Nuove prospettive di intervento
sull’infanzia in difficoltà.. Milano: Guerini e associati.
Caprara, G.V. (1996). Addio alunni crudeli. Psicologia Contemporanea, 138, 44-48.
Di Blasio, P. (1996). Bambini violati: la paura, la vergogna, il silenzio. Psicologia
Contemporanea, 137, 28-37.
Fonzi, A. (a cura di), (1997). Il bullismo in Italia. Il fenomeno delle prepotenze a scuola
dal Piemonte alla Sicilia. Firenze: Giunti.
Mazzoni, G. (1999). Abusi sessuali: i bambini raccontano. Psicologia Contemporanea,
151, 4-11.
Montecchi, F. (a cura di), (1994). Gli abusi all’infanzia. Dalla ricerca all’intervento
clinico. Roma: La Nuova Italia Scientifica.
Moscovici, S. (1989). Des représentations collectives aux representations sociales. In:
D. Jodelet (ed.), Les representations sociales. Paris: PUF.
Olweus, D. (1993). Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono. Giunti,
Firenze, 1996.
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
195
CAPIRE LE EMOZIONI DALLE ESPRESSIONI DEL VISO:
BAMBINI AUTISTICI E BAMBINI SENZA DISTURBI
EVOLUTIVI
Fulvia Castelli{xe "Castelli F."}
University College London, Institute of Cognitive Neuroscience
Introduzione
Le emozioni si possono facilmente leggere dalle espressioni facciali. Si
distinguono due categorie di emozioni: “semplici” e “cognitive”. Le prime riguardano le
emozioni causate dalle situazioni contingenti, le seconde dalle credenze. Questa
distinzione è di particolare interesse se applicata allo studio delle emozioni negli
individui con Autismo, in quanto è stato ampiamente dimostrato che questi individui
presentano una difficoltà cognitiva nel comprendere che le persone possano avere delle
false credenze, o possano cambiarle, o possano avere delle credenze che vengono
contraddette dalla realtà (Frith, 1989).
Precedenti indagini hanno dimostrato che i bambini autistici hanno difficoltà
nel distinguere la sorpresa rispetto alla gioia e alla tristezza (Baron-Cohen et al., 1993),
mentre gli adulti con Autismo e Sindrome di Asperger hanno difficoltà nel distinguere
espressioni emotive più complesse rispetto alle espressione semplici (Baron-Cohen et
al., 1997).
Il presente studio indaga l’abilità dei bambini affetti da Autismo, rispetto a
bambini senza disturbi evolutivi, nel distinguere e denominare sei emozioni
fondamentali - gioia, tristezza, rabbia, disgusto, paura e sorpresa. Lo studio consiste in
tre prove basate unicamente su fotografie del viso di persone adulte che esprimono
emozioni semplici (Ekman&Friesen, 1976). Il primo esperimento analizza la capacità
discriminatoria relativa alle differenze morfologiche fra le espressione delle sei
emozioni. Il secondo e terzo esperimento indagano la capacità semantica relativa alle
espressioni emotive.
In accordo con il risultato di Baron-Cohen (1993) si è predetto che i bambini
autistici avessero maggiori difficoltà’ rispetto al gruppo di controllo, nel distinguere e
denominare l’espressione della sorpresa, ma non le altre emozioni.
Metodo
Il gruppo di soggetti con autismo comprende 20 bambini che frequentano una
scuola speciale. L’età cronologica media è di 12 anni (9.10-16.6 anni), e l’età verbale
media (WISC IQ-test) è di 9.5 anni (6.7-13.2 anni). Il gruppo di controllo consiste in 20
bambini che frequentano una scuola elementare. L’età cronologica media è di 9.5 anni
(6.8-13 anni), e l’età verbale è in linea con il loro sviluppo (BPVS-test di conoscenza
del vocabolario inglese punteggio = 106.6 dev.st. = 8.3).
Test 1 e 3 - Distinguere e denominare emozioni con diversi livelli di intensità
Si sono impiegate immagini fotografiche derivate dalla manipolazione
computerizzata dei tratti del viso caratteristici delle emozioni-base della serie di
196
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
Ekman&Friesen (1976). Ogni espressione appartiene ad un continuum di tre livelli di
intensità (90%, 70% e 50%) derivato dalla combinazione di due distinte emozioni (per
esempio: da gioia a rabbia). Le fotografie sono presentate sotto forma di schede
plastificate. Le schede-stimolo rappresentano il viso di un uomo, mentre le schedeobiettivo il viso di donne. La prova consiste in due blocchi uguali con 60 schede.
Il compito richiesto nel test di distinzione morfologica (1) consiste nel
collocare una per volta le fotografie in sei scatole su cui è incollata l’emozione-obiettivo
(matching task). Prima che la prova inizi, le schede-obiettivo sono mostrate al bambino
e viene chiesto di dire che tipo di emozione sia espressa, e di fornire un esempio. Alla
fine della prova le schede contenute in ogni vengono contate.
Il test di denominazione (3) consiste nel presentare lo stesso set di fotografie –
sei emozioni- ma con soli due livelli di intensità (90% e 70%). Al bambino si chiede di
dire che tipo di emozione è espressa dal viso del modello. Le risposte vengono scritte e
codificate come corrette e incorrette tenendo conto delle risposte verbali individuali
fornite durante l’introduzione delle espressioni-obiettivo del test 1.
Test 2 - Denominare emozioni espresse da diversi individui:
Si sono impiegate immagini fotografiche di sette espressioni di cui sei emotive
e una neutra, derivate dalla serie Ekman&Friesen (1976). Le fotografie rappresentano
le espressioni naturali di dieci modelli, uomini e donne, per un totale di 70 schede. Il
procedimento è identico al test di denominazione descritto sopra.
Risultati e conclusioni
I risultati indicano che sia i bambini con autismo sia i bambini senza problemi
evolutivi non dimostrano particolari difficoltà’ nel distinguere e denominare
l’espressione facciale della sorpresa. L’unico significativa differenza tra i due gruppi
riguarda la capacità di denominare le emozioni, con un punteggio per tristezza e
disgusto significativamente inferiori nei bambini con Autismo. Le espressioni di
disgusto sono confuse dai bambini autistici anche nel compito di distinzione
morfologica.
Rispetto all’unico precedente lavoro (Baron-Cohen, 1993) che ha osservato una
difficoltà’ nel distinguere la sorpresa dalla gioia e tristezza, il presente studio ha
utilizzato materiale fotografico molto particolareggiato, confrontando un’ampia gamma
di emozioni. La scelta tra più espressioni emotive può aver favorito la distinzione tra
l’una e l’altra. Inoltre, gli esempi spontanei forniti dai bambini di entrambi i gruppi
durante l’introduzione del materiale fotografico riguardanti la sorpresa indicano che
l’associazione più frequente è con la festa di compleanno, o con i regali di natale.
Sembra dunque che, per un bambino, la sorpresa riguardi una situazione contingente, e
non la violazione di una credenza.
Riferimenti bibliografici
Frith, U. (1989) Autism: explaining the enigma. Oxford: Basil Blackwell.
Baron-Cohen S., Spitz A., Cross P. (1993) Do children with Autism recognise surprise?
A research note. Cognition and Emotion, 7 (6): 507-516.
Baron-Cohen S., Wheelewright S., Jolliffe T. (1997) Is there a “Language of the eyes?”
Evidence from normal adults with Autism and Asperger Syndrome. Visual
Cognition, 4 (3): 311-331.
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
197
Ekman P. and Friesen W.V. (1976) Pictures of facial effect. Palo Alto, CA: Consulting
Psychologists Press.
IL CORPO CHE VORREI: DONNE CHE INVECCHIANO
Maria Teresa Cattaneo{xe "Cattaneo M.T."}, Elisa Frigerio{xe "Frigerio E."},
Milena Peverelli{xe "Peverelli M."}, Annapaola Primavesi{xe "Primavesi A."}
Istituto di Psicologia, Facoltà Medica, Università di Milano
L’invecchiamento procede secondo ritmi e modalità differenti, in relazione alle
caratteristiche individuali, ai diversi stili di vita e alle differenze di genere. I dati, infatti,
non solo rivelano una diversa aspettativa di vita a favore delle donne, ma indicano anche
differenze che influenzano rispettivamente la mortalità negli uomini e la morbilità
nell’altro (Vergani, 1997; Cesa-Bianchi, Vecchi, 1998).
Le modificazioni che intervengono durante il processo di invecchiamento
richiedono aggiustamenti, che possono investire anche la rappresentazione del proprio
corpo: l’immagine corporea costituisce un elemento centrale ed è in stretto rapporto con
il livello di autostima, l’identità sessuale e le relazioni interpersonali. Le donne, la cui
vita è cadenzata da tappe biologiche precise e non eludibili, si trovano con un corpo
mutato da un punto di vista estetico e funzionale: il corpo diviene l’ostacolo da superare.
Nell’ambito di un approccio multidisciplinare allo studio delle modificazione
dell’invecchiamento (Annoni, Cattaneo, 1997), una delle ricerche ha inteso verificare se
e come l’immagine corporea delle donne si modifichi con il passare dell’età.
La ricerca è stata effettuata su un campione di 800 donne di età compresa tra 20 e
89 anni: 355 giovani e 445 con più di 60 anni.
È stato somministrato un questionario relativo all’immagine corporea. La
prima domanda indaga la percezione del proprio corpo attraverso queste opzioni: snello,
appesantito, slanciato, tozzo, normale, altro. La seconda valuta il desiderio di cambiare
una o più parti del proprio corpo. Le ultime due domande costituiscono il test delle
silhouette di Stukard, Soreson, Schulsinger (1983).
I dati relativi alla prima domanda indicano che non esiste differenza
significativa nella percezione del proprio corpo tra donne giovani e vecchie. Donne di
diversa età scelgono gli stessi termini per definire la propria immagine corporea: il 34%
si definisce snella, il 50% appesantita, il 7% slanciata, il 3% tozza ed il 6% normale.
Le analisi sui dati della seconda domanda (χ2= 24,4, p<.001) illustrano la
tendenza da parte delle giovani a voler cambiare maggiormente parti del proprio corpo
rispetto a quelle anziane: 61% contro il 43%: si osserva, infatti, un progressivo aumento
dei soggetti che, con il crescere dell’età, non vogliono cambiare parti del proprio corpo.
Si passa dal 25% di donne tra 20 e 29 anni che scelgono ‘niente’, al 50% di quelle tra 50
e 59, al 68% di quelle tra 70 e 79 anni (χ2= 63,9, p< .001). Le parti del corpo
differiscono in funzione dell’età (χ2= 61,9, p< .001); le giovani vorrebbero cambiare più
frequentemente la statura, le gambe, il viso, il seno o tutto, mentre le donne con più di
60 anni optano per “dimagrire”, “salute” e “età”.
198
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
Il test delle silhouette si riferisce all’immagine effettiva e all’immagine ideale
dei soggetti. La moda e la mediana dell’immagine effettiva per le giovani corrisponde a
4, mentre per le anziane è 5. La moda e la mediana dell’immagine desiderata per le
giovani corrisponde a 3, mentre per le anziane a 4. L’applicazione del test Mann–
Whitney ha mostrato differenze altamente significative tra giovani e anziane sia
nell’immagine reale (U = 57010,5, p< .001) sia nell’immagine ideale (U = 47932,
p<.001).
I risultati della ricerca sembrano evidenziare alcune differenze: in particolare i
dati ricavati dall’esame dell’immagine corporea sembrerebbero confermare una
progressiva modificazione dei criteri utilizzati nella percezione del proprio corpo: le
donne anziane, pur scegliendo silhouette più grosse rispetto alle giovani nell’immagine
reale non si definiscono come più appesantite o tozze; inoltre tendono a modificare
meno parti del proprio corpo orientando la loro scelta nei confronti di elementi
funzionali. Si potrebbe ipotizzare che la persona anziana, a differenza di una giovane,
abbia ‘imparato’ ad accettare, con il passare dell’età alcuni ‘difetti estetici’ (la bassa
statura, ecc.) per concentrarsi sulla funzionalità.
Il processo di costruzione dell’immagine corporea è mediato da schemi
emozionali ed è influenzato da fluttuazioni dipendenti dal contesto; entrambi queste
variabili giocano, quindi, un ruolo importante nel favorire o ostacolare la
ristrutturazione cognitiva che rende possibile l’attribuzione di significato e
l’adattamento a fronte di cambiamenti di diverso genere.
Riferimenti bibliografici
Annoni G, Cattaneo MT, 1997. Affettività ed invecchiamento: l’esigenza di un
approccio multidisciplinare. Ricerche di Psicologia, 4/1, 305-313.
Cesa-Bianchi M, Vecchi T, (eds), 1998. Elementi di psicogerontologia. Milano: Franco
Angeli.
Stukard AJ, Sorenson T, Schulsinger F, 1983. Use of Danish adoption registrer for the
study of obesity and thinnes. In: The genetic of neurological and psychiatric
disorders, Kety S (ed). New York: Raven Press.
Vergani C, 1997. La nuova longevità. Milano: Mondadori.
INFLUENZA DEL TEMPO DI ESPOSIZIONE SULLA
CATEGORIZZAZIONE DELLE ESPRESSIONI FACCIALI
DELLE EMOZIONI IN BAMBINI TRA 6 E 12 ANNI DI ETÀ
Giorgio Celani{xe "Celani G."}, Letizia Arcidiacono{xe "Arcidiacono L."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Introduzione
Il riconoscimento dell’espressione facciale di un’emozione può essere reso
possibile da due modalità di elaborazione cognitiva: la decodifica analitica, o tratto-pertratto, delle singole componenti del volto, che richiede l’attività prevalente dell’emisfero
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
199
sinistro e la percezione gestaltica, più dipendente dall’emisfero destro e dalle strutture
sub-corticali appartenenti al sistema limbico, in cui il volto è direttamente visto come
una totalità. Ricerche in cui a bambini era richiesto di categorizzare espressioni facciali
delle emozioni, presentate in una configurazione normale o riarrangiata del volto
(situazione quest’ultima in cui la percezione gestaltica è ostacolata dal fatto che, pur non
modificandosi le singole componenti dello stimolo, ne viene alterata la struttura
complessiva), hanno indicato che, per questa tipologia di soggetti, l’effetto di
‘superiorità configurazionale è minore quando il tempo di esposizione dello stimolo è
uguale o superiore ad 1 secondo, e che con una presentazione inferiore o uguale a
150msec la loro risposta è a livello casuale (cfr. Teunisse, 1996). L’esposizione subottimale di un’espressione emotiva facciale (< 1sec nel caso dei bambini) potrebbe
rendere più difficoltosa la sua decodifica analitica, permettendo di “cogliere in azione”
la percezione gestaltica, che sembra necessitare di tempi di esposizione più bassi,
purché superiori, in età evolutiva, a 150msec.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 32 bambini con sviluppo nella norma equamente
distribuiti, per numero e sesso, in due classi di età, corrispondenti ad un gruppo dei
piccoli (GP: 6-9 anni) e ad un gruppo dei grandi (GG: 9-12 anni). A tutti i soggetti è
stata somministrata una prova di categorizzazione differita, in cui era loro richiesto di
classificare stimoli basandosi o sull’espressione emotiva facciale (condizione EF), o
sull’identità del volto di un personaggio (condizione ID), oppure in base a caratteristiche
puramente geometriche (condizione RV, matrici di Raven). Il punteggio massimo era
pari ad 8 in ognuna delle tre condizioni, che erano controbilanciate tra i soggetti dei due
gruppi. Sono stati adottati due tempi di esposizione dello stimolo campione, rispetto al
quale era richiesto di effettuare la categorizzazione: sub-ottimale (200msec) e ottimale
(1sec), precedendo sempre il test con tempo di esposizione minore quello con
esposizione maggiore. L’ipotesi nulla (H0) prevede che le prestazioni dei soggetti nella
categorizzazione dell’identità di un volto e dell’espressione emotiva facciale non si
differenzino significativamente all’interno e tra i due tempi di esposizione in nessuno
dei due gruppi di età. L’ipotesi alternativa (H1) può essere così scomposta: a) la
prestazione nella categorizzazione delle espressioni facciali delle emozioni è
significativamente migliore di quella basata sull’identità del personaggio quando il
tempo di esposizione è sub-ottimale, ed è invece simile o peggiore quando esso è di
1sec; b) la prestazione nella categorizzazione delle espressioni emotive facciali è
significativamente migliore di quella basata sull’identità del volto sia a 200msec che
con il tempo di esposizione ottimale; c) la prestazione nella categorizzazione
dell’identità del volto è significativamente migliore di quella delle espressioni emotive
facciali con 200msec di esposizione dello stimolo. Un risultato favorevole all’ipotesi
alternativa H1a suggerisce la presenza nei bambini di una efficace percezione gestaltica
delle espressioni facciali delle emozioni dai sei anni (se il risultato è rilevato in entrambi
i gruppi di età) o dai nove (se è riscontrato solo nei grandi), oppure una maggiore
efficienza di questa modalità di elaborazione, per uno stimolo emotigeno veicolato
attraverso il volto, nelle prime fasi dello sviluppo (se il risultato è rilevabile solo nel
gruppo dei piccoli). Al contrario, un risultato conforme alle ipotesi alternative H1b o
200
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
H1c non è compatibile con la presenza nei bambini di una efficiente percezione
gestaltica delle espressioni facciali delle emozioni.
Risultati
La coerenza interna della prova, considerando il basso numero di ripetizioni, è
risultata accettabile per ciascuna delle tre condizioni: EF, Cronbach α = .27; ID, α =
.29; RV, α = .31 (sempre N = 32, 8 item). Una batteria di quattro ANOVA ad una via,
una per ogni gruppo con ciascun tempo di esposizione, ha rivelato che le medie dei
punteggi nelle tre condizioni sono risultate per il GG significativamente diverse con il
tempo di esposizione sub-ottimale e simili con quello ottimale. Differenze significative
tra le condizioni sono riscontrabili invece per il GP sia con 200msec che con 1sec di
esposizione. Le medie dei punteggi in ciascuna condizione ed i risultati delle singole
analisi della varianza sono mostrate nella Tabella 1. I relativi confronti post hoc
(Scheffès test) hanno dato i seguenti risultati. Sia nel GP che nel GG con un tempo di
esposizione di 200msec la media dei punteggi nella condizione ID è risultata
significativamente più bassa rispetto alle medie delle condizioni RV ed EF, che non
differiscono significativamente tra loro. Al contrario nel GP con 1sec di esposizione si è
riscontrata una media significativamente maggiore nella condizione RV rispetto alle
altre due condizioni (ID, EF), che presentano punteggi medi simili. Non sono state
rilevate differenze significative nel GG tra le medie delle tre condizioni con il tempo di
esposizione ottimale.
Gruppo
Condizione
Gruppo piccoli
Raven
Identità
Espressione emotiva
Gruppo grandi
Raven
Identità
Espressione emotiva
Tabella 1
Tempo di esposizione
200msec
1sec
Media (d.s.)
F (2, 45), p
Media (d.s.)
F (2, 45), p
7.80, < .01
6.62 (1.14)
5.00 (1.09)
6.25 (1.39)
13.10, < .001
7.75 (0.44)
6.40 (0.96)
6.60 (0.89)
13.05, < .001
7.18 (1.16)
5.43 (0.96)
6.90 (0.99)
2.78, n.s.
7.56 (0.62)
6.99 (0.85)
7.12 (0.80)
Conclusioni
L’ipotesi nulla (H0) è falsificata dai risultati. La prestazione di tutti i bambini
nella categorizzazione delle espressioni emotive facciali non è diversa da quella ottenuta
con le matrici di Raven, e significativamente migliore della categorizzazione in base
all’identità, quando il tempo di esposizione del volto bersaglio è di 200msec. La
presentazione ottimale (1sec) della faccia felice o triste, rispetto cui è richiesto di
effettuare la categorizzazione, non aggiunge nulla alla loro prestazione: i risultati di tutti
i bambini nelle condizioni ID ed EF non differiscono. È quindi corroborata l’ipotesi
alternativa H1a, mentre i risultati contrastano con le ipotesi alternative H1b e H1c.
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
201
L’unico effetto rilevabile con 1sec di esposizione del volto bersaglio, felice o triste, è
relativo all’influenza positiva dell’età sulla categorizzazione delle espressioni facciali
delle emozioni. Un’analoga influenza dell’età sulla prestazione dei soggetti non è
osservabile con il tempo di esposizione sub-ottimale. Pur con la cautela dovuta alle
situazioni in cui, come in questo caso, sia saggiata una procedura sperimentale non
consolidata, sembra possibile interpretare l’insieme di questi risultati attribuendo ai
bambini, almeno dai sei anni di età, la capacità di percepire efficacemente le espressioni
facciali di felicità e tristezza come totalità gestaltiche, cogliendone immediatamente il
significato emozionale.
Riferimenti bibliografici
Teunisse J.P. (1996). Face processing strategies in autistic individuals. 5th Congress
Autism-Europe, Barcelona, May 3-4-5.
IMMAGINI DELL’ANZIANO: RISULTATI DI UNA RICERCA
Carlo Angelo Cristini{xe "Cristini C.A."}, Giovanni Cesa-Bianchi{xe "CesaBianchi G."}, *Daniela Calasso{xe "Calasso D."}, *Patrizia Pirani{xe "Pirani P."}
Istituto di Psicologia, Facoltà Medica, Università degli Studi di Milano
*Istituto di Psicologia, Scienze della Formazione, Università di Urbino
Introduzione
Il fenomeno dell’invecchiamento delle società occidentali congiuntamente
all’incedere del progresso tecnologico incrementa il numero degli anziani che subiscono
un processo di marginalizzazione. Il tempo corrente ha rinforzato antichi preconcetti e
ne ha prodotto di nuovi. I vecchi vengono sospinti ai confini della società
dell’automazione, dell’informatica e della comunicazione satellitare, lontani dai modelli
decantati di successo e di affermazione. Le immagini, le opinioni che i vecchi nutrono
dell’epoca vissuta e del loro modo di essere, gli atteggiamenti che sanno interpretare,
riproducono esperienze, storia e cultura, costituiscono un patrimonio di conoscenza che
libera dall’interno la prigione del pregiudizio.
Metodologia
La ricerca si è proposta di esaminare la condizione dell’anziano inserito in uno
specifico contesto socio-culturale, il suo peculiare modo di percepirsi, il senso del suo
essere vecchio, le immagini che porta con sé, il suo stile di vita. Sono stati studiate 60
persone anziane (30 F., 30 M.), suddivisi in tre fasce di età: 65-74, 75-84 e dagli 85 anni
in poi, residenti nel Salento, specificamente in due comuni: Copertino (15 F., 15 M.) e
Leverano (15 F., 15 M.), il primo di maggior estensione e densità. Come strumenti della
ricerca sono stati utilizzati: A) un questionario, applicato mediante un’intervista
semistrutturata, comprendente più aree di indagine B) un test di personalità, l’Adjective
Check List (A.C.L.), composto da 300 items, raggruppati in 5 clusters omogenei. È stato
applicato anche il calcolo del chi quadrato (g.l. 1).
202
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
Risultati
I dati anagrafico-sociali della ricerca riflettono i valori nazionali. I coniugati
sono soprattutto maschi, X=11.2806 *****p<.001, le donne hanno un minor livello di
istruzione, X=8.2971 ****p<.005, e sono più sole, X=5.4545 **p<.025, specie dopo i
75 anni. Il 76.67% degli anziani intervistati si dice soddisfatto della propria salute,
specie gli uomini che esprimono una miglior qualità del loro sonno, X=8.2971
****p<.005, mentre l’80.00% rivela il timore di ammalarsi che aumenta con l’età e
solamente il 53.54% si dichiara contento dell’assistenza sanitaria ricevuta. La vita di
relazione appare soddisfacente con una prevalenza significativa negli uomini riguardo ai
rapporti amicali, X=4.2857 *p<.05. Il 90.00% del campione si ritiene soddisfatto sia
della situazione economica che abitativa. Il 35.00% lamenta un peggioramento della
qualità della vita dopo il pensionamento ed il 33.33% delle donne riferisce un declino
della salute dopo la menopausa. Il 50.00% ha un’immagine positiva del proprio corpo,
soprattutto gli uomini, di cui il 16.67% si percepisce come “forte”, mentre tra le
connotazioni negative complessivamente riferite spicca “decadente” (15.00%), nelle
donne prevale l’attribuzione “pesante” (23.33%). Anche le immagini di sé riflettono
valenze positive, in lieve prevalenza negli uomini, tra quelle negative predomina “triste”
(15.00%), specie nelle donne. Il 66.67% si sente utile, il 70.00% attivo, soprattutto nel
comune di Leverano, il 53.33% soffre di solitudine ed il 58.33% di noia, il 56.67% teme
di essere aggredito, in particolare le donne dopo i 75 anni e nel comune di maggior
estensione.
Il test A.C.L. ha complessivamente evidenziato una propensione all’apertura ed
all’espressività (m=57.48), maggiore nelle donne e nel comune di Copertino, con una
tendenza alla riservatezza (m=49.10) dopo gli 85 anni. Inoltre gli anziani esaminati
descrivono, attraverso il test, una buona considerazione di sé (m=54.85) che declina con
l’età, mentre aumentano pessimismo e perplessità. Essi si trovano a loro agio nei
rapporti interpersonali (m=53.55); le donne dimostrano maggior senso del dovere
(m=58.96), stabilità, obiettività e miglior capacità di comprensione (ds=9.33), di tutela
(m=58.18), di adattamento (m=59.76) e di fiducia in se stesse (ds=11.62). Scarse le
richieste (ds=6.64) e prevalenti i desideri di prolungata autonomia; le necessità di
supporto incrementano con il progredire degli anni e si verificano soprattutto negli
uomini (m=46.06). Gli anziani appaiono concilianti, specie a Copertino, propendono ad
evitare le conflittualità manifeste (m=54.15), in prevalenza le donne, e ricercano
nell’ambiente di abituale convivenza sicurezza e continuità, affettiva e relazionale.
Conclusioni
La persona anziana esaminata presenta un profilo generalmente soddisfacente.
Le iniziali condizioni socio-culturali poco favorevoli e gli eventi negativi
successivamente sofferti non sembrano aver inciso irreversibilmente sulla qualità della
vita e sulle immagini positive di sé. Le donne riferiscono una corporeità vissuta che pare
riflettere le conseguenze della menopausa, ma nel contempo esprimono la volontà di
realizzarsi. Gli uomini presentano una migliore immagine di sé, ma anche una maggior
vulnerabilità. In sintesi gli anziani esaminati vivono le ripercussioni del cambiamento,
interpretano nella mediazione l’esperienza acquisita, promuovono un’immagine positiva
di sé, intendono essere protagonisti ed auspicano nella longevità riferimenti rassicuranti.
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
203
Riferimenti bibliografici
Aveni Casucci, M.A. (1992). Psicogerontologia e ciclo di vita. Mursia, Milano.
Cesa-Bianchi, M. (1987). Psicologia dell’invecchiamento: caratteristiche e problemi.
La Nuova Italia Scientifica, Roma.
Cesa-Bianchi, M. (1998). Giovani per sempre? L’arte di invecchiare. Laterza, Roma.
Cesa-Bianchi, M., Vecchi, T. (1998). Elementi di Psicogerontologia. FrancoAngeli,
Milano. Laicardi C., Piperno A. (1987). La qualità della vita nella terza età.
Borla, Roma.
MULTIETNICITÀ ED EDUCAZIONE INTERCULTURALE:
L'IDENTITÀ ETNICA COME FATTORE D'INTEGRAZIONE
SCOLASTICA
Maria D’Alessio{xe "D’Alessio M."}, Simona De Stasio{xe "De Stasio S."}
Facoltà di Psicologia, Dipartimento di Psicologia, Università “La Sapienza” di Roma
Premessa
In un contesto europeo dove la maggior parte dei Paesi sono interessati da
flussi migratori diventa essenziale cogliere l'impatto psicologico di tale diversità
interetnica.
Da un'attenta analisi della letteratura psicologica di questi ultimi anni emerge
come l'interesse dei ricercatori si sia focalizzato per lo più sugli atteggiamenti dei
componenti dei gruppi etnici dominanti rispetto alle minoranze etniche. Un aspetto
meno indagato sembra essere l'appartenenza etnica dei componenti di minoranze
etniche: la relazione che questi elementi hanno con il loro gruppo di provenienza,
identità etnica.
L'atteggiamento mentale rispetto alla propria etnicità diventa centrale nel
funzionamento psicologico di chi vive in un Paese in cui il suo gruppo etnico è poco
rappresentato o peggio discriminato (Phinney, 1990).
Nasce proprio da qui l'interesse di questa ricerca sulla problematica
dell'integrazione scolastica dei bambini stranieri in Italia.
La ricerca
La ricerca si prefigge di evidenziare i possibili percorsi di costruzione
dell’identità etnica nei diversi gruppi presenti all'interno della classe, in una fascia di età
che permetta di intervenire per tutelare il processo evolutivo di ogni bambino in quanto
tale.
Metodologia
I gruppi interessati alla ricerca sono stati reperiti tra soggetti frequentanti classi
multietniche (gruppo sperimentale) e classi formate da bambini autoctoni (gruppo di
controllo). Tutta la popolazione è composta complessivamente da 637 soggetti, di età
compresa tra gli 8 e i 14 frequentanti le classi del secondo ciclo della scuola elementare.
204
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
L’indagine è stata effettuata utilizzando il Q.I.M.b (Questionario di Identità
Multietnica per bambini) uno strumento elaborato dal nostro gruppo di ricerca
riferendosi agli studi condotti da Phinney (1990), Luhtanen e Crocker (1992), che hanno
ampiamente analizzato il concetto di identità etnica e di appartenenza nella popolazione
americana.
Il suddetto strumento vede l'identità etnica riflessa da tre fattori: il senso
d'appartenenza al proprio gruppo etnico, la curiosità e l'apertura verso altri gruppi etnici,
l'atteggiamento democratico, non razzista.
Analisi e interpretazione dei dati
I dati raccolti sono stati sottoposti a tecniche statistiche di analisi parametriche
e non parametriche. Sebbene l'interpretazione dei risultati sia in corso è possibile
avanzare alcune considerazioni generali.
Il riconoscimento della propria identità etnica sembra essere un facilitatore
nell'integrazione sociale di bambini appartenenti a diverse etnie.
La costruzione dell'identità si configura come elemento fondamentale nello
sviluppo del bambino, si pone come necessario nell'interazione sociale e imprescindibile
nell'apertura verso altre etnie. Il riconoscimento ed il rispetto delle diversità etniche
deve necessariamente passare attraverso un processo di recupero della propria etnicità
che radichi il Sé alla metrica culturale di origine e delinei una continuità del proprio
essere ed esistere in funzione dei significati dominanti nelle varie esperienze vissute.
Riferimenti bibliografici
Luhtanen, R.; Crocker J., (1992), A collective self esteem sca1e: self-eva1uation of
one's socia1 identity. P.S.P.B., vol. 18, N°3, pp 302-318.
Harter, S. (1967) Competence as dimension of self evoluation: Toward a comprehensive
model of self-worth. In R. Lehay (a cura di) The development of the self, New
York, Academic.
Phinney, J. (1990),Ethnic identity in adolescents and adults: review of research.
Psychologica1 Bulletin ,vol 108, N°3, pp 499-514.
PSICOLOGIA CULTURALE, APPRENDIMENTO ED
EMOZIONI IN CONTESTO EDUCATIVO
Antonio Iannaccone{xe "Iannaccone A."}, Giovanna Celia{xe "Celia G."}, Pina
Marsico{xe "Marsico P."}
Università degli Studi di Salerno
L’orientamento ermeneutico delle scienze sociali contemporanee (Boggi –
Cavallo, 1996) ha messo in luce la complessità della dimensione interattivocostruttivista nei processi di sviluppo e di apprendimento. In particolare, a fronte di un
indirizzo empirico specificatamente dedicato all’indagine delle dimensioni cognitive
dell’apprendimento, il costruzionismo sociale ed il contestualismo in psicologia, hanno,
ormai da tempo, avviato un programma di ricerche empiriche che hanno consentito di
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
205
approfondire la conoscenza di importanti aspetti complementari a queste dimensioni. È
divenuto progressivamente più evidente come l’attività cognitiva sia strettamente ed
indissolubilmente intricata con le dimensioni sociali ed emozionali degli scambi che
caratterizzano la vita quotidiana. In questa prospettiva lo studio della dimensione
emozionale assume un rilievo specifico nella comprensione delle dinamiche che
caratterizzano le interazioni in ambito educativo, in linea con la proposta di
superamento della concezione diadica dei rapporti tra razionalità ed emozione che è
stata, nel tempo ampiamente dibattuta e che trova in Oatley (1992) un ulteriore
approfondimento.
L’apprendere, diversamente dalla visione cognitivista di trasmissione ed
elaborazione di informazioni, viene inteso come processo di interpretazione di
accadimenti socialmente connotati. Non a caso, questa prospettiva teorica ed empirica si
trova ad essere largamente rappresentata nel modello di “psicologia culturale”,
recentemente proposto da Bruner (1997), uno dei più interessanti e fecondi orientamenti
per la comprensione dei sistemi di insegnamento-apprendimento. La presente ricerca
intende esplorare il grado di competenza emozionale degli insegnanti in connessione
con le proprie rappresentazioni dell’apprendimento e dell’intelligenza e con il proprio
livello di stress socio professionale, con l’obiettivo di indagare il tipo di relazione che
intercorre tra di essi. E ciò perché lo studio della competenza emozionale assume un
rilievo specifico nella comprensione delle dinamiche che caratterizzano le interazioni in
ambito educativo.
Metodologia
Il campione è costituito da 300 insegnanti distinti in tre gruppi composti da
docenti di scuole elementare, scuole medie inferiori e medie superiori. Gli strumenti di
indagine utilizzati indagano l’area relativa alle competenze emozionali e l’area delle
rappresentazioni sociali dell’intelligenza e dell’apprendimento. Il grado di competenza
emozionale viene rilevato attraverso due strumenti: il primo consistente in una lista di
92 etichette emozionali (E. Gius; A. Cozzi; D. Spagotto; A. Villa, 1992), che richiede il
riconoscimento da parte degli insegnanti delle emozioni vissute nel corso di un intero
anno scolastico e rispetto alle quali devono indicare la frequenza con cui queste si sono
presentate; il secondo costituito dalla scala Maslach Burnout Inventory (MBI). L’area
delle rappresentazioni sociali dell’intelligenza e dell’apprendimento viene indagata
attraverso un questionario di 66 affermazioni tratto da F.Carugati e G. Mugny (1988)
comunemente utilizzate per definire l’intelligenza e l’apprendimento rispetto alle quali
si richiede di esprimere il grado di accordo.
Risultati
I risultati sembrerebbero confermare l’ipotesi che la dimensione emozionale sia
in relazione con la rappresentazione dell’intelligenza e dell’apprendimento degli
insegnanti e con il loro grado di stress socio-professionale. Lo studio, che necessita di
ulteriori e più approfondite analisi statistiche dei dati, apre la strada ad una possibile
integrazione della dimensione cognitiva ed emozionale nella complessa dinamica della
trasmissione delle conoscenze in classe.
206
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
LA VERSIONE ITALIANA DELLA ‘REVISED CHEEK & BUSS
SHYNESS SCALE’: LA “SCALA DELLA TIMIDEZZA”
Roberto Marcone{xe "Marcone R."}
Corso di laurea in Psicologia, Seconda Università degli studi di Napoli
Introduzione
La timidezza è un’emozione – e per taluni un tratto di personalità – che si
sperimenta in presenza di altre persone e in tutte quelle situazioni in cui un soggetto
prova ansia e inibizione. I correlati sintomatologici della timidezza possono essere
raggruppati in tre cluster: sintomi fisiologici; sintomi cognitivi; sintomi
comportamentali (Briggs, Cheek, Jones, 1986; B. Azar, 1995; Cheek, Melchior,
Carpentieri, 1986; Buss, 1980). Tratto sicuramente non desiderato, la timidezza può
interferire nell’instaurazione e nel mantenimento dei rapporti sociali e ridurre le capacità
attentive e comunicative soprattutto in situazioni francamente ansiogene, quali, ad
esempio, gli esami e i colloqui di lavoro.
Tra strumenti messi a punto per misurare la timidezza, la Revised Cheek &
Buss Shyness Scale (RCBS 14-Item) (Cheek, Briggs, 1990) sembra offrire garanzie
particolari in termini di validità e affidabilità, dal momento che le altre misure
disponibili in letteratura sono contrassegnate da una serie di limiti riconducibili
soprattutto al fatto che esse forniscono parametri troppo ampi e non necessariamente
caratteristici della persona timida (Cattell et al., 1970; Watson, Friend, 1969; Izard,
1971; Leary, 1983; Morris, 1984). La RCBS, inoltre, è una misura self-report di agile
somministrazione e di veloce scoring.
Obiettivi della ricerca
Lo scopo del presente lavoro è quello di illustrare le caratteristiche
psicometriche della versione italiana della RCBS 14-Item. La versione italiana della
scala si compone di 14 item, di cui 4 reversed, presentati in formato Likert a cinque
punti, che confluiscono in tre aree specifiche: sintomi somatici, cognitivi e
comportamentali (Buss, 1984).
Metodo
La versione italiana della RCBS 14-Item è stata somministrata ad un campione
di 300 soggetti (131 maschi e 169 femmine) di età compresa tra i 18 ed i 30 anni (con
un’età media pari a 22.45). Trattandosi di una scala a punteggi sommati, il punteggio
teorico minimo corrisponde a 14, il punteggio teorico massimo a 70. La media dei
punteggi totali ottenuti sul campione combinato è risultata pari a 30.25 con una
deviazione standard di 8.6. La correlazione media item-totale è risultata pari a .40 e l’α
di Cronbach, ha assunto il valore di .79. La fedeltà dello strumento è stata stimata
ricorrendo al metodo dello split-half. La correlazione tra la prima e la seconda metà
della scala ha assunto il valore di .78, la correlazione tra item pari e item dispari è
risultata pari a .82. successivamente i 14 item sono stati sottoposti ad analisi fattoriale.
L’analisi ha posto in luce 4 fattori con autovalore maggiore di uno che spiegano insieme
il 54.3% della varianza totale. A questi fattori è stata applicata la rotazione Varimax. Sul
primo fattore hanno alta saturazione gli item che fanno riferimento alla tensione e al
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
207
disagio che si sperimentano nelle relazioni sociali. Il secondo fattore raggruppa gli item
che chiamano in causa la preoccupazione di essere valutato negativamente (accentuata
autoconsapevolezza). Sul terzo fattore hanno alta saturazione tutti gli item reversed e
che si riferiscono ad una marcata disinvoltura nei rapporti con gli altri. Infine, sul quarto
fattore ha alta saturazione un solo item che chiama in causa la tensione ed il nervosismo
che le relazioni asimmetriche generano.
Nel loro complesso i risultati ottenuti confermano la buona tenuta dello
strumento che sembra offrire sufficienti garanzie in termini di attendibilità e validità.
Riferimenti bibliografici
Azar, B. (1995). When self-awareness works overtime. APA Monitor.
Briggs, S.R., Cheek, J.M., Jones, W.H. (1986). Introduction. In W.H. Jones, J.M.
Cheek, S.R. Briggs (Eds.), Shyness: Perspectives on research and treatment,
pp. 1-14. New York, Plenum Press.
Buss, A.H. (1980). Self-counsciouness and social anxiety. San Francisco, Freeman.
Buss, A.H. (1984). A Conception of Shyness. In J.A. Daly, J.C. McCroskey (Eds.),
Avoiding communication: Shyness, reticence, and communication
apprehension. Beverly Hills, CA, Sage.
Cattell, R.B., Eber, H.W., Tatsuoka, M.M. (1970). The 16-Factor Personality
Questionaire, IPAT.
Cheek, J.M., Briggs, S.R. (1990). Shyness as a personality trait. In W.R. Crozier (ed.).
Shyness and Embarassement. Cambrige, Cambrige University Press, pp. 314337.
Cheek, J.M., Buss, A.H. (1981). Shyness and Sociability. Journal of Personality and
Social Psychology, 41, 330-339.
Izard, C.E. (1971). The Face of Emotion. New York, Appleton-Century-Crofts.
Leary, M.R. (1983). Social Anxiousness: The Construct and Its Measurement. Journal
of Personality Assessment, 47, 66-75.
Morris, C.G. (1984). Assessment of Shyness. University of Michigan, Unpublisched.
Watson, D., Friend, R. (1969). Measurement of Social Evaluative Anxiety. Journal of
Consulting and Clinical Psychology, 33, 448-457.
I PROCESSI ASSIMILATIVI ED ADATTIVI NELLE
STRATEGIE DI COPING
Carla Poderico{xe "Poderico C."}
Corso di Laurea in Psicologia, Seconda Università degli studi di Napoli
Nell’ambito della psicologia gerontologica il tema del coping, ovvero delle
risposte consce da elaborare per risolvere il disagio che deriva da situazioni di stress
costituisce, di certo, uno degli argomenti su cui si è maggiormente concentrata la
riflessione teorica e la ricerca. Che una situazione di stress dia origine ad uno stato
patologico o meno dipenderà dalle capacità del soggetto di fare fronte all’evento
stressante e di adattarsi ad una nuova condizione, vale a dire dalle sue strategie di
208
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
coping. Con il termine coping - per dirla con Lazarus (1993)- ci si riferisce agli sforzi
cognitivi e comportamentali orientati alla gestione di specifiche richieste esterne o
interne percepite dal soggetto come eccessivamente gravose ed eccedenti le risorse
personali.
Le risposte allo stress, e questo indipendentemente dalle prospettive teoriche
dalle quali il tema del coping è stato affrontato, vengono convenzionalmente
raggruppate in due ampie classi: si parla infatti di un coping focalizzato sul problema
(problem focused) contrapposto ad un coping focalizzato sull’emozione (emotionfocused). Il primo implica un orientamento al compito e si riferisce alle strategie
impiegate per risolvere un problema, per riconcettualizzarlo cognitivamente o per
ridurne gli effetti; il secondo è diretto alla regolazione della risposta emozionale alla
situazione stressante, ai tentativi, cioè, di ridurre il disagio e il disturbo prodotti dalla
risposta emotiva stessa.
Quanto questa distinzione sia rilevante nella letteratura sul coping è dimostrato,
tra l’altro, dalla centralità che essa ha assunto nella messa a punto degli strumenti di
misurazione del coping. Infatti tutte le misure che fino ad oggi sono state elaborate
includono direttamente o indirettamente queste due classi di risposta.
Sebbene gli sforzi che comporta il ripristino dell’omeostasi, caratterizzino tutto
l’arco dello sviluppo, di certo essi risultano più gravosi in alcune epoche della vita e di
certo l’età anziana è da considerarsi periodo “critico” nella vita della maggior parte delle
persone.
Che le risorse adattive dell’anziano siano notevoli è dimostrato fra l’altro
anche dagli studi di Jochen Brandstädter. Le sue indagini confermano che esistono
variazioni interindividuali nei pattern e negli stili di adattamento agli eventi negativi che
segnano l’età anziana. In più esse pongono in luce come l’anziano sia in grado di far
fronte a situazioni di stress prolungato in una maniera molto più efficace di quanto si
presumesse in passato. Brandstädter parla di un modo essenziale di far fronte allo stress
che chiama in causa due processi fondamentali, denominati rispettivamente assimilativi
e adattivi. I processi assimilativi e quelli accomodativi non si escludono
vicendevolmente, essi sono piuttosto modalità di adattamento complementari che
designano tappe successive del coping nell’anziano. A parere di Brandstädter
(Brandstädter et alii, 1993) col passare del tempo si assiste ad una progressiva
variazione nell’organizzazione delle risposte allo stress: nel tempo decresce la tendenza
all’ostinazione nel perseguimento dei fini ed aumenta la flessibilità nell’adattarsi
all’obiettivo.
Lo scopo del presente lavoro è di analizzare la relazione tra stili di personalità
adattivi e assimilativi e la scelta di specifiche strategie di coping. Recenti ricerche
sull’argomento (Brandstädter e Renner, 1990; Brandstädter, Wentura e Greve, 1993)
hanno posto in luce che le cosiddette variabili di personalità, non diversamente della
natura dello stressore, modulano la scelta delle strategie di coping. Tuttavia i risultati
ottenuti lasciano aperta la questione relativa a quanta parte della varianza del fenomeno
possa essere ascritta alle prime e quanta parte invece sia possibile spiegare attraverso
l’analisi delle situazioni di stress.
Metodo
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
209
Per analizzare la relazione tra i processi assimilativi/accomodativi e il coping
ad un campione di 100 anziani non istituzionalizzati (39 maschi e 61 femmine) di età
compresa tra 65 e 87 anni (età media = 69,64), sono stati somministrati, in ordine
bilanciato, la versione italiana sperimentale del Coping Inventory for Stressfull Situation
(CISS) di Endler e Parker (1990), messa a punto da Sirigatti, Stefanile (in corso di
stampa) e la versione italiana del Tenacious Goal Pursuit and Flexible Goal Adjustment
di Brandstädter e Renner (1990) (Poderico, in corso di stampa).
Il CISS è una misura self-report che si articola in tre subscale deputate
rispettivamente alla misurazione di tre specifiche strategie di coping, denominate
rispettivamente: Task, Emotion e Avoidance. La scala dell’Avoidance si articola, a sua
volta, in due sottoscale: la Distraction Scale (D) e la Social Diversion Scale (SD)
entrambe volte a rilevare quali strategie il soggetto utilizza per alleviare lo stress. La
Tenacious Goal Pursuit (TGP) and Flexible Goal Adjustment (FGA) è anch’essa un
questionario self-report che misura le risposte allo stress di tipo accomodativo o di tipo
assimilativo.
Risultati
Preliminarmente si è proceduto al calcolo dei coefficienti di correlazione tra i
punteggi riportati dai soggetti alle sottoscale delle due misure utilizzate. Correlazioni
significative positive si sono osservate tra la strategia di coping Task-oriented e la
Flessibilità (r=.2750, p =.006) e la Tenacia (r=.3858, p =.000). È stata osservata poi una
correlazione significativa negativa tra la strategia di coping Emotion e la Tenacia (r = .2766, p =.005). Non sono risultate significative le correlazioni fra l’Avoidance e la
Flessibilità e Tenacia. All’interno dell’Avoidance, però, è stata osservata una
correlazione significativa fra il Diversivo Sociale e la Tenacia (r =.2181, p =.029),
questo dato farebbe pensare che nelle situazioni in cui c’è un forte stress i soggetti
anziani maschi (r= .3243, p =.044) tendano a cercare diversivi sociali.
Per accertare in che misura la Flessibilità o la Tenacia potrebbero essere
considerate predittori nella organizzazione delle risposte allo stress, si è proceduto al
confronto tra gruppi-criterio. Per ciascuna dimensione (Flessibilità e Tenacia) i soggetti
sono stati divisi in due gruppi: il primo costituito da coloro che avevano riportato un
punteggio al di sotto del 25° percentile, il secondo costituito da coloro che avevano
riportato un punteggio che cadeva al di sopra del 75° percentile: bassa Flessibilità
versus alta Flessibilità; bassa Tenacia versus alta Tenacia. Si è poi proceduto al
confronto tra le medie dei punteggi del CISS riportati dai soggetti collocati nei gruppi
così definiti. Il confronto tra i due gruppi (bassa Flessibilità versus alta Flessibilità) non
ha segnalato differenze significative nei punteggi riportati sulle tre dimensioni del
coping. È stato invece osservato che i punteggi di bassa Tenacia sono significativamente
più bassi di quelli collocati nell’alta Tenacia relativamente alle dimensioni del Task (t54
= 2.99, p = .004) e dell’Emotion (t54= 2.34, p =.023).
In conclusione sembra che la Tenacia, quale stile di personalità di tipo adattivo,
possa essere considerata un buon predittore di risposte di coping come del resto è
riportato in letteratura.
Riferimenti bibliografici
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
210
Brandstädter J. e Renner G.(1990) Tenacious Goal Pursuit and Flexible Goal
Adjustment: Esplication and Age-Related Analysis of Assimilative and
Accomodative Strategies of coping. Psychology and Aging, 5, 1, 58-67.
Brandstädter J., Wentura D. e Greve W. (1993) Adaptive Resources of the Aging Self:
Outline of an Emergent Perspective. International Journal of Behavioral
Development, 16, 2, 323-349.
Lazarus R.S. (1993) Coping Theory And Research: Past, Present and Future.
Psychosomatic medicine, 55, 234-247.
Sirigatti S., Stefanile C. e Toselli M. (1996) Una misura per il coping: il Coping
Inventory for Stressful Situations (CISS). Bollettino di Psicologia Applicata,
218, 45-47.
Endler N.S. e Parker J.D.A. (1990a) Coping Inventory for Stressful Situations (CISS):
Manual. Multi-Health Systems, Toronto.
IDENTITÀ E PROCESSI DI INTEGRAZIONE IN DONNE
IMMIGRATE EXTRA-COMUNITARIE
Lidia Provenzano{xe "Provenzano L."}, Valeria Schimmenti{xe "Schimmenti
V."}, Laura Pernice{xe "Pernice L."}
Università “La Sapienza” di Roma
Introduzione
Il fenomeno delle migrazioni ha influito sempre fortemente sullo sviluppo di
ogni civiltà del passato, e altrettanto sta accadendo oggi con aspetti variegati: la nostra
società si trasforma in direzione multietnica.
Ma contemporaneamente la nostra società si arricchisce grazie alla convivenza
di più culture, che comportano ricchezza umana e fonti di creatività. (Bergnach L., Sussi
E., 1993, Di Micco V., Martelli, 1993, Favara M.G., Natale M., Pompeo F., 1995,
Macioti M.I., Pugliese E., 1991, Macioti M.I., 1995). Da molte ricerche emerge un
segno significativo del processo di trasformazione sociale in atto in Italia ( e altrove)
che può essere indicato nelle immigrazioni femminili, una sfaccettatura nuova rispetto
ai precedenti percorsi migratori. La donna immigrata non è più né soltanto isolata e
subalterna: rompe i legami familiari, divorzia, cerca di accrescere la sua cultura e la sua
professionalità con il “mito del ritorno” ma in vista di un nuovo progetto di vita. Si è
voluto quindi approfondire questo fenomeno in modo particolare negli aspetti
psicologici per restituire (o costituire?) un volto e una storia alla donna immigrata.
Scopo
Obiettivo principale della ricerca è stato quello di cercare di individuare come
l’identità culturale di una donna immigrata ( nel contesto socioeconomico-culturale
campano) possa favorire o meno la sua integrazione con altri gruppi etnici, tenendo
conto in modo particolare della percezione di sé all’interno del proprio gruppo etnico e
come percepisce gli altri gruppi etnici attraverso il questionario Ethnic Identity Scale
(Phinney, 1990) modificato per adulti.
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
211
Metodo
L’indagine è stata condotta su gruppi di donne immigrate provenienti dalla
Somalia, dal Marocco, dal Senegal, da Capo Verde, dalla Repubblica Domenicana e
dalle Filippine alle quali è stato sottoposto il questionario di Phinney e sono stati chiesti
alcuni dati anamnestici.
Risultati
Le analisi effettuate sul gruppo totale e sui sottogruppi (con vari tests statistici:
varianza, analisi fattoriale, correlazione B-P) permettono di evidenziare quanto la solida
identità culturale del proprio gruppo etnico favorisca l’integrazione con altri gruppi e il
grado generale di integrazione raggiunto dai soggetti. Pur si evidenziano tratti e
modalità differenti a seconda delle diverse matrici culturali.
Riferimenti bibliografici
Bergnach L., Sussi E., (a cura di), Minoranze etniche ed immigrazione. La sfida del
pluralismo culturale, F. Angeli, Milano, 1993.
Di Micco V., Martelli. (a cura di) Passaggi di confine Etnopsichiatria e migrazioni,
Liguori Editori, Napoli, 1993.
Favaro G., Ometto L., Donne filippine in Italia. Una storia per immagini e parole,
ICEI, Milano, 1993.
Macioti M.I., Pugliese E., Gli immigrati in Italia, Latenza, Bari, 1991.
Macioti M.I., Per una società multiculturale, Liguori, Napoli, 1995.
Phinney J., & Traver S., Etnhic identity search and committment in Black and White
eight graders, Journal of Early Adolescence 1988. 8, 256-277 Sommerland E.,
& Berry J., The role of etnhicidentication in distiguishing between attitudes
towards assimilation and integration of a minority racial group. Human
relation, 7, 21-23, 1970.
Phinney J., Stages of etnhic identity in minority group adolescents. Journal of early,
1989.
Phinney J., The Multigroup Etnhic Identity Measure. A new scale for use with
adolescents and adults from diverse group, 1990.
Sussi E., I bisogni formativi degli immigrati, F.Angeli, Milano, 1991.
LA CATEGORIZZAZIONE DEI TERMINI EMOTIVI NEL
LESSICO ITALIANO
Vanda Lucia Zammuner{xe "Zammuner V.L."}*
Università di Padova
Introduzione
Le emozioni umane sono un fenomeno complesso e multicomponenziale,
paragonabile ad un complicato mosaico composto di moltissimi tasselli; il loro studio ha
quindi dato origine a diverse prospettive di indagine, ognuna delle quali ha tentato di
212
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
comprenderne alcuni aspetti (ad es., neurofisiologici, comportamentali e cognitivi). La
presente ricerca si inserisce in un filone teorico che affronta lo studio delle emozioni a
partire dal linguaggio, in base all’ipotesi che, pur non essendo il linguaggio isomorfo
all’esperienza emotiva, la sua organizzazione sottintenda una corrispondente
organizzazione dei concetti a livello cognitivo. Più in particolare, si ipotizza che i
concetti emozionali siano organizzati, seguendo il modello categoriale di E. Rosch
(1973), in sistemi categoriali a due dimensioni, una verticale riguardante la relazione
gerarchica tra categorie, e una orizzontale riguardante la distinzione tra categorie allo
stesso livello di inclusività. Le emozioni sarebbero organizzate orizzontalmente in
categorie dai confini sfumati, composte da membri accomunati da una “somiglianza di
famiglia” con l’elemento centrale più tipico (il prototipo), e verticalmente in tre livelli:
superordinato, basico e subordinato. In particolare, il livello basico permetterebbe di
fare distinzioni più precise rispetto ai concetti superordinati di emozione, pur senza
essere troppo dettagliato, offrendo quindi un buon compromesso tra informatività ed
economia cognitiva, il che lo renderebbe molto utile nella comunicazione quotidiana; il
livello subordinato veicolerebbe invece informazioni più specifiche, relative ad esempio
ad aspetti quali l’intensità delle emozioni, la loro durata, o il contesto in cui vengono
provate. L’ottica prototipica ha generato moltissime ricerche che ne hanno verificato, e
confermato, l’applicabilità al dominio emozionale. La ricerca qui presentata si inserisce
in questo filone ed ha lo scopo di verificare quale è l’organizzazione concettuale dei
termini emozionali dell’italiano, verificando anche i risultati ottenuti in precedenti
ricerche condotte sia in altre culture linguistiche, sia in Italia.
Metodo
La ricerca è stata condotta con 140 studenti universitari (65 maschi e 75
femmine) di età compresa tra i 19 ed i 30 anni, di varie facoltà dell’Università di Padova
e dell’Università di Milano ai quali, seguendo la procedura di Agnoli et al. (1989) che
replicava, per il lessico italiano, quella adottata da Shaver et al. (1987) per l’inglese, fu
chiesto di raggruppare in base alla loro somiglianza 153 termini emotivi loro presentati “... vorremmo vedere quali emozioni le persone pensano che siano simili tra loro (quali
“vanno insieme”) e quali ritengono diverse e perciò appartenenti a differenti
categorie... devi classificare le emozioni in base alla somiglianza, e non ad altri criteri
(potresti mettere insieme emozioni che possono far parte di una stessa esperienza ma
che non sono propriamente simili, come ad es. amore - delusione, oppure odio - amore
per la stessa persona ... ”. La lista dei 153 termini era composta da vocaboli
attentamente prescelti onde garantirne la rappresentatività rispetto al lessico emozionale
e facilitare il confronto con i risultati ottenuti in ricerche precedenti - per es., la lista
comprende la maggior parte dei termini usati da Agnoli et al. (1989), da Ortony et al.
(1987), da Van Goozen e Frijda (1993), da Galati (1986). Inoltre, su questi 153 termini
ricerche parallele hanno fornito dati descrittivi di vario tipo attinenti dimensioni
dell’esperienza designata quali l’intensità e il tono edonico, la durata, la frequenza, il
grado di “leggittimità” sociale (e.g., Zammuner, 1994, 1998). I termini furono presentati
ai soggetti singolarmente, stampati su cartoncini di piccole dimensioni che riportavano
anche un numero identificativo dell’emozione, usato dai soggetti per compiere i
raggruppamenti, senza alcun limite nel loro numero. Il tempo per l’esecuzione variò da
circa quaranta minuti a più di un’ora e mezza, con una media di un’ora e dieci minuti.
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
213
I raggruppamenti effettuati dai soggetti furono tabulati in una matrice di cooccorrenza 153x153 che fu sottoposta ad analisi gerarchica dei cluster (programma PSSX di Hierarchical Cluster Analysis)
Risultati
Il numero di raggruppamenti effettuati dai soggetti, analogamente a quanto
riscontrato in ricerche precedenti (per es., Shaver et al. 1987), variò da un minimo di 3
(un solo soggetto) ad un massimo di 72, con una media di 37,6; anche il numero di
termini contenuti in ogni categoria fu variabile, oscillando da un minimo di 1 ad un
massimo di 63. I risultati ottenuti analisi gerarchica dei cluster confermano la validità
dell’ipotesi che i concetti emozionali sono rappresentati categorialmente. Tuttavia,
rispetto ai risultati ottenuti in ricerche precedenti, sia l’articolazione verticale che quella
orizzontale presentano alcune differenze degne di nota. In particolare, al livello basico è
possibile individuare dieci grossi raggruppamenti, denominati gioia, amore, calma,
compassione, ansia, noia, tristezza, sorpresa, paura e rabbia; al livello superordinato la
gioia da un lato e la rabbia dall’altro si contrappongono a tutte le altre emozioni,
distinte tra loro ad un livello più basso in tre grandi gruppi: amore, calma e
compassione, distinti da ansia noia e tristezza da un lato, e sorpresa e paura dall’altro;
al livello subordinato infine si trovano 28 raggruppamenti, che evidenziano affinità di
natura più specifica tra le emozioni - per es., esultanza, euforia, entusiasmo, esaltazione,
trionfo; imbarazzo, vergogna, timido, disagio; gelosia, invidia; indignazione, sdegno,
disprezzo; collera, rabbia, furia, rancore, vendetta, odio - i risultati ottenuti a questo
livello possono essere utili per decidere quali termini presentano le maggiori affinità
concettuali.
In sintesi, al livello superordinato la distinzione non sembra essere tanto tra
emozioni positive e negative, ma tra emozioni particolarmente “attivate” (gioia e rabbia)
e altre più ‘quiete’, e il livello basico presenta un’articolazione maggiore di quella
trovata in studi precedenti (per es., Shaver et al. 1987). Rispetto alla ricerca sull’italiano
di Agnoli et al. (1989), la diversità dei risultati potrebbe essere imputabile al fatto che
(a) la lista sperimentale in questa ricerca includeva un maggior numero di termini, e (b)
i termini prescelti erano stati scelti in base a molteplici criteri invece di essere
semplicemente la traduzione di termini significativi per la cultura statunitense. Più in
generale, i risultati ottenuti testimoniano la presenza di una struttura concettuale
piuttosto ‘raffinata’ (struttura che può essere utilizzata anche nella discussione
dell’annoso problema di quali emozioni possono essere considerate “di base”, primarie,
o universali), e sono coerenti con quelli di altre ricerche che mostrano come gli italiani
posseggano un lessico ‘attivò emozionale più ampio di quello di persone appartenenti ad
altre culture (Van Goozen e Frijda 1993; Zammuner e Galli 1999). Infine, nonostante
questo tipo di studi sul lessico emozionale non vada esente da critiche (in particolare,
l’ampio grado di soggettività nell’interpretazione ed ‘etichettare’ i risultati di una analisi
dei cluster), i risultati ottenuti, soprattutto al livello subordinato, si possono prestare
quali strumenti utili in ambito di ricerca - ad esempio, nell’interpretare eventuali
differenze transculturali riscontrate, o nel disegnare un set di stimoli emozionali
sperimentali.
Scopo di ulteriori ricerche potrà essere quello di verificare se tale struttura
concettuale è stabile o non si modifichi invece funzione di variabili sociodemografiche e
214
POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ
intraculturali (per es., la regione di provenienza), come essa venga acquisita, e, per
quanto riguarda il prototipo di ciascun gruppo, quali ne sono gli elementi caratterizzanti
e quali sono i termini che meglio lo designano.
* Ringraziamenti. I dati qui riportati sono stati raccolti ed analizzati con il competente aiuto di Giorgio
Tricarico.
Riferimenti bibliografici
Agnoli , F. , Kirson , D. , Wu , S. e Shaver , P. (1989). Hierarchical analysis of the
emotion lexicon in English , Italian and Chinese. Paper presented at the
Meeting of the International Society for Research on Emotion, Paris.
Shaver , P. , Schwartz , J. , Kirson , D. e ÒConnor , C. (1987). Emotion Knowledge:
further exploration of a prototype approach. Journal of Personality and Social
Psicology , 52 , 1061-1086.
Zammuner, V.L. (1998). Concepts of emotion: ‘Emotionness’, and dimensional ratings
of Italian emotion words. Cognition and Emotion, 12, 243-272.
POSTER - ERGONOMIA
215
ERGONOMIA
LAVORO A TURNI E DISAGIO FISICO E PSICOLOGICO.
INDAGINE PRELIMINARE SU UN CAMPIONE DI 270
INFERMIERI
Francesco Versace{xe "Versace F."}, Corrado Cavallero{xe "Cavallero C."},
Romina Curto{xe "Curto R."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Trieste
Al momento attuale la figura dell’infermiere è interessata da numerosi
cambiamenti sia a livello legislativo sia a livello operativo (ad es. abolizione del
“mansionario”, istituzione del Corso di Diploma ecc.) che stanno conducendo a una
modificazione delle responsabilità e dei compiti affidati all’interno degli ospedali a
questa figura professionale. In questo clima di cambiamento un notevole interesse da
parte del personale infermieristico è indirizzato non solo verso la individuazione delle
specifiche mansioni di competenza e dei carichi di lavoro, ma anche verso i problemi
della organizzazione del lavoro in generale (ruolo più attivo e collaborazione con il
personale medico), della qualità del servizio erogato, della sicurezza e della salute sia a
breve sia a lungo termine. A questa tendenza già in atto si sono affiancate, nell’ambito
dell’igiene e della sicurezza sul lavoro, le nuove norme introdotte dalla legge “626”. Il
singolo operatore non viene più considerato solo come destinatario “passivo” dei
provvedimenti riguardanti la sicurezza elaborati dal datore di lavoro, ma come una
figura attiva sia nella fase di individuazione dei fattori di rischio sia nella fase operativa
di realizzazione di contromisure volte alla riduzione dei rischi (Gabassi, De Tina, Perin,
1998). Questo nuovo approccio alla sicurezza ha suscitato notevole interesse da parte
del personale infermieristico verso aspetti legati alla salute che solitamente sono stati
trascurati da parte di chi fino ad ora ha gestito l’organizzazione del lavoro. In particolare
l’area connessa al regime di turnazione viene indicata come “critica” non solo per
quanto riguarda gli aspetti strettamente ergonomici (ad esempio maggior probabilità di
errori nel corso del turno notturno), ma anche per le potenziali conseguenze negative
sulla vita sociale e sulla salute del personale impegnato in turni notturni. Purtroppo le
connessioni che esistono tra fattori biologici, sociali, ergonomici e variabili di
personalità rendono difficoltosa l’indagine in questo settore mascherando e
confondendo gli effetti negativi dovuti al regime di turnazione in sé. Inoltre le
differenze degli strumenti di indagine utilizzati, spesso orientati all’indagine solo di
aspetti specifici del problema (ad es. incidenza dei disturbi fisici o psicologici in
funzione della anzianità di servizio; misurazione di variabili fisiologiche in funzione
delle caratteristiche del turno; caratteristiche di personalità e grado di adattamento al
lavoro notturno), hanno reso difficoltoso il confronto e la condivisione dei risultati
ottenuti dai diversi gruppi di ricerca producendo una fotografia frammentaria del tema
in esame. Recentemente è stato introdotto un nuovo strumento di indagine che negli
intenti dei ricercatori che l’hanno messo a punto dovrebbe consentire il superamento sia
216
POSTER - ERGONOMIA
dei problemi psicometrici sia della parzialità dei risultati ottenuti attraverso i questionari
fino ad ora utilizzati: lo Standard Shiftwork Index (Barton, Spelten, Totterdell, Smith,
Folkard e Costa, 1995). Dell’originale in lingua inglese sono state effettuate traduzioni
in diverse lingue e in questo lavoro si è fatto riferimento alla versione in italiano curata
da Martoni e Natale. Lo SSI che, in generale, si ispira al modello a tre fattori di Monk
(1988) (il “disagio” dovuto al lavoro a turni emergerebbe dalla interazione di fattori
circadiani, fattori riguardanti il sonno e fattori socio-familiari, mediati dallo stile di
coping specifico del soggetto preso in esame e si esprimerebbe con disturbi riguardanti
queste specifiche aree e attraverso sintomi di disagio fisico e psicologico) indaga
attraverso scale specifiche e con buone caratteristiche psicometriche l’area del sonno e
dei suoi disturbi, l’area riguardante i ritmi circadiani, lo stato di benessere psicofisico, la
situazione sociale e familiare del turnista, i fattori di personalità e le strategie di coping,
oltre che, naturalmente, le caratteristiche del regime di turni in cui il soggetto è
impiegato.
La presente ricerca ha coinvolto il personale infermieristico impegnato in turni
notturni di due ospedali facenti capo alla stessa Azienda Sanitaria Locale. Sono stati
distribuiti in 20 reparti 550 questionari dei quali ne sono stati restituiti 270. Per ogni
soggetto sono stati calcolati i punteggi di ogni sottoscala e questi valori sono stati
utilizzati per condurre le analisi statistiche miranti a indagare le conseguenze a breve e a
lungo termine dei diversi tipi di turno di lavoro e a valutare l’esistenza di correlazioni
significative tra le variabili indagate. I risultati emersi hanno fornito non solo dei dati
utili all’acquisizione di un insieme di valori normativi riguardo un campione italiano,
ma anche hanno fatto emergere la necessità, nella situazione specifica analizzata, di
tenere maggiormente in considerazione, al momento della programmazione dei turni di
lavoro, le caratteristiche del sistema circadiano umano (ad es. rotazione dei turni in
senso orario anziché antiorario come adottato in entrambi gli ospedali, regolarità dei
cicli di turni ecc.) e di fornire al personale impegnato un adeguato supporto clinico e
una adeguata quantità di informazione riguardo, ad esempio, l’igiene del sonno. Anche
in questo caso, come suggerito da Monk (1997) emerge la necessità della presenza di
una figura specifica in grado sia di fornire un adeguato supporto sia clinico sia
informativo ai turnisti sia di elaborare e mettere a punto soluzioni adeguate per quanto
riguarda la gestione del personale e del lavoro.
Riferimenti bibliografici
Barton, J., Spelten, E., Totterdell, P., Smith, L., Folkard, S., Costa, G. (1995). The
Standard Shiftwork Index: a battery of questionnaires for assessing shiftworkrelated problems. Work and Stress, 9 (1) 4-30.
Gabassi, P. G., De Tina, M., Perin, G. (1998). Comportamenti lavorativi a “rischio” e
sicurezza lavorativa nella prospettiva ergonomica. Aspetti psicologici e
giuridici. Edizioni Goliardiche, Trieste.
Monk, T. H. (1988). How to make shift work safe and productive, Des Plaines, III.
American Society of Safety Engineers. Citato in: Monk, T.H. e Folkard, S.
(1992). Making Shiftwork Tolerable. Taylor & Francis, London.
Monk, T.H. (1997). Shift Work. In: M. Pressman e W. Orr (Eds.) Understanding Sleep.
American Psychological Association Washington.
POSTER - INTELLIGENZA ARTIFICIALE E MODELLI CONNESSIONISTICI
217
INTELLIGENZA ARTIFICIALE E MODELLI CONNESSIONISTICI
EVOLUZIONE DI DIFFERENTI FORME DI MODULARITÀ IN
SISTEMI NEURALI
Andrea Di Ferdinando{xe "Di Ferdinando A."}, Raffaele Calabretta{xe
"Calabretta R."}
Istituto di Psicologia, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma
La ricerca nel campo delle neuroscienze sembra avere oramai riconosciuto il
fatto che i processi cognitivi umani vengono realizzati mediante l’uso di moduli
specializzati (vedi, ad esempio, Moscovitch e Umiltà, 1990) e pertanto la modularità
della mente viene considerata come uno degli assunti fondamentali del cognitivismo
(Fodor, 1983).
Ci sono numerose prove empiriche del fatto che l’informazione che entra nel
nostro sistema nervoso passa attraverso diverse “vie” neurali, e dunque diverse strutture
nervose, dove viene sottoposta a differenti tipi di elaborazione. Il cervello non sembra
essere, quindi, un sistema unico ed omogeneo bensì un insieme di “moduli” ognuno
specializzatosi nel trattare uno specifico tipo di informazione. Per esempio, il fenomeno
delle afasie dimostra che ci sono diverse aree di competenza linguistica nel cervello,
ognuna abbastanza indipendente dalle altre al punto che in caso di lesioni il danno può
essere limitato a certi aspetti della nostra competenza linguistica e non ad altri. Tuttavia,
nonostante ci siano oggi numerose prove empiriche a favore di questa modularità
neurale, l’analisi volta a stabilire perché essa si sia evoluta è un’analisi di tipo
fondamentalmente computazionale. Si tratta, infatti, di stabilire qual è il vantaggio
evolutivo di tale caratteristica e, se consideriamo il cervello come un sistema di
elaborazione dell’informazione, questo vantaggio non può che essere di tipo
computazionale.
Nell’affrontare tale problema abbiamo fatto uso di una metodologia che
permette la simulazione al computer del sistema nervoso: i modelli connessionisti o reti
neurali (Rumelhart et al., 1986). In questo quadro teorico, studiare la modularità
significa in pratica concentrarsi sul pattern di connettività tra le unità che costituiscono
la rete neurale. Sebbene anche all’interno del quadro teorico connessionista sia difficile
trovare una definizione univoca di modularità, è possibile tuttavia esaminare alcuni
modi diversi con cui si è soliti riferirsi ad essa e tentare di capire quali siano le
caratteristiche comuni ai diversi tipi di modularità neurale. Abbiamo analizzato, in
particolare, due tipi di modularità neurale che possono essere implementati nei modelli
connessionisti e a cui ci riferiremo con il nome di modularità temporale e modularità
spaziale. Queste due diverse forme di modularità hanno in comune la caratteristica che
ad un certo punto, lungo il percorso neurale che va dagli input sensoriali agli output
motori, “l’autostrada” dell’informazione si divide in due o più strade differenti. Mentre
nel primo caso ciò avviene in momenti diversi, tutta l’informazione, cioè, passa o per
218
POSTER - INTELLIGENZA ARTIFICIALE E MODELLI CONNESSIONISTICI
una strada o per l’altra a seconda della situazione, nel secondo caso l’informazione
prende sempre tutte le direzioni possibili. In altre parole, mentre i moduli temporali
sono alternativi, ed è quindi necessario un qualche meccanismo di selezione che decida
dove far passare l’informazione, i moduli spaziali sono complementari, nel senso che
sono tutti necessari per risolvere un determinato compito.
Facendo uso di algoritmi genetici (Holland, 1975), ossia di algoritmi che usano
modelli computazionali di alcuni dei meccanismi dell’evoluzione, abbiamo eseguito una
serie di simulazioni che prendevano in considerazione l’evoluzione della modularità nei
due diversi casi. L’apparato metodologico costituito dai modelli connessionisti e
dall’uso di algoritmi che si ispirano a fenomeni biologici quali gli algoritmi genetici, è
secondo noi di notevole utilità se non si vogliono trascurare, come invece è stato fatto
finora, i diversi livelli di analisi che appaiono essere fondamentali per lo studio della
mente in generale e della sua evoluzione in particolare. Ci riferiamo soprattutto al
livello comportamentale e a quello genetico che, qualora si volesse arrivare a capire la
mente umana nella sua interezza, andrebbero studiati insieme a quello neurofisiologico.
L’approccio della Vita Artificiale sembra permettere oggi questo studio integrato
(Langton, 1989).
Facendo uso di tale approccio, abbiamo cercato di stabilire quali sono i legami
tra i vari livelli coinvolti nell’evoluzione della modularità. In particolare, gli studi sulla
modularità spaziale hanno suggerito un ruolo fondamentale esercitato
dall’apprendimento individuale per l’evoluzione di tale caratteristica (Di Ferdinando &
Parisi, 1999), mentre le ricerche sulla modularità temporale hanno evidenziato
l’importanza di operatori genetici quali la duplicazione per l’evoluzione della
specializzazione funzionale dei moduli (Calabretta et al., 1998). È nostra convinzione
che dalla comparazione dei risultati ottenuti mediante le simulazioni delle diverse forme
di modularità sarà possibile estrapolare importanti informazioni circa la natura e i
vantaggi computazionali della organizzazione modulare, nonché suggerimenti sulle
modalità con cui tale caratteristica si è di fatto evoluta negli organismi complessi.
Riferimenti bibliografici
Calabretta, R., Nolfi, S., Parisi, D. & Wagner G.P. (1998). A case study of the evolution
of modularity: towards a bridge between evolutionary biology, artificial life,
neuro- and cognitive science. In Adami, C., Belew, R., Kitano, H. and Taylor,
C. (eds.), Proceedings of the Sixth International Conference on Artificial Life.
Cambridge, MA: MIT Press.
Di Ferdinando, A. & Parisi, D. (1999). Evolution of modularity in a vision task. In
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Fodor, J. (1983). Modularity of mind. Cambridge, MA: MIT Press.
Holland J.H. (1975). Adaptation in natural and artificial systems. Ann Arbor, MI: The
University of Michigan Press (Second edition: Cambridge, MA: MIT Press,
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Langton, C.G. (1989). Artificial Life. Reading, MA: Addison Wesley.
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Cambridge, MA: MIT Press.
POSTER - INTELLIGENZA ARTIFICIALE E MODELLI CONNESSIONISTICI
219
Rumelhart D. and McClelland J. (1986). Parallel distributed processing: explorations
in the microstructure of cognition. Cambridge, MA: MIT Press.
220
POSTER - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
GLI STATI MENTALI DELL’INGANNATO
Mauro Adenzato{xe "Adenzato M."}
Centro di Scienza Cognitiva, Università di Torino
Introduzione
L’inganno è un complesso fenomeno il cui studio richiede di integrare
differenti approcci concettuali. Adottando l’approccio evoluzionistico è stato possibile
evidenziare come l’inganno possa essere studiato in riferimento al tipo di
organizzazione sociale che ha caratterizzato la storia evolutiva del genere
Homo(Adenzato e Ardito, 1999). Nel presente lavoro l’ottica adottata è di tipo cognitivo
e l’attenzione viene posta sugli stati mentali esperiti da un individuo che riconosce un
tentativo di inganno.
Riferimento teorico
La teoria di riferimento della ricerca è la Pragmatica cognitiva (Airenti, Bara e
Colombetti, 1993). Secondo questa teoria due interlocutori possono comunicare
efficacemente solo se le loro azioni sono condivise sulla base di un piano finalizzato al
raggiungimento di un obiettivo comune, piano chiamato gioco comportamentale. Il
gioco comportamentale è una struttura di comprensione grazie alla quale vengono di
volta in volta selezionati i significati corretti da attribuire ad ogni mossa comunicativa.
Un altro concetto proposto dalla Pragmatica cognitiva è la credenza condivisa, da
intendersi come una credenza che un individuo ritiene soggettivamente di condividere
con il proprio interlocutore. Le credenze condivise sono stati mentali che permettono ad
ogni partecipante ad un’interazione comunicativa di dare per scontata la condivisione di
una serie di credenze con il proprio interlocutore e di usare questo retroterra per
aggiungerne altre. All’interno di questo quadro teorico, l’inganno è definibile come la
rottura intenzionale delle regole che governano la sincerità in un gioco
comportamentale, rottura finalizzata al raggiungimento di un obiettivo privato.
Obiettivo della ricerca
La ricerca parte dalla constatazione che durante un’interazione comunicativa
tra A e B, se B riconosce il tentativo da parte di A di ingannarlo, si possono verificare
almeno tre differenti situazioni (le situazioni b-d successivamente descritte). In un’altra
situazione (a) l’inganno non è propriamente riconosciuto, ma B lo fa comunque fallire.
Queste quattro situazioni corrispondono a stati mentali distinti di B:
a)
inganno non riuscito, ma neppure scoperto: B non crede a quanto detto
da A, ma pensa che A ci creda.
b)
inganno scoperto: tuttavia, B non crede che A si sia accorto che
l’inganno è stato scoperto.
c)
inganno scoperto: B pensa che A sia consapevole che l’inganno è stato
scoperto, ma che non abbia capito che B sa che A se ne è accorto.
POSTER - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
221
d)
inganno scoperto: B pensa che A abbia capito non solo che l’inganno è
stato scoperto, ma anche che B si è accorto che A è consapevole di essere stato
smascherato.
In linea di principio sono possibili altre situazioni: a livello competenziale non
c’è limite alla complessità rappresentabile. A livello prestazionale, tuttavia, gli esseri
umani sono incapaci di gestire situazioni che vanno oltre un limitato livello di
complessità.
Seguendo l’approccio della Pragmatica cognitiva, le situazioni a-d possano
essere descritte nei termini dell’incassamento dell’operatore di credenza condivisa
all’interno di una sequenza alternata di operatori di credenza semplici. L’ipotesi
sviluppata in questo lavoro è che tra le situazioni a-d esista un trend di difficoltà
crescente.
Metodologia sperimentale
Soggetti: hanno partecipato alla ricerca tre diversi campioni sperimentali: 30
bambini (7-11 anni), 30 adulti (21-27 anni) e 30 anziani (65-88 anni).
Materiale: il protocollo sperimentale si compone di otto storie, ognuna di otto
scenette disegnate. Le storie narrano di eventi quotidiani e sono ambientate in contesti
familiari. Per ogni storia K stata ideata una serie di domande volte ad accertare la
comprensione, da parte del soggetto sperimentale, degli stati mentali dei protagonisti
delle vicende narrate.
Il numero complessivo di domande poste ad ogni soggetto è di 32.
Procedura: ai soggetti veniva letta la consegna. Successivamente si chiedeva al
soggetto se pensava di aver compreso la vicenda o se voleva rivederla. Quindi si
passava alle domande previste dal protocollo. L’ordine di somministrazione delle otto
storie è stato randomizzato. Le risposte dei soggetti sono state audioregistrate e
successivamente trascritte. La valutazione delle risposte è stata data indipendentemente
da due sperimentatori all’oscuro dell’ipotesi di lavoro.
Risultati e discussione
I risultati confermano l’ipotesi di lavoro. Esiste un trend di difficoltà crescente
tra le situazioni a-d precedentemente descritte (p< .01). Il risultato conferma come la
teoria della pragmatica cognitiva possa fare delle previsioni sul livello di complessità di
un inganno, determinando tale complessità in funzione dell’incassamento dell’operatore
di credenza condivisa all’interno di una sequenza alternata di operatori di credenza
semplici.
Riferimenti bibliografici
Adenzato M. e Ardito R.B. 1999. The role of theory of mind and deontic reasoning in
the evolution of deception. Proceedings of the XXI Conference of the
Cognitive Science Society.
Airenti G., Bara B.G. e Colombetti M. 1993. Conversation and behavior games in the
pragmatics of dialogue. Cognitive Science, 17, 2, 197-256.
222
POSTER - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
INTEGRAZIONE AUDIOVISIVA E CONTESTO
COMUNICATIVO: EFFETTO MCGURK NELLA
COMPRENSIONE DEL DISCORSO
Silvana Contento{xe "Contento S."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Premessa
Come noto, l’effetto McGurk (fenomeno di fusione visivo-uditiva sincronica e
conflittuale), è stato testato in recenti esperimenti di laboratorio (Dekle, Fowler,
Funnell, 1992; Green, Gerdman, 1995; Walker, Bruce, ÒMalley, 1996). Questi lavori
mostrano che le informazioni visive integrano contestualmente quelle provenienti da
fonti acustiche indicando che la percezione dei suoni del parlato dipende da un insieme
complesso di indici anche non verbali.
In quale misura però, in condizioni naturali di ascolto, comprensione e ricordo
di un messaggio variano in funzione delle componenti non verbali espresse dai locutori?
L’ipotesi è che elaboriamo dei significati sulla base di rappresentazioni complesse che
ci formiamo a partire dal contenuto verbale del discorso, ma anche dall’incidenza di un
insieme di indici non verbali che accompagnano il parlato.
Materiali
Abbiamo scelto, da un dibattito televisivo sulla situazione algerina, una
sequenza di 4 minuti e 30 secondi (Testo O), che rappresentava il momento più intenso
del conflitto tra due interlocutori B (rappresentante di un movimento non governativo
algerino) e L (giornalista americano rappresentante dell’Associated Press in Italia). Il
dibattito era condotto da S (giornalista italiano). Sono stati contati i tempi dei primi
piani (B:77 sec., L:22 sec.,S:13 sec.) e dei piani americani (B:27 sec.; L:10 sec.; S:
5sec.). L’analisi testuale del dibattito ha evidenziato 8 fasi tematiche o sottodiscorsi
(<1/>5 turni brevi) dalle quali sono state estratte 21 brevi citazioni corrispondenti a turni
di parola dei tre interlocutori.
Il filmato è stato importato su Pentium 200 con Targa 1000 True Vision,
digitalizzato e rimontato utilizzando i programmi Photo Shop et Adobe Première.
Abbiamo così prodotto un testo modificato6 (Testo M) in cui parte dei primi piani dei tre
locutori è stato sostituito con fotogrammi “neutri” della medesima trasmissione (primi
piani di spettatori, campi medi, panoramiche, ecc) conservando però, come in Testo O,
per ogni turno di parola corrispondente ad ogni singola citazione, il primo piano del
locutore per un tempo inferiore a 5 secondi. Nelle due versioni del testo l’audio è stato
mantenuto inalterato.
Soggetti e compito
Soggetti: due gruppi di 28 e 35 studenti dell’Università di Bologna. Al primo
gruppo (CE) è stato mostrato il filmato originale (Testo O). Al secondo gruppo (BO) è
stato mostrato il filmato manipolato (Testo M).
6
Il montaggio del filmato è stato effettuato da Mirko Ferrari
POSTER - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
223
Compito: subito dopo la visione del filmato è stato chiesto ai soggetti di
indicare, su scala visuo-analogica, quanto ricordassero di aver udito ognuna delle 21
citazioni.
Risultati e discussione
Nell’insieme i due gruppi CE e BO non hanno mostrato differenze significative
nella quantità di ricordo delle citazioni, anche se coloro che hanno visto il Testo 0
(gruppo CE) hanno mostrato una prestazione superiore. Una analisi più attenta al
rapporto specifico dei contenuti verbali e visivi dei turni di parola mostra invece
differenze significative rispetto a particolari citazioni:
Frasi 7-9: Audio: S chiede a L di spiegare perché la stampa americana
considera l’opposizione algerina non democratica. Video: la telecamera riprende L che
commenta non verbalmente la domanda con atteggiamento di disapprovazione.
L’analisi delle differenze tra CE e BO è risultata significativa: F(1,60) = 6.46; p <.01.
L’interazione per le 4 variabili è significativa: F(3,180) = 3,79; p <.01.
Frasi 16-20: Audio: B accusa la stampa internazionale di disinteresse sulla
questione algerina. Video: L si mostra irritato e commenta con lo sguardo, i gesti, la
cinesica del volto quanto dice l’interlocutore. Anche in questo caso la differenza tra BO
e CE è significativa: F(1,59) = 7.41; p <.008.
In entrambi i casi il contenuto verbale non è illustrato da immagini che
riprendono lo stesso locutore. Al contrario il filmato presenta un contenuto visivo che si
dissocia da quanto elaborato linguisticamente. Colui che è ripreso esprime non
verbalmente dei contenuti metacomunicativi su quanto lo spettatore sta ascoltando. Il
ricordo delle citazioni aumenta quindi in funzione dell’interazione delle due fonti del
messaggio come recentemente confermato (Patterson, 1995) circa la qualità dei processi
percettivi del non verbale in una prospettiva funzionale.
Considerazioni conclusive
Le discrepanze cross-modali nell’integrazione dell’informazione verbale
modificano l’elaborazione dei contenuti del discorso. I soggetti colgono la mediazione
cognitiva che i locutori operano nella comunicazione del contenuto ideativo e delle
emozioni (Arndt, Janney, 1991) e nella negoziazione dell’attività interpersonale. Gli
aspetti non verbali, prosodici, cinesici e paralinguistici partecipano e integrano l’attività
verbale (Ford, Fox, Thompson, 1996) in una ottica multimodale della comunicazione.
Ciò apre interessanti prospettive nell’ambito della ricerca sia sulla comprensione sia
sulla produzione del linguaggio in situazioni naturali seppure controllate.
Riferimenti bibliografici
Arndt H., Janney R.W.(1991) Verbal, prosodic and kinesic emotive contrasts on speech.
Journal of Pragmatics 15(6): 521-549.
Dekle D., J., Fowler C.A., Funnell M.G. (1992) Audiovisual integration in perception of
real words, Perception and Psychophysics, 51(4), 355-362.
Ford C.E., Fox. B. A., Thompson S.A. (1996) Practices in the Construction of Turns:
The “TCU” Revisited. Pragmatics 6, 3: 427-454.
224
POSTER - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
Green, K., Gerdman, A (1995). Cross-modal discrepancies in coarticulation and the
integration of speech information. Journal of Experimental Psychology:
Human Perception and Performance, vol 21(6), 1409-1426.
Patterson M. L. (1995) A parallel process model of non verbal communication. Journal
of Nonverbal Behavior 19(1): 3-29.
Walker S:, Bruce V., ÒMalley C. (1995). Facial identity and facial speech processing:
familiar faces and voices in the McGurk effect. Perception and Psychophysics,
57 (8), 1124-1133.
PERCORSI INFERENZIALI PER LA COMPRENSIONE
DELL’INTENZIONE COMUNICATIVA: UNO STUDIO SUL
TRAUMA CRANICO
Ilaria Cutica{xe "Cutica I."}, Maurizio Tirassa{xe "Tirassa M."}
Centro di Scienza Cognitiva, Università e Politecnico di Torino
Introduzione
Scopo del lavoro è indagare il processo di comprensione dell’intenzione
comunicativa di un attore. Secondo la teoria della pragmatica cognitiva di Airenti, Bara
e Colombetti (1993), tale processo si svolge attraverso due fasi consecutive:
1. Riconoscimento dell’atto espressivo. Il partner analizza l’atto comunicativo
nei termini del suo contenuto proposizionale, ossia del significato convenzionalmente
associato ad esso;
2. Riconoscimento del significato del parlante. Il partner ricostruisce le
intenzioni comunicative dell’attore a partire dall’atto espressivo tramite una serie di
inferenze che si svolgono nello spazio di conoscenza condivisa.
Per ciascuna fase esiste un insieme specifico di regole inferenziali di livello
base che definisce le inferenze dipendenti dal dominio che possono essere compiute, e
che si attiva per default. Le inferenze per default possono essere bloccate qualora le
conclusioni raggiunte risultino incompatibili con il significato espresso, o con la
conoscenza condivisa, o con il gioco comportamentale in atto. In questi casi interviene
un metalivello inferenziale, che respinge la conclusione incongruente raggiunta e attiva
la ricerca di una nuova conclusione. Il processo di comprensione che segue la via
inferenziale di default viene detto percorso standard; quello in cui deve invece
intervenire il metalivello inferenziale, viene detto percorso non standard.
Una popolazione neurologica, i pazienti con esito di trauma cranio-encefalico,
è particolarmente adatta allo studio di fenomeni pragmatici: ad un’abilità linguistica
buona si sovrappone un’importante difficoltà a utilizzare efficacemente il linguaggio
(Groher, 1983). Tali pazienti hanno inoltre, per i deficit del pensiero astratto, difficoltà
nei compiti che richiedono di assemblare informazioni provenienti da fonti differenti per
trarne una conclusione unitaria. In virtù di tali caratteristiche ci è parso utile indagare in
questo tipo di pazienti le differenze tra la comprensione di atti comunicativi standard e
non standard. Abbiamo scelto di indagare non la comunicazione linguistica ma quella
POSTER - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
225
extra-linguistica (Bara e Tirassa, in corso di stampa): escludere il linguaggio dal
protocollo permette di testare la competenza comunicativa anche in quei pazienti che
presentavano deficit di linguaggio (forme, anche lievi, di afasia). In questo modo è stato
possibile lavorare sul deficit pragmatico.
Metodo
Il protocollo era composto da 16 scenette videoregistrate che mostravano due o
più attori intrattenere brevi interazioni comunicative; sono state create tre scenette per
ciascun tipo di atto pragmatico indagato (atti standard semplici, atti standard complessi,
inganni, ironie). Al temine di ciascuna scena, lo sperimentatore mostrava al paziente una
grande fotografia (formato 21 x 29.5) che rappresentava l’ultimo fotogramma della
scena appena vista. A uno dei personaggi della fotografia era stata apposta una nuvoletta
bianca come quelle dei fumetti, che ne rappresentava il pensiero; compito dei pazienti
era attribuire a quel personaggio l’intenzione comunicativa sottostante il comportamento
visto nella scena. I pazienti rispondevano scegliendo l’intenzione comunicativa tra
quattro alternative presentate dallo sperimentatore: le alternative erano quattro piccole
fotografie che mostravano ciascuna un’intenzione comunicativa agita dal personaggio in
questione. I pazienti dovevano sceglierne una e collocarla nella nuvoletta bianca
all’interno della foto grande.
Soggetti
Sono stati testati individualmente 30 pazienti con esito di trauma cranioencefalico -21 maschi e 9 femmine- di età compresa tra i 17 e i 40 anni, ricoverati
presso un centro riabilitativo, in un momento prossimo alla dimissione. È stato
sottoposto al test anche un gruppo di controllo comparabile per età, sesso e scolarità.
Risultati
I soggetti sperimentali ottengono una percentuale di risposte corrette pari al
92% negli atti standard semplici e al 90% ai complessi, non evidenziando alcuna
differenza statisticamente significativa rispetto al gruppo di controllo. La loro
prestazione decade invece nella comunicazione non standard, in cui ottengono il 71% di
risposte corrette per gli inganni e il 44% per le ironie. In entrambi i casi la differenza
rispetto ai controlli è altamente significativa (p(.0001 al Mann-Whitney test).
All’interno del percorso standard, si prevedeva che gli atti comunicativi semplici
fossero più facili dei complessi; all’interno della comunicazione non standard, si
prevedeva che l’inganno fosse più facile dell’ironia. Infatti l’ironia è un fenomeno
pragmatico strettamente dipendente dal linguaggio: parte del suo significato viene
veicolato dal mezzo linguistico stesso (si pensi all’intonazione, o alla scelta delle
sfumature delle parole, tutte finezze scarsamente presenti nel mezzo extra-linguistico).
Il trend previsto era dunque il seguente: atti comunicativi semplici ( atti comunicativi
complessi (inganni, ironia). Questa ipotesi è stata confermata attraverso il test L-Page
(p(.01). Non è stato invece evidenziato alcun trend nella prestazione dei soggetti di
controllo che, pur seguendo lo stesso andamento dei pazienti (considerando i valori
espressi in percentuale), presenta una prestazione più omogenea nelle diverse prove.
Conclusioni
226
POSTER - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
I risultati, confermando la differenza tra comunicazione standard e non
standard, portano evidenza a favore dell’ipotesi che il gradiente di difficoltà tra i due tipi
di comunicazione non sia graduale, ma dicotomico. I pazienti non trovano difficoltà
nell’applicare regole inferenziali di default, per complesse che siano; tuttavia la
prestazione deficitaria riscontrata nella comunicazione non standard conferma la
necessità dell’intervento di un livello inferenziale qualitativamente diverso. I pazienti
non si dimostrano in grado di gestire le differenze che possono emergere tra
informazioni contrastati; ne è prova la loro prestazione alle prove di ironia. A fronte del
44% di risposte corrette, abbiamo ottenuto un 40% di risposte letterali, ossia che
indicavano l’interpretazione ‘letteralè del gesto comunicativo, a dispetto del contesto
ironico (gli errori casuali, per non comprensione della scena, erano limitati al restante
16%). I pazienti cioè si fermavano alla comprensione dell’atto espressivo (prima fase
del processo di comprensione), senza compiere le integrazioni successive.
Riferimenti bibliografici
Airenti G., Bara B. G., Colombetti M., (1993): Conversation and behavior games in the
pragmatics of dialogue. Cognitive Science, 17: 197-256.
Bara B. G., Tirassa M., (in corso di stampa): Communicative meaning in linguistic and
extra-linguistic communication.
Groher M. (1983): Communication disorders. In Rosenthal M. et al., Rehabilitation of
the head injured adult. FA Davis Company, Philadelphia.
LA PRAGMATICA METACOGNITIVA DEL SELF TALK
Giuseppe Mininni{xe "Mininni G."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bari
Com’è noto, l’universo dei fenomeni di comunicazione è così sconfinato da
richiedere molteplici ottiche di analisi. Un settore in cui il punto di vista della psicologia
è senz’altro decisivo è etichettato come “comunicazione intrapersonale”, che però ha
uno statuto incerto nella letteratura (Aitken e Shedletsky 1995), giacché gli si può
riconoscere sia il carattere dell’autoevidenza e della massima distribuzione (McQuail
1994), sia il carattere della paradossalità e del vuoto concettuale (Cunningham 1989;
1992). Si tratta di un’area di ricerca minata dal paradosso, perché da una parte è difficile
negare l’esperienza di un “dialogo interiore”, tant’è che sarebbe persino possibile
calcolarne la consistenza (Korba 1990); dall’altra, sembra controintuitivo immaginare
un processo di comunicazione che non coinvolga (almeno) due esteriorità. Invero una
tale incertezza non è affatto sorprendente, in quanto le molteplici componenti
semantiche evocate dall’espressione suddetta – Sé, mente, significato, comunicazione,
coscienza – sono già di per sé complesse e controverse. Pertanto, una psicologia della
comunicazione (Anolli e Ciceri 1996) ha il compito primario di elaborare modelli
esplicativi di tutto ciò che si può profilare come “interazione semiotica tra Sé e Sé”. Ove
ci si impegni a estendere il paradigma della psicologia del linguaggio in modo da
renderla in sintonia con l’epistemologia postmoderna, può tornare utile, come
POSTER - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
227
suggerisce Forrester (1996: 16), inquadrare lo studio dei rapporti tra pensiero e
linguaggio in termini di “Self-communication”.
Verrà proposta una rassegna delle principali posizioni recentemente emerse nel
dibattito sulla “comunicazione intrapersonale”, che verrà documentato anche mediante
l’analisi dei contributi inviati a una Newsgroup su tale argomento (nel settembre 1996).
L’obiettivo di tale rassegna è mostrare come l’adozione di molteplici etichette per
identificare il fenomeno –“inner speech”, “inner dialogue”, “private speech”, “Self
talk”—comporta l’adesione a diverse prospettive teoriche e, di conseguenza, una
differente valorizzazione dei processi verificabili a tale livello di comunicazione, che si
apre a molteplici modalità “applicative” (Goss 1995).
Nel paradigma di psicologia discorsiva qui adottato, il Self Talk può rendere
operativo un piano plurisfaccettato di costruzione dell’intenzionalità. La natura
dialogica del parlarsi evidenzia che l’intenzionalità propria del linguaggio è
primariamente di ordine collettivo (Searle 1991). Evidenziare che, per avere il valore
psicologico di risorsa per il sé, il linguaggio interiore deve strutturarsi
conversazionalmente (o dialogicamente) significa immettere le poste in gioco dei
contratti di comunicazione nel cuore intenzionale dell’uomo, là dove si fabbricano
memorie e progetti, ogniqualvolta cioè si elaborano interpretazioni del mondo (fisico
e/o sociale). La contrattazione intrapersonale svolge diverse funzioni, come dimostra il
diverso uso che della “stream of consciousness” si è fatto sul piano letterario e
paraletterario (cfr. Mininni 1992).
La portata intenzionale dei processi della comunicazione intrapersonale trapela
allorché alcuni suoi segmenti si materializzano in una catena sonora, sfuggendo al
controllo inibitorio della coscienza. Infatti, in certe situazioni di enunciazione a forte
salienza emotiva, il Self talk può esteriorizzarsi e rivelare le diverse funzioni dei
processi di comunicazione intrapersonale che danno corpo alle molteplici voci che ci
abitano normalmente e che esibiscono una loro radicale differenza rispetto al progetto di
interazione socio-comunicativa in cui siamo impegnati.
L’analisi verte su alcuni enunciati autodiretti prodotti dagli studenti nella
situazione di esame (orale), che sono stati da me annotati nell’arco dei 18 appelli di
Psicolinguistica e Psicologia delle comunicazioni sociali degli ultimi due anni
accademici. Il corpus di tali “capta” discorsivi e situati è composto da 45 segmenti di
risposte elaborate dagli studenti. Naturalmente, alla fine dell’esame, ho segnalato allo
studente la mia annotazione e ho ottenuto il suo consenso allo studio del fenomeno, di
cui egli/ella era stato/a, senza saperlo, soggetto partecipante.
Verrà presentata un’analisi funzionale di tali enunciati tesa a rintracciare
l’ordito mobile dei posizionamenti con cui i parlanti costruiscono il loro Sé personale e
ne controllano l’accettabilità mediante un’ininterrotta attività metacognitiva.
Riferimenti bibliografici
Aitken, J.; Shedletsky, L.J. (eds.) (1995). Intrapersonal Communication Processes,
Westland (Michigan): Speech Communication Association and Midnight Oil
Multimedia, Inc.
Anolli, L.; Ciceri, R. (a cura di) (1996). Elementi di psicologia della comunicazione ,
Milano: LED
POSTER - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
228
Cunningham, S.B. (1992). “Intrapersonal communication. A review and a critique”. In:
S.A. Deetz (ed.), Communication Yearbook 15, 597 – 620.Newbury Park:
Sage.
Forrester, M.A. (1996). Psychology of language. A critical introduction, London: Sage.
Goss, B. (1995). The psychology of human communication, Prospect Height (Illinois):
Waveland Press.
Korba, R.J. (1990). “The rate of inner speech”, Perceptual and motor skills, 71 (3)Pt 1.
1043 – 1052.
McQuail, D. (1994). Mass Communication Theory : An introduction, London: Sage (tr.
it. di G. Mazzoleni, Sociologia dei media, Bologna: Il Mulino).
Mininni, G. (1992). Diatesti. Napoli: Liguori.
Vocate, D.R. (ed.) (1994). Intrapersonal communication. Different voices, different
minds, Hillsdale: Lawrence Erlbaum Associates.
L’INTERAZIONE COMUNICATIVA TRA INFERMIERE E
PAZIENTE
Giulia Savarese{xe "Savarese G."}
Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Salerno
Presentazione
Le relazioni sociali sono sempre indispensabili e complicate per i molteplici
aspetti relazionali e comunicativi che le compenetrano. Una relazione particolare, di
aiuto, tra infermiere e paziente presenta molte problematiche inerenti tali aspetti,
complicate dall’instabilità emotiva che la malattia crea al paziente e dal ruolo “camice”
che l’infermiere deve istituzionalmente sostenere nella sua professione.
A questo proposito, anche in vista di una riforma del curriculum della scuola
per infermieri, si è condotto uno studio con allievi infermieri, tirocinanti ed infermieri
professionali. Attraverso un questionario con domande aperte e chiuse, ispirato ad
alcuni esercizi di valutazione di Carpineta (1992), si sono cercate di valutare le
componenti comunicative e interazionali della relazione tra paziente e l’infermiere, tra
paziente e tirocinanti e tra paziente ed allievi infermieri.
Scopi dello studio
Nel complesso, si vuole verificare se la pratica lavorativa ed il contatto
quotidiano con i pazienti ospedalizzati mutino l’immagine idealizzata che, in genere,
come attestato anche dalla letteratura esistente, gli allievi posseggono al momento di
iscriversi ai corsi di formazione per infermieri professionali. Un mutamento in negativo
significherebbe, tra l’altro, un insufficiente possesso, in fase formativa, di conoscenze e
tecniche sulla comunicazione-interazione con il paziente.
Metodo
Soggetti
I soggetti sono 69 così suddivisi:
POSTER - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
229
– un gruppo costituito da 14 allievi infermieri di età compresa tra i 19 ed i 36
anni di età, frequentanti il primo anno della scuola per infermiere professionale di Torre
Annunziata, in provincia di Napoli;
– lo stesso gruppo di allievi (ridotti nel numero a 11 unità per trasferimenti
vari) a cui è stato somministrato il test nuovamente dopo quattro mesi intensivi di
tirocinio pratico presso l’ospedale di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli;
– un gruppo di 55 infermieri professionali di età compresa tra i 28 e i 59 anni di
età operanti presso l’ospedale di Castellammare di Stabia.
Strumento
Lo strumento consiste in un questionario ispirato ad alcuni esercizi di
valutazione della comunicazione infermiere-paziente di Carpineta (1992). Le domande,
40 in totale, sono 32 di tipo chiuso ed 8 di tipo aperto, raggruppate per insiemi tematici.
Si è adottata, come strumento per l’esame del questionario, l’analisi delle
corrispondenze (AC), in grado di dare la migliore rappresentazione simultanea di un
insieme di variabili qualitative, ciascuna con più modalità.
Risultati
I risultati mostrano che l’attesa degli allievi di un paziente pulito, curato, di un
contesto sereno e di una comunicazione efficace sfuma anche solo dopo pochi mesi di
tirocinio. Gli infermieri, poi, appaiono addirittura demotivati e particolarmente negativi
nella valutazione della relazione con il paziente.
Ci siamo resi conto, così, che anche, e solo, quattro mesi di tirocinio pratico
bastano a far mutare quanto creduto, e forse sperato, prima di entrare a contatto diretto
con i malati. Il lavoro di tanti anni, poi, rende, ed è il caso degli infermieri professionali,
troppo esperti nella pratica clinica e poco nell’interazione umana. Infatti ciò che
maggiormente appare chiaro dall’analisi delle corrispondenze è proprio questa
opposizione tra allievo/uomo e paziente ed infermiere/tecnico e paziente. Vogliamo dire
in pratica che abbiamo notato come l’avere a che fare giorno dopo giorno con la
malattia renda gli infermieri poco inclini al dialogo con il paziente, poco attenti
all’umore o al linguaggio analogico del paziente, ma attentissimi agli sbalzi di
temperatura o al lavaggio che è prossimo a terminare.
Conclusioni
Auspicheremmo, in clima di riforma, un potenziamento delle problematiche
comunicative nell’iter didattico: i nuovi futuri infermieri dovrebbero poter essere istruiti
e comunque aggiornati costantemente con nozioni riguardanti: a) la programmazione
neurolinguistica, cioè il modo in cui strutturare delle domande sul modello terapeutico;
b) il metodo CCRT, “Core Conflict Relational Theme”, atto a modificare gli schemi
rigidi di relazione presenti in genere nelle patologie; c) la medicina patient centered,
cioè un completamento della funzione diagnostica, una integrazione del modello
biomedico, tradizionale, con una attenzione particolare ai sentimenti del paziente; d) la
pragmatica della comunicazione e cioè il modo in cui la comunicazione a tutti i livelli,
verbale, paraverbale e nonverbale, influenza il comportamento.
Riferimenti bibliografici
230
POSTER - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
Agostini A., Poletti P., Zanotti R. e Vian F. (1989), Perché si iscrivono alla scuola per
infermieri? Rivista dell’infermiere, 1, 28-37.
Bellelli G. e Iacono G. (1979), Lo psicologo e l’ospedale come processo organizzativo.
In: Cesa-Bianchi M. (a cura di), op. cit.
Capello C. e Fenoglio M. T. (1992), Perchè mai mi curo di te. Rosenberg & Sellier,
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Carpineta S. (1992), La comunicazione infermiere-paziente. Nis, Roma, 1993.
Ceroni C. et al. (1989), Rapportarsi ai pazienti: valenza e significato delle abilità
sociali del nursing. Rivista dell’infermiere, 1, 6-11.
Di Giulio P. (1987), I problemi dei pazienti: percezione da parte degli infermieri e dei
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Mosa E. A. e Vegni E. (1997), La comunicazione e la relazione fra medico e paziente e
la medicina patient centered. “Ricerche di Psicologia”, 4, 441-445.
PROBLEMI DELLA DECODIFICAZIONE DEL MESSAGGIO
PUBBLICITARIO
Giovanni Sprini{xe "Sprini G."}, Stefania Grifò{xe "Grifò S."}
Dipartimento di psicologia, Università di Palermo
Introduzione
La consapevolezza della complessità ed ambiguità che caratterizza spesso il
linguaggio pubblicitario ed il grado con cui può dare adito ad incongruenze tra
significati originari di un messaggio e quelli attribuitigli da chi lo riceve rappresentano
una continua sfida per la ricerca volta a verificare l’efficacia persuasiva della pubblicità.
La presente ricerca assume come base la teoria di Quillian (1969) sui processi di
elaborazione semantica per diffusione di attivazione che si basa su un modello a rete di
memoria i cui nodi e le cui connessioni rappresentano rispettivamente i concetti e le loro
relazioni. Assumendo questi presupposti teorici e con l’ausilio del paradigma di
decisione lessicale (vedi Meyer e Schvaneveldt 1971) la ricerca si propone di verificare
la comprensibilità dei contenuti linguistici di alcuni spot pubblicitari selezionati per
l’ambiguità e complessità dei loro testi. La variabile dipendente è qui rappresentata
dall’andamento dei tempi di reazione al compito che, sulla base dell’assunto ipotizzato
da Quillian, saranno brevi in caso di associabilità semantica tra le informazioni in
ingresso e lunghi nel caso contrario.
Metodologia
La ricerca si articola in tre fasi:
• somministrazione di un filmato montato ad hoc contenente gli spot oggetto di
studio;
POSTER - LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE
231
• somministrazione del compito di decisione lessicale via computer con
rilevazione dei tempi di reazione delle risposte;
• somministrazione di un questionario aperto formulato allo scopo di ottenere
informazioni supplementari sugli spot.
Ha avuto come destinatario un gruppo di 80 matricole (47 F, 33 M) dell’anno
accademico 1997/98 estratte dalla popolazione dei corsi di laurea in Lettere ed in
Economia che abbiamo assunto come ragionevolmente rappresentativo dell’universo.
Analisi ed interpretazione dei dati
È stata effettuata un’analisi multivariata della varianza a cinque fattori, due
fattori between (sesso, facoltà e condizione) e due fattori within (prime e associabilità).
Sebbene vi siano dati significativi in quanto ad attivazione semantica dei contenuti degli
spot, questi non sembrano attribuibili alle parole chiave oggetto di studio.
Conclusioni
Questa attivazione suffraga la comprensibilità dei contenuti dei testi studiati,
tuttavia non si può attribuire una funzione facilitante il processo di elaborazione di
significato alle parole chiave usate dagli autori dei testi. Resta aperto l’interrogativo su
quale possa essere stato il fattore scatenante l’attivazione riscontrata in tutte le
campagne analizzate. Su questo si intende continuare ad indagare, e più in generale si
nutrono buone speranze sulla applicabilità di questa metodologia che con successivi
approfondimenti ed adeguamenti potrebbe costituire un nuovo canale di comunicazione
tra due mondi analogamente affascinanti e ricchi di risorse: mondo pubblicitario e
mondo psicologico.
Riferimenti bibliografici
Meyer D. e Schvaneveldt R. (1971). Facilitation in recognizing pairs of words: evidence
of a dependence between retrieval operations. Journal of Experimental
Psychology, vol.90, 2, 227-284.
Quillian M.R. e Collins A.M. (1969). Retrieval time from semantic memory. Journal of
Verbal learning and Verbal behavior, 8, 240-248.
232
POSTER - MEMORIA E APPRENDIMENTO
MEMORIA E APPRENDIMENTO
INTERFERENZA E INIBIZIONE IN MEMORIA DI LAVORO
VISUO-SPAZIALE
Cesare Cornoldi{xe "Cornoldi C."}, Rossana De Beni{xe "De Beni R."}, Paola
Palladino{xe "Palladino P."}, Tomaso Vecchi{xe "Vecchi T."}
Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
Numerose ricerche hanno recentemente messo in luce l’importanza di
analizzare la struttura della memoria di lavoro non solo sulla base di dissociazioni legate
al tipo di informazioni che vengono elaborate (e.g., visive vs. spaziali vs. verbali) ma
anche in relazione al tipo di elaborazione che viene richiesta dal compito. In particolare,
la distinzione tra processi passivi di ricordo e processi attivi di elaborazione sembra
essere particolarmente rilevante per interpretare le differenze individuali nelle abilità
visuo-spaziali e si è rivelata adeguata a spiegare il decadimento cognitivo collegato
all’invecchiamento (Vecchi & Cornoldi, 1999): i soggetti anziani presentano un
decadimento significativamente più marcato nei processi attivi di elaborazione in
confronto ai processi passivi di ricordo che rimangono pressoché inalterati al crescere
dell’età. I meccanismi inibitori, sottostanti la capacità di inibire le informazioni che non
sono rilevanti per lo svolgimento del compito, sono una componente essenziale dei
processi attivi di elaborazione ed il loro studio permette di specificare in maggior
dettaglio struttura e funzioni della memoria di lavoro. Inoltre, è stato ripetutamente
ipotizzato (e.g., Hasher & Zacks, 1988) che un deficit dei meccanismi inibitori sia alla
base del calo cognitivo legato all’invecchiamento.
In questo studio abbiamo focalizzato la nostra attenzione sullo studio dei
processi visuo-spaziali e sulla capacità di selezionare le informazioni rilevanti per lo
svolgimento del compito da parte di soggetti di 4 fasce di età (giovani, giovani anziani,
anziani, vecchi anziani). Per studiare in maggior dettaglio l’utilizzo del meccanismi
inibitori abbiamo utilizzato una metodologia sperimentale che permetteva di confrontare
l’inibizione di stimoli irrilevanti nella fase di codifica, durante il mantenimento, o al
momento del ricordo delle informazioni. Ai soggetti venivano mostrate delle matrici
bidimensionali (4x4 o 5x5) al cui interno vi erano un numero variabile di posizioni
spaziali contrassegnate da cerchi colorati rossi e verdi. Stimoli rossi e verdi potevano
servire alternativamente da posizioni da ricordare, targets, o da stimoli irrilevanti da
inibire. Le istruzioni che permettevano la selezione del materiale venivano fornite (1)
durante la presentazione del materiale, oppure (2) durante la fase di mantenimento - 10
secondi - che precedeva il ricordo. Inoltre al momento del ricordo, ai soggetti poteva
essere richiesto di indicare le posizioni targets su matrici bianche oppure in cui erano
evidenziate delle posizioni spaziali dello stesso colore di cui era stata precedentemente
richiesta l’inibizione.
I risultati hanno mostrato come la possibilità di inibire le informazioni al
momento della codifica permetta di migliorare significativamente la prestazione,
rispetto al caso in cui la selezione avviene durante la fase di mantenimento. Inoltre la
POSTER - MEMORIA E APPRENDIMENTO
233
presentazione di stimoli irrilevanti al momento del ricordo non ha determinato effetti di
interferenza ma, al contrario, soprattutto nel caso dei pattern più complessi, ha
determinato un miglioramento nella prestazione, fornendo un utile cue per il ricordo. Gli
anziani hanno mostrato un calo costante al crescere dell’età e l’analisi della loro
prestazione è stata particolarmente interessante nel caso delle intrusioni, ovvero degli
errori che vengono commessi dai soggetti ricordando stimoli che invece dovevano
essere inibiti. Il numero di intrusioni cresceva significativamente con l’età. Inoltre, i
soggetti più giovani mostrano la presenza di intrusioni solo nel caso in cui la selezione
degli stimoli era avvenuta durante il mantenimento mentre gli anziani mostrano
progressivamente un numero maggiore di intrusioni anche nel caso in cui la selezione
delle informazioni era avvenuta al momento della codifica.
I processi di selezione ed inibizione delle informazioni sono quindi dipendenti
dal momento in cui vengono messi in atto: in particolare, sembra che si possa parlare di
processi di inibizione tra loro almeno parzialmente diversi nel caso in cui essi debbano
essere utilizzati al momento della codifica delle informazioni (fase di generazione della
rappresentazione mentale) o durante il mantenimento (processo attivo di trasformazione
e manipolazione di una rappresentazione già generata). I giovani sembrano più capaci di
selezionare gli stimoli correttamente e quindi di generare la rappresentazione mentale
più adatta allo svolgimento del compito.
Questi risultati permettono di chiarire la natura della riduzione di efficienza dei
meccanismi inibitori al crescere dell’età e di studiare le diverse caratteristiche dei
processi di selezione delle informazioni. Inoltre, il confronto con i risultati di ricerche
precedenti che hanno studiato i meccanismi di inibizione legati alla presentazione di
materiale verbale (De Beni, Palladino, Pazzaglia & Cornoldi, 1998) permette di trarre
inferenze più significative per la comprensione dei processi attivi di elaborazione che
caratterizzano il funzionamento della memoria di lavoro.
Riferimenti bibliografici
De Beni, R., Palladino, P., Pazzaglia, P., & Cornoldi, C. (1998). Increases in intrusion
errors and working memory deficit of poor comprehenders. Quarterly Journal
of Experimental Psychology, 51A, 305-320.
Hasher, L., & Zacks, R.T. (1988). Working memory, comprehension, and aging: A
review and a new view. In G.H. Bower (Ed.), The psychology of learning and
motivation, vol. 22. San Diego, CA, Academic Press.
Vecchi, T., & Cornoldi, C. (1999). Passive storage and active manipulation in visuospatial working memory: Further evidence from the study of age differences.
European Journal of Cognitive Psychology, 11.
I FALSI RICORDI: UNO STUDIO SPERIMENTALE
Andrea Gaggioli{xe "Gaggioli A."}
Fraunhofer Institut für Arbeitswirtschaft und Organization
Introduzione
234
POSTER - MEMORIA E APPRENDIMENTO
I falsi ricordi sono memorie di eventi non realmente accaduti. Un numero
consistente di ricerche effettuate negli ultimi tre decenni sull’argomento ha messo in
luce che le persone possono riferire di aver percepito informazioni che non sono state
effettivamente percepite (Norman e Schacter, 1997). Sebbene siano state anche
sviluppate delle tecniche per indurre i testimoni oculari a creare ricordi di esperienze
mai vissute (Loftus, 1979), il meccanismo cognitivo responsabile di tali errori di
memoria è ancora largamente controverso. Nel presente studio è stato proposto che i
falsi ricordi, rappresentati nel caso specifico da falsi riconoscimenti di informazioni
presentate nella modalità visiva, possono essere indotti aumentando la difficoltà del
processo metamnestico di Reality Monitoring (Johnson e Raye, 1981), cioè della
funzione di memoria che consente di ricostruire la fonte di un ricordo.
In secondo luogo, si è cercato di verificare se i falsi riconoscimenti erano più
frequentemente associati ad una generica sensazione di familiarità o ad una esperienza
di consapevolezza di tipo episodico, facendo riferimento alla corrispondente distinzione
proposta da Tulving (1985) tra esperienza di knowing ed esperienza di remembering nel
recupero della traccia mnestica.
Metodo
L’esperimento principale ha coinvolto un campione di trenta studenti (età
media 22 anni). Ai soggetti è stata presentata sequenzialmente, sullo schermo di un
computer, una lista composta per metà da nomi e per metà da fotografie, in ordine
randomizzato. La consegna era di apprendere le parole creando un’immagine mentale
visiva dell’oggetto da esse designato e memorizzare le fotografie ripetendo a voce alta il
nome di ciò che rappresentavano. Dopo un intervallo di quindici minuti, tutti i soggetti
sono stati sottoposti ad un test di riconoscimento su una nuova lista. Essa era composta
per un terzo da parole e fotografie già presentate nella lista-studio e per due terzi da
distrattori, cioè da parole e fotografie non presentate nella lista-studio. I distrattori erano
suddivisi in due tipi: confondenti e non confondenti. I distrattori confondenti avevano lo
scopo di aumentare la difficoltà del Reality Monitoring ed erano costituiti da parole che
nella lista-studio erano state presentate come fotografie e fotografie che nella lista studio
erano state presentate come parole. I distrattori non confondenti fungevano da
condizione di controllo ed erano costituiti da parole e fotografie completamente inedite.
Il compito assegnato ai soggetti era quello di riconoscere gli items precedentemente
presentati e specificare, per ogni item riconosciuto, se di esso avevano un ricordo di tipo
episodico o una generica sensazione di familiarità. La previsione formulata in base
all´ipotesi sperimentale era che i distrattori confondenti, aumentando la difficoltà del
Reality Monitoring, avrebbero indotto un maggior numero di falsi riconoscimenti
rispetto ai distrattori non confondenti. Tutti i confronti statistici sono stati effettuati
applicando il test t di Student.
Risultati
Il numero di falsi riconoscimenti determinati dai distrattori confondenti è
risultato essere significativamente superiore al numero di falsi riconoscimenti dovuti ai
distrattori non confondenti (T=3.326; p<0.005). L’analisi dei responsi (sensazione di
familiarità/ricordo episodico) nei falsi riconoscimenti non ha messo in luce una
differenza significativa. Lo stesso confronto effettuato nei riconoscimenti corretti è
POSTER - MEMORIA E APPRENDIMENTO
235
risultato invece significativo, con una netta prevalenza dei responsi dei ricordi di tipo
episodico sulle sensazioni di familiarità (T=15.07 p<0.01).
Conclusioni
Conformemente a quanto previsto dall’ipotesi sperimentale, è stato trovato che
i distrattori confondenti hanno determinato il maggior numero di falsi riconoscimenti,
confermando che ad un incremento della difficoltà del processo metamnestico di Reality
Monitoring corrisponde un incremento della probabilità di creazione di false memorie.
L’analisi dei responsi ha evidenziato inoltre che i falsi riconoscimenti registrati non
erano prevalentemente associati a sensazioni di familiarità. Questo significa che i falsi
riconoscimenti possono essere soggettivamente esperiti come veri e propri ricordi
episodici, vale a dire come vivide memorie di percezioni avvenute in un contesto
spaziale e temporale definito. I risultati esposti suggeriscono la possibilità di ulteriori
approfondimenti del ruolo svolto dalla funzione metamnestica di Reality Monitoring
nella creazione di false memorie. In particolare, potrebbe essere interessante verificare
quali altre condizioni di codifica e di recupero della traccia mnestica (eventualmente
estendendo la sperimentazione dalla memoria di riconoscimento ai processi di
rievocazione) aumentano la vulnerabilità del Reality Monitoring ad attuare confusioni di
sorgente del ricordo e favoriscono la formazione di memorie illusorie.
Riferimenti bibliografici
Johnson, M. K., Raye, C.L. (1981). Reality Monitoring, in Psychological Review, 88
(1), pp. 67-85.
Loftus, E.F. (1979). Eyewitness testimony. Cambridge, Mass., Harvard University Press.
Norman, K., Schacter, D.L. (1997). False recognitions in younger and old adults:
exploring the characteristics of illusory memories, in Memory and Cognition,
25, pp. 838-848.
Tulving, E. (1985). Memory and consciousness, in Canadian Psychologist, 26, pp. 1-12.
ORGANIZZAZIONE E RICORDO DI EVENTI
AUTOBIOGRAFICI
Miranda Occhionero{xe "Occhionero M."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Introduzione
Le ricerche sulla memoria autobiografica condotte negli ultimi decenni,
utilizzando il paradigma dell’everyday memory, ovvero un criterio ecologico di
acquisizione di dati appartenenti all’esperienza quotidiana dei soggetti, hanno permesso
di far luce su alcune importanti questioni riguardanti la natura, l’organizzazione e i
processi di rievocazione degli eventi che costituiscono l’esperienza personale di
ciascuno.
Un primo dato emerso è che un evento è costituito da un insieme complesso di
informazioni con un differente grado di accessibilità. In letteratura è ormai classica la
236
POSTER - MEMORIA E APPRENDIMENTO
suddivisione di un evento secondo informazioni che si organizzano essenzialmente
attorno ai quattro nuclei tematici del “dove”, “quando”, “cosa”, “chi”. Diversi autori
hanno inoltre sottolineato l’importanza di queste dimensioni, sia in relazione ai
differenti contenuti da esse specificati che in funzione degli schemi generali di
conoscenze semantiche all’interno dei quali si organizzano.
L’ipotesi di questa ricerca è che il ricordo di un evento personalmente esperito
non possa essere inteso come una semplice ricerca che attiva tracce mnestiche dal
sistema episodico per consentire l’accesso ad una data informazione; la complessità
dell’elaborazione dell’informazione autobiografica chiama in causa sia processi operanti
all’interno del sistema episodico sia processi di natura inferenziale di tipo semantico
che, pur non consentendo l’accesso diretto all’informazione cercata, ne favoriscono
l’identificazione e il riconoscimento.
Per verificare questa ipotesi sono stati messi a confronto due tipi di eventi che
per le loro caratteristiche di struttura si prestavano bene a questo tipo di osservazione,
ovvero eventi autobiografici costituenti le routine quotidiane, e perciò ad elevato grado
di invarianza, ed eventi autobiografici inconsueti con caratteristiche di salienza ed
unicità.
A questo scopo sono stati condotti due studi. Primo studio. Si proponeva di
analizzare le caratteristiche generali degli eventi (Inconsueti/Routine) esaminando le
seguenti dimensioni: lunghezza dell’evento, frequenza dei differenti contenuti (attività,
personaggi, localizzazione spazio-temporale). Secondo studio. Si proponeva di
analizzare le caratteristiche del ricordo differito di un mese mediante due strategie di
cued recall, una che utilizzava un indizio specifico (cue episodico) e l’altra che
utilizzava un indizio costituito da una descrizione categoriale che descrivesse le
caratteristiche generali dell’evento (cue semantico).
Metodo
Hanno partecipato all’esperimento 12 soggetti, studenti universitari, di età
compresa tra i 22 e i 26 anni.
Primo Studio
Ciascun soggetto doveva compilare un diario quotidiano per 12 giorni
consecutivi trascrivendo 4 eventi occorsi durante la giornata, 2 inconsueti e 2 di routine,
per un totale di 48 eventi per soggetto. Alla fine della descrizione il soggetto doveva
indicare la categoria di appartenenza dell’evento fornendo una sorta di etichetta che
consentisse di collocare quello specifico evento all’interno di una classe più ampia che
lo potesse descrivere. Le categorie ottenute sono state classificate dallo sperimentatore
secondo tre livelli: livello basso (descrizioni che rimanevano molto ancorate all’evento e
che contenevano ancora informazioni specifiche - es. assistere ad uno spettacolo
teatrale); livello intermedio (descrizioni che corrispondevano ad eventi generali - es.
lezioni universitarie); livello alto (descrizioni categoriali molto generiche es. attività
ricreative). Per ciascun evento veniva alla fine richiesto di indicare la frequenza di
occorrenza di ogni contenuto (“che cosa”, “chi”, “dove”, “quando”). Questa variabile è
stata valutata su una scala a 6 punti (una volta al giorno / una volta alla settimana/ una
volta al mese / una-due volte all’anno / qualche volta nella vita / una sola volta nella
vita).
Il campione ottenuto è stato di 576 eventi (288 inconsueti, 288 routine).
POSTER - MEMORIA E APPRENDIMENTO
237
Secondo Studio
Il campione utilizzato per le prove di ricordo era costituito dagli eventi raccolti
ed analizzati dal primo studio. Come già detto sono state utilizzate due strategie di
ricordo: 1) a partire da uno o più indizi specifici, secondo differenti combinazioni (“che
cosa”, “chi”, “dove”, “quando”); 2) a partire dalla descrizione generale dell’evento. I
soggetti hanno perciò rievocato 288 eventi con una strategia e 288 eventi con l’altra.
Risultati e discussione
Primo Studio
La lunghezza media (valutata attraverso il conteggio di parole) degli eventi
inconsueti è risultata essere significativamente più elevata degli eventi di routine (58.52
vs. 45.97; p<.0001). L’evento di routine, avendo più caratteristiche invarianti,
probabilmente utilizza schemi descrittivi consolidati che prescindono dalla specificità
dei dettagli. Per quanto riguarda i tre livelli di categorizzazione essi hanno percentuali
simili con una lieve prevalenza del livello basso per gli eventi inconsueti (38.81%) e del
livello intermedio (35.64%) per le routine. È possibile che questa tendenza rifletta una
maggiore difficoltà di trovare categorie sovraordinate per eventi che per definizione
hanno una qualche caratteristica di salienza. Inoltre i dati sembrano confermare che un
aspetto predominante della organizzazione degli eventi singoli è quello della loro
assimilazione all’interno di classi di eventi con uno schema generale comune. La
frequenza di occorrenza dei diversi ambiti di contenuto è stata valutata separatamente
per ciascuna informazione (“che cosa”, “chi”, “dove”, “quando”). I confronti
Inconsueto/Routine sono risultati tutti significativi.
Secondo Studio
Per entrambe le tipologie di eventi la strategia di ricordo guidato dall’indizio
specifico si è rivelata migliore consentendo il recupero di più del 90% degli eventi.
Inoltre l’indizio che specificava la dimensione “che cosa” è risultato il più efficace
nell’innescare il ricordo in modo particolare per gli eventi inconsueti. Mediamente gli
eventi di routine hanno avuto bisogno di un numero maggiore di indizi, confermando
l’ipotesi che il ricordo di eventi quotidiani senza particolari caratteristiche di salienza è
stato più difficoltoso quando i soggetti disponevano di poche informazioni. Per quanto
riguarda la strategia di ricordo guidato dall’indizio categoriale, essa non si è dimostrata
molto efficace; tuttavia aver organizzato gli eventi ad un livello basso ha consentito un
recupero significativamente maggiore in entrambe le tipologie di eventi esaminate.
Conclusioni
I risultati ottenuti in questa ricerca forniscono dati a favore di una
organizzazione multisistemica delle memorie autobiografiche che non può essere
confinata al sistema episodico ma che, specie nella ricostruzione di un evento routinario,
chiama in causa un’attività inferenziale che integra gli aspetti episodici di un evento con
le conoscenze concettuali appartenenti al sistema semantico. In questa ottica le routine
quotidiane hanno la funzione di creare una trama narrativa che, in virtù della sua
invarianza e continuità, integra le proprie esperienze all’interno delle conoscenze
generali semantiche, mentre gli eventi specifici avrebbero la funzione di discriminare e
di mantenere una organizzazione delle proprie esperienze all’interno di una
contestualizzazione spazio-temporale soggettiva.
238
POSTER - MEMORIA E APPRENDIMENTO
Riferimenti bibliografici
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Memory, 5 (5), 569-599.
Neisser U. (1981). Memory observed: remembering in natural contexts. San Francisco:
W. H. Freeman & Co.
Wagenaar W. A. (1986). My memory: A study of autobiographical memory over six
years. Cognitive Psychology, 18, 225-252.
RICONOSCIMENTO OLFATTIVO NEONATO-MADRE NELLE
PRIME ORE DI VITA IN FUNZIONE DEL TIPO DI STIMOLO
(LATTE MATERNO, SECRETO ASCELLARE, LATTE
ARTIFICIALE) E DEL TIPO DI PARTO (NATURALE O
CESAREO)
Gesualdo Zucco{xe "Zucco G."}, Lucia Grassi{xe "Grassi L."}
Dipartimento di Scienze pedagogiche e psicologiche, Università di Lecce
La letteratura psicologica sul riconoscimento di tipo olfattivo neonato-madre
sebbene non sia carente di contributi è tuttora un settore i cui risultati non sono univoci.
Ad esempio, non sempre vi è accordo in relazione al momento in cui i comportamenti di
riconoscimento hanno luogo (se nelle prime ore e giorni di vita o dopo alcune
settimane) e ciò potrebbe però essere dovuto alle diverse procedure sperimentali
adottate (cfr. ad esempio: Mc Farlane, 1975; Russel, 1976; Schaal, 1988; Varendi,
Porter e Winberg, 1998; Zucco, 1994). Un ulteriore dato che necessita di essere
esaminato in modo più approfondito riguarda, invece, l’eventuale comparsa (e il
momento di comparsa) di una reazione di riconoscimento da parte dei neonati a stimoli
olfattivi diversi dal latte materno (ad es. secreto ascellare, liquido amniotico, latte
artificiale e così via; cfr. le rassegne di Porter, 1991 e di Varendi et al., 1998).
In questo lavoro, abbiamo esposto 18 neonati (di età media 18 ore di vita) nati
per via naturale (9) e cesarea (9) a quattro tipi di stimolazione olfattiva: latte materno,
secreto ascellare materno, latte artificiale, e ad un tampone neutro. I neonati sono stati
esposti agli odori (uno alla volta, in ordine casuale, in un ambiente controllato) in fase
di addormentamento. Le due sostanze naturali usate erano state ottenute previa richiesta
alle madri di tenere sotto le ascelle e sul seno, per alcune ore, dei tamponi di garza. Tre
giudici indipendenti hanno, quindi, valutato le reazioni dei neonati agli stimoli (gli
indicatori considerati erano quelli classici comportamentali, legati a piacere/dispiacere).
Ai fini delle successive analisi statistiche sono state considerate solo le codifiche delle
reazioni su cui i giudici avevano espresso una concordanza del 100%.
I risultati evidenziano, non soltanto la capacità di risposta da parte dei neonati a
stimoli significativi (soprattutto al latte materno e al secreto ascellare, piuttosto che al
latte artificiale), ma anche risposte differenziate a seconda del tipo di parto subito
(cesareo o naturale). Ad esempio i soggetti del gruppo “naturale” forniscono prestazioni
POSTER - MEMORIA E APPRENDIMENTO
239
significativamente migliori di quelle del gruppo “cesareo” agli stimoli latte materno e
latte artificiale.
I risultati vengono discussi alla luce delle conoscenze acquisite sull’argomento.
Riferimenti bibliografici
Mc Farlane H. (1975), Olfaction in the development of social preferences in the human
neonate. In R. Porter e M. ÒConnor (a cura di), Parent-infant interaction. Ciba
Foundation Symposium, Amsterdam, Am. Els.
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odours. In T. Getchell, L. Bartoshuk, R. Doty e J. Snow (a cura di), Smell and
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Zucco G. (1994), Il Sistema Olfattivo. In A. Dellantonio (a cura di), Fisiologia e
Psicologia delle Sensazioni. Roma, La Nuova Italia ed.
240
POSTER - NEUROPSICOLOGIA
NEUROPSICOLOGIA
LATERALIZZAZIONE EMISFERICA DEL LINGUAGGIO IN
BAMBINI CON LESIONE CEREBRALE CONGENITA
UNILATERALE
Daniela Brizzolara{xe "Brizzolara D."}, Chiara Pecini{xe "Pecini C."}, Giovanni
Ferretti{xe "Ferretti G."}, Paola Brovedani{xe "Brovedani P."}, Paola Cipriani{xe
"Cipriani P."}
IRCCS Stella Maris - Divisione di Neuropsichiatria Infantile, Università di Pisa
I bambini che hanno sofferto di un danno cerebrale precoce unilaterale offrono
l’opportunità di studiare lo sviluppo di funzioni cerebrali lateralizzate in rapporto alla
sede della lesione. I risultati ottenuti da uno studio effettuato presso il nostro laboratorio
evidenziano, in accordo con la letteratura, che lesioni con del linguaggio che non
sembra tuttavia avere le caratteristiche di un disturbo specifico di sviluppo. Questo
pattern potrebbe essere l’effetto di meccanismi di recupero legati alla plasticità cerebrale
che comportano eventi compensatori di riorganizzazione del substrato neurobiologico e
delle funzioni comportamentali. Se la vicarianza del linguaggio avvenga per
sostituzione funzionale intraemisferica o per intervento di aree dell’emisfero
controlaterale è tuttora controverso. La nostra ricerca si situa all’interno di questo
problema, proponendosi di verificare, in un gruppo di bambini con lesione cerebrale
congenita unilaterale documentata neuroradiologicamente, se la riorganizzazione del
substrato funzionale del linguaggio è intra o interemisferica. Per questo scopo è stato
utilizzato il paradigma sperimentale di ascolto dicotico “dichotic fused words test” che,
rispetto alla versione tradizionale del test, presenta maggiore validità per la misura della
lateralizzazione cerebrale del linguaggio.
Metodologia
Soggetti: 20 bambini emiplegici (range 4;3 e 13;10 anni) con lesione focale
cerebrale congenita documentata alla RMN.I criteri di inclusione prevedevano
prestazioni intellettive superiori a - 2 d.s. a test psicometrici (Griffiths, WPPSI e
WISC/R), assenza di disturbi sensoriali o della personalità.
Procedura
Gli stimoli utilizzati sono costituiti da 55 parole bisillabiche ad alta frequenza
di occorrenza nel vocabolario della lingua scritta per la scuola elementare (frequenza
media: 110.66, Marconi, Ott, Pesenti, Ratti, Tavella; 1994). In base alla struttura
sillabica le parole sono così suddivise: 24 CVCV, e 26 CVCCV, di cui 14 con doppia e
12 con gruppo consonantico. Le parole, pronunciate da una voce femminile, sono state
registrate con modalità Dat all’interno di una camera antiriverberante. Ciascuna parola è
stata campionata su una scheda audio digitale in ambiente HardDiskRecording su PC. Il
campionamento è stato effettuato in modo tale che le parole che costituiscono la coppia
POSTER - NEUROPSICOLOGIA
241
dicotica siano sincronizzate sia per l’attacco della consonante iniziale che per la durata
di alcuni tratti interni (in special modo nei punti dove si trova l’accento rafforzativo
della parola). La presentazione degli stimoli è stata effettuata tramite un programma di
ascolto dicotico, prodotto con la consulenza dell’IEI-CNR di Pisa. Il test prevede
quattro prove di cui due di ascolto monoaurale e due di ascolto dicotico. Le prove di
ascolto dicotico consistono nella presentazione di 30 coppie di parole di cui 25 diverse
per la prima consonante (es. cane-pane) e 5 diverse per la prima vocale (es. luna-lana).
Il bambino, testato individualmente, viene istruito a ripetere, immediatamente dopo la
presentazione, ciascuna parola udita.
Risultati
Nel campione sin qui testato tutti i bambini con lesione cerebrale destra
presentano un effetto REA, a sottintendere una lateralizzazione del linguaggio
nell’emisfero sinistro, mentre dei 15 bambini con lesione sinistra, 10 presentano un
effetto LEA, espressivo di una lateralizzazione atipica del linguaggio nell’emisfero
destro, e solo 5 invece un normale effetto REA. Una percentuale così elevata (66%) di
soggetti con vantaggio dell’orecchio sinistro (a fronte di una frequenza del 9% da noi
rilevata in un campione di 134 bambini normali, dati in corso di pubblicazione), può
essere interpretata come un indice consistente della riorganizzazione del linguaggio
nell’emisfero destro, a seguito di una lesione congenita dell’emisfero sinistro,
geneticamente programmato per il linguaggio. Un dato da sottolineare, infine, è che
l’asimmetria percettiva è tale da configurare un fenomeno di estinzione dell’orecchio
ipsilaterale alla lesione.
Riferimenti bibliografici
Brizzolara, D, Ferretti, G., Brovedani, P., Casalini, C., Sbrana, B. (1994). Is
interhemispheric transfer related to age? A developmental study. Behav. Brain.
Res., 64(1-2): 179-187.
Hugdahl, K., Carlsson, G. (1994). Dichotic listening and focused attention in children
with hemiplegic cerebral palsy. Journal of Clinical and Experimental
Neuropsychology, 16 (1), 84-92.
Isaacs, E. , Christie, D., Vargha-Khadem. F., Mishkin, M. (1995). Effects of
hemispheric side of injury, age at injury, and presence of seizure disorder on
functional ear and hand asymmetries in hemiplegic children.
Neuropsychologia, vol 34, n.2, 127-137.
Nass, R., Abigail, E.S., Sidtis, J. (1992). Differential effects of congenital versus
acquired unilateral brain injury on dichotic listening performance. Neurology,
1992, vol. 42 1960-1965.
Wexler, B. E., Halwes, T. (1983). Increasing the power of dichotic methods: the fused
rhymed words test. Neuropsychologia, Vol. 21, n 1, pp 59-66.
Zatorre, R. J. (1989). Perceptual asymmetry on the dichotic fused words test and
cerebral speech lateralization determined by the carotid sodium amytal test.
Neuropsychologia, Vol. 27, n 10, pp 1207-1219.
242
POSTER - NEUROPSICOLOGIA
INFLUENZA DEL CONTESTO VISIVO
SULL’ORGANIZZAZIONE DEL MOVIMENTO
Sergio Chieffi{xe "Chieffi S."}, Massimiliano Conson{xe "Conson M."},
Alessandro Iavarone{xe "Iavarone A."}
Corso di Laurea in Psicologia, Seconda Università degli studi di Napoli
Introduzione
Quando un soggetto esegue un movimento della mano diretto ad un punto nello
spazio, la traiettoria del movimento è diritta o leggermente curva (Abend et al., 1982).
La programmazione di un movimento di pointing richiede la computazione sia della
posizione del target sia della posizione iniziale della mano. La localizzazione del target
può essere definita sia rispetto alla posizione del proprio corpo (sistema di riferimento
egocentrico), sia rispetto all’ambiente circostante (sistema di riferimento allocentrico)
(Bridgeman et al., 1981; Paillard, 1991; Gentilucci et al., 1995).
Nel presente studio abbiamo esaminato se i movimenti della mano diretti ad un
punto nello spazio siano influenzati dalla presenza di distrattori posti nell’ambiente
circostante. Si è assunta come ipotesi di lavoro che l’influenza del distrattore sulla
cinematica del movimento sia compatibile con un’organizzazione del movimento stesso
basata su di un sistema di riferimento allocentrico.
Metodo
Allo studio hanno partecipato 12 soggetti (7 donne e 5 uomini; età media di
26.1 anni, DS 2.9). Ciascuno stimolo era. formato da un foglio bianco (A4) su cui erano
disegnati due cerchietti neri non collegati (P) o collegati da una linea retta (Lr), o da una
linea curva con convessità a sinistra (Ls) o a destra (Ld). I due cerchietti distavano 15
cm. I soggetti erano seduti di fronte ad un tavolo sulla cui superficie era collocata una
tavoletta grafica. Lo sperimentatore poneva ciascuno stimolo sulla tavoletta. Il soggetto
doveva eseguire un movimento con la penna grafica, a velocità naturale, dal punto
prossimale al punto distale, lungo l’asse sagittale mediano. Inoltre, al soggetto era
chiesto di eseguire il movimento con una traiettoria quanto più rettilinea possibile. I
movimenti erano eseguiti senza la visione della mano. A tale proposito è stato costruito
un sistema di specchi che impediva la visione della mano, consentendo tuttavia la
percezione visiva dello stimolo. Ciascun soggetto eseguiva 24 movimenti (6 movimenti
per ciascuna condizione sperimentale). Le variabili misurate erano: durata del
movimento; velocità media del movimento; deviazione della traiettoria del movimento
dall’asse sagittale, misurata a 15, 30 e 60 mm dalla posizione di partenza. A deviazioni
della traiettoria a destra dell’asse sagittale mediano era assegnato un valore positivo, a
deviazioni a sinistra un valore negativo. Per ogni condizione e per ciascun soggetto sono
stati calcolati i valori medi di ognuna delle suddette variabili. Tali valori sono stati
sottoposti ad una ANOVA a due vie e a misure ripetute, i cui fattori principali erano:
Condizione (P vs Lr vs Ls vs Ld) e Distanza (15 mm vs 30 mm vs 60 mm). I confronti
post-hoc sono stati eseguiti secondo la procedura di Newman-Keuls. Inoltre, per
esaminare la deviazione della traiettoria dall’asse sagittale mediano, i valori di tale
paran1etro sono stati confrontati con lo zero (asse sagittale mediano; t-test per dati
appaiati).
POSTER - NEUROPSICOLOGIA
243
Risultati
Dal confronto dei valori di deviazione della traiettoria dall’asse sagittale
n1ediano (t-test), i risultati hanno mostrato che, in tutte le condizioni sperimentali, era
presente una significativa deviazione del movimento verso sinistra. Inoltre, i risultati
della ANOVA hanno mostrato che la deviazione della traiettoria era significativamente
influenzata dalla Condizione (F(3,33)=4.18, p<0.002) e dalla Distanza (F(2,22)=9.80,
p<0.001). Vi era anche una significativa interazione tra Condizione e Distanza
(F(6,66)=2.96, p<0.02). Dai confronti post-hoc è emerso che la deviazione della
traiettoria verso sinistra era maggiore in Ls rispetto alle altre condizioni; ed in P e Lr
rispetto a Ld. Queste differenze tendevano ad aumentare con la distanza.
Conclusioni
I movimenti dei soggetti, in assenza della visione della mano, presentano una
traiettoria curvilinea e convessa a sinistra. La deviazione della traiettoria verso sinistra,
dall’asse sagittale mediano, è significativa già a 15 mm dalla posizione di partenza.
Inoltre la presenza del distrattore influenza in modo specifico la traiettoria del
movimento. Quando tra il punto di partenza ed il punto di arrivo è presente una linea
curva e convessa verso sinistra, si osserva una maggiore deviazione della traiettoria a
sinistra; quando è presente una linea curva e convessa verso destra, si osserva una
minore deviazione della traiettoria a sinistra.
I risultati sono compatibili con l’ipotesi che l’organizzazione del movimento
avvenga in un sistema di riferimento allocentrico.
Riferimenti bibliografici
Abend W., Bizzi E., Morasso P. (1982) Human arm trajectory formation. Brain, 105,
331-348.
Bridgeman B., Kirch M., Sperling A. (1981) Segregation of cognitive and motor aspects
of visual function using induced motion. Percept Psychoph, 29, 336-342.
Gentilucci M., Chieffi S., Daprati E., Saetti M.C., Toni I. (1996) Perception and visuomotor transformation. Neuropsychologia, 34, 369-376.
Paillard I. (1991) Motor and representational framing of space. In Paillard J. (ed.) Brain
and space. Oxford University Press, Oxford, pp.163-182.
CORTECCIA PREFRONTALE, PROGETTAZIONE DEL
FUTURO ED ANOSOGNOSIA
Francesca Frassinetti{xe "Frassinetti F."}
Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna
L’osservazione clinica dei pazienti con lesione a carico dell’emisfero destro
suggerisce che i pazienti anosognosici non solo negano il proprio deficit ma, anche
quando, in alcune circostanze, emerge la consapevolezza della malattia, tendono a
sottovalutare le conseguenze del proprio deficit motorio. Infatti mentre il paziente con
244
POSTER - NEUROPSICOLOGIA
paresi non anosognosico è preoccupato delle ripercussioni che il proprio limite
funzionale avrà sulla sua vita futura familiare e lavorativa, il paziente con grado più o
meno severo di anosognosia non prende mai in considerazione questo aspetto del
problema.
Shallice (1982) attribuisce la capacità, di prevedere le conseguenze delle azioni
e la capacità di valutare quando un’azione è adeguata al raggiungimento di uno scopo,
alla corteccia prefrontale.
Recentemente Berti e coll. (in corso di preparazione) hanno condotto una
ricerca su un gruppo di pazienti cerebrolesi destri con emiparesi sinistra ed hanno messo
in evidenza una maggiore incidenza di lesioni nel lobo frontale e dei gangli della base
rispetto ai pazienti non anosognosici.
Con il test messo a punto per questo studio si è voluto dimostrare che:
1) i pazienti anosognosici sovrastimano le loro capacità motorie residue e
sottostimano le conseguenze del loro deficit e quelle di altri pazienti con un deficit
motorio paragonabile al proprio;
2) la compromissione della capacità di programmazione e pianificazione,
entrambe funzioni del lobo frontale, hanno un ruolo nella patogenesi dell’anosognosia.
Per questo un gruppo di pazienti cerebrolesi destri con emiparesi sinistra ed un
gruppo di soggetti di controllo sono stati sottoposti:
1) al Mini Mental State Examination (Folstein e coll., 1975);
2) ai tests per la valutazione del neglect personale ed extrapersonale;
3) ad una serie di tests che valutano le funzioni del lobo frontale come lo
Stroop (Stroop, 1935), il Wisconsin card sorting test (Milner , 1963) e la Fluenza
Fonemica (Milner , 1964);
4) ad un’intervista, articolata in 4 fasi, per valutare la capacità dei pazienti di
valutare l’entità e le conseguenze del proprio deficit e quello di un altro paziente.
In questo test ai pazienti venivano presentate, una alla volta, 5 figure che
rappresentavano persone con deficit motori (un ragazzo con un braccio ingessato, un
ragazzo in carrozzina, un uomo con un deambulatore, una ragazza con una gamba
ingessata, un uomo con una gamba amputata).
Nella fase 1, descrittiva, il paziente era invitato a descrivere la figura.
Nella fase 2, dell’intervista, al paziente erano poste una serie di domande
riguardo la capacità dei soggetti illustrati in figura di compiere una serie di azioni (a
ciascuna risposta veniva attribuito un punteggio).
Nella fase 3, definita riflessiva, il paziente, attraverso le stesse domande poste
nella fase dell’intervista, veniva invitato a valutare le proprie capacità motorie.
La fase 4, a risposta multipla, costituiva un controllo delle risposte date dal
paziente nella fase 2.
Nella fase 5 ai pazienti venivano mostrate tutte le figure dei soggetti con deficit
motorio ed altre due figure, l’uno rappresentante un uomo sano e l’altra un atleta. Al
paziente era chiesto con quale delle 7 figure si identificasse.
I risultati conseguiti al nostro test dai pazienti anosognosici differiscono da
quelli ottenuti dai pazienti senza anosognosia e dai soggetti di controllo.
Nella fase dell’intervista i pazienti anosognosici raggiungono un punteggio più
elevato rispetto al punteggio maggiore di un soggetto di controllo. Per la modalità stessa
con cui sono stati calcolati i punteggi, questo risultato può essere interpretato solo nel
POSTER - NEUROPSICOLOGIA
245
senso di una sottostima da parte del paziente del deficit del soggetto rappresentato
nell’immagine.
Nella fase riflessiva, in cui i pazienti venivano invitati a valutare le loro
capacità motorie residue, i pazienti non anosognosici mostrano una perfetta aderenza tra
capacità reali (valutate dall’esaminatore) e le capacità stimate. I pazienti anosognosici
raggiungono in questa fase punteggi molto elevati, mostrando di pensare di poter fare
senza aiuto ciò che in realtà non sono in grado di fare.
Nella fase a risposta multipla, si confermano, nonostante la diversa modalità di
risposta i risultati conseguiti nella fase 2.
Nella fase di identificazione i pazienti non anosognosici si identificano
effettivamente con la figura che rappresenta il deficit più simile alla propria situazione
e, sorprendentemente, alcuni dei pazienti gravemente anosognosici tendono ad
identificarsi con l’immagine che rappresenta un deficit motorio molto simile al proprio.
I risultati suggeriscono che l’anosognosia non riguarda solo la negazione da
parte del paziente anosognosico del proprio deficit ma è un problema di valutazione del
deficit motorio e delle sue conseguenze, non solo in riferimento alla propria persona ma
esteso anche ad altri pazienti.
Le domande dell’intervista fanno esplicitamente riferimento ad azioni che i
pazienti esaminati, ed i pazienti rappresentati in figura, non sono in gran parte in grado
di eseguire. Il fatto che, queste stesse azioni, vengano giudicate “fattibili”, evidenzia un
deficit di “pianificazione” inteso come capacità di prevedere le conseguenze delle azioni
e di valutare se si sia in grado di eseguire un’azione.
Riferimenti bibliografici
Folstein M.F., Folstein S.E., Mc Hugh P.R. (1975), “Mini-mental state”: a practical
method for grading the cognitive state of patients for the clinician. Journal of
Psychiatric Research, 12:189-198.
Millner B. (1963), Effects of different brain lesions on card sorting. Archives of
Neurology, 9:90-100.
Millner B. (1964), Some effecs of frontal lobectomy in man. In Warren J.M., Akert K.
(eds.), The frontal granular cortex and behavior, New York: Mc Graw Hill,
pp.313-334.
Shallice T. (1982), Specific impairment of planning. Philosophical Transactions of the
Royal Society, London: B 298: pp.199-209.
Stroop J.R. (1935), Sudies of interference in serial verbal reactions. Journal of
experimental psychology, 18:643-662.
VALUTAZIONE NEUROPSICOLOGICA
DELL’ENCEFALOPATIA EPATICA SUBCLINICA: EFFETTI
DEL TRAPIANTO DI FEGATO
Katia Mattarozzi{xe "Mattarozzi K."}°, Luca Vignatelli{xe "Vignatelli L."}*,
Andrea Stracciari{xe "Stracciari A."}*
246
POSTER - NEUROPSICOLOGIA
°Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Bologna
*Servizio di Neurologia, Ospedale M. Malpighi di Bologna
Introduzione
Le forme croniche di insufficienza epatica sono spesso accompagnate, 30% dei
casi circa , da un complesso quadro neuropsichico a cui si fa riferimento con il termine
Encefalopatia Epatica. Tale sindrome è sostanzialmente caratterizzata da disordini dei
processi mentali, delle funzioni neuromuscolari e della coscienza. Nella pratica clinica
l’Encefalopatia viene suddivisa in quattro stadi a carattere ingravescente. Tale
gradazione esclude quella condizione in cui non sono presenti manifestazioni rilevabili
clinicamente o tramite Elettro Encefalo Gramma (Tarter, 1992), ma che può essere
messa in evidenza da strumenti più sensibili al disturbo cognitivo come i Test
Psicometrici (Schomerus,1993). La forma Subclinica si caratterizza per un disordine
prevalente del dominio attentivo (McCrea, 1996) che, nonostante sia meno evidente
rispetto alla sindrome conclamata, va comunque ad influenzare le funzioni psicosociali
dell’individuo ed in generale la sua qualità di vita (Amodio,1998; Groeneweg,1998).
Oggi il principale approccio terapeutico all’epatopatia non responsiva al trattamento
farmacologico è il Trapianto di Fegato. L’effetto che tale intervento ha sulla salute
mentale del paziente è ancora incerto. In letteratura troviamo pochissimi studi
prospettici che indagano questo aspetto (Reither, 1992; Tarter, 1988).
Scopo della ricerca
Lo scopo del presente lavoro è quello di valutare gli effetti del trapianto di
fegato sui disturbi cognitivi che l’epatopatia comporta anche in assenza di un quadro di
Encefalopatia conclamato. La nostra ipotesi prevede che il trapianto di fegato possa
correggere le anomalie cognitive in virtù della risoluzione dell’epatopatia stessa.
Materiali e metodi
Da una popolazione di pazienti candidati al trapianto di fegato, affetti da cirrosi
epatica ad eziologia varia ma non a carattere alcolico, sono stati selezionati 60 soggetti
in base ai seguenti criteri: a) assenza di segni obiettivi neurologici di encefalopatia; b)
assenza di disordini psichiatrici pregressi all’esordio di epatopatia; c) assenza di altre
malattie croniche potenzialmente responsabili di deficit cognitivi; d) assenza di terapia
farmacologica con effetti sul SNC. Dei suddetti pazienti, 5 sono stati sottoposti a
trapianto ortotopico di fegato. Sono stati inoltre reclutati come controlli, bilanciati per
età, scolarità e sesso, 5 soggetti affetti da patologie gastroenteriche non responsabili di
disturbi del SNC, oltre che nel rispetto dei criteri di cui al punto b), c), d).
I due gruppi sono stati valutati dal punto di vista cognitivo utilizzando una
batteria di 29 test neuropsicologici. Sono state esplorate diverse dimensioni: attenzione,
memoria nelle sue componenti a breve e a lungo termine, linguaggio, cognizione
spaziale e percezione visiva. Il disegno sperimentale prevedeva, per il gruppo degli
epatopatici, una prima valutazione (V1) alla candidatura per il potenziale intervento ed
una seconda (V2) trascorsi sei mesi dal trapianto. Abbiamo confrontato le performance
(V1 vs V2 e V1 vs controlli) con un’analisi statistica non parametrica: il Test dei Segni
per Ranghi di Wilcoxon.
POSTER - NEUROPSICOLOGIA
247
Risultati
Nella condizione pre-operatoria (V1) i 5 pazienti, confrontati con il gruppo di
controllo, presentavano un rallentamento significativo in alcune prove attenzionali: Trail
Making B (127.6 vs 58.4), Digit Symbol Substitution (34.4 vs 61.6) e Tempi di
Reazione Acustici (219.2 vs 170.2). Le differenze nelle abilità strumentali di linguaggio
e di cognizione spaziale e nella memoria non raggiungono invece la significatività
statistica. Rispetto alla valutazione pre-trapianto (V1) in quella post-operatoria (V2) si
registra un significativo miglioramento proprio nelle stesse prove attenzionali che
risultavano essere inferiori rispetto al gruppo di controllo (Trail Making B, DSS e
Tempi di Reazione Acustici). La performance in altri test non si modifica.
Conclusioni
A seguito del trapianto è stata individuata una tendenza al miglioramento in
alcuni test attenzionali, gli stessi nei quali si evidenziava un impedimento significativo
prima dell’intervento. Tali prove vengono indicate in letteratura come le più sensibili al
quadro encefalopatico (Rikkers, 1978; Gilberstadt, 1980). Questi risultati sembrano
suggerire che un quadro subclinico di encefalopatia è potenzialmente reversibile a
seguito del trapianto. Un fattore che in un qualche modo sembra rafforzare la nostra
ipotesi è rappresentato dal fatto che i pazienti migliorano nonostante non sia trascorso
molto tempo dal trauma dell’intervento (sei mesi) e soprattutto nonostante siano
sottoposti ad una terapia immunosoppressiva a forte azione neurotossica. È comunque
con estrema cautela che ci avviciniamo a qualsiasi conclusione, consapevoli del limitato
numero di soggetti a cui i risultati si riferiscono e della possibile incidenza di un effetto,
non valutato quantitativamente nel nostro studio, legato alla pratica derivante
dall’iterazione dei test. Il proseguire dello studio ci darà la possibilità di aumentare il
campione sperimentale e di valutare l’incidenza dell’effetto pratica sulla performance
post-trapianto.
Riferimenti bibliografici
McCrea M., Cordoba J., et al., (1996). Neuropsychological characterization and
detection of subclinical hepatic encephalophaty. Archchives Neurological, 53,
758-63.
Reither A.M., Smith S., et al., (1992). Quality of life changes and psychiatric and
neurocognitive outcome after heart and liver transplantation. Transplantation,
54, 444-50.
Schomerus H., Hamster H., et al., (1981). Nature of cerebral function defects and their
effect on fitness to drive. Digestive Disease Scientific, 26, 622-30.
Tarter R.E., Moss H.B., et al., (1992). Subclinical epatic encephalophaty relationschip
between neupsychological deficits and standard laboratory tests assessing
hepatic status. Archives of Clinical Neuropsychology, 7,419-29.
Tarter R.E., Van Thiel D., et al., (1988). The quality of life following liver
transplantation: a preliminary report. Gastroenterology Clinics of North
America, 17, 207-17.
248
POSTER - PERCEZIONE
PERCEZIONE
LA PERCEZIONE DELLA DIREZIONE DELLO SGUARDO E
DEL CONTATTO VISIVO
E. Musso{xe "Musso E."}, Natale Stucchi{xe "Stucchi N."}*, Claudio
de’Sperati{xe "de’Sperati C."}**
*Dipartimento di Psicologia Università di Torino
**LAPCO, Dipartimento di Scienze Cognitive, Università S. Raffaele Milano
Introduzione
L’uso dei prodotti cosmetici per truccare gli occhi, che ha origini molto remote
e un carattere transculturale, sembra avere l’intento di creare un forte contrasto tra gli
occhi e le parti del viso ad essi adiacenti. Recentemente è stato rilevato da Kobayashi e
Kohshima (1997) che tra tutti i primati l’uomo è la specie in cui è maggiore il rapporto
tra larghezza e altezza dell’apertura delle palpebre: questo permette una maggiore
escursione orizzontale dei movimenti oculari utili per la visione, ma facilita anche la
valutazione da parte degli altri della direzione del proprio sguardo. Altri due fatti
sembrano confermare questa possibilità: l’uomo è tra i primati quello che ha la
maggiore superficie di sclera oculare visibile ed è l’unico ad avere un sclera di colore
bianco e quindi fortemente contrastata con l’iride e con le palpebre. Sembrerebbe
ragionevole quindi ritenere che la percezione della direzione dello sguardo abbia un
valore adattivo ed un significato evolutivo. Per la specie umana potrebbe essere
estremamente importante utilizzare lo sguardo come possibile canale di comunicazione
ad esempio per far capire ad un altro che ci si è accorti della sua presenza o per rilevare
un interesse nei nostri confronti.
Per confermare questa ipotesi, prima di affrontare direttamente lo studio del
valore comunicativo dello sguardo nelle interazioni sociali, è necessario sapere quanto
siamo accurati e quanto siamo precisi nel valutare dove sta guardando un altro. Negli
ultimi 50 anni, per misurare quanto siamo efficaci nel percepire la direzione dello
sguardo degli altri sono stati effettuati diversi studi (per una rassegna vedi Masame,
1990) che tuttavia presentano limitazioni metodologiche e sperimentali, per cui
abbiamo deciso di affrontare nuovamente il problema in condizioni sperimentali più
controllate.
Metodo
Sono stati effettuati due esperimenti a cui hanno partecipato 40 soggetti (20 in
ciascun esperimento): il primo con lo scopo di misurare la precisione (cioè la nostra
sensibilità che si riflette nella
dispersione delle risposte, convenzionalmente
denominata soglia differenziale o jnd) in funzione dell’eccentricità dello sguardo
dell’osservatore e il secondo con lo scopo di misurare l’accuratezza (cioè la deviazione
tra direzione effettiva e direzione stimata dello sguardo, convenzionalmente chiamata
Errore Costante o CE) in funzione della vergenza oculare (cioè della distanza tra
POSTER - PERCEZIONE
249
bersaglio e osservatore) e della distanza tra osservatore e soggetto. L’osservatore
corrisponde allo stimolo che nel nostro caso era costituito da una porzione di viso
(comprendente parte della fronte e il naso) i cui occhi potevano mirare 11 bersagli (tra
±20° di escursione orizzontale dall’asse sagittale) a diverse distanze (5 livelli di
vergenza, cioè .5,1, 1.5, 2 e 2.5 m, per 3 livelli di distanza osservatore/soggetto, cioè 1,
2 e 3 m). Gli stimoli erano presentati sullo schermo di un computer. Il soggetto
sperimentale doveva indicare su una sbarra graduata di 4.2 m e con l’ausilio di un
puntatore laser dove l’osservatore stava guardando.
Risultati e discussione
I risultati dei due esperimenti mostrano che 1) nella zona corrispondente allo
sguardo diretto (±5° di escursione orizzontale dall’asse sagittale) la precisione è attorno
a 1-2° di angolo visivo e l’accuratezza è quasi perfetta (CE=1° con un’asimmetria
sistematica verso sinistra); 2) l’accuratezza diminuisce in funzione dell’eccentricità
dello sguardo (i soggetti sovrastimano l’eccentricità dello sguardo con un errore
costante che può giungere fino a 30° ), ma non la precisione che diminuisce solo di poco
rispetto allo sguardo diretto (5° di angolo visivo); 3) l’accuratezza non dipende dalla
distanza tra osservatore e soggetto; 4) la vergenza peggiora l’accuratezza (siamo
migliori quando gli occhi dell’osservatore siano paralleli). In sintesi, da questi dati
sembra confermata la possibilità che la direzione dello sguardo abbia una valenza
comunicativa. In particolare la massima efficienza sembra raggiunta a circa 3 m
dall’osservatore (cioè al di fuori dello spazio di contatto fisico).
Riferimenti bibliografici
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Masame, k., 1990. Perception of where a person is looking:Overesimation and
underestimation of gaze direction. Tohoku Psychologica Folia, 49, 33-41.
PERCEZIONE DI DURATA DI EVENTI COMPLESSI
Lucia Tomat{xe "Tomat L."}
Dipartimento di Psicologia generale, Università di Padova
Nell’ambito della percezione della durata vi sono due teorie contrapposte:
secondo Piaget (1966, 1981) il dato primario è quello della velocità, ed il tempo è una
costruzione derivata; secondo Fraisse (1967, 1984) l’esperienza della durata è derivata,
ma il dato primario è quello del numero degli oggetti o dei cambiamenti osservati. Il
problema che sta alla base della controversia è la diversa concezione del tempo
psicologico: per Piaget, il tempo è “coordinazione della velocità”, ed è indebitato con
l’intelligenza e con il pensiero, per Fraisse invece il tempo è una intuizione pura della
durata che non dipende da processi mentali. Dai numerosi lavori sperimentali di Piaget e
di Fraisse emergono perlomeno due problemi. Il primo, è che è impossibile trattare il
tempo, la velocità, la frequenza e la grandezza del campo di osservazione come variabili
indipendenti. La velocità si converte in frequenza, ma se si modifica la grandezza dello
250
POSTER - PERCEZIONE
schermo, viene alterata la velocità soggettiva, e così via. Il secondo problema è la
povertà di contenuti percettivi: la situazione sperimentale è troppo povera per rivelare le
interdipendenze tra le variabili fenomeniche oltre che le meglio conosciute relazioni tra
le variabili fisiche.
Nel presente lavoro sono state utilizzate situazioni sperimentali più ricche di
movimenti percepiti di quelle utilizzate da Fraisse e da Piaget, nel tentativo di dirimere
perlomeno la seconda questione.
Soggetti, materiale, procedura e analisi dei dati
Hanno partecipato all’esperimento 14 soggetti, con età compresa tra i 19 e i 22
anni, con vista normale o corretta da lenti. Ognuno di loro osservava alcuni filmati a
colori e privi di sonoro riprodotti da un monitor di 21’’ operante a 24 frames/sec
(VHS).I film erano le variazioni in accelerazione ed in decelerazione di 3 scene
principali che duravano 15 sec ciascuna.
Le scene principali erano: [M] - lo stralcio di una gara di maratona maschile, in
cui si vedeva correre un gruppo comprendente circa una decina di atleti;[C] - lo stralcio
di una gara di equitazione, in cui si vedeva entrare in campo un cavallo cavalcato dal
suo fantino;
[D] - lo stralcio della ripresa di una donna intenta a lavare delle stoviglie.
La differenza tra le scene principali è che gli indici di movimento sono molto
numerosi in M, sono invece meno numerosi in C, e ancor meno numerosi in D .
Ad ogni singolo soggetto venivano presentati con il metodo dei limiti 42 film
privi di sonoro risultanti dalle 13 variazioni delle 3 scene principali: -30, -25, -20, -15, 10, -5, 0, +5, +10, +15, +20, +25, +30 %, dove i segni “-” e “+” si riferiscono a
decelerazioni a ad accelerazioni; 0 è la scena con velocità normale. Dopo ogni prova, ad
ogni soggetto veniva chiesto di riprodurre la durata del filmato premendo un tasto.
Sui dati sono state effettuate 3 analisi di regressione ed alcune ANOVA con
disegno within, sui fattori film, e tipo della variazione.
Risultati e commenti
I risultati indicano che la velocità alterata dei movimenti visti nelle scene non
influenza la accuratezza della stima temporale (scena M: R = 0.97, con una curva =
0.94, p < .0001; scena C: R = 0.981, con una curva = 0.89, p < .0001; scena D: R =
0.97, con una curva = 0.80, p < .0001). Per quanto riguarda la maggiore o minore
presenza di elementi degli eventi (M parecchi movimenti; C movimenti meno numerosi;
D pochi movimenti), solo le decelerazioni differenziano statisticamente i risultati,
(F2,26 = 5.22, p = .012; accelerazioni: F2,26 = 2.67, n.s.).
I risultati del presente esperimento non supportano né il punto di vista di Piaget
né quello di Fraisse. Probabilmente il problema non è la situazione sperimentale, o
l’impossibilità pratica di trattare indipendentemente le variabili in gioco, ma la
assunzione non legittima che tra gli aspetti dimensionali della durata fenomenica
(distanza ricoperta, velocità dei movimenti, frequenza dei cambiamenti, e così via),
valgano le stesse relazioni che conosciamo tra gli eventi fisici. È questo il tipico errore
dello stimolo, ed i risultati potrebbero essere interpretati come una falsificazione
dell’ipotesi della costanza (vedi Vicario, 1992). Ciò sembra rinforzare la conclusione
POSTER - PERCEZIONE
251
tratta da Vicario (1998) circa la necessità di trattare i problemi del tempo psicologico al
di fuori del quadro di riferimento dei concetti fisici.
È possibile che la serie di alterazioni esaminate (da -30% a +30% della
velocità) sia troppo limitata per permettere alla velocità dei movimenti percepiti di
esercitare una qualsivoglia influenza sulla stima delle durate. Linee di ricerca future
potrebbero esplorare gli alti gradi delle accelerazioni e delle decelerazioni.
Riferimenti bibliografici
Fraisse, P. (1967). Psychologie du temps. Presses Universitaires de France, Paris 1967.
Fraisse, P. (1984). Perception and estimation of time. Annual Review of Psychology, 35,
1-36.
Piaget, J. (1961). Les mécanismes perceptifs. Presses Universitaires de France, Paris.
Piaget, J. (1981). Time perception in children. In: Fraser, J. T. (ed), The voices of time,
MU Press, Amherst, pp. 202-216.
Vicario, G. B. (1992). L’ipotesi della costanza in Psicologia. In Piaia, G. (ed), I volti
dell’uomo: scritti in onore di P. G. Nonis. Lint, Trieste, pp. 575-590.
Vicario, G. B. (1998). Time in physics and psychological time. Teorie e modelli, 1998,
3, 59-87.
APPARENTE DISLOCAZIONE IN PROFONDITÀ DI UN
RETTANGOLO SOGGETTO A CONTRAZIONE E
TRASLAZIONE SUL PIANO FRONTALE
Mario Zanforlin{xe "Zanforlin M."}, Elisabetta Xausa{xe "Xausa E."}, Luigi
Beghi{xe "Beghi L."}*
Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
*Dipartimento di Matematica Pura e Applicata, Università di Padova
Il problema della impressione di tridimensionalità prodotto da una
configurazione bidimensionale in movimento è stato tradizionalmente affrontato con
l’ipotesi della “tendenza alla costanza di grandezza” e matematicamente con “l’assunto
di rigidità”. Tali ipotesi non permettono di spiegare vari fenomeni di percezione della
profondità dal movimento, ad esempio il caso che è stato considerato da Tampieri
(1959, 1964) in cui una barra si contrae e simultaneamente si disloca lateralmente sul
piano frontale. Dalle nostre osservazioni risulta che tale dislocazione in profondità si
verifica anche con un rettangolo sottoposto agli stessi movimenti della barra che
mantiene costante la sua larghezza.
Secondo l’ipotesi di rigidità (Ullman, 1984) e secondo la legge della
prospettiva, si dovrebbe percepire una figura piana che ruota in profondità muovendosi
lateralmente sul piano frontale. Abbiamo sottoposto a soggetti “ingenui” la
configurazione di rettangoli, prodotta sul video di un calcolatore, di varia larghezza, che
periodicamente si contraevano in altezza e simultaneamente si spostavano lateralmente
e viceversa, mantenendo costante la larghezza. Nelle configurazioni presentate tutti i
252
POSTER - PERCEZIONE
soggetti hanno percepito una simultanea rotazione e dislocazione in profondità dei
rettangoli, contrariamente ai risultati previsti dall’ipotesi di rigidità e della prospettiva.
Tali risultati vengono interpretati secondo una ipotesi alternativa basata su un principio
di “minimizzazione delle differenze di velocità” dei punti del pattern (Zanforlin, 1988;
Beghi et al. 1997; Xausa et al., 1997).
I risultati sperimentali sono in buon accordo con quelli teorici ottenuti dal
modello matematico basato sul suddetto principio di minimizzazione delle velocità.
Riferimenti bibliografici
Beghi L., Xausa E., Zanforlin M.(1997), Mathematical model of the depth effect in the
translatory alternating movement. Part B: “swinging gate” phenomenon. In C.
Taddei-Ferretti (ed.) Biocybernetics of vision: integrative mechanisms and
cognitive processes, World Scientific, New.York, Singapore, Hong Kong.
Tampieri, G. (1959). Movimenti fenomenici di allontanamento ed inclinazione in
rapporto a differenze nelle condizioni di stimolazione. Rivista di Psicologia,
53, 17-26.
Tampieri, G. (1964). Rapporti tra movimenti fenomenici e modificazioni dell’immagine
retinica. Rivista di Psicologia, 58, 93-131.
Ullman, S. (1984).Maximizing rigidity: the incremental recovery of 3-D structure from
rigid and nonrigid motion. Perception, 13, 255-274.
Xausa, E., Beghi, L., & Zanforlin, M. (1997). Mathematical model of the depth effect in
the translatory alternating movement. Part A: 3-D perception of length
amplification. In C. Taddei-Ferretti (ed.) Biocybernetics of vision: integrative
mechanisms and cognitive processes, World Scientific, New York, Singapore,
Hong Kong.
Zanforlin, M. (1988a). The heigth of a stereokinetic cone:a quantitative determination of
a 3D effect from a 2D moving pattern without a “rigidity assumption”.
Psychological Research, 50, 162-172.
Zanforlin, M. (1988b). Stereokinetic phenomena as good Gestalts: The minimum
principle applied to circles and ellipses in rotation; a quantitative analysis and a
theoretical discussion. Gestalt theory, 10, 187-214.
POSTER - PSICOLINGUISTICA
253
PSICOLINGUISTICA
LA FREQUENZA NON È TUTTO: DIFFERENZE TRA NOMI
PROPRI E NOMI COMUNI
Francesca Peressotti{xe "Peressotti F."}, Roberto Cubelli{xe "Cubelli R."}, Marco
Cova{xe "Cova M."}, Remo Job{xe "Job R."}
DPSS, Università di Padova
Nel presente lavoro confrontiamo gli effetti della frequenza d’uso di un gruppo
di nomi propri e di un gruppo di nomi comuni in un compito di decisione lessicale. Lo
scopo degli esperimenti è duplice. Da un lato volevamo replicare l’effetto di superiorità
dei nomi propri sui nomi comuni, già evidenziato in precedenza (Peressotti, Job,
Cubelli, 1998), tale per cui a parità di altre condizioni, i nomi propri scritti con la prima
lettera maiuscola vengono riconosciuti più velocemente dei nomi comuni, qualsiasi sia
il carattere con cui sono scritti.). Dall’altro lato volevamo verificare se l’effetto di
superiorità dei nomi propri interagisse con, oppure risultasse additivo rispetto a, l’effetto
di frequenza. Le risposte a questo quesito presentano rilevanti implicazioni per i
processi di accesso al lessico postulati dai diversi modelli di lettura. Infatti, un effetto
additivo della frequenza è maggiormente congruente con modelli ad attivazione. Al
contrario, secondo i modelli a ricerca attiva, l’effetto della frequenza dovrebbe essere
maggiore per i nomi comuni che per i nomi propri.
Si sono selezionati un gruppo di nomi propri e un gruppo di nomi comuni
comparabili per familiarità, lunghezza e numero di categorie di appartenenza. Gli
stimoli inoltre variavano per il carattere ortografico in cui erano scritti. In una
condizione comparivano in maiuscolo (per esempio: ANTONIO, ARMADIO) e
nell’altra condizione in minuscolo (per esempio: antonio, armadio). La lista
sperimentale conteneva anche due gruppi di non-parole derivanti da parole che
appartenevano alle stesse categorie semantiche dei nomi sperimentali e ai partecipanti
veniva chiesto di eseguire un compito di decisione lessicale. I risultati ottenuti sono
chiaramente a favore dei modelli ad attivazione e vengono discussi in riferimento al
dibattito teorico attualmente in corso nell’ambito del riconoscimento di parole.
Riferimenti bibliografici
Peressotti, F., Job, R., e Cubelli, R. (1998). How we recognize proper names: Does the
capital letter matter? Lavoro presentato a Xth ESCOP Meeting, Gerusalemme.
VALIDAZIONE DI UN TEST SULLA COMPRENSIONE DELLE
PREPOSIZIONI LOCATIVE IN ETÀ PRESCOLARE
Claudia Pizzoli{xe "Pizzoli C."}*, Roberta Lorenzetti{xe "Lorenzetti R."}**
254
POSTER - PSICOLINGUISTICA
*Centro regionale per le disabilità linguistiche e cognitive in età evolutiva, ASL
Bologna
**Dipartimento di discipline della comunicazione, Università di Bologna
Introduzione
La stretta relazione tra sviluppo di strutture cognitive e acquisizione del
linguaggio costituisce il tema di vasta parte della ricerca psicologica contemporanea.
Secondo alcuni autori (Johnston, 1985) è possibile differenziare ipotesi cognitive “forti”
e ipotesi cognitive “deboli”. Le prime si caratterizzano per l’assunzione che i dati dello
sviluppo cognitivo, ovvero costrutti non-linguistici, sono sufficienti per spiegare
l’apprendimento linguistico; le seconde, d’altro canto, assumono che i fatti dello
sviluppo cognitivo possono spiegare l’apprendimento linguistico solo parzialmente.
Il dibattito recente sembra orientarsi all’identificazione di specifiche situazioni
in cui appaia evidente come lo sviluppo di costrutti non-linguistici intervenga nel
determinare il corso dell’acquisizione linguistica. Un ambito di indagine
particolarmente esemplificativo sembra essere quello dell’acquisizione delle relazioni
spaziali (costrutti non-linguistici) e dell’uso delle preposizioni locative (elementi
linguistici) (Cipriani, Chilosi, Bottari, Pfanner, 1993).
Infatti, il punto di vista secondo cui il pensiero costituisce il contenuto del
linguaggio (ipotesi cognitiva forte) sostiene che l’acquisizione del linguaggio è
vincolata dalla conoscenza concettuale e fattuale del bambino. Così, il bambino che non
ha acquisito la relazione spaziale di supporto o di prossimità non dovrebbe essere in
grado di capire che cosa significhino le preposizioni locative “in” o “vicino a” perché
non può interpretare una configurazione di oggetti in questi termini (Slobin, 1985).
Obiettivi
Lo scopo del presente lavoro è quello di validare un test sulla comprensione
delle preposizioni locative della lingua italiana in età prescolare (Cresti, Moneglia,
1993; Emiliani, McKee, 1994); si intende, inoltre, controllare il tipo di relazione
pragmatica-contestuale, i.e. la relazione di plausibilità e realisticità, intercorrente tra gli
oggetti menzionati nelle frasi del test e presentati nelle corrispondenti tavole. Si ritiene,
infatti, che l’indagine dei diversi livelli di acquisizione dei locativi, distinti nella loro
occorrenza in riferimento a oggetti astratti e in relazione di congruità o incongruità tra
loro, sia rilevante da un lato, rispetto allo studio psicologico del complesso rapporto tra
rappresentazioni cognitive e linguaggio, dall’altro, rispetto alla diagnosi precoce di
disturbi di comprensione.
Metodo
Soggetti
350 bambini di età compresa tra i 4.1 e i 4.11.
Materiale e procedura
Partendo dai risultati ottenuti in un’indagine preliminare (Lorenzetti, Pizzoli,
Zoppello, 1998) volta a determinare una scelta di metodo (test a scelta multipla vs. test
di giudizio vero-falso), si è utilizzato: a) un test di denominazione lessicale (per tutti gli
oggetti usati nel test sperimentale); b) un test a scelta multipla su 11 preposizioni
locative (sopra, sotto, vicino, lontano, nello/a/in, dentro, sullo/a, davanti, dietro, tra,
POSTER - PSICOLINGUISTICA
255
fuori) x 3 condizioni di presentazione(astratto, congruo, incongruo) (i.e., una batteria di
33 tavole con 4 figure ciascuna relative a 33 corrispondenti frasi, più 2 tavole e 2 frasi di
addestramento). La presentazione del test a scelta multipla è stata controllata mediante
un quadrato latino bilanciato.
Risultati
I dati raccolti sono tuttora in fase di elaborazione. Sembra, comunque, possibile
affermare che:
Œ
il test rivela differenze di comprensione in diversi intervalli di età;
Œ
il test discrimina opportunamente la comprensione delle preposizioni locative
rispetto alla astrattezza degli oggetti utilizzati nelle frasi-tavole del test, e rispetto
alla relazione di congruità e incongruità degli oggetti tra loro. In particolare si
osserva che solo due preposizioni locative “tra” e “davanti” ottengono un numero
elevato di risposte errate in tutte e tre le condizioni del materiale presentato, mentre
le preposizioni “dietro”, “sul”, “dentro”, “lontano” presentano un numero elevato di
risposte errate solo nella condizione di astrattezza. Per altre preposizioni (nello/a/in;
davanti) si rileva un effetto marcato legato alla condizione di incongruità, che
rimane in ogni caso un fattore che aumenta sensibilmente la difficoltà di
comprensione dei locativi in generale.
Il test, dunque, sembra individuare la difficoltà di rappresentazione cognitiva di
alcune relazioni spaziali, e la corrispondente difficoltà di comprensione delle
preposizioni locative che le esprimono, indipendentemente dalle condizioni di
presentazione del materiale (tra, davanti); inoltre, il test rileva anche la difficoltà di
rappresentazione cognitiva di determinati costrutti locativi (dietro, sul, dentro, lontano;
in, davanti) in dipendenza dal tipo di oggetti e di relazione pragmatica-contestuale in cui
essi si presentano (astrattezza, in/congruità).
Riferimenti bibliografici
Cresti, E., Moneglia, M. (a cura di) (1993). Ricerche sull’acquisizione dell’italiano.
Roma: Bulzoni.
Cipriani, P., Chilosi, A.M., Bottari, P., Pfanner, L.(1993). L’acquisizione della
morfosintassi in italiano. Fasi e processi. Pisa: Unipress.
Emiliani, M., McKee, C.(1994). Utilizzazione clinica di alcune metodologie
sperimentali per l’analisi di competenze morfo-sintattiche nella prima infanzia.
In S. Frasson, L. Lena, P. Zottis (a cura di), Diagnosi precoce e prevenzione
dei disturbi del linguaggio e della comunicazione. Padova: Edizioni Del Cerro.
Johnston, J.R.(1985). Cognitive prerequisites: the evidence from children learning
english. In D.I.Slobin (ed.) The crosslinguistic study of language acquisition,
Vol. 2: Theoretical issues. Hillsdale, N.J.: LEA, 961-1004.
Lorenzetti, R., Pizzoli, C., Zoppello, M. (1998). La comprensione delle preposizioni
locative in compiti di giudizio vero/falso: un’indagine preliminare. Congresso
nazionale AIP della sezione di psicologia sperimentale, Firenze, 28-30
settembre.
Slobin, D.I.(1985). Crosslinguistic evidence for the language-making capacity. In
D.I.Slobin (ed.) The crosslinguistic study of language acquisition, Vol. 2:
Theoretical issues. Hillsdale, N.J.: LEA, 1157-1256.
256
POSTER - PSICOLINGUISTICA
POSTER - PSICOLOGIA ANIMALE E COMPARATA
257
PSICOLOGIA ANIMALE E COMPARATA
COME DIVERSE CONDIZIONI D’ILLUMINAZIONE
INFLUENZANO IL RITMO BRAC NEI TOPI
Valeria Carola{xe "Carola V."}, Francesca D’Olimpio{xe "D’Olimpio F."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione
È noto che i ritmi comportamentali si manifestano con pattern correlati alle
condizioni di illuminazione in cui vengono posti i soggetti: in condizione di buio
continuo (BB) il periodo del ritmo circadiano d’attività motoria di roditori subisce un
accorciamento (Possidente e Stephan, 1987) rispetto alla condizione di luce/buio (LB)
mentre in condizioni di luce continua (LL) si ha un allungamento dello stesso
(Hofstetter e al., 1995)
Lo stesso pattern è stato osservato relativamente ai ritmi ultradiani lenti, con
periodi di circa di 200 minuti in LB, di circa 330 minuti in LL e di circa 120 minuti in
BB sia nei ratti (Deprés-Brummer et al., 1995) che nei topi (D’Olimpio et al., 1996). Il
ritmo ultradiano più importante da un punto di vista adattivo è il ritmo brac, che
sembrerebbe essere addetto ad attività di recupero delle energie ed è presente, almeno
nei roditori, sin dalle prime fasi di vita (D’Olimpio et al, 1998). Uno dei problemi
maggiori relativi la manifestazione del brac consiste nella individuazione delle strutture
anatomiche addette alla regolazione di questo ritmo. Gerkema (1993) ha indicato come
possibili regolatori dei ritmi ultradiani l’area retrochiasmatica e il nucleo arcuato. Sulla
base dei precedenti lavori lo scopo del presente lavoro consiste nel valutare la possibile
influenza delle condizioni di illuminazione sul periodo del ritmo brac di topi dba/2 (il
cui periodo, in condizioni di LB, è di circa 15 minuti), al fine di evidenziare un ruolo
delle strutture nervose addette alla ricezione ed elaborazione degli stimoli luminosi nella
generazione e modulazione del ritmo brac.
Metodo
A questo scopo sono stati utilizzati 48 topi maschi del ceppo dba, assegnati a
tre gruppi, ognuno dei quali è stato sottoposto a tre diverse condizioni di illuminazione
(LB 12-12, LL, BB). Ogni animale ha svolto sessioni di 130 prove (65 minuti) di shuttle
box. In seguito al raggiungimento del criterio (il 98% di risposte corrette, 127
evitamenti) gli animali sono stati sottoposti a sessioni di 400 prove (200 minuti). Nel
compito di shuttle box nelle condizioni di LL e LB è stato utilizzato come segnale di
preavviso una luce (10W) e come stimolo avversivo uno shock elettrico, mentre nella
condizione di BB la luce veniva sostituita da un suono (3000hz). Dai tempi di reazione
forniti da ogni singolo topo alle prove successive al raggiungimento del criterio sono
state analizzate le sequenze temporali tramite Discrete Fourier Transform.
Risultati
258
POSTER - PSICOLOGIA ANIMALE E COMPARATA
I risultati mostrano la presenza sia di un ritmo dominante con un periodo
compreso tra gli 8 e i 28 minuti (LB 8-22 minuti, BB 8-28 minuti) che di un ritmo con
periodo tra i 66 e i 100 minuti sia nelle condizioni di LB che di BB, mentre in
condizioni di LL si presenta un solo ritmo con un periodo variabile tra i 27 e i 54 minuti.
Conclusioni
L’allungamento del periodo brac in LL sembrerebbe confermare l’ipotesi
dell’influenza dei fattori d’illuminazione sulla modulazione di tale ritmo. La similarità
di periodo osservata in condizioni di LB e di BB, potrebbe essere spiegata ipotizzando
che i soggetti siano in entrambi i casi sincronizzati a fattori ambientali: nella condizione
di LB l’alternanza di luce-buio svolge il ruolo di sincronizzatore, mentre in BB il
compito d’attività nella shuttle box potrebbe assumere tale ruolo (D’Olimpio e al.,
1997). Questo dato sembrerebbe confermato anche dalla presenza della componente di
100 minuti in entrambe le condizioni. I dati dell’influenza della luce (LL) e dell’attività
motoria (BB) sul ritmo brac fanno ipotizzare l’implicazione del tratto genicoloipotalamico nella modulazione dei ritmi brevi per la peculiarità della funzione di tale
tratto che sembra mediare non solo la trasmissione d’informazioni luminose, ma anche
quella di informazione sull’attività motoria svolta dall’animale, al pacemaker
circadiano.
Riferimenti bibliografici
D’Olimpio, F., Carola, V., Rubeis, N. & Renzi, P. (1998). L’attività come modificatore
dell’espressione dei ritmi circadiani del topo. Atti Congresso Nazionale della
Sezione di Psicologia Sperimentale. Firenze.
D’Olimpio, F., Conte, S. & Renzi, P. (1996). Ritmi ultradiani di attività motoria in topi
tenuti in condizioni di luce alternata e luce continua. Atti Congresso Nazionale
della Sezione di Psicologia Sperimentale. Capri.
D’Olimpio, F. & Renzi, P. (1998). Ultradian rhythms in young and adult mice:further
support for the basic rest-activity cycle. Physiology & Behavior Vol.64, No5,
pp697-701.
Deprés-Brummer, P., Levi, F., Metzger, G. & Touitou, Y. (1995). Light-induced
suppression of the rat circadian system. American Journal Physiology, 268:
R1111-R1116.
Gerkema, M. P., Gross, G. A. & Daan, S. (1990). Differential elimination of circadian
and ultradian rhythmicity by hypothalamic lesions in the common vole,
Microtus arvalis. Journal of Biological Rhythms, Vol. 5, No 2,,pp 81-95.
Hofstetter, J. R., Mayeda, A. R., Possidente, B. & Nurnberger J. (1995). Quantitative
trait loci (QTL) for circadian rhythms of activity in mice. Behavior genetics,
Vol.25, No. 6.
Possidente, B & Stephan, F. K. (1988). Circadian period in mice: analysis of genetic
and maternal contributions to inbred strain diffeences. Behavior genetics, Vol
18 N1.
POSTER - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
259
PSICOLOGIA FISIOLOGICA
UN TEST DI CANCELLAZIONE DI LETTERE (TCL) PER
VALUTARE LE VARIAZIONI DIURNE DELLA VIGILANZA:
EFFETTI DELL’ADDESTRAMENTO
1,2
1,2
Maria Casagrande{xe "Casagrande M."} , G. Curcio{xe "Curcio G."} , L.
2
2
Urbani{xe "Urbani L."} , S. Porcù{xe "Porcù S."}
1
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
2
C.SV., Reparto Medicina Aeronautica e Spaziale, Pratica di Mare, Pomezia (Roma)
L’uso di brevi test “carta e matita” autosomministrabili facilita la valutazione
della vigilanza in contesti ecologici. Infatti, test con tali caratteristiche non richiedono
né apparati sperimentali, né sperimentatori e la loro rapidità di esecuzione consente di
limitare le interferenze con l’attività svolta e di minimizzare gli effetti prodotti dalla
stessa misurazione. Inoltre, in alcuni casi (ad es. ricerche militari sul campo), l’uso di
questo tipo di test risulta essere l’unica possibilità per valutare le variazioni della
vigilanza.
Superata ormai la convinzione che un compito debba essere necessariamente
lungo per essere sensibile alle variazioni della vigilanza, rimane ancora aperto il
problema dell’effetto pratica o apprendimento che è presente in molti compiti e può
oscurare la possibilità di rilevare le variazioni della vigilanza. Questo è quanto si
verifica in quasi tutti i compiti, sia cognitivi che psicomotori, nei quali la prestazione
assume un andamento curvilineo mascherando i veri effetti della sonnolenza. L’effetto
confondente dell’apprendimento può essere limitato da un addestramento tale da
assicurare una prestazione stabile; ma per essere adeguato deve anche tener conto del
possibile intervento di eventuali effetti di apprendimento stato-dipendenti. Risulta
importante pertanto valutare quale forma di addestramento (numero di prove eseguite e
orari di esecuzione) riesca a minimizzare tutti i possibili effetti apprendimento.
Recentemente abbiamo proposto un breve test “carta e matita”
autosomministrabile, che richiede la ricerca e la cancellazione di stimoli visivi
predefiniti all’interno di una matrice costituita da stimoli simili (TCL), che è risultato
sensibile a rilevare le variazioni diurne della vigilanza e i decrementi di vigilanza dovuti
a deprivazione di sonno o ad assunzione di benzodiazepine (Casagrande et al., 1997;
Casagrande et al., 1999a; Casagrande et al., 1999b).
Poiché l’uso del TCL può risultare particolarmente vantaggioso nella
rilevazione della vigilanza in contesti ecologici, abbiamo valutato gli effetti sulla
prestazione di sette differenti forme di addestramento.
Metodo
Hanno partecipato allo studio 126 militari, sani e senza disturbi del sonno.
Ciascuno di loro ha eseguito un TCL, che richiedeva la ricerca di due lettere target con
260
POSTER - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
un tempo di completamento libero, 9 volte (7.00, 9.00, 11.00, 13.00, 15.00, 17.00,
19.00, 21.00, 23.00) nell’arco di una giornata, dopo una normale notte di sonno. Una
settimana prima della giornata sperimentale, tutti i soggetti venivano sottoposti a una
sessione di addestramento, che prevedeva l’esecuzione di due diverse forme di TCL. A
questo punto i soggetti erano suddivisi in 7 gruppi (G), ciascuno dei quali era sottoposto
a una differente forma di addestramento, come di seguito specificato. G1: nessuna
ulteriore forma di addestramento; G2: esecuzione del TCL per 3 volte (9.00, 15.00,
21.00) in una giornata; G 3: stesso addestramento di G2, ripetuto per due giornate
consecutive; G4: esecuzione del TCL per 5 volte (7.00, 11.00, 15.00, 19.00, 23.00); G5:
stesso addestramento di G4, ripetuto per due giornate consecutive; G6: esecuzione del
TCL per 9 volte (7.00, 9.00, 11.00, 13.00, 15.00, 17.00, 19.00, 21.00, 23.00); G7: stesso
addestramento di G6, ripetuto per due giornate consecutive. Ogni soggetto indossava un
orologio multiallarme che segnalava l’orario di esecuzione del test e il tempo di
completamento.
Risultati
Analisi (ANOVA Gruppo x Orario sui dati della giornata sperimentale)
preliminari condotte su 63 soggetti hanno evidenziato un’interazione significativa
(p<.00001) per il tempo di completamento, che ha indicato un rallentamento della
prestazione alle 7.00, alle 15.00 e alle 23.00 e un suo miglioramento alle 19.00 nei
gruppi 4 e 5, che non sono risultati tra loro differenti. Analogamente si è evidenziata
un’interazione significativa (p<.00001) per il numero di risposte corrette, con risultati
del tutto simili a quelli osservati per il tempo di completamento.
Conclusioni
I risultati preliminari suggeriscono che la prestazione nel TCL è influenzata dal
numero di prove eseguito all’interno della stessa giornata, infatti solo tale caratteristica
dell’addestramento sembra incrementare la sensibilità del test alle variazioni diurne
della vigilanza.
Riferimenti bibliografici
Casagrande M, Violani C, Curcio G, Bertini M (1997) Assessing vigilance through a
brief pencil Letter Cancellation Task (LCT): effects of one night of sleep
deprivation and of the time of day. Ergonomics, 40 (6), 613-630.
Casagrande M, Curcio G, Tricarico M, Ferrara M, Porcù S, Bertini M (1999a) Un Test
di Cancellazione di Lettere (TCL) per valutare le variazioni diurne della
vigilanza: effetti del carico attentivo e della durata del compito. Giornale
Italiano di Psicologia. In stampa.
Casagrande M, Ferrara M, Curcio G, Porcù S (1999b) Assessing night-time vigilance
through a 3-Letter Cancellation Task (3-LCT): effects of a daytime sleep with
temazepam or placebo. Physiology and Behavior. In stampa.
POSTER - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
261
EFFETTI DELLA TURNAZIONE SUL CICLO ATTIVITÀRIPOSO
PierCarla Cicogna{xe "Cicogna PC."}, Vincenzo Natale{xe "Natale V."}, Monica
Martoni{xe "Martoni M."}, Antonella Alzani{xe "Alzani A."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna7
Gli errori nelle prestazioni (ad esempio incidenti stradali, incidenti sul lavoro)
presentano una distribuzione bimodale con un picco maggiore nelle prime ore del
mattino (04-05) ed uno minore nel primo pomeriggio (14-16), vale a dire negli orari di
massima propensione al sonno (Mitler et al., 1988). In condizioni di deprivazione di
sonno (ad esempio lavoro notturno o lavoro a turni) la probabilità di commettere errori
in concomitanza dei due picchi negativi della vigilanza aumenta ulteriormente.
Lo studio delle variazioni dei livelli di vigilanza e sonnolenza è particolarmente
rilevante per il personale turnista sottoposto a variazioni del ciclo attività-riposo, e, in
generale, per tutti gli operatori impegnati in attività lavorative protratte e/o monotone. In
questo contesto rientrano alcuni studi (Luna et al., 1997; Mollard et al., 1997) condotti
su campioni di controllori del traffico aereo volti ad indagare gli effetti della turnazione
sul ciclo veglia-sonno, con particolare riferimento alle variazioni della vigilanza
nell’arco delle 24 ore. Nicoletti et al. (1998) hanno riscontrato un andamento circadiano
della vigilanza che si discosta da quello fisiologico durante i turni di lavoro: viene
sottolineata la capacità degli operatori di mantenere un livello di vigilanza pressoché
costante nell’arco delle 24 ore. Inoltre, l’andamento circadiano della vigilanza
soggettiva dei controllori di volo non sembra neppure influenzato, durante i turni di
lavoro, dalla tipologia circadiana (Cicogna et al., 1998).
Lo scopo di questo lavoro è stato quello di verificare i pattern dei risultati sopra
citati, ottenuti mediante l’impiego di scale di autovalutazione, facendo ricorso a misure
oggettive dei livelli di vigilanza, mediante l’impiego di attigrafi in operatori del traffico
aereo nell’arco delle 24 ore, sia durante il lavoro, sia durante i giorni di riposo. La
registrazione attigrafica ha permesso di valutare gli effetti della turnazione anche nei
giorni di riposo, e inoltre di evidenziare le strategie di coping messe in atto per far fronte
alle richieste imposte dall’attività lavorativa.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 16 soggetti di un aeroporto di medie dimensioni
situato nel Nord dell’Italia. L’età media del campione era 34.00 anni, con un intervallo
di variazione compreso tra 22 e 49 anni. I controllori erano impegnati in un sistema di
turnazione ultrarapido (super rapid rotation), all’indietro (backward rotation):
pomeriggio (13:00-20:00), mattino (7:00-13:00), notte (20:00-7:00), 3 giorni di riposo.
Ad ogni controllore si chiedeva di indossare un attigrafo (frequenza di
campionamento: 60 secondi) in modo continuo per 6 giorni. L’analisi dei dati attigrafici
è stata condotta con 2 diversi programmi di software: Action3 e Action-W. L’utilizzo
del software Action3 ha permesso di scomporre la registrazione attigrafica delle 24 ore
in intervalli di 2 ore, e di calcolare l’attività media del soggetto in corrispondenza di
7
Ricerca eseguita con il contributo MURST ex 40% ‘97
262
POSTER - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
questi intervalli. Action-W ha consentito di identificare degli intervalli “up” (alta attività
motoria o veglia) e degli intervalli “down” (bassa attività motoria o sonno) nell’arco
delle 24 ore. Per determinare la tipologia circadiana è stata utilizzata la versione italiana
del Morningness-Eveningness Questionnaire (Horne e Östberg, 1976): 4 soggetti sono
risultati mattutini, 10 intermedi e 2 serotini.
Risultati
Per ciascun turno l’indice di “attività media” è stato sottoposto a un’analisi
della varianza a due fattori (within): ora del giorno (a 4 livelli per il turno del mattino e
del pomeriggio, a 5 livelli per il turno di notte) e condizione lavorativa (a 2 livelli,
lavoro e riposo). Il fattore ora del giorno è risultato significativo nel turno del mattino
(F3,36=14.31; p<.01) e della notte (F4,40=27.86; p<.01). L’interazione fra il fattore ora
del giorno e condizione lavorativa è risultata significativa sia nell’intervallo tra le 7:00 e
le 13:00 (F3,36=11.45; p<.01), che nell’intervallo tra le 13:00 e le 20:00 (F3,36=2.58;
p=.06). In particolare le analisi post hoc (test di Scheffè) mostrano come alle ore 7:00
l’attività media sia significativamente maggiore se i soggetti lavorano, rispetto a quando
sono a riposo (p<.01). Per quanto riguarda l’intervallo tra le 13:00 e le 20:00, si può
rilevare come solamente durante i giorni di riposo, tra le 13:00 e le 15:00, risulti
evidente un calo fisiologico di attività.
Per quanto riguarda i dati ricavati con Action-W, è risultato significativamente
diverso il momento di occorrenza del primo intervallo “down” (bassa attività motoria o
sonno) dopo il turno di notte [chi-Sqr (N=10; df=2)=6.80; p=.05]. Mentre i soggetti
serotini recuperano il sonno poco dopo la fine del turno, i soggetti mattutini aspettano
invece la notte successiva.
Conclusioni
I dati ottenuti con misure oggettive confermano quelli ottenuti mediante
l’impiego di scale di autovalutazione. In altre parole risulta confermato un andamento
circadiano della vigilanza che si discosta da quello fisiologico durante i turni di lavoro.
Questo risultato potrebbe essere attribuito al tipo di lavoro, caratterizzato da un alto
grado di responsabilità e per questo altamente attivante. È però interessante notare come
durante i giorni di riposo riemerga l’andamento fisiologico della vigilanza nelle 24 ore,
differenziato per tipologia circadiana. In particolare i tipi serotini confermano una
maggiore flessibilità del ciclo veglia/sonno.
Riferimenti bibliografici
Cicogna P.C., Nicoletti R., Alzani A., Iani C., & Natale V. (1998). Livelli di vigilanza
soggettiva e tipologia circadiana nel controllo del traffico aereo. 6° Convegno
Nazionale della Società Italiana di Cronobiologia, 27-28 novembre,
Chianciano: 87.
Horne J., & Östberg O. (1976). A self-assessment questionnaire to determine
morningness-eveningness in human circadian rhythms. International Journal
of Chronobiology, 4, 97-110.
Luna T.D., French J., & Mitcha J.L. (1997). A study of USAF air traffic controller
shiftwork: sleep, fatigue, activity and mood analyses. Aviation, Space, and
Environmental Medicine, 68, 18-23.
POSTER - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
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Mitler M.M., Carskadon M.A., Czeisler C.A., Dement W.C., Dinges D.F., & Graeber
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11, 1, 100-109.
Mollard R., Bougrine S., Cabon P., Cointot B., & Martel A. (1997). Analysis of sleep,
sleepiness and fatigue of air traffic controllers working with different work
schedules. Chronobiology International, 14, Supplement 1, 117.
Nicoletti R., Alzani A., Depolo M., Iani C., & Scozzari V. (1998). Livelli di vigilanza
nel controllo del traffico aereo. AIP, Congresso Nazionale della Sezione di
Psicologia Sperimentale, 28-30 settembre, Firenze: 200-202.
PRESUPPOSTI MOTIVAZIONALI DELLE REAZIONI
PSICOFISIOLOGICHE ASSOCIATE AL PROCESSAMENTO DI
IMMAGINI SPIACEVOLI
Daniela Palomba{xe "Palomba D."}, Giulia Buodo{xe "Buodo G."}, Michela
Sarlo{xe "Sarlo M."}*
Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
*Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di
Padova
Numerose ricerche hanno messo in evidenza che stimoli spiacevoli o
minacciosi per l’individuo producono una risposta psicofisiologica definita come
“reazione di difesa”, caratterizzata da un aumento dell’attività cardiaca e dell’afflusso
sanguigno ai muscoli e funzionale a preparare l’organismo all’attacco o alla fuga.
Accanto alla reazione di difesa è stato osservato un diverso pattern di risposte,
caratterizzato da decelerazione cardiaca, decremento dell’attività motoria e
vasocostrizione muscolare. È stato ipotizzato che la funzione di questo insieme di
risposte sia quella di aumentare la disponibilità di risorse attentive verso lo stimolo
aversivo, dal momento che la decelerazione cardiaca faciliterebbe l’elaborazione
centrale delle informazioni sensoriali in entrata.
Diversi studi hanno evidenziato che alcune classi di stimoli emotigeni
spiacevoli, presentati visivamente, producono una marcata decelerazione cardiaca. In
particolare, immagini raffiguranti sangue o ferite aperte inducono una decelerazione
cardiaca maggiore rispetto ad altri contenuti aversivi, quali situazioni di minaccia,
aggressione ecc. (Angrilli et al., 1994). Utilizzando stimoli filmici, la più ampia
decelerazione cardiaca osservata per immagini di ferite o sangue era anche associata ad
una maggiore inibizione del riflesso di ammiccamento (indice di maggiore impegno
attentivo), confermando l’ipotesi di una associazione tra decelerazione cardiaca e
aumentato processamento dello stimolo (Palomba et al., 1995). Le modificazioni
fisiologiche, assieme a quelle attentive, metterebbero quindi in luce le disposizioni
motivazionali che modulano il processamento di particolari classi di stimoli aversivi.
Questi quesiti sono stati affrontati in fasi successive di ricerca. In uno primo
studio abbiamo selezionato 15 diapositive raffiguranti due classi di stimoli a contenuto
264
POSTER - PSICOLOGIA FISIOLOGICA
emotigeno aversivo (minaccia/attacco e ferite/sangue), confrontate con immagini neutre
(oggetti domestici), e le abbiamo presentate a 46 soggetti registrando le modificazioni
vegetative prodotte (conduttanza cutanea, frequenza cardiaca, tono vagale e pressione
arteriosa). I risultati hanno confermato che la decelerazione cardiaca è consistentemente
maggiore per gli stimoli raffiguranti ferite o sangue, ma hanno anche evidenziato che
questi stimoli producono la maggior attivazione simpatica (conduttanza cutanea) e sono
più sensibili alla modulazione del tono vagale (RSA). Le due diverse situazioni
spiacevoli producono quindi due pattern psicofisiologici distinti di cui quello che si
osserva di fronte a stimoli raffiguranti ferite o sangue, pur estremamente attivante
(maggior incremento di conduttanza cutanea), sembra poco funzionale ad una risposta
comportamentale di fuga e più indicativo di una persistenza nell’elaborazione dello
stimolo.
In una seconda fase dello studio abbiamo quindi utilizzato una misura più
diretta di allocazione delle risorse attentive: i tempi di reazione in un paradigma del
doppio compito durante la visione di immagini appartenenti alle stesse classi emotigene
spiacevoli (in numero di 8 per classe). Abbiamo anche valutato la memoria delle
immagini come indice del processo di elaborazione degli stimoli. In linea con i risultati
precedenti si ipotizzava che la categoria “sangue/ferite” avrebbe ottenuto tempi di
reazione più lenti, avrebbe prodotto il ricordo di un maggior numero di item rispetto alla
categoria “minacce” e che tale effetto potesse essere modulato dal tono vagale. I risultati
hanno mostrato tempi di reazione significativamente maggiori per le immagini di
ferite/sangue, rispetto sia alle situazioni di minaccia che neutre. Le immagini
raffiguranti sangue o ferite venivano anche ricordate meglio confermando un privilegio
nella loro elaborazione rispetto alle situazioni di minaccia.
In un’ultima fase, abbiamo voluto indagare se tale meccanismo di
processamento per stimoli aversivi potesse essere influenzato dal livello d’ansia
individuale. È noto infatti che l’ansia costituisce uno stato motivazionale che tende a
favorire l’elaborazione di stimoli spiacevoli, ma non è chiaro se tale aspetto sia selettivo
per alcune classi di stimoli o indifferenziato. Abbiamo pertanto individuato tra i 49
soggetti partecipanti allo studio, in base ai punteggi ottenuti allo STAI per l’ansia di
tratto, 12 soggetti con alta (al di sopra del 75° percentile) e 13 con bassa ansia (al di
sotto del 25° percentile). I soggetti ad alta ansia producono tempi di reazione più lenti,
rispetto ai soggetti a bassa ansia, solo per la categoria mutilazioni, mentre non è
significativa la differenza tra i due gruppi di fronte agli stimoli di minaccia o neutri.
Ancora una volta si dimostra peculiare e selettiva l’elaborazione di stimoli raffiguranti
sangue o ferite.
Riferimenti bibliografici
Angrilli, A., Palomba, D. e Stegagno, L. (1994). Modulazione psicofisiologica delle
emozioni indotte da stimoli visivi. Giornale Italiano di Psicologia, XXI (5),
833-856.
Palomba, D. Mini, A. e Sarlo, M. (1995). Risposte emozionali a stimoli visivi
spiacevoli: fattori psicofisiologici di mediazione. Riassunti I Congresso
Nazionale della Divisione AIP Ricerca di Base in Psicologia, Rivista di
Psicologia, LXXX (1), 115-116.
POSTER - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
265
RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
MANCATA CONFERMA DELL’EFFETTO DISGIUNZIONE
NELLE SCELTE IN CONDIZIONE DI INCERTEZZA
Maria Bagassi{xe "Bagassi M."}, Maria Grazia Serafini{xe "Serafini M.G."},
Laura Macchi{xe "Macchi L."}, Giuseppe Mosconi{xe "Mosconi G."}
Dipartimento di Psicologia, Facoltà di Psicologia, Università degli Studi di MilanoBicocca
Tversky e Shafir (1992) sottoposero a tre gruppi di soggetti, in un disegno
sperimentale between-subjects, il problema “Vacanze” e il problema “Scommessa”
formulati per lo studio dei processi decisionali in condizione di incertezza.
Oggetto di analisi della presente ricerca è solo il secondo, essendo stato il
primo già da noi analizzato in due ricerche, presentate in recenti Congressi di Psicologia
Sperimentale (Cesena, 1995; Capri, 1997).
T. e S. chiedevano ai Ss. del problema “Scommessa” di decidere se accettare o
no una scommessa alle stesse condizioni di una appena fatta sapendo, rispetto alla
precedente, a) di aver vinto $ 200 (vers. WON), b) di aver perso $100 (vers. LOST), c)
non sapendo se si è vinto o perso (vers. DISJUNCTIVE). Mentre più della metà dei Ss.
accetta di fare una scommessa, quando è noto l’esito della prima, solo poco più di un
terzo accetta di scommettere ancora, quando non sa se la prima volta ha vinto o ha
perso. Secondo gli autori, i Ss. violano il Principio della cosa sicura di Savage. Essi
spiegano così il fenomeno (disjunction effect ): in condizione di incertezza “viene a
mancare una chiara ragione per giocare una seconda volta e diventa più difficile
considerare le implicazioni di ciascun risultato”.
A nostro parere, invece, responsabile dell’effetto è il testo stesso della versione
disgiuntiva utilizzato dagli autori, malformato da un punto di vista psicoretorico.
Precisamente, il dire “ La moneta è stata lanciata, ma non saprai se hai vinto o perso
finché non avrai deciso se accettare o rifiutare una seconda scommessa alle stesse
condizioni “ induce la decodificazione errata che si gioca una seconda volta per sapere
come è andata la prima, trasformando lo scopo della seconda scommessa da giocare per
vincere (ancora o per rifarsi della perdita), in giocare per sapere. Tale interpretazione
parrebbe ottenere conferma da un esperimento nel quale abbiamo sottoposto a quattro
gruppi di Ss. le tre versioni di T. e S. e una vers. Disg. “depurata”, in cui la scelta di
giocare non è finalizzata alla conoscenza dell’esito della prima scommessa: “ La moneta
è stata lanciata, ma non sai se hai vinto o perso. Ora, puoi giocare una seconda volta
alle stesse condizioni”. Il 60% dei Ss. accetta la seconda scommessa sia nella vers.
WON, sia nella versione Disg. “depurata”, rispetto al 41% della vers. Disg. di controllo,
senza distinzione, quindi, tra la situazione di conoscenza dell’esito della prima
scommessa e quella di incertezza.
Come già avevamo rilevato con il problema “Vacanze” (Mosconi et al., 1995),
anche con il problema “Scommessa” si assiste alla scomparsa dell’effetto disgiunzione e
di una qualsivoglia violazione del principio della cosa sicura, a condizione che il
266
POSTER - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
problema non si trasformi da “giocare per vincere” in un oneroso “giocare per sapere”.
Contrariamente a quanto sostengono T. e S., “l’incertezza relativa alla prima
scommessa” non “rende più difficile considerare le implicazioni di ogni esito”. A nostro
parere, l’incertezza non riguarda la decisione in sé, ma solo la possibile giustificazione
della decisione.
Abbiamo così sottoposto ad altri tre gruppi di Ss. le tre versioni WON LOST e
Disg. “depurata”, in ognuna delle quali i Ss. potevano scegliere tra: a) accettare, b)
rifiutare e c) pensarci e rimandare la decisione a domani [solo per la versione
Disg.:(quando ti sarà reso noto l’esito della prima scommessa)]. Nessun soggetto
rimanda la decisione con le versioni WON e LOST, mentre la rimanda il 45% dei
soggetti della vers. Disg., creando così un fittizio effetto disgiunzione.
Secondo la nostra interpretazione, ciò è dovuto alla normale impossibilità di
attivare congiuntamente, in vista della giustificazione, due principi comportamentali
incompatibili (“ restare in vantaggio” in caso di vincita, “ uscire dal rosso” in caso di
perdita); cosicché i Ss., in situazione di incertezza, se hanno la possibilità di rimandare
la decisione a quando sapranno come giustificarla, scelgono di rimandare; se, invece,
sono costretti a scegliere, scelgono di giocare.
Riferimenti bibliografici
Mosconi, G. (1990). Discorso e pensiero, Il Mulino, Bologna, capp. IV e X.
Mosconi, G. Bagassi, M. Macchi L.(1995).Effetto Disgiunzione: Ragioni poco chiare o
ragioni incompatibili?, Ricerca di Base in Psicologia. Congresso Nazionale,
Cesena.
Mosconi, G. Bagassi, M., Macchi L. e Serafini M.G. (1997). Mancata conferma
dell’effetto disgiunzione nelle scelte in condizione di incertezza. Ricerca di
Base in Psicologia. Congresso Nazionale, Capri.
Shafir, E.(1994). Uncertainty and the difficulty of thinking through disjunctions,
Cognition, 50, 403-430.
Tversky, A. Shafir, E. (1992). The disjunction effect in choice under uncertainty,
Psychological Science, 3, 5, 305-309.
L’EFFETTO CONTESTO LEGATO ALLA POSTURA DEL
CORPO
Alessia Cadamuro{xe "Cadamuro A."}, Fiorella Giusberti{xe "Giusberti F."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Introduzione
In letteratura, ormai da diversi anni, si è giunti alla conclusione che il materiale
appreso in un particolare ambiente è difficile da rievocare quando il contesto è
completamente diverso.
In uno studio condotto da Godden e Baddeley (1975) venivano fatte apprendere
a subacquei delle liste di parole in 2 situazioni diverse: sulla spiaggia o in immersione,
ed era di seguito chiesta la rievocazione nella stessa situazione di apprendimento o in
POSTER - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
267
quella alternativa. La ricerca ha evidenziato un chiaro effetto di dipendenza del
contesto: nella situazione in cui imparavano la lista in una condizione ambientale e la
rievocavano nella situazione opposta i soggetti ricordavano il 40% in meno rispetto a
quando la fase di apprendimento e di rievocazione erano effettuate nello stesso contesto
ambientale.
Usando lo stesso schema sperimentale Goodwin et al. (1969) studiarono gli
effetti dell’alcool sulle prestazioni di memoria: ciò che i soggetti imparavano sotto
l’effetto dell’alcool veniva ricordato meglio nella medesima situazione, cioè quando si
trovavano in stato di ebbrezza, che non quando erano sobri.
Un altro effetto ampiamente riconosciuto è quello della “specificità di codifica”
(Tulving 1978), secondo cui gli stimoli presenti al momento in cui si sta apprendendo
qualcosa tendono ad essere dei buoni facilitatori o indici di richiamo di ciò che deve
essere rievocato.
Il fatto che degli stimoli contigui o accoppiati ripetutamente costituiscono l’uno
un buon indice di richiamo dell’altro spiega il fenomeno dell’apprendimento dipendente
dalla situazione: ciò che viene appreso in un particolare ambiente o in una particolare
condizione fisiologica tende ad essere ricordato meglio nello stesso ambiente o nella
stessa condizione. Per Reed (1988) il sopracitato effetto dà ragione del fatto che i
soggetti possono fornire una prestazione migliore se vengono “calati” in un contesto il
più vicino e simile possibile a quello di acquisizione; è come se fosse difficile compiere
un trasferimento di comportamenti cognitivi e motori da un contesto ad un altro.
La nostra intenzione era, dunque, quella di appurare se questo effetto, legato al
contesto di apprendimento, fosse riscontrabile anche nel caso si faccia apprendere il
materiale al soggetto in certe posture del corpo, per poi testarlo nella stessa posizione o
in una alternativa (seduto vs. coricato).
Metodo
Hanno preso parte all’esperimento 20 studenti universitari che sono stati
sottoposti a 2 sessioni sperimentali, ad una settimana di distanza. Il compito consisteva
nell’apprendere una serie di figure omogenee per difficoltà, frequenza d’uso e
nominabilità, tratte da una lista standardizzata (Snodgrass e Vanderwart, 1980).
Metà dei soggetti sperimentali apprendevano la lista da seduti, l’altra metà da
coricati. Tutti comunque rievocavano la lista di figure da seduti e da coricati. Durante la
prima sessione facevamo apprendere al soggetto la prima lista di figure in una postura e,
dopo un compito matematico interferente, chiedevamo la rievocazione libera nella
stessa postura o in quella alternativa. Nella seconda sessione facevamo apprendere una
seconda lista di figure, analoga alla prima, e ne chiedevamo, poi ai soggetti, la
rievocazione nella posizione opposta a quella in cui era stata rievocata durante la prima
sessione sperimentale.
In questo modo era possibile effettuare per ciascun soggetto un confronto
qualitativo tra la rievocazione prodotta nella postura analoga a quella
dell’apprendimento e in quella opposta (seduta/coricata).
Risultati
I dati raccolti sono ancora in fase di elaborazione.
268
POSTER - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
Riferimenti bibliografici
Godden D., Baddeley A. D. (1975). Context-dependent memory in two natural
environments: On land and under water. British Journal of Psychology, (71)
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Goodwin D. W., Powell B., Bremer D., Hoine H., Stern J. (1969). Alcohol and recall:
State dependent effects effects in man. Science, (163), 1358.
Reed H, Jayne A, Eugene S. (1986). Shared and item-specific information in memory
for event descriptions. Memory-and-Cognition. (14) 49-54.
Snodgrass J. G., Vanderwart N. (1980). A standardized set of 260 pictures: norms for
name agreement, image agreement, familiarity and visual complexity. Journal
of Experimental Psychology, (6), 174-215.
Tulving E. (1978). Relation between encoding specificity and levels of processing and
human memory. A cura di Cermak L. S. e Craick F. I. M., Hillsdale, Erlbaum.
IL METAPHORIC TRIADS TASK DI KOGAN: IL RUOLO
DELLE ETICHETTE VERBALI NELLA COMPRENSIONE
DELLE METAFORE VISIVE
Marco Papotti{xe "Papotti M."}, Dolores Rollo{xe "Rollo D."}, Silvia Perini{xe
"Perini S."}
Istituto di Psicologia, Università degli Studi di Parma
Introduzione
La metafora può essere espressa in diverse forme, alcune delle quali sembrano
di più facile comprensione rispetto alle altre; una prima grande distinzione riguarda il
tipo di input linguistico e nonlinguistico (Vosniadou, 1984). La letteratura recente è
ormai concorde nell’affermare che sia i bambini che gli adulti sono più sensibili ad
elaborare input di tipi visivo che non verbali. Le potenzialità in questo campo offerte
dall’utilizzo di misure nonverbali furono colte da alcuni autori (Kogan, Chadrow, 1986),
che discostandosi da un ambito puramente linguistico, contribuirono alla definizione di
metafora in termini di concettualizzazione. Kogan et al. (1980), misero a punto un
compito sperimentale costituito da 29 triadi di disegni, suddivise in due set equivalenti
per complessità (metafore percettive e concettuali) denominato Metaphoric Triads Task
(MTT). Tra i maggiori pregi dell’MTT ricordiamo la facilità con il quale può essere
somministrato anche a gruppi di soggetti, la semplicità della consegna, le diverse
possibilità di utilizzo rispetto alle diverse dimensioni della metafora.
D’altra parte, in coerenza con una linea teorica ecologico-funzionale, la
metafora viene spiegata come un’estensione categoriale, e cioè come la capacità di
applicare l’etichetta verbale convenzionalmente attribuita ad una specifica classe di
oggetti/eventi agli elementi di un’altra classe-stimolo, in virtù di una o più somiglianze
percettive e/o funzionali tra gli oggetti o eventi. E anche questa capacità, come la
concettualizzazione di base, trae vantaggio dalla presenza di stimoli linguistici
aggiuntivi (Perini, Rollo, 1997).
POSTER - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
269
Scopo
Il presente lavoro si propone di offrire un ulteriore apporto allo studio della
metafora nella sua duplice dimensione, linguisitco-cognitivo e funzionale. In
particolare, mediante l’utilizzo dell’MTT, si cercherà di mettere in evidenza 1) il ruolo
dell’etichetta verbale e, perciò, il grado di comprensione della metafora in rapporto alla
quantità ed al tipo di suggerimento verbale associato allo stimolo; per questo motivo si
provvederà a diverse modalità di somministrazione: (a) disegni con etichette verbali
associate significativamente ai disegni, (b) disegni senza etichette verbali, (c) disegni
identificati da etichette verbali generiche. 2) Si intende inoltre verificare la relazione tra
modalità di presentazione del materiale e la suddivisione del materiale stesso (items) in
metafore percettive e concettuali in rapporto all’età.
Metodo
Il campione è costituito da 8 gruppi di soggetti di pari età compresi tra i 15 ed i
19 anni.
Il disegno sperimentale è un fattoriale 4 (età) x 3 (tipo di somministrazione) x 2
(set di items) di cui l’ultima variabile a misure ripetute.
Riferimenti bibliografici
Glucksberg, S., (1991). Beyond literal meaning: the psychological of allusion.
Psychological Science, 2, 146-152.
Kogan, N., Chadrow, M., (1986). Children’s comprehension of metaphor in the pictorial
and verbal modality. International Journal of Behavioral Development, 9, 285295.
Kogan, N., Connor, K., Gross, A., Fava, D., (1980). Understanding visual metaphor;
developmental and individual differences. Monographs of the Society for
Research in Child Development, 45,1 Serial n.183.
Rollo, D., Pinelli, M., Pelosi, A. (1997). Interazione linguistica ed organizzazione
concettuale. Studi di Psicologia dell’Educazione, , XVI, 3, 67-83.
Vosniadou, S., (1987). Children and Metaphors. Child Development, 58, 870-885.
Winner, E., (1988). The points of words. Cambridge, Harvard University Press,
Massachussetts.
IDENTIFICAZIONE DELLE CARATTERISTICHE DELLA
SINDROME NON VERBALE IN ALUNNI CON DISABILITÀ
MATEMATICHE
Maria Chiara Passolunghi{xe "Passolunghi M.C.ù"}*, Linda Siegel{xe "Siegel
L."} **
* Università di Trieste, Facoltà di Psicologia
** University of British Columbia, Canada
270
POSTER - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
Alcune caratteristiche della Sindrome Non Verbale, identificata da Rourke
(1988, 1989, 1995), sono: deficit di tipo visuo spaziale, difficoltà nella coordinazione
percettivo-motoria e difficoltà di problem solving non verbale. Gli studi su tale
problematica sono però ancora scarsamente sistematici e non vi è ancora una chiara ed
univoca definizione di questa sindrome (cfr. Semrud-Clikerman & Hynd, 1990).
Scopo di questa ricerca è quello di esaminare le abilità cognitive di soggetti con
deficit nell’area matematica (calcolo e/o soluzione di problemi) prendendo in particolare
in esame le abilità di memoria verbale e visiva e le abilità di tipo visuo-spaziale. Si è
voluto verificare se i soggetti con deficit nell’area matematica presentino, e in che
misura, oltre a difficoltà relative alla memoria di lavoro verbale (cfr. Passolunghi,
Cornoldi, De Liberto, in press), anche deficit nell’ambito della memoria di lavoro visiva
e delle abilità visuo-spaziali.
Sono stati esaminati alunni frequentanti la seconda classe della scuola media,
ripartiti in due gruppi: gruppo DA (alunni con disabilità nell’area matematica) e gruppo
di controllo. La selezione è avvenuta a seguito di un screeening su 150 alunni.
I risultati hanno messo in luce una prestazione carente dei DA sia nei compiti
relativi alla memoria di lavoro verbale e spaziale, sia nel caso di prove che richiedono
una abilità di imagery e rappresentazione visuo-spaziale.
Riferimento bibliografici
Passolunghi, M.C., Cornoldi, C., De Liberto, S. (in press). Working memory and
inhibition of irrelevant information in poor problem solvers, Memory and
Cognition.
Rourke, B.P. (1988).Socio-emotional disturbancies of learning disabled children.
Journal of Consulting and Clinical Psychology, 56, 801-810.
Rourke, B.P. (1989). Non verbal learning disabilities: the sindrome and the model. New
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Rourke, B.P. (1995). Syndrome of nonverbal learning disabilities: neurodevelopmental
manifestations. New York: The Guilford Press.
Semrud-Clikerman, M., Hynd, G.W. (1990). Right hemispheric disfunction in
nonverbal learning disabilities: social, academic, and adaptive functioning in
adults and children, Psychological Bullettin, 197, 2, 196-209.
PSICOLOGIA DEL PENSIERO: PROBLEM SOLVING E
RAGIONAMETO
Maria Grazia Serafini{xe "Serafini M.G."}, Maria Bagassi{xe "Bagassi M."},
Laura Macchi{xe "Macchi L."}, Giuseppe Mosconi{xe "Mosconi G."}
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Questa comunicazione fa seguito a quella presentata lo scorso anno che
sottolineava come la scomparsa del Problem solving dalle aree tematiche proposte per il
Congresso fosse non giustificata e fuorviante o, quanto meno, necessitasse di una
preliminare discussione che ne desse conto.
POSTER - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
271
Temi quali il ruolo del Problem Solving nella Psicologia del pensiero, il
rapporto tra Problem Solving e Ragionamento, la peculiarità della ricerca sul
Ragionamento, la profonda trasformazione della Psicologia del pensiero derivante dal
trascurare il contributo del Problem Solving rimangono argomenti di oggettiva rilevanza
teorica che non possono essere dati per risolti senza un approfondimento critico.
(Mosconi 97, Mosconi et al. 1998)
Basta considerare le differenze, rilevate dall’intervento dello scorso anno, tra il
costrutto di euristica come concepito nelle ricerche sul Problem Solving (Polya,
Dunker, Newell e Simon) e come concepito in quelle sul Ragionamento (da Wason a
Kahneman e Tversky), o i problemi lasciati aperti sugli insight-problems, (Kaplan e
Simon, Sternberg) per constatare che l’argomento non possa essere archiviato.
Ferme restando le argomentazioni già indicate, ora ci proponiamo di verificare
se la riduzione di quest’area a Ragionamento e Immagini mentali risponda almeno di
fatto ad una tendenza o ad una linea presente nella letteratura internazionale.
Abbiamo utilizzato come banca dati bibliografica PsycLIT, in quanto garantiva
per la letteratura psicologica autorevolezza e la più ampia copertura. La ricerca è stata
impostata in modo tale da garantire la massima omogeneità tra i termini trattati: si è
tenuto conto dei records apparsi nelle stesse aree tematiche prese negli ultimi dieci anni.
I dati sono stati aggiornati al giorno 13. 5. 1999; la chiave di entrata alla ricerca era
problem solving e reasoning trattate separatamente e performate ambedue alla ricerca
su: titolo, abstracts, indice se trattasi di volume ed identificatori di ricerca, con la
limitazione sul periodo dal 1989 al 1999. La caratteristica del primo dato esaminato è
quella di riferirsi alle ricerche dei diversi settori della psicologia. Il secondo dato, che ci
interessa più da vicino, si riferisce invece alla letteratura riguardante i processi cognitivi
nell’ambito della psicologia sperimentale umana contraddistinta dal codice di
classificazione del sistema n. 2340.
chiavi di ricerca
problem solving
reasoning
nn. records presenti dagli anni
1989-99
7339
4903
records presenti con la limi
c.c 2340
906
961
La prima considerazione che si può fare è quella di prendere atto che la ricerca
psicologica, almeno quantitativamente, continua a considerare questi due temi di
ricerca, Problem Solving e Reasoning, come due argomenti ugualmente degni di
attenzione. Se vogliamo considerare i risultati della ricerca riguardante le immagini
mentali (mental imagery) notiamo un notevole sviluppo di questo argomento (439
records). Tuttavia, se introduciamo la limitazione al campo dei processi cognitivi,
analogamente a quanto è stato fatto con problem solving e reasoning, si manifesta la
particolarità e specificità dell’argomento in corrispondenza del numero dei records: solo
97.
La nostra ricerca ha anche evidenziato la stabilità quantitativa nel decennio
della letteratura sul problem solving mentre permette di registrare una tendenza
all’aumento delle ricerche, riferite sempre a questi ultimi dieci anni, sul Ragionamento.
Riferimenti bibliografici
272
POSTER - RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI
Dunker, K. (1935), Zur Psychologie des produktive Denkens, Berlin, Denkens Springer;
trad. it. La psicologia del pensiero produttivo, Giunti-Barbera. Firenze, 1969.
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cura di), Thinking and reasoning. Rutledge e Kegan P., London.
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
273
STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
VALIDAZIONE CON CRITERI ESTERNI DELLA COMPOSITE
SCALE OF MORNINGNESS
Antonella Alzani{xe "Alzani A."}, Monica Martoni{xe "Martoni M."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Uno degli obiettivi della cronopsicologia consiste nel tentare di far luce
sull’organizzazione dei ritmi delle funzioni psicologiche, sulla loro interazione con i
ritmi biologici e sociali e nell’individuare strategie atte a ottimizzare l’organizzazione
ritmica del comportamento (Cicogna e Natale, 1997). Attualmente le differenze
individuali nell’organizzazione circadiana del ciclo attività-riposo costituiscono un
problema centrale della cronopsicologia. La distinzione in cronotipi (mattutini,
intermedi e serotini) suggerisce profili differenziati in relazione alla capacità di
adattamento e di tolleranza a modificazioni del ciclo veglia-sonno. Si ritiene che i
soggetti serotini si adattino più facilmente a cambiamenti del ritmo veglia-sonno
(Honma, Ishihara e Miyake, 1992) e, conseguentemente, ad attività lavorative che
prevedano regimi di turnazione (per una rassegna v. Härmä, 1993).
A causa delle evidenti ricadute applicative di questo settore di studio, è
risultato utile mettere a punto misure di facile impiego atte a classificare gli individui in
base alla tipologia circadiana. Nel tentativo di mettere a punto una misura che offrisse
maggiori garanzie in termini di affidabilità e di validità, Smith, Reilly e Midkiff (1989)
hanno pubblicato la Composite Scale of Morningness (CS). Questo questionario prende
il suo nome dal fatto che discende da un’accurata analisi di tre precedenti questionari e
deriva da una selezione dei “migliori” item tratti da questi.
Un problema, di tipo operativo, probabilmente ha limitato fino ad ora la
diffusione di questo strumento. Il problema è legato ai criteri di cut-off (10° e 90°
percentile) che ne limita l’uso per piccoli gruppi o individuale. Per eliminare questo
problema, Alzani e Natale (1998) hanno recentemente suggerito di adottare dei valori
fissi di cut-off indipendenti dal campione. I risultati ottenuti somministrando il
questionario a due differenti campioni, studenti universitari e lavoratori a turni diurni,
hanno confortato l’adozione di questi nuovi criteri. Lo scopo di questo lavoro è di
verificare la validità dei nuovi criteri di cut-off indipendenti dal campione utilizzando
criteri esterni, quali la temperatura corporea e i livelli di vigilanza. Questo permetterà di
ricavare anche una validazione con criteri esterni (indici psicofisiologici) della
Composite Scale. Si è preferito utilizzare una popolazione di studenti universitari in
quanto più liberi di seguire i propri ritmi perché meno vincolati ai ritmi sociali.
Metodo
Hanno partecipato all’esperimento 45 soggetti retribuiti, studenti universitari,
15 maschi e 30 femmine, di età compresa tra i 20 e i 27 anni. I soggetti dovevano
presentarsi in laboratorio alle ore 08:00, 14:00 e 23:00. Dieci minuti dopo il loro arrivo
274
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
veniva registrata, con un termometro digitale posto nel cavo ascellare (Adan, 1991), la
temperatura corporea e, con una scala visuo-analogica (la Global Vigor-Affect Scale GVA) (Monk, 1989), il livello soggettivo di vigilanza e del tono dell’umore. L’ora di
inizio è stata bilanciata. Nell’intervallo tra ogni sessione i soggetti erano liberi di
lasciare il laboratorio e svolgere le consuete attività. Al termine dell’ultima sessione
sperimentale i soggetti hanno compilato la versione italiana della Composite Scale of
Morningness (Alzani e Natale, 1998). In base al punteggio ottenuto i soggetti sono stati
assegnati, utilizzando i nuovi criteri di cut-off (13-26 serotini; 27-41 intermedi; 42-55
mattutini), ad uno dei tre gruppi: mattutini (n=4), intermedi (n=32) e serotini (n=9). Per
tutti e tre gli indici raccolti (temperatura, vigilanza soggettiva e tono dell’umore) i dati
sono stati trasformati in punteggi z per ciascun soggetto. Sui dati così trasformati è stata
poi effettuata un’analisi della varianza a due fattori: tipologia circadiana (a tre livelli:
mattutino, intermedio, serotino) (between) e ora del giorno (a tre livelli: 08:00, 14:00 e
23:00) (within).
Risultati
Per quanto riguarda la temperatura corporea il fattore ora del giorno è risultato
significativo (F2,84=3.60; p<.05). Per tutte e tre le tipologie i valori più bassi della
temperatura corporea si osservano alle ore 08:00. L’ampiezza, cioè l’intervallo tra il
valore minimo e massimo, risulta progressivamente maggiore dalla tipologia mattutina
alla tipologia serotina (.31°C per i mattutini, .39°C per gli intermedi e .44°C per i
serotini).
Per quanto riguarda la vigilanza soggettiva il fattore ora del giorno è risultato
significativo (F2,84=6.08; p<.005). Anche l’interazione ora del giorno e tipologia
circadiana è risultata significativa (F4,84=3.97; p<.005). Le curve della vigilanza
soggettiva delle tre tipologie differiscono essenzialmente nell’ora del giorno in cui la
curva raggiunge i valori minimi, alle 23:00 per i mattutini e gli intermedi, alle 08:00 per
i serotini.
Per quanto riguarda il tono dell’umore non si sono osservate variazioni
significative. Per tutte e tre le tipologie si osserva un andamento piuttosto stabile
nell’arco della giornata.
Conclusioni
La scelta del campione si è rivelata buona. Infatti la distribuzione percentuale
dei soggetti nelle tre tipologie (mattutini=8.89%; intermedi=71.11%; serotini=20.00%)
replica quella ottenuta su un campione più vasto (Alzani e Natale, 1998).
Il potere discriminativo della Composite Scale è stato replicato utilizzando
criteri esterni. Inoltre la scelta dei nuovi criteri di cut-off sembra confermarsi corretta. È
possibile concludere che la versione italiana della CS può essere utilmente impiegata
per individuare le tipologie circadiane sia nell’ambito della ricerca sperimentale sia
nell’ambito della psicologia applicata.
Riferimenti bibliografici
Adan A. (1991). Axillary temperature measure as a biological rhythm marker. A diurnal
Study. Medical Science Research, 19, 735-736.
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
275
Alzani A. & Natale V. (1998). Uno strumento per la valutazione delle differenze
individuali nei ritmi circadiani: una versione italiana della Composite Scale of
Morningness. Testing Psicometria Metodologia, 5(1), 19-31.
Cicogna P.C. & Natale V. (1997). Elementi di cronopsicologia. Napoli: Gnocchi.
Härmä M. (1993). Individual differences in tolerance to shiftwork: a review.
Ergonomics, 36, 101-109.
Honma Y., Ishihara K. & Miyake S. (1992). Circadian rhythms of activity in morning
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Psychophysiology, 10 (1), 35-43.
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affect. Psychiatry Research, 27, 89-99.
Smith C.S., Reilly C. & Midkiff K. (1989). Evaluation of three circadian rhythm
questionnaires with suggestions for an improved measure of morningness.
Journal of Applied Psychology, 74 (5), 728-738.
VERIFICA DELLA VALIDITÀ DI COSTRUTTO CON LA
PROCEDURA MULTITRATTO-MULTIMETODO:
CONFRONTO FRA MODALITÀ DIVERSE DI ANALISI DELLA
MATRICE
Giulia Balboni{xe "Balboni G."}, Luigi Pedrabissi{xe "Pedrabissi L."}
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
Introduzione
Fra i vari metodi di verifica della validità di costrutto di un test negli ultimi
anni ha assunto una certa rilevanza la procedura multitratto-multimetodo,
originariamente introdotta da Campbell e Fiske (1959). Secondo tali autori, disponendo
di diverse misure di differenti tratti realizzate con metodi distinti, è possibile rilevare la
validità convergente e discriminante dei metodi utilizzati attraverso molteplici confronti
fra i coefficienti di correlazione ottenuti fra le varie misure considerate. Tale procedura
però presuppone solo un confronto non statistico fra l’intensità dei coefficienti; inoltre
non consente di individuare per ciascuna variabile osservata la porzione di varianza
spiegata dal tratto e quella spiegata dai metodi (Bagozzi, 1978; Widaman, 1985). Per
tali motivi si sono diffuse modalità alternative di analisi della matrice di correlazione,
quale quella proposta da Keith Widaman (1985) e basata sui modelli di equazioni
strutturali (Bagozzi, 1978). Secondo tale procedura la verifica della validità dei metodi
viene realizzata confrontando la bontà di una serie di modelli “raggruppati”, che
presuppongono progressivamente un maggior numero di variabili latenti corrispondenti
a tratti o a metodi.
Con questa indagine si è voluto confrontare le due procedure di analisi
proposte da Campbell e Fiske (C & F; 1959) e da Widaman (W; 1985) relativamente ad
una matrice di correlazioni ottenuta dalla rilevazione dei tre tratti di comportamento
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
276
adattivo “comunicazione”, “autonomie” e “socializzazione”, effettuata con due
differenti scale di misura.
Metodo
Soggetti. Il gruppo campione era costituito da 223 soggetti con diagnosi di
ritardo mentale (RM), di età compresa fra i 5 e i 60 anni; provenivano da varie regioni
italiane, vivevano in famiglia e frequentavano istituti scolastici o laboratori protetti per
soggetti con RM.
Strumenti. I tre tratti di comportamento adattivo “comunicazione”,
“autonomie” e “socializzazione” sono stati rilevati con le corrispondenti scale degli
adattamenti italiani delle Vineland Adaptive Behavior Scales-Expanded Form (VABS;
Sparrow, Balla, & Cicchetti, 1984) e dell’Adaptive Behavior Inventory-Versione Estesa
(ABI; Brown & Leigh, 1987). Entrambi sono strumenti di misura utilizzabili con
soggetti disabili di almeno cinque anni di età e compilabili intervistando una persona
che conosca adeguatamente il soggetto considerato.
Procedura e analisi dei dati. Data la matrice di correlazioni fra le distribuzioni
normalizzate dei punteggi grezzi, si è innanzitutto applicato la procedura di analisi C &
F. In particolare è stato verificato se le scale utilizzate erano contraddistinte da buona
validità convergente, ossia se le correlazioni fra le misure dei medesimi tratti effettuate
mediante metodi diversi erano di intensità elevata. Quindi si è controllato se le scale
erano caratterizzate anche da una buona validità discriminante, ossia se i coefficienti di
correlazione fra le misure degli stessi tratti ottenute con metodi diversi erano superiori ai
corrispondenti coefficienti ottenuti sia fra le misure di tratti distinti ricavate con metodi
diversi sia fra le misure di tratti diversi realizzate con il medesimo metodo. Infine si è
verificata l’assenza del bias del metodo, cioè se le correlazioni fra le misure di tratti
distinti ottenute con un determinato test erano paragonabili alle corrispondenti
correlazioni fra gli stessi tratti valutati con il secondo test.
Seguendo il metodo W è attualmente in corso la valutazione della bontà
statistica dei seguenti modelli :
Struttura dei
TRATTI
1
A
Modello nullo
2
t tratti ortogonali
3
t tratti obliqui
Struttura dei METODI
B
C
m metodi ortogonali
m metodi ob
t tratti ortogonali +
m metodi ortogonali
t tratti obliqui +
m metodi ortogonali
t tratti ortogo
m metodi ob
t tratti obliq
m metodi ob
Individuato il modello che meglio spiega la matrice di correlazioni qui
considerata, si procederà alla verifica della validità rilevando che tale modello sia
migliore, per bontà statistica e pratica (Widaman, 1985), rispetto agli altri considerati.
Nel caso della validità convergente, lo si dovrà confrontare con un altro modello avente
la medesima struttura per i metodi, ma privo di variabili latenti per i tratti (possibili
confronti: 3A vs. 1A; 3B vs. 1B; 3C vs. 1C). Nel caso della validità discriminante lo si
dovrà confrontare con un altro modello avente la medesima struttura per i metodi, ma
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
277
che presuppongono tratti indipendenti (possibili confronti: 3A vs. 2A; 3B vs. 2B; 3C vs.
2C). Per verificare l’assenza di bias del metodo si confronterà il modello considerato
con un altro avente la medesima struttura per i tratti ma privo di variabili latenti per i
metodi (possibili confronti: 3C vs. 3A; 3B vs. 3A).
Risultati e conclusioni
L’analisi secondo la metodologia C & F ha rilevato l’assenza del bias del
metodo ed una buona validità convergente e discriminante per le scale ABI e VABS
della Comunicazione e dell’Autonomia. Quelle della Socializzazione invece, pur avendo
una discreta validità convergente, non soddisfano appieno gli indici di quella
discriminante.
L’analisi della matrice secondo il metodo W è tuttora in corso. I risultati
consentiranno di controllare quanto già emerso, di rilevare se le scale della
Socializzazione presentino effettivamente una validità non soddisfacente e soprattutto
quale dei due test dimostra di essere più preciso nel misurare le varie dimensioni.
Riferimenti bibliografici
Bagozzi, R. (1978). The constructe validity of the affective, behavioral, and cognitive
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ELABORAZIONE DI UN MODELLO PER LO STUDIO DELLA
GELOSIA MORBOSA E COSTRUZIONE DEL RELATIVO
STRUMENTO DI MISURA
Carla Dazzi{xe "Dazzi C."}*, Luigi Pedrabissi{xe "Pedrabissi L."}**, Alberto
Corso{xe "Corso A."}, Francesca Tacconi{xe "Tacconi F."}
*Dipartimento di Psicologia Generale
**Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di
Padova
La gelosia è un’esperienza comune e pressoché ubiquitaria che, in alcuni
soggetti, può assumere connotazioni di tipo patologico. Il termine “morbosa” viene di
solito utilizzato per descrivere queste condizioni anormali o estreme. Nonostante la
278
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
rilevanza dell’argomento, la letteratura su questo tema è scarsa, i dati empirici sono
frammentari e i confini tra “passione amorosa” e patologia rimangono molto labili.
Secondo una recente classificazione proposta da Lorenzi (Lorenzi e Ardito,
1997) nell’ambito della gelosia patologica possiamo individuare tre diverse declinazioni
del fenomeno:
Idea prevalente (Iperestesia gelosa).
Idea ossessiva (gelosia ossessiva).
Idea delirante (gelosia delirante o sindrome di Otello).
Il modello da noi adottato si propone di comprendere le dinamiche della
gelosia morbosa non psicotica.
Definiamo la gelosia morbosa come un complesso emozionale
multidimensionale, collegato al sospetto infondato di potenziali “rivali” e alla paura di
perdere il partner che si manifesta mediante risposte relative ai domini cognitivo,
emotivo e comportamentale (Tarrier, Beckett, Harwood & Bishay, 1990). I sospetti
concernenti la fedeltà del partner non necessitano di un’evidenza attendibile per essere
elicitati e mantenuti, ma nascono da pensieri irrazionali e infondati. La persona che
sperimenta questi pensieri irrazionali reagisce ai pensieri stessi e non alla reale
contingenza dei fatti. Di conseguenza le reazioni che ne derivano possono essere
generalizzati a diverse situazioni, momenti e “rivali”. Quando questo succede le
ruminazioni di gelosia, gli sconvolgimenti emozionali e gli eccessi comportamentali
hanno gravi ripercussioni sulla vita del soggetto e sull’armonia della coppia. Per
contrasto riteniamo che la gelosia normale sia: basata sulla realtà; specifica al partner,
all’evento o al “rivale”; transitoria; inoltre è il comportamento del partner, e non la
gelosia stessa, ad essere visto come problematico.
Lo scopo del presente lavoro è quello di elaborare un modello utile alla
costruzione di uno strumento per l’assessment della gelosia morbosa. La formulazione
che proponiamo è di tipo cognitivo-comportamentale e può essere assimilabile a quella
proposta da Beck negli studi sulla depressione (Beck et al, 1979). Crediamo infatti che i
soggetti in questione, a causa di un’interazione di fattori culturali, esperenziali e di
personalità abbiano sviluppato uno schema cognitivo, basato su assunzioni erronee, che
li porta a compiere distorsioni sistematiche nell’interpretazione degli eventi.
Comportamenti neutrali del partner possono così essere percepiti come una minaccia
alla relazione o come un’evidenza di infedeltà. Questi errori nei processi cognitivi ed
inferenziali portano ad eccessive reazioni emozionali e comportamentali con gravi
ripercussioni sul normale funzionamento dell’individuo e della coppia.
Sulla base di questo approccio (Bishay, Tarrier et al., 1996) abbiamo elaborato
un test multidimensionale costituito da 64 item suddivisi in diverse sezioni. Anche altri
autori (Pfeiffer & Wrong, 1989. Dolan & Bishay, 1996) avevano sottolineato
l’importanza di creare uno strumento in grado di valutare i diversi aspetti cognitivi,
emozionali e comportamentali che caratterizzano il vissuto di gelosia.
Lo strumento è strutturato in quattro sezioni.
Prima sezione
(a) Scala cognitiva (15 item): ai soggetti viene chiesto di valutare, su di una
scala tipo Likert a 4 punti, la frequenza di assunzioni/pensieri erronei concernenti il
comportamento, l’attrattiva sessuale e la minaccia percepita; (b) Scala cognitiva (5
item): valuta la tendenza ad interpretare in maniera distorta 5 brevi situazioni di per se
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
279
neutrali. Il soggetto deve scegliere tra 3 alternative di risposta (interpretazione neutrale,
minaccia percepita, estremi di un pensiero di gelosia)
Seconda sezione
Scala emozionale (18 item): valuta l’intensità delle emozioni sperimentate dal
soggetto di fronte ad un’ipotetica situazione di minaccia alla relazione. Gli item
rilevano, in accordo con quanto sostenuto da Sharpsteen (Sharpsteen, 1993, 1997)
quelle che vengono considerate le 3 emozioni base della gelosia: paura, tristezza e
rabbia.
Terza sezione
Scala comportamentale (17 item): ai soggetti viene chiesto di valutare la
frequenza con cui si manifestano comportamenti investigativi e di conferma,
comportamenti aggressivi contro il partner e/o potenziali “rivali”, comportamenti di
evitamento.
Quarta sezione
Scala che valuta la frequenza con cui le ruminazioni di gelosia si ripercuotono
sulla vita del geloso e sull’armonia della coppia (9 item).
Lo strumento è stato somministrato ad un gruppo pilota che non ha mai ricorso
a consulenze di tipo psicologico o psichiatrico, al fine di verificare la chiarezza e la
comprensibilità (intesa come non equivocità semantica e concettuale) nella
formulazione degli item. Un gruppo di esperti ha valutato, inoltre, la validità di
contenuto dello strumento (Lawshe, 1975).
Il questionario è stato successivamente somministrato ad un adeguato gruppo
campione di normodotati e di soggetti frequentanti centri di consultori, di terapia della
coppia o che semplicemente si erano rivolti a psicoterapeuti privati.
I dati sono stati sottoposti ad analisi fattoriale esplorativa e confermativa
(Lisrel8, Jöreskog e Sörbom, 1993) per verificare la validità di costrutto dello
strumento. L’omogeneità interna alle singole scale di cui è composto è stata controllata
attraverso l’alpha di Crombach.
Ulteriori sviluppi della ricerca sono nella direzione di una taratura italiana dello
strumento e di un suo utilizzo in ambito psicodiagnostico.
Riferimenti bibliografici
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in morbid jealousy. Journal of Cognitive Psychotherapy: An International
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280
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
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Sharpsteen, D.J. & Kirkpatric, L.A. (1997). Romantic jealousy and adult romantic
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Psichiatry, 157, 319-326.
TONO DELL’UMORE E STRUMENTI PSICOMETRICI
IN PSICOLOGIA DELLA MATERNITÀ
Pietro Grussu{xe "Grussu P."}, Rosa Maria Quatraro{xe "Quatraro R.M."},
Maria Teresa Nasta{xe "Nasta M.T."}, Mariapia Sichel{xe "Sichel M."}, Ruggero
Cerutti{xe "Cerutti R."}
Istituto di Ginecologia e Ostetricia, Università di Padova
La gravidanza, il parto e il puerperio costituiscono un esempio interessante di
fase di transizione del ciclo di vita femminile e la nascita di un figlio, soprattutto quando
si ha a che fare con la prima gravidanza, favorisce in ciascuna donna una moltitudine di
cambiamenti psicologici, biologici e sociali (Rutter e Rutter, 1992; Matlin, 1987).
Tale fase di transizione si caratterizza per le numerose relazioni esistenti tra
alcuni aspetti psicologici rilevati in gravidanza e la successiva condizione psicologica e
somatica presente dopo il parto (Grussu, Sichel, Nasta, Lorio e Cerutti, 1996; Grussu,
Nasta, Quatraro, Geninatti Neni e Cerutti, 1997). Oltre alla rilevazione della
sintomatologia gravidica di tipo ansioso e depressivo, che sono aspetti in prevalenza
legati a condizioni di sofferenza psicologica, solo recentemente si è cercato di
individuare degli strumenti psicometrici che permettano di studiare e valutare le
emozioni in gravidanza e dopo il parto attraverso l’analisi degli aspetti soggettivi legati
a sensazioni, affetti e umori. Individuando come strumento psicometrico il Profile of
Mood States POMS (McNair, Lorr e Droppleman, 1981) è stato inizialmente portato a
termine uno studio che, considerando longitudinalmente i primi 12 mesi successivi al
parto, ha dimostrato nelle primipare la presenza di un maggior benessere emotivo e una
minore sofferenza psicologica durante il 3° giorno dopo la nascita del bambino (Grussu,
Nasta, Quatraro, Geninatti Neni, Sichel e Cerutti, 1998). In un secondo momento è stato
invece indagato quanto lo stesso POMS somministrato in gravidanza potesse essere
predittivo della condizione emotiva presente nel corso del 1° mese dopo il parto. Con
tale intento è stato quindi portato a termine uno studio sperimentale che ha evidenziato
quanto nelle donne gravide aventi un tono dell’umore caratterizzato da benessere
emotivo siano presenti, in puerperio, lievi disturbi dell’umore (Quatraro, Nasta, Grussu,
Geninatti Neni, Rudilosso, Sichel e Cerutti, 1998). Alla luce di questi ultimi risultati il
presente lavoro di ricerca vuole individuare se il tono dell’umore rilevato in gravidanza
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
281
risulta essere predittivo anche del tono dell’umore che manifesta la donna a 6 e a 12
mesi dopo il parto.
A tal fine è stato individuato un campione di 52 donne primigravide, coniugate,
con gravidanza normale e parto eutocico a termine. Rispetto al campione iniziale
composto da 60 soggetti, ben 8 donne hanno avuto un parto cesareo e sono state quindi
escluse dalla presente ricerca.
Al 9° mese di gravidanza e successivamente a 6 e a 12 mesi dopo il parto
ciascuna donna ha compilato il questionario di autovalutazione POMS.
L’analisi statistica condotta con il metodo ANOVA ha evidenziato che le
donne con un moderato disturbo dell’umore in gravidanza presentano al 6° e al 12°
mese dopo il parto dei disturbi dell’umore significativamente maggiori, con F(1,
48)=9.26 e p=.004, rispetto alle donne che in gravidanza dimostrano avere lievi disturbi
dell’umore.
Questi risultati dimostrano che nella donna il tono dell’umore presente in
gravidanza è strettamente legato alla condizione emotiva rilevata nel secondo semestre
del dopo parto. In particolare, le donne gravide che manifestano un maggior benessere
emotivo sono quelle che a 6 mesi e a 1 anno dalla nascita del proprio bambino
presentano una minore sofferenza psicologica.
Il POMS si è inoltre rivelato uno strumento significativamente predittivo che,
grazie alle sue caratteristiche psicometriche, può essere a nostro avviso utilizzato in
diversi ambiti psicologici: in campo sperimentale può permettere di rilevare le
variazioni del tono dell’umore in condizioni di normalità e in soggetti senza alcun
disturbo psicopatologico; in campo applicativo, e specificatamente in psicoprofilassi
ostetrica, può essere invece un utile strumento di indagine preliminare per poter
individuare precocemente le donne che dopo il parto hanno un rischio maggiore di
manifestare dei disturbi del tono dell’umore. Tutto questo si inserisce e sembra
promettente nell’ambito del riconoscimento delle neomamme che potranno andare
incontro alle depressioni puerperali.
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Sezione di Psicologia Sperimentale, Capri, 22 - 24 settembre.
Grussu P., Nasta M.T., Quatraro R.M., Geninatti Neni M., Sichel M., Cerutti R. (1998).
Le modificazioni del tono dell’umore della donna nel 1° anno dopo il parto.
Riassunti delle comunicazioni, pag.60-62, Congresso Nazionale della Sezione
di Psicologia Sperimentale, Firenze, 28 - 30 settembre.
Grussu P., Sichel M., Nasta M.T., Cerutti R. (1996). Ansia di tratto e condizione
psicologica puerperale. Giornale Italiano di Psicologia, 23, 493-505.
Matlin M.W. (1987). Pregnancy, childbirth, and Motherhood. In The Psychology of
Women (pp.358-383). New York: Holt, Rinehart and Winston, Inc.
McNair D., Lorr M., Droppleman L.F. (1981). Manual for the Profile of Mood States.
San Diego: EdITS. (adat. it., POMS: Profile of Mood States, eds M. Farnè, A.
Sebellico, D. Gnugnoli e A. Corallo, Firenze: Organizzazioni Speciali, 1991).
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POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
Quatraro R.M., Nasta M.T., Grussu P., Geninatti Neni M., Rudilosso P., Sichel M.,
Cerutti R. (1998). Maternità e depressione. Libro degli Abstracts, pag. 22,
Convegno Internazionale “Aggressività e disperazione nelle condotte
suicidarie”, Abano Terme (PD), 4-6 giugno.
Rutter M., Rutter M. (1992). Developing minds. Harmondsworth: Penguin Group. (trad.
it. L’arco della vita, Firenze: Giunti, 1995).
UN PROGRAMMA PER L’ANALISI DEI TESTI IN
PSICOLOGIA: VERBUM 2.0
Fernando La Greca{xe "La Greca F."}
Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Salerno
Il programma VERBUM 2.0 - Analisi Testuale, adatto per PC con Windows
(3.1, 95 e 98), è un “data base testuale” o “text processor”, per l’analisi di testi di ogni
genere. Esso consente, a partire da un testo dato, una facile realizzazione di indici,
concordanze, ricerche contestuali, e alcune analisi statistiche, di leggibilità, di
significatività delle parole e delle frasi; crea inoltre delle tabelle parole-frequenza
esportabili nei più comuni programmi di statistica avanzata tipo SPAD oppure SPSS. Il
programma lavora secondo pre-codifiche e suddivisioni del testo impostate con un
comune word processor tipo Word per Windows. Può essere d’ausilio allo studio critico
della letteratura, ma l’impiego tipico è nell’elaborazione di questionari a risposte libere,
di colloqui clinici, di sceneggiature cinematografiche e teatrali, nella “prova su strada”
dei testi di facile lettura destinati alle scuole elementari, nell’auto-verifica del proprio
stile di scrittura col word processor, e così via.
Il menù principale di VERBUM consente una serie di scelte, da 1 a 8.
La prima procedura (Creazione archivi) crea un nuovo archivio a partire dal
testo in esame.
La seconda procedura (Statistiche) visualizza, per l’intero testo o la sottoparte
scelta, alcuni dati statistici, tipo frequenza delle forme, medie, DS, indici di ricchezza
lessicale; tipologia dei periodi e dei segni di punteggiatura; valore della formula di
leggibilità Gulpease applicata al testo in esame.
La terza procedura (Rime) consente di elencare i versi (o i periodi, a scelta)
dell’intero testo o di una sua sottoparte, ordinati secondo l’inverso dell’ultima parola,
oppure secondo la prima parola. Si può scegliere di visualizzare solo la prima o l’ultima
parola anziché tutto il verso o periodo. Si ricaverà pertanto un rimario completo dal
testo di base.
La quarta procedura (Indici e Specificità) rimanda ad un menù secondario. Qui
possiamo realizzare: a) un indice delle forme di tutto il testo, in ordine alfabetico
normale o inverso; b) una tavola delle frequenze di tutto il testo, con le forme ordinate
dalla frequenza più alta alla più bassa; c) indici delle forme e tavole di frequenza, come
sopra, ma parziali, riguardanti una sottoparte del testo a scelta, con in più: - calcolo e
visualizzazione delle “frasi modali”, ovvero quelle in cui compaiono le forme con
frequenza più alta; - calcolo e visualizzazione delle specificità positive e negative, cioè
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
283
delle forme caratteristiche della sottoparte di testo in esame; - calcolo e visualizzazione
dei periodi più significativi in base alle specificità; d) altre analisi, che forniscono
l’indice, la tavola di frequenza e le specificità delle forme selezionate con un incrocio
tra due campi diversi; e) i segmenti ripetuti del testo in esame.
La quinta procedura (Co-occorrenze) visualizza l’indice contestuale di una
forma data, da cercare in tutto il testo o in una sua sottoparte.
La sesta procedura (Tabella STAT) produce una tabella con in riga tutte le
forme del testo in esame, e in colonna le sue sottoparti: all’incrocio è riportata la
frequenza della forma x nella sottoparte y. Tale tabella potrà successivamente essere
analizzata con software di statistica tipo SPSS, SPAD, SYSTAT e altri.
La settima procedura (Concordanze) prevede: a) concordanze di tipo KWIC
(key word in context) su tutto il testo o una sua sottoparte; b) concordanza solo di una o
più forme-target (possono essere cercate anche “substringhe”, cioè radici, desinenze,
prefissi, sillabe, ecc.) in tutto il testo. Scegliendo due forme, è possibile avere una
concordanza “doppia”, ovvero l’intero contesto nel quale le due forme sono “vicine”
entro un range stabilito di x periodi o paragrafi/versi.
L’ottava procedura (Utilità) prevede: a) la visualizzazione di tutti i valori
presenti nei campi, ovvero di tutte le codifiche effettuate, con la loro frequenza di
comparizione; sono compresi i campi con i segni di punteggiatura e le posizioni delle
forme nei periodi e nei paragrafi/versi; b) l’esportazione completa dei dati degli archivi
creati in un formato leggibile dai fogli elettronici (ad es. EXCEL) e dai più comuni
pacchetti di statistica (SPSS, SYSTAT, STATVIEW, ecc.), cioè con campi separati da
tabulatori e return a fine record.
I risultati dell’analisi in corso vengono registrati su diversi file, uno per ogni
procedura effettuata. Subito dopo ogni analisi è possibile aprire il file dei risultati con il
word processor preferito sotto Windows, esaminare i dati, ed eventualmente ripetere la
procedura.
Riferimenti bibliografici
La Greca Fernando (1994), Un data-base per l’analisi dei testi: Verbum, “MC
Microcomputer”, n. 137, febbraio 1994, pp. 374-79.
La Greca Fernando (1995), Ritorno all’ipertesto. Navigazioni antiche e nuove negli
oceani di parole, “Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Educazione”,
Università degli studi di Salerno, n. 1/1995, pp. 165-182.
MISURE DI ACCORDO SUL NOME, TIPICITÀ, FAMILIARITÀ,
ETÀ DI ACQUISIZIONE E TEMPI DI DENOMINAZIONE PER
LE 266 FIGURE DEL SET PD/DPSS
Lorella Lotto{xe "Lotto L."}, Roberto Dell’Acqua{xe "Dell’Acqua R."}, Remo
Job{xe "Job R."}
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
284
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
A fronte dei numerosi studi che utilizzano come stimoli sperimentali figure di
oggetti per indagare i processi mentali coinvolti nell’elaborazione delle informazioni,
pochi sono i set standardizzati e le basi di dati normativi a disposizione degli studiosi
che lavorano in tale ambito.
Il lavoro pionieristico di Snodgrass e Vanderwart (1980) è stato fino a qualche
anno fa l’unico strumento disponibile, utilizzato in numerosi lavori di psicologia
sperimentale nonostante i dati normativi si riferissero ad un campione di studenti
universitari nord-americani di lingua inglese.
Solo in tempi recenti, esso è stato standardizzato in altre lingue: olandese
(Martein, 1995), spagnolo (Sanfeliu e Fernandez, 1996), inglese britannico (Barry,
Morrison, e Ellis, 1997), italiano (Nisi, Longoni e Snodgrass, in stampa), francese
(Alario e Ferrand, in stampa).
In questo lavoro presentiamo i dati normativi relativi ad un nuovo set di 266
figure e dei loro nomi raccolti nell’ambito del progetto PD/DPSS (Psycholinguistic
Database/Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione) (Lotto,
Dell’Acqua e Job, sottoposto a revisione). Per ciascuna delle 266 figure sono state
considerate le seguenti variabili: (a) categoria di appartenenza; (b) grado di tipicità
categoriale; (c) familiarità del concetto; (d) tempo di produzione del nome; (e) accordo
sul nome; (f) accordo sul concetto; e, per quanto riguarda il nome della figura: (g)
lunghezza in lettere; (h) lunghezza in sillabe; (i) frequenza; (l) età di acquisizione.
A tre gruppi diversi di soggetti, composti ciascuno da 30 studenti universitari, è
stato richiesto di fornire i giudizi relativi ai fattori familiarità, tipicità e età di
acquisizione. Al compito di denominazione, invece, hanno partecipato 84 studenti che
avevano il compito di denominare ciascuna delle figure che appariva al centro dello
schermo di un computer. I tempi di risposta sono stati registrati attraverso l’utilizzo di
un voice-key.
Vengono presentati i risultati delle matrici di correlazione e della regressione
lineare dalle quali emergono i fattori che contribuiscono in maniera significativa a
determinare i tempi di denominazione. Inoltre, viene proposto un confronto tra i risultati
del presente studio e quelli forniti dagli unici due studi stranieri che hanno preso in
considerazione i tempi di reazione (Barry, Morrison, e Ellis, 1997 e Snodgrass e
Yuditsky, 1996). Per finire, vengono riproposte alcune considerazioni di tipo statistico
già discusse in Dell’Acqua, Lotto e Job (sottoposto a revisione).
Riferimenti bibliografici
Alario, F.-X., Ferrand, L. (in press). A set of 400 pictures standardized for French:
norms for name agreement, image agreement, familiarity, visual complexity,
image variability, and age of acquisition. Behavior Research Methods,
Instruments, & Computers.
Barry, C., Morrison, C.M., Ellis, A.W. (1997). Naming the Snodgrass and Vanderwart
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Quarterly Journal of Experimental Psychology, 50A, 560-585.
Dell’Acqua, R., Lotto, L., e Job, R. (sottoposto a revisione). Naming times and
standardized norms for the Italian PD/DPSS set of 266 pictures: Direct
comparisons with American, English, French, and Spanish published
databases.
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
285
Lotto, L., Dell’Acqua, R., Job, R. (sottoposto a revisione). Le figure PD/DPSS. Misure
di accordo sul nome, tipicità, familiarità, età di acquisizione e tempi di
denominazione per 266 figure. Giornale Italinao di Psicologia.
Martein, R. (1995). Norms for name and concept agreement, familiarity, visual
complexity and image agreement on a set of 216 pictures. Psychologica
Belgica, 35, 205-225.
Nisi, M., Longoni, A.M., Snodgrass, J.G. (in stampa). Misure italiane per l’accordo sul
nome, familiarità ed età di acquisizione, per le 260 figure di Snodgrass e
Vanderwart (1980), Giornale Italiano di Psicologia.
Sanfeliu, M.C., Fernandez, A. (1996). A set of 254 Snodgrass-Vanderwart pictures
standardized for Spanish: Norms for name agreement, image agreement,
familiarity, and visual complexity. Behavior Research Methods, Instruments, &
Computers, 28, 537-555.
Snodgrass, J.G., Vanderwart, M. (1980). A standardized set of 260 pictures: Norms for
name agreement, image agreement, familiarity, and visual complexity. Journal
of Experimental Psychology: Human, Learning, and Memory, 6, 174-215.
Snodgrass, J.G., Yuditsky, T. (1996). Naming times for the Snodgrass and Vanderwart
pictures, Behavior Research Methods, Instruments, & Computers, 28, 516-536.
COSTRUZIONE E VALIDAZIONE DI UNO STRUMENTO PER
L’ANALISI DEI PREREQUISITI SCOLASTICI
Antonino Miragliotta{xe "Miragliotta A."}, Anna Terminello{xe "Terminello A."}
Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Palermo
La valutazione dei processi d’apprendimento tramite prove oggettive
costituisce una delle esigenze fondamentali dell’attività didattica. Tale obiettivo può
essere raggiunto solo se le prove oggettive proposte soddisfano i requisiti docimologici
fondamentali di validità di contenuto, attendibilità, analisi delle caratteristiche dello
strumento e degli item, standardizzazione e taratura.
Il presente lavoro ha come finalità la standardizzazione di una batteria di test
che consenta di effettuare una analisi polivalente dell’alunno della scuola primaria
(classe prima), permettendo di ottenere validi elementi di analisi per una diagnosi
differenziata che tenga conto della molteplicità di fattori che intervengono nei processi
di apprendimento.
La Batteria si articola in:
- prove di livello, inserite in un test sulle abilità di base, che accertano la
presenza di prerequisiti indispensabili all’apprendimento scolastico;
- prove motorie, all’interno di un “percorso ludico-motorio”, per la
valutazione dello sviluppo psico-motorio, essenziale per l’evoluzione di
competenze che interessano più specificatamente la padronanza e la
conoscenza del proprio corpo, ma si ripercuotono sullo sviluppo cognitivo
e su quello relazionale del bambino;
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
286
-
in domande, inserite in un questionario per la famiglia, per la raccolta di
informazioni sullo sviluppo senso-motorio, del linguaggio, relazionale,
motivazionale del bambino e del suo ambiente familiare.
In questa sede si farà riferimento al test sulle abilità di base. Dal momento che
il test è di nuova elaborazione, è stato necessario affrontare l’excursus di validazione
con le sue tappe specifiche: a) delimitazione dell’oggetto da analizzare (prerequisiti); b)
descrizione dell’oggetto in questione; c) costruzione di prove che ne attestino la
presenza; d) somministrazione ad un gruppo di soggetti al fine di ottenere un campione
normativo; e) analisi degli item in termini di difficoltà delle prove e di discriminatività
delle stesse; f) analisi delle caratteristiche metrologiche di validità ed attendibilità.
In prima elementare alcuni degli apprendimenti di base riguardano competenze
cognitive quali: saper operare classificazioni , sapere ordinare in sequenze, eseguire
operazioni elementari e concatenate (lettura, scrittura), definire un concetto,
riconoscerlo ed esemplificarlo. L’acquisizione delle padronanze illustrate é dato
dall’integrazione di fattori cognitivi, percettivi, psico-motori, motori, motivazionali.
In connessione con gli obiettivi formativi del primo anno della scuola
elementare si é proceduto all’inserimento nel test di prove adeguate al loro
accertamento. Pertanto il test risulta costituito da 7 aree: 1) Cv-m, coordinazione visuomotoria; 2) Ss-t, sequenze spazio-temporali; 3) T, topologia; 4) RS, relazioni spaziali; 5)
FF, figure di fondo; 6) P, partizione; 7) Rl-c, relazioni logico-causali.
Il campione, su cui è stata condotta l’indagine pilota, è costituito da 572
bambini appartenenti alla prima classe elementare di scuole statali del Comune di Avola
(SR), e del Comune di Palermo, rispettivamente 337 e 245 soggetti equamente
distribuiti tra maschi e femmine.
Il metodo da noi utilizzato per la lettura dei dati è quello probabilistico avendo
effettuato una elaborazione statistica dei dati per la misurazione delle caratteristiche
metrologiche della Batteria.
Dall’analisi dei risultati è stato possibile evidenziare una buona validità di
contenuto del test sulle abilità di base (validità rispetto al criterio, coerenza interna,
omogeneità degli item). Per la validità concorrente e predittiva si è proceduto correlando
i punteggi totali al test con la valutazione degli insegnanti della scuola materna (validità
concorrente), e con il punteggio ottenuto dagli stessi soggetti in una forma parallela ma
più avanzata del test (validità predittiva). Si è infine analizzata la capacità discriminativa
del test rispetto al sesso, al grado di istruzione, e al livello socio economico del padre
dei soggetti esaminati.
La presenza di caratteristiche metrologiche valide ed attendibili, potrebbe
consentire un utilizzo molteplice dello strumento, permettendo la delineazione di
interventi efficaci per agire preventivamente e terapeuticamente su deficit riscontrati
all’inizio del percorso scolastico.
Riferimenti bibliografici
Andreani-Dentici, O. (1971). B.A.S.E. Batteria per la Scuola Elementare.
Anolli, L., Cigoli, V. (1978). Lo sviluppo della percezione visiva. Firenze: O.S.
Cornoldi, C., Gruppo MT. La prevenzione e il trattamento delle difficoltà di lettura e
scrittura. Firenze, Ed. O.S.
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
287
Moderato, P. (1989). Apprendimento e memoria. Questioni generali e nello sviluppo.
Milano. F. Angeli.
STUDIO PILOTA PER LA VALIDAZIONE DELLA SCALA
DELLA TENDENZA AFFILIATIVA (MAFF)
Lidia Provenzano{xe "Provenzano L."}, Valeria Schimmenti{xe "Schimmenti
V."}, Leonardo Mercuri{xe "Mercuri L."}
Università “La Sapienza” di Roma
Introduzione
Il concetto di empatia ha ricevuto un’attenzione sempre più crescente nella
recente letteratura psicologica. Due sono i filoni principali: da una parte coloro che
hanno definito l’empatia come una speciale capacità di fondersi con l’altro e affermano
che la sua origine risiede in certe condizioni ottimali durante la fase simbolica dello
sviluppo infantile (Olden, 1953; Greenson, ,1960); dall’altra parte coloro che
definiscono la capacità empatica come una forma di identificazione e situano il suo
punto di origine ad uno stadio evolutivo più avanzato, quando il Sé e l’Oggetto sono più
differenziati (Mahler & Bergmann, 1975; Winnicott, 1958,1965, 1945). Numerose e
vaste sono state anche le definizioni e le descrizioni dell’utilità dell’uso dell’empatia
nella pratica psicoanalitica (Freud, 1925; Bion, 1962; Meltzer, 1967; Kohut, 1971;
Sandler, 1973,1988; Casement, 1985). Gli strumenti utilizzati per misurare la
dimensione empatica fanno riferimento ai diversi orientamenti teorici che hanno
definito il costrutto dell’empatia. Alcuni misurano la capacità di cognizione sociale
(Borke, 1973), altri rilevano la condivisione dei sentimenti altrui (Strayer, 1987a,
Feshbach, 1987), altri ancora si riferiscono alla dimensione affettiva e cognitiva
(Hoffmann, 1982b). Albert Mehrabian (1994b) ha messo a punto attraverso numerose
ricerche sull’intelligenza emozionale, alcuni strumenti in grado di indagare determinati
aspetti della capacità empatica di un individuo. La scala della tendenza affiliativa
(MAFF) è uno strumento realizzato per valutare la tendenza degli individui a desiderare
scambi sociali positivi, piacevoli ed appaganti e a comportarsi in modo tale da favorirli.
Scopo
L’obiettivo principale della ricerca nasce dall’ipotesi di potere operare una
prima forma di validazione della scala della tendenza affiliativa (MAFF) ritenuta un
aspetto particolare dell’empatia. Un secondo obiettivo si propone di operare un
confronto tra il test MAFF e il Survay Interpersonal Values (S.I.V.) che presenta alcune
caratteristiche legate al concetto di tendenza affiliativa. L’ipotesi operativa è che
soggetti che ottengono certi punteggi nel test MAFF occuperanno una determinata
posizione in alcune scale del test S.I.V.
Metodo
288
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
L’indagine è stata condotta su una popolazione di studenti della facoltà di
Psicologia di Roma. Ad ogni soggetto veniva fornita una busta contenente i due test
presi in esame (MAFF e S.I.V.) e una scheda in cui venivano richiesti dati anamnestici.
Risultati
Il confronto tra le medie e le deviazioni standard condotto con la t di Student
tra i dati del nostro campione e quello di A. Mehrabian non presenta differenze
statisticamente significative. Al contrario, le correlazioni tra il test MAFF e le scale del
test S.I.V. presentano interessanti significatività: soggetti che ottenevano punteggi alti
sulla scala della tendenza affiliativa ottenevano punteggi alti sulla subscala Benevolence
del test S.I.V. e punteggi bassi sulla subscala Indipendence sempre del test S.I.V.
Indicazioni interessanti sono fornite anche dalle correlazioni con il sesso, e il titolo di
studio del padre dei soggetti dello studio pilota
Riferimenti bibliografici
Borke, H. (1973) The development of empathy in Chinese and American children
between three and six years of age: A cross-cultural study. Developmental
Psychology, 9, 102-108.
Casement, P. (1985) Apprendere dal paziente. Raffaello Cortina Editore.
Feshbach, N. (1987) Parental empathy and children adjustment/maladjustment. In:
Eisenberg, N., Strayer, J. Empathy and its development. Cambridge university
press, New York, 271-291.
Freud, S. (1925) Inibizione, sintomo e angoscia. Opere vol.10 Boringhieri.
Greenson, R.R. (1960) Esplorazioni psicoanalitiche. Boringhieri.
Hoffmann, M.L. (1982b) The measurement of empathy. In: Izard, C.E. Measuring
emotions in infant and children. Cambridge University Press, Cambridge 279296.
Kohut, H. (1971) Narcisismo e analisi del sè .Bollati Boringhieri, 1976.
Mahler Schoenberger, M., Pine, F., Bergman, A. (1975) La nascita psicologica del
bambino. Boringhieri, 1978.
Mehrabian, A. (1970) The development and validation of measures of affiliative
tendency and sensitivity to rejectio.
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Measurement, 30, pp.417-428.
Mehrabian, A. (1976) Questionnaire measures of affiliative tendency and sensitivity to
rejection. Psychological Reports, 38, pp.199-209.
Mehrabian, A. (1994a) Evidence bearing on the Affiliative Tendency (MAFF) and
Sensitivity to Rejection (MSR) scales. Current Psychology, 13, pp.97-116.
Mehrabian, A. (1994b) Manual for the Affiliative Tendency Scale (MAFF). (c/o
A.Mehrabian, 1130 Alta Mesa Road, Monterey, Ca, USA 93940).
Olden, C. (1953) Adult empathy with children. Psychoanalitic study of the child.
Sandler, J., Dare, C., Holder, A. (1973) Il paziente e l’analista: i fondamenti del
processo psicoanalitico. Boringhieri, 1983.
Sandler, J. (1988) Proiezione, identificazione, identificazione proiettiva. Bollati
Boringhieri
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
289
Strayer, J. (1987a) Affective and cognitive perspectives on empathy. In: Eisenberg, N.,
Strayer, J. Empathy and its development. Cambridge university press, New
York, 218-244.
Winnicott, D. (1958) Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli, Firenze 1975.
Winnicott, D. (1965) Sviluppo affettivo e ambiente. Armando Editore, Roma 1970.
Winnicott, D. (1945) Lo sviluppo emozionale primario. Martinelli.
IL SIGNIFICATO DEL PARAMETRO LAMBDA (λ): IL RATING
FORMULATION MODEL E IL DISPERTION LOCATION
MODEL, DUE MODELLI A CONFRONTO
Vincenzo Paolo Senese{xe "Senese V.P."}*, Giovanna Nigro{xe "Nigro G."}*,
PierCarla Cicogna{xe "Cicogna PC."}**, Francesca Cristante{xe "Cristante F."}°,
Egidio Robusto{xe "Robusto E."} °°
*Corso di Laurea in Psicologia, Seconda Università degli studi di Napoli
**Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
° Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
°° Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Negli ultimi decenni da parte degli psicometristi si è sviluppato un notevole
interesse nei confronti di un modello in grado di supportare e colmare le lacune del
modello classico del testing: il modello a tratti latenti (Mannarini, Cristante, 1994).
Secondo tale modello la risposta di un soggetto ad un item può essere spiegata da una o
più caratteristiche ovvero “tratti” non direttamente osservabili cui si accede definendo
una relazione tra essi e il punteggio (manifesto) riportato su quell’item (Weiss, 1983).
Sotto l’etichetta “teoria dei tratti latenti” confluiscono una serie di modelli
matematici. Questi modelli consentono di fare delle assunzioni circa le relazioni
funzionali che si stabiliscono o si possono stabilire tra variabili direttamente osservabili
e l’eventuale costrutto sottostante. In particolare entro la teoria dei tratti latenti una
specifica classe di modelli, detta di “Rasch”, dal nome del suo ideatore, risulta
particolarmente vantaggiosa per il trattamento di dati che si ritiene possano essere
sottesi da un tratto unidimensionale. Secondo Rasch (1960/1980), nel caso di item
dicotomici, la risposta di ciascun soggetto a ciascun item sarebbe influenzata in maniera
probabilistica esclusivamente da due parametri: uno appartenente al soggetto (β), l’altro
appartenente all’item (δ). A partire dalla formulazione del Simple Logistic Model di
Rasch, molteplici sono le ricerche che hanno contribuito ad estenderne il campo di
applicazione. I modelli così derivati, essendo delle generalizzazioni del modello
probabilistico semplice, condividono con questo le caratteristiche teoriche e misurative
fondamentali. In caso di risposte fornite su scale di tipo Likert è necessario fare ricorso
ai modelli sviluppati da Andrich: il Rating Formulation Model (Andrich, 1978) e il
Dispertion Location Model (Andrich, 1985a; 1985b; 1988). Nel Dispertion Location
Model l’aggiunta del parametro λ consenta di accertare se la struttura teorica di soglie
290
POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
equidistanti della scala di valutazione di ciascun item è confermata dai dati e di valutare
la dispersione delle risposte lungo il continuum della scala. Un’ulteriore peculiarità di
questo modello è che, a seconda del valore assunto dal parametro λ, la curva di
distribuzione delle probabilità delle risposte viene differentemente rappresentata.
In particolare, se λ>0, la distribuzione è unimodale, se λ=0, la distribuzione è
condizionata dal valore del parametro di localizzazione, se λ<0, allora la
distribuzione è curvata ad U. È quindi possibile interpretare i dati in base alle
differenti curve, ad esempio ipotizzare l’esistenza di ulteriori variabili in grado di
influenzare la curvatura.
Obiettivo di questo lavoro è di porre in luce le differenze tra i due diversi
modelli sviluppati da Andrich, entrambi applicabili nel caso in cui le risposte vengano
fornite su una scala Likert, a partire dai dati raccolti attraverso un questionario di
memoria prospettica. Nella fattispecie si voleva accertare con precisione il ruolo del
parametro λ nella determinazione delle caratteristiche degli item.
La ricerca
Ad un campione di 100 soggetti anziani è stato somministrato un questionario
di memoria prospettica, composto da 50 item presentati in formato Likert a 5 punti . Ai
soggetti è stato chiesto di valutare la frequenza con cui accadeva loro di
dimenticare gli impegni o le scadenze cui gli item facevano di volta in volta
riferimento. Lo scoring prevedeva che si assegnasse 0 nel caso in cui l’impegno
non venisse mai dimenticato e 4 nel caso in cui venisse sempre dimenticato. In
questo modo si rispettava la monotonicità crescente.
Risultati
L’applicazione delle due diverse procedure non ha posto in evidenza differenze
sostanziali almeno per ciò che concerne gli indici utili ai fini della selezione degli item
da utilizzare per la messa a punto della versione definitiva del questionario di memoria
prospettica. I diversi esiti delle due procedure vanno ricondotti alla differente modalità
di considerare l’equidistanza tra le soglie.
Nel loro complesso i nostri risultati confermano quanto riportato in letteratura
circa il ruolo del parametro λ: l’aggiunta di un unità generale per la distanza tra le soglie
rende l’analisi degli item meno artificiale e restrittiva (Andrich, 1982). L’introduzione
di questo parametro – che va considerato un indice di dispersione – fornisce indicazioni
utili nell’interpretazione corretta delle caratteristiche degli item.
Riferimenti bibliografici
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POSTER - STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI
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:Academic Press.
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Mannarini, S., Cristante, F. (1994). Analisi di un insieme di item, indicatori della
dimensione “mental healt locus of origin”. Metodi della teoria classica e della
teoria dei tratti latenti. TPM – Testing Psicometria Metodologia, vol. 1, n. 1,
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Rasch, G. (1960/1980). Probabilistic models for some intelligence and attainment tests.
Chicago: The University of Chicago Press. (Lavoro originario pubblicato nel
1960).
Weiss, D. J. (Ed.) (1983). New horizons in testing. New York: Academic Press.
SIMPOSI
STUDI PSICOLINGUISTICI SUI DIVERSI LIVELLI DI
RAPPRESENTAZIONE DEL LINGUAGGIO
Simposio a cura di Remo Job
LINGUAGGIO E PENSIERO NELLA COMPRENSIONE DI
DOVERE E POTERE
Elisabetta Bascelli{xe "Bascelli E."}, Luana Saetti{xe "Saetti L."}, Maria Silvia
Barbieri{xe "Barbieri M.S."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Trieste
Il linguaggio viene usato nella comunicazione sociale sia per condividere
conoscenze, sia per regolare il comportamento in base a regole e norme. Le nozioni
modali di necessità, possibilità, certezza, incertezza, probabilità e il linguaggio che le
esprime giocano quindi un ruolo importante sia nei nostri processi di conoscenza che in
quelli comunicativi. La letteratura sullo sviluppo dei concetti modali e sulla
comprensione del linguaggio modale in età evolutiva presenta tuttavia risultati
contraddittori. Secondo Piéraut-Le Bonniec (1980) tanto il sistema epistemico quanto
quello deontico si sviluppano da un sistema modale più primitivo e indifferenziato
legato all’azione del bambino. Altre linee di ricerca, come la teoria piagetiana dello
sviluppo cognitivo (Inhelder e Piaget, 1955), o recenti lavori sulla comprensione degli
schemi pragmatici (Cummins, 1996) ritengono che il concetto di necessità deontica
preceda quello di necessità logica. Ciò è confermato anche da studi sulla produzione
spontanea dei modali in età evolutiva (Kuczaj e Maratsos, 1975; Bliss, 1988). Per
contro, ricerche sulla comprensione dei modali in età prescolare (Hirst e Weil, 1982)
sostengono che sia la modalità epistemica ad organizzarsi prima di quella deontica.
Questo lavoro discute i risultati di due studi sperimentali che hanno indagato lo
sviluppo della comprensione di alcune forme dei verbi modali dovere e potere.
Al primo studio (Barbieri e Bascelli, in stampa), hanno partecipato 96 bambini
suddivisi in quattro gruppi di età: 3.0-4.6; 4.7-5.10; 6.3-7.2; 8.3-9.2. Ciascun soggetto
ha eseguito due compiti. Il primo valutava la comprensione di un’espressione modale
per il dominio epistemico - ricerca di un oggetto sulla base delle informazioni offerte da
una frase. Il secondo valutava la comprensione di tale espressione per il dominio
deontico - agire sulla base di obblighi, permessi e proibizioni.
I risultati mostrano che la comprensione dei modali deontici precede la
comprensione dei modali epistemici; che una piena differenziazione della forza delle
diverse forme modali nei due domini non è raggiunta prima dei 9 anni; che la
distinzione fra il significato deontico di dovere (obbligo) e quello di potere (permesso)
compare dopo l’inizio dell’età scolare.
Il secondo studio si prefigge di controllare l’ipotesi che la capacità di
distinguere tra ciò che è conveniente (vantaggio) e ciò che non lo è (svantaggio) sia la
guida ad una più precisa specificazione semantica tra i modali dovere e potere nella loro
funzione di regolazione del comportamento. Hanno partecipato a questo esperimento
296
SIMPOSI - STUDI PSICOLINGUISTICI SUI DIVERSI LIVELLI DI RAPPRESENTAZIONE DEL LINGUAGGIO
100 bambini divisi in due gruppi di età: 4-5; 5-6, equamente suddivisi tra coloro che
comprendevano e non comprendevano il vantaggio. La capacità di valutare il vantaggio
nelle proprie strategie di azione è stata analizzata tramite un gioco in cui i bambini
ricevevano degli ordini in forma positiva e negativa. La comprensione dei modali è stata
valutata con il compito precedente.
I risultati mostrano che la comprensione del vantaggio non influisce sulla
comprensione dei verbi modali nei soggetti più piccoli. Nel secondo gruppo di età,
invece, i soggetti che comprendono il vantaggio mostrano anche una vistosa differenza
nella distinzione fra devi e puoi rispetto a quelli che non lo comprendono. Questi
risultati vengono discussi nell’ottica di una relazione dinamica fra pensiero e
linguaggio, vi è infatti un’età in cui la capacità di anticipare le conseguenze vantaggiose
o svantaggiose della propria azione si associa ad una più accurata comprensione dei
vincoli imposti dal linguaggio modale sull’azione dell’ascoltatore.
Riferimenti bibliografici
Barbieri M.S., Bascelli E. (in stampa). La comprensione dei verbi modali epistemici e
deontici in età evolutiva. Giornale Italiano di Psicologia.
Bliss L.S. (1988). Modal usage by preschool children. Journal of Applied
Developmental Psychology, 9, 369-387.
Cummins D. (1996). Evidence of deontic reasoning in 3- and 4-year-old children.
Memory & Cognition, 24, 823-829.
Hirst W., Weil J. (1982). Acquisition of epistemic and deontic meaning of modals.
Journal of Child Language, 9, 659-666.
Inhelder B., Piaget J. (1955). De la logique de l’enfant à la logique de l’adolescent.
Paris: PUF; trad. it. Dalla logica del fanciullo alla logica dell’adolescente.
Firenze: Giunti-Barbera, 1971.
Kuczaj S.A., Maratsos M.P. (1975). What children can say before they will. Merrill
Palmer Quartely, 21, 89-111.
Piéraut-Le Bonniec G. (1980). The development of modal reasoning. Genesis of
Necessity and Possibility Notions. New York: Academic Press.
L’ASSEMBLAGGIO DI CONSONANTI E VOCALI NELLA
LETTURA DI PAROLE
Lucia Colombo{xe "Colombo L."}*, Roberto Cubelli{xe "Cubelli R."}^ e Marco
Zorzi{xe "Zorzi M."}*°
Dipartimento di Psicologia Generale*
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione^
Institute of Cognitive Neuroscience, University College, London, UK°
Secondo il modello a due cicli formulato da Berent e Perfetti (1995)
l’attivazione fonologica di consonanti e vocali e il loro assemblaggio nella
rappresentazione fonologica corrispondente ad una parola ha luogo in due stadi
indipendenti. L’assemblaggio delle consonanti viene eseguito durante il primo ciclo,
SIMPOSI - STUDI PSICOLINGUISTICI SUI DIVERSI LIVELLI DI RAPPRESENTAZIONE DEL LINGUAGGIO
297
seguito nel secondo ciclo dalla elaborazione della fonologia delle vocali. Possiamo
considerare due tipi di ipotesi alternative, relativamente al modello a due cicli. Secondo
la prima, l’emergere precoce del codice fonologico delle consonanti dipende da una
priorità delle consonanti, definita linguisticamente, che è valida universalmente.
Secondo la seconda ipotesi, l’elaborazione più rapida delle consonanti dipende dalle
caratteristiche specifiche della corrispondenza segno-suono in inglese, che è fortemente
irregolare. In quest’ultimo caso, non ci si aspetterebbe lo stesso tipo di risultato anche
in una lingua regolare come italiano.
Abbiamo sottoposto a verifica queste ipotesi in una serie di tre esperimenti in
cui è stato utilizzato il paradigma di “backward masking” di Berent e Perfetti. Sono state
utilizzate delle parole bisillabe e trisillabe, presentate sullo schermo di un computer per
un intervallo variabile (16 ms, 33ms, 50 ms) seguite immediatamente da una nonparola
mascheramento, che manteneva tutte le vocali, o tutte le consonanti della parola
bersaglio, oppure era uno pseudomofono della parola bersaglio. Queste costituivano le
condizioni sperimentali, da confrontare con una condizione di controllo in cui il
mascheramento era formato da una nonparola che aveva solo il primo fonema in
comune con la parola bersaglio. Il mascheramento era presentato per 33 ms, o 67 ms. Le
condizioni di SOA tra parole bersaglio e mascheramenti erano date quindi dai seguenti
intervalli: 16/33, 33/33, 50/33, 50/67.
Nel primo esperimento il compito richiesto al soggetto era di scrivere la parola
che vedeva sullo schermo; nel secondo esperimento, di leggerla ad alta voce, e nel terzo
esperimento di fare una decisione lessicale sulla parola bersaglio. Sono state utilizzate
come variabili indipendenti “tipo di mascheramento” a 4 livelli, “lunghezza in sillabe” a
due livelli, e “tipo di struttura della parola” a due livelli. Queste variabili erano a misure
ripetute, mentre la variabile SOA era a gruppi indipendenti. La variabile dipendente era
data dalla proporzione di risposte corrette.
I risultati degli esperimenti 1 e 2 hanno mostrato che ad SOA brevi l’effetto di
riduzione del mascheramento, cioè la differenza tra il controllo e le condizioni
sperimentali, era maggiore per il mascheramento che conserva le vocali, rispetto a
quello che conserva le consonanti, o rispetto allo pseudoomofono. L’effetto di riduzione
del mascheramento era significativo anche per il mascheramento che mantiene le
consonanti e per lo pseudoomofono. Quindi, contrariamente al risultato trovato da
Berent e Perfetti (1995) per l’inglese, in italiano il mascheramento che conserva le
vocali produce una maggiore accuratezza rispetto alle altre due condizioni. Ad SOA più
lunghi, invece, l’effetto di riduzione del mascheramento era lo stesso nelle tre
condizioni sperimentali.
Nell’esperimento di decisione lessicale, l’effetto di riduzione del
mascheramento è risultato lo stesso per mascheramento stesse-consonanti e stessevocali, mentre lo pseudoomofono ha prodotto un’accuratezza minore.
I risultati sono compatibili con l’idea che l’assemblaggio della fonologia di
consonanti e vocali sia davvero in qualche modo indipendente, come proposto da Berent
e Perfetti, ma dipenda anche da caratteristiche specifiche della lingua. Inoltre, la
differenza tra consonanti e vocali emergerebbe solo in compiti che richiedono
l’assemblaggio della fonologia, come la lettura, e non in compiti che possono essere
eseguiti sulla base della rappresentazione ortografica dello stimolo.
298
SIMPOSI - STUDI PSICOLINGUISTICI SUI DIVERSI LIVELLI DI RAPPRESENTAZIONE DEL LINGUAGGIO
LE RAPPRESENTAZIONI DEI CARATTERI LOGOGRAFICI E
LA LORO IDENTIFICAZIONE
Giovanni B. Flores d’Arcais{xe "Flores d’Arcais G.B."}
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
Negli ultimi anni sono apparsi numerosi contributi sull’accesso lessicale e sulla
forma delle rappresentazioni nel lessico mentale legate a parole scritte in sistemi
logografici, in cui la relazione tra fonologia e ortografia è assolutamente diversa da
quella che caratterizza sistemi di tipo alfabetico o anche sillabico.
Il lavoro presenta una sintesi e una discussione di dati ottenuti in una serie di
esperimenti, che hanno mirato a porre in relazione alcune proprietà psicolinguistiche
dell’elaborazione dei caratteri cinesi in Cina e Giappone, con importanti caratteristiche
legate alle rappresentazioni dei caratteri nei sistemi logografici stessi. Uno degli
argomenti riguarda la relazione tra la velocità di elaborazione delle componenti
semantiche e fonologiche, che in non pochi caratteri tendono ad essere codificate
separatamente in due diversi radicali, che insieme formano i caratteri, e la struttura dei
caratteri nella lettura. Le ricerche hanno posto in evidenza come la velocità di
elaborazione sia legata da una parte a caratteristiche differenziali degli elementi, nel
senso che la componente fonologica risulta temporalmente favorita nell’elaborazione
rispetto a quella semantica, dall’altra alla posizione dei radicali nei caratteri e alle loro
proprietà di distribuzione statistica nell’ambito dei caratteri stessi. I lettori sembrano
aver appreso ad usare molto bene nel riconoscimento queste proprietà statistiche, capaci
di fornire un preciso elemento per l’identificazione dei caratteri.
Un secondo argomento riguarda invece altre proprietà dei radicali
nell’identificazione dei caratteri. La frequenza di uso, cioè la frequenza con cui un
radicale assume un determinato ruolo all’interno del carattere, come portatore di
informazione fonologica o invece di informazione di tipo semantico, diviene un
elemento importante nel mediare la corretta identificazione ortografica del carattere e
quindi la sua facilità di lettura.
LA COMPETENZA CONVERSAZIONALE NEGLI ADULTI CON
LESIONI CEREBRALI
Luca Surian{xe "Surian L."}, Silvia Marini{xe "Marini S."}
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
Abbiamo affrontato il problema delle basi neurali della competenza
conversazionale esaminando la prestazione di 30 pazienti con lesioni cerebrali
all’emisfero destro oppure a quello sinistro. La valutazione dei pazienti è stata condotta
per mezzo di compiti metalinguistici e di teoria della mente precedentemente utilizzati
SIMPOSI - STUDI PSICOLINGUISTICI SUI DIVERSI LIVELLI DI RAPPRESENTAZIONE DEL LINGUAGGIO
299
nelle ricerche sui deficit comunicativi dei bambini con autismo (Surian e Leslie, 1999;
Surian, Baron-Cohen e van der Lely, 1996). Nei compiti metalinguistici ai pazienti è
stato chiesto di identificare 25 enunciati che violavano alcuni vincoli pragmatici o
semantici. Nei compiti di teoria della mente si richiedeva l’attribuzione di stati mentali
epistemici quali conoscenze e false credenze. I compiti di teoria della mente sono stati
proposti in due versioni: con o senza informazioni visive. Nei risultati è emerso che sia i
pazienti con danno all’emisfero sinistro sia quelli con danno all’emisfero destro
superavano i compiti di valutazione di enunciati. I pazienti con lesioni sinistre
eseguivano correttamente anche i compiti di teoria della mente. I pazienti con lesioni
destre incontravano invece difficoltà nei compiti di teoria della mente, ma solo nella
condizione senza supporto visivo. Questi risultati gettano ulteriore luce sulle difficoltà
pragmatiche dei pazienti con lesioni all’emisfero destro riportate in precedenti lavori
(Siegal, Carrington e Radel, 1996). Queste difficoltà sembrano derivare da un deficit
attentivo generale per dominio e non da una perdita dominio-specifica delle conoscenze
che regolano la conversazione.
Riferimenti bibliografici
Siegal, M., Carrington, J e Radel, M. (1996). Theory of mind and pragmatic
understanding following right hemisphere damage. Brain and Language, 53,
40-50.
Surian, L. e Leslie, A. (1999) Competence and performance in false belief
understanding: A comparison of autistic and three-year-old children. British
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Surian, L. Baron-Cohen e Van der Lely, H. (1996). Are children with autism deaf to
Gricean maxims? Cognitive Neuropsychiatry, 1, 55-71.
IL RUOLO DELLA SILLABA NELLA PERCEZIONE
DELL’ITALIANO.
Patrizia Tabossi{xe "Tabossi P."}
Università di Trieste
Secondo un’influente ipotesi, l’unità sublessicale usata dai parlanti delle lingue
romanze, come l’italiano, per segmentare il discorso e accedere al lessico è la sillaba
(Mehler, Dommergues, Frauenfelder, & Segui, 1981). Alla luce di numerosi dati che
hanno mostrato discrepenze nella robustezza degli effetti sillabici nelle diverse lingue
romanze, i sostenitori di questa ipotesi, pur mantenendo inalterato l’assunto
fondamentale sul ruolo della sillaba nei meccanismi di percezione del linguaggio, hanno
recentemente introdotto la nozione di trasparenza acustico/fonetica. Le lingue romanze,
benché accomunate dal fatto di non avere il fenomeno dell’ambisillabicità, si
differenziano nel grado di trasparenza delle loro fonologie, e quanto più sono trasparenti
le fonologie, tanto più deboli sono gli effetti sillabici (Sebastian-Gallès, Dupoux, Segui,
& Mehler, 1992). Lo scopo della ricerca riportata qui è di testare la validità di queste
ipotesi per quanto concerne l’italiano. Nella prima serie di esperimenti, sfruttando la
300
SIMPOSI - STUDI PSICOLINGUISTICI SUI DIVERSI LIVELLI DI RAPPRESENTAZIONE DEL LINGUAGGIO
somiglianza dei sistemi fonologici dell’italiano e dello spagnolo, è stata testata la
predizione che parlanti di lingue simili dovrebbero dar luogo in condizioni analoghe a
effetti sillabici simili. Congruentemente con questa predizione, i risultati hanno mostrato
che, come i parlanti dello spagnolo sillabici (Sebastian-Gallès et al, 1992), anche i
parlanti dell’italiano non usano una strategia sillabica in un compito di segment
monitoring (Frauenfelder & Kearns, 1996), mentre si basano su unità sillabiche quando
devono identificare un fonema in un paradigma di monitoring attentivo (Pallier,
Sebastian-Gallès, Feiguera, Christophe, & Mehler, 1993; Pitt e Samuel, 1990).
Nella seconda serie di esperimenti, è stato impiegato il paradigma cross-modale
per testate le previsioni dell’ipotesi sillabica per quanto riguarda l’accesso lessicale. I
partecipanti sentivano la frase “La prossima parola è ...” seguita da un frammento
costituito dai tre fonemi iniziali di una parola. Alla fine del frammento prime essi
vedevano un target sul quale eseguivano un compito di decisione lessicale (ad es.,
MARE). Nella condizione associata, il prime derivava da una parola semanticamente
relata al target (ad es., mon da montagna), mentre nella condizione non associata esso
conteneva gli stessi fonemi del frammento associato, ma derivava da una parola che non
era associata al target e la cui prima sillaba aveva una struttura diversa da quella della
parola associata (ad es., mon da moneta). Infine, nella condizione di controllo il
frammento prime derivava da una parola che non aveva alcuna relazione né con le
parole delle altre condizioni, né col target (ad es., pat da patata). In accordo con le
previsioni dell’ipotesi sillabica, le risposte dei partecipanti al target visivo sono risultate
più veloci nella condizione associata che nella condizione non associata, che a sua volta
non era significativamente diversa dalla condizione di controllo.
Benché congruenti con l’ipotesi sillabica, questi risultati non mostrano
direttamente che sia la struttura sillabica a dare avvio al processo di accesso al lessico.
L’ultima serie di esperimenti è stata condotta per testare direttamente questa ipotesi. I
partecipanti, dopo aver ascoltato un prime costituito da una sillaba CV, vedevano un
target sul quale eseguivano un compito di decisione lessicale. Il sillaba prime derivava
da una parola che poteva essere accentata sulla prima sillaba oppure no e poteva essere
relativamente lunga o breve (lunga accentata: > 300 ms; breve accentata: < 200 ms;
lunga non accentata: > 190 ms; breve non accentata: < 130 ms). Nella condizione
associata la parola da cui derivava il prime (ad es., sa da sale) era associata al target (ad
es., PEPE), mentre nella condizione non associata non c’era relazione semantica fra
prime e target. Contrariamente a quanto previsto dall’ipotesi sillabica, soltanto le sillabe
accentate - lunghe e brevi - nella condizione associata hanno prodotto un effetto di
facilitazione sul riconoscimento del target, suggerendo che non tutte le sillabe CV sono
in grado di dare inizio al processo di accesso lessicale. Un successivo esperimento,
infine, ha mostrato che l’incipit e il nucleo di una sillaba CVC sono sufficienti ad
iniziare il processo di accesso, mandando attivazione a candidati la cui prima sillaba ha
struttura CV.
Complessivamente, la ricerca getta seri dubbi sulla validità dell’ipotesi
sillabica, almeno nella sua formulazione corrente, mostrando che l’aver ascoltato
un’unità sillabica non costituisce una condizione né necessaria né sufficiente affinché un
parlante dell’italiano dia inizio al processo che lo condurrà al riconoscimento delle
parole che sente.
SIMPOSI - STUDI PSICOLINGUISTICI SUI DIVERSI LIVELLI DI RAPPRESENTAZIONE DEL LINGUAGGIO
301
Riferimenti bibliografici
Frauenfelder, U., & Kearns, R. K. (1996). Sequence monitoring. Language and
Cognitive Processes, 11, 665-673.
Mehler, J., Dommergues, J., Frauenfelder, U., & Segui, J. (1981). The syllables role in
speech segmentation. Journal of Verbal Learning and Verbal Behavior, 20,
298-305.
Pallier, C., Sebastian-Gallès, N., Feiguera, T., Christophe, A., & Mehler, J. (1993).
Attentional Allocation within the Syllabic Structure of Spoken Words. Journal
of Memory and Language, 32, 373-389.
Pitt, M. A., & Samuel, A. G. (1990). Attentional Allocation during Speech Perception:
How fine is the focus? Journal of Memory and Language, 29, 611-632.
Sebastian-Gallès, N., Dupoux, E., Segui, J., & Mehler, J. (1992). Contrasting syllabic
effects in Catalan and Spanish. Journal of Memory and Language, 31, 18-32.
LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO
Simposio a cura di Rossana De Beni
STRATEGIE AUTORIFERITE NELLA RAPPRESENTAZIONE
MENTALE DELLO SPAZIO: STUDI DEI CORRELATI
COGNITIVI
Andrea Bosco{xe "Bosco A."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
Lawton (1994, 1996), sulla base delle autovalutazioni di soggetti impegnati in
compito di ritrovamento di una strada, ha individuato due strategie di recupero delle
informazioni dalla memoria basate su rappresentazioni mentali in prospettiva
egocentrica, che l’autore definisce route strategy o in prospettiva eterocentrica,
orientation strategy. Il presente lavoro si propone di indagare i correlati cognitivi delle
strategie di rappresentazione mentale dello spazio mediante uno strumento di recente
costruzione (Questionario Situazionale d’Orientamento Spaziale – QSOS; e.g. Bosco,
1999) in grado di fornire una misura auto riferita dell’uso di strategie dei due tipi: a)
route e b) survey. La presente ricerca è tesa alla verifica sperimentale delle seguenti
ipotesi:
1) è possibile identificare soggetti con preferenza per l’una o l’altra strategia di
rappresentazione mentale dello spazio ma anche soggetti che mostrano “passaggi”
dall’una all’altra strategia secondo diversi fattori,
2) se la survey knowledge rappresenta il più efficiente livello di conoscenza
dello spazio, chi usa preminentemente la strategia survey dovrebbe pure essere più abile
rispetto ad altri in compiti cognitivi spaziali semplici e complessi;
3) i soggetti con preferenza della strategia route, più ancorati cioè alla route
knowledge, dovrebbero essere più abili dei soggetti appartenenti agli altri gruppi nei
compiti di ricordo di un percorso noto.
4) se vi sono soggetti che passano dall’una all’altra rappresentazione mentale
agevolmente, tale competenza potrebbe essere legata all’abilità in compiti cognitivi
semplici.
Metodo
La misura che si ottiene dal questionario consiste nella frequenza d’uso di tre
strategie: due di tipo spaziale (route e survey) e una non spaziale. Il questionario è stato
somministrato a 413 soggetti. Mediante analisi dei cluster abbiamo ottenuto un modello
a sei gruppi Nella seconda fase 117 soggetti, ripartiti in cinque dei sei gruppi, sono stati
sottoposti alla somministrazione di una batteria di prove cognitive spaziali:
1) compito di scansione dello spazio (labirinto),
2) compito di rotazione mentale, (mani destre e sinistre),
3) span di Corsi,
4) memoria a lungo termine,
SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO
303
5) Compito di ricostruzione di una mappa della città di appartenenza,
6) Compito di ricordo di un percorso molto noto della città di appartenenza,
Risultati
Ia Indagine
Analisi dei tre gruppi “preferenza ” (survey, Route I e Route II). La struttura
fattoriale indica che il predittore più rilevante della prima funzione discriminante è il
compito di ricostruzione di mappa (peso fattoriale: -0,57), ove il gruppo “preferenza
survey” mostra la migliore prestazione. il predittore più rilevante della seconda funzione
discriminante è il compito di memoria a lungo termine (peso fattoriale: 0,57), ove il
gruppo “preferenza route I” mostra la peggiore prestazione.
Analisi sui due gruppi “congruenza” (con il compito, con la conoscenza). Dalla
struttura fattoriale emerge che il predittore con il maggiore contributo alla
discriminazione dei due gruppi è la prova di span visuo-spaziale (peso fattoriale: 0,47)
mediante il Corsi Block Test. La direzione dell’effetto è in termini di una migliore
prestazione del gruppo “congruente con il compito” rispetto all’altro.
IIa Indagine
Una seconda analisi è stata condotta su una nuova batteria di prove:
1) Mental Rotation Test (Vandenberg & Kuse, 1978),
2) Digit span in avanti e indietro Le prova di span di cifre del WAIS,
3) una prova sulle strategie di ragionamento,
4) una prova di discriminazione di figure e parole che indicano direzione,
5) indice dell’“effetto destra-sinistra”.
Tale analisi comprendeva esclusivamente soggetti, del campione dei 117, di età
compresa tra 21 e 34 anni, che mostravano le distanze di Mahalanobis più piccole dal
proprio centroide di gruppo. Le analisi condotte su questi nuovi gruppi confermano e
ampliano i risultati ottenuti nella prima indagine.
Conclusioni
1) Vi sono sia gruppi con preferenza per una strategia di rappresentazione
mentale dello spazio, sia gruppi con una modalità di rappresentazione che varia al
variare di un fattore rilevante
2) L’uso predominante della strategia survey, sembra effettivamente
identificare soggetti meglio dotati sul piano tanto delle competenze di base, quanto dei
compiti complessi: a) di ricostruzione di mappe (compito survey per eccellenza), b) di
ricostruzione di un percorso noto.
3) i soggetti con preferenza della strategia route, non mostrano maggiore
perizia dei soggetti con preferenza survey nei compiti di ricostruzione di un percorso
noto.
4) I soggetti “congruenti con il compito” e “congruenti con la conoscenza” si
differenziano tra di loro solo sulla base di prove molto semplici come la prova di Span
visuo-spaziale e di riconoscimento di etichette verbali di direzione, in entrambi i casi a
favore dei “congruenti con il compito”. Ricerche future saranno volte alla selezione di
nuovi predittori per definire meglio le caratteristiche dei gruppi secondo un modello
multifattoriale che dovrebbe comprendere prove di intelligenza fluida, di intelligenza
cristallizzata e di rapidità percettiva.
SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO
304
Riferimenti bibliografici
Bosco, A. (1999). Abilità e strategie nelle rappresentazioni mentali dello spazio.
Correlati cognitivi e differenze individuali del “senso dell’orientamento”. Tesi
di Dottorato non pubblicata.
Lawton, C. A. (1994). Gender differences in way-finding strategies: Relationship to
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Siegel, A.W., White, S.H. (1975). The development of spatial representations of largescale environments. In H.W. Reese (Ed.), Advances in Child Development and
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Vandenberg, S.G., Kuse, A.R. (1978). Mental rotations: A group test of three
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representation. Journal of Mathematical Psychology, 35, 371-393.
RUOLO DELLA PREFERENZA SPAZIALE NELLA
PRESTAZIONE IN COMPITI VISUOSPAZIALI E NEL
RICORDO DI DESCRIZIONI DI AMBIENTI
Francesca Pazzaglia{xe "Pazzaglia F."}, Rossana De Beni{xe "De Beni R."}
Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
Introduzione
La letteratura sulle rappresentazioni spaziali e sulle descrizioni di ambienti
individua due modi sostanzialmente diversi di rappresentare e descrivere lo spazio
(Tversky, 1991; 1996): da una prospettiva “entro il percorso” (route) o “dall’alto”
(survey). Lo scopo della presente ricerca è di verificare se individui classificati come
alti-spaziali e caratterizzati da una preferenza per una rappresentazione dello spazio di
tipo survey dimostrino, confrontati a soggetti bassi-spaziali, una migliore prestazione in
compiti di memoria visuospaziale e nel ricordo di descrizioni di ambienti da diverse
prospettive.
Metodo
Soggetti
Quarantotto studenti universitari, selezionati da un campione di 322 studenti
sulla base delle risposte fornite ad un Questionario di Orientamento Spaziale (Pazzaglia,
Cornoldi e De Beni, in corso di stampa). I partecipanti sono divisi in due gruppi (24
partecipanti per gruppo, 8 m. e 16 f.), rispettivamente con alta e bassa attitudine ad
avere una rappresentazione spaziale di tipo survey.
Materiali e procedura
SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO
305
Ad entrambi i gruppi sono state somministrate le seguenti prove visuospaziali:
il Corsi Block Test (Milner, 1971), il Visual Pattern Test (Della Sala, Gray, Baddeley &
Wilson, 1997), il Mental Rotation Test (Vanderberg & Kuse, 1978) e il Minnesota
Paper Form Board (Likert & Quasha, 1941). Sono stati inoltre proposti uditivamente
alcuni brani spaziali seguendo la procedura di Pazzaglia, Cornoldi e Longoni (1994),
con una successiva prova di riconoscimento di informazioni spaziali e non contenute nel
brano.
Ipotesi
Si ipotizzava che i due gruppi si differenziassero nel Mental Rotation Test, che,
tra quelle proposte, è la prova che richiede una rotazione attiva degli item anche nella
terza dimensione e che viene considerata dalla letteratura come la più tipicamente
spaziale (Linn e Petersen, 1986). Ci si aspettava inoltre che il gruppo di alti-spaziali
ottenesse una migliore performance nella prova di riconoscimento di informazioni, con
maggiore accuratezza e tempi più veloci nel rispondere, in particolare, alle domande
riguardanti i brani da prospettiva survey.
Risultati
I risultati confermano la differenza tra gruppi nel Mental Rotation Test a favore
del gruppo di alti-spaziali. Nel ricordo di brani l’attesa interazione tra prospettiva
assunta dal brano e preferenza di rappresentazione spaziale non è stata individuata, né
considerando l’accuratezza né i tempi di risposta. È risultata, invece, in generale una
migliore prestazione degli individui alti-spaziali circoscritta alle informazioni di tipo
spaziale e indipendente dal tipo di brano presentato. Non è stata trovata differenza nel
riconoscimento di informazioni non spaziali contenute negli stessi testi.
Conclusioni
I nostri dati confermano la relazione tra strategie spaziali di rappresentazione
dello spazio e compiti di memoria visuospaziale, confermando la validità
dell’autovalutazione delle abilità di orientamento e di preferenza di rappresentazione
spaziale. Si dimostra, inoltre, che individui con alta abilità spaziale hanno una migliore
comprensione di brani spaziali, indipendentemente dalla prospettiva (route o survey)
adottata nel brano.
Riferimenti bibliografici
Della Sala, S., Gray, C., Baddeley, A., Wilson, L. (1997). Visual patterns test: A new
test of short-term visual recall. Suffolk: Thames Valley Test Company.
Linn, M. C., Petersen, A. C. (1985). Emergence and characterization of sex differences
in spatial ability: A meta-analysis. Child Development, 56, 1479-1498.
Milner, B. (1971). Interhemispheric differences in the localization of psychological
processes in man. British Medical Bulletin, 27, 272-277.
Pazzaglia, F., Cornoldi, C., De, Beni R. (in press). Differenze individuali nella
rappresentazione dello spazio: presentazione di un Questionario autovalutativo
(Individual differences in spatial representation: An autovalutative
questionnaire). Giornale Italiano di Psicologia.
306
SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO
Pazzaglia, F., Cornoldi, C., e Longoni, A. (1994). Limiti di memoria e specificità di
rappresentazione nel ricordo di descrizioni spaziali “dall’alto” ed “entro il
percorso”. Giornale Italiano di Psicologia, 21, 267-286.
Tversky, B. (1991). Spatial mental models. In G. H. Bower (Ed.), The psychology of
learning and motivation: Advances in research and theory: Vol. 27 (pp. 109145). New York: Academic Press.
Tversky, B. (1996). Spatial perspective in descriptions. In P. Bloom, M. A. Peterson, L.
Nadel, M. F. Garret (Eds.), Language and space (pp. 463-491). Cambridge,
MA: The MIT Press.
Vanderberg, S. G. , Kuse, A. R. (1978). Mental rotations: A group test of threedimensional spatial visualization. Perceptual and Motor Skills, 47, 599-604.
DISTANZE MENTALI E DISTANZE REALI
Tina Iachini{xe "Iachini T."}, Fiorella Giusberti{xe "Giusberti F."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Introduzione
Lo scopo di questo lavoro è quello di studiare in che modo la grandezza
assoluta di un percorso all’interno di un ambiente sia rappresentata immaginativamente.
Un insieme molto ampio di ricerche ha affrontato l’argomento della distanza in
relazione alle immagini mentali (ad es. Kosslyn, Ball e Reiser, 1978; Kosslyn, 1983).
Queste ricerche intendevano dimostrare che le immagini mentali sono analoghe a
rappresentazioni percettive e quindi hanno un’estensione, ossia una grandezza che
funziona in modo simile alle distanze reali degli oggetti rappresentati. Più precisamente,
tali ricerche hanno dimostrato che il tempo richiesto per esplorare l’immagine mentale
di una mappa, ad esempio, aumenta linearmente all’aumentare della superficie esplorata
(Kosslyn, Ball e Reiser, 1978). Questo risultato, di grande rilevanza teorica all’interno
del dibattito analogico/proposizionale in corso negli anni ‘70, lasciava aperta la
questione di quale relazione ci fosse tra le distanze reali e le distanze riprodotte
immaginativamente. Assodato che le immagini mentali hanno una grandezza, lo scopo
che si prefigge il nostro lavoro è di indagare come le immagini mentali riproducono le
distanze reali. Sono sensibili alla grandezza assoluta di un percorso o la riducono ad una
sorta di grandezza standard? È stato progettato un esperimento basato sul confronto
diretto fra tre percorsi di diverse dimensioni, ognuno comprendente delle posizioni al
suo interno. Venivano formulate due ipotesi: quella della grandezza standard secondo
cui la prestazione è predetta dalle posizioni ma non dalle dimensioni metriche assolute;
quella della grandezza assoluta secondo cui la prestazione è predetta dalle dimensioni
metriche assolute ma non dalle posizioni.
Metodo
36 soggetti erano divisi in tre gruppi, a ciascuno dei quali era assegnato uno di
tre percorsi di diversa grandezza che misuravano complessivamente 3 m., 6 m. e 12 m.
Ogni percorso comprendeva sei posizioni, indicate da un colore specifico, poste a
SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO
307
distanze uguali l’una dall’altra, ossia rispettivamente 50 cm., 100 cm. e 200 cm. Nella
fase di studio i soggetti dovevano memorizzare il percorso camminandoci sopra ed
osservandolo, seguendo la direzione antioraria. Dovevano fare quattro volte il giro del
percorso secondo la loro andatura e quindi senza limiti tempo. Nella fase di test, i
soggetti devono esplorare mentalmente l’immagine che avevano elaborato del percorso
a partire dalla posizione di partenza fino alle successive posizioni. La variabile
dipendente era costituita dal tempo di scanning.
Risultati
Sui tempi di scanning veniva effettuata un’analisi della varianza per disegni
misti (1 variabile between, 3 gruppi ed 1 variabile within, 6 posizioni) che non ha
rivelato una differenza significativa fra i gruppi F (2,33)= 2.744, p< .074 né interazione
tra gruppi e posizioni, ma un effetto significativo legato alle posizioni: F (5, 165)=
33.791, p< .000. Un’analisi della regressione multipla ha rivelato che all’interno di ogni
condizione il tempo di scanning aumentava all’aumentare della distanza e che la
relazione era spiegata da una significativa componente esponenziale ossia con X elevato
a 5: gruppo 50 cm. F (1,70)= 44.718, p< .000, Beta= .624; gruppo 100 cm. F (1,70)=
20.412, p< .001, Beta= .475; gruppo 200 cm. F (1,70)= 18.960, p< .001, Beta= .462.
Venivano effettuate ulteriori analisi per capire se i diversi tempi di studio avessero
influenzato la prestazione. I tempi, infatti, variavano secondo un range da 22.53 sec. a
88.63 sec. Sono state individuate due classi di tempi: brevi e lunghi. Successivamente
sono state effettuate delle analisi della varianza 3 X 6 (3 gruppi X 6 posizioni)
all’interno di ciascuna classe di tempo. Nel tempo lungo si è trovata una significativa
differenza tra i gruppi: F (2,19)= 4.355, p< .0278, che non si è invece ottenuta nel tempo
breve.
Conclusioni
I risultati confermano l’ipotesi relativa alla grandezza standard, secondo cui la
prestazione doveva essere predetta dalle posizioni ma non dalla grandezza metrica
assoluta dei percorsi. In altre parole, la rappresentazione su cui si basa l’esplorazione
mentale dello spazio è il risultato della codifica delle posizioni dislocate al suo interno e
della riduzione delle sue dimensioni ad una sorta di grandezza standard. Le analisi
esplorative condotte in base ai tempi di studio, tuttavia, suggeriscono che si verifica un
effetto legato alla dimensione metrica assoluta quando i soggetti hanno più tempo a
disposizione nella fase di codifica per studiare il percorso. In questo caso è possibile
supporre che abbiano codificato sia le posizioni che le distanze fra di esse. Questo
risultato, però, ha un valore puramente indicativo e costituisce la base per ulteriori
indagini.
Riferimenti bibliografici
Kosslyn, S.M., Ball, T.M. & Reiser, B.J. (1978). Visual images preserve metric spatial
information: Evidence from studies of image scanning. Journal of
Experimental Psychology: Human Perception and Performance, 4, 47-60.
Kosslyn, S. M. (1983). Ghosts in the mind’s machine: creating and using mental images
in the brain. New York Norton. Trad. it. Le imagini nella mente, Firenze:
Giunti, 1989.
308
SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO
DIFFERENZE INDIVIDUALI NELL’EFFETTO
ALLINEAMENTO
Raffaella Nori{xe "Nori R."}, Fiorella Giusberti{xe "Giusberti F."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Introduzione
Nel momento in cui dobbiamo effettuare un compito di wayfinding in un
ambiente geografico sconosciuto o non familiare siamo soliti consultare una mappa. La
facilità con cui le persone possono muoversi nell’ambiente geografico circostante e
raggiungere la meta desiderata, è determinata dal fatto che la mappa risulti allineata con
l’ambiente esterno. Quando cioè, si verifica una corrispondenza tra la prospettiva
indicata dalla mappa e quella dell’ambiente di fronte a noi, si effettuano meno errori (es.
intraprendere strade sbagliate o che allunghino il percorso) rispetto a quando questa
corrispondenza non si verifica (Warren e Scott, 1993). Risultati simili si evidenziano
anche quando le persone riattivano e utilizzano rappresentazioni mentali o mappe
cognitive dell’ambiente geografico circostante. Numerose ricerche sulla memoria
spaziale hanno infatti evidenziato come le persone risultino più accurate e veloci,
nell’effettuare giudizi di direzione, quando la prospettiva immaginata corrisponde alla
prospettiva da cui l’informazione spaziale è stata appresa (effetto allineamento)
(Presson, DeLange e Hazerlig, 1989). Un recente lavoro condotto da Rossano, Warren e
Kenan (1995) ha però rilevato come questo effetto non risulti così generalizzabile come
si poteva supporre. Nei tre esperimenti da loro condotti, gli autori hanno infatti
osservato come una parte dei soggetti non presenti alcun effetto allineamento. Lo scopo
del nostro studio è quello di rilevare la qualità delle differenze individuali ipotizzando
che queste risiedano nella predisposizione soggettiva a focalizzare l’attenzione solo su
alcune possibili informazioni fornite dall’ambiente. Questo porta inevitabilmente
all’acquisizione di differenti forme di conoscenza ambientale: visivo (caratterizzata da
un’acquisizione e conseguente rappresentazione mentale dell’ambiente basata solo ed
esclusivamente sui punti di riferimento, cioè stimoli ambientali percettivamente vistosi
o soggettivamente importati) route (caratterizzata da un’acquisizione e quindi
rappresentazione mentale dell’ambiente basata, sia dalla presenza dei punti di
riferimento che dai percorsi abitualmente effettuati per spostarsi da un punto di
riferimento all’altro) e survey (caratterizzata da un’acquisizione e rappresentazione
mentale dell’ambiente simile ad una mappa, basata su conoscenze configurazionali con
punti di riferimento fissi e globali) (Pazzaglia, Cornoldi, De Beni in stampa). In
particolare noi ipotizziamo che i soggetti che utilizzano una rappresentazione mentale
dell’ambiente prevalentemente survey non presentino un effetto allineamento a
differenza dei soggetti che utilizzano una rappresentazione mentale dell’ambiente
prevalentemente route o visiva. Supponiamo inoltre che i soggetti che utilizzano una
rappresentazione mentale dell’ambiente prevalentemente survey non risultino più rapidi
nell’effettuare giudizi direzionali allineati rispetto a giudizi direzionali controlineati.
SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO
309
Metodo
Soggetti
Hanno preso parte all’esperimento 60 soggetti (20 soggetti che utilizzano una
strategia di acquisizione dell’informazione spaziale prevalentemente visiva, 20 soggetti
che utilizzano una strategia di acquisizione dell’informazione spaziale prevalentemente
route e 20 soggetti che utilizzano una strategia di acquisizione dell’informazione
spaziale prevalentemente survey).
Procedura
Allo scopo di differenziare lo stile cognitivo utilizzato nell’acquisizione
dell’informazione spaziale, abbiamo preliminarmente sottoposto il questionario di
Pazzaglia e collaboratori ai nostri soggetti. Successivamente venivano mostrati 8
percorsi, uguali a quelli utilizzati da Presson e collaboratori (1989), costituiti da 4
segmenti sui quali erano indicate 4 posizioni con i relativi numeri. I soggetti avevano a
disposizione 30 secondi di tempo, per ciascun percorso, per apprendere la disposizione
delle 4 posizioni. Una volta appreso il percorso i soggetti dovevano effettuare 2 compiti
di giudizio direzionale: allineato (la prospettiva immaginata corrispondeva alla
prospettiva appresa) e controlineato (la prospettiva immaginata era diversa da quella
appresa) per rilevare l’esistenza o meno dell’effetto allineamento. La prova avveniva
individualmente alla sola presenza dello sperimentatore che registrava sia le risposte dei
soggetti che il tempo utilizzato per effettuare ciascun giudizio direzionale.
Risultati
I risultati sono in corso di elaborazione. Da una prima analisi emergono
interessanti correlazioni significative tra le opinioni che i soggetti hanno relativamente
alle proprie modalità di acquisizione e rappresentazione dell’informazione spaziale e la
performance sui compiti di giudizio direzionale.
Riferimenti bibliografici
Pazzaglia F., Cornoldi C., De Beni R. (in stampa). Differenze individuali nella
rappresentazione dello spazio: presentazione di un questionario autovalutativo.
Presson C. C., DeLange N., Hazelrigg M. D. (1989). Orientation specificity in spatial
memory: what makes a path different from a map of a path. Journal of
Experimental Psychology: Learning, Memory and Cognition, 15, 887-897.
Rossano M. J., Warren D. W., Kenan A. (1995). Orientation specificity: how general is
it? American Journal of Psychology, 108 (3), 359-380.
Warren D. H., Scott T. E. (1993). Map alignment in traveling multisegment routes.
Environment and Behaviour, 25, 643-666.
DESCRIVERE LO SPAZIO: FREQUENZA D’USO ED
ATTRIBUTI SEMANTICI DEI TERMINI DIREZIONALI IN
TEMI DI BAMBINI DELLE SCUOLE ELEMENTARI
310
SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO
Anna M. Longoni{xe "Longoni A.M."}, Clelia Rossi-Arnaud{xe "Rossi-Arnaud
C."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione
Per un osservatore canonico lo spazio è organizzato secondo una direzione
verticale denotata dai termini “sopra-sotto” e da due direzioni orizzontali denotate dai
termini “davanti-dietro” e “destra-sinistra”. Ricerche precedenti (Franklin & Tversky,
1990), hanno mostrato che nella rappresentazione mentale di ambienti derivati da un
testo scritto, oggetti posizionati lungo l’asse verticale sono più rapidamente accessibili
di oggetti posizionati lungo gli assi orizzontali. Lo stesso trend è emerso nella frequenza
d’uso dei termini direzionali, calcolata su un corpus di romanzi in lingua Spagnola
(Rodrigo, De Vega, 1966).
Obiettivi e procedura
Scopo della presente ricerca è quello di esaminare la distribuzione di frequenza
e gli attributi semantici dei termini direzionali: sotto-sopra; davanti-dietro; destrasinistra in temi liberi scritti da un campione rappresentativo di bambini Italiani delle
scuole elementari.
Il materiale su cui è basato questo studio, fornito da L. Marconi e D. Ratti,
proviene dal corpus sul quale è stato costruito il Lessico elementare di Marconi et al.
(1993). I temi hanno fornito 1095 frasi contenenti gli specificati termini direzionali.
Ciascuna frase descriveva la relazione spaziale tra l’oggetto da posizionare (Figura) e
l’oggetto di riferimento. Nel contesto della frase e in base alla situazione descritta
ciascun termine direzionale veniva classificato da due giudici indipendenti in una delle
seguenti categorie: evento statico (il termine veniva usato per descrivere la posizione di
un oggetto rispetto ad un altro), evento di moto (il termine veniva usato per descrivere il
movimento di un oggetto rispetto ad un altro) e metafora (il termine veniva usato per
descrivere un concetto astratto).
Risultati e discussione
È stata condotta un’analisi loglineare per “selezione automatica del modello
migliore via eliminazione” con le seguenti variabili: Classe (dalla 2a alla 5a
elementare), Parola (davanti, dietro, sopra, sotto) e Situazione (Statico e Moto). Le
metafore e i termini relativi a uno degli assi orizzontali (destra-sinistra), essendo
pochissimo utilizzati dai bambini, sono stati eliminati dalle analisi. I risultati
evidenziano una leggera preferenza da parte dei bambini per l’uso di espressioni che
descrivono relazioni statiche (54%) rispetto a situazioni di movimento (42%). Inoltre,
nelle produzioni spontanee dei bambini di tutte le classi elementari è emerso un maggior
uso dei termini legati all’asse verticale (“sopra-sotto”) rispetto a quelli relativi all’asse
orizzontale (“davanti-dietro”); tale tendenza è più pronunciata nei bambini delle prime
classi. Sono state inoltre analizzate le caratteristiche dell’oggetto figura e dell’oggetto di
riferimento, utilizzando le seguenti categorie: Oggetto, Animale, Self, Persona. L’analisi
loglineare condotta sui fattori Classe, Parola e Figura (a quattro livelli ciascuno) ha
indicato un maggior uso della categoria Oggetto come figura rispetto alle altre categorie.
Inoltre, con l’età, decresce l’uso di animali come oggetti figura, mentre aumenta il
SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO
311
riferimento a se stessi. Allo stesso modo un’ulteriore analisi condotta sui fattori Classe,
Parola e Oggetto di riferimento ha evidenziato che nel 78,5% delle osservazioni
effettuate i bambini del campione preso in considerazione usano un Oggetto come
oggetto di riferimento quando devono descrivere una relazione spaziale. Tale tendenza
aumenta con l’età, mentre diminuisce l’uso della categoria animali. I risultati dell’analisi
hanno inoltre indicato una tendenza ad associare esseri animati (animali, persone e self)
all’asse orizzontale, mentre gli oggetti sono più spesso utilizzati con i termini “sopra” e
“sotto”. I risultati di questa ricerca confermano infine la tendenza, emersa in precedenti
lavori, ad utilizzare, indipendentemente dall’età del soggetto, l’oggetto più stabile e più
grande come oggetto di riferimento.
Riferimenti bibliografici
Franklin, N., Tversky, B. (1990). Searching imagined environments. Journal of
Experimental Psychology, 119(1), 63-76.
Marconi, L., Ott, M., Pesenti, E., Ratti, D., Tavella, M. (1994). Lessico elementare Dati statistici sull’italiano scritto e letto dai bambini delle elementari.
Bologna, Zanichelli.
Rodrigo, M.J., De Vega, M. (1996). The use of direction terms in Spanish. Poster
presentato al 37th Annual Meeting of the Psychonomic Society, Chicago,
Novembre 1996.
GLI PSICOLOGI E LE NUOVE TECNOLOGIE
INFORMATICHE
Simposio a cura di Domenico Parisi
PRESENTAZIONE DEL SIMPOSIO
Domenico Parisi{xe "Parisi D."}
Istituto di Psicologia del C.N.R., Roma
Le nuove tecnologie informatiche (multimediali, interattive, simulative,
telematiche, realtà virtuale) sono oggi in grande sviluppo e invadono ogni aspetto della
vita individuale e sociale (lavoro, formazione, intrattenimento, comunicazione, ecc.). Si
tratta di tecnologie che hanno relazioni molto strette con la psicologia in quanto
chiamano in causa in modo prioritario capacità cognitive, comunicative e espressive,
influenzando lo sviluppo e l’esercizio di tali capacità e richiedendo una conoscenza di
queste capacità nella loro progettazione e realizzazione. Tuttavia la psicologia, almeno
in Italia, non ha investito finora in modo sufficiente in queste tecnologie. Ad esempio la
formazione degli psicologi non prevede in genere corsi su queste tecnologie e sul
contributo che la psicologia può dare per il loro sviluppo e il loro uso appropriato. In
questo modo si perdono occasioni importanti sia sul piano culturale e sociale sia su
quello degli sbocchi lavorativi dei laureati in psicologia.
BASI COGNITIVE DELLA REALTÀ VIRTUALE
Francesco Antinucci{xe "Antinucci F."}
Istituto di Psicologia, CNR
La realtà virtuale è una applicazione delle tecnologie informatiche che consente
all’utente di essere esposto a input sensoriali che variano in funzione dei movimenti
della sua testa, occhi, mani, etc., in modo simile a quello che accade nella realtà “reale”.
L’utente ha così una esperienza di trovarsi immerso in un ambiente fisico e di poter
interagire con tale ambiente che è molto simile alla sua esperienza nell’ambiente fisico
reale. La realtà virtuale si basa su principi familiari allo psicologo e offre nuovi
problemi e possibilità di ricerca alla psicologia. Inoltre la realtà virtuale ha tutta una
serie di applicazioni (da quelle in campo educativo, divulgativo e dell’intrattenimento, a
quelle in campo tecnologico e produttivo, fino alle applicazioni come nuovo strumento
di ricerca per lo stesso psicologo) per le quali la psicologia potrebbe portare contributi
importanti.
SIMPOSI – GLI PSICOLOGI E LE NUOVE TECNOLOGIE INFORMATICHE
313
PSICOLOGI IN UN MONDO SENZA NOTTE
Walter Gerbino{xe "Gerbino W."}
Dipartimento di Psicologia, Università di Trieste
La formazione alla CMC (comunicazione mediata dal computer) apre allo
psicologo un curioso ambito di intervento. Gli psicologi debbono interessarsi alla CMC
per vari motivi: (i) per rendere più efficiente il loro lavoro, siano essi ricercatori o
professionisti; (ii) per sperimentare una modalità comunicativa ricca di insidie; (iii) per
capire come facilitare importanti processi individuali e sociali. Per ora lo psicologo è
ancora troppo preso a contenere le frustrazioni derivanti dal divario tra aspettative ed
effettivi benefici prodotti dalle tecnologie della comunicazione. Ma tra poco potrebbe
ritrovarsi a fare qualcosa di più.
LE SIMULAZIONI COME AMBIENTI DI APPRENDIMENTO
Domenico Parisi{xe "Parisi D."}
Istituto di Psicologia del C.N.R., Roma
Le simulazioni sono un nuovo modo di formulare le teorie scientifiche
esprimendole come programmi di computer. Quando la teoria-programma “gira” nel
computer si può verificare se la teoria spiega effettivamente i fenomeni che intende
spiegare controllando se la simulazione riproduce o no tali fenomeni. Inoltre la
simulazione funziona come laboratorio sperimentale virtuale in cui il ricercatore può
manipolare variabili e osservare i risultati delle sue manipolazioni. Oltre che come
strumenti di ricerca la simulazioni possono funzionare come ambienti di apprendimento
in cui lo studente può conoscere e capire i diversi aspetti della realtà (nel campo delle
scienze, della storia, della geografia, delle scienze sociali, della matematica) interagendo
con una simulazione come se facesse esperimenti in un laboratorio didattico. I vantaggi
delle simulazioni sono che molti più aspetti della realtà possono essere simulati rispetto
a quelli che si possono portare in un laboratorio reale, e che la comprensione non passa
più esclusivamente attraverso il linguaggio verbale del libro di testo e delle lezioni
dell’insegnante ma attraverso un apprendimento attivo dello studente e canali
espressivo-comunicativi diversi dal linguaggio come le immagini visive, e si può far
conto su motivazioni aggiuntive rispetto alla motivazione ad imparare come la
motivazione a giocare, gareggiare, esplorare, e così via.
PROGETTARE L’INTERAZIONE: TRA USABILITÀ E
COINVOLGIMENTO ESPERENZIALE
Antonio Rizzo{xe "Rizzo A."}
314
SIMPOSI – GLI PSICOLOGI E LE NUOVE TECNOLOGIE INFORMATICHE
Istituto di Psicologia, Università di Siena
Istituto di Psicologia CNR, Università di Roma
La progettazione e lo sviluppo di interfacce interattive è con ogni probabilità la
parte di lavoro più intensa e difficile nel processo di sviluppo di strumenti informatici.
Per avere una idea di ciò, basti pensare che oltre il 50% del codice di un software
moderno è dedicato all’interfaccia e che il 75% delle revisioni di software riguardano
l’interfaccia. Le principali ragioni di ciò risiedono nel fatto che progettare un interfaccia
prevede una varietà di scelte e decisioni progettuali che coinvolgono gli utenti e le
possibili attività che potranno essere svolte dall’uomo in interazione con le tecnologie
informatiche, e che la gran parte delle conseguenze di queste decisioni sono
impredicibili. È principalmente per questo che la progettazione di interfacce interattive è
un’attività sperimentale per la quale sono state concepite metodologie di sviluppo,
tecniche di valutazione e vengono costantemente proposti nuovi approcci alla
progettazione. Fra questi, i più promettenti combinano l’usabilità con il coinvolgimento
esperenziale anche in applicazioni per le quali la sicurezza e l’affidabilità sono fattori
critici (ad es. i sistemi di trasporto).
INDICE ANALITICO
INDICE ANALITICO
A
Adenzato M........................... 163; 220
Alzani A................................. 261; 273
Angeli V............................................29
Angrilli A. ......................................131
Annoni G..........................................35
Antinucci F.....................................312
Anzidei F. .......................................144
Arcidiacono L. ...............................198
Arduino L.............................. 114; 117
Argenton A. .....................................73
Attardi A. .........................................66
B
Bacchini D........................................47
Bagassi M.............................. 265; 270
Balboni G. ......................................275
Baldanza S. ....................................144
Baldaro B. ......................................136
Baldassi S. ..........................................9
Balsamo M. ....................................177
Barbieri M.S. .................................295
Bascelli E........................................295
Basso D...........................................154
Beghi L. ..........................................251
Bellusci A. ......................................145
Benso F.............................................26
Bertini M........................................173
Berto R. ............................................21
Biasi V. ...........................................191
Bisiacchi P.S...................................154
Boggi Cavallo P. ..............................34
Bonaiuto M. ...................................173
Bonaiuto P............................... 43; 191
Bonfiglioli C.......................................8
Borghi V.........................................126
Bosco A.................................. 157; 302
Bosco F.M. .......................................75
Brandimonte M.A. ..........................88
Brennen T. .....................................121
Brizzolara D...................................240
Brovedani P. ..................................240
Bucciarelli M. ..................................77
Buodo G. ................................. 61; 263
Burani C. ...............................114; 123
Burr D................................................ 9
Burr D.C. ....................................... 107
C
Cabib S...................................127; 128
Cacciari C........................................ 67
Caci B............................................... 66
Cadamuro A.................................. 266
Calabretta R.................................. 217
Calamari E. ..................................... 83
Calasso D. ...................................... 201
Calì F.............................................. 127
Callegati I. ..................................... 184
Cancian F....................................... 116
Carbonara M.V............................. 193
Cardaci M..................................49; 66
Carola V. ....................................... 257
Casagrande M. ......................132; 259
Casiglia A.C..................................... 66
Castelli F..................................93; 195
Caterina R. ...................................... 57
Cattaneo M.T. .........................35; 197
Cavallero C............................134; 215
Celani G. ........................................ 198
Celia G. .......................................... 204
Cerritelli G. ................................... 142
Cerutti R........................................ 280
Cesa-Bianchi G.............................. 201
Checchi M........................................ 36
Cherubini P. ..........................159; 186
Chieffi S. ........................................ 242
Ciccarelli L. ................................... 117
Cicogna PC............................261; 289
Cipriani P. ..................................... 240
Codispoti M. ..........................136; 137
Colle L.............................................. 77
Collina S......................................... 116
Colombo L. .................................... 296
Committeri G. ................................. 95
Conson M. ..................................... 242
Conte A. ......................................... 134
Contento S. ..............................67; 222
Cornoldi C. ..............................85; 232
Corradini P...................................... 67
INDICE ANALITICO
Corso A.......................................... 277
Costa M. .................................. 38; 140
Couyoumdjian A........................... 162
Cova M. ......................................... 253
Cozzolino M. ................................... 34
Cristante F. ................................... 289
Cristini C.A. .................................. 201
Cubelli R................................ 253; 296
Curci A. ........................................... 40
Curcio G. ............................... 132; 259
Curto R.......................................... 215
Cusumano S. ................................. 131
Cutica I. ......................................... 224
D
D’Amato S. ................................ 14; 42
D’Ercole M...................................... 43
D’Olimpio F. ................................. 257
D'Alessio M. .................................. 203
Daniela M. ..................................... 186
Dazzi C. ......................................... 277
De Beni R............................... 232; 304
De Gennaro L........................ 142; 144
De Pascalis V................................. 145
De Stasio S..................................... 203
De Vincenzi M............................... 117
de’Sperati C. ................................. 248
Del Miglio C. ................................... 42
Delbello R. ..................................... 102
Dell’Acqua R......................... 103; 283
Devoto A. ............................... 147; 179
di Benedetto V................................. 53
Di Ferdinando A. .......................... 217
Di Matteo R................................... 105
Di Nocera F. .................................... 71
Donato D.................................... 34; 49
Driver J...................................... 20; 99
Duncan J............................................ 8
Ferretti G. ......................................240
Flores d’Arcais G.B.......................298
Frassinetti F. ..................................243
Frigerio E................................ 35; 197
Frith C..............................................93
Frith U..............................................93
G
Gaggioli A. .....................................233
Gagliardi M.P................................173
Galati D. ................................ 163; 167
Galati G..................................... 95; 98
Galatolo R. .......................................79
Galfano G.........................................26
Gerbino W. ........................... 111; 313
Giannini A.M...................................43
Giovanelli G. ..................................184
Girelli M.........................................119
Giusberti F. ................... 266; 306; 308
Grainger J......................................103
Grassi L..........................................238
Greci E. ............................................45
Grieco A. ........................................177
Grifò S. ...........................................230
Grussu P.........................................280
Guariglia C. .....................................98
H
Happè F............................................93
I
Iachini T.........................................306
Iannaccone A. ......................... 34; 204
IannacconeA. ...................................34
Iaria G. .............................................98
Iavarone A. ....................................242
J
E
Job R. ....................117; 119; 253; 283
Elbert T. ........................................ 131
L
F
La Greca F. ....................................282
Laicardi C. .....................................177
Leone L. .........................................169
Lo Priore C. ...................................121
Lombardi L............................. 55; 170
Fagioli I.......................................... 149
Ferlazzo F........................................ 12
Ferrara M...................................... 142
INDICE ANALITICO
Longoni A.M..................................310
Lorenzetti R. ..................................253
Lorusso I. .......................................144
Lotto L............................................283
Lucidi F. ................................ 173; 179
Lucidi L............................................85
M
Macchi Cassia V. .............................15
Macchi L. .............................. 265; 270
Magurano M.R. .............................145
Mapelli D..........................................17
Marcone R. ....................................206
Marini S. ........................................298
Marsico P. ......................................204
Martoni M............................. 261; 273
Marucci F.S. ..................................164
Matarazzo O. ...................................47
Mattarozzi K..................................245
Mattei C. ........................................136
Mazzetti M............................ 136; 137
Mercuri L.......................................287
Metitieri T........................................29
Miceli S.............................................49
Minghetti R....................................131
Mininni G.......................................226
Miragliotta A. ................................285
Misuraca R. .....................................49
Mizzau M. ........................................79
Mondini S.........................................85
Montebarocci O.............................137
Morra S. .................................... 24; 51
Morrone M.C.................................107
Mosca F. .........................................110
Mosconi G. ............................ 265; 270
Musso E..........................................248
N
Nasta M.T. .....................................280
Natale V................................. 151; 261
Neri P..............................................107
Nicoletti R. .............................. 67; 188
Nigro G...........................................289
Nori R.............................................308
O
Occhionero M................................ 235
Olivetti Belardinelli M..............12; 14
P
Pace F............................................... 53
Pagani D. .................................55; 170
Palladino P...............................86; 232
Palomba D. ............................137; 263
Panero T. ......................................... 81
Papotti M....................................... 268
Parisi D. .................................312; 313
Pascucci T...................................... 127
Passolunghi M.C.ù ........................ 269
Patria F. ........................................... 95
Pavan T............................................ 57
Pavani F........................................... 20
Pavone F. ....................................... 126
Pazzaglia F..................................... 304
Pecini C.......................................... 240
Pedone R........................................ 164
Pedrabissi L...........................275; 277
Pelizzon L. ....................................... 88
Pelosi A. ...................................59; 175
Peressotti F. ................................... 253
Perini S........................................... 268
Pernice L........................................ 210
Peron E. ........................................... 21
Pestilli F. .......................................... 12
Peverelli M...............................35; 197
Pinelli M. .................................59; 175
Pini M. ............................................. 83
Pirani P. ......................................... 201
Pizzamiglio L.............................95; 98
Pizzoli C. ........................................ 253
Plet S. ............................................. 111
Poderico C. .................................... 207
Poggi I. .......................................36; 45
Porcù S........................................... 259
Primavesi A. .................................. 197
Provenzano L. .......................210; 287
Puglisi-Allegra S....................127; 128
Purcell T. ......................................... 21
Q
Quatraro R.M. .............................. 280
INDICE ANALITICO
R
T
Ricci Bitti P.E................................ 140
Ricciardelli P................................... 99
Rimé B. ............................................ 40
Rizzo A. ......................................... 313
Robusto E. ..................................... 289
Rollo D........................................... 268
Romano V...................................... 127
Rorden C. .......................................... 8
Rosati M.M. .................................. 173
Rossi-Arnaud C. ........................... 310
Rubichi S. ...................................... 188
Tabossi P. .............................. 116; 299
Tacconi F........................................277
Tagliabue M.....................................32
Terminello A..................................285
Tinti C. .................................. 163; 167
Tirassa M. ......................................224
Tomat L..........................................249
Traficante D...................................123
Tucci R. ................................... 59; 175
Tucci V. ..........................................134
Tuozzi G. ............................... 136; 184
Turatto M. .......................................26
S
Saetti L. ......................................... 295
Saggino A. ..................................... 177
Salpietro R. ..................................... 71
Salzarulo P. ................................... 149
Sansavini A.................................... 184
Sarlo M. ................................... 61; 263
Savarese G..................................... 228
Scapellato P................................... 151
Schimmenti V........................ 210; 287
Scotto F............................................ 81
Senese V.P. .................................... 289
Serafini M.G. ........................ 265; 270
Sichel M......................................... 280
Siegel L. ......................................... 269
Simion F. ......................................... 15
Spence C. ......................................... 20
Sprini G. .................................. 53; 230
Stablum F. ....................................... 24
Stegagno L..................................... 131
Stracciari A. .................................. 245
Stucchi N. ...................................... 248
Surian L......................................... 298
U
Umiltà C.............................. 15; 17; 32
Urbani L.........................................259
Usai M.C. .........................................90
V
Vecchi T. ........................................232
Ventura R. ............................ 127; 128
Versace F............................... 134; 215
Vestri A. ...........................................29
Vignatelli L. ...................................245
Violani C. .............................. 147; 179
Viterbori P. ......................................90
X
Xausa E. .........................................251
Z
Zammuner V.L....................... 63; 211
Zanforlin M. ..................................251
Zorzi M. .................................. 32; 296
Zucco G. .........................................238