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RASSEGNA STAMPA
martedì 12 gennaio 2016
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
DONNE E DIRITTI
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CULTURA E SPETTACOLO
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IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 12/01/16, pag. 2
L’altra camera del referendum
Riforma. Ieri l’affollatissimo lancio del comitato promotore. Il fronte dei
parlamentari e il dubbio se raccogliere anche le firme. Assemblea
strapiena, parte l’iniziativa del no. I costituzionalisti: «Sfuggire dallo
scontro innovatori-conservatori». In arrivo anche altri quesiti sociali
Andrea Fabozzi
ROMA
La fila è lunga. «Abbiamo già superato il quorum?», si scherza sperando di riuscire a
entrare. Al debutto del comitato del No si riempie subito l’aula dei gruppi parlamentari di
Montecitorio, mentre nell’aula quella vera — stesso palazzo — la riforma procede sul
velluto. Arriva l’ultimo sì della prima lettura e comincia in contemporanea il lungo
avvicinamento al referendum, che in questo caso non prevede quorum. Allora la domanda
è un’altra: come ci si oppone a un plebiscito?
Come si sfugge, cioè, allo schema innovatori contro conservatori? Secondo Gaetano
Azzariti centrando la campagna elettorale sugli enormi problemi della rappresentanza e
del parlamento, per mettere in luce quanto sia «scarsa» la riforma di Renzi di fronte alla
«crisi dello stato costituzionale». Secondo Stefano Rodotà bisogna fronteggiare
«l’antipolitica di governo» avviando una lunga stagione referendaria.
Ma il primo problema che ha davanti il comitato promotore del No riguarda la sua stessa
genesi. Se è vero che il referendum non può chiederlo il presidente del Consiglio, come
invece racconta di voler fare (in sua vece firmeranno la richiesta un numero sufficiente di
parlamentari renziani), è vero anche che un comitato di cittadini avrebbe bisogno di
500mila firme per opporsi in questa veste alla revisione costituzionale. Firme che
andrebbero raccolte in tre mesi dall’ultima approvazione del disegno di legge RenziBoschi, prevista per la seconda decade di aprile. L’alternativa — dovendo escludere che si
trovino cinque consigli regionali contrari alla riforma — resta quella delle firme di 126
deputati o 65 senatori di opposizione: quelle sono assicurate. Se non si raccolgono le
firme dei cittadini, al referendum si andrà per questa strada, come fu nel 2001 quando il
centrodestra provò a opporsi al nuovo Titolo V approvato dal centrosinistra. Anche allora
firmarono sia i parlamentari favorevoli che quelli contrari alla riforma, che il referendum alla
fine confermò.
Questa volta i parlamentari che raccoglieranno le firme, e tra questi ci saranno anche
quelli di Forza Italia e della Lega, potranno costituire anche più di un comitato per il No:
costituirsi in comitato dà diritto a spazi televisivi e a un rimborso sulla base dei voti.
Neanche i parlamentari del Movimento 5 Stelle aderiranno al comitato lanciato ieri, che è
presieduto dal costituzionalista Alessandro Pace e che ha come presidente onorario il
professore Gustavo Zagrebelsky. È questo il gruppo dei costituzionalisti che si sono
opposti in ogni modo alle riforme spinte da Renzi (ma anche prima da Letta) negli ultimi tre
anni, attraverso numerosi appelli (l’ultimo quello firmato da Lorenza Carlassare, Gaetano
Azzariti, Gianni Ferrara, Stefano Rodotà e Massimo Villone, tutti presenti ieri, a ottobre sul
manifesto). Questo comitato sta mettendo in piedi comitati locali nelle città e si è già dato
un altro appuntamento per il 30 gennaio alla Sapienza a Roma, coinvolgendo le
associazioni — a cominciare da Anpi e Arci.
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Ieri è apparso chiaro che all’interno di questo comitato c’è chi spinge per provare a
raccogliere le 500mila firme, così da poter procedere in maniera parallela ma autonoma
dai parlamentari di Sinistra italiana e dai civatiani che sono disponibili ad accompagnare i
costituzionalisti. Felice Besostri, l’avvocato che sta promuovendo i ricorsi nei tribunali
contro l’Italicum, ha detto tra gli applausi che «anche se pensiamo di non riuscire a
raggiungere le firme necessarie, dobbiamo provarci come iniziativa di mobilitazione».
Obiettivo che invece, secondo altri, si può raggiungere meglio accompagnando al
referendum sulla riforma costituzionale un pacchetto di referendum abrogativi, il primo dei
quali è quello contro l’Italicum che ha già un comitato promotore (presidente Villone,
presidente onorario Rodotà). Ma sono in fase di avvicinamento anche i referendum contro
la legge sulla scuola e contro il Jobs act. Per tutti quanti andranno raccolte le firme, proprio
a partire da aprile. E come sempre quando c’è da raccogliere firme si guarda a cosa farà il
sindacato: al momento la Cgil sarebbe disponibile a impegnarsi per i referendum «sociali»,
scuola e lavoro, mentre non ha ancora sciolto la riserva su quelli «istituzionali», legge
elettorale e soprattutto riforme. Nove anni fa, nell’unico esempio di referendum
costituzionale dove il fronte del No ha vinto, quello contro la «devolution» di Berlusconi e
Bossi, furono raccolte oltre alle richieste dei parlamentari e dei consigli regionali anche un
milione di firme dei cittadini.
Da Ansa dell’11/01/16
Trivelle: ambientalisti, subito decreto Parco
Costa teatina
(ANSA) - PESCARA, 11 GEN - "Dopo l'ultimo stop a Ombrina mare, non si compia per la
seconda volta lo stesso errore e la Regione Abruzzo chieda con forza l'immediato decreto
per l'istituzione del Parco nazionale della Costa Teatina". E' quanto chiedono le
associazioni ambientaliste abruzzesi, sottolineando che la green economy è "l'unica strada
in grado di dare un futuro dignitoso all'Abruzzo" ed auspicando che il Parco "sia messo
subito nelle condizioni di cominciare la propria attività, nell'interesse del territorio protetto e
delle popolazioni che vi risiedono".
Per Legambiente, Wwf, Archeoclub, Arci, Conalpa, Costituente per il Parco, Fai, Italia
Nostra, Marevivo e Pro Natura, dopo che è stata esercitata "la tanto richiesta scelta
politica nella direzione di cancellare la strategicità, l'indifferibilità e l'urgenza delle attività
petrolifere" occorre "dare vita all'altro pezzo di questa sceklta: la necessità di coniare i
caratteri della green economy in Abruzzo, terra delle grandi promesse ancora non
mantenute".
"Da qui - spiegano i rappresentanti delle associazioni in conferenza stampa - il 'ruolo'
politico del Parco nazionale della Costa Teatina, un'area protetta istituita da 15 anni, ma
non ancora decretata a causa della sostanziale incapacità della nostra politica locale,
inutilmente sollecitata ad individuare una soluzione condivisa che superi quelle logiche
che, oggi, lo stesso Governo, con l'ultima legge di stabilità, cancella o quantomeno
congela".
"Ci dicono - aggiungono le associazioni - che la cosiddetta 'perimetrazione dei sindaci'
sarebbe stata inviata e si troverebbe sui tavoli della presidenza del Consiglio dei Ministri.
Quindi due diverse proposte, una nota ai cittadini perché più volte pubblicamente illustrata
del commissario De Dominicis, l'altra nota solo a chi la propone. Una situazione che di
fatto alimenta lo stato redatto da circa sei mesi. Ciò non è più accettabile, bisogna uscire
da questa 'rotonda' ed imboccare la strada giusta. Strada che è stata indicata dai 40mila di
Pescara del 2013 e si ripropone adesso in modo ancora più forte, dopo i 60mila di
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Lanciano, l'intervento del Governo sulla legge di Stabilità, un referendum ancora in piedi e
l'accordo della Cop21 di Parigi".
"Il Parco nazionale della Costa Teatina è il completamento naturale della scelta 'no
petrolio', sia per la sua dimensione antagonista a quella delle vecchie lobby
novecentesche sia come strumento di tutela e protezione ambientale", concludono le
associazioni, che chiedono alla Regione Abruzzo "di adoperarsi attivamente al fine di
sollecitare la presidenza del Consiglio dei Ministri perché esca dallo stallo in essere".
(ANSA).
http://www.ansa.it/abruzzo/notizie/2016/01/11/trivelle-ambientalisti-subito-decreto-parcocosta-teatina_ac83a0cd-b6f0-4467-93b1-430929dbf123.html
Da AbruzzoLive dell’11/01/16
Allarme trivelle in Adriatico, ma D’Alfonso
rassicura: ‘Ombrina non si farà né ora né mai’
L’Aquila. “A tutti gli abruzzesi e in particolare ai professionisti dell’allarmismo ripeto:
Ombrina non si farà né ora né mai”. Luciano-DAlfonso-550x300Così il governatore della
Regione Abruzzo Luciano D’Alfonso sugli allarmismi che sono diffusi circa la concessione
per le perforazioni petrolifere nell’Adriatico di Ombrina Mare.”Ho ricevuto precise ulteriori
assicurazioni dal Ministro dello Sviluppo, Federica Guidi, e dal Sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Giorgio De Vincenti, sul fatto che la vicenda Ombrina
è definitivamente chiusa e che non vi saranno nuove trivellazioni entro le 12 miglia nel
mare Adriatico”. “Prendo atto delle esigenze di chi” continuando a diffondere notizie prive
di fondamento “cerca disperatamente di testimoniare la propria esistenza in vita, ma un
simile comportamento è ingiustificabile, inqualificabile e politicamente ignobile. A breve
assumeremo ulteriori iniziative per aumentare la grandezza della difesa del mare blu”.
“Un polverone pretestuoso e strumentale: non c’è nessuna trivellazione”. Così il ministro
dello Sviluppo Federica Guidi commenta le polemiche sui permessi di ricerca offshore
nell’Adriatico: “non si prevede”, spiega una nota, “alcun tipo di perforazione e quei
permessi riguardano una zona di mare ben oltre le 12 miglia dalla costa e anche dalle
isole Tremiti. “Il permesso di ricerca concesso alla società Petroceltic – spiega il ministro
Guidi – riguarda soltanto, e in una zona oltre le 12 miglia, la prospezione geofisica e non
prevede alcuna perforazione che, comunque, non potrebbe essere autorizzata se non
sulla base di una specifica valutazione di impatto ambientale. Il presidente della Regione
Puglia Michele Emiliano conosce benissimo i termini esatti della questione che a suo
tempo gli è stata accuratamente rappresentata dal Ministero dello Sviluppo economico”. Il
ministro Guidi si dice infine “attonita” per alcune recenti dichiarazioni di esponenti politici:
“la legge di Stabilità, venendo incontro alle richieste referendarie, ha escluso qualsiasi
nuova ricerca entro le 12 miglia dalle coste. Il permesso alla Petroceltic non ha quindi nulla
a che vedere con la legge di Stabilità visto che si tratta di ricerche al di fuori del limite delle
12 miglia”. E comunque, ribadisce il ministro, “nessun altro permesso di ricerca, in
nessun’altra parte del Paese, è stato rilasciato alla vigilia dell’approvazione delle legge di
Stabilità”.
“Il governo intervenga e revochi subito le licenze per le trivellazioni rilasciate il 22
dicembre, un giorno prima dell’approvazione della legge di stabilità che contiene la norma
alla quale tutti noi abbiamo lavorato: lo stop entro le 12 miglia”. E’ quanto affermato dalla
senatrice del Pd Stefania Pezzopane associandosi all’appello del presidente della Regione
Puglia. “E’ una questione di serietà, da un lato, infatti, la legge di stabilità ha fermato le
trivellazioni, vanificando i referendum indetti da ben 10 regioni, dall’altro il decreto del
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ministero dello sviluppo economico ha fatto uno sgambetto sia alla manovra finanziaria
che alle consultazioni popolari. Non è accettabile, sarebbe una beffa”. “Nuove trivellazioni
con l’attuale prezzo del greggio e in vista dei nuovi impegni per il clima sanciti alla Cop21
di Parigi è un suicidio gratuito per il nostro Paese”.
“Dopo l’ultimo stop a Ombrina mare, non si compia per la seconda volta lo stesso errore e
la Regione Abruzzo chieda con forza l’immediato decreto per l’istituzione del Parco
nazionale della Costa Teatina”. E’ quanto chiedono le associazioni ambientaliste abruzzesi
( Legambiente, Wwf, Archeoclub, Arci, Conalpa, Costituente per il Parco, Fai, Italia Nostra,
Marevivo e Pro Natura), sottolineando che la green economy è “l’unica strada in grado di
dare un futuro dignitoso all’Abruzzo” ed auspicando che il Parco “sia messo subito nelle
condizioni di cominciare la propria attività, nell’interesse del territorio protetto e delle
popolazioni che vi risiedono”. “Un’area protetta istituita da 15 anni, ma non ancora
decretata a causa della sostanziale incapacità della nostra politica locale”.
“Questo provvedimento suona come una beffa per le migliaia di cittadini che si sono
mobilitati anche chiedendo i referendum”. Lo dice il deputato di Sel, Gianni Melilla, in
un’interrogazione a risposta scritta al Ministro dell’Ambiente.”Il permesso di ricerca
rilasciato davanti alle Tremiti e a Termoli rischia di essere solo una punta dell’iceberg di
numerose altre concessioni. Il Mise ha deciso questa e altre concessioni il 22 Dicembre
scorso subito prima di Natale. Giusto un giorno prima che la Camera approvasse
definitivamente la Legge di Stabilità e la norma che vietava di rilasciare concessioni entro
le 12 miglia” “In tutto ci sono ben 23 istanze dei petrolieri che interessano praticamente
tutto l’Adriatico, con milioni di ettari richiesti. Di queste ben 13 istanze di Permesso di
Ricerca sono in dirittura d’arrivo”.
http://www.abruzzolive.it/?p=32552
Da Monopoli Live dell’11/01/16
Lettera aperta
Attacco alla sede del circolo ARCI
Una lettera aperta dell'associazione, spinge ad una riflessione.
Questa mattina abbiamo trovato l’ingresso della nostra sede imbrattato da scritte
offensive, rivolte alle nostre associazioni, e l’entrata inagibile a causa della presenza di
letame.
Avevamo già denunciato, nei giorni scorsi, la presenza in città di segnali di disagio sociale
che, nel caso precedente, si era espresso attraverso una scritta razzista e che, oggi, si
manifesta come un atto di offesa o, peggio ancora, intimidatorio.
Segnali che, messi insieme, cominciano ad avere il sapore amaro della prova.
È evidente che si faccia sempre più pressante ed urgente un intervento concreto da parte
delle istituzioni, teso a ricostruire un più diffuso senso di comunità e ad alleviare quelle
condizioni di precarietà che sono matrice di reazioni sconsiderate e antidemocratiche.
Intervento che veda protagoniste anche le scuole, pilastro fondamentale di una società
fondata sulla convivenza e sul rispetto delle differenze.
Per questo motivo, chiediamo l’avvio di una seria riflessione sul tema e una condanna
unanime non tanto di quanto accaduto oggi, ma di quanto, periodicamente, tende a
manifestarsi.
Non è tollerabile, in una società civile, che qualunque associazione, o singolo cittadino,
che voglia esprimere qualunque opinione, debba tenere in considerazione reazioni di
intolleranza.
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Continueremo senza sosta a svolgere la nostra attività politica, sociale e culturale, senza
timore nel metterci la faccia.
AltraPolis - Laboratorio Urbano di Cittadinanza Attiva
Circolo ARCI Monopoli
Unione degli Studenti Monopoli
http://www.monopolilive.com/news/Cronaca/407947/news.aspx
Da Modena Today dell’11/01/16
Forza Nuova in piazza con Roberto Fiore.
Immediata la contestazione
Sabato 16 gennaio in piazza XX Settembre per una manifestazione sui
fatti di Vignola. Sindacati e associazioni chiedono di impedire la
manifestazione: “Fomenta le tensioni sociali”
Dopo i fatti di Vignola, Forza Nuova ha scelto di manifestare in piazza. Lo farà sabato
prossimo, 16 gennaio, in piazza XX Settembre, nel centro di Modena. Il presidio verterà
ovviamente sul tema dell'immigrazione, dell'integrazione e del binomio religione islamicaterrorismo, anche grazie alla partecipazione del leader nazionale del movimento Roberto
Fiore.
“Modena non sarà mai colonia” è il titolo scelto per l'evento dai militanti forzanovisti, che
spiegano: "È inoltre chiarissimo come il sistema di integrazione abbia miseramente fallito,
anche alla luce dei recenti crimini avvenuti a Parigi e a Colonia. E' doveroso sottolineare
come i cristiani siano sempre più perseguitati dai musulmani, che evidentemente non si
fanno scrupoli a compiere vessazioni di questo genere in quella che è la nazione patria del
Cristianesimo."
Come puntualmente accade per ogni iniziativa pubblica di Forza Nuova sul nostro
territorio, si è già levato alto il coro degli oppositori, che hanno chiesto alle autorità di
impedire l'evento. In prima linea i sindacati Cgil e Uil e le associazioni Anpi e Arci, che
hanno condannato i fatti fi Vignola, definendo però come “sciacallaggio” le manifestazioni
politiche della Lega a Vignola e di Forza Nuova a Modena.
“Modena non merita il clima di odio in cui la peggiore destra vorrebbe farla sprofondare –
si legge in una nota - Forza Nuova è un movimento dichiaratamente neofascista ed è tra le
formazioni che auspicano la ricostruzione del partito fascista e pratica apologia di
fascismo, entrambi gravi reati penali. L'annunciata manifestazione di sabato prossimo, a
poca distanza dal Sacrario della Ghirlandina, rappresenta poi un’inaccettabile
provocazione – aggiungono - Chiediamo pertanto alla Prefettura e alla Questura di
Modena di negare l'autorizzazione a svolgere una manifestazione pubblica promossa dalla
formazione di estrema destra, che ha evidentemente l'obiettivo di fomentare inutili e
pericolose tensioni sociali”.
E' poi stata annunciata una contromanifestazione sabato mattina saremo sotto la
Ghirlandina, per “ribadire la nostra convinzione nei valori della libertà e della convivenza
pacifica tra tutti i popoli, della democrazia, dell'antifascismo e dell'antirazzismo al quale
invitiamo tutti i soggetti e le associazioni democratiche e antifasciste”.
http://www.modenatoday.it/politica/manifestazione-forza-nuova-modena-contestazioni-16gennaio-2016.html
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Da il Giornale.it del 12/01/16
A Salerno come a Colonia «Molestata una
ragazzina»
Un giovane pakistano accusato di aver aggredito una 14enne Gli
abitanti esasperati hanno assaltato il centro di immigrati
«Gli immigrati hanno molestato una bambina, correte». La voce ci mette un attimo a
diventare la sirena antiaerea che chiama a raccolta i residenti di Matierno, una località
collinare di Salerno dove da qualche tempo la convivenza tra extracomunitari e cittadini è
diventata assai difficile. E dove ieri è divampato l'incendio dell'insofferenza e della
violenza.Del primo attacco agli «stranieri» s'è incaricato un gruppo di giovanissimi che ha
raccolto pietre e pezzi di bottiglie in strada e ha bersagliato i vetri di un centro Spar dov'è
alloggiata una quindicina di richiedenti asilo. Uno di loro, un pakistano - dicono i ragazzi ha
guardato con insistenza una loro coetanea. Forse, l'ha seguita. Forse, c'è stato pure un
contatto. La rappresaglia è stata naturale, immediata.Altro che Colonia. In pochi attimi, la
squadretta si è trovata ad assediare la struttura gestita dall'Arci per vendicare la 14enne.
Le urla hanno attirato altri minori e pure alcuni adulti che si sono uniti alla sassaiola. La
controffensiva si è trasformata a quel punto in un assedio in piena regola. Il raid è
terminato solo con l'arrivo dei carabinieri. I militari hanno impiegato un bel po' a riportare la
calma. Hanno raccolto le notizie della presunta molestia e poi hanno fatto visita ai gestori
della struttura di accoglienza per scoprire fondamento e dinamica dei fatti. La Procura
della Repubblica ha già aperto un fascicolo mentre dalla Prefettura hanno annunciato
l'avvio di una istruttoria.Gli adulti sono stati identificati e interrogati sul posto, mentre
l'adunata si disperdeva lentamente. Pare addirittura che, nella fase più concitata, qualcuno
abbia estratto una pistola e fatto fuoco contro il portone d'ingresso dello stabile, ma solo il
prosieguo delle indagini potrà chiarire la circostanza.Gli investigatori sanno che la
situazione è difficile, e non solo a Matierno. Il porto di Salerno è uno degli approdi più
frequenti per i soccorsi in mare nel mar Tirreno, molto più di Napoli. Nel 2015, ci sono stati
dodici sbarchi per un totale di 1994 migranti. Moltissimi sono ospitati tra il capoluogo e la
provincia, in attesa che le commissioni provinciali decidano sul loro futuro.Nello stesso
giorno, a Eboli, a qualche decina di chilometri, otto nigeriani, anch'essi richiedenti asilo,
hanno spedito all'ospedale un capotreno di Trenitalia che gli aveva chiesto il biglietto.
L'aggressione si è verificata sul «Regionale 7901» che collega i Comuni di Mercato San
Severino e di Buccino. Il malcapitato è stato accerchiato e picchiato dal gruppetto appena
preso posto sul convoglio, ancora fermo in attesa del fischio. Schiaffi, pugni e spintoni
sono stati addirittura filmati da uno dei complici che li ha immortalati sul proprio cellulare.
Per sottrarsi al pestaggio, il controllore è fuggito in direzione del piazzale della stazione ma
è stato raggiunto da quattro uomini, i più arrabbiati, che hanno proseguito a colpirlo,
incuranti degli sguardi inorriditi dei passeggeri e dei colleghi della vittima. Per fortuna, due
gazzelle dei carabinieri impegnate poco distante in un servizio di controllo del territorio
sono prontamente intervenute e hanno bloccato il gruppo di balordi. I giovani, tutti di età
compresa tra i 25 e i 30 anni, sono stati fermati e portati in caserma dove sono stati
ascoltati con l'aiuto di un interprete e del mediatore culturale della struttura di accoglienza
di Sicignano degli Alburni dove risiedono. Tre sono stati arrestati mentre il video del
pestaggio è stato recuperato ed è ora in possesso degli inquirenti.
http://www.ilgiornale.it/news/politica/salerno-colonia-molestata-ragazzina-1212417.html
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Da SalernoToday dell’11/01/16
Presunte molestie a Matierno: ecco cosa è
successo, parla il coordinatore degli Sprar
Il coordinatore del progetto Sprar (Sistema di protezione per richiedenti
asilo e rifugiati), nonchè presidente dell'Arci di Salerno, ha raccontato
nei dettagli quanto accaduto due giorni fa. Monta, intanto, la "furia
mediatica" sull'episodio
Marilia Parente Giornalista Salerno
Nessuna molestia ai danni di una ragazzina, ma un approccio verbale avvenuto circa un
mese fa. Di questo è "colpevole" un giovane pakistano ospite dello Sprar di Matierno,
preso d'assalto da un gruppo di residenti, due giorni fa. Pietre e minacce sono state
scagliate, da alcuni ragazzi della zona, contro l'appartamento dove abitano 8 stranieri,
attualmente sotto choc per l'accaduto. Svariati i danni alla struttura. E, mentre la notizia è
rimbalzata sui media nazionali, tra cui "Il Giornale" che ha addirittura paragonato quanto
avvenuto a Salerno ai fatti di Colonia, il coordinatore del progetto Sprar (Sistema di
protezione per richiedenti asilo e rifugiati), nonchè presidente dell'Arci di Salerno,
Francesco Arcidiacono, ha spiegato alla nostra redazione quanto realmente avvenuto.
"L'appartamento che ospita i ragazzi dello Sprar a Matierno esiste da sei anni e in questo
tempo non si sono mai registrati problemi, se non forse una lite interna alla casa, tra
stranieri di etnia diversa - assicura il coordinatore - E nemmeno due giorni fa si è verificato
un episodio di violenza, come ha confermato anche la famiglia della presunta vittima, ma
solo un approccio verbale, avvenuto circa un mese fa, da parte di un giovanissimo
pakistano che, due giorni fa, mentre era sul bus e stava tornando allo Sprar, è stato
avvicinato e deriso da alcuni ragazzi del quartiere che lo hanno insultato e seguito fino a
casa. Da lì si è scatenato il putiferio con la circolazione di false voci nella zona e quello
che è stato un vero e proprio assedio all'appartamento dove ho trovato, all'interno, anche
un sampietrino e sono stati rotti due vetri. Si è trattato di una bravata da parte di un gruppo
di teste calde. I ragazzi stranieri, intanto, sono sotto choc: si è sfiorata la tragedia".
"Matierno ha tanti problemi, ma tra questo non credo vi sia quello degli immigrati continua Arcidiacono - L'invito che rivolgiamo a istituzioni e associazioni operanti sul
territorio è quello di continuare a diffondere valori di integrazione e rispetto, discorso
peraltro già portato avanti da diverse realtà della zona. Noi, dal canto nostro, continuiamo
a lavorare", ha concluso. Seppure da super partes, in quanto non competente per gli
Sprar, ma solo per l'accoglienza dei migranti minori non accompagnati, un invito alla
cautela per la comunità è stato rivolto anche da Rosario Caliulo, Direttore del settore
socio-formativo delle Politiche Sociali del Comune di Salerno: "Noi non siamo competenti
sul caso in questione, in quanto parliamo di uno Sprar che, come tale, accoglie adulti, ma
registriamo il fatto precisando che, a prescindere da nazionalità e colore, se qualcuno ha
sbagliato è giusto che paghi ed è giusto affidarsi agli inquirenti cui spetta far luce sulla
vicenda - ha sottolineato Caliulo - Dal canto nostro, mai episodi di illegalità e violenza si
sono verificati sul fronte dei minori accolti: è importante non generalizzare e fare chiarezza
sull'accaduto". In conclusione, il pakistano demonizzato dalla folla pare non sia altri che un
giovane che, come tanti altri, ha rivolto delle parole di apprezzamento verso una ragazza.
Ma, nel suo caso, il fatto non è passato inosservato e ha rischiato di dar luogo ad un vero
e proprio dramma che ha assunto, purtroppo, profili violenti, decisamente inauditi. Un
episodio che non può che far riflettere.
http://www.salernotoday.it/cronaca/presunte-molestie-ragazzina-matierno-dichiarazioniarcidiacono-sprar-immigrati.html
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Da Gazzetta di Mantova dell’11/01/16
Tuttiugualifest, dibattito e musica
All’Arci Dallò la terza edizione con il punto sulle unioni civili
CASTIGLIONE DELLE STIVIERE. All'Arci Dallò sabato sera si è svolta la terza edizione
del Tuttiugualifest, edizione winter.
Un centinaio di persone ha partecipato alle tappe dell’iniziativa che si è aperta con il
dibattito a cui hanno partecipato l'assessore alle pari opportunità di Castiglione, Elena
Cantoni, Davide Provenzano dell'Arcigay La Salamandra, l'onorevole Marco Carra,
Adriano Bernasconi autore del libro Omocrazia (Gilgamesh), e l'avvocato Luca Morassutto
del foro di Ferrara.
Nel corso del dibattito si è fatto il punto sulla legge per le unioni civili e si sono analizzate
anche le criticità che il provvedimento sta affrontando nel dibattito nazionale.
A seguire c’è stata la presentazione del romanzo “Omocrazia”, un libro che racconta una
società in cui l’omosessualità è la normalità, mentre l’eterosessualità è l’eccezione.
Terminati i dibattiti è partita la festa che è durata tutta la notte, con musica e spettacoli che
hanno animato questa terza edizione del festival dei diritti organizzato e promosso dall’Arci
Dallò e dall’Arci Salamandra di Mantova. (l.c.)
http://gazzettadimantova.gelocal.it/mantova/cronaca/2016/01/11/news/tuttiugualifestdibattito-e-musica-1.12758806
Da GoNews dell’11/01/16
La presentazione del libro ‘Papà, Mamma e
Gender’, un’opera che promuove il rispetto
contro ogni violenza e per i diritti civili
11 gennaio 2016 16:28 Cultura Castelfranco di Sotto La locandina dell'evento La
locandina dell'evento “Promuovere il rispetto delle differenze laddove invece la diversità
scatena reazioni intolleranti; contrastare ogni discriminazione, ogni violenza morale e fisica
che offendono la libertà di tutti insidiando la coesione sociale e limitando la crescita civile.
Il principio di uguaglianza, sancito dalla nostra Costituzione e affermato nella Carta dei
Diritti dell’UE, non è soltanto un asse portante del nostro ordinamento e della nostra civiltà
ma esso costituisce un impegno costante per le istituzioni e per ciascuno di noi.
Rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della personalità umana è una
responsabilità primaria sulla quale si basa la qualità del vivere civile e della stessa
democrazia”, Sergio Mattarella, Presidente delle Repubblica Italiana in occasione del 17
maggio 2015 Giornata Internazionale contro l’omofobia. E’ sulle parole del Presidente
Mattarella, ed anche in seguito all’approvazione in consiglio comunale della mozione a
favore del riconoscimento delle Unioni Civili, che l’amministrazione comunale di
Castelfranco di Sotto ha promosso un’iniziativa per Sabato 23 Gennaio 2016 alle ore
21.15 presso il Teatro della Compagnia con la scrittrice e filosofa Michela Marzano nonché
professoressa ordinaria di filosofia morale all’Università Descartes – La Sorbonne di
Parigi, già vincitrice del Premio Bancarella 2014. Michela Marzano, intervistata dal
giornalista Gabriele Mori, presenterà il suo ultimo libro “Papà, Mamma e Gender” (edizioni
UTET) dialogando con la professoressa e scrittrice locale Laura Fantozzi. Una serata
quindi a sostegno della libertà di amare, delle unioni civili e soprattutto contro qualsiasi
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violenza. Prendendo spunto dal testo verrà svolta una discussione sulle interpretazioni
omofobe infondate della “teoria gender” portata avanti da associazioni conservatrici che ne
sostengono la pericolosità. Infatti si afferma che nella scuola pubblica si stia portando
avanti un progetto d’indottrinamento dei più piccoli volto a scardinare i valori della famiglia
e del comportamento sessuale. Una trovata propagandistica totalmente falsa, quella della
cosiddetta “teoria del gender”, che anche il ministero dell’istruzione con una circolare
ministeriale del settembre scorso ha negato esistere in qualsiasi forma. All’iniziativa
collaboreranno anche le associazioni locali Frida San Miniato Centro Anti-violenza sulle
donne, Arci Valdarno Inferiore e la Libreria Colibrì di Santa Croce. Introducono la serata
l’assessore alla scuola e cultura di Castelfranco di Sotto, Chiara Bonciolini, e la consigliera
regionale Alessandra Nardini. Appuntamento quindi Sabato 23 Gennaio 2016 alle ore
21.15 presso il Teatro della Compagnia in via Dante a Castelfranco di Sotto. L’ingresso è
libero e gratuito.
Leggi questo articolo su: http://www.gonews.it/2016/01/11/castelfranco-di-sotto-lapresentazione-del-libro-papa-mamma-e-gender-unopera-che-promuove-il-rispetto-controogni-violenza-e-per-i-diritti-civili/
Da WelfareNetwork del 12/01/16
Progetto ‘Alleanza contro la povertà’ a
Cremona, il video del workshop finale
Il primo frammento è visibile in fondo a questo articolo, nel cui testo
sono presenti tutti i link ai video
Alleanza contro la povertà: prove di comunità di pratica nel territorio cremonese è un
progetto finanziato dal Bando volontariato 2014, promosso da un ampio gruppo di soggetti
diversi ma accomunati dal contatto quotidiano con persone che vivono situazioni di
povertà: Auser Volontariato Comprensorio di Cremona, San Vincenzo de’ Paoli - Consiglio
centrale di Cremona, Acli Sede provinciale di Cremona, Forum provinciale del terzo
settore, Cooperativa sociale Altana, Caritas Cremonese, Arci Cremona, Camera del lavoro
territoriale di Cremona, UST CISL - Asse del Po Cremone Lodi Mantova, Camera
sindacale e territoriale UIL di Cremona, Consorzio SOLCO Cremona, Amici di Emmaus Piadena.
L’obiettivo generale del progetto era quello di costruire un sistema stabile e duraturo di
relazioni – fra i partner, altri soggetti del privato sociale e le istituzioni – per impostare un
“sistema di allerta” capace di cogliere le situazioni di fragilità sociale nei contesti locali e,
dove possibile, prevenirle.
Per raggiungere questo obiettivo, i partner di progetto hanno raccolto e condiviso la
grande quantità di informazioni sulla povertà nel territorio cremonese. Per questo lavoro di
mappatura locale del fenomeno della povertà si è contato anche sui tanti volontari che
ogni giorno si impegnano su questo fronte per contrastare questo fenomeno.
Fondamentale è stata la collaborazione con enti locali e aziende sociali, per arrivare a
definire congiuntamente un patto di rete distrettuale contro la povertà da condividere con il
Piano di Zona triennale 2015/2017: definire cioè risorse economiche e umane a
disposizione per garantire i diritti fondamentali a tutti i cittadini.
Il workshop finale è stato documentato integralmente in video, eccone i frammenti.
https://youtu.be/IMv-oF_0qrs
https://youtu.be/dCmVhEFeXys
https://youtu.be/AAwNVuIqlCE
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https://youtu.be/MOt9WBLD9Iw
https://youtu.be/5J6_GUrrT6U
https://youtu.be/mR4Dqe75ktk
https://youtu.be/O57e1gddq48
https://youtu.be/azXE5RIJWAQ
https://youtu.be/PzC3DtLrEfE
https://youtu.be/eWS81dY3Joo
http://www.welfarenetwork.it/progetto-alleanza-contro-la-poverta-a-cremona-il-video-delworkshop-finale-20160111/
Da Gazzetta di Reggio dell’11/01/16
E' morto David Bowie, Ligabue: "Addio a un
colosso della musica"
Il rocker di Correggio affida a Facebook un ricordo del Duca Bianco,
uno dei suoi principali riferimenti musicali. E su Twitter parta la
proposta di dedicare all'artista l'Arena Campovolo
REGGIO EMILIA. "Di fronte a un colosso, giù il cappello. Ziggy Stardust, Duca Bianco,
David Bowie ora è anche Black Star. Ma è sempre stato David Robert Jones. Il suo lascito
musicale è enorme. A lui il mio più sentito grazie dal profondo del cuore". Anche Luciano
Ligabue è rimasto profondamente turbato dalla morte di David Bowie, scomparso all'età di
69 anni compiuti appena tre giorni fa, l'8 gennaio, data di uscita del suo ultimo magnifico
album Blackstar.
Addio a David Bowie: qual è la tua canzone preferita?
David Bowie è sempre stato uno dei principali riferimenti musicali del Liga, come
testimoniato anche dalla colonna sonora del suo film RadioFreccia, dove Rebel Rebel è
stata una delle canzoni simbolo. Sulle note di Rebel Rebel, infatti, nel film si conclude il
celebre monologo di Freccia, interpretato da Stefano Accorsi.
Sempre Rebel Rebel è stata una delle cover eseguite dal Liga durante i suoi concerti
all'interno di un medley che conteneva Bar Mario, Jumpin' Jack Flash (Rolling Stones),
Nato per me e I duri hanno due cuori.
David Bowie compie 69 anni e si trasforma in "Lazzaro"
David Bowie festeggia i suoi 69 anni con l'uscita del suo 28esimo album "Blackstar". Sette
canzoni, tra cui il singolo omonimo, già uscito il 20 novembre scorso e sigla della serie TV
"The Black Panthers", e il brano "Lazarus", lanciato da un video tra l'enigmatico e
l'inquietante. "Lazarus" è anche il brano portante del musical scritto da Bowie, in scena in
questi giorni a New York
Su Twitter, inoltre, l'account Arena Campovolo ha lanciato la proposta di dedicare al Duca
Bianco l'arena Grandi Eventi che verrà realizzata nell'aeroporto di Reggio Emilia.
Bowie e quel concerto sfortunato a Modena
Non è un ricordo indimenticabile quello lasciato da David Bowie a Modena. L'8 settembre
1990 l'artista venne a Modena per un attesissimo concerto del "Sound and vision tour".
Erano in 37 mila nell'arena concerti della Festa dell'Unità. L'artista tenne un concerto di
circa 40 minuti, interrotto a causa di unaindisposizione che gli impedì di portare a termine
lo show. E anche l'acustica non era delle migliori. (così come la qualità di questo video...)
Questo un video-testimonianza della canzone "Station to station" da youtube di Matt Day
uno delle centinaia di fans internazionali che hanno seguito decine e decine di concerti del
Duca bianco nei suoi tour.
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In lutto anche il mondo dell'Arci, che ricorda come David Bowie condivise il palco con i
reggianissimi Ustmamò: "Oggi l’Arci di Reggio piange la scomparsa di un fratello
maggiore, uno di quelli che ti porta il mondo in casa quando ancora non hai l’età e gli
strumenti per assaporarlo. David Bowie tanti anni fa ci ha fatto vedere cosa poteva essere
la musica rock, un linguaggio popolare che va da tutte le parti, che può diventare
letteratura, cinema, teatro, moda, danza, fumetto, multimedialità, e tanto altro, a patto che
l’occhio e l’orecchio cerchino un’affermazione estetica e l’azzardo. Questo modo di sentire
ha invaso il mondo e anche casa nostra. Sono stati gli Ustmamò, incredibili reggiani di
montagna, nella seconda metà degli anni ’90, il gruppo che ha avuto l’onore di condividere
il palco (a Roma e Milano) con il Duca Bianco".
http://gazzettadireggio.gelocal.it/reggio/cronaca/2016/01/11/news/e-morto-david-bowieligabue-addio-a-un-colosso-della-musica-1.12758508
Da Corriere Etrusco del 12/01/16
PIOMBINO: ARCI PROMUOVE LA «CULTURA
DELLA LEGALITA’»
Piombino (LI) – “Prosegue anche per quest’anno scolastico il progetto dedicato alla
Cultura della Legalità, grazie all’impegno dell’Arci Comitato territoriale di Piombino Val Di
Cornia Elba. Saranno coinvolti gli studenti e gli insegnanti delle terze classi delle Scuole
Superiori di Piombino.
Sono previsti tre incontri: nel primo sarà visionato il film ” Cento passi ” sulla vita di
Peppino Impastato; nel secondo Ado Grilli, responsabile del settore legalità ARCI ” IL
LAMPADIERE ”
illustrerà il significato della cultura della legalità; nel terzo vi sarà una testimonianza di una
ragazza/o che ha partecipato ad uno dei campi estivi di Libera insieme alle cooperative
che gestiscono i terreni agricoli e i beni confiscati alle mafie.
Il progetto quest’anno si avvale della collaborazione del Coordinamento provinciale di
Libera, del locale Presidio Libera Rossella Casini e del presidio LIBERA PiombinoFollonica. ARCI e Libera insieme propongono iniziative che, attraverso incontri e
testimonianze dei volontari di queste realtà, coinvolgano soprattutto i giovani, in direzione
di una maggiore consapevolezza su un tema molto importante come quello della lotta alle
mafie, all’ingiustizia sociale, per la legalità e la creazione di cittadini attivi e consapevoli.
Questi i primi appuntamenti:
martedi 26 gennaio Giancarlo Caselli (magistrato in pensione e uno dei protagonisti della
lotta alla mafia e al terrorismo in Italia) sarà a Piombino per la presentazione del suo libro
“Nient’altro che la verità”, scritto insieme al giornalista Mario Lancisi. Caselli e Lancisi
incontreranno al Centro Giovani di Piombino un gruppo degli studenti che partecipano al
progetto sulla Legalità.
L’altro importante appuntamento è previsto per sabato 13 febbraio quando, presso
l’Auditorium del Liceo in via della Pace, un nutrito gruppo di studenti delle classi IV° degli
istituti superiori di
Piombino parteciperà alla presentazione del libro, uscito da poche settimane, “Storia
dell’Italia Mafiosa” scritto da Isaia Sales, professore dell’Università di Napoli.
Il progetto prevede inoltre un collegamento con il ricordo di Giorgio Leoncini. La famiglia,
infatti, metterà a disposizione 500 euro per contribuire al sostegno delle spese dei ragazzi
che, anche quest’anno, vorranno fare esperienza nei terreni confiscati alla mafia e gestiti
dalle cooperative sociali del Consorzio Libera Terra. Il riconoscimento sarà consegnato
lunedì 21 marzo, Giornata che Libera dedica alla Memoria e dell’Impegno in ricordo delle
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vittime innocenti delle mafie, alle ore 21 al teatro Verdi di San Vincenzo al termine dello
spettacolo teatrale sulla vita di Rossella Casini, organizzato dall’omonimo Presidio.
Sempre in occasione della Giornata della Memoria e dell’Impegno, il Presidio di Libera
sabato 19 marzo, al Centro Giovani di Piombino, proporrà ad un gruppo di studenti delle
scuole superiori
un’azione teatrale dedicata a Peppino Impastato e a Placido Rizzotto, due figure
emblematiche della lotta contro la mafia.
http://www.corriereetrusco.it/2016/01/12/piombino-arci-promuove-la-cultura-della-legalita/
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ESTERI
del 12/01/16, pag. 2
Blitz umanitario a Misurata.
Così l’Italia mette piede in Libia
Il premier Sarraj chiede l’intervento del governo. Un C130 con medici e
infermieri atterra nel Paese, prende 15 feriti nell’attentato di Zlitan e li
porta a curarsi al Celio
12/01/2016
francesco grignetti guido ruotolo
roma
Alle prime luci dell’alba il nostro C-130 dell’Aeronautica militare si è alzato in volo
dall’aeroporto di Pratica di Mare, per una missione umanitaria. La prima missione in Libia
di un paese della comunità internazionale per soccorrere 15 feriti, tutti delle tribù di
Misurata, giovani vittime dell’attacco terroristico dell’Isis a una scuola di polizia a Zlitan, un
paese satellite di Misurata. A bordo del C-130 ci sono 20 fra medici e infermieri oltre al
personale di sicurezza del Ministro dell’Interno. Alle 9,30 l’aereo atterra sulla pista
dell’aeroporto di Misurata. Lì ad attenderlo è schierato un corteo di ambulanze e mezzi
ospedalieri. Tutto è stato preparato nei dettagli. Tecnici e politici.
Diplomazia al lavoro
Venerdì un ufficiale di collegamento della polizia libica ha contattato i nostri funzionari
della Polizia di frontiera che in tutti questi anni sono stati in Libia per coordinare le attività
di contrasto alle organizzazioni criminali che gestiscono i traffici di clandestini. Da lì, con
una telefonata, è partita la richiesta di aiuto a Roma per curare i cadetti vittime dell’Isis; il
giorno dopo il governo italiano si è riunito con i responsabili del ministero della Difesa e
dell’Interno oltre che di Palazzo Chigi e del ministero della Salute. Si sono esaminati gli
aspetti tecnici, politici, diplomatici. Su nostra sollecitazione, il premier incaricato a capo del
Consiglio Presidenziale, Faiez al Sarraj (lo stesso che il 28 dicembre aveva incontrato
Renzi), ha formalizzato la richiesta all’Italia di un intervento umanitario.
Domenica il premier designato Sarraj scrive una lettera formale a Palazzo Chigi per
chiedere di portare i quindici suoi connazionali a curarsi nelle strutture italiane. Così
facendo Sarraj esercita la legittima autorità sul territorio libico e rafforza la sua legittimità
come governo. È a quel punto che, accettando la richiesta del premier designato, Roma
diventa de facto la sua potenza garante.
Medici e infermieri
Il convoglio con i nostri medici raggiunge l’ospedale di Misurata, prende i quindici feriti in
grado di poter affrontare il viaggio e quindi torna in aeroporto. Il velivolo della Difesa con
gli ospiti libici a bordo decolla e verso le 14 atterra a Roma-Ciampino. Poi i feriti vengono
portati all’ospedale militare del Celio, a Roma. Due dei quindici cadetti sono finiti
immediatamente nel reparto di medicina intensiva e sono in prognosi riservata. Gli altri
tredici, con fratture agli arti, ferite all’addome, e più in generale lesioni da scoppio, sono
stati ricoverati in reparti ordinari del nosocomio.
La sfida all’Isis
L’operazione di salvataggio segue l’accelerazione delle operazione dell’Isis in Libia.
L’attacco del 5 gennaio agli impianti petroliferi di Ras Sider ha dimostrato la voglia dei
miliziani dello Stato islamico di puntare al cuore delle risorse libiche e l’attacco ai cadetti
con un’autocisterna imbottita di tritolo - 74 le vittime secondo il bilancio ufficiale – ha
14
riproposto la tecnica irachena. Un attentato-avvertimento dell’Isis, che ha deciso di giocare
d’anticipo rispetto all’annunciata offensiva militare che le milizie di Misurata (e Zlitan)
potrebbero lanciare contro i jihadisti che hanno occupato Sirte e che sono presenti a
Bengasi, Derna, nella stessa Tripoli e a Sabratha. L’offensiva delle milizie libiche dovrebbe
partire con il sostegno pieno della coalizione internazionale. Parallelamente, la svolta sul
terreno dovrebbe accompagnarsi con la nascita del governo Sarraj, atteso per domenica
prossima. La cacciata dei terroristi dell’Isis dalla Libia, infatti, è diventata una priorità per la
comunità internazionale e per lo stesso Consiglio di Presidenza libico che è riunito a
Tunisi, in attesa che si crei quella cornice di sicurezza che consenta il trasferimento a
Tripoli.
In prima linea
L’operazione umanitaria di ieri dimostra quanto l’Italia sia in prima linea nella partita libica.
Ruolo che i partner europei, e gli statunitensi, ci riconoscono. Ieri il ministro degli Esteri
francese Laurent Fabius ha riconosciuto quanto gli italiani «lavorano per un governo di
unità». Che resta la priorità per tutti. «Il primo obiettivo è consentire la formazione di un
governo di unità nazionale e fare in modo che la comunità libica sia unita. È questo a cui
dobbiamo lavorare». «Con la Libia siamo in una fase molto delicata, l’accordo è stato
firmato ma va realizzato», gli ha fatto eco il sottosegretario agli Esteri italiano Mario Giro.
Roma parla di «operazione umanitaria» per descrivere l’operazione dei 15 cadetti. Ma
l’occhio è rivolto alla missione militare che verrà.
del 12/01/16, pag. 14
Libia, il piano della conquista
Manlio Dinucci
«Il 2016 si annuncia molto complicato a livello internazionale, con tensioni diffuse anche
vicino a casa nostra. L’Italia c’è e farà la sua parte, con la professionalità delle proprie
donne e dei propri uomini e insieme all’impegno degli alleati»: così Matteo Renzi ha
comunicato agli iscritti del Pd la prossima guerra a cui parteciperà l’Italia, quella in Libia,
cinque anni dopo la prima.
Il piano è in atto: forze speciali Sas – riporta «The Daily Mirror» – sono già in Libia per
preparare l’arrivo di circa 1000 soldati britannici. L’operazione – «concordata da Stati uniti,
Gran Bretagna, Francia e Italia» – coinvolgerà circa 6000 soldati e marine statunitensi ed
europei con l’obiettivo di «bloccare circa 5000 estremisti islamici, che si sono impadroniti
di una dozzina dei maggiori campi petroliferi e, dal caposaldo Isis di Sirte, si preparano ad
avanzare fino alla raffineria di Marsa al Brega, la maggiore del Nordafrica».
La gestione del campo di battaglia, su cui le forze Sas stanno istruendo non meglio
identificati «comandanti militari libici», prevede l’impiego di «truppe, carrarmati, aerei e
navi da guerra». Per bombardare in Libia la Gran Bretagna sta inviando altri aerei a Cipro,
dove sono già schierati 10 Tornado e 6 Typhoon per gli attacchi in Siria e Iraq, mentre un
cacciatorpediniere si sta dirigendo verso la Libia. Sono già in Libia – conferma «Difesa
Online» – anche alcuni team di Navy Seal Usa.
L’intera operazione sarà formalmente «a guida italiana». Nel senso che l’Italia si
addosserà il compito più gravoso e costoso, mettendo a disposizione basi e forze per la
nuova guerra in Libia. Non per questo avrà il comando effettivo dell’operazione. Esso sarà
in realtà esercitato dagli Stati uniti attraverso la propria catena di comando e quella della
Nato, sempre sotto comando Usa. Un ruolo chiave avrà lo «U.S. Africa Command», il
Comando Africa degli Stati uniti: esso ha appena annunciato, l’8 gennaio, il «piano
15
quinquennale» di una campagna militare per «fronteggiare le crescenti minacce
provenienti dal continente africano».
Tra i suoi principali obiettivi, «concentrare gli sforzi sullo Stato fallito della Libia,
contenendo l’instabilità nel paese».
Fu il Comando Africa degli Stati uniti, nel 2011, a dirigere la prima fase della guerra, poi
diretta dalla Nato sempre sotto comando Usa, che con forze infiltrate e 10mila attacchi
aerei demolì la Libia trasformandola in uno «Stato fallito». Ora il Comando Africa è pronto
a intervenire di nuovo per «contenere l’instabilità nel paese», e lo è anche la Nato che, ha
dichiarato il segretario generale Stoltenberg, è «pronta a intervenire in Libia».
E di nuovo l’Italia sarà la principale base di lancio dell’operazione. Due dei comandi
subordinati dello «U.S. Africa Command» si trovano in Italia: a Vicenza quello dello «U.S.
Army Africa» (Esercito Usa per l’Africa), a Napoli quello delle «U.S. Naval Forces Africa»
(Forze navali Usa per l’Africa). Quest’ultimo è agli ordini di un ammiraglio Usa, che è
anche a capo delle Forze navali Usa in Europa, del Jfc Naples (Comando Nato con
quartier generale a Lago Patria) e, ogni due anni, della Forza di risposta Nato.
L’ammiraglio è a sua volta agli ordini del Comandante supremo alleato in Europa, un
generale Usa nominato dal Presidente, che allo stesso tempo è a capo del Comando
europeo degli Stati uniti.
In tale quadro si svolgerà la «guida italiana» della nuova guerra in Libia, il cui scopo reale
è l’occupazione delle zone costiere economicamente e strategicamente più importanti.
Guerra che, come quella del 2011, sarà presentata quale «operazione di peacekeeping e
umanitaria».
del 12/01/16, pag. 19
Siria, arrivati i primi convogli d’aiuti
Cibo e medicine hanno raggiunto tre villaggi intrappolati negli scontri,
ma non basteranno per tutti Trasferiti in Italia 15 feriti nell’attentato a
Zlitan, in Libia. Attentato dell’Is in un centro commerciale di Bagdad
VINCENZO NIGRO
Due operazioni umanitarie, distanti e diverse fra loro, in Siria e in Libia, ci servono a
verificare lo stato di conflitti che comunque fra di loro hanno mille connessioni. In Siria, nel
paesino di montagna di Madaya, al confine con il Libano, ieri per la prima volta dal 18
ottobre è riuscito a entrare un convoglio umanitario della Mezzaluna rossa siriana. In Libia
invece un C-130 dell’Aeronautica italiana è intervenuto su richiesta del nuovo governo
libico per evacuare in Italia 15 cadetti libici feriti gravemente nell’attentato di giovedì dell’Is
a Zlitan.
Madaya è la cittadina sunnita a soli 40 chilometri da Damasco dalla quale sono arrivate
foto drammatiche di uomini e soprattutto bambini ridotti a scheletri dalla fame.
L’esercito del presidente Assad circonda da mesi la zona assieme alle milizie di Hezbollah
libanesi senza riuscire a sconfiggere i ribelli sunniti. Il problema è che nella zona, e poi
nella zona di Fuaa e Kafraya nella provincia di Idlib ci sono complessivamente 400mila
persone assediate: gli aiuti, il cibo, le coperte, le medicine trasportate possono bastare per
60mila persone. Il presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Siria,
Pawel Krzysiek, ha spiegato che 44 camion carichi di cibo e medicine sono destinati a
Madaya, mentre altri 21 sono arrivati a Fuaa e Kafraya.
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Si spera che nei prossimi giorni il dialogo avviato dall’inviato Onu per la Siria Staffan De
Mistura con il governo siriano possa portare all’apertura di altri corridoi umanitari. Il
problema è che le nuove azioni di guerra e, sullo sfondo, la fiammata nella rivalità fra
Arabia Saudita e Iran, stanno facendo fare molti passi indietro al negoziato politico.
In Libia invece l’operazione umanitaria del governo italiano è stata una sorta di
evacuazione medica in zona di guerra: Misurata è un’area abbastanza stabile, controllata
da milizie in buone relazioni col premier libico Fayez al Serraj.
Ma le infiltrazioni di terroristi sono assolutamente possibili, come dimostrano gli attentati
messi a segno a ripetizione negli ultimi giorni. L’Aeronautica ha fatto decine di operazioni
del genere, ma questa è stata particolarmente rischiosa. La Difesa ha imbarcato sul C-130
della 46esima aerobrigata 14 fra medici e infermieri specializzati del policlinico Celio: tra i
feriti ci sono due casi molto gravi. Ieri l’Is ha colpito a Bagdad: oltre 40 i morti in tre
attacchi, uno contro un centro commerciale della capitale irachena.
del 12/01/16, pag. 19
A Madaya almeno 28 le vittime di denutrizione, sei erano bimbi: un
fallimento delle potenze internazionali
Nelle città assediate dove si muore di fame
“Sognavo la libertà ora voglio solo pane”
ANNE BARNARD, HWAIDA SAAD E SOMINI SENGUPTA
BEIRUT. Tra le colline attigue alla frontiera libanese, a un’ora di automobile dal centro di
Damasco, gran parte di una cittadina siriana è in preda alla fame. Madaya è sotto il
controllo dei ribelli e delle forze filo-governative che l’assediano, ed è accerchiata da filo
spinato, mine e cecchini appostati. La popolazione prepara zuppe d’erba, spezie e foglie
d’olivo. Mangia asini e gatti. Si trascina fino agli ambulatori rimasti nei quali crolla,
ricevendo poco più che sali minerali per reidratarsi. I vicini non si riconoscono più tra loro
per le strade, perché i loro lineamenti sono cambiati e i loro volti sono scavati e smunti.
Un tempo classificata Paese a medio reddito, la Siria oggi registra periodicamente morti
dovute a malnutrizione. In un ambulatorio di Madaya, dove presta aiuto Medici senza
frontiere, hanno perso la vita per malnutrizione almeno 28 persone, compresi sei neonati.
Le 42mila persone intrappolate qui rappresentano un decimo della popolazione in aree
assediate o remote.
Tutto ciò accade mentre le Nazioni Unite fissano un nuovo ciclo di colloqui di pace per il
25 gennaio.
Tutto ciò accade in mezzo all’escalation di interventi militari da parte di Russia e Usa. E
accade non solo malgrado questi tentativi di mediazione, ma anche a causa loro, dato che
le parti belligeranti si fanno beffe delle leggi internazionali e si lasciano adulare nei
negoziati.
Eppure a Madaya e nella vicina Zabadani, un tempo celebre stazione di soggiorno in
montagna, di fronte alla carestia, le idee di un cambiamento politico hanno fatto passi
indietro. Hamoudi, 27enne laureato in economia, che nel 2011 ha imbracciato le armi non
appena il governo ha represso le proteste, dice che molti sono pronti ad arrendersi pur di
avere di che sfamarsi, anche se sanno che li aspettano l’arresto e una condanna.
«Durante la rivoluzione sognavo la democrazia e la libertà», dice Hamoudi in un’intervista
via Skype: si esprime con lentezza e dalla sua voce trapela la sua debilitazione. «Oggi
tutto ciò che sogno è cibo. Voglio mangiare. Non voglio morire di fame». Domenica sono
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morte di malnutrizione altre cinque persone, un bambino di 9 anni e quattro uomini sopra i
45 anni. I siriani intrappolati dietro le linee del fronte, senza accesso a cibo e medicine,
sono circa 400mila.
Sia la Russia, il più potente alleato del governo siriano, sia gli Stati Uniti stanno
conducendo campagne di raid che dovrebbero prendere di mira i militanti dell’Is. Di fatto,
però, i bombardamenti hanno complicato il tentativo di portare aiuti umanitari. Dall’autunno
scorso sono state colpite circa 16 strutture sanitarie del Paese e sei associazioni
umanitarie sono state allontanate dalla provincia di Idlib, dove l’Is è poco presente, ma
dove le truppe siriane e russe bombardano sistematicamente altri gruppi ostili al
presidente Bashar al Assad.
Anche adesso che il governo siriano ha autorizzato l’arrivo di aiuti umanitari a Madaya, le
forze governative stanno stringendo d’assedio un’altra cittadina in mano ai ribelli,
Moadhamiyeh, alla periferia di Damasco, che nel 2013 subì un attacco chimico e un
assedio di due anni conclusosi a vantaggio del governo. «Arrendetevi o sarete annientati»,
è il messaggio che gli abitanti dicono di aver ricevuto dai negoziatori di Assad.
Usare l’arma della fame viola la legge internazionale. Tuttavia alcune potenze globali e
regionali — come Russia, Iran, Stati Uniti e Arabia Saudita — sono incapaci di esercitare
ulteriori pressioni sui loro alleati sul campo di battaglia. L’Onu dice che è stato accolto
solto il 10 per cento di tutte le richieste di portare aiuti e soccorso. Andy Baxer di Oxfam
dice che le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza «hanno fatto poca differenza per i civili
siriani».
Le Nazioni Unite si sono trovate a più riprese invischiate in vari accordi per contrattare
misere condizioni per portare cibo e medicine alla popolazione. Alcuni hanno previsto che i
civili abbandonassero le loro case in cerca di aiuto e protezione, in contrasto con i principi
di base dei soccorsi umanitari. I critici dicono che l’Onu, impaziente di mantenere il
governo siriano al tavolo dei colloqui con l’opposizione, è disposta a tutto e si sta facendo
ingannare. Nel frattempo, decine di persone ogni giorno si recano nell’ambulatorio di
Madaya gestito da Medici senza frontiere, dice Khaled Mohammad, anestesista che ci ha
mostrato le foto di un uomo ridotto a uno scheletro: Suleiman Fares, di 63 anni, è stato
trovato morto dagli attivisti che erano riusciti a portargli del cibo a casa.
( © 2016 New York Times News Service. Traduzione di Anna Bissanti)
del 12/01/16, pag.
YEMEN 'Colpito ospedale di Medici senza
frontiere
(chiara cruciati)
La terza volta in tre mesi, ma stavolta si contano le vittime: domenica un
ospedale di Medici Senza Frontiere è stato colpito in Yemen. Quattro morti,
dieci feriti tra cui tre membri dello staff. Dopo l'ospedale a Saada ad ottobre
e quello di Taiz a dicembre, questa volta è toccato all'ospedale nel distretto
di Razeh, a nord. Secondo quanto riportato dall'organizzazione, a colpire è
stato un missile ma - si legge nel comunicato - non è possibile confermarne
l'origine. Ovvero chi ne sia il responsabile, se la coalizione anti-sciita guidata
dall'Arabia Saudita (come avvenuto nei due casi precedenti) o il movimento
Houthi.
Resta l'estrema gravità del raid contro una struttura medica in un paese devastato
18
dalla guerra e dalla quasi totale mancanza di aiuti. Msf è chiara nelle
sue accuse: tutte le parti coinvolte conosco bene le coordinate Gps di tutte le
cliniche presenti in Yemen.
del 12/01/16, pag. 7
Il negoziato con i talebani «deve andare
avanti»
Afghanistan. Riunito il Quadrilateral committee
Emanuele Giordana
Per adesso la montagna ha partorito un topolino ma non era immaginabile andare oltre.
Riunitosi ieri per la prima volta a Islamabad, il Quadrilateral Coordination Committee, che
comprende Afghanistan, Pakistan, Cina e Usa, ha fissato il suo secondo incontro a Kabul
fra una settimana e ha soprattutto messo nero su bianco che il negoziato di pace coi
talebani deve andare avanti. Come? Si vedrà.
Alla riunione c’erano per il Pakistan il ministro degli Esteri Aizaz Ahmad Chaudhry e Sartaj
Aziz, ascoltato consigliere del premier Nawaz Sharif, per l’Afghanistan il vice ministro degli
esteri Hekmat Khalil Karzai, e gli inviati speciali americano e cinese: Richard Olson e
Deng Xijun. Dietro le quinte, il potentissimo capo delle forze armate pachistane Raheel
Sharif, l’architetto di questa nuova stagione negoziale. Tutti favorevoli al processo di pace
ma, per ora, senza i talebani, rimasti il convitato di pietra di questo incontro quadrangolare
dove erano presenti i principali protagonisti della guerra afgana. Un incontro (il primo) tra
governo e talebani si era tenuto in Pakistan in luglio ma tutto era poi collassato sia per
l’annuncio della morte di mullah Omar sia per le polemiche interne ai talebani
sull’opportunità di parteciparvi. Infine, ai colloqui era seguita un’ondata di attentati e stragi,
spesso senza rivendicazione, che avevano fatto montare un fortissimo sentimento anti
pachistano negli afgani: clima che ha richiesto mesi per ricucire lo strappo.
Per ora dunque c’è almeno un accordo di principio e una «road map» da negoziare il 18
gennaio assieme forse a una lista top secret in cui il Pakistan avrebbe messo i nomi dei
talebani disposti al dialogo. Tra loro ci sarebbe anche il capo, mullah Mansur, che viene
considerato più malleabile di Omar. Ma sono illazioni e per ora senza conferme da parte
del movimento in turbante.
Alla vigilia dell’appuntamento di Islamabad ha intanto visto la luce l’ennesimo rapporto
sulla situazione militare. Si tratta, ha scritto il magazine tedesco Der Spiegel, di un dossier
«segreto» della Nato di cui il settimanale è venuto in possesso. Il rapporto, in totale
controtendenza rispetto a quello del Pentagono presentato al Congresso americano a fine
anno, non risparmia nulla alle forze di sicurezza afgane, incapaci, secondo la Nato, di far
fronte alla minaccia talebana. Spiegel scrive che secondo l’Alleanza solo uno dei 101
battaglioni di fanteria è «pronto per il combattimento» e che dieci battaglioni non
sarebbero nemmeno in grado di essere operativi.
Benzina sul fuoco poi ce la mette proprio un americano, il generale John Campbell che
dall’agosto 2014 è al comando della missione Resolute Support che ha sostituito Isaf con
soli compiti di addestramento. I talebani avrebbero il controllo di fette di Paese sempre più
vaste mentre — aggiunge il rapporto — e continua a salire il numero dei morti: nel solo
2015 oltre 8mila vittime militari afgane (una media di 22 al giorno) con perdite aumentate
del 42% rispetto all’anno prima.
19
I conti non tornano se il rapporto del Pentagono era assai più moderato nel giudizio e se la
stessa missione di sostegno e formazione della Nato finisce, indirettamente, per
ammettere di non essere in grado di fornire l’addestramento necessario. Viene da
chiedersi se dietro al dossier «top secret», che è però finito sui giornali, non ci sia il
desiderio di aumentare Resolute Support chiedendo ai Paesi aderenti di far crescere i
propri contingenti. Certo il problema esiste: proprio ieri il presidente della Commissione
sicurezza dalla Camera, Mirdad Nejrabi, ha accusato il governo di non essere in grado di
gestire la guerra.
Accusa accompagnata dalle rivelazioni di Karim Atal a capo del Consiglio provinciale
dell’Helmand del Sud secondo cui il 40% dei soldati di stanza nell’area sarebbero
«fantasmi» i cui salari andrebbero nelle tasche dei comandanti. E ce n’è ancora per il
presidente Ghani, sotto schiaffo perché accusato di mettere in piedi commissioni di
indagine che non approdano a nulla, come nel caso della caduta di Kunduz in mano ai
talebani l’anno scorso sulla quale ancora si aspetta un rapporto dettagliato. Inverno difficile
e una primavera che rischia di portare, con la stagione secca, nuovi guai sul piano militare
e su quello politico.
del 12/01/16, pag. 7
Rogo B’Tselem, proseguono attacchi a Ong
della sinistra
Israele . Sarebbe stato causato da un impianto elettrico difettoso
l'incendio che ha danneggiato il centro israeliano a difesa dei diritti
umani nei Territori occupati. Ma l'accaduto ha riportato all'attenzione gli
attacchi sistematici alle Ong non allineate alla politica della destra.
Peggiorano le condizioni di Mohammed al Qiq, il giornalista palestinese
arrestato da Israele che fa lo sciopero della fame da 46 giorni
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Il comando dei vigili del fuoco sostiene che domenica sera non è stato un incendio doloso
a danneggiare la sede di B’Tselem., il centro israeliano che dalla prima Intifada riferisce le
violazioni dei diritti umani compiute dall’esercito e dai coloni nei Territori palestinesi
occupati. Le fiamme sarebbero state sprigionate dall’impianto elettrico difettoso. Questa
versione dell’accaduto, che sembra escludere un attentato degli ultranazionalisti, non è
bastata a spegnere le preoccupazioni generate dalla campagna scatenata dalla destra
israeliana contro B’Tselem ed altre Ong e associazioni di sinistra accusate di «tradimento»
e di «lavorare per i palestinesi e forze straniere». Da alcuni giorni il centro B’Tselem è
oggetto di un attacco durissimo della destra estrema e di quella che fa riferimento ai partiti
di governo. E’ lo stesso attacco scatenato qualche settimana fa contro Breaking the
Silence, la Ong dei soldati che rompono il silenzio su crimini di guerra nei Territori occupati
e abusi a danno dei palestinesi.
Gli ultimi giorni sono stati un inferno per B’Tselem, accusato dai coloni e dalla destra di
avere tra i suoi collaboratori un attivista palestinese nella zona a sud di Hebron che
avrebbe denunciato all’Anp un altro palestinese impegnato a vendere terreni ai coloni
israeliani in Cisgiordania (attività vietata dal codice palestinese, il reato prevede fino alla
pena di morte). La vicenda è stata raccontata dal noto programma televisivo “Uvda” che,
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replicano quelli di B’Tselem, non ha svolto alcuna indagine e si è limitato a mandare in
onda dichiarazioni e immagini registrate di nascosto da nazionalisti di “Giovani per
Israele”. Alcune settimane fa un’ altra organizzazione di estrema destra, “Im Tirtzu”, aveva
accusato il direttore di B’Tselem, Hagai Elad, di essere un agente di forze straniere.
«Il governo deve fermare subito la sua istigazione contro la sinistra», ha esortato ieri Yariv
Oppenheimer di Peace Now sulla sua pagina Facebook. Proteste anche dal leader della
Lista Unita Araba, Ayman Odeh, che ha addossato al governo la responsabilità degli
attacchi contro le Ong e i centri che tutelano i diritti umani. Il governo Netanyahu da parte
sua continua a puntare l’indice contro le organizzazioni non allineate alla sua politica e si
prepara a paralizzarle con una nuova legge che colpirà i finanziamenti dall’estero. Una
iniziativa criticata anche dall’ambasciatore degli Stati Uniti a Tel Aviv, Dan Shapiro, che
due giorni fa, riferisce il quotidiano Haaretz, ha espresso alla ministra israeliana della
giustizia Ayelet Shaqed la “preoccupazione” di Washington per la legge che rischia di
limitare le attività delle Ong. La nuova legge (approvata in via preliminare da una
commissione ministeriale e ora discussa in Parlamento) prevede, tra i vari punti, che i
rappresentanti delle Ong alla Knesset debbano mostrare un distintivo particolare in modo
da essere subito identificate dai deputati.
Intanto uno dei casi denunciati anche dalle Ong della sinistra israeliana, quello dell’arresto
del giornalista palestinese Mohammed al Qiq, rischia di trasformarsi in una tragedia. Al
Qiq, corrispondente di Majd TV, detenuto in Israele dallo scorso 21 novembre, fa lo
sciopero della fame ormai da 46 giorni per protestare contro la sua “detenzione
amministrativa”, ossia il carcere senza processo per almeno sei mesi. Al Qiq è molto
debole, non è più in grado di camminare e comunica solo a gesti. Nonostante ciò le
manette lo tengono bloccato al letto del Centro Medico Emek di Afula in cui è già confinato
dalle conseguenze del lungo digiuno. Forse sarà alimentato con la forza, in base a una
legge approvata l’anno scorso dalla Knesset per i detenuti politici palestinesi che fanno lo
sciopero della fame, sebbene l’associazione dei medici israeliani si sia dichiarata contro
questa forma di coercizione. Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, accusa il
giornalista di far parte di Hamas e di cooperare ad atti di terrorismo. Non si capisce, con
accuse così gravi, come mai al Qiq sia stato posto solo agli “arresti amministrativi” e non
sia stato processato. Questo tipo di detenzione preventiva rivela piuttosto che lo Shin Bet
non ha nulla di concreto contro il reporter palestinese.
del 12/01/16, pag. 19
Zar Putin: “La guerra fredda non è mai finita”
Crisi internazionali - Intervista a Bild: “Dopo il crollo del Muro la Nato
voleva sedersi sul trono d’Europa: questo è il risultato”
Il Cremlino vuole combattere il terrorismo assieme al resto del mondo, è contrario
all’espansione della Nato verso est e considera le sanzioni occidentali per la crisi ucraina
un modo per “contenere geopoliticamente la Russia”. Vladimir Putin apre l’anno mettendo
bene in chiaro la sua posizione sui temi più scottanti di politica internazionale.
In un’intervista esclusiva alla tedesca Bild, l’uomo forte di Mosca ha accusato l’Occidente
di aver aggravato le crisi internazionali che esso stesso ha contribuito a creare. In
particolare, secondo Putin, gli interventi militari in Iraq e in Libia sono tra le cause
dell’esplosione del terrorismo in quei paesi, e non solo. E per combattere il terrorismo
21
serve unità: “Abbiamo di fronte minacce comuni – dice – e vogliamo che tutti i paesi, sia in
Europa che nel mondo intero, uniscano i propri sforzi contro queste minacce”.
Mosca preme da tempo per una coalizione internazionale unica contro l’Isis in Siria, ma è
accusata di non combattere solo i jihadisti e di aver preso di mira nei suoi raid aerei anche
numerosi altri gruppi che lottano contro le truppe governative nel complicato conflitto
siriano.
L’obiettivo è quello di mantenere al potere l’alleato Bashar al Assad. O quantomeno di
assicurarsi un ruolo chiave nel processo di transizione che potrebbe detronizzare il
sanguinario dittatore di Damasco.
Sul fronte ucraino Putin torna a scagliarsi contro le sanzioni che Ue e Usa hanno imposto
alla Russia dopo che questa si è annessa la Crimea e ha probabilmente appoggiato
militarmente i separatisti del Donbass con armi e uomini. “Le sanzioni dell’Occidente non
sono dirette ad aiutare l’Ucraina ma a contenere geopoliticamente la Russia”, tuona. Per
quanto riguarda l’attuazione degli accordi di Minsk per mettere fine al conflitto, il leader del
Cremlino se ne lava le mani: “Non si può chiedere a Mosca di fare qualcosa che spetta a
Kiev”, dice.
Poi definisce “una cosa giusta” aver strappato all’Ucraina la russofona penisola di Crimea,
che ha grande importanza strategica visto che ospita la flotta russa sul Mar Nero.
Che cosa abbiamo sbagliato gli domandano i cronisti ragionando sulle crisi che affliggono
il mondo un quarto di secolo dopo la fine della Guerra fredda? “Abbiamo sbagliato tutto sin
dall’inizio – è la sua risposta – non abbiamo superato la divisione dell’Europa: 25 anni fa il
Muro di Berlino è crollato, ma altri muri invisibili sono stati spostati verso est.
E questo ha posto le basi per accuse reciproche, fraintendimenti, future crisi”. Innanzitutto
– sottolinea il leader russo – dopo la caduta del Muro si era detto che l’Alleanza atlantica
non si sarebbe estesa verso est, ma le promesse fatte a Gorbaciov non sono state
mantenute perché “la Nato e gli Usa volevano una vittoria completa sull’Urss” per “sedersi
da soli sul trono dell’Europa”. Lo sbaglio commesso dalla Russia? “Non abbiamo
affermato i nostri interessi nazionali, – dice Putin – avremmo dovuto farlo sin dall’inizio” e
“il mondo sarebbe stato più equilibrato”.
del 12/01/16, pag. 1/6
Fronte democratico con Podemos
Felice Besostri
Analizzare le elezioni del 2015 in Spagna per trarne insegnamento politico è un modo di
seguire, nel 70° anniversario nel 2016, l’esortazione lanciata da Carlo Rosselli alla Radio
di Barcellona il 13 novembre 1936. Le carte in mano della soluzione politica, a Madrid, ce
le hanno Podemos e il Psoe, e questo apre finalmente delle nuove prospettive per la
sinistra e non solo in Spagna. Per la prima volta i voti si potrebbero politicamente
sommare, cosa esclusa nei voti Psoe-Pce ed anche Psoe-Iu.
Malgrado la politica economica e istituzionale (legge elettorale e revisione costituzionale)
del Pd, lo spazio politico di espansione da noi è potenzialmente coperto dal M5S, ma
verso di esso ci sono diffidenze e preclusioni, inesistenti o quasi nei confronti di Podemos.
Last but not least, con i gruppi dirigenti degli spezzoni organizzati della sinistra, a
prescindere da chi si è già chiamato fuori, difficilmente si annuncia un radioso futuro: ma
contro di essi il processo di ricomposizione unitaria neppure inizia.
Il successo di Podemos e, in minor misura rispetto alle previsioni, di Ciudadanos non si
spiega con il recupero dell’astensionismo, ma deriva da una redistribuzione dell’elettorato
22
che non ha colpito soltanto il bipolarismo Pp-Psoe, ma anche i Partiti nazional-regionalisti,
tradizionale puntello dei governi quando Pp o Psoe non avevano la maggioranza assoluta.
Eppure le elezioni spagnole, come prima quelle greche e più recentemente portoghesi e i
cambiamenti nella leadership del Labour Party, hanno scatenato un’offensiva mediaticopolitica per un governo di responsabilità e stabilità nazionale Pp-Psoe, il cui significato è
reso ancor più palese nella valorizzazione a sproposito dell’Italicum (vedi i consigli del
prof. Panebianco e di Paolo Mieli dalle colonne del Corriere della Sera).
La Spagna è un caso dal quale possono venire indicazioni, ma bisogna partire da lontano
e non ridurre la storia alla cronaca dell’ultimo successo di una nuova formazione, come
Podemos, il nuovo faro di Capo Speranza, dopo Syriza, per una frustrata sinistra italiana,
che nelle prossime elezioni politiche nazionali (2017? 2018?) vede avvicinarsi lo spettro
del 2008 con l’esclusione dal Parlamento. Nel 2013 una parte della sinistra fu salvata da
un premio di maggioranza incostituzionale. La soglia ribassata al 3% si deve sperare non
costituisca una tentazione per salvare una testimonianza parlamentare per pezzi di
sinistra, per di più in concorrenza tra loro (Sinistra Italiana, eredi delle liste Altra Europa,
Civati e il suo Possibile).
L’alternativa ad una grande coalizione Pp-Psoe allargata a Ciudadanos, 252 seggi totali
(altrimenti non si raggiungono i 3/5 o i 2/3, secondo i casi, previsti dall’art. 167 della
Costituzione per la sua revisione) è un accordo Psoe-Podemos (159 seggi) con il
sostegno dei partiti nazional-regionalisti (26) e di Up-Iu(2). Si tratta di un’occasione unica e
non ripetibile, anche se difficile.
Tuttavia non è possibile prevedere scenari soltanto sommando il numero dei deputati,
senza valutare la loro capacità di coalizione. Un’intesa Psoe-Podemos nella situazione
data avrebbe un significato politico per eventuali elezioni anticipate; per avere un governo
stabile non è necessario alterare la rappresentanza con premi di maggioranza o
ballottaggi farlocchi. In Spagna la fiducia è data al solo Presidente del Governo non a una
coalizione. Sono anche possibili governi di minoranza che non possono essere abbattuti
se non da una maggioranza, assoluta costruita intorno un altro Presidente del Governo.
Se non c’è nemmeno una maggioranza semplice intorno ad un Presidente entro 2 mesi
dalla prima votazione si va ad elezioni anticipate.
Con il Porcellum il Pp avrebbe avuto la maggioranza assoluta, che gli elettori gli hanno
negato, con l’Italicum ci sarebbe stato un ballottaggio Pp-Psoe, cioè tra i grandi sconfitti a
prescindere dal fatto che i comportamenti elettorali sono influenzati dalla legge elettorale
esistente e quindi non era detto che il ballottaggio sarebbe stato Pp/Psoe.
Un accordo Psoe-Podemos è possibile soltanto sulla base di un grande progetto di
cambiamento, che abbia ben presente il quadro politico europeo: una rigenerazione
politica di tutti i soggetti in campo a cominciare dal Pse ma anche della Sinistra unita
europea; se l’espansione della sinistra alternativa dovesse dipendere dallo sfaldamento
socialista, sarebbe inevitabile la vittoria delle destre. Occorre avere ben chiare le priorità e
quale sia il pericolo maggiore per le masse popolari.
Se si è convinti che siamo di fronte ad un attacco generalizzato alla democrazia, perché il
rafforzamento degli esecutivi è la strada obbligata per far passare le politiche di austerità,
controllare il disagio sociale con leggi eccezionali di repressione del dissenso e i fenomeni
migratori con la chiusura delle frontiere, l’unità per difendere gli spazi democratici è una
scelta obbligata. In tutti i paesi europei si rafforzano gli esecutivi di pari passo con il peso
crescente delle organizzazioni e istituzioni internazionali, nelle quali gli Stati sono
rappresentati, quasi esclusivamente, dai loro governi: anche nell’Unione europea si
rafforzano movimenti politici non vincolati ai valori democratici, ma identitari quando non
apertamente xenofobi.
23
La crisi economica, che non è solo finanziaria e produttiva, ma anche politica, sociale e
morale richiede un nuovo modello di società che aumenti le libertà e diminuisca la
diseguaglianza: questa è la sfida alla sinistra, che non può essere superata senza una
nuova dinamica unitaria. Ai partiti socialisti deve essere richiesto di ritrovare le ragioni
della loro diversità dal capitalismo e alle altre componenti della sinistra di superare il
settarismo e le tentazioni autoreferenziali. Quest’anno cade il centenario della conferenza
di Kienthal( 24–30 aprile): sarebbe il caso di far rivivere quello spirito, se non vogliamo
rinunciare alla speranza di una società più giusta e libera e senza l’incubo di devastanti
cambiamenti ambientali, minaccia alla stessa sopravvivenza dell’umanità.
del 12/01/16, pag. 6
Pp e Psoe, caos sul governo. Domani le
nuove Cortes
Madrid. L’Infanta alla sbarra. E Rajoy sotto tiro
Luca Tancredi Barone
Con il permesso del nuovo governo indipendentista catalano, quella di ieri è stata anche
nel resto della penisola una giornata piena di notizie. La prima, che in altre circostanze
sarebbe stata l’unica, è che per la prima volta si siede nel banco degli imputati
un’esponente della casa reale dei Borbone. Si tratta della sorella dell’attuale monarca,
l’Infanta Cristina, accusata con l’ex marito ed ex giocatore di pallamano Iñaki Urdangarin e
altri 18 imputati per il cosiddetto caso Nóos, il nome dell’istituto che si dedicava a eventi
sportivi. L’Infanta è accusata con il marito sostanzialmente di evadere le tasse attraverso
un’ong chiamata Aizoon.
L’ufficio anticorruzione chiede inoltre 19 anni per Urdangarin e 16 per il suo ex socio Diego
Torres per aver messo in piedi una rete di imprese fantasma per poter ottenere
finanziamenti da varie comunità autonome. Il caso era nato tirando il filo durante le
indagini su tangenti pagate nella regione valenziana e nelle isole Baleari, ex feudi popolari,
durante la bolla immobiliare.
Torres ha denunciato in un’intervista che Urdangarin avrebbe cercato di corromperlo
offrendogli denaro e un prestigioso posto di lavoro a cambio di accollarsi tutta la colpa e
che l’ex re Juan Carlos controllava i conti dell’istituto, quindi non potevano essere illegali,
argomenta, così come un importante funzionario del ministero delle finanze – lo stesso
che fa la dichiarazione dei (molti) redditi dei reali.
Il processo, che si celebra nelle isole Baleari, doveva essere presieduto da Juan Pedro
Yllanes, che però si è presentato alle elezioni con Podemos. Secondo lui, il fatto che
Borbone e il marito siano seduti come imputati è «segno di normalità democratica». Ma la
verità è che nel primo giorno di questo giudizio, la Pubblica Accusa, l’Avvocato dello stato
e persino il ministero delle Finanze si sono dedicati a cercare di far applicare all’Infanta
una (discutibile) dottrina giuridica applicata, guardacaso, al fu magnate Emilio Botín
(fondatore della principale banca spagnola, il Santander) per cui se ad accusare una
persona c’è solo l’accusa popolare non ci sarebbe bisogno di processarla. Secondo i
difensori della corona, giudicare Cristina di Borbone sarebbe «discriminatorio». Vedremo
cosa decideranno le tre giudici.
Il Partito Popolare ha anche un altro caso di cui preoccuparsi più direttamente: quello
contro il suo ex tesoriere, Luís Bárcenas, che questo fine settimana è tornato a minacciare
24
il suo ex capo Rajoy. Stavolta sostiene di avere prove registrate che Rajoy avrebbe
intascato denaro nero contante.
Domani intanto sarà l’attesissimo primo giorno per le nuove Cortes spagnole. Ma le
posizioni dei partiti sembrano lontanissime persino per l’elezione del presidente della
camera bassa (il senato è rimasto saldamente in mano popolare). Il Pp fa finta di credere
che potrà eleggere il presidente visto che è il gruppo maggioritario. I socialisti sanno che il
loro candidato Patxi López (ex presidente basco) ha buone chance nel secondo turno,
quando passano i due più votati, ma i nuovi arrivati Ciudadanos e Podemos sbattono i
pugni. Ciudadanos vorrebbe che fosse una presidenza temporale fino alla nomina del
governo perché secondo loro a presiedere las Cortes dovrebbe essere un esponente
dell’opposizione (novità nel panorama parlamentare spagnolo), mentre Podemos spinge
perché vengano accettati i suoi 4 gruppi parlamentari: oltre a quello di Podemos, i tre
raggruppamenti catalano, valenziano e galiziano, a cui avevano promesso un gruppo
proprio con l’argomento che sono coalizioni.
Il regolamento è abbastanza flessibile, ma nessuno degli altri partiti vuole cedere tanto
spazio di tribuna a Podemos – per non parlare dei finanziamenti pubblici che
quadruplicherebbero.
I negoziati per il governo, poi, sono in alto mare.
Se il Pp non ha possibilità di farcela giacché, nonostante il nuovo governo indipendentista,
il segretario del Psoe continua a giurare che non aiuteranno mai il Pp, l’alternativa di
sinistra anche ammesso e non concesso che Podemos rinunciasse al referendum di
autodeterminazione (difficile), o che si trovasse una formula ambigua da far digerire ai
socialisti, senza almeno un’astensione di Ciudadanos non è percorribile. Il conto alla
rovescia comincia domani.
del 12/01/16, pag. 35
IL PUNTO DEBOLE DELL’EUROPA
MASSIMO L. SALVADORI
AVVENIMENTI recenti e in corso confermano più che mai che l’Unione Europea, tale solo
di nome, in realtà è una debole Confederazione, che lotta ogni giorno con alterni successi,
per lo più parziali, e insuccessi nell’affrontare i problemi che urgono all’ordine del giorno. È
fisiologia che in una comunità di Stati giunta ad abbracciarne 28 emergano punti di vista e
interessi diversi e ci si confronti con vivace dialettica sulle strategie da seguire; ma è
patologia che ne derivino una dopo l’altra contrapposizioni che trovano mediazioni
abborracciate o non le trovano per niente.
Il punto più basso lo si è probabilmente toccato con la seconda guerra del Golfo, che ebbe
l’effetto di spaccare letteralmente l’Unione in due campi contrapposti. Nei tempi più vicini si
è assistito alle divaricazioni sulle politiche da seguire in relazione agli effetti disastrosi
causati dalla crisi economica iniziata nel 2008, alla questione ucraina, alle sanzioni alla
Russia, all’eterno dramma israelo-palestinese, al dissesto greco, all’ingresso della Turchia
nell’Unione; e si potrebbe continuare.
Ora siamo allo spettacolo offerto dalle misure da prendere di fronte alla tragedia costituita
dalle ondate di immigrazione. Alcuni Stati attuano con più o meno generosità programmi di
accoglienza, altri si chiudono con una ostilità che si tinge di intolleranza razzistica e
identitaria. L’ungherese Viktor Orbán ha fatto elevare il suo muro contro gli immigrati. La
Danimarca discute di una legge che prevede di spogliarli di danaro e di gioielli in cambio
delle spese per dare loro un qualche tetto: un proposito che resterà nella memoria. I
25
disaccordi tra i Paesi in tema di ripartizione delle “quote” degli immigrati — con chi ne
accoglie molti, chi pochi e chi intende chiudere le porte — e la messa in discussione degli
accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone, già in parte violati, mostrano
anch’essi come l’unità formale celi la disunità sostanziale. Disunità della quale è segno
pesante la discussione aperta sull’uscita o meno dall’Unione della Gran Bretagna, il cui
premier — invece di assumersi la responsabilità di un indirizzo politico — lascia i suoi liberi
di compiere una “scelta di coscienza”.
Un insieme di miserie che minaccia di provocare cumuli di macerie, in una Europa nella
quale da un lato i Kaczynski e gli Orbán vanno stringendo il loro nero patto reazionario e
dall’altro vigoreggiano i movimenti sociali e i partiti politici che propagandano come una
rinascita il dissolvimento dell’Unione, il consenso popolare alla quale viene eroso in misura
via via maggiore.
Occorre a questo punto domandarsi quale sia la radice profonda del virus che mina la
costruzione politica e istituzionale dell’Europa. Ritengo non sia improprio partire da un
errore strategico di fondo, che si sconta di continuo: l’ingresso nel 1975 nella Comunità
della Gran Bretagna, la cui linea è stata costantemente ispirata a sabotare — questa la
verità — ogni passo inteso a costituire un governo politico unitario del continente. Dopo di
allora si è proceduto all’allargamento del numero di Stati — dilatatosi dopo la dissoluzione
dell’impero sovietico cedendo all’impulso a costruire ad Oriente una barriera nei confronti
della Russia — senza che vi fosse un nucleo sufficientemente forte in grado di imprimere
all’Unione lo slancio necessario per procedere verso la federazione.
Così l’Unione è rimasta una non-Unione: non un governo comune, non una costituzione
comune, non una moneta per tutti comune, non una Banca Centrale come la Federal
Reserve americana, non una politica estera sottratta agli interessi particolari dei vari
membri, non un esercito comune. Qui la differenza con le vere unioni di Stati come gli
Usa, la Federazione russa, l’Unione indiana, il Messico, il Brasile, le quali hanno costruito
le loro istituzioni senza dovere fare i conti con Stati quali erano e sono quelli europei, il cui
peso schiacciante non ha cessato e non cessa di gravare sulle istituzioni europee. Si tratta
di Stati vecchi dalle consolidate radici, con differenti tradizioni, culture, costumi, mentalità,
livelli non omogenei di sviluppo economico e sociale: fattori sufficientemente profondi e
strutturati da avere impedito all’Unione Europea di nascere “giovane” e non a sua volta
“vecchia”. Le grandi innovazioni politiche e istituzionali sono sempre sorte dalla
determinazione e dalla capacità di “liberarsi” dal peso della storia. Non, naturalmente,
facendo tabula rasa del passato: gli esperimenti in tal senso compiuti specie nel
Novecento non hanno lasciato che terra bruciata. Liberarsi vuol dire andare oltre: anche,
certo, conservare, ma impedire alla conservazione di paralizzare l’innovazione.
È questa la prova che la nostra Unione — in preda agli ondeggiamenti, alle divergenze,
all’indecisione, alle paure, incapace di superare la sua condizione di creatura nata fragile
che non riesce a lasciarsi alle spalle un’adolescenza che si prolunga troppo — è chiamata
a superare.
Siamo al punto in cui l’Unione ha bisogno di una vera e propria rifondazione, anzitutto
nello spirito dei suoi governanti e forse ancora più dei cittadini chiamati a decidere se
aspirano a diventare propriamente europei oppure a regredire nel chiuso delle cittadinanze
dei loro singoli Stati. Esistono le energie per un simile compito?
26
INTERNI
del 12/01/16, pag. 9
Il fronte del no da Rodotà a Forza Italia
“Ora il referendum, i numeri li abbiamo”
GIOVANNA CASADIO
ROMA.
Sono le «deforme costituzionali ». Il segno del «tratto autoritario del premier che dice
“dopo di me il diluvio” invocando il plebiscito, ma il diluvio non ci sarà». E ancora: «È
truffaldino che il governo sostenga di farsi promotore di un referendum che è oppositivo
per trasformarlo in un plebiscito su Renzi». Sono le parole d’ordine con cui il “comitato del
no” alla riforma costituzionale, lancia la battaglia per il referendum. Presidente è il
costituzionalista Alessandro Pace. “En plein” di giuristi e intellettuali, quelli che una volta il
premier definì i “professoroni”, e ora “i gufi”, da Stefano Rodotà a Gustavo Zagrebelsky,
Lorenza Carlassare, Felice Besostri, Domenico Gallo, Gaetano Azzariti, Gianni Ferrara, e
che ora si trascinano dietro una folla di adesioni al comitato, al punto che non basta ieri la
prima sala messa a disposizione dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, ma
occorre spostarsi tutti nella più grande auletta dei gruppi parlamentari. E fuori resta la fila.
Ma soprattutto è un fronte per il referendum del tutto inedito, che vede accanto gli anti
berlusconiani e i berlusconiani, perché va dalla Sinistra di Vendola e Fassina alla Lega,
dai grillini a Forza Italia appunto. La mobilitazione è già partita. Il referendum, che
formalmente sarà indetto subito dopo l’ok definitivo alla seconda lettura della riforma,
quindi non prima di aprile, ha già i numeri. Sono infatti 126 le firme di parlamentari –
spiega Alfiero Grandi che coordina la prima volta del comitato – dopo avere letto il
messaggio di adesione “esterna” del M5Stelle e avere conteggiato “Possibile” di Civati. La
«quota » per il referendum insomma c’è. Del resto nell’aula della Camera Mariastella
Gelmini prende l’impegno per conto di Berlusconi: «Sosterremo i comitati per il no al
referendum, per mandare a casa Renzi». I parlamentari di Sinistra Italiana sono invece
presenti alla riunione, capitanati da Scotto, D’Attorre, Fratoianni, De Petris, prima di
allontanarsi per votare contro la riforma costituzionale. Perché la riunione del “comitato del
no” è convocata in contemporanea all’ultimo atto della prima lettura della riforma.
Scranni affollati da giuristi come Raniero La Valle e da politici, appunto. Si rivedono Tonino
Di Pietro, che parla di «nucleo neo piduista del sistema che Renzi sta attuando», Falomi,
Vincenzo Vita, Pancho Pardi, Antonino Ingroia, Cesare Salvi. Anche Paolo Cirino
Pomicino, che promette di portare un gruppetto di supporter. C’è il segretario della Fiom,
Maurizio Landini che ha una speranza: «La Cgil sta decidendo come schierarsi, spero stia
da questa parte, perché la riforma di Renzi riduce gli spazi di democrazia ». «Non è tempo
di fare gli schizzinosi rispetto alle adesioni, ma di battersi per non fare passare la riforma»,
spiega Sandra Bonsanti a proposito della carovana referendaria. Incalza Rodotà: «Non
proprio un ricatto da Renzi ma si esprime come i monarchi... il premier espropria i cittadini,
carne da tweet e da slide, è un passo in più verso la democrazia plebiscitaria». Reazione
del capogruppo dem, Rosato: «Si compatta un fronte della conservazione Vendola,
Brunetta, Grillo»
27
del 12/01/16, pag. 2
Voi al governo, che cosa avete capito?
Gustavo Zagrebelsky
Coloro che vedono le riforme costituzionali gravide di conseguenze negative non si
aggrappano alla Costituzione perché è «la più bella del mondo». Sono gli zelatori della
riforma che usano quell’espressione per farli sembrare degli stupidi conservatori e
distogliere l’attenzione dalla posta in gioco. La posta in gioco è la concezione della vita
politica e sociale che la Costituzione prefigura e promette, sintetizzandola nelle parole
«democrazia» e «lavoro» che campeggiano nel primo comma dell’art. 1.
Quali credenziali possono esibire gli attuali legislatori costituzionali? A parte la questione,
bellamente ignorata, dell’incostituzionalità della legge elettorale in base alla quale essi
sono stati eletti; a parte la falsificazione delle maggioranze che quella legge ha
comportato, senza la quale non ci sarebbero stati i numeri in Parlamento; a parte tutto ciò,
la domanda che deve essere posta è: quale visione della vita politica li muove? A quale
intento corrispondono le loro iniziative? C’è un «non detto» e lì si trovano le ragioni di tanta
enfasi, di tanto accanimento, di tanta drammatizzazione che non si giustificherebbero se si
trattasse solo di riduzione dei costi della politica e di efficientismo decisionale. La posta in
gioco non è di natura economica e funzionale. Se fosse solo questo, si dovrebbe trattare
la «riforma» come una riformetta da discutere tecnicamente, incapace di sommuovere
acute passioni politiche. Invece, c’è chi la carica d’un significato eccezionale, si atteggia a
demiurgo d’una fase politica nuova e dice d’essere pronto a giocarsi su di essa perfino il
proprio futuro politico.
Ciò si spiega, per l’appunto, con il «non detto». Cerchiamo, allora, di dirlo, nel quadro delle
profonde trasformazioni istituzionali degli ultimi decenni, trasformazioni che hanno
comportato un ribaltamento della democrazia parlamentare in uno strano regime
tecnocratico-oligarchico che, per sua natura, ha come punto di riferimento l’esecutivo.
Viviamo in «tempi esecutivi»! La politica esce di scena. I tecnici ne occupano lo spazio nei
posti-chiave, cioè nei luoghi delle decisioni in materia economica, oggi prevalentemente
nella versione della finanza, e nel campo della politica estera, oggi principalmente nella
versione degli impegni militari. La partecipazione politica che dovrebbe potersi esprimere
nella veritiera rappresentazione del popolo, cioè in parlamento, a partire dai bisogni, dalle
aspirazioni, dagli ideali non è più considerata un valore democratico da coltivare, ma un
intralcio. Così, del fatto che la metà degli elettori sia lontana dalla politica al punto da non
trovare attrattive nell’esercizio del diritto di voto, nessuno si preoccupa: pare anzi che ce
ne si rallegri. Il fatto che i sindacati trovino difficoltà nel rappresentare i bisogni dei
lavoratori, invece che spingere a misure che ne rafforzino la capacità rappresentativa,
induce ad atteggiamenti sprezzanti e di malcelata soddisfazione. Che i diritti dei lavoratori
siano sottoposti e condizionati alle esigenze delle imprese, non fa problema: anzi il ritorno
a condizioni pre-costituzionali si considera un fattore di modernizzazione. Che i partiti
siano a loro volta ridotti come li vediamo, a sgabelli per l’ascesa alle cariche di governo e
poi a intralci da tenere sotto la frusta del capo e di coloro che fanno cerchio attorno a lui,
non è nemmeno da denunciare con più d’una parola. A questa desertificazione socialpolitica corrisponde perfettamente la legge elettorale. Essa dovrebbe servire a incoronare
«la sera stessa delle elezioni» il vincitore, cioè il capo politico che per cinque anni potrà
governare controllando il parlamento attraverso il controllo del partito di cui è capo. La
piramide si è progressivamente rovesciata e non abbiamo fatto il necessario per impedirlo.
La democrazia dalle larghe basi voluta dalla Costituzione è stata sostituita da un regime
guidato dall’alto dove si coagulano interessi sottratti alle responsabilità democratiche.
28
L’informazione si allinea; la vita pubblica è drogata dal conformismo; gli intellettuali
tacciono; non c’è da attendersi alcuna vera alternativa dalle elezioni, pur se e quando esse
si svolgano, e se alternative emergessero dalle urne, sarebbe la pressione proveniente da
fuori (istituzioni europee, Fondo monetario internazionale, grandi fondi d’investimento) a
richiamare all’ordine; nella scuola si affermano modelli verticistici e i nostri studenti e i
nostri insegnanti gemono sotto programmi ministeriali finalizzati a produrre non cultura ma
tecnica esecutiva. Può essere che questo è quanto richiedono i tempi che viviamo, i tempi
dello sviluppo per lo sviluppo, dell’innovazione per l’innovazione, della competitività che
non ammette deroghe, della spremitura degli esseri umani, dei diritti dei più deboli e delle
risorse naturali per tenere il passo sempre più veloce della concorrenza. Può essere che
solo a queste condizioni il nostro paese sia annoverabile tra i virtuosi, nei quali la finanza
sovrana consideri conveniente investire le sue immani risorse; cioè, in termini più realistici,
consideri conveniente venire a comperarci, approfittando delle tante privatizzazioni che
segnano l’arretramento dello stato a favore degli interessi del mercato. Gli inviti che
provengono dalle istituzioni sovranazionali, legate al governo della finanza globale, sono
univoci. I moniti che provengono dall’Europa («ce lo chiede l’Europa») sono dello stesso
segno. Perfino una banca d’affari (gli «analisti» della J.P. Morgan) ha dettato la propria
agenda, nella quale è scritta anche la riduzione degli spazi di democrazia che le
costituzioni antifasciste del II dopoguerra hanno garantito ai popoli usciti dalle dittature (è
detto proprio così e nessuno, tra le autorità che avrebbero il dovere di difendere la
democrazia e la Costituzione, ha protestato). La riforma della Costituzione, promossa, anzi
imposta dall’esecutivo, s’inserisce in questo contesto generale. Il «non detto» è qui.
Occorre dimostrare d’essere capaci di rispondere alle richieste. Se, come si dice nella
prosa degenerata del nostro tempo, non si riesce a «portare a casa» il risultato, viene
meno la fiducia di cui i governi esecutivi devono godere rispetto ai centri di potere che
stanno sopra di loro e da cui, alla fine dipende la loro legittimazione tecnica.
La chiamiamo «riforma costituzionale», ma è una «riforma esecutiva». Stupisce che tanti
uomini e tante donne che hanno nella loro storia politica numerose battaglie per la
democrazia, si siano adeguati a subire questa involuzione, anzi collaborino attivamente
chiudendo gli occhi di fronte a ciò che a molti appare evidente. La riforma costituzionale è
il coronamento, dotato di significato perfino simbolico, di un processo di snaturamento
della democrazia che procede da anni. Coloro che l’hanno non solo tollerato ma anche
promosso sono oggi gli autori della riforma. Sono gli stessi che ora ci chiedono un voto
che vorrebbe essere di legittimazione popolare a un corso politico che di popolare non ha
nulla.
I singoli contenuti della riforma importano poco o nulla di fronte al significato politico.
Contano così poco che chi avesse voglia di leggere e cercare di capire ciò su cui ci si
chiede di esprimerci nel referendum resterebbe sconcertato (…). Siamo di fronte a un
testo incomprensibile. Verrebbe voglia di interrogare i fautori della riforma — innanzitutto il
presidente della Repubblica di allora, il presidente del Consiglio, il ministro — e chiedere,
come ci chiedevano a scuola: dite con parole vostre che cosa avete capito. Qui,
addirittura, che cosa avete capito di quello che avete fatto? Saprebbero rispondere? E noi,
che cosa possiamo capirci?
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento del professore Zagrebelsky, letto ieri davanti
all’assemblea del comitato del No dal professore Francesco Pallante.
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del 12/01/16, pag. 9
Referendum, Renzi rischia grosso con
opposizioni unite
Astensioni - Dati Ipr rivelano che quasi 30 milioni di italiani non hanno
ancora preso una decisione o vogliono votare
Il 2016 appena iniziato sarà un anno decisivo per la politica italiana. Non ci saranno
elezioni politiche o europee. Ma sarà l’anno in cui le più grandi città italiane – Roma,
Milano, Napoli, Torino – andranno al voto per rinnovare le loro amministrazioni: secondo
Ipsos, il 64% degli italiani attribuisce a queste elezioni una valenza nazionale. Ma il 2016
sarà soprattutto l’anno del referendum sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi. A meno
di improbabili imboscate in occasione delle ultime letture parlamentari, entro la primavera
la riforma diventerà legge e il governo ha indicato il 2 ottobre come possibile data del
referendum confermativo.
Malgrado solo il 7% degli elettori giudichi le riforme istituzionali una priorità per il Paese
(secondo l’istituto Ixè), il premier ha legato il destino del suo governo all’esito della
consultazione, annunciando le sue dimissioni nel caso in cui la riforma venisse bocciata
nelle urne. A molti è sembrato un azzardo: conviene a Renzi trasformare il referendum in
un voto pro o contro di sé? Per tutto il 2015 la fiducia nel premier si è mantenuta sotto il
40%, e anche nell’ultimo mese si è attestata in media al 34%. Il politologo Piero Ignazi ha
recentemente sottolineato il carattere di “contropotere” dell’istituto referendario nella storia
politica italiana. In effetti, i precedenti storici più eclatanti (divorzio, preferenza unica,
finanziamento ai partiti, nucleare) hanno visto la vittoria della posizione opposta a quella
del governo. Polarizzando lo scontro sulla sua figura, Renzi rischierebbe di coalizzare
contro di sé un vasto fronte di oppositori (dalla Sinistra alla Lega, passando per il M5s) che
in un referendum potrebbero sconfiggerlo, unendo le forze nella battaglia per il “No”, cosa
che in una normale elezione non avverrebbe.
Le cose, però, sono un po’ più complesse. Intanto, i precedenti che riguardano referendum
costituzionali (2001 e 2006) restituiscono un’immagine diversa da quella dei referendum
abrogativi appena citati. Nel 2001, all’indomani della netta vittoria di Berlusconi alle
politiche, i cittadini confermarono in modo netto la riforma del Titolo V approvata dal
centrosinistra sul finire della precedente legislatura. Nel 2006, invece, la revisione
costituzionale approvata dal centrodestra fu altrettanto platealmente bocciata.
In entrambi i casi si trattava di riforme approvate da una sola parte politica. Ma nel 2001 la
riforma del centrosinistra che dava più poteri alle Regioni godeva di consensi più
trasversali, si pensi alla vocazione federalista della Lega. Nel secondo caso la modifica,
approvata senza un confronto con l’opposizione, incontrò una fortissima resistenza.
Diventano determinanti, quindi, i contenuti della riforma: sarebbe ingenuo pensare che
Renzi possa impostare la campagna per il “Sì” sulla base dell’operato del suo governo.
Molto più probabile che metta l’accento su quegli aspetti del ddl Boschi che incontrano un
consenso più trasversale: il taglio dei senatori, l’abrogazione degli enti inutili, la riduzione
degli stipendi dei consiglieri regionali. Sono tutti argomenti su cui la riforma può incontrare
un consenso più ampio rispetto a quello di cui godono il Pd e il suo segretario-premier.
A confermare questa teoria troviamo un sondaggio del Cise (novembre) per il quale i “Sì”
sarebbero in testa con il 68%. Ma ancor più sorprendenti sono i dati relativi agli elettorati
dei vari partiti: non tanto l’88% di favorevoli tra gli elettori del Pd, quanto il 75% tra gli
30
elettori di Forza Italia, il 55% tra i leghisti e il 48% tra quelli del M5s. Solo tra gli elettori di
sinistra i contrari sarebbero in netta maggioranza (il 66% contro il 34% di favorevoli). Va
detto che questi dati scontano la lontananza dal voto, ed è impossibile sapere come si
orienteranno quegli elettori di centrodestra e del M5s che al momento si dichiarano
indecisi o non propensi a votare: in entrambi gli elettorati tale gruppo è di gran lunga il più
consistente.
Un quadro simile è confermato da un sondaggio Ipr di gennaio, in cui i “Sì” si affermano
con il 57%. Possiamo ipotizzare che la mobilitazione della campagna referendaria tenderà
ad “avvicinare” le preferenze dei vari elettorati con quella del partito di riferimento. Questo
potrebbe suonare come un campanello d’allarme per Palazzo Chigi, visto che nella media
dei sondaggi di questo mese la somma di M5s, Lega e sinistra raggiunge il 47,4%, a fronte
di un 34,7% dell’area di governo. Del resto, i sondaggi Cise e Ipr ci mostrano che fra 26 e
30 milioni di italiani oggi non voterebbero o sono indecisi: il che introduce un’altra
incognita, quella dell’affluenza. Per i referendum confermativi non è previsto il quorum del
50%: ma, trattandosi di un referendum di grande importanza, sarebbe clamoroso se i
votanti non si dovessero recare alle urne in gran numero. Una bassa affluenza sarebbe
una sconfitta per tutti, promotori e oppositori della riforma, a prescindere dal risultato.
Anche questo dà un’idea di quanto sarà agguerrita la campagna elettorale che ci aspetta.
* You Trend
del 12/01/15, pag. 9
L’asticella del premier: alle urne a ottobre più
del 50% degli italiani
Nei comitati dei sì conta di trovare la futura classe dirigente
ROMA «In due anni abbiamo rimesso in moto la politica»: Matteo Renzi festeggia il suo
compleanno con l’approvazione della riforma costituzionale alla Camera. Una legge alla
quale tiene in modo particolare: «Senza, salta tutto», è il suo ritornello. Salterebbe anche,
per intendersi, quella flessibilità che l’Italia sta chiedendo all’Europa.
«Stiamo ottenendo dei risultati straordinari», sostiene il premier, gasatissimo per come è
andata a Montecitorio. E ora il presidente del Consiglio è convinto (facendo ovviamente
tutti gli scongiuri del caso) che le prossime tappe parlamentari non siano un problema: «I
numeri sono dalla nostra».
Il ruolino di marcia è quello che si è dato ormai qualche mese fa: «Lettura definitiva della
riforma costituzionale al Senato entro gennaio, lettura definitiva a Montecitorio entro aprile,
16 ottobre il referendum, elezioni politiche a febbraio del 2018».
È da tempo che il presidente del Consiglio ha studiato questo piano, ed è da tempo che ha
deciso di giocarsi il tutto per tutto al referendum confermativo. «Ma quale plebiscito —
spiega ai collaboratori — è ovvio che una revisione della Costituzione così significativa
come quella che abbiamo fatto debba essere votata dagli italiani. Eppoi io sto al governo
se questo può servire a cambiare il nostro Paese, cosa che stiamo cercando di fare, ma
se non ci si riesce per me sarebbe difficile andare avanti. Nessuno mi ha ordinato di stare
qui».
Dunque, Renzi è intenzionato ad andare avanti sulla strada della sfida referendaria. «È
quello che mi interessa veramente, è quello l’obiettivo su cui punto tutto», spiega ai
fedelissimi. Perciò non deve stupire se ha deciso di mettere in gioco persino la sua
permanenza a Palazzo Chigi. Alcuni nel Pd lo hanno sconsigliato di intraprendere questa
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via «a senso unico», ma il presidente del Consiglio è convinto che così i riflettori si
accenderanno sull’appuntamento di ottobre.
Già, perché è vero che il referendum confermativo è un referendum che non deve avere
un quorum per essere valido, ma è anche vero che se andasse a votare poca gente, pure
se vincessero i «sì», quella di Renzi non potrebbe definirsi una vittoria piena.
Per questa ragione il premier, che difficilmente lascia qualcosa al caso, benché sia poi
sempre pronto a cambiare strategia in corsa, mira a raggiungere un obiettivo ben preciso
con questa iniziativa referendaria. Ossia quello di superare la soglia del 50 per cento dei
votanti. Per intendersi, quella soglia che sarebbe indispensabile se si trattasse di un
referendum abrogativo. E c’è da dire che i suoi oppositori a sinistra, che stanno già
organizzando i «Comitati per il No», gli stanno dando una mano in questo suo intento,
perché contribuiscono a rendere lo scontro referendario uno scontro vero, e questo,
inevitabilmente, attirerà più gente al voto. La preoccupazione iniziale del premier, infatti,
era quella che della scarsa voglia degli italiani di recarsi alle urne anche in ottobre, dopo
aver partecipato al voto amministrativo di giugno.
Ora questo timore sembra essere scomparso. Né, del resto, Renzi teme che dentro il
partito gli facciano uno sgambetto al referendum. Più facile, secondo l’inquilino di Palazzo
Chigi, che questo avvenga alle amministrative: «Quella sarà una partita in salita nella
quale avremo contro tutti».
Il referendum sarà quindi uno spartiacque per il Pd che verrà e per il Paese che Renzi si
immagina. Sarà nei «Comitati per il Sì» che il presidente del Consiglio individuerà la nuova
classe dirigente del domani, nonché i cento capilista che scenderanno in campo nelle
elezioni politiche del febbraio 2018. E sarà in quei comitati, aperti a tutti, non solo agli
esponenti del Pd, che si prefigurerà il nuovo partito immaginato da Renzi. Non il partito
della Nazione, dice lui, ma «il partito della Ragione».
del 12/01/16, pag. 6
La campagna di Matteo “Faremo come
Obama battaglia casa per casa”
GOFFREDO DE MARCHIS
IL RETROSCENA
ROMA.
È davvero la madre di tutte le battaglie se Renzi sta già studiando i piani per il referendum
evocando la prima vincente campagna di Barack Obama del 2008, molto social e al tempo
stesso molto antica, secondo il metodo della caccia al voto casa per casa. «Il lancio sarà
dopo l’approvazione finale», dice il premier ai suoi collaboratori. Ma la preparazione è già
cominciata. E non solo perché il comitato del no è partito ieri.
La mossa delle opposizioni viene letta in una chiave tutta politica. Aggregare un fronte
anti- Renzi che prescinde dalla misure contenute nella riforma costituzionale votata di
nuovo ieri. Certo, anche il segretario del Pd intende la sfida referendaria come una partita
politica, giocata su se stesso, sulle dimissioni in caso di sconfitta, un antipasto della
campagna elettorale che verrà. La ricerca di “un plebiscito”, hanno sentenziato i suoi
avversari. Renzi sarà protagonista assoluto, non ci sono dubbi: «Girerò un sacco,
dappertutto», annuncia al suo staff. Il vero obiettivo però è stimolare un movimento dal
basso, una condivisione del lavoro del governo con i cittadini che in parte coinciderà con la
tornata delle comunali di giugno. L’approvazione definitiva è prevista intorno all’11 aprile .
32
«Poi lavoreremo da maggio a ottobre pancia a terra. Sarà un’esplosione di partecipazione
e mobilitazione », garantisce il premier. Verrà attivato il Pd, il suo gruppo dirigente, si
cercheranno testimonial della società civile come è sempre avvenuto alla Leopolda. Ma
non solo. «Andremo casa per casa a raccontare l’Italia del sì», spiega ancora il premier.
Perché il referendum diventi il paradigma del renzismo, del “si può fare”, dell’ottimismo che
è una componente, come ricorda sempre Renzi, per far tornare l’Italia nel giro dei grandi
del mondo. Eppoi ovviamente ci sarà l’Italia dell’innovazione contro l’Italia della
conservazione. «L’Italia di chi dice sì, di chi non cerca sempre di bloccare tutto».
Spiegare, spiegare, spiegare. Questo è l’indirizzo che verrà affidato ai comitati favorevoli.
«Il modello sarà quello delle mille Leopolde», insiste il premier approfondendo un concetto
che aveva già espresso all’ultimo appuntamento fiorentino. «Lo voglio basare molto
sull’attivismo dei giovani, sui comitati che nascono nei territori». E quell’idea della
campagna porta a porta che fu uno dei segreti del successo del giovane senatore
dell’Illinois nell’America del 2008. Giocarsi tutto, proprio come fece Obama invece di
lasciare il passo e rinviare la sfida. Così a Palazzo Chigi immaginano la campagna
referendaria.
Renzi, dicono, ha già in testa dei nomi, sia per il comitato nazionale, sia per i comitati
locali. Forse li distillerà nel corso dei prossimi mesi, anche prima del via libera definitivo se
dovesse registrare un’avanzata del no nei sondaggi. I renziani tuttavia osservano che
anche per una “questione di stile” non è corretto anticipare i tempi come fanno quelli del
no. «Vederli tutti insieme, dai 5stelle a Brunetta fa un po’ sorridere. Del resto, li capisco,
loro hanno anche altri obiettivi ».
Resta da capire quanto inciderà la sinistra, sia quella fuori dal Pd sia quella dentro. Per
non avere sorprese da quel campo, il premier confida parecchio nel successo delle unioni
civili che secondo lui saranno portate a casa senza pasticci e con l’adozione per i figli del
partner, ovvero con la stepchild adoption. Questo forse non convincerà i dirigenti del
comitato del no, ma può fare breccia nel popolo della sinistra. Non basterà, certo. Già alla
direzione del 22 il segretario sonderà gli umori della minoranza sul sì. Le premesse di una
collaborazione piena non sono buonissime se si sta alle ultime dichiarazione di Pier Luigi
Bersani che ha messo in guardia dal trasformare quel voto in un referendum sul capo del
governo. «Per noi è fondamentale che Renzi non faccia di quel momento una resa dei
conti sulla sua persona – dice il senatore bersaniano Federico Fornaro -. Sarebbe un
azzardo pericoloso». Ma a sentire Fornaro non mancherà la mobilitazione della sinistra
interna: “ Va fatta una campagna bella e a tappeto. Spiegare alla gente il contenuto della
riforma è comunque doveroso e utile davvero”.
del 12/01/16, pag. 9
Il dossier
I componenti di palazzo Madama saranno eletti tra i consiglieri regionali
e i sindaci. A ottobre il referendum confermativo
Bicameralismo perfetto addio solo la Camera
vota la fiducia
SILVIO BUZZANCA
ROMA.
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La Camera approva la riforma costituzionale nella versione votata ad ottobre da Senato e
chiude la prima fase del procedimento di revisione previsto dall’articolo 138 della Carta.
Un lavoro lungo e complicato che adesso dovrà passare nuovamente al vaglio di Palazzo
Madama e Montecitorio. I senatori, essendo passati tre mesi dalla loro approvazione,
potranno mettersi subito al lavoro per la seconda lettura: il testo si approva o si boccia in
blocco. La Camera per il sì definitivo dovrà attendere il 12 aprile. Poi, visto che non si è
raggiunto il quorum dei due terzi la parola potrebbe passare agli elettori: cittadini,
parlamentari, regioni, hanno 3 mesi di tempo per chiedere il referendum confermativo, da
tenersi verosimilmente in ottobre.
FINE DEL BICAMERALISMO PERFETTO
L’architrave dell’intero provvedimento è il superamento del bicameralismo perfetto. Si
passa infatti ad un bicameralismo differenziato: il Parlamento sarà sempre composto da
Camera e Senato, ma Montecitorio e Palazzo Madama avranno una composizione diversa
e compiti molto differenti.
RIDUZIONE DEI SENATORI
Il nuovo Senato, che continuerà a chiamarsi Senato della Repubblica, ospiterà 95 membri
eletti dai Consigli regionali: 74 consiglieri regionali e 21 sindaci, uno per ogni regione. Del
Senato faranno parte ancora gli ex presidenti della Repubblica, mentre il capo dello Stato
potrà eleggere 5 senatori che resteranno in carica per 7 anni. Il faticoso compromesso
raggiunto al Senato su come eleggere i senatori prevede che i nuovi senatori dovranno
essere nominati in conformità alle indicazioni espresse dagli elettori. Rimane immutata
l’immunità.
LA CAMERA E IL RAPPORTO FIDUCIARIO
La Camera dei deputati conserva gli attuali 630 membri, ma conquista l’esclusività del
rapporto di fiducia con il governo. Questo vuol dire che Montecitorio avrà la preminenza
legislativa. Ma su alcuni temi il Senato avrà un ruolo concorrente.
I COMPITI DEL SENATO
Il Senato avrà un compito di raccordo con gli altri enti della Repubblica, con la Ue
e poteri di valutazione delle politiche pubbliche.
IL PROCEDIMENTO LEGISLATIVO
La nuova Costituzione prevede un procedimento legislativo monocamerale, uno
bicamerale e uno monocamerale rinforzato quando si applica la clausola di supremazia.
L’articolo 70 prevede un lungo elenco di leggi bicamerali fra cui quelle di revisione
costituzionali o quelle riguardanti i referendum. Palazzo Madama avrà anche il potere di
esaminare la legge di Stabilità e proporre modifiche. I senatori potranno anche chiedere di
esaminare altre leggi, ma la parola finale spetterà sempre alla Camera.
LEGGI POPOLARI E REFERENDUM
Per presentare una proposta di legge popolare serviranno 150 mila firme, ma si prevedono
tempi certi per l’esame. Per un referendum abrogativo serviranno 800 mila firme e il
quorum sarà fissato al 51 per cento dei votanti delle ultime politiche. Se le firme saranno
fra 500 e 800 mila resta il quorum del 51 per cento.
ELEZIONE DEL CAPO DELLO STATO
Il presidente della Repubblica sarà eletto con i due terzi di senatori e deputati nei primi tre
scrutini e con i tre quinti dal quarto scrutinio. Dal settimo si passa ad un quorum dei tre
quinti dei votanti.
LEGGI ELETTORALI ALLA CONSULTA
Un terzo dei senatori o un quarto dei deputati potranno chiedere alla Consulta un giudizio
preventivo sulle future leggi elettorali.
IL TITOLO V
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Si riscrive l’elenco delle materie riportandone molte alla competenza statale e si eliminano
le materie concorrenti. Si cancellano le province dal testo costituzionale
del 12/01/16, pag. 1/3
Una stagione per la democrazia
Massimo Villone
Il comitato per il no alla riforma costituzionale Renzi-Boschi ha dato il via alla propria
campagna nel giorno in cui il voto della Camera ha concluso la prima deliberazione ex art.
138. Una assemblea molto affollata, tanto da costringere gli organizzatori a cercare una
sala più grande. E ai piani alti del Pd qualcuno ha mugugnato contro la Boldrini, colpevole
di aver autorizzato l’uso della sala nelle stesse ore in cui l’Aula votava. Evidentemente, un
sassolino nella strategia comunicativa del capo. Saranno pure i cittadini a decidere sulla
riforma. Ma evitiamo che discutano o pensino troppo, prima di votare. Potrebbero
confondersi.
Il referendum sulla riforma è ormai certo, perché la maggioranza rimane lontana dai due
terzi dei componenti sia alla Camera che al Senato. Solo per chiarezza, sarà utile ribadire
che il referendum è strumento dato dalla Costituzione a chi si oppone alla riforma, e non a
chi la approva. Quindi la trasformazione in un plebiscito sullo stesso Renzi è l’ennesima
forzatura cui assistiamo.
«Se perdo vado a casa» è minacciare la crisi. Renzi vuole sequestrare domani la libertà di
voto degli italiani come ha sequestrato ieri la libertà di voto dei parlamentari. E il primo
obiettivo di chi si oppone alla riforma deve appunto essere ridare agli italiani la libertà di
voto. Come? Anzitutto con la richiesta di referendum da parte dei parlamentari di
opposizione (almeno 126 deputati). Ma ancor più facendo partire una stagione di
referendum abrogativi contro le leggi di Renzi, dalla scuola al Jobs Act, all’Italicum. La
migliore risposta alle pulsioni plebiscitarie del leader viene da centinaia di migliaia di firme
su quesiti abrogativi delle sue leggi.
Tra queste, l’Italicum merita una menzione particolare. Non solo per l’incostituzionalità che
con certezza deriva dalla inosservanza dei principi posti dalla Corte costituzionale nella
sentenza 1/2014, quanto alla rappresentatività delle assemblee elettive ed alla libertà di
voto. Ma ancor più perché in sinergia con la riforma costituzionale determina un favor per
governi a vocazione minoritaria.
Governi fondati su una ridotta base di consensi reali perché espressione di una forza
politica minoritaria cui solo gli artifici del sistema elettorale consegnano i numeri posticci di
una maggioranza parlamentare priva di qualsiasi contatto con la realtà.
E quei numeri posticci consegnano le chiavi di un potere non più limitato da un efficace
sistema di checks and balances. Questo esito viene dal combinato disposto di premio di
maggioranza e ballottaggio senza soglia, con il mantenimento di quorum per gli organi di
garanzia che perdono sostanzialmente di significato.
Si indebolisce la stessa rigidità della Costituzione, visto che alla forza politica minoritaria si
garantisce nella camera politica una maggioranza ampiamente sufficiente per la revisione.
Rispetto alla forza politica vincente, quale che sia il consenso ricevuto, perdono
largamente di significato le garanzie della rigidità di cui all’art. 138. Con una maggioranza
garantita alla Camera e una manciata di senatori sindaci e consiglieri regionali si dispone
della Costituzione.
Il punto grave è che il governo a vocazione minoritaria non viene da un fortuito ed
eccezionale concorso di circostanze, che potrebbero occasionalmente verificarsi in
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qualunque contesto di sistema elettorale o modello costituzionale. Il favor per il governo a
vocazione minoritaria si mostra invece come elemento strutturale del modello messo in
campo, e come esito normale e consapevolmente voluto dal costituente di oggi, per
l’obiettivo — dichiarato — di avere un vincitore certo la sera del voto. Questo perché si
traducono acriticamente i luoghi comuni del bipolarismo maggioritario in un sistema che
bipolare più non è. I passatisti veri, che non capiscono il nuovo, sono a Palazzo Chigi,
Non c’è modo di ricondurre tutto questo a una qualsivoglia forma di continuità con la
Costituzione repubblicana. Nessuno in Assemblea Costituente avrebbe mai pensato che
la filosofia della governance repubblicana fosse consegnare le chiavi del potere a una
forza politica di minoranza. Si assumeva come punto di partenza indispensabile per
governare che ci fosse un consenso reale nel paese. Per questo era previsto che la cd
legge truffa trovasse applicazione solo con il conseguimento di una maggioranza assoluta
di voti, in un tempo che vedeva la partecipazione degli elettori superare il 90%.
Oggi, è la stessa Costituzione a uscirne indebolita. E la patologia diventa normalità,
regola.
Ci aspettano tempi difficili. Dalla crisi economica ai nuovi rapporti di forza tra nord e sud
del mondo, al terrorismo endemico, alla difficile convivenza tra etnie e culture assai
diverse imposta da migrazioni di interi popoli. Saranno tempi non meno difficili degli anni
della ricostruzione post-bellica. Pensare di affrontarli riducendo il potere in poche mani è
illusorio. È politicamente sciocco, oltre che in piena rottura con la Costituzione vigente.
Bisogna capovolgere questo impianto che può solo fare danno al paese. A questo serve la
stagione referendaria di partecipazione democratica di massa che andiamo ad aprire.
del 12/01/16, pag. 2
I carabinieri in Comune a Quarto
La sindaca M5S rischia l’espulsione
Perquisita anche la casa della prima cittadina, i pm cercano le tracce
delle intimidazioni: è stata poco lineare
DALLA NOSTRA INVIATA
NAPOLI L’irruzione all’alba con i carabinieri che perquisiscono la casa e l’ufficio del
sindaco di Quarto Rosa Capuozzo del Movimento 5 Stelle fa ben comprendere come
l’inchiesta sulle infiltrazioni camorristiche in Comune — condotta dal procuratore aggiunto
Giuseppe Borrelli e dal sostituto Henry John Woodcock — possa ancora riservare
clamorose novità. Del resto è proprio quanto scritto nel provvedimento che ordina il
sequestro di materiale anche nell’abitazione e «in tutti i luoghi di pertinenza» del
capogruppo Alessandro Nicolais a far comprendere come la posizione della donna non sia
stata affatto definita. Lei continua a «resistere». Rifiuta di dimettersi nonostante il rischio di
essere espulsa dal Movimento e la possibilità di finire nel registro degli indagati proprio per
non aver denunciato le «pressioni e le minacce ricevute da De Robbio». Il decreto
specifica come «nel primo interrogatorio del 24 novembre 2015 Capuozzo non ha
denunciato i gravi episodi dei quali ha invece parlato al telefono il giorno precedente con la
consigliera Concetta Aprile (a lei aveva svelato le minacce e poi parlato delle lotte interne
ndr )». Ed evidenzia che «nel corso delle conversazioni intercettate si fa riferimento a
registrazioni di colloqui che sarebbero state effettuate non solo da De Robbio ma anche
da Nicolais». Ed ecco l’obiettivo: «La perquisizione appare indispensabile ai fini della più
completa ricostruzione delle condotte delittuose e della complessiva vicenda e tale
36
ulteriore attività va indirizzata e concentrata sullo stesso sindaco, allo stato non è indagata
ma anzi persona offesa per la tentata estorsione, ha tuttavia una condotta poco lineare e
sicuramente da approfondire».
Ieri Raffaele Cantone ha specificato che per l’appalto della rete fognaria «il Comune ha
agito correttamente». Un attestato di stima che potrebbe non bastare.
F. Sar.
del 12/01/16, pag. 2
I 5Stelle sapevano del ricatto “Ora zitti o
saremo travolti” Ma prima il clan cercò il Pd
DARIO DEL PORTO
CONCHITA SANNINO
NAPOLI.
«Io questa cosa la vedo enorme. Questa cosa ci cade addosso e ci distrugge». Il sindaco
Rosa Capuozzo ascolta e chiosa: «Sì, questa cosa è enorme».
Sono parole profetiche quelle che emergono dagli ultimi atti dell’inchiesta sul voto di
scambio e i ricatti tra i pentastellati a Quarto, epicentro del terremoto politico- giudiziario
dei 5 Stelle. Altre 150 pagine depositate dal pm Henry John Woodcock con i procuratori
aggiunti Filippo Beatrice e Giuseppe Borrelli. Carte da cui affiorano clamorose circostanze.
Primo: il Movimento nazionale era pienamente consapevole, già dal 25 novembre, del
ricatto esercitato sul sindaco dal consigliere Giovanni De Robbio e dell’inchiesta antimafia,
e pensava di risolverla col «silenzio», in attesa delle istruzioni dai big. Secondo: gli
imprenditori vicini al clan che votavano per De Robbio e grillini, inizialmente, dovevano
sostenere il consigliere uscente Pd Mario Ferro (nonostante il candidato sindaco democrat
fosse invece un giovane del fronte antimafia, Francesco Dinacci). Ma le liste Pd, come
noto, furono poi escluse per vizi di forma. Terzo: a Quarto i grillini si registravano a
vicenda, e nelle perquisizioni di ieri si cercano i file segreti dei veleni.
“PORTAVAMO IL PD FERRO”
Il figlio dell’imprenditore indagato Alfonso Cesarano, Giacomo, parla col suo dipendente
Biagio. Dice Cesarano jr: «Noi ci siamo messi con chi vince, capito, quella è stata la cosa
importante… ormai è rotto il giocattolo, noi dovevamo votare a Mario (Ferro, ndr), ma
Mario non c’è».
B.: «Ferro sta con i 5stelle?» G.: «No, Ferro stava con il Pd, però...questo De Robbio noi
abbiamo fatto l’accordo con lui, ‘e capito? Ci siamo seduti al tavolo, papà (Cesarano, ndr),
Mario Ferro, De Robbio e hanno parlato, hanno concordato, gli abbiamo detto che gli
avremmo dato una mano hai capito?»
“LA COSA CI TRAVOLGE ”
Nella conversazione del 15 dicembre, il sindaco Capuozzo e il consigliere comunale
Daniela Monfrecola discuotono dei contraccolpi del caso De Robbio. Dice la Capuozzo:
«Questa cosa si deve gestire mediaticamente, in un certo modo.
Ma non sono in grado.
Verranno, ci spiegheranno come la dobbiamo gestire. Ovviamente, finché non arrivano...
cercare di rimanere il più in silenzio possibile, senza mettere i manifesti».
Monfrecola: «Digli a Fico (il deputato Roberto Fico, ndr) di non arrivare tra una settimana,
perché noi tra una settimana non ci arriviamo, lui deve arrivare subito, per darci
indicazioni».
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Capuozzo: «Sì, spero che venga anche Luigi (Di Maio, vicepresidente della Camera, ndr),
che è molto più duro».
M.: «Questa cosa è enorme, ci cade addosso, ci distrugge».
“ROSA, CHI TI PROTEGGE?”
In un’altra telefonata di metà dicembre, il sindaco parla con il suo capogruppo, Alessandro
Nicolais. I carabinieri annotano che lei «piange dalla disperazione ».
Capuozzo: «Io posso reggere qualsiasi cosa, ma non finire in galera per colpa di qualcun
altro... ».
Nicolais: «Addirittura? Cosa succede?».
C.: «È inaccettabile, o prendiamo una posizione interna o non riesco a reggere... non esce
fuori l’avviso di garanzia (riferito a de Robbio, ndr), lui è un uomo della capitaneria di
porto.. ma cosa devo aspettare io? Cosa devo discutere?».
N.: «Ma io non lo so.. Quello mi ha risposto Roberto Fico e mi ha scritto “Andate avanti
tranquilli, quanto prima verrò”». Poco dopo, Nicolais chiede al sindaco: «Ma a te chi ti
protegge?». Lei: «Nessuno». «Ma tu hai detto che stai parlando con quelli di Roma». E il
sindaco: «Sì, ma non ho consiglieri dietro. Dove vado? ».
“STAFF NAZIONALE? CHIAVICA”
Nella stessa conversazione, Capuozzo e Nicolais lamentano la lentezza dello staff
nazionale sulla bomba- De Robbio.
N:« Tu in quel periodo non hai cavalcato l’onda che ci permetteva di liberarci di De
Robbio».
C: «Non è vero...Ho chiamato per chiedere cosa stava succedendo, s ec’erano
sviluppi...Non s isono mossi loro».
N. : «E allora sono una chiavica pure loro (Nicolais - annotano i carabinieri - si sta
riferendo allo staff nazionale M5s). .. perché se scrivono quali sono i requisiti per essere
pate del Movimento e lui li ha disattesi, andava fatto fuori».
“NOI CI UCCIDIAMO”
Il sindaco viene sentita già il 25 novembre dai carabinieri senza fare cenno a pressioni o
ricatti. Eppure, il giorno prima, al suo consigliere grillino Concetta Aprile, confida
(riferendosi a De Robbio): «Loro non mi vogliono far cadere, mi vogliono controllare... Sai
cosa mi disse De Robbio? Tu non devi scalciare, tu devi stare buona». E ancora: «Lui (si
riferisce al consigliere De Robbio,
ndr) la disse una parola: “Noi se non la finiamo , va a finire che ci uccidiamo”. E io gli dissi:
“Tu mi uccidi a me, ma io vado per la mia strada, non mi fermo».
del 12/01/15, pag. 4
Pizzarotti non è stato più appoggiato dal Movimento quando ha messo
in discussione il tandem Grillo-Casaleggio. Guai anche a Livorno,
Ragusa e Gela
Da Parma a Gela ecco tutti i flop nei comuni
guidati dai pentastellati
SEBASTIANO MESSINA
ROMA.
Era più bella di una favola, la storia dei cittadini “a cinque stelle” che armati solo della loro
onestà combattevano a mani nude la Casta – anzi, la Kasta – orda famelica di politici
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cinici, avidi e senza scrupoli, tutti uguali da destra a sinistra, ladri mafiosi e corrotti
destinati a essere spazzati via dall’arrivo dei libertadores pentastellati guidati
dall’invincibile cavaliere bianco, Beppe Grillo da Sant’Ilario. Poi i grillini hanno cominciato a
vincere le elezioni comunali. Si sono seduti su qualche poltrona. Hanno assaporato il
potere. E soprattutto sono dovuti uscire dalla favola per fare i conti con il mondo reale.
Che non è solo quello di Quarto, dove l’ombra della camorra ha sporcato irrimediabilmente
l’abito candido di Rosa Capuozzo, sindaca “a cinque stelle”.
No, è dura realtà anche Parma, teatro dell’amara parabola del sindaco di Parma, Federico
Pizzarotti, che appena eletto veniva presentato da Grillo come campione mondiale
dell’amministrazione onesta e risparmiosa. Ma poi, quando ha osato mettere in
discussione la diarchia assoluta Grillo-Casaleggio, improvvisamente è diventato “Capitan
Pizza”, un personaggio da offrire al tiro al bersaglio del blog padronale, e come se avesse
l’Ebola non è stato più invitato a salire sul palco ai raduni, tenuto in quarantena
permanente come un soldato tornato un po’ strano dopo una missione segreta in territorio
nemico. E solo perché governa una grande città ex rossa non ha fatto la fine di un altro
sindaco “a cinque stelle”, Marco Fabbri, di Comacchio, espulso su due piedi perché aveva
osato infrangere la disciplina di partito per candidarsi – ed essere eletto – al Consiglio
provinciale.
Ancora più aspra si è rivelata la realtà di Gela, quel comune orgogliosamente strappato al
Pd e al governatore Crocetta, dove è subito scoppiata una faida tra il meetup grillino e il
sindaco Messinese, messo sotto accusa per aver fatto assumere dal Comune - come
“istruttrice amministrativa” – la sua assistente personale e alla fine cacciato dal Movimento
con decreto di re Beppe perché non si è tagliato l’indennità.
Ora, un sindaco invitato a dimettersi, due espulsi e uno messo nel congelatore non sono
tanti, su 8 mila comuni: appena il 2 per mille. Ma nel piccolo universo dei primi cittadini
targati M5S - che in tutto sono 16 – questi flop della favola grillina rappresentano un quarto
della narrazione. Il 25 per cento. Rimane, certo un altro 75 per cento. Ma anche lì, a poco
a poco, la purezza del Non-Statuto ha dovuto fare i conti con le debolezze degli uomini (e
delle donne).
E con lo sterco del diavolo: il denaro. Perché mentre a Roma la brigata dei parlamentari
cinquestelle sventolava l’assegno dei soldi restituiti, in periferia i tagli si sono rivelati più
difficili. E non solo a Gela, ma anche a Ragusa, dove la giunta del sindaco “a cinque
stelle” Federico Piccitto dopo essersi decurtato il compenso se lo è aumentato, unico
Comune siciliano, e con effetto retroattivo, «per aggiornarlo agli indici Istat». E a Livorno la
giunta ha deciso – per la prima volta nella storia della città – di stanziare 38 mila euro
l’anno per rimborsare agli amministratori le spese “per il raggiungimento della sede”, a
cominciare naturalmente dal sindaco Filippo Nogarin che non abita in città ma a
Rosignano Marittimo (distante 29 chilometri).
Poi ci sono gli amici, i parenti e i compagni di partito (pardon: di meetup). Dopo aver
denunciato scandalizzati – e giustamente – le parentopoli d’Italia, i grillini hanno scoperto
che è assai difficile non peccare. A Bagheria la giunta del sindaco “a cinque stelle” Patrizio
Cinque ha dato un incarico professionale al cognato di un assessore, mentre la sorella
dell’ex capogruppo è stata assunta dalla coop che ha vinto l’appalto per gli asili nido. E ad
Augusta la sindaca “a cinque stelle” Maria Concetta Di Pietro ha affidato l’incarico di
consulente ambientale a un ingegnere siracusano che, guarda caso, si era candidato –
senza essere eletto con il suo partito. Eppure erano stati proprio loro, i grillini, a dire che la
politica non doveva offrire premi di consolazione, e dunque mai un trombato avrebbe
dovuto avere un incarico.
E’ vero, in politica si dicono tante cose, e magari poi si cambia idea. Equitalia è sempre
stata uno dei bersagli preferiti di Grillo, che voleva addirittura abolirla per legge, ma
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quando il sindaco “a cinque stelle” di Assemini, Marco Puddu, ha dovuto assegnare
l’incarico di riscuotere i crediti del Comune, indovinate quale società ha scelto? Esatto,
proprio Equitalia.
Anche le trivellazioni erano, per i pentastellati siciliani, «un regalo ai petrolieri» da impedire
con ogni mezzo, ma quando l’Eni ha chiesto al Comune di Ragusa la licenza per trivellare
nel suo territorio, il sindaco “a cinque stelle” Piccitto ha allargato le braccia, ha pensato agli
80 milioni che sarebbero arrivati nelle disastrate casse del municipio e alla fine ha
sospirato il suo «sì».
Le cose cambiano. Anche in Sardegna. Ricordate le manifestazioni dei grillini contro il
Muos degli americani a Niscemi, che metterebbe in pericolo la salute dei siciliani? Gli
abitanti di Porto Torres si aspettavano la stessa risposta, di fronte alla richiesta di
sperimentare proprio lì davanti i razzi Vega, quelli che portano le sonde nello spazio. «Ci
saranno elevatissime concetrazioni di polveri sottili, per non parlare del rischio esplosioni»
avevano avvertito gli esperti. Ma il sindaco “a cinque stelle” Sean Wheeler, detto
“l’americano”, ha dato il suo ok: «Quei razzi non sono particolarmente nocivi ». A volte,
basta passare dall’altro lato del tavolo per vedere le cose in un altro modo.
del 12/01/16, pag. 15
IL CASO/ GHIGO E VIETTI PER IL SINDACO
Torino, gli ex del centrodestra per Fassino
DIEGO LONGHIN
TORINO.
A Torino si provano nuove alleanze per rimescolare centrosinistra e centrodestra e testare
quello che viene già ribattezzato come il prototipo del partito della Nazione. «Fassino ha
lavorato bene, il centrodestra è in alto mare e i grillini non hanno una cultura
amministrativa. Bisogna pensare fin dal primo turno al bene di Torino», dice l’ex
governatore del Piemonte Enzo Ghigo, tra i leader storici di Forza Italia poi transitato per
un breve periodo in Ncd.
Le parole dell’ex presidente, che è stato anche coordinatore regionale del Pdl, non
rappresentano solo un endorsement nei confronti del sindaco uscente Piero Fassino e un
richiamo a schierarsi subito, fin dal primo turno, per evitare il rischio ballottaggio con la
giovane candidata del Movimento 5 Stelle Chiara Appendino.
Dietro c’è una strategia più ampia, condivisa anche dall’ex vicepresidente del Csm ed ex
Udc Michele Vietti, altro regista dell’operazione insieme al viceministro alla Giustizia del
governo Renzi, il cuneese Enrico Costa, che è anche coordinatore regionale di Ncd, con la
benedizione del numero uno del partito Angelino Alfano. Per ora a Torino e in Piemonte i
simboli dei partiti restano fuori dalla partita: si muoveranno singoli rappresentanti di mondi,
come Ghigo e Vietti, oppure chi fa politica attiva, come uno dei consiglieri uscenti del
Comune, Sil- vio Magliano, vicino al mondo di Comunione e Liberazione e Compagnia
delle Opere. Anche lui ex Forza Italia, ex Pdl, ora Ncd, pronto a entrare nei Moderati.
Piuttosto di creare una lista da zero, chi passerà dal centrodestra al nuovo centrosinistra
torinese, che ha già perso per strada Sel e i gruppi più “estremisti”, sfrutterà un movimento
già rodato come i Moderati, partito torinese fondato nel 2005 da Giacomo Portas, anche lui
ex centrodestra ma eletto in Parlamento nelle fila del Pd da due legislature. Ormai da
undici anni fedele alleato dei Democratici. Gli interessati, a partire da Portas, dividono il
piano locale da quello nazionale, ma è chiaro che quello torinese è un banco di prova
importante. La sinistra Pd con il senatore Andrea Giorgis lamenta «un’assenza di
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discussione su quelli che pare un cambio di profilo politico» e il candidato sindaco di Sel,
Giorgio Airaudo, dice che «non si tratta di un laboratorio, ma di un test elettorale di quelli
che sono già equilibri nazionali».
del 12/01/16, pag. V (Roma)
Corsa ai Giochi low cost “Solo 25 milioni a
Parigi sono 60”
Montezemolo: le spese del comitato promotore più basse di Roma 2020
La fiaccola partirà da Lampedusa
MAURO FAVALE
LA metà di Los Angeles e Parigi, 6 milioni in meno rispetto alla sfortunata candidatura di 5
anni fa, abortita sul nascere per volere del governo Monti. Luca Cordero di Montezemolo
ha scelto l’Associazione della Stampa Estera per dire quanto costerà la corsa alla
conquista delle Olimpiadi del 2024 fino alla designazione, settembre 2017: «Il budget
globale stimato è di 24 milioni e 900 mila euro. Di questi, 5 sono privati, il resto arrivano da
Coni e Governo». Proprio l’esecutivo, prima di Natale, con un emendamento targato Pd
alla legge di stabilità, ha regalato 10 milioni al comitato olimpico per il prossimo biennio».
Comunque sia, un costo ridotto rispetto ai 50-60 milioni che verranno investiti dai
concorrenti più agguerriti: Los Angeles che vedrebbe il ritorno del simbolo coi 5 cerchi a 40
anni dai Giochi del 1984) e Parigi. «Siamo clamorosamente più bassi — ribadisce ancora
Montezemolo, presidente del comitato promotore — di questi soldi, meno del 10% è per il
costo del personale». E il budget è pure ridotto rispetto ai calcoli del comitato che nel 2011
si proponeva di portare a Roma le Olimpiadi del 2020: 31 milioni era stato il calcolo
dell’epoca fatto dall’organismo promotore allora presieduto da Mario Pescante.
Meno certezze ci sono sul resto, sui costi che, spiega ancora Montezemolo, «varieranno
molto in base al numero degli impianti fissi e precari». Secondo l’ex presidente della
Ferrari e attuale numero uno di Alitalia, però, «il 75% degli impianti è già pronto». L’unico
dato scontato è che il Villaggio Olimpico si farà a Tor Vergata, scenario di opere
incomplete e delle Olimpiadi di nuoto del 2009, location preferita dal comitato promotore
rispetto a quella proposta dall’ex sindaco Ignazio Marino che puntava sulla zona di Saxa
Rubra, più vicina allo stadio Olimpico e al Foro Italico.
E invece si andrà a sud perché, ancora Montezemolo, «Tor Vergata ricopre il ruolo più
importante per il futuro della città. Il Villaggio Olimpico potrà diventare un campus
universitario. Immaginiamo uno sviluppo lì grazie anche al collegamento con le autostrade
». Tra le costruzioni previste anche «un grande palazzo dello sport, e forse un velodromo,
fisso ma temporaneo». Per il resto, in attesa dei prossimi appuntamenti, Montezemolo
svela due ipotesi di lavoro. La prima è quella di far partire la torcia olimpica da Lampedusa
«per lanciare un segnale forte per il Sud e per l’Europa col tema dei migranti». L’altra è il
percorso della maratona che passerebbe per San Pietro, Sinagoga e Moschea. «La
chiameremo la Grande Maratona della Pace ».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 12/01/16, pag. 1/25
Su Facebook le immagini della cerimonia per i 100 anni di Procopio Di
Maggio a Cinisi Il fratello di Peppino: “Provo tanta amarezza”
Festa e fuochi per il boss nel paese di
Impastato
La rabbia del sindaco “Non siamo mafiosi”
SALVO PALAZZOLO
CINISI (PALERMO)
NEL PAESE di Peppino Impastato, i 100 anni del capomafia più anziano del mondo sono
stati festeggiati con i fuochi d’artificio. Procopio Di Maggio, l’unico padrino della Cupola di
Totò Riina rimasto in libertà, ha stretto mani e dispensato sorrisi per tutto il giorno, il 6
gennaio. Davvero in tanti lo hanno ossequiato davanti alla sua palazzina di piazza Martin
Teresa, a due passi dal Municipio. E lui non si è tirato indietro, arzillo e determinato come
sempre, nonostante sedici anni fa gli abbiano ucciso un figlio e un altro sia richiuso
all’ergastolo. Don Procopio ha sette vite, dicono a Cinisi. È scampato a due attentati, nel
1983 e nel 1991. Anche questo festeggiava. E il giorno dei suoi 100 anni ha voluto
organizzare una sontuosa cena per amici e parenti, alcuni arrivati dagli Stati Uniti:
appuntamento per tutti in una delle sale ricevimento più eleganti del paese. Poi, a fine
serata, sei minuti di fuochi di artificio che non sono passati inosservati il giorno
dell’Epifania. Anche perché il sindaco Giangiacomo Palazzolo aveva imposto il divieto di
qualsiasi gioco pirotecnico fino al 10 gennaio. E, invece, i festeggiamenti per i 100 anni del
padrino sono stati visti da tutto il paese. E anche oltre, fino all’aeroporto dedicato a
Falcone e Borsellino. Il primo cittadino di Cinisi insorge: «Oggi, Di Maggio è innocuo, ma
questa è una vicenda che mi dà fastidio. Interverrò per prendere i dovuti provvedimenti ».
Eppure, a Cinisi, quei fuochi d’artificio sono piaciuti a molti. Le foto e il video della festa
sono finiti su Facebook, fra centinaia di «mi piace». Il sindaco incalza: «Non ci devono
essere dubbi, Di Maggio è un mafioso, così come suo figlio. Ma il paese non è mafioso. E
credo che non dobbiamo dare risalto a questo gesto con cui il vecchio Di Maggio ha voluto
dire, io sono ancora qui. Finiremmo per fare il suo gioco».
Di quella festa con finale a sorpresa ha invece tanta voglia di parlare Giovanni Impastato,
il fratello di Peppino, il giovane coraggioso che dai microfoni di Radio Aut denunciava lo
strapotere di don Tano Badalamenti, il capomafia di Cinisi che era anche uno dei padrini
più influenti della Cupola. «Provo tanta amarezza per quello che è accaduto - dice - siamo
di fronte a fatti negativi che bloccano la crescita di un paese. Spero che presto certi ricordi
vengano cancellati: al funerale di mia madre, ad esempio, il paese non c’era. Ora, non
dico che Di Maggio non dovesse festeggiare i 100 anni, un bel traguardo per lui, ma
avrebbe potuto farlo in maniera più sobria». E, invece, il padrino e i suoi familiari hanno
scelto la via più eclatante.
Lui, naturalmente, dice non saperne niente di boss e cupole. Davanti all’uscio di casa si
limita a dire: «Ma quale mafia?». E non smette di sorridere. Eppure, le sentenze spiegano
che la famiglia Di Maggio non rappresenta solo il passato, ma anche il presente di Cosa
nostra. Il patriarca del clan è ritenuto un fedelissimo di Riina e Provenzano. Un patto di
fedeltà nato su un tradimento. Perché un tempo Procopio Di Maggio era uno dei picciotti di
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don Tano Badalamenti, il capomafia di Cinisi che ordinò la morte di Peppino Impastato.
Poi, nel 1979, Badalamenti iniziò ad essere scalzato dai nuovi signori di Cosa nostra. Di
Maggio capì che il vento era cambiato. E finì per tradire don Tano, gettandosi fra le
braccia di Riina e Provenzano. Fu premiato con lo scettro del comando a Cinisi. Dopo don
Procopio, negli ultimi vent’anni, sono arrivati i suoi figli: Peppone e Gaspare, il primo
inghiottito dalla lupara bianca, il secondo ha fatto parte a pieno titolo nel nuovo stato
maggiore dell’organizzazione. Il passato e il presente di Cosa nostra. Ma con sfumature
diverse. Don Procopio è stato condannato al maxiprocesso istruito da Falcone e
Borsellino, ma è uscito indenne dall’accusa di aver ordinato una ventina di omicidi. Non ha
avuto la stessa fortuna giudiziaria il figlio Gaspare, oggi al carcere duro. Ma non c’è aria di
malinconia alla festa del padrino. Nelle foto, alza il calice. E i suoi fan scrivono su
Facebook: «Altri cento di questi anni».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 12/01/16, pag. 1/15
Dopo gli assalti di Colonia scattano i raid
anti-stranieri
di Elena Tebano
L’appello alle «passeggiate» per «ripulire il centro di Colonia» è partito giovedì e venerdì
su Facebook . I gruppi che lo hanno lanciato si chiamano «Alla distanza di un braccio» (un
riferimento alle parole della sindaca Henriette Reker che aveva consigliato alle ragazze di
stare lontane da potenziali aggressori), «Passeggiata nel centro storico» e «Glock 4»,
come la pistola. L’appuntamento era per ieri l’altro. Nel giro di un’ora, tra le sei e le sette di
domenica, nonostante la polizia abbia riempito di agenti la stazione, a Colonia si sono
registrate nuove aggressioni di gruppo, tutte nei dintorni o nella città vecchia: stavolta però
da parte di uomini tedeschi nei confronti di giovani stranieri. «Pensiamo che siano
collegate agli appelli su Facebook — ha spiegato Norbert Wagner, capo della Direzione
criminalità della polizia di Colonia —. E che siano una reazione ai fatti di Capodanno».
Un ragazzo pachistano è stato inseguito e poi preso a calci e pugni da 25 persone. Ferito
un connazionale che era con lui. Un 39enne siriano è stato attaccato da 8 persone, mentre
un diciannovenne della Guinea, che si trovava insieme a due connazionali, è stato colpito
con una bottiglia. L’ultima vittima è un 19enne. La polizia indaga su 18 persone: due fanno
parte della banda di motociclisti Hell’s Angels, altre 16 sono buttafuori. Tredici sono
pregiudicati per reati legati all’estrema destra. Episodi di violenza ci sono stati anche ieri
sera a Lipsia, nell’est della Germania, dove durante una manifestazione di Pegida, almeno
250 appartenenti alle tifoserie locali vicine ai naziskin hanno attaccato una birreria
frequentata da gruppi della sinistra, e hanno distrutto le vetrine di alcuni negozi. «Nulla
giustifica delitti di questo tipo», ha commentato il portavoce di Angela Merkel, Steffen
Seibert.
Intanto emergono nuovi elementi sui fatti di Capodanno. Il direttore della sezione
investigativa della Renania Settentrionale-Vestfalia Dieter Schuermann ieri ha smentito il
ministro della Giustizia Heiko Maas, che domenica aveva definito «organizzate» le
aggressioni a Colonia: «Non ci sono al momento elementi che lo confermino», ha detto. E
dal rapporto del ministero dell’Interno emerge che sul posto sono stati impiegati solo 143
agenti, che per gran parte della serata non hanno avuto il controllo della situazione. Grazie
al caos creato da oltre mille «uomini tra i 15 e i 35 anni» all’apparenza «nordafricani o
arabi» che lanciavano fuochi d’artificio su passanti e polizia, gruppi di criminali «che si
sono staccati dalla folla» — si legge nel documento — hanno così potuto molestare e
derubare indisturbati 516 persone. La stragrande maggioranza delle vittime sono donne:
130 hanno subito molestie, altre 107 hanno subito sia furti che molestie. Ieri in
un’audizione al parlamento del Land il ministro dell’Interno Renania SettentrionaleVestfalia Ralf Jäge ha affermato che la polizia ha sbagliato a non chiedere rinforzi e ha
dato un’immagine di sé «inaccettabile» .
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del 12/01/16, pag. 19
Colonia, xenofobi scatenati: la notte dei
lunghi coltelli
Dopo le violenze di Capodanno sulle donne, squadracce a caccia di
immigrati per “farsi giustizia”: tre feriti
di Valerio Cattano
Dopo la caccia alle donne nella notte di Capodanno – 516 denunce, di cui 237 per
violenza sessuale – arriva quella allo straniero. Due pakistani e un siriano sono stati feriti
da gruppi di estremisti xenofobi. Colonia non ha pace, fra accuse alla polizia e vendette
“fai da te” degli ultrà di destra che non vedevano l’ora di avere una scusa per fare pagare
alla Merkel l’apertura e l’accoglienza ai rifugiati siriani e agli altri immigrati in fuga dalle
guerre. La società tedesca è spaccata fra chi vede gli stranieri come delinquenti e
violentatori e chi li difende per il loro status; la verità, in questo contesto, su quel che è
accaduto a Capodanno, è ancora lontana.
Il ministro della Giustizia, Heiko Maas, ha lanciato un grido d’allarme sulle
strumentalizzazioni dei neonazi. Ammettendo che l’aggressione organizzata alle donne la
notte di Capodanno è un fatto “ripugnante” Maas non vuole in alcun modo giustificare altra
violenza: “Non possiamo lasciare campo libero a incendiari estremisti”. Loro, gli xenofobi,
invece non aspettavano altro, tanto che l’altra sera si sono organizzati con alcune
comunicazioni sui social network per la caccia all’immigrato. Due, secondo la polizia, gli
episodi di violenza; circa 20 persone hanno attaccato sei pakistani, ferendone due. Pochi
minuti dopo una squadraccia di cinque violenti ha ridotto a mal partito un siriano. Tensioni
ieri anche a Lipsia per due cortei, uno contro i migranti e uno pro; circa 250 persone
mascherate hanno attaccato diversi negozi nel quartiere di Connewitz, considerato
roccaforte della sinistra autonoma. Secondo Der Tagesspiegel si tratta di formazioni
neonaziste legate alle tifoserie di due squadre locali. La polizia ha fatto sapere di aver
arrestato decine di hooligans.
“Nonostante vada chiarito in modo completo quanto accaduto a Colonia e si debbano
proporre le misure da adottare, bisogna anche pensare alla grande maggioranza di
rifugiati che hanno cercato riparo in Germania e che hanno un comportamento pacifico”
ricorda il portavoce del governo Steffen Seibert, che ha aggiunto: “Dobbiamo prevedere
misure per proteggere la popolazione tedesca, ma anche per tutelare la grande
maggioranza dei rifugiati”. La polizia resta sul banco degli imputati. Il ministro dell’Interno
del Land di Nord Reno-Westfalia, Ralf Jäger, ha accusato i funzionari di avere compiuto
“gravi errori” in relazione alle aggressioni delle donne a Capodanno: “L’immagine che ha
offerto la polizia di Colonia è inaccettabile”, ha detto Jäger davanti al Parlamento del Land.
Il ministro ha confermato che, stando alle testimonianze raccolte, le aggressioni sono state
compiute principalmente da stranieri, soprattutto provenienti dal Nordafrica, ma anche da
altri Paesi arabi. Le indagini al momento hanno portato a 32 indagati, tra cui alcuni
tedeschi: 19 sono stranieri (10 dei quali richiedenti asilo). Jäger muove accuse precise: gli
agenti non hanno chiesto rinforzi nonostante la situazione vicino alla stazione centrale
fosse difficile, e che proprio la sera di Capodanno in tutto il Paese era in atto una fase di
allerta generale per il timore di attacchi terroristici. Non solo non hanno chiesto rinforzi –
ha ricordato Jäger – ma addirittura nella nota stampa diffusa il giorno successivo si
parlava di una serata “tranquilla”. E così, tanti saluti all’efficienza e al rigore tedesco.
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Da Avvenire del 12/01/16, pag. 7
Il sondaggio. Ma il 60% dei tedeschi
non valuta negativamente gli immigrati
I fatti di Colonia non hanno influito sull'opinione che la maggioranza dei tedeschi ha degli
stranieri. E quanto rivela un'inchiesta realizzata dall'istituto Forsa e il cui risultato è stato
reso pubblico ieri. Dal sondaggio emerge che il 60 per cento degli interpellati non valuta
più negativamente gli stranieri dopo quanto accaduto nella città tedesca la notte di San
Silvestro, diversamente dal 37 per cento del campione, che afferma di aver reagito in
modo opposto. Tra questi ultimi il gruppo più rappresentato (72 per cento) è quello dei
simpatizzanti del Partito euroscettico Alternative fuer Deutschland (Alternativa per la
Germania), seguito dai sostenitori della Cdu (Unione cristianodemocratica di Angela
Merkel) e CSU (Unione cristianosociale), con il 43 per cento e infine dai filo-Fdp (Partito
liberale, 39 per cento). Oltre la metà del campione (57 per cento) dice però di temere che
a causa dell'afflusso massiccio di migranti in Germania possa salire il tasso di criminalità.
Di avviso contrario il 40 per cento degli interpellati, secondo i quali i richiedenti l'asilo non
faranno salire il numero dei reati che vengono commessi nel Paese. Quanto alle donne, la
maggior parte dichiara di continuare a sentirsi molto sicura (28 per cento) o sicura (59 per
cento) malgrado quanto accaduto a Colonia.
del 12/01/16, pag. 22
Lo sbarco dell’orrore donne gettate in mare
due vittime in Puglia
“Gli scafisti ci lanciavano come sacchi contro gli scogli” Ritrovato a
Leuca il corpo di una giovane somala
GIULIANO FOSCHINI
BARI.
«Ci hanno scagliato in mare come sacchi...». «Mia moglie, non trovo più mia moglie...». Le
voci della disperazione tornano a rimbombare nel Mediterraneo. Questa volta, nel canale
d’Otranto, dove, nella notte tra domenica e lunedì, un gruppo di migranti è sbarcato sulle
coste del Salento. Una donna è morta, quattro sarebbero i dispersi, una almeno
mancherebbe sicuramente all’appello. Trentaquattro sono invece le persone messe in
salvo: sette di loro (tra cui un bimbo di 10 anni e una donna incinta) sono ricoverate negli
ospedali del Salento per contusioni e ipotermia.
Dal racconto fatto dai migranti agli investigatori, sono partiti dalla Turchia una decina di
giorni fa. Hanno raggiunto via mare la Grecia, ma qui sono stati portati nell’entroterra dove
hanno aspettato circa cinque giorni. «Poi siamo ritornati sulla costa — hanno spiegato ieri
— non sappiamo dire in che località, sono serviti circa cinque ore di auto. Alcuni di noi
sono stati portati in taxi ». Da qui a bordo di un motoscafo sono partiti alla volta dell’Italia.
«Arrivati davanti alla costa, il mare era alto, ci hanno detto di scendere a più riprese» .
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Prima a Marina di Novaglie, in località Ciolo, dove un primo gruppo di migranti è stato
trovato sugli scogli, poi a Leuca e, infine, a Felloniche dove i migranti sono stati ritrovati
lungo una strada. «I primi sono riusciti ad arrampicarsi su alcuni scogli, gli ultimi sono stati
invece buttati a mare dagli scafisti » che poi sono scappati. Tra di loro, c’erano sei donne,
almeno a credere ai racconti dei superstiti: una è la vittima accertata, una donna somala di
32 anni, si chiamava Nesra, che indossava soltanto un paio di jeans arrotolati e un
reggiseno, perché il maglione le era stato sfilato dal mare. Forse, dice un socorritore, è
morta impigliata nel suo velo. I traghettatori, attorno alle 3.30 della notte, l’hanno
scaraventata in acqua assieme alle altre sei. Alcune di loro — due almeno — sono state
tratte in salvo. Mentre un uomo ha raccontato di aver visto sua moglie sparire nell’acqua.
«Dov’è?» ha ripetuto per tutta la giornata, davanti allo scoglio di Felloniche, non lontano
dal Capo. Ma le ricerche, per il momento, sono state vane. «Queste tragedie — ha detto il
vescovo di Ugento, Vito Angiuli, giunto sul posto per assistere i migranti terrorizzati —
dovrebbero portare tutti, soprattutto coloro che hanno la responsabilità politica, ad
affrontare questi problemi, ad accelerare i passi, perché queste tragedie non accadano
più. Non serve più solo dolore e pietà».
Da Avvenire del 12/01/16, pag. 3
Una legge da rivedere
Clandestinità, il reato non vince la paura
Francesco Soddu
La marcia indietro del governo sulla depenalizzazione del reato di immigrazione
clandestina lascia davvero sorpresi. Già all’indomani dell’approvazione di questa norma
abbiamo denunciato l’inutilità di interventi legislativi di questo tipo, la cui 'utilità' – sin dalla
loro approvazione – era evidentemente di tipo mediatico, piuttosto che 'di governo' di un
fenomeno importante e delicato come quello migratorio. E abbiamo stigmatizzato
l’approccio demagogico che sta dietro una norma che punisce non un comportamento ma
una condizione e che ha contribuito a incidere negativamente sulla credibilità del nostro
Paese a livello europeo. Nei cinque anni trascorsi, infatti, gli effetti della suddetta norma
non solo hanno manifestato tutta la loro inutilità ma, ancor peggio, hanno appesantito la
macchina amministrativa, che per questo ne ha chiesto il superamento. Ci troviamo,
dunque, di fronte a una norma che è fortemente discriminatoria e al contempo pesante e
costosa per l’amministrazione pubblica. Un provvedimento ingiusto, inefficace e costoso,
tant’è vero che anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti ha chiesto la
depenalizzazione, e che – ancor prima – in tal senso si erano espresse sia la Corte
costituzionale sia l’Unione Europea.
Eppure, nonostante che nell’aprile 2014 il Parlamento avesse dato 18 mesi di tempo al
governo per procedere alla depenalizzazione del reato d’ingresso irregolare, si continua in
quella che potremmo definire una sorta di omissione legislativa. Pensare di gestire
l’immigrazione irregolare attraverso interventi sostanzialmente punitivi, vuol dire nei fatti
non intervenire su dinamiche che necessitano, invece, di interventi ben più complessi che,
a quanto pare, non si vuole o non si è in grado di attuare. Certamente la depenalizzazione
del reato di immigrazione irregolare, seppure ragionevole e motivata, potrebbe costituire in
questo momento una iniziativa 'impopolare'. Ma proprio qui è il paradosso: rispetto al
disastro di anni in cui in molti ambiti – non solo quello della giustizia, ma anche quello
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economico – alla verità si è sostituita la menzogna e l’inganno di dichiarazioni roboanti o
vuote e di provvedimenti normativi inutili se non dannosi, ora non si cerca di costruire una
comunicazione pubblica finalmente onesta e fondata, ma si continua a evocare la
questione della 'percezione' dei fenomeni, preferire una deformante 'rassicurazione' alla
realtà. Come se Churchill avesse detto «ci scusiamo di qualche temporaneo disagio» per
spiegare il dramma della guerra totale con la Germania nazista, piuttosto che scandire
davanti al popolo della Gran Bretagna la onesta e drammatica promessa di «lacrime e
sangue». Come se Roosvelt agli Stati Uniti annichiliti dalla crisi del 1929 avesse evocato
ristoranti pieni e maggioranze di vacanzieri, piuttosto che ammonire gli americani a uscire
di slancio dall’angolo avendo «paura solo della paura».
Perché è proprio la paura il vero nemico da sconfiggere. Un avversario che non si
sconfigge mentendo e blandendo, ma cercando di comunicare con onestà – insisto – una
prospettiva chiara, una direzione di marcia giusta e ragionevole, aiutando un Paese in
parte diseducato a ragionare sul merito delle questioni, a ripartire anche da una politica
che usa, sì, l’arma della persuasione, ma non quella dell’inganno. Fino a quando gli
interessi della politica non saranno, però, capaci di fare gli interessi delle persone, ci
troveremo in uno Stato che facciamo fatica a definire 'di diritto'. Perché una cosa è certa: il
governo deve depenalizzare la norma sulla 'clandestinità' e i tempi che gli sono stati dati
dal Parlamento sono scaduti. Le parole ascoltate in queste ore fanno pensare a una
politica che per legittimarsi al cospetto di settori dell’opinione pubblica rischia di
stravolgere le regole democratiche e questo, purtroppo, avviene quasi sempre quando si
tratta di tutelare le persone più vulnerabili, coloro che non hanno voce. Il pericolo reale è di
riproporre una immagine della politica come mediazione al ribasso, come tatticismo
esasperante, che tradisce il dato di realtà di una norma e che impedisce – sì, addirittura
impedisce – di perseguire i mercanti di uomini e di donne che lucrano sulla disperazione di
migranti e profughi. Il ruolo che l’Italia sta giocando nel panorama delle migrazioni, in
questa delicata fase della nostra storia, appare fondamentale e viene riconosciuto da tutti.
L’operazione 'Mare Nostrum' in primis e il grande sforzo nell’accoglienza dei profughi che
raggiungono le nostre coste, costituiscono elementi di cui andare orgogliosi in Europa e
nel mondo. Ieri il Santo Padre, nel discorso tenuto al Corpo Diplomatico accreditato presso
la Santa Sede, è infatti tornato a esprimere «una particolare riconoscenza (...) all’Italia, il
cui impegno deciso ha salvato molte vite nel Mediterraneo e che tuttora si fa carico sul suo
territorio di un ingente numero di rifugiati».
Possiamo, dunque, considerarci un Paese che, nel novero di coloro che si definiscono
Paesi accoglienti, è in grado, più di altri, di fare la differenza. Anche per questo non
dobbiamo arretrare con scelte che hanno il sapore di una resa e di ritorno a un recente
passato colmo di ombre che ancora gravano sull’operato di governi che hanno fatto
dell’immigrazione e della disperazione dei profughi una merce elettorale. Non a caso papa
Francesco ha sottolineato al corpo diplomatico anche il suo auspicio affinché «il
tradizionale senso di ospitalità e solidarietà che contraddistingue il popolo italiano non
venga affievolito dalle inevitabili difficoltà del momento, ma, alla luce della sua tradizione
plurimillenaria, sia capace di accogliere e integrare il contributo sociale, economico e
culturale che i migranti possono offrire». Andare verso la depenalizzazione del 'reato di
immigrazione clandestina' significherebbe innanzitutto, fare una scelta coraggiosa. Una
scelta che forse costerebbe in termini di consenso nel breve periodo, ma che pagherebbe
molto nel mediolungo periodo perché solo delle scelte lungimiranti possono aiutare un
Paese a crescere nella giusta direzione, quella che vede le persone al centro delle
decisioni politiche, a tutti i livelli.
* Sacerdote e direttore di Caritas Italiana
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del 12/01/16, pag. I/XX (Roma)
Inferno nel pastificio, paura per 180 rom
FEDERICA ANGELI
L’INCENDIO È divampato poco dopo le 23 di domenica ma gli ultimi focolai sono stati
domati attorno alle 20 di ieri. Un rogo gigantesco che dai rifiuti ammassati in strada ha
divorato i giacigli di fortuna e le baracche di 180 nomadi romeni accampati lì, nell’ex
pastificio di via Collatina 385. In quello che un tempo era una fiorente fabbrica di pasta, poi
sequestrata per la messa in liquidazione del titolare e attualmente gestita da un custode
giudiziario, da diversi mesi vivono all’addiaccio nomadi di etnia rom. E quando le fiamme
dai rifiuti hanno divorato tutto si è rischiata la tragedia. Una tragedia che da tempo è in
agguato, tanto che per occupazione abusiva era stata presentata una querela in procura
nel 2014. La denuncia fu archiviata perché il pubblico ministero sottolineò lo stato di
indigenza degli occupanti.
DOMENICA NOTTE però quelle oltre cento anime indigenti, per via delle condizioni di vita
in cui vivono hanno rischiato di morire bruciati. Tre squadre dei vigili del fuoco sono
immediatamente andate sul posto, a seguito di decine e decine di telefonate ricevute ai
centralini. Le lingue di fuoco e la nube di fumo sull’ex pastificio avevano illuminato a giorno
il cielo buio della Collatina.
I nomadi, grazie anche all’intervento della polizia e dei gruppi Sicurezza Pubblica
Emergenziale e Casilino della municipale, comandanti da Antonio Di Maggio e Stefano
Andreangeli, sono stati fatti uscire dal quella trappola di fuoco. I caschi bianchi, attraverso
la sala operativa sociale del Comune di Roma, hanno iniziato ad attivarsi per offrire
assistenza alloggiativa alle oltre 60 famiglie, tra cui diversi minori, che stazionavano in
strada. Nessuno di loro ha accettato l’alloggio alternativo e alla spicciolata sono andati via
dal capannone ridotto a uno scheletro di lamiere affumicate. Solo in 38 sono rimasti a
presidiare l’edificio, in attesa dello spegnimento dell’incendio e di tornare dentro ad
occuparlo. Ma davanti a loro le forze dell’ordine hanno formato un cordone per impedire
che qualcuno di loro potesse, rientrando nell’ex fabbrica, ferirsi o morire addirittura, a
causa dell’attuale fatiscenza della struttura.
Qualche residente della zona, esasperato dalla presenza dei nomadi in quell’area, è
andato a protestar lì davanti, intonando cori che invitavano all’allontanamento permanente
di quelle persone. «Non ne possiamo più, mandateli via!», «è uno schifo, una vergogna»,
«se un incendio non è riuscito a spazzarli via ci penseremo noi». I facinorosi sono stati fatti
allontanare dalle forze dell’ordine. «Questa situazione è arrivata al collasso, hanno
trasformato la zona in una latrina, e durante il giorno vengono a fare scippi e furti nel
quartiere queste persone», dice Franco Maio, un abitante.
Al momento nulla fa pensare a un rogo di origine dolosa, l’ipotesi più probabile è che nei
locali sotterranei dell’ex fabbrica qualcuno, per scaldarsi, abbia dato fuoco ai mucchi di
rifiuti accumulati lì sotto e che poi le fiamme si siano propagate velocemente. Tuttavia i
vigili del fuoco oggi torneranno a fare un’ispezione sul posto per avere la certezza di come
siano andate le cose.
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WELFARE E SOCIETA’
del 12/01/16, pag. 13
Il Ticket Welfare ovvero 2.500 euro l’anno in
servizi ai dipendenti: dalla palestra ai buoni
libro
È un ticket come quelli che le aziende forniscono ai propri dipendenti in sostituzione del
servizio mensa. Può valere anche 2500 euro l’anno e dare accesso ad una serie infinita di
servizi di assistenza alla persona, dai servizi medici ai trasporti, dagli asilo nido alle
materne, ai servizi di assistenza per anziani, sino a buoni libro per i figli, borse di studio,
corsi di formazione e spese per il tempo libero. È il nuovo «ticket welfare» che debutterà in
Italia di qui a poche settimane e che già ora si annuncia come una vera e propria
rivoluzione in grado di far decollare il welfare aziendale e di creare nuova occupazione.
Forti incentivi
La novità è stata introdotta con la legge di Stabilità 2016 che ha previsto una forte
agevolazione fiscale allo scopo di stimolare le imprese ad investire in soluzioni di welfare,
sulla falsa riga di esperienze che anche da noi hanno già fatto scuola come l’accordo
aziendale Luxottica. Le risorse destinate ai dipendenti sotto forma di pacchetti-welfare
sono infatti totalmente detassati sino a 2000 euro l’anno (che salgono a 2500 euro se
vengono contrattati anche istituti di partecipazione), con un tetto di 50mila euro di reddito.
E dunque rappresentano una importante integrazione al reddito, tant’è che tutte le
piattaforme per i rinnovi contrattuali attualmente in discussione, a cominciare da quella dei
metalmeccanici, li prevedono. Per questi progetti il governo ha stanziato una cifra
considerevole: 430 milioni di euro per il 2016 e 589 per gli anni a seguire.
Nel caso il lavoratore decida invece di farsi liquidare cash la somma pattuita sarà invece
sottoposto ad una tassazione del 10%. Il voucher, ovviamente, conviene di più perché
esentasse. Così come al lavoratore conviene ricevere queste cifre sotto forma di premio,
visto che in alternativa i 2mila euro erogati, se venissero inseriti in busta paga,si
ridurrebbero ad appena 1270 euro netti.
Voucher digitale e di carta
In concreto i vari utenti che beneficeranno dei nuovi servizi potranno sia accedere a
specifiche piattaforme Internet attraverso le quali comporre un menù personalizzato di
servizi cui attingere, ma potranno anche ricevere i nuovi ticket in forma cartacea o digitale
in tagli che vanno dai 5 a 50 euro.
L’esempio francese
«Il voucher per i servizi alla persona è uno strumento che ha dimostrato di funzionare in
modo straordinario in molti paesi europei, a cominciare dalla Francia», spiega Andrea
Keller, amministratore delegato di Edenred Italia. E non a caso la filiale italiana del colosso
mondiale dei ticket restaurant ha deciso di giocare d’anticipo registrando il marchio «Ticket
Welfare». Ovviamente la concorrenza non starà ferma, ma Edenred,facendo leva
sull’esperienza maturata in Francia con i «Ticket Cesu» e nel Regno Unito, parte
avvantaggiata. «L’arrivo dei ticket welfare – spiega ancora Keller – ha prodotto grandi
benefici: aumento del potere d’acquisto dei dipendenti, ottimizzazione dei costi per le
aziende, emersione del lavoro nero nell’ambito del lavoro domestico, incentivo del lavoro
femminile e maggiori entrate per lo Stato». In Francia dal 2005 grazie ai «Cesu» sono stati
50
creati 1,4 milioni di nuovi posti. In Italia, già nel primo anno, si potrebbero invece creare
circa 300mila nuove partite Iva e posti di lavoro qualificato, pari a circa 1 punto di Pil in più.
Paolo Baroni
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 12/01/16, pag. 3
Renzi ha deciso: prima le riforme e poi le
unioni civili
Diritti. Il premier vuole mettere in salvo il ddl Boschi
Leo Lancari
ROMA
Prima la riforma costituzionale e poi le unioni civili. E’ questa la strada decisa da Matteo
Renzi per mettere in salvo al Senato ciò a cui non fa mistero di tenere di più. Anche
perché il 20 gennaio si dovranno decidere le nuove presidenze delle commissioni e il
premier sa che l’argomento è un altro motivo di scontro con l’alleato Ncd. Motivo in più
quindi per mettere subito in salvo il ddl Boschi, con la speranza di aver chiuso tutti i file più
delicati entro il 26 gennaio, giorno in cui l’aula del Senato discuterà il ddl Cirinnà. Evitando
così brutte sorprese.
Più che di diritti, è di poltrone e precari equilibri di maggioranza che probabilmente si
discuterà nei prossimi giorni. Ieri il centrodestra, nel tentativo di bloccare di nuovo le unioni
civili, ha proposto di rinviare il testo in commissione Giustizia del Senato dove in passato è
riuscito a tenerlo impantanato per mesi grazie all’ostruzionismo e a 4.200 emendamenti.
Una proposta, hanno spiegato i senatori Maurizio Sacconi e Nico D’Ascola, che «avrebbe
senso rispetto alle esigenze di coesione politica della maggioranza e, ancor più, alla luce
dell’evidente necessità di non lacerare la nazione».
Ipotesi — quella del partito di Alfano — che però non viene neanche presa in
considerazione dal Pd, già diviso al suo interno sulla stepchild adoption, la possibilità di
adottare il figlio del partner, per assumersi la responsabilità anche di un nuovo rinvio della
legge. Mercoledì tornerà a riunirsi la cosiddetta bicameralina, il gruppo di lavoro composto
da cinque senatori e sei deputati guidato dalla responsabile Diritti del partito Micaela
Campana. E in quella sede si vedrà a che punto è la notte, se il Pd sarà capace di
prendere finalmente una posizione definitiva sulle adozioni da parte delle famiglie
omogenitoriali. In caso contrario andrà verificata l’esistenza di una mediazione capace di
mettere d’accordo tutti, cosa che appare però molto improbabile visto che gran parte del
partito, ma anche tutte le associazioni lgbt, considerano il ddl Cirinnà già una mediazione
e non accetterebbero niente di meno. Una posizione condivisa in parlamento anche da
Sinistra italiana, M5S e socialisti, la maggioranza alternativa che permetterebbe al
governo di portare finalmente a casa il ddl senza ricorrere ai voti di Alfano.
Intanto a ulteriore conferma della confusione interna al Pd, fioccano proposte di tutti i tipi.
Dopo quella sull’«affido rafforzato» avanzata da una trentina di senatori cattolici e
destinata a finire in un emendamento al ddl, si è parlato anche della possibilità di arrivare
all’adozione del figlio del partner al termine di un periodo di affido della durata di cinque
anni. Tutte ipotesi che rischiano di essere bocciate per incostituzionalità e che comunque
non mettono certo d’accordo le varie anime del partito. «Più che altro sembrano
soprattutto voler mettere in chiaro una cosa: che quelle omogenitoriali sono famiglie di
serie B, con meno diritti rispetto a quelle eterosessuali», spiega il senatore dem Sergio Lo
Giudice, ex presidente dell’Arcigay
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Chi continua a mostrarsi ottimista è la relatrice della legge, Monica Cirinnà. «Perfino il
presidente del Senato Pietro Grasso è favorevole», ha detto, aggiungendo di esser sicura
che alla fine il Pd riuscirà a ricompattarsi. «Su molti temi si è dilaniato — ha spiegato —
dall’articolo 18 alla scuola, per non parlare delle riforme costituzionali. Ma poi alla fine si è
sempre trovata l’unità».
del 12/01/16, pag. 15
“Unioni gay, l’adozione garanzia per i
bambini” L’appello dei giuristi
GIOVANNA CASADIO
Documento per la stepchild adoption firmato da 230 tra magistrati e docenti di diritto Pd e
Ncd lavorano a un compromesso, ma i dem cercano ancora l’unità
ROMA.
Scendono in campo anche i giuristi sulle unioni civili con un appello firmato da 230 tra
magistrati, avvocati, docenti di diritto a sostegno della stepchild adoption per le coppie
gay, ovvero l’adozione del figlio del partner, il punto più controverso della legge. Renzi ha
già detto che è favorevole. Ha indicato però la libertà di coscienza come linea del Pd.
Mentre per evitare lo scontro con i centristi dell’Ncd e con i cattolici dem in Senato, dove la
legge va in aula il 26 gennaio, si sta lavorando a una mediazione. Cresce la fibrillazione
nel rush finale per le unioni civili.
L’appello dei giuristi giudica la «stepchild adoption garanzia minima per i bambini» e invita
«il Parlamento a non voltarsi dall’altra parte». Il documento è firmato tra gli altri da
Magistratura democratica, dall’ex procuratore di Milano, Edmondo Bruti Liberati, dall’ex
presidente del Tribunale dei minori di Roma, Melita Cavallo, da Elena Paciotti, da
Giuseppe Spadaro a capo del Tribunale dei minori di Bologna, da Livio Pepino, Vladimiro
Zagrebelsky, che è stato giudice della Corte europea dei diritti. L’elenco è lungo e ha
raccolto anche l’adesione dei presidi delle facoltà di Giurisprudenza di Milano e di Roma,
Nerina Boschiero e Paolo Ridola, di Gabriella Luccioli, ex presidente della sezione famiglia
della Cassazione, tutti coinvolti dal portale di studi giuridici “articolo 29”. «Adesioni arrivate
a valanga e continuano ad affluire », racconta Marco Gattuso, giudice del tribunale di
Bologna e direttore di “articolo 29”. «Queste bambine e questi bambini esistono e il
riconoscimento giuridico della relazione, anche nei confronti dell’altro genitore, assicura al
bambini i diritti di cura, di mantenimento, ereditari - è scritto nell’appello -La scelta più
ragionevole e giuridicamente corretta consiste nel consentire ai giudici di valutare caso per
caso se l’adozione da parte del partner assicuri la migliore protezione nell’interesse
superiore di figli di genitori omosessuali». Si ricorda inoltre che «la stepchild adoption in
forma analoga a quella del disegno di legge che porta il nome della prima firmataria,
Monica Cirinnà, è prevista da anni nella legge tedesca, mentre alcuni dei maggiori paesi
europei (Regno Unito, Francia, Spagna) già ammettono l’adozione piena e legittimante».
Oggi in Senato sarà il giorno delle riunioni dei fronti opposti. Gaetano Quagliariello coagula
la trincea del “no” all’adozione per le coppie gay, senza nessuna possibilità di mediazione.
Lavora a un compromesso invece Ncd e oggi forse incontro tra Schifani e i dem Russo e
Tonini. Prevista anche una riunione della “bicameralina” del Pd.
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DONNE E DIRITTI
del 12/01/16, pag. 15
A Colonia? Il sì (ideale) delle femministe
L’adesione di tanti gruppi.
Qualcuna però ricorda: preoccupiamoci della violenza in Italia
Direzione Colonia, promettono quasi tutte. Andare perché serve farsi sentire. Perché è
tornata l’ora di riprendersi la piazza. Per dare più forza a libertà ancora fragili. E senza
temere strumentalizzazioni. Ma chi sta davvero andando al carnevale renano del 4
febbraio? «Ci organizzeremo», «cercherò di esserci», «magari ci accordiamo per andarci
in macchina» sono le risposte di chi annuncia di voler partecipare.
Il passaparola ha scavalcato confini politici e differenze di posizione e per una volta la
risposta della variegata galassia femminista italiana sembra compatta: andare a Colonia,
al momento luogo ideale per mostrare al mondo che le donne sanno e vogliono difendere
le libertà conquistate. Tutte alla Weiberfastnacht , la giornata femminile del Carnevale: per
chiedere e regalare un bacio ai passanti, come vuole la tradizione, ma soprattutto per
ristabilire fra la violenza e il corpo delle donne quella distanza che i fatti di Capodanno
hanno pericolosamente accorciato. Ma per ora sono dichiarazioni d’intenti, dicevamo,
mentre le femministe tedesche tacciono e in Italia, per quanto la parola d’ordine
sembrerebbe «partecipare», in realtà nessuno si è ancora organizzato per gli spostamenti
e le modalità di adesione.
Invita alla trasferta tedesca una femminista storica come Lea Melandri: «È chiaro che in
questo caso c’è una componente che riguarda i migranti e la loro integrazione ma
facciamoci caso, ancora una volta l’odio si manifesta contro il corpo delle donne, originaria
forma di dominio che riguarda la relazione fra i sessi. Io dico: andare a Colonia, sì, ma
manifestiamo anche in Italia. Non lasciamo che dopo tutto questo si seppellisca di nuovo
la questione femminile».
Cristina Comencini, di «Se Non Ora Quando - Libere», non ha dubbi: «Bisogna andare
tutti quanti e vorrei maschi che venissero a dimostrare di essere illuminati. Per le donne
all’ordine del giorno c’è la libertà. Punto». Pensando al 4 febbraio di Colonia, dice, «mi
sono ricordata di un convegno di femministe a Paestum negli anni Settanta. Gli uomini non
ci volevano e si fecero trovare lungo i muri con i pantaloni tirati giù. Siamo andate avanti lo
stesso, senza guardarli, e abbiamo vinto noi». I comitati territoriali di «Se Non Ora Quando
- Factory», però, non vanno in direzione di Colonia. «Prima di andare in Germania
dovremmo interrogarci sul machismo che esiste in tutte le culture, non soltanto di quella
islamica» premette Loredana Taddei. Che aggiunge: «Vorrei far notare che mentre
discutiamo di Colonia da noi hanno ammazzato cinque donne...».
La scrittrice italiana Lorella Zanardo, autrice del documentario Il corpo delle donne , è per
la giornata di Colonia, «assolutamente». «E basta temere le strumentalizzazioni, per
favore. Se siamo forti e determinate nessuno potrà mettere bandiere sulla nostra testa.
C’è il rischio certo, ma io sono molto attenta e molto brava a non farmi strumentalizzare,
facciamolo tutte. Sarebbe più pericoloso chinare la testa».
L’Unione donne italiane è invece così convinta della giornata tedesca del 4 febbraio che
per chi non potrà permettersi la trasferta sta pensando di organizzare in parallelo il 4
febbraio italiano. Vittoria Tola dice che per l’occasione si può rispolverare un vecchio
slogan: «La notte ci piace, vogliamo uscire in pace».
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«Sarà un terreno scivoloso e pericoloso perché ci sarà chi vorrà usare il 4 febbraio contro
gli islamici, indistintamente. Ma noi ci distingueremo dalle tendenze xenofobe. Vogliamo
esserci e ci saremo» annunciano le dirigenti nazionali di Dire (Donne in rete contro la
violenza)con le parole di Lella Palladino.
«Aderiamo ma sia chiaro che prendiamo le distanze dalle dichiarazioni razziste» tengono
a precisare anche Barbara Mapelli e Laura Quadriole, Casa delle donne di Milano, mentre
Marina Cosi (associazione Giulia) e Daniela Brancati (premio immagine amiche dell’Udi)
parlano a titolo personale anticipando un’adesione «necessaria» per ribadire una volta di
più la «libertà di camminare per strada e andare in discoteca senza rischiare nulla» o il
fatto che «non conta essere di destra o di sinistra perché la libertà e la verità fanno bene a
tutti».
Giorgia Serughetti è una voce giovane che si fa sentire dal blog delle ragazze di
Femministerie . Per dire che anche loro accolgono l’idea della manifestazione di Colonia
lanciata da Maria Latella, «ma a una condizione: che non sia la manifestazione di donne
“occidentali” contro una cultura “altra”, ma un momento di alleanza tra donne di ogni
cultura e religione, migranti e native, con velo, senza velo».
Giusi Fasano
Luisa Pronzato
del 12/01/16, pag. 11
La testimonianza.
Parlano le attiviste e le studiose che nei paesi del Mediterraneo si
battono contro discriminazioni e maltrattamenti: “Quello che è accaduto
in Germania non si può paragonare a ciò a cui abbiamo assistito a
piazza Tahrir: sbagliato generalizzare”
“Il problema non è solo arabo la violenza è un
male sociale”
ANNA LOMBARDI
«UN CANCRO:
le molestie sessuali hanno un meccanismo simile a quello di cellule cancerogene che si
aggregano. A scatenare la malattia intervengono fattori diversi ma il risultato è il
medesimo: la molestia come tumore sociale, che se non viene fermato in tempo continua
a propagarsi. Perché è bene dirlo subito: sbaglia chi pensa che quello che è accaduto a
Colonia sia importato, appartenga al solo mondo arabo, un’epidemia importata. È un male
che ha radici profonde: e molto complesse».
Non è un caso che Shereen El Feki usi termini medici. L’autrice anglo-egiziana di un
saggio molto importante sulla sessualità nel mondo arabo intitolato
Sex and the Citadel: Intimate Life in a Changing Arab World
(Sesso e la cittadella: la vita intima nel mondo arabo che cambia), è un’immunologa che
dopo essersi occupata di Aids ha focalizzato la sua attenzione sul rapporto che il mondo
arabo ha con il sesso e ora sta lavorando a un progetto finanziato dalle Nazioni Unite per
capire meglio la galassia maschile giovanile in 4 paesi arabi, Egitto, Marocco, Libano e
Palestina. Il suo libro, nel 2013, è stato il primo a citare il termine arabo “
taharrush gamea”(
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molestia sessuale di gruppo) che dopo i fatti di Colonia ha fatto il giro del mondo, quasi si
trattasse di un rituale ben definito. Un rituale che avrebbe le sue radici nei fatti di piazza
Tahrir al Cairo, dove nel 2011, durante la rivoluzione contro Mubarak, decine di donne che
manifestavano subirono violenze sessuali.
«Non abbiamo abbastanza elementi per giudicare cosa è davvero successo a Colonia »
precisa El Feki. «Ma se vogliamo paragonarlo con i fatti di Piazza Tahrir, non fosse altro
perché è il più studiato, possiamo provare a tracciare un profilo. Lì ci si trovava davanti a
giovani uomini che avevano un serio problema con la realizzazione della loro mascolinità:
cresciuti in un sistema politico oppressivo, disoccupati e dunque non nelle condizioni di
sposarsi e tanto meno di fare sesso. Persone, insomma, impossibilitate a diventare
maschi adulti. Questo genere di pressioni porta a grande aggressività verso chi, in una
concezione patriarcale, è percepito come più debole: le donne, dunque. Un fenomeno che
attraversa tutte le regioni arabe ma non è specificamente arabo, distinzione che va fatta in
un’epoca di eccezionalismi legati al mondo islamico».
Al telefono dal Cairo le fa eco Noora Flinkman, attivista dell’associazione egiziana
HarrasMap che si occupa di prevenire le molestie sessuali, attiva nel Paese già prima dei
fatti di Piazza Tahrir: «Sui giornali europei e sui social si sta facendo molta confusione sul
significato di Taharrush gamea: che è il termine arabo per indicare le molestie sessuali di
gruppo, non certo un rituale definito, una qualche tradizione culturale. Non che questo
renda i fatti di Colonia meno gravi, sia chiaro».
Ok, gli uomini che molestano le donne sono uguali in tutto il mondo: e le molestie non
sono una novità, nemmeno in Europa. Ma in Egitto secondo una ricerca pubblicata due
anni fa il 99,3% delle donne ha dichiarato di aver subito un qualche tipo di molestia.
Davvero possiamo dire che non c’è una specificità culturale o religiosa? «Il problema è
l’altissimo livello di tolleranza che atti di questo genere suscitano» replica Flinkman. «Ma
non direi culturale nel senso di arabo: semmai nel senso di maschile. In Germania, come a
Piazza Tahrir, nessuno è intervenuto. È questa accettazione a essere gravissima. Ora i
giornali scrivono che a Colonia e nelle altre città della Germania è stato tutto
preorganizzato, cosa che per ora non siamo in grado di valutare. Una cosa simile è stata
detta anche qui, su Piazza Tahrir. Ma la triste verità è che non c’era nemmeno bisogno
che quegli atti fossero organizzati: la molestia è considerata talmente normale, che
seppure 1 o 5 o 10 agiva con uno scopo altre centinaia li seguivano. Perché sapevano di
passarla liscia. La considerano una cosa normale».
Eppure in Egitto le donne scendevano in piazza ugualmente, nonostante le violenze. La
percezione dei diritti è dunque così diversa fra uomini e donne nel mondo arabo? «Spesso
sì» dice El Feki: «perché le donne arabe oggi hanno molte più opzioni di una volta. Mentre
le opzioni degli uomini sono più o meno le stesse dei loro nonni».
del 12/01/16, pag. 27
Le signore delle start up che accendono la
scienza italiana
Dal pane per celiaci ai vestiti fatti di scorza d’arancio Le invenzioni del
futuro sono pensate dalle donne
RICCARDO LUNA
ORANGE FIBER
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SONO giovani, sono brave, hanno studiato in Italia e all’estero, parlano inglese quasi
sempre da dio, vivono in laboratorio fra provette e microscopi, e hanno avuto un’idea per
cambiare il mondo, ma davvero. Genetica, biotecnologie, nanomateriali: roba tosta. E si
sono messe a fare impresa. Sono la prima generazione di donne startupper. Stanno
arrivando spiazzando tutti i radar, smentendo le statistiche che dicono che, fra chi fa
startup, le donne sono al massimo una su dieci; e il luogo comune che vuole che in campo
scientifico le donne non siano mai abbastanza. Vero, verissimo purtroppo (anche se siamo
il Paese di Rita Levi Montalcini e Fabiola Gianotti). Ma poi arrivi al Politecnico di Milano,
una mattina di gennaio, per assistere alle presentazioni dei 19 finalisti di BioUpper, i 19
migliori progetti per startup sulle scienze della vita selezionati per un colosso del farmaco
come Novartis, e scopri che la metà dei progetti è guidata da donne e che la metà di
questa metà ha team di sole donne. Tutte donne, scienziate e imprenditrici.
Una cosa mai vista, eppure qualche segnale nel 2015 c’era. A dicembre a Cosenza, alla
finale del Premio Nazionale Innovazione, che premia le migliori startup in ambito
universitario, vince New Gluten World, il brevetto di Carmela Lamacchia, 44 anni,
professoressa e ricercatrice di Foggia che ha fatto una scoperta sul grano bruciato che
potrebbe cambiare per sempre la vita dei celiaci (e intanto ha convinto il re del grano
Pasquale Casillo a investire quasi 2,5 milioni di euro nello sviluppo del prototipo). A luglio il
colosso Qualcomm Robotics sceglie 10 startup in tutto il mondo da sostenere: una,
Solenica, è una lampada robotica ideata dalla giovane biotecnologa romana Diva Tommei.
E ad aprile Orange Fiber, fondata da Adriana Santanocito e Enrica Arena a Catania, per
fare tessuti con gli scarti delle arance, vince il primo premio assoluto delle Nazioni Unite
per la sostenibilità.
Casi belli ma isolati, che stanno diventando una valanga rosa (o meglio, una Nuvola Rosa,
dal nome del progetto con il quale Microsoft ogni anno cerca di promuovere
l’imprenditorialità femminile). Le loro storie di successo sono ancora tutte da scrivere, le
finaliste di BioUpper sono tutte o quasi al giorno uno. Ma è quello che hanno fatto fin qui
che sorprende e che emoziona.
All’università di Napoli per esempio c’è Rossella Tomaiuolo, 44 anni, professore di
Medicina da laboratorio; un anno fa incontra Federica Cariati, 29 anni, appena tornata da
un anno a Oxford. Passano giorni e notte in laboratorio assieme, studiando l’infertilità; con
loro c’è Valeria D’Argenio, 35 anni, che si è laureata con la prof e ora è ricercatrice. Le tre
inventano One4Two, un sistema che facilita la diagnosi dell’infertilità. «Fare una startup
vuol dire mettersi totalmente in gioco», riflette Tomaiuolo, «ma non c’è scelta, i fondi sono
finiti e non c’è altro modo per trovarli e dare opportunità ai giovani ricercatori. Gli uomini?
Non li abbiamo mica esclusi, ma devo dire che stiamo benissimo così». Sono tutte donne
anche quelle di Clover Therapeutics, un sistema per il rilascio controllato dei farmaci che
punta a migliorare la somministrazione della chemioterapia. Ada Potenza ha 30 anni, Vita
Guarini 27, Valeria Rizzello 32. Sono nate fra Lecce e Bari, si ritrovano ad un corso di alta
formazione un anno fa: la ricerca non basta, provano la via dell’impresa, hanno un’idea
per curare il cancro alla vescica, vincono un primo bando da quasi 100mila euro in Puglia,
ora proveranno a realizzare una piattaforma aperta ad altre patologie.
Su una strada simile si sta muovendo un team dell’Istituto Italiano di tecnologia di Genova:
dietro a Fluo Magneto ci sono Maria Elena Materia e Teresa Pellegrino, anni di laboratorio
alle spalle studiando le nanoparticelle magnetiche, possibile alternativa alla chemio.
Tra la Brianza e Losanna sta nascendo Math2Ward: il leader è un luminare della
matematica, Alfio Quarteroni, ma il team è tutto femminile, tre giovani laureate del
Politecnico di Milano: Claudia Colciago, Valeria di Marco e Chiara Riccobene. «Vogliamo
realizzare uno strumento matematico che possa servire al medico in corsia».
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 12/01/16, pag. 16
Scoppia la rivolta anti-trivelle di Regioni e
ambientalisti Guidi: “Sono solo ricerche”
La Puglia ricorre contro il governo. Fai: “Decisione inaccettabile”. La
Consulta rinvia sul referendum
LIANA MILELLA
ROMA.
È “guerra” sulle trivelle petrolifere. Le Regioni contro il governo. Il ministro Guidi, titolare
del Mise, contro le Regioni e a difesa dei suoi decreti del 22 dicembre per cercare petrolio
nelle Tremiti, a Lampedusa, in Abruzzo, nel golfo di Taranto. Gli ambientalisti furibondi con
Guidi, al punto che il Verde Bonelli chiede a Mattarella di intervenire. Ma a sera ecco la
mossa a sorpresa del governatore della Puglia Emiliano che annuncia un conflitto di
attribuzione contro il governo davanti alla Corte costituzionale perché il 23 dicembre ha
cambiato la legge sulle trivelle per bloccare i referendum “notriv”. Negli stessi minuti il
comitato promotore dei sei quesiti chiede alla Consulta di rinviare la camera di consiglio
già fissata per domani mattina. Richiesta accolta, se ne parlerà in futuro. Nel frattempo
sarà recapitato alla Corte il conflitto che dovrà essere deciso prima dell’ammissibilità del
referendum. Se la Corte dovesse dar ragione ad Emiliano e alle altre dieci Regioni,
potrebbero rivivere anche gli altri 5 referendum.
Ma in questo durissimo scontro non è affatto escluso che il governo possa tornare indietro
sia sulla proroga dei giacimenti «fino all’esaurimento », sia sulle autorizzazioni concesse
da Guidi. Proprio quei permessi hanno scatenato la rissa. Rilasciati il 22 dicembre, prima
che la legge di stabilità vietasse qualsiasi nuova perforazione entro le 12 miglia. Un blitz
sotto Natale. Ovviamente Federica Guidi smentisce. «Polverone pretestuoso e
strumentale, non c’è nessuna nuova perforazione, ma solo permessi di prospezione
geofisica ». Inoltre siamo «ben oltre le 12 miglia ». Ma il Verde Bonelli fa subito i conti:
«Caro ministro Guidi, a voler essere pignoli a Tremiti la distanza è di 11.878 miglia, siamo
al limite del limite del limite...». Non basta. Ombrina Mare, in Abruzzo, rientra nelle 12
miglia. Bonelli spiega che «prospezione » significa «un permesso per cercare petrolio
attraverso l’air-gun, esplosioni devastanti che alterano il biosistema marino». Permessi
«propedeutici al rilascio di quelli per la cosiddetta “coltivazione degli idrocarburi”». Il
mondo degli ambientalisti è in subbuglio, Legambiente, Wwf, il Fai, che parla di una
decisione «inaccettabile e incomprensibile, di cui Renzi dovrà spiegare le ragioni».
Certo è una scelta che fa infuriare di brutto Michele Emiliano perché il governo «ha
mentito alle Regioni». Trama semplice. Che il governatore pugliese denuncia: «Il governo
aveva promesso di ritirare tutte le autorizzazioni concesse fino a quel momento ». Ancora:
«In nessuna occasione sono stato avvisato dal Mise che il 22 dicembre sarebbe stata
concessa da 12esima autorizzazione in Puglia». Già, quella delle Tremiti. Il retroscena è
svelato. Il governo cambia la legge per evitare i referendum e promette che non ci saranno
nuovi permessi, ma solo proroghe. Ma il Mise autorizza ricerche, e quindi altrettanti titoli
minerari, proprio sotto il naso delle Regioni. Protesta il veneto Zaia, «non svendo Venezia
per 2mila euro...». La battaglia è appena cominciata.
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del 12/01/16, pag. 17
Gli abitanti dell’arcipelago pronti al presidio davanti al ministero contro
le trivellazioni
“Non distruggete le isole di Dalla
noi delle Tremiti faremo resistenza”
GIULIANO FOSCHINI
ANNA PURICELLA
L’INCHIESTA
«SIAMO NOI, SIAMO IN TAN-TI, ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti, dei
linotipisti, siamo i gatti neri, siamo i pessimisti, siamo i cattivi pensieri, e non abbiamo da
mangiare». Non ci sono parole migliori di quelle di Lucio Dalla, che proprio su uno scoglio
delle Tremiti scrisse “Com’è profondo il mare”, per raccontare questa battaglia di «cattivi
pensieri» che la gente dell’isola ha deciso di combattere contro chi, in nome di pochi
spiccioli (duemila euro all’anno), vuole bucare tutto quello che hanno: la bellezza, che poi
altro non è che la loro libertà.
«Pessimisti» perché la gente delle Tremiti continua a non credere al Governo che giura
che mai nessuno andrà lì davanti a scavare, dove le diomedee (creature mitologiche, sono
i compagni di battaglia di Diomede, trasformati in uccelli dagli dei) vanno a cantare i loro
sospiri e lamenti, tanto simili a un canto d’amore. «Andremo a Roma a bivaccare davanti
al palazzo del ministero per lo Sviluppo economico. Siamo in pochi, noi tremitesi, ci
basterà salire su un autobus » dice il sindaco Antonio Fentini, ironico, ma non troppo. Il
decreto del Governo li ha mandati su tutte le furie. Per lo sfregio alla natura, per la cifra da
elemosina, e ancora di più oggi dopo aver letto l’interrogazione di Sel depositata al
ministro Guidi. Nella quale si racconta una storia davvero incredibile: «La Petroceltic Italia
- ricostruisce Giovanni Paglia, che fa parte della commissione Bilancio alla Camera - ha
una situazione così compromessa da un punto di vista finanziario che essa stessa,
ammette, in una nota ufficiale, di avere una liquidità sufficiente ad arrivare al massimo alla
fine di gennaio. Sono segnalati 217,8 milioni di esposizione verso istituti finanziari, a fronte
di 28 milioni di liquidità, di cui 24 milioni in valuta estera non convertibile. Ora, com’è
possibile che a una Srl italiana con 3 addetti, controllata da un gruppo estero che
manifesta esplicitamente la propria incapacità di fare fronte ai propri impegni finanziari, al
punto da non poter garantire la propria continuità aziendale, siano stati confermate le
concessioni in Italia?» chiede Sel al Governo. Il timore è che, in realtà, la società sia stata
ceduta ad altri, in forza proprio delle concessioni rilasciate alla vigilia di Natale. «Ma non
l’avranno vinta - giura il sindaco - A cosa servono un paio di migliaia di euro per una
comunità che ha faticato tanto per crescere, passando dalla pesca al turismo? Il governo
vuole mandare tutti i nostri sforzi all’aria, per due gocce di petrolio».
I 130 abitanti, in inverno, di San Dominino e San Nicola assomigliano al Postino di
Massimo Troisi: hanno la stessa forza, uguale ingenua poesia. «Che senso avrebbe
guardare l’orizzonte e annusare petrolio?». Andrea Faccani è il cugino di Lucio Dalla.
Ricorda quando nel 2011 si organizzò un grande concerto con Gigi D’Alessio e Renato
Zero, proprio per opporsi alle trivelle. «Questi posti erano casa di Lucio – racconta oggi,
con la voce ancora emozionata – Quando gli chiedevano di diventare sindaco rideva, e poi
proponeva sempre me. È una follia, l’ipotesi di deturpare quel mare».: «Questa è una zona
protetta – dice Carla Martella dell’hotel San Domino – E noi siamo tutti uniti. Noi viviamo di
turismo: il mare è la nostra storia, ma anche il nostro pane». «Perché continuano a tentare
la sorte – si chiede Francesco Corbedda dell’hotel Rossana – quando non c’è nessun
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tornaconto per l’Italia? Non solo le Tremiti, ma l’intero Adriatico dovrebbe essere tutelato
». «Ci stiamo già organizzando – dice Pio Luigi Staniscia del ristorante “Da Pio” –
Scenderemo in piazza, bloccheremo navi e barche. Non la prenderemo alla leggera».
Padre Massimo è siriano. Da cinque anni è venuto a dire messa nella parrocchia di Santa
Maria a Mare, l’unica delle isole. «Questo è un paradiso. E questa è una guerra: il popolo
sta subendo decisioni prese dall’alto. Il Papa nella sua enciclica parla di natura. Dunque,
parla di noi: stanno distruggendo la nostra casa, non lo permetteremo». «Nel cielo sicura,
cominciò una guerra, Per conquistar quello scherzo di terra. che il suo grande cuore
doveva coltivare», diceva Lucio Dalla. «Com’è profondo il mare ».
del 12/01/16, pag. 22
Terra dei Fuochi: emergenza bimbi
di Margherita De Bac
Aumento di bambini ricoverati per tutti i tumori nel primo anno di vita, eccesso di
«incidenza e di ricoverati per tumori del sistema centrale nervoso tra uno e 14 anni»: sono
i dati choc dell’Iss.
ROMA I bambini più vulnerabili sono quelli che vivono in zone povere e socialmente
degradate, dichiarano l’Organizzazione mondiale della sanità e diversi organismi scientifici
con indagini sempre più dettagliate. Una conferma viene dal rapporto dall’Istituto superiore
di sanità (Iss) sullo stato di salute della Terra dei Fuochi, disseminata di discariche illegali,
rifiuti che potrebbero costituire un’ulteriore causa di malattia per l’uomo.
Nell’aggiornamento dei dati raccolti fino allo scorso anno la novità riguarda la popolazione
infantile. Aumento di bambini ricoverati per tutti i tumori nel primo anno di vita, eccesso di
«incidenza e di ricoverati per tumori del sistema centrale nervoso tra uno e 14 anni».
Queste le criticità riportate nella sintesi dello studio epidemiologico coordinato da
Loredana Musmeci, il progetto «Sentieri». La responsabile del dipartimento che si occupa
delle interferenze ambiente-salute però aggiunge: «Non arriviamo a conclusioni affrettate.
Molti aspetti della questione vanno indagati. Ad esempio allargare lo studio a tutti i Comuni
dell’area incriminata, oltre ai 55 elencati dalla legge del 2014».
La senatrice dei 5 Stelle Paola Nugnes è invece perentoria nelle sue affermazioni:
«Nessun dubbio tra inquinamento ambientale e cancro e eccessi di mortalità, il governo
intervenga con urgenza. Non serve aspettare».
In realtà non esiste l’evidenza scientifica che sostanze cancerogene contenute nei rifiuti
vengano trasmesse attraverso l’ingestione di alimenti contaminati e producano danni
all’organismo. Nelle conclusioni gli epidemiologi chiariscono infatti che i fattori ambientali
«potrebbero essere causa o concausa» di mortalità e patologie.
I ricercatori ritengono necessario un «approfondimento perché mentre l’associazione tra
smog e disturbi respiratori nell’infanzia è ampiamente documentata, è al momento difficile
individuare le cause ambientali dei tumori infantili». Gli esperti non escludono che
l’esposizione a «emissioni e rilasci dei siti di smaltimento e combustione illegale possano
aver svolto un ruolo».
Musmeci precisa: «Bisogna considerare il degrado generale del territorio, la condizione
economica e la precarietà dello stato sanitario. Mancanza di prevenzione, cattiva
alimentazione, stili di vita errati della donna nella delicata fase della gravidanza hanno
effetti negativi. Parliamo inoltre di una realtà dove la vita media è più corta di due anni
rispetto al resto d’Italia».
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Il lavoro dell’Istituto superiore di sanità conferma l’aumento di mortalità, patologie e ricoveri
nella popolazione adulta. Come nella prima stesura, quella del 2014, viene ribadita con
forza la necessità di bonificare il terreno dai rifiuti tossici.
del 12/01/16, pag. 26
Piano beffa per contenere il Savena: abbattuti 12 km di verde lungo gli
argini
Il bosco raso al suolo per evitare alluvioni e
Bologna dice addio a cinquantamila alberi
VALERIO VARESI
BOLOGNA.
A Parigi si è discusso come scongiurare il soffocamento da anidride carbonica, ma a
Bologna si tagliano gli alberi. Cinquantamila, secondo le stime del Wwf, sono spariti lungo
dodici chilometri del torrente Savena alle porte della città, mentre altri 30mila, stando alla
denuncia di Legambiente, sono minacciati dalla costruzione di un ramo della Complanare
cittadina e dall’ampliamento a quattro corsie della A14 fino alla svincolo per Ravenna.
Interi boschi, che i naturalisti definiscono «spugne assorbi-carbonio » spazzati via. Sul
taglio lungo il Savena il Wwf, assieme all’Unione bolognese naturalisti (di cui fanno parte
botanici dell’università), a Italia Nostra, alla Lipu e a una decina di associazioni
ambientaliste, presenterà un esposto di venti pagine alla procura della Repubblica dopo
che il Corpo forestale a sua volta aveva già inoltrato due denunce mesi fa. La vicenda
inizia nell’estate 2014 e si protrae fino all’agosto scorso. Il Comune di Pianoro, dopo due
esondazioni del torrente e di fronte all’ostruzione dei ponti, chiede un intervento di pulizia
dell’alveo al Servizio di bacino del Reno, un organismo regionale che ha la competenza di
autorizzare e controllare operazioni di questo tipo. L’ente concede il proprio assenso con
precise prescrizioni affinché la bonifica sia «selettiva». Si possono tagliare solo gli alberi
«secchi, ammalorati, inclinati, creciuti a ridosso della strada o dentro l’alveo». Il Comune
bandisce quindi un appalto vinto da tre ditte toscane con la formula «a compensazione»,
vale a dire a costo zero per il Comune stesso perché i lavori vengono pagati con il
legname disboscato. Questo significa che il guadagno è direttamente proporzionale alla
quantità tagliata. E in effetti l’abbattimento diventa massiccio e comincia addirittura da una
zona protetta a ridosso del contrafforte pliocenico dove è proibito intervenire. Il Comune
blocca il tutto quando però le motoseghe hanno già raso al suolo 2700 metri di
vegetazione (30mila secondo il Wwf). A parte l’incidente, che provoca la denuncia della
Forestale, la “pulizia” dell’alveo continua per dodici chilometri. «Un intervento necessario
— sostiene il sindaco di Pianoro Gabriele Minghetti — dopo gravi esondazioni e cinque
ponti ostruiti dai tronchi. Ora è tutto più sicuro e la vegetazione sta già ricrescendo». Ma
per Fausto Bonafede — botanico del Wwf — il danno è enorme. Oltre alla perdita di
vegetazione, il rischio è che alle specie autoctone, si sostituiscano quelle infestanti come
la robinia e l’alianto. Interventi come questi, a decine solo in Emilia-Romagna, vanificano
gli sforzi per migliorare la qualità dell’aria e compromettono il paesaggio».
Nell’esposto, il Wwf, oltre a ricostruire la vicenda e rimarcare lo sconfinamento in un’area
di interesse naturalistico per biodiversità senza una preventiva valutazione di incidenza,
condanna la formula dell’appalto «a compensazione» che invoglia le ditte ad attuare tagli
indiscriminati per incrementare i guadagni senza rispondere a quei criteri «selettivi»
prescritti dalla Regione. La denuncia si sofferma anche sulla costruzione di un arginello di
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contenimento ai lati del torrente in cui sarebbero stati mescolati all’argilla anche scarti di
lavorazioni edili. Sulla vicenda si incrociano due opposte idee di gestione dei corsi
d’acqua. Una di tipo idraulico e l’altra in cui prevale una visione di ecosistema.
«È oggettivo che adesso il torrente è più sicuro e regge le piene» afferma il sindaco
preoccupato per l’incolumità dei cittadini. «Gli alberi ostacolano la corrente e provocano
esondazioni». Versione opposta a quella del Wwf: «Al contrario, rallentano la corrente e
difendono le sponde» spiega Bonafede.
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INFORMAZIONE
del 12/01/16, pag. 22
Storie di giornalisti minacciati: la Rai si
ricorda di essere servizio pubblico
Arnaldo Capezzuto e altri cronisti che spesso scrivono per pochi euro e
con molte minacce
di Antonio Padellaro
Raccontata sabato scorso da Cose nostre (RaiUno, ore 23:40), la vicenda di Arnaldo
Capezzuto, cronista di nera minacciato di morte per aver raccontato le faide di camorra
che hanno insanguinato il rione napoletano di Forcella, è la storia della corda che
strangola l’informazione, soprattutto al sud. Un dramma professionale e umano di cui il
Fatto aveva scritto nell’agosto scorso sulla base dell’ultimo rapporto della commissione
Antimafia, presieduta da Rosy Bindi.
Un quadro impressionante: intimidazioni quotidiane, undici giornalisti caduti sotto i colpi
delle mafie e del terrorismo, venti quelli che vivono sotto scorta.
Eppure, era sembrato che la relazione di Claudio Fava fosse passata sotto silenzio, come
se il bavaglio fosse ormai una condizione normale a cui rassegnarsi, e senza tante storie.
Poiché in quei giorni s’insediavano i nuovi vertici Rai, provammo a chiedere (non si sa
mai) ai colleghi Maggioni, Freccero (e agli altri giornalisti componenti il Cda) un impegno a
portare queste storie in prima serata, realizzando così un doppio servizio pubblico. Aiutare
un giornalismo coraggioso e di trincea. Dimostrare nei fatti che il povero cavallo di viale
Mazzini può non essere simbolo soltanto delle solite spartizioni.
Sarà stato certamente un caso, ma poche settimane dopo è stato varato “Cose nostre”,
programma firmato da Emilia Brandi, insieme a Giovanna Ciorciolini e Tommaso
Franchini, con la regia di Andrea Doretti.
A notte fonda (non si può avere tutto) e su RaiUno, la rete di Giancarlo Leone che questa
volta fa notizia non per le lancette anticipate di Capodanno o per una bestemmia. Nessuna
antimafia di comodo ma la televisione capace di raccontare, quella che scende nei vicoli
dove fu uccisa per sbaglio, durante una sparatoria, la piccola Annalisa Durante.
Quella che, fuori da ogni retorica, sa riempire di realtà un tentativo quasi disperato di
riscatto: la libreria aperta a Forcella da Giovanni Durante, papà di Annalisa, presidio di
carta e scudo civile al piombo degli assassini. A guidarci in questo mondo a parte, a due
passi dalla stazione di Napoli Centrale, c’è Capezzuto, testimone di un’altra via crucis,
quella dei giornalisti costretti a scrivere, per pochi euro e nell’ombra di qualche testata
locale notizie fastidiose per quel politico o quel boss.
Spesso con editori più attenti a non scomodare il potente di turno piuttosto che a difendere
il diritto costituzionale alla verità. Cronisti testardi a cui incendiano l’auto o minacciano i
figli e che se non stanno attenti possono fare la fine di Giancarlo Siani, ucciso perché “non
si faceva i fatti suoi”. Cronisti precari o che restano senza un giornale, come Arnaldo che
oggi scrive di “notizie oscurate” sul blog del fattoquotidiano.it. Cronisti da difendere come
una specie in via d’estinzione perché può succedere che, alla fine, per quei quattro soldi e
una vita difficile può venire voglia di gettare la spugna. Seguiranno altre quattro storie di
cronisti coraggiosi, quattro riflettori accesi per aiutarli a tenere duro. Come ognuno
dovrebbe fare nel nostro mestiere. Sì, sono Cose nostre. Cose di tutti.
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del 12/01/16, pag. 14
Rai, il dirigente del countdown errato “A
Capodanno si è sempre fatto così”
Azzalini, responsabile dello show del 31 dicembre, risponde alle
contestazioni dell’azienda “Ero certo che Leone condivideva”. In una
memoria tutti gli orari di mezzanotte “spostati”
ALDO FONTANAROSA
Telegiornali che iniziano prima del tempo, per rubare la scena tv ai notiziari della
concorrenza. Trasmissioni come
L’Arena, La Prova del Cuoco, L’Eredità che usano la stessa tecnica: giocare d’anticipo. E
conti alla rovescia che non rispettano più l’appuntamento con la mezzanotte, il 31
dicembre, da molti anni ormai. Funziona così su RaiUno. Dove gli orari - «per una
consolidata prassi aziendale» - sono diventati flessibili. Dove si anticipa o si rinvia per una
consuetudine a tutti nota, in modo da ottenere «picchi d’ascolto» e fronteggiare i morsi
delle altre emittenti.
Antonio Azzalini si difende così. Alla Rai che gli muove una contestazione disciplinare, il
responsabile dell’intrattenimento della Prima Rete - il dirigente che ha anticipato di 40
secondi il Capodanno di Matera - ricorda ora in una memoria la «prassi » generalizzata
«della anticipazione ». Una truffa forse a danno degli italiani? No, solo una tecnica propria
del settore televisivo. Azzalini - dirigente di lungo corso, assunto a Viale Mazzini nel 1999 cita anche il direttore di RaiUno Leone e il suo vice, Fabiano. La sua lettera - il cui
contenuto arriva a Repubblica da un deputato del Pd - suonerebbe così: avevo i miei
motivi per credere che i due massimi responsabili della Prima Rete «condividessero la mia
decisione di anticipare» alla luce anche del copione in scena in altri 31 dicembre. Qui
Azzalini citerebbe la trasmissione del 2008 (quando Leone era Direttore del
Coordinamento dei Palinsesti), con il countdown di Capodanno anticipato di 65 secondi.
Azzalini risponde poi sull’sms con bestemmia che è apparso sullo schermo il 31 dicembre,
anch’esso oggetto di contestazione disciplinare. I messaggi dei telespettatori spiega sono stati valutati da due dipendenti di RaiCom (la società commerciale di Viale Mazzini),
chiusi in un container. A giudizio di Azzalini, Rai-Com ha svolto questo controllo in veste di
«appaltatore» della casa madre Rai. Sua, dunque, la responsabilità di quanto è finito in
onda. Lui, Azzalini, avrebbe comunque mobilitato un collaboratore per dare una mano, ma
questo aiuto «è stato rifiutato». Impossibile dunque «prevenire» la bestemmia «con le mie
forze, con i miei poteri».
Fin qui la difesa di Azzalini. Oggi invece incontro tra il nuovo direttore editoriale della tv di
Stato, Verdelli, e i direttori dei tg. Che d’ora in poi dovranno riferire «funzionalmente» a
Verdelli. Così impone una nuova disposizione organizzativa.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 12/01/16, pag. 36
Trasformista, androgino, fuoriclasse della musica, David Bowie è morto
a New York a 69 anni. Durante la lunga carriera ha reinventato il suo
personaggio lasciando il segno nel mondo dell’arte
Il duca del rock
GIUSEPPE VIDETTI
PENSAVAMO fosse il lugubre presagio di un secolo che fa scempio della bellezza, in
realtà la stella nera era un muto epitaffio. O forse entrambe le cose. David Bowie, al
secolo David Robert Jones, ucciso dal cancro domenica notte a New York dopo aver
lottato per 18 mesi, aveva coscientemente concepito Blackstar, l’album pubblicato l’8
gennaio (giorno del 69° compleanno), come un addio definitivo, lo conferma anche lo
storico produttore Tony Visconti, che sta allestendo un tribute concert alla Carnegie Hall
per il 31 marzo. Sapeva che il tempo era scaduto, che gli restavano solo minuti per dire
l’ultima. Chissà quanti avranno abbassato gli occhi per aver denunciato la sua incapacità
di scrivere un’altra Space oddity o un’altra The Man who sold the world o un’altra Life on
Mars mentre lui porgeva al mondo il De Profundis più vicino alle dissonanze berlinesi di
fine anni 70 (la trilogia Low, Heroes e
Lodger; «Sei tra gli Heroes. Grazie per aver aiutato a far cadere il Muro», ha twittato il
ministero degli Esteri tedesco) che alle canzoni più celebri.
Tre milioni di tweet in quattro ore: non per celebrare o rimpiangere, ma per dire grazie. Dai
Rolling Stones, ovvio. Da Iggy Pop, ovvio. Da Madonna, ovvio. Ma anche da Cameron e
Blair, da Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, e da Gianfranco Ravasi,
presidente del pontificio consiglio della Cultura.
Bowie era figlio di un’epoca dove l’arte non aveva confini e non era vittima del
conformismo. Oggi, a riascoltarla, Space oddity (che nel 1969 ebbe una tiepida
accoglienza, anche nella insipida versione cantata in italiano) è una sofisticata canzone da
hit parade. Per Bowie fu l’inizio di quell’ossessione spaziale che avrebbe illuminato i
capolavori pre e post Ziggy Stardust. Fu un geniale coup de théâtre a trasformarlo in idolo.
Quando nel 1972 The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars diede una
sterzata violenta al corso della pop culture, Bowie era già al quarto album - e non era più
soltanto rock. Aveva sublimato il Kubrick di 2001: Odissea nello spazio, vampirizzato
Lindsay Kemp e Andy Warhol, succhiato da Nietzsche e Orwell. Si era intossicato di
Jacques Brel, Scott Walker e Anthony Newley. Prepotentemente, stava scippando lo
scettro non alle mezze calzette di Top of the Pops ma al Sinatra degli anni d’oro (il mondo
l’avrebbe capito dopo gli exploit cinematografici e la full immersion da crooner in Wild is
the wind).
Nessun altro è stato in grado di calarsi anima e corpo in un personaggio come Bowie in
Ziggy Stardust, l’alter ego che l’ha trasformato in culto, una rockstar aliena venuta a
portare messaggi di speranza sulla terra e divorata dall’adorazione dei fan. Per riuscirci
mise in atto tutte le strategie di un secolo di show business. In quel debutto al Rainbow
Theatre di Londra nel ’72, Bowie era già posseduto da Ziggy, un rocker asessuato eppure
sensualissimo, Judy Garland e Liberace fusi in un nuovo, immaginifico, rivoluzionario divo
interstellare. Non si risparmiò: la cocaina per mantenere il controllo (complice l’allora
moglie Angie, che oggi, dopo aver appreso la notizia ha preferito restare nella casa del
Grande Fratello made in UK), la mimica straordinaria, l’abilità del trasformista,
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l’ostentazione di una sfacciata bisessualità – era il delirio in sala quando s’inginocchiava
davanti al chitarrista Mick Ronson e mimava un rapporto orale. Se non fosse stato il genio
che era, non ne sarebbe più uscito; Ziggy – che ancora non la finisce di essere citato e
riciclato in servizi fotografici e collezioni di moda: il make-up, il taglio, il pel di carota, le
tutine spaziali - sarebbe diventata la sua maschera di ferro, lo avrebbe condannato alla
malinconica routine dei revival show. Invece dopo un anno, il mondo ai suoi piedi, mandò
alla ghigliottina la sua creatura con un concerto all’Hammersmith Odeon di Londra filmato
da D.A. Pennebaker (autore del leggendario Don’t look back di Dylan). Prima di cantare
Rock’n’roll suicide, bistrato, stravolto, emaciato, sputò nel microfono: «Non solo è l’ultimo
concerto del tour, ma l’ultimo in assoluto che faremo ». Si scatenò il pandemonio, i fan non
avevano capito che Ziggy si stava suicidando per far rinascere Bowie. Fu un anno di gloria
e distruzione che gli avrebbe garantito a vita il privilegio che aveva invidiato a Jackson
Pollock e a Bob Dylan, libertà anche a costo della follia. Da quel momento, niente più
confini: il piacere del déjà-vu (l’album di cover Pin- ups) e l’edonismo esasperato ( Aladdin
sane), imagerie postbelliche ( Diamond dogs) e escursioni nella black music ( Young
Americans), cinema ( Gigolò, Miriam si sveglia a mezzanotte, L’uomo che cadde sulla
terra, Furyo, Labyrinth, Basquiat) e pittura, avanguardia con Brian Eno (che ha ricevuto
l’ultima mail da Bowie una settimana fa: «Divertente e surreale come sempre. Grazie per i
bei vecchi tempi, rimarranno intatti, scriveva. Si firmava Dawn (alba). Solo ieri ho capito
che era un addio ») e clamorose (auto)celebrazioni (Live Aid, Freddie Mercury Tribute),
duetti memorabili (con Bing Crosby, Mick Jagger, Annie Lennox, Tina Turner, Iggy Pop,
Queen) e progetti paralleli (Tin Machine), collaborazioni insolite (John Lennon e Luther
Vandross, ma anche Moby e Arcade Fire) e fulminanti apparizioni nei talk show
(impressionante quella in cui esangue e visibilmente “cocainato” tiene testa alle sciocche
domande di Dick Cavett).
Dopo la separazione da Angie, dalla quale aveva avuto il figlio Duncan Jones, il regista
44enne di Moon che ieri ha dato la notizia del- la scomparsa, Bowie aveva sposato a
Firenze la top model Iman (la figlia Alexandria Zahra ha quindici anni) e si era trasferito a
New York. Era chiaro, dalle foto rubate dai paparazzi, che non stava invecchiando come
una glam-star, e neanche come il Major Tom prepensionato di Ashes to ashes.
Avrebbe potuto dare ancora molto, come Jagger o Mc Cartney, invece se n’è andato dopo
aver realizzato il sogno di un musical Off-Broadway ( Lazarus, tutt’ora in scena). Nella
fretta di scrivere la parola «terrore» nel suo testamento sonoro, non ha fatto in tempo a
produrre il tanto desiderato Ziggy Stardust teatrale di cui ci parlò nell’ultima intervista. A
chi, uno per uno, è stato toccato dalla sua grazia, non resta che farsi sussurrare per
l’ultima volta le parole di Jareth (il re dei Goblin che impersonava in Labyrinth): «Ho
sovvertito l’ordine del tempo, ho messo sottosopra il mondo intero e tutto questo l’ho fatto
per te. Non ti sembra abbastanza generoso?». Oppure, piangere.
del 12/01/16, pag. 46
Golden Globe
Vincono DiCaprio e Morricone
È stato Revenant - Redivivo il film trionfatore dei 73° Golden Globe, assegnati domenica
sera davanti a una Hollywood quasi al completo. Da solo si è portato a casa le statuette
come miglior film drammatico, miglior regia, Alejandro González Iñárritu, e miglior attore
drammatico a Leonardo DiCaprio.
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Commosso, l’attore sul palco ha voluto fare una dedica particolare del suo premio: «È un
onore incredibile per me. Revenant è un film sulla sopravvivenza e sulla fiducia e nessuno
merita più fiducia del regista Iñárritu. Condivido questo premio con le comunità indigene. È
arrivato il momento di riconoscere la cultura degli indigeni».
Ma quella dell’altra sera è stata anche la notte di Ennio Morricone, premiato per la miglior
colonna sonora di The Hateful Eight di Quentin Tarantino. È stato proprio il regista a
ritirare il premio per il compositore (arrivato così al suo terzo Globe) che non è potuto
volare negli Usa. E dopo aver detto che «Morricone è meglio di Mozart e Beethoven», ha
aggiunto: «Ennio a 87 anni ha creato una fantastica colonna sonora, lo ringrazio».
Tra gli altri premi, nella categoria miglior film commedia si è aggiudicato il Globe
Sopravvissuto - The Martian , diretto da Ridley Scott e, come previsto, il premio al miglior
film d’animazione è andato a Inside Out .
Una notte speciale anche per Sylvester Stallone, che quando ha ritirato il premio come
miglior attore non protagonista per Creed è stato accolto da una standing ovation.
Ultrafelice anche Brie Larson, miglior attrice drammatica per The Room e alla sua prima
nomination e Kate Winslet, che ha vinto come attrice non protagonista per Steve Jobs.
Matt Damon ha vinto invece come miglior attore nella sezione commedia per The Martian
e, nella stessa categoria è stata premiata Jennifer Lawrence per Joy .
Ma i Golden Globe assegnano riconoscimenti anche alla tv e qui a vincere come miglior
attrice è stata Lady Gaga con «American Horror Story». La cantante ha dato
involontariamente vita con DiCaprio anche a un siparietto diventato subito virale: l’attore
non si era accorto di averla alle spalle quando stava andando a ritirare il premio e,
inquadrato, rideva di gusto. Lei però, passando, gli ha colpito il gomito, sorprendendolo.
Gli altri premi della tv sono andati a Oscar Isaac per «Show Me a Hero» e a John Hamm
per «Mad Men». Premio alla carriera per Denzel Washington.
Giovanna Grassi
del 12/01/16, pag. 10
Un orizzonte di cittadinanza
Intervista. Salvatore Settis affronta il tema dell'offerta dei beni del
demanio e l'uso del patrimonio come brand. «Il rischio delle vendite? È
che si pensi che lo Stato stia battendo in ritirata. Bisogna sempre tenere
presente la funzione intimamente politica dell’arte».
Valentina Porcheddu
È stato annunciato in questi giorni sulla stampa l’accordo per il riuso di beni pubblici mirato
alla valorizzazione turistico-culturale e sottoscritto tra il ministro delle Infrastrutture e dei
Trasporti Graziano Delrio, il ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario
Franceschini, assieme al Presidente Anas Gianni Vittorio Armani e al Direttore
dell’Agenzia del Demanio Roberto Reggi. Il programma di riqualificazione riguarda, oltre le
1.244 Case Cantoniere che l’Anas possiede su tutto il territorio nazionale, anche immobili
di particolare interesse situati in prossimità di circuiti quali la Via Francigena o l’Appia
antica.
In attesa di poter valutare se il «formidabile brand» delle Case Cantoniere – così lo
definisce Franceschini – si rivelerà una reale opportunità di sviluppo sociale, economico e
culturale, ne abbiamo parlato con Salvatore Settis. L’ archeologo e storico dell’arte, ex
direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, ha partecipato l’8 gennaio a Roma ad un
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incontro a Palazzo Altemps per la presentazione del libro Villes en ruine : images,
mémoires, métamorphoses (Éditions Hazan 2015), curato dallo stesso Settis e Monica
Preti.
Centinaia di beni del demanio verranno progressivamente messi in vendita. Pensa
che nell’elenco degli immobili possano esser inclusi anche edifici di valore storico
artistico?
Moltissimi monumenti e persino giganteschi musei come la Galleria Doria Pamphili a
Roma, sono già in mano ai privati. Occorrerà valutare di volta in volta se la privatizzazione
può avere un effetto positivo sulla destinazione d’uso di un determinato edificio. Il Palazzo
Serra di Cassano – uno dei palazzi più insigni della città di Napoli – deve la sua
sopravvivenza all’Istituto di Studi Filosofici fondato da Gerardo Marotta, un istituto
benemerito la cui presenza virtuosa ha dato negli ultimi dieci anni al palazzo Serra di
Cassano una nuova funzione. Il rischio che c’è dietro a quest’operazione, lanciandola nel
modo in cui è stato fatto, è che si radichi nell’opinione pubblica l’idea che lo Stato è in
ritirata e che via via tutto quello che è pubblico possa diventare privato. Non credo che
questa sia l’intenzione attuale di chi governa il demanio ma andrebbe precisato che
mentre alcuni edifici possono essere dati in concessione con determinate regole, la gran
parte degli edifici di proprietà pubblica devono restare tali e essere impiegati per il pubblico
bene.
Il progetto lanciato dall’Agenzia del Demanio partirà dalle case cantoniere. Come
reputa il loro uso a scopo turistico?
Avendo ormai perso la loro funzione, la trasformazione delle Case Cantoniere in
infrastrutture di servizio o agriturismi, non può che esser positiva. D’altra parte, non
possiamo immaginare che ognuna di esse diventi un museo, perché l’Italia ridotta a
museo muore.
Così come gli stessi musei possono morire. Con la mostra «Serial Classic» – una
delle dodici mostre del 2015 da ricordare secondo Forbes – allestita alla Fondazione
Prada di Milano, lei ha dimostrato che l’arte antica è in grado di dialogare con l’arte
contemporanea e, in un certo senso, anche con la moda. Iniziative meno raffinate
della rassegna che ha curato con Anna Anguissola rischiano però, di far prevalere
la creazione contemporanea, arrivando a snaturare l’opera antica. Qual è il confine
da non superare per mantenere saldo il valore dell’arte del passato pur facendola
rivivere nelle diverse forme del presente?
Le mostre di arte antica devono essere rigorosamente scientifiche, devono saper parlare
agli specialisti e avere inoltre una capacità narrativa che si rivolge a un pubblico più ampio.
Nella mostra Serial Classic ho cercato di seguire questi princìpi che per me sono regola
assoluta. L’esposizione non aveva nulla a che vedere con la moda se non per il fatto che
la Fondazione Prada esiste perché esiste la ditta Prada. Non sarebbe mai venuto in mente
a me o a Miuccia Prada di realizzare una sfilata di moda in mezzo alle statue classiche. La
rassegna ha riscosso successo perché le opere esposte sono state cucite fra loro secondo
un filo narrativo intriso di storia e non solo di un’ammirazione iconica per una bellezza
astratta.
A proposito di «bellezza iconica», in una recente campagna pubblicitaria sul web,
divinità e personaggi mitologici rappresentati nei fregi del Partenone sono diventati
«modelli» per Gucci. Lo considera un abuso?
Purché non danneggino le opere, non considero gravi questo genere di pratiche. Ma
certamente non è questo il modo per dare all’arte antica un ruolo nella cultura
contemporanea. Le opere d’arte, antiche o contemporanee, sono una sfida a capire e a
pensare. Il compito dello storico o del curatore è di aiutare a raggiungere quest’obiettivo e
non di incuriosire con delle stravaganze. Mettere dei boa di piume – com’è accaduto per i
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Bronzi di Riace fotografati da Gerald Bruneau al Museo di Reggio Calabria – attorno a una
statua antica lo trovo frivolo, inutile e stolto.
Nel libro «Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace» (Donzelli 2015), ha usato i
bronzi di Riace come paradigma dell’incapacità degli operatori culturali – primi fra
tutti gli archeologi – a valorizzare le opere antiche inserendole in contesti che
producano emozioni e, allo stesso tempo, consapevolezze. Anche gli ultimi grandi
progetti pompeiani sembrano dimostrare che l’apparenza conti sempre più dei
contenuti, tanto che il sito campano si è trasformato in scenografia per tribune
politiche mentre altrove imperversano degrado e indifferenza. Come uscire da
questo impasse che caratterizza tutto il patrimonio italiano, dalla gestione dei siti a
quella dei musei?
Il caso di Pompei è emblematico. È chiaro che non si può risistemare un sito di enorme
importanza e dimensioni in poco tempo ed è ovvio che man mano che si procede con i
lavori ci siano delle inaugurazioni. Come diceva Ennio Flaiano, l’Italia è il paese delle
inaugurazioni e succede che le autostrade siciliane – inaugurate sei volte – siano ancora
chiuse. È inoltre una pessima abitudine della politica usare ogni circostanza per delle
photo opportunities. Io credo che la vera sfida del progetto Pompei – ma ciò compete non
tanto ai politici quanto al Soprintendente, che d’altra parte è archeologo di vaglia – sia di
far capire che l’obiettivo a cui si mira è il restauro dell’intera città. Soltanto rendendo
fruibile un pezzo di città e non un numero limitato di domus fotogeniche, si potrà
contrastare il sospetto che i grandi progetti a Pompei siano un’operazione di facciata.
Come possono convivere il piano estetico e il piano della politica?
La tendenza a estetizzare l’arte antica o le rovine può indurre a vedere la bellezza anche
nella distruzione. Qualcuno arrivò persino a considerare il crollo delle Torri Gemelle come
una performance di terribile bellezza. Estetizzare la distruzione e, in generale, l’arte antica
significa rinunciare alla responsabilità. Bisogna intendere la funzione intimamente politica
dell’arte e delle immagini non nel senso del significato che la parola politica ha finito per
assumere e dunque del mestiere di chi siede alla camera o al senato o nei governi
regionali, ma intendendo la politica secondo la sua etimologia e genealogia culturale vale
a dire il discorso dei cittadini all’interno della polis. Non c’è nulla di più politico della rovina
perché essa esprime una tensione fra chi l’ha voluta e chi l’ha fatta, fra chi ha voluto il
monumento intero e chi l’ha distrutto. Un uso politico della rovina e dell’arte – ciò che ho
tentato di evidenziare nella mostra Serial Classic – vuol dire collegare la percezione della
rovina a un orizzonte di cittadinanza e diritti. Non farlo e trasformare tutto in icona, si tratti
dei Bronzi di Riace o delle rovine di Palmira, vuol dire rinunciare alla responsabilità
intellettuale sia dello specialista che del cittadino.
A Trafalgar Square verrà esposta una copia della porta del Tempio di Bêl di Palmira,
l’unico elemento architettonico che ha resistito all’esplosione. Diverse università al
mondo hanno progetti di restituzione in 3d della Città carovaniera e non è escluso
che un giorno i monumenti distrutti dall’Isis vengano ricostruiti «in situ». È questo
un modo «lecito» o utile per perpetuare una memoria o si tratta di una sorta di
giustificazione, un modo per dire che tutto è ripetibile? Insomma, il «falso» può
colmare la nostalgia e la perdita?
Credo che nulla possa sostituire un monumento importante che è andato perduto. A volte,
però, ricostruirlo nel luogo in cui è stato distrutto ha un valore, per così dire, contestuale. Il
campanile di San Marco a Venezia cadde nel 1902 senza fare vittime. Dopo una lunga
discussione fu deciso di ricostruirlo com’era e dov’era non tanto per il campanile stesso
ma perché l’immagine della piazza San Marco aveva bisogno di quell’elemento.
Un altro esempio, che si avvicina maggiormente al caso di Palmira, è il ponte della Santa
Trinità a Firenze, abbattuto durante la seconda guerra mondiale. Anche in questa
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circostanza, il ponte venne ricostruito non tanto per la sua architettura – per quanto essa
fosse particolarmente sofisticata – ma piuttosto per ricucire il legame con la città.
Riproporre un pezzo di Palmira a Trafalgar Square la vedo come un’installazione artistica
e simbolica, una dichiarazione di principio che condanna la distruzione ma non pretende di
sostituire l’originale.
del 12/01/16, pag. 52
Scaduti i diritti sugli scritti del duce studiosi di destra e sinistra
riscoprono le memorie della grande guerra
Mussolini senza copyright tornano i diari
dimenticati
SIMONETTA FIORI
Tutti pazzi per Mussolini? Parrebbe di sì, solo a guardare gli scaffali delle librerie. Dove
sono appena arrivate ben cinque edizioni del diario di guerra di Mussolini, ossia le
cronache dal fronte pubblicate sul “Popolo d’Italia” tra il dicembre del 1915 e il febbraio del
1917. Il Mussolini soldato, non ancora duce, ma già sapiente artefice di
un’autorappresentazione che gli sarebbe tornata utile.
L’inatteso fenomeno editoriale sembra contagiare geografie culturali ed editoriali molto
distanti, dalla sinistra di Mario Isnenghi e Mimmo Franzinelli alla destra postfascista di
Alessandro Campi, fino a toccare le sponde
eversive e criminali di Franco Freda, sì lui, il terrorista, responsabile insieme a Ventura
della strage di piazza Fontana, che incredibilmente sopravvive come editore di Ar (marchio
distribuito da una libreria di Avellino). E accanto a questi lavori c’è anche il journal
mussoliniano curato da Denis Vidale per la Biblioteca dei Leoni. A tenerli insieme, nella
siderale lontananza, la comune riscoperta di un testo ovviamente riproposto più volte nel
ventennio nero, poi rimasto sepolto nell’opera omnia mussoliniana e di fatto ignorato dalla
storiografia della grande guerra.
Perché questo improvviso interesse per il diario dal fronte? La risposta più semplice è di
carattere giuridico ed editoriale: sono appena scaduti i diritti di Mussolini – proprio come
quelli di Hitler – , le case editrici possono liberamente riproporre i testi senza passare
attraverso la tagliola del copyright. Spiega Ugo Berti, responsabile del catalogo storico del
Mulino che ora pubblica l’opera con la introduzione di Isnenghi ( Il mio diario di guerra):
«Nel centenario del primo conflitto mondiale siamo andati tutti a riguardarci la bibliografia,
scoprendo in questo modo testi dimenticati come il diario di Mussolini. La coincidenza
dello scadere dei diritti ha fatto il resto. Da qui il gran fermento dell’editoria, mossa anche
da ragioni di mercato: la grande guerra fa vendere». Una spiegazione minimalista, quella
di Berti, che seppure fondata non esaurisce la questione.
E allora per capire di più bisogna partire dalla sponda sinistra. E chiedersi perché uno
storico come Isnenghi, che nel Mito della Grande Guerra aveva ignorato il diario di
Mussolini, oggi decida di firmarne la introduzione. «Ho cominciato a fare i conti con quel
lavoro in uno dei convegni animati da Gianfranco Folena a Bressanone », risponde lo
studioso dalla sua casa di Padova. «Poi, nel 1989, quando ho ripubblicato Il Mito dal
Mulino, decisi di riconoscere pubblicamente il mio errore: il diario di Mussolini è uno dei
testi più incisivi della letteratura di guerra. Si era trattato di un’automutilazione, dettata dal
clima politico e culturale in cui preparai il Mito ». Il suo capolavoro storiografico uscì in
prima edizione da Laterza nel 1970, nel pieno dell’antifascismo militante. «Nessuno mi ha
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mai rimproverato quell’omissione», continua Isnenghi. «La memoria del fascismo era
ancora molto viva. Oggi rimuovere il diario di Mussolini non avrebbe senso».
Però ancora oggi c’è chi oppone resistenza. Ed è lo stesso Berti a raccontarcelo, dal suo
longevo osservatorio storiografico. «Il nome di Mussolini per qualche storico è tuttora
impronunciabile. Ancora Marco Mondini, nel suo bel libro La guerra italiana pubblicato lo
scorso anno, nemmeno cita il diario. Gli ho chiesto perché e lui mi ha risposto che gli era
apparso inopportuno occuparsene ».
Ad alcuni studiosi, al contrario, appare opportuno occuparsene proprio con un intento
civile. È il caso di Mimmo Franzinelli, curatore del Giornale di guerra per le edizioni Leg.
«Anche nella diversità dei testi, accade con i diari di Mussolini quello che è successo con il
Mein Kampf. Anche io mi sono posto il problema dell’opportunità: ho scelto di pubblicare il
testo con centinaia di note in cui invito a non prendere per oro colato le parole del soldato
Mussolini. In sostanza cerco di demistificare la sua autorappresentazione eroica,
mostrando la doppiezza tra il Mussolini politico e il Mussolini militare». Un taglio critico in
parte coincidente con la lettura di Isnenghi, che mette in guardia dalla finalità di Mussolini:
orientare lo sguardo di chi lo legge – si tratta di un diario pubblico, pubblicato sul suo
giornale, non un diario privato – offrendo di sé l’immagine di «protagonista e coro, leader e
gregario, attore politico trainante e soldato nella massa». Insomma, ricerca del consenso e
prove generali da futuro duce.
Lettura che non convince Alessandro Campi – un passato remoto nelle file del
neofascismo, un passato prossimo da protagoni- sta nel laboratorio della nuova destra
democratica di Gianfranco Fini, oggi direttore della Rivista di Politica. Tra pochi giorni esce
da Rubbettino una sua accurata edizione storico-critica del
Giornale di Guerra. «Non mi persuadono quelle interpretazioni che tendono a
sovraccaricare il testo di Mussolini di un significato strumentale: il diario segnerebbe l’inizio
del suo culto pubblico, con il fine di accreditarlo quale leader politico degli italiani. Tutto
questo non tiene conto di vari elementi. Il primo è che Mussolini quando va in guerra può
morire, cosa che è accaduta ad altri interventisti. Il secondo è che il diario viene scritto in
un una fase magmatica della sua biografia che non prefigura né fascismo né conquista del
potere». Questa lettura, secondo Campi, ha finito per svalutare un testo di grande dignità
sul piano politico e letterario, un racconto in presa diretta dotato di una freschezza che
manca a molta letteratura di guerra, rielaborata in fase successiva. «La sua assenza, nel
trionfo memorialistico del centenario bellico, mi ha molto sorpreso. Per questo l’ho
proposto a Rubbettino. Era giusto sottrarlo all’area nostalgica neofascista per restituirlo
agli italiani in forma critica». Al di là delle diverse interpretazioni, resta da capire perché
oggi Mussolini possa essere al centro della scena editoriale e dunque culturale. La
«fascinazione ancora esercitata tra i più giovani», come sostiene Franzinelli? O «il carisma
dell’uomo solo al comando, in sintonia con lo spirito del tempo», come dice Isnenghi? Fa
riflettere l’affermazione di Ugo Berti: «Dieci anni fa il Mulino avrebbe avuto dei problemi ad
avere Mussolini in catalogo ». Forse oggi c’è maggiore serenità, ormai distanti le
aggressioni della destra anti antifascista, il tentativo di riabilitare politicamente il duce («il
maggior statista italiano» disse Fini prima della svolta democratica), lo svilimento della
Resistenza, l’equiparazione tra partigiani e repubblichini, la proposta di abolire il 25 aprile.
Umori che ora avvertiamo lontani, ma in realtà risalgono a un passato recente. «Oggi
pubblicare Mussolini è il segno di un paese maturo», dice Campi. O, meglio, la speranza
di un paese maturo, che abbia davvero fatto i conti con il passato.
A proposito. In questo nostro girovagare tra i testi mussoliniani ci siamo imbattuti, grazie a
Ugo Berti, in una stranezza. L’Istituto Poligrafico dello Stato continua a proporre, in una
collana per bibliofili, Scritti e discorsi di Mussolini. Ma non un’edizione critica, bensì la
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veste originale uscita nel 1939, carta in filigrana con il fascio littorio e la sigla LDS, Libreria
dello Stato. Che era quello fascista. Questo, sì, decisamente imbarazzante.
del 12/01/16, pag. XIII (Roma)
Cala il sipario sul Gran Teatro “È senza
licenza deve chiudere”
Arretrati di oltre un milione di euro per l’occupazione di suolo pubblico
E salta lo show “Promessi sposi”
ALESSANDRA PAOLINI
IL sipario davanti a quelle 3000 poltroncine di velluto rosso avrebbe dovuto alzarsi domani.
Con un musical da record di incassi e di spettatori: “I promessi sposi - Opera moderna” di
Michele Guardì. Ventimila spettatori solo a San Siro. Invece il palco del Gran Teatro, la
tensostruttura a Saxa Rubra sulla Flaminia, resterà vuoto. Vuoto domani e forse, chissà,
anche negli anni a venire. Perché, recita un comunicato della Grandi Teatri Srl: «Siamo
costretti a sospendere le attività per problematiche con il XV municipio. Le
rappresentazioni perciò sono sospese ».
Problematiche. Ovvero, “mancanza di autorizzazione”. Il Comune infatti non ha rilasciato il
permesso per l”occupazione di suolo pubblico” perché non è stato pagato il canone dello
scorso anno. Che non è cifra da poco: 1 milone e 200 mila euro ». «Una somma che non
sta né in cielo e né in terra, che nessun teatro può permettersi di pagare e che nasce da
indici di valutazione sbagliati», dice Giuseppe Viggiano amministratore della società che
sull’argomento ha già presentato ricorso.
Nell’attesa, però, si è visto costretto a chiudere la struttura. Del resto, «Non si poteva fare
altrimenti - spiega Daniele Torquati, minisindaco del XV municipio - abbiamo cercato di
venire incontro a Viggiano perché è interesse della città che il teatro rimanga in vita.
Abbiamo depositato anche una memoria di giunta poco prima delle dimissioni del sindaco
Marino. Ma ora è un problema di legalità. E la legge va rispettata». Ma come si è arrivati a
questo punto? Il Gran Teatro, nato nel 2002 per il Notre-Dame de Paris di David Zard, da
sempre ha potuto contare su concessioni di occupazione di suolo pubblico rilasciate di sei
mesi in sei mesi. E senza esborso di soldi. In pratica è stato per anni e anni in regime di
“do ut des”: servizi in cambio dei permessi. Finché, due anni fa, il Campidoglio ha deciso
che la pianificazione della concessione doveva essere fatta a lungo termine, l’occupazione
dell’area monetizzata e l’ok doveva arrivare anche dai dipartimenti competenti:
Urbanistica, Patrimonio e Cultura. A quel punto il banco è saltato, e sui soldi non si è
trovato l’accordo.
Gran Teatro, gran pasticcio, dunque. E anche gran bel danno: per chi ha già comprato i
biglietti dello spettacolo che ora dovrà farseli rimborsare. Per la stessa compagnia di attori
che si ritenevano impegnati fino a gennaio e per tutti quelli che lavorano ogni giorno nel
teatro e ora si ritrovano con lo spettro della disoccupazione. Per ultimo in ultimo, un bel
danno anche per quello spicchio di Roma Nord accanto alla cittadella della Rai che, dopo
essere stato per anni in balia di un campo rom, era riuscito finalmente a vedere un po’ di
luce.
Oggi, Viggiano e Torquati avranno un incontro in Comune con il sub commissario
Giuseppe Castaldo. La speranza è che si possa trovare una soluzione. Ma per mandare in
scena i “Promessi sposi” di Guardì, a questo punto servirebbe solo l’intervento della“Divina
provvidenza”.
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ECONOMIA E LAVORO
del 12/01/16, pag. 1/15
Come ti cancello i disoccupati
Il potere dei numeri. Non sarà più necessaria l'iscrizione alle liste di
disoccupazione per ottenere il sussidio. Basta un'autocertificazione. I
disoccupati saranno classificati come inattivi perché non passeranno
più dai centri per l'impiego e sarà più difficile controllare chi dice il
falso. In questo modo il governo farà calare il numero di disoccupati e
dirà che la ripresa esiste
Marta Fana
Prima del congedo natalizio, il Ministero del Lavoro ha dato il via alla riforma dei servizi per
il lavoro e di politiche attive. La circolare del 23 dicembre 2015 esclude esplicitamente lo
stato di disoccupazione come requisito necessario per l’eleggibilità alle misure di politica
attiva. Facendo leva sul principio di non discriminazione, il Ministero ha voluto estendere la
possibilità di accedere ai servizi di politica attiva del lavoro — in capo ai centri per
l’impiego– anche tutti coloro che hanno già un lavoro «non a tempo pieno», «scarsamente
remunerativo, o non confacente al proprio livello professionale o semplicemente perché
alla ricerca di una occupazione più confacente alle proprie aspettative».
Allo stesso tempo, la circolare precisa che le richieste di prestazioni sociali (Naspi, Asdi,
Dis-coll) – indirizzate all’Inps – non saranno più vincolate all’ immediata disponibilità allo
svolgimento di attività lavorativa, da effettuarsi con l’iscrizione alle liste dei centri per
l’impiego. Si passa quindi dalla condizionalità fondata sullo stato di disoccupazione, che
implica la ricerca attiva del lavoro e la disponibilità a lavorare, a quella basata
sull’inoccupazione, cioè l’assenza di lavoro ma la non (necessaria) disponibilità a lavorare.
Fin qui, si potrebbe ritenere che il governo italiano, tramite il ministero del Lavoro, stia
procedendo verso un ampliamento della platea di beneficiari delle prestazioni sociali e dei
servizi per il lavoro. Tuttavia la realtà è ben diversa ed è rivelata dai dettagli. Innanzitutto,
l’accesso alle prestazioni sociali dipende dalla carriera lavorativa e non dalla ricerca attiva
del lavoro e la circolare stessa stabilisce che la presentazione delle domande all’Inps
«equivale a dichiarazione di immediata disponibilità».
Quel che cambia è il processo e la sequenzialità dei soggetti interessati: maggiore
centralità è attribuita all’Inps che raccogliendo le domande, trasmetterà a un
coordinamento nazionale, tutto da definire e implementare, i nominativi dei soggetti che,
richiedendo le prestazioni sociali, si dicono disponibili a lavorare. Il futuro coordinamento
nazionale comunicherà ai sistemi regionali e di conseguenza ai centri per l’impiego locali.
Diversi aspetti richiedono attenzione.
In prima battuta, sembra prendere piede il tentativo di ridurre il ruolo di mediazione dei
centri per l’impiego tra domanda e offerta di lavoro con particolare attenzione ai casi più
vulnerabili, infatti i soggetti più attivi (e con un lavoro) saranno coloro che maggiormente vi
si rivolgeranno. Ciò comporterà un ulteriore sfilacciamento dei rapporti tra Stato, nelle vesti
di amministratore, e cittadini, privilegiando le reti informali e relazionali, di cui i soggetti più
vulnerabili, nel caso in cui ne abbiano accesso, sono parte debole.
In secondo luogo, le domande per le prestazioni sociali non saranno più filtrate e spetterà
all’Inps gestirne il controllo, quindi bisognerà capire con quali risorse dopo gli ulteriori tagli
ai sistemi informatici. Infine, rendendo superflua l’iscrizione ai centri per l’impiego e quindi
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la ricerca attiva di lavoro, tramite i canali istituzionali, il governo procede a modificare le
statistiche stesse del lavoro. Infatti, i soggetti «non occupati» non rientrano tra i
disoccupati secondo la definizione dell’Istat.
Se l’effetto scoraggiamento e fuga dai centri per l’impiego prevarrà, dal punto di vista
statistico ci sarà un calo del numero dei disoccupati e del relativo tasso, senza che nulla
sia realmente migliorato sul mercato del lavoro.
del 12/01/16, pag. 4
Banche, addio commissione d’inchiesta: sarà
senza poteri
Vince Banca d’Italia - Da settimane guerriglia tra governatore e Palazzo
Chigi sull’indagine parlamentare: “Ci vorranno mesi e sui limiti bisogna
ancora decidere...”
di Marco Palombi
Lo schiaffone assestato a mezzo Corriere della Sera dal ministro Maria Elena Boschi a
Banca d’Italia (ve ne parliamo qui accanto) è solo l’ultimo atto di uno scontro non
dichiarato tra Palazzo Chigi e la banca centrale iniziato un mese fa, quando Matteo Renzi
ha dato il suo assenso alla commissione d’inchiesta parlamentare sull’ultimo quindicennio
del sistema bancario italiano, a partire dalla “tosatura” dei piccoli risparmiatori coinvolti
nella risoluzione delle quattro banche “salvate” il 22 novembre (Banca Etruria, Banca
Marche, Carife e Carichieti). Per il governatore Ignazio Visco e la dirigenza di via
Nazionale questo equivale a proporre un processo pubblico a Bankitalia: la guerra è
iniziata allora e ha coinvolto le massime istituzioni del Paese.
Ad oggi, al netto della (scomposta) reazione della Boschi, pare aver vinto via Nazionale: i
ddl sulla commissione non sono stati calendarizzati, non se n’è parlato nelle riunioni tra
governo e capigruppo e molti nel Pd vorrebbero rinviare la cosa alle calende greche e,
comunque, ridimensionare la commissione a un’innocua passerella. La cosa sembra quasi
ufficiale nelle parole della stessa Boschi ieri su La7: “Il governo non ha assunto alcuna
iniziativa: è un’iniziativa parlamentare e vedremo nei prossimi mesi quali poteri avrà”.
Partiamo dall’inizio. La notizia del suicidio di Luigino D’Angelo, 68enne che aveva perso
100mila euro nel crac Etruria, viene diffusa il 9 dicembre. Il giorno dopo Renzi avalla
pubblicamente quella che fino ad allora era una richiesta delle opposizioni: “Io vedo di
buon occhio che il Parlamento possa aprire una commissione di indagine sul sistema
bancario italiano. È giusto fare chiarezza”. Qui c’è già un tema: la commissione d’inchiesta
parlamentare ha i poteri della magistratura, quella d’indagine no. Nella conferenza stampa
di fine anno (il 29 dicembre), il premier non ha espresso preferenze sulla formula
(“deciderà il Parlamento”), ma è vero che il ddl presentato in Senato dal suo accolito
Andrea Marcucci preferisce la versione hard.
La reazione di Banca d’Italia per bloccare la commissione parlamentare, secondo quanto
ha ricostruito Il Fatto, s’è mossa su più livelli. Il primo è quello dell’attività di lobby: Visco
ha, per così dire, spiegato le sue perplessità al ministro Pier Carlo Padoan, ma soprattutto
al Quirinale. Sergio Mattarella ha subito ricevuto il governatore e schierato il Colle con lui:
“Non ci sia conflitto tra le istituzioni”; “agli attori politici, economici e sociali sono richiesti
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uno sguardo lungo, visione e comportamenti che non siano ristretti alle convenienze del
giorno”.
La corretta interpretazione da dare a queste parole l’aveva già fornita l’ex capo dello Stato
Giorgio Napolitano: la commissione d’inchiesta non va bene – aveva spiegato in Senato a
Walter Verini (Pd) il 18 dicembre, giorno della mozione di sfiducia contro Boschi – perché
rischia di sovrapporsi alle indagini della magistratura e mettere uno strumento
delicatissimo in mano a dei “facinorosi”, che sarebbero poi i partiti dell’opposizione (tipo
M5S e Lega) più duri sul ruolo avuto da Palazzo Koch. Il secondo strumento usato nella
guerriglia sulla commissione d’inchiesta sono i media: da quando il governo s’è schierato a
favore, sono cominciate ad apparire sui giornali le carte delle (vecchie e note) ispezioni di
Banca d’Italia ad Arezzo con le accuse ai membri dell’ex Cda (quello di Boschi senior) e
relativi riferimenti all’inchiesta penale.
Il messaggio è semplice: il padre della ministro è coinvolto, la politica non è imparziale. La
cosa ha il vantaggio, per Bankitalia, di ridurre la vicenda delle quattro banche “salvate”
distruggendo 2 miliardi di risparmio privato alle sole malversazioni di alcuni dirigenti in
Toscana: nessuno tocchi la Vigilanza; nessuno parli del fallimento di via Nazionale nella
negoziazione delle regole Ue; nessuno indaghi sulla situazione (e i rischi) del sistema del
credito.
È dopo una mese di questo trattamento che Boschi ha messo a verbale il suo attacco a
Banca d’Italia, ribadito ieri: “Mi fa sorridere il fatto che alcuni autorevoli esponenti oggi
prendano determinate posizioni, sapendo che sono le stesse persone che un anno fa
suggerivano a Banca Etruria l’aggregazione con Pop Vicenza”. Siamo, però, alla rabbia
impotente: la commissione non si farà, o sarà una perdita di tempo, e la ministro si ritrova
esposta – senza il sostegno pubblico di nessuno – in una guerra che non può vincere:
“Non mi dimetterò nemmeno se arriva un avviso di garanzia a mio padre”, ha detto. Solo
che quel giorno potrebbe non essere lei a decidere.
del 12/01/16, pag. 29
Etruria, ex manager contro Bankitalia.
Boschi: se mio padre indagato resto
FABIO TONACCI
IL CASO
DAL NOSTRO INVIATO
AREZZO.
Incastrati da Bankitalia, ecco come si sentono gli ex manager dell’Etruria. E nel tentativo di
difendersi, finiscono pure per scaricarsi le responsabilità addosso. Prendiamo l’ex
presidente Giuseppe Fornasari e l’ex direttore generale Luca Bronchi. I due sono indagati
dalla procura di Arezzo per ostacolo alla vigilanza e false fatturazioni, e sono ritenuti, in
virtù dei ruoli che ricoprivano, tra i maggiori responsabili del dissesto della Popolare. Nella
memoria difensiva congiunta di cinquanta pagine consegnata alla Banca d’Italia nel
tentativo di evitare o perlomeno attenuare le sanzioni in arrivo, ribaltano le accuse,
chiamando in causa direttamente il governatore Ignazio Visco e la lettera che inviò al cda
dell’Etruria il 5 dicembre 2013.
In quella lettera Visco scriveva: «La banca è ormai condizionata in modo irreversibile da
vincoli economici, finanziari e patrimoniali che ne hanno ingessato l’operatività». E
chiedeva «l’integrazione con un gruppo di adeguato standing». Dopo quella
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comunicazione, Visco inviò di nuovo gli ispettori nella sede centrale di Arezzo nel
dicembre 2014, i quali scopriranno una lunga sfilza di violazioni e di «inerzie» da parte dei
manager di allora.
Bronchi però ragiona diversamente, e attacca: «Fin dal 5 dicembre Bankitalia aveva
ritenuto che l’unica opzione strategica percorribile fosse l’integrazione con un altro gruppo.
Quindi non si comprende quali altri interventi avrebbero potuto essere adottati per
ristabilire l’equilibrio reddituale quando neanche la Ban- ca d’Italia li aveva individuati». Di
più: «Bankitalia ci aveva espressamente proibito di adottare ogni altra azione strategica
che non fosse l’integrazione. Si è persino imposto alla banca “di astenersi dall’effettuare
l’incorporazione della Banca Lecchese”, nonostante l’operazione fosse in stato avanzato».
In pratica, sostiene l’ex dg, Bankitalia aveva due facce: nel 2013 gli ordinò di occuparsi
solo della fusione con un altro istituto bancario, nel 2015 gli ha contestato decine di
provvedimenti non presi.
Nelle poche interviste rilasciate alla stampa, gli ex vertici della Popolare toscana questo
non lo dicono mai. Temono la “ritorsione” di Palazzo Koch, che sta ancora decidendo
l’ammontare delle multe. Ma nelle memorie difensive, il loro reale pensiero viene fuori.
Così come quando Fornasari e Bronchi si scrollano di dosso l’accusa di essere i maggiori
responsabili della malagestione. «Il presidente – si difende Fornasari – per legge ha solo il
compito di favorire la dialettica interna e l’adeguata circolazione di informazioni dentro il
cda». E Bronchi, quando gli viene contestato di non aver ridotto di 410 unità la forza lavoro
per riequilibrare i bilanci, afferma: «È un’assoluta contraddizione. La decisione al riguardo
spetta all’ autonomia del cda».
Ieri intanto il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, ospite di “Otto e mezzo” su La7, è
tornata a parlare della vicenda. “Se mio padre venisse indagato – ha detto – dovrebbe
trovarsi un avvocato, ma questo non avrebbe un impatto su di me. La Costituzione dice
che la responsabilità penale è personale e un’indagine non è una sentenza di condanna”.
Una risposta a chi le chiede, in caso di un avviso di garanzia all’ex vicepresidente Pier
Luigi Boschi, di dimettersi.
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