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Stato, Chiese e pluralismo confessionale
Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 27/2014
15 settembre 2014
ISSN 1971- 8543
Federica Botti
(assegnista di ricerca nell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna,
Dipartimento di Scienze Giuridiche)
Edifici di culto e loro pertinenze,
consumo del territorio e spending review *
SOMMARIO: 1. Crisi finanziaria dello Stato e nuovo ruolo e funzioni degli edifici di
culto - 2. Configurazione degli spazi degli edifici di culto in relazione al loro uso
pubblico - 3. Pertinenze “liturgiche” e pertinenze “funzionali”: un primo controllo di
spesa - 4. Utilizzazione pubblica delle pertinenze, anche attraverso lo strumento delle
convenzioni con gli enti pubblici. Gli edifici di culto di proprietà delle confessioni – 5.
Gli edifici di culto di proprietà pubblica gestiti attraverso il F. E. C. - 6. Le convenzioni
per la concessione dell’utilizzazione a fini di culto di edifici di proprietà pubblica - 7.
Il controllo di spesa e il patto di stabilità tra l’attuazione dell’art. 19 Cost., proprietà
pubblica
di
edifici
di
culto,
finanziamenti
pubblici
per
la
loro
manutenzione/edificazione – 8. Spending review e rivisitazione del rapporto tra
consumo del territorio, edifici esistenti e loro utilizzazione/fruizione.
1 - Crisi finanziaria dello Stato e nuovo ruolo e funzioni degli edifici di
culto
Per il nostro Paese l’introduzione di nuovi culti ha cause numerose e
complesse che vanno ricercate nella crisi delle religioni tradizionali, in un
grado di sempre maggiore differenziazione culturale dovuto alla
circolazione delle opzioni religiose possibili e nel peso crescente
dell’immigrazione1 rispetto alla popolazione residente che introduce
culture e confessioni religiose diverse da quelle tradizionali2. A ciò si
* Contributo sottoposto a valutazione.
AA. VV., Immigrazione e soluzioni legislative in Italia e Spagna. Istanze autonomistiche,
società multiculturali, diritti civili e di cittadinanza, a cura di V. Tozzi, M. Parisi, ed. Arti
Grafiche la Regione, Ripalimosani (CB), 2007.
2 La tendenza degli ultimi anni a valorizzare e approfondire lo studio delle
appartenenze religiose degli immigrati, portando a identificare la provenienza etnica
geografica con l’appartenenza religiosa, falsa i dati disponibili sulle scelte confessionali
dei residenti. Partendo da questa considerazione di fatto, rileviamo comunque che da una
parte la differenziazione delle appartenenze religiose è una caratteristica delle società
globalizzate; che vi è certamente una parte di popolazione che ha maturato il distacco da
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aggiunga che il progredire del processo di secolarizzazione dei culti, anche
tradizionali, ha imposto una ridefinizione delle modalità e un
ripensamento degli strumenti attraverso i quali celebrare il culto e farne
propaganda. A fruire dei diritti di libertà religiosa non sono più solo i
cittadini, ma i residenti, con un ridimensionamento quindi del ruolo delle
religioni tradizionali e conseguentemente il mutare delle strutture di culto
occorrenti, che devono rispondere a esigenze sempre più diversificate3.
Si delinea così una nuova funzione degli edifici di culto la cui
categoria nel corso degli anni si è arricchita grazie a un continuo
intervento della legislazione nazionale4 e regionale che si sono fatte carico
ogni religione; che, per quanto riguarda la popolazione migrante, questa tende a
ricostruire appartenenze religiose per motivi di carattere identitario, indipendentemente
dal fatto di professare poi una determinata fede e quindi avanzare richieste e maturare
bisogni diretti a soddisfare queste esigenze.
Per questi complessi motivi la questione andrebbe esaminata attentamente e mediante
indagini statistiche mirate per potere dare l’esatta dimensione del fenomeno: pertanto in
questo studio si terrà conto dei bisogni emergenti di edifici di culto per come si
manifestano sul territorio attraverso richieste e domande che assumono consistenza nel
rapporto tra formazioni sociali a carattere confessionale e istituzioni. Sul punto vedi
comunque: G. CIMBALO, Il diritto ecclesiastico oggi: la territorializzazione dei diritti di libertà
religiosa, in AA. VV., Il riformismo legislativo in diritto ecclesiastico e canonico, a cura di M.
Tedeschi, Pellegrini Editore, Cosenza, 2011, pp. 335-386.
3 La strategia dell’Unione Europea per promuovere l’integrazione delle nuove
popolazioni tende a spostare l’attenzione dai cittadini ai residenti in quanto è sul
territorio che si fruisce in modo prioritario ed effettivo dei diritti di libertà religiosa: A.
CASTRO JOVER, Diversidad religiosa y gobierno local. Marco jurídico y modelos de
intervención en España y Italia, ed. Aranzadi, Pamplona, Navarra, 2013; ID.,
Interculturalidad y Derecho, ed. Aranzadi, Pamplona, Navarra, 2013, e i saggi ivi contenuti.
4 Prendendo le mosse da quanto stabilito dall’art. 7 dell’Accordo del 1984 e dall’art. 16
della legge n. 222 del 1985 - che distingue, anche ai fini del regime fiscale da applicare, tra
le attività di religione e di culto e quelle diverse, relative all’assistenza e beneficienza,
istruzione, educazione e cultura, nonché alle attività commerciali o a scopo di lucro - la
nozione di edificio di culto ha subìto una notevole trasformazione. Ciò è avvenuto in
materia di legislazione tributaria e urbanistica, relativamente alle esenzioni da imposte,
come quella comunale sugli immobili (ICI), e alla definizione della pianificazione
urbanistica relativamente alle corrette modalità di utilizzo del territorio. Le agevolazioni
IVA, per esempio, relative agli interventi sul patrimonio edilizio esistente, non sono
riferite specificatamente agli immobili vincolati dal D. lgs. n. 490 del 99 (nota 4651/a del
26 maggio 1994 Circ. Min. Fin. 2 marzo 19941/E), ma a tutti gli edifici residenziali non di
lusso, agli immobili “assimilati” al patrimonio residenziale quali: edifici scolastici,
caserme, ospedali, case di cura, ricoveri, colonie climatiche, collegi, educandati, asili
infantili, orfanotrofi e simili, e cioè gli immobili aventi finalità analoghe a quelli
d’istruzione, assistenza, cura e beneficenza, e destinati a ospitare collettività o categorie di
persone, quali carceri, case di riposo, sanatori, pensionati, gerontocomi, brefotrofi,
monasteri e conventi, seminari e centri di recupero per bambini portatori di handicap.
Rientrano tra gli edifici assimilati alle case di abitazione non di lusso, attesa
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di questi problemi e ne hanno via via ampliato la nozione e la tipologia,
evidenziandone la funzione social-identitaria5. Gli edifici aperti al culto
pubblico, inizialmente visti come beni strumentali destinati alla
celebrazione soprattutto collettiva delle funzioni religiose, col passare del
tempo hanno mutato il loro ruolo e la loro funzione, anche grazie al modo
in cui tali edifici si sono strutturati architettonicamente e nella fruizione
degli spazi6.
Durante i primi anni della Repubblica e fino agli anni ‘90 del secolo
scorso la grande maggioranza degli edifici di culto presenti sul territorio
dello Stato è stata costituita da chiese dedicate al culto cattolico. La
nozione giuridica di edificio di culto si è andata sempre più ampliando7, al
punto da ricomprendere oggi non solo l’edificio chiesa, ma anche gli
immobili annessi, incorporando nel medesimo regime giuridico previsto
per il bene principale anche le pertinenze8. Non a caso questo regime si
l’equiparazione agli effetti tributari (art. 29 del nuovo concordato) del fine di culto e
quello di beneficenza e istruzione, anche gli edifici di culto cattolico, quali chiese,
santuari, oratori pubblici e semi-pubblici, e quelli di culto non cattolico (D. l. n. 21 giugno
1988 n. 1094, circ. n. 14 del 330342 del 17 aprile 1981), e ai manufatti costituenti “opere di
urbanizzazione” (Legge del 29 settembre 1966, n. 847 e Legge del 22 ottobre 1971, n. 865).
In questi immobili è prevista un’aliquota del 10% per tutti gli interventi riferiti alle lettere
C, D ed E dell’art. 31, legge n. 457 del 78 (art. 10, comma 1 del D. l. n. 23 febbraio 1995 n.
41), cioè interventi di restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia,
ristrutturazione urbanistica.
5 R. BOTTA, Le fonti di finanziamento all'edilizia di culto, in AA. VV., L'edilizia di culto,
Profili giuridici, a cura di C. Minelli, Vita e Pensiero, Milano, 1995, p. 76. Ma vedi anche:
G. CASUSCELLI, La condizione giuridica dell’edificio di culto, in AA. VV., L’edilizia di culto,
cit., p. 34; A. VITALE, Corso di diritto ecclesiastico. Ordinamento giuridico e interessi religiosi,
Giuffrè, Milano, 1993, p. 390; G. CIMBALO, Fabbricerie, gestione degli edifici di culto
costruiti con il contributo pubblico e competenze regionali sui beni culturali ecclesiastici, in AA.
VV., Le fabbricerie. Diritto, cultura, religione, a cura di J. I. Alonso Pérez, Atti della giornata
di Studio, Ravenna 10 dicembre 2005, Bononia University Press, Bologna, 2007, p. 81.
6 Sull’interpretazione sociale del ruolo svolto dagli edifici di culto e sul superamento
della concezione pubblicistica, cfr. C. CARDIA, La condizione giuridica, in AA. VV., Gli
edifici di culto tra Stato e confessioni religiose, a cura di D. Persano, V&P, Milano, p. 10 ss.
7 Estesa a tutte le confessioni religiose che abbiano sottoscritto accordi con lo Stato,
assume una rilevanza di non poco impatto sull’ampliamento di ciò che deve essere
considerato edificio di culto la legge 1 agosto 2003, n. 206, Disposizioni per il riconoscimento
della funzione sociale svolta dagli oratori e dagli enti che svolgono attività similari e per la
valorizzazione del loro ruolo, in G. U. n. 181 del 6 agosto 2003.
8 Sono considerate pertinenze della chiesa: la sacrestia, il battistero, il campanile e il
sagrato, i locali adibiti a ufficio e ad abitazione dei sacerdoti e degli addetti al culto,
nonché quelli usati per le opere pastorali connesse alla chiesa e al culto che in essa si
celebra, come da ultimo l’oratorio. Sulla nozione giuridica di pertinenza vedi: artt. 817 –
818 c.c., ma anche Cons. St., sez. I, parere del 18 ottobre 1989, n. 1263/89, nonché C.E.I. –
COMITATO PER GLI ENTI E I BENI ECCLESIASTICI, Istruzione in materia
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ripercuote sul sistema impositivo degli edifici di culto, fino al punto da
riguardare anche le annesse case parrocchiali e le altre pertinenze9, per
non parlare poi dell’univoca giurisprudenza che estende a queste ultime
numerose esenzioni tributarie, tra le quali spiccava quella dal pagamento
dell’imposta
sugli
immobili,
a
dimostrazione
della
natura
onnicomprensiva del complesso edilizio destinato alle funzioni di culto10.
amministrativa, in Notiziario della C.E.I., n. 8/9, 2005, pp. 325-427. Per un commento: M.
VISIOLI, La nuova Istruzione in materia amministrativa della Conferenza Episcopale Italiana, in
Quaderni di Diritto ecclesiale, n. 19, 2006, pp. 185–210.
9 Esse non sono immobili oggetto dell'imposta in quanto si tratta di pertinenze di
edifici destinati al culto. Circa l’abitazione del parroco, rilevante appare la pronuncia
della Cass., sez. Tributaria, 12 maggio 2010, n. 11437, per la quale il rapporto
pertinenziale tra la chiesa parrocchiale e una casa sita nei pressi della stessa e destinata ad
abitazione del parroco non è desumibile esclusivamente dall’esistenza di un risalente atto
di destinazione dell’autorità ecclesiastica, occorrendo una verifica in ordine alla
persistenza dell’effettiva destinazione, in quanto il rapporto pertinenziale può essere
risolto anche da comportamenti concludenti. A riguardo vedi: Cass., sez. Tributaria, sent.
del 7 ottobre 2005, n. 20033, la quale ritiene che: “In tema di imposta comunale sugli
immobili (ICI), ai fini dell'applicazione dell'esenzione prevista dall'art. 7, comma primo,
lett. d), del D.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 a favore dei fabbricati destinati esclusivamente
all'esercizio del culto e delle loro pertinenze, si deve presumere, in base all'id quod
plerumque accidit - salva prova contraria, che deve essere fornita dal Comune che pretenda
di assoggettare l'immobile ad imposizione -, che la casa sita nei pressi di una chiesa sia
destinata, quale casa canonica, ad abitazione del parroco addetto alla chiesa, e costituisca,
dunque, pertinenza di questa, senza che assumano rilievo, in senso contrario, né la
circostanza che il parroco abbia la residenza anagrafica in altro Comune o comunque non
risieda, temporaneamente, in quella casa, essendo il vincolo pertinenziale collegato ai
beni e non alle persone che si trovano ad operare nei fabbricati in questione (chiesa e casa
canonica); né la categoria nella quale la casa canonica risulti iscritta in catasto, giacché la
situazione di fatto prevale rispetto all'accatastamento del bene”. Un caso simile è
affrontato anche da Cass., sez. Trib., sent. del 23 marzo 2005, n. 6316 per quanto concerne
l’esenzione ICI di un episcopio, per cui si è stabilito che: “L’edificio in cui risiede il
Vescovo, benché si tratti di immobile non avente finalità dirette di culto, deve comunque
ritenersi esente dall’ICI in quanto tale residenza non ha finalità private, essendo collegata
allo svolgimento delle funzioni pastorali”. Sul tema vedi anche: Comm. Trib. Prov.
Vicenza, sez. VII, 25 novembre 2002, n. 665, in Boll. Trib., 2003, p. 227, secondo cui la casa
canonica appartenente a una parrocchia va esonerata dall’imposta locale sugli immobili
in quanto pertinenza di una costruzione “destinata solamente allo svolgimento della
religione” sebbene momentaneamente non utilizzata come casa parrocchiale, ma tuttavia
destinata ad altri intenti istituzionali inerenti alla parrocchia, conformemente alle
caratteristiche volute dagli artt. 817-819 c.c. nella precisazione della nozione di
pertinenza.
10 Il D.l. n. 163 del 17 agosto 2005, Disposizioni urgenti in materia di infrastrutture, in
G.U., n. 191 del 18 agosto 2005, all’art. 6, detta che l’esenzione dal pagamento dell’ICI, già
prevista dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del D.lgs. n. 504 del 30 dicembre 1992, e
successive modificazioni, “si intende applicabile anche nei casi di immobili utilizzati per
le attività di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura di cui all'articolo
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Oggi il quadro normativo si è ulteriormente complicato con il
diffondersi in Italia di nuove entità religiose11 e con l’accresciuto bisogno
16, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1985, n. 222, pur svolte in forma
commerciale se connesse a finalità di religione o di culto”. Il decreto Bersani, Disposizioni
finali, D.l. Titolo IV, 4 luglio 2006 n. 223, all’art. 39, 1° comma, dispone inoltre che:
“All’articolo 7 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni,
dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, il comma 2-bis è sostituito dal seguente: 2-bis.
L’esenzione disposta dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 30
dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera
che non abbiano esclusivamente natura commerciale”. Vedi: G. CASUSCELLI, La crisi
economica e la collaborazione tra le Chiese e lo Stato per il “bene del Paese”, in Rivista telematica
(http://www.statoechiese.it), ottobre 2011, pp. 4-11; A. MONDINI, Enti ecclesiastici ed
esenzione dall'ICI, in Studium iuris, n. 6, 2008, pp. 679 – 690; ma anche: ID., La religione tra
diritti, tributi e mercati: alla ricerca di un modello europeo per le relazioni finanziarie e fiscali tra
gli Stati e le Confessioni religiose, in AA. VV., Libertà di coscienza e diversità di appartenenza
religiosa nell'Est Europa, a cura di G. Cimbalo, F. Botti, Bononia University Press, Bologna,
2008, pp. 243–268; S. MARTUCCI, Ici ed IMU un'emancipazione religiosa secondo diritto
comune, in QDPE, n. 2, 2013, pp. 447-460.
Il 28 febbraio 2014 il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legge contenente
Disposizioni urgenti in materia di finanziamento degli enti locali per cui sono esentati dal
versamento della TASI (tassa annuale sui servizi indivisibili dei Comuni italiani), grazie
all’immunità che trova fondamento nei Patti lateranensi, i venticinque fabbricati indicati
negli artt. 13 – 16 del Trattato del 1929. Per gli altri immobili della Chiesa rimane
confermata, come per l’IMU (imposta municipale unica), l’esenzione, la quale dovrà
essere applicata alle sole parti dell'immobile che vengono utilizzate per lo svolgimento
delle attività meritevoli, con modalità non commerciali; per quanto riguarda invece gli
immobili della Chiesa destinati a usi commerciali essi rimangono soggetti all’imposizione
fiscale. Per una rassegna della giurisprudenza relativa a queste problematiche vedi: S.
CARMIGNANI CARIDI, Rapporti interordinamentali: Santa Sede, Stato della Città del
Vaticano e giudici ecclesiastici davanti al giudice dello Stato (1984-2012), in Il Diritto
Ecclesiastico, nn. 3-4, luglio-dicembre 2012, pp. 465-533.
Identico trattamento è previsto per quanto riguarda il pagamento della TARI (tassa
sui rifiuti), come stabilito dal D.l. n. 16 del 6 marzo 2014, art. 3. Se l’esenzione può essere
giustificabile per l’edificio di culto, poco si comprende l’estensione alle pertinenze.
11 Vanno in questa direzione le proposte di legge relative a una legge generale sulla
libertà religiosa e per la modifica della legge sui culti ammessi. Vedi, da ultima : R.
ZACCARIA et al., Disposizioni per l’attuazione del diritto di libertà religiosa in materia di
edifici di culto, proposta di legge n. 2186 del 10 febbraio 2009, in Camera dei Deputati, Atti
Parlamentari, XVI Legislatura, con la quale si intende assicurare a ogni confessione
religiosa il diritto di disporre di edifici di culto. Per un commento: L. DE GREGORIO, Le
alterne vicende delle proposte di legge sulla libertà religiosa, in AA. VV., Proposta di riflessione
per l’emanazione di una legge generale sulle libertà religiose, Atti del Seminario di studio
organizzato dalla Facoltà di scienze politiche dell'Università degli studi di Salerno e dal
Dipartimento di teoria e storia delle istituzioni, Napoli e Fisciano, 15-17 ottobre 2009, a
cura di V. Tozzi, G. Macrì, M. Parisi, Giappichelli, Torino, 2010, p. 57 ss., per una visione
sinottica delle diverse proposte e disegni di legge susseguitisi dal 1990 al 2008, in
particolare pp. 68-69; R. MAZZOLA, La questione dei luoghi di culto alla luce delle proposte di
legge in materia di libertà religiosa. Profili problematici, in AA. VV., Proposta di riflessione, cit.,
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di edifici di culto che presentano caratteristiche urbanistiche e strutturali a
volte diverse e spesso essenziali al concreto esercizio del culto religioso.
Non ci riferiamo soltanto ad aspetti strutturali “estetici” che incidono sul
paesaggio12 e sulla configurazione urbanistica degli insediamenti
abitativi13, ma anche all’utilizzazione di tali edifici e agli spazi a essi
contigui, spesso collegati alle funzioni che sono chiamati a svolgere verso
la comunità religiosa di riferimento, quali: la somministrazione di cibo, le
attività svolte in occasione delle festività religiose, la messa a disposizione
di particolari indumenti, di libri e altro materiale divulgativo relativo ai
precetti religiosi del culto, quando non al concreto svolgimento del rito e
alla recitazione delle preghiere14.
pp. 203, 205; P. CAVANA, Lo spazio fisico della vita religiosa (luoghi di culto), in AA. VV.,
Proposta di riflessione, cit., pp. 209, 211, 222-223; F. ALICINO, Costituzionalismo e diritto
europeo delle religioni, Cedam, Assago, 2011, p. 3. Ma vedi anche: A. GIBELLI et al.,
Disposizioni concernenti la realizzazione di nuovi edifici destinati all'esercizio dei culti ammessi,
disegno di legge n. 1246 del 14 giugno 2008, in Camera dei Deputati, XVI Legislatura, il
quale stabilisce che la costruzione di moschee venga sottoposta a referendum popolare e
che la costruzione dell’edificio non può avvenire a meno di 1 Km da un altro edificio di
culto, in violazione degli artt. 2, 3, 8 e 19 Cost. A queste problematiche avrebbe voluto
dare una risposta di totale chiusura la proposta n. 4958 (XIV legislatura), proposta dai
deputati Gibelli, Bricolo, Parolo, Ercole, Luciano, Dussin, Disposizione per la realizzazione di
nuovi edifici dedicati ai culti ammessi, del 26 marzo 2004, ripresentata nella XVI legislatura
dai deputati Gibelli e Cota il 4 giugno 2008, n. 1246, intitolata Disposizioni concernenti la
realizzazione di nuovi edifici destinati all’esercizio dei culti ammessi. Tale disegno di legge
presenta innumerevoli profili di incostituzionalità, come rileva N. MARCHEI, Gli edifici
dei “culti ammessi”: una proposta di legge coacervo di incostituzionalità, in QDPE, n. 1, 2010,
pp. 107–127; così anche N. COLAIANNI, Come la xenofobia si traduce in legge: in tema di
edifici di culto, in http://www.olir.it, 2004.
12 Emblematica a riguardo la “questione dei minareti” che è stata oggetto di un
referendum nella Confederazione elvetica. Sull’argomento vedi diffusamente: V.
PACILLO, "Die religiöse Heimat". Il divieto di edificazione di minareti in Svizzera ed Austria,
in QDPE, 1, 2010, p. 216 ss.; S. ALLIEVI, Moschee in Europa. Conflitti e polemiche, tra fiction
e realtà, in QDPE, n. 1, 2010, pp. 149 -150, 155.
13 Sulla nozione di arredo urbano cfr. G. CIMBALO, Gli strumenti della multiculturalità:
il diritto a disporre di edifici di culto, nel volume a cura di A. Castro Jover, A. Torres
Gutierrez, Inmigraciòn, Minorìas y Multiculturalidad, Castro Jover, Lejona, 2007, pp. 121137; ID., Il diritto ecclesiastico oggi: la territorializzazione dei diritti di libertà religiosa, cit., par.
3; e ancora G. CIMBALO, Introduzione ai lavori della III sessione, in AA. VV., Laicità e
dimensione pubblica del fattore religioso, a cura di R. Coppola, C. Ventrella, Cacucci, Bari,
2012, p. 81 ss.; R. MAZZOLA, Laicità e spazi urbani. Il fenomeno religioso tra governo
municipale e giustizia amministrativa, in AA. VV., Laicità e dimensione pubblica del fattore
religioso, cit., p. 109 ss.; P. FLORIS, Laicità e collaborazione a livello locale. Gli equilibri tra fonti
centrali e periferiche nella disciplina del fattore religioso, in AA. VV., Laicità e dimensione
pubblica del fattore religioso, cit., p. 89 ss.
14 La differenziazione religiosa intervenuta si caratterizza non solo per lo spostamento
di gruppi religiosi da una parte all’altra del continente europeo, ma anche per la
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Il rapporto che discende dall’articolo 19 Cost. tra edifici di culto e
intervento pubblico, anche di carattere finanziario, per consentire la
celebrazione e propaganda del culto e il contestuale mutamento degli
strumenti urbanistici, ha portato al superamento dello schema della Legge
urbanistica del 194215, peraltro pensata rispetto a una situazione nella
quale le richieste relative alla costruzione di nuovi edifici di culto erano
prevalentemente provenienti dalla Chiesa cattolica16.
Pertanto oggi è possibile individuare alcune nuove questioni che
riguardano principalmente:
1) i criteri in base ai quali stabilire se e quando la configurazione
degli spazi, che è prevista nella richiesta di rilascio del permesso di
diffusione di religioni e visioni etiche del mondo provenienti da aree diverse del pianeta
e caratterizzate da una differente nozione di religione, intesa più come regola di vita che
come sottomissione e adorazione di un Dio. Su questa via, il buddismo tibetano in
Francia è divenuto la quarta religione per importanza e numero di aderenti. Da notare
inoltre che coloro che mutano appartenenza religiosa, nell’imminenza della loro
conversione/adesione sono effettivamente praticanti in una misura maggiore di coloro
che tradizionalmente appartengono a un culto, stimolati dalla recente acquisizione di
consapevolezza delle loro scelte. Cfr. Le bouddhisme tibétain, la quatrième religion en France,
in Le Monde, 09 août 2008. Per un approfondimento, vedi: C. CAMPERGUE, Le
bouddhisme tibétain en France, in Histoire, monde et cultures religieuses, n. 1 (25), 2013, pp.
137–168.
15 Legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150 in G.U. del 16 ottobre 1942, n. 244, e
successive modificazioni.
La previsione costituzionale avrebbe dovuto consentire un recepimento delle esigenze
dei culti diversi da quello cattolico, che tuttavia non si manifestò poiché i primi anni di
applicazione della Costituzione sono stati caratterizzati da un’espressa discriminazione
dei culti diversi da quello cattolico. Vedi: S. LARICCIA, La politica ecclesiastica italiana nel
secondo dopoguerra, in AA. VV., Studi in onore di P.A. d'Avack, II, Giuffrè, Milano, 1976, p.
816 ss. Del resto, la Legge urbanistica del 1942 era stata costruita sull’ipotesi che l’ente
interessato a richiedere permessi per costruire edifici di culto non fosse che quello
cattolico, stante l’ostilità del regime non solo per gli ebrei, ma anche per i pentecostali,
largamente perseguitati durante il fascismo e la cui presenza era diffusa su tutto il
territorio nazionale. Meno preoccupazioni destavano i valdesi per lo più concentrati nelle
valli piemontesi, a causa della minore diffusione sul territorio. Vedi: P. SCOPPOLA, Il
fascismo e le minoranze evangeliche, in AA. VV., Il fascismo e le autonomie locali, il Mulino,
Bologna, 1972, pp. 359-362; G. ROCHAT, Regime fascista e chiese evangeliche, Claudiana,
Torino, 1990, pp. 245-248.
16 Fino agli anni ‘80 la legislazione italiana e la giurisprudenza si sono occupate
pressoché esclusivamente di edifici di culto cattolico. Solamente con il proliferare della
legislazione regionale sugli edifici di culto si assiste a una graduale apertura verso i
problemi di culti nuovi per il territorio italiano, dovuta non solo alla trasformazione della
società, ma anche alla maggiore vicinanza ai problemi del territorio della legislazione
regionale nel suo complesso, chiamata a rispondere alle domande che provengono dai
residenti.
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costruire, riguardi strutture essenziali all’edificio di culto in relazione alla
sua funzione;
2) l’utilizzazione pubblica delle pertinenze, anche attraverso lo
strumento delle convenzioni con gli enti pubblici, visto anche quanto
disposto dal 3° comma dell’art. 5 del Concordato del 1984 a proposito
della costruzione di nuovi edifici di culto cattolico, là dove si fa espresso
riferimento alle “pertinenti opere parrocchiali” da realizzare17;
3) il rapporto tra proprietà dell’edificio di culto e gestione di questi
spazi, anche in relazione a quanto previsto dall’art. 831, 2° comma c.c.;
4) l’esercizio del controllo di spesa (spending review) sui
finanziamenti pubblici per la costruzione e il restauro degli edifici di culto,
in attuazione dell’art. 19 Cost. posto che, se è un compito dello Stato
intervenire per consentire il concreto esercizio della libertà religiosa, le
azioni intraprese per dare attuazione anche a diritti costituzionalmente
tutelati vanno commisurate alla disponibilità di risorse e a un loro
razionale utilizzo, soprattutto dopo l’introduzione in Costituzione di
stretti vincoli al bilancio dello Stato18, almeno limitatamente a quanto
Dal concordato discende un obbligo assunto a livello internazionale di assicurare la
disponibilità di edifici di culto per rendere concreto il diritto di libertà religiosa. Tale
obbligo assunto con la Chiesa cattolica, peraltro contribuisce, almeno per l’edilizia di
culto, a fare da traino per “agevolare l’estensione dei diversi benefici giuridici e finanziari
alle altre confessioni”. Vedi C. CARDIA, La condizione giuridica, cit., p. 18. Tuttavia,
questo impegno non può essere illimitato ed è subordinato alle risorse disponibili, tenuto
conto delle dimensioni complessive di bilancio, e della necessità di provvedere
contemporaneamente alla soddisfazione di altre esigenze primarie.
Sulla questione sviluppa un’approfondita riflessione: G. CASUSCELLI, La crisi
economica e la collaborazione, cit, p. 17 ss., il quale rilegge le relazioni negoziate dello Stato
con le Chiese alla luce del principio di “collaborazione per la promozione dell’uomo e il
bene del Paese“ che dovrebbe ispirarli e ne fa discendere diritti e obblighi giuridicamente
vincolanti, “… fonte di un rapporto sinallagmatico fatto di diritti e doveri di ognuna delle
due parti nei confronti dell’altra che derivano in via diretta e immediata da una specifica
pattuizione tra di esse intercorsa, e non dai criteri generali in materia di condotta delle
parti in applicazione (diretta o analogica) del diritto dei trattati“. Da qui discende
l’impegno a compiere “azioni positive“ tra le quali certamente va annoverata una lettura
contingente degli obblighi dello Stato alla luce della situazione economica presente e nel
quadro degli interessi più generali della società e del paese. Non a caso l’A., come
esempio, richiama l’attenzione sull’istituzione da parte della C.E.I. del “Prestito della
Speranza“ in accordo con l’A.B.I. per venire in soccorso delle persone colpite dalla crisi e
dall’usura (p. 20).
18 La firma del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance
nell'Unione economica e monetaria del marzo 2012, denominato fiscal compact ha
prodotto reazioni diverse nei paesi dell’Unione. Alcuni di essi si sono precipitati – come
ha fatto l’Italia – a introdurre questo vincolo in Costituzione, misura non obbligata e non
prevista dal Trattato come tale, introducendo un’eccessiva rigidità nella gestione della
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attiene agli edifici di proprietà pubblica19 o a quelli costruiti con il
concorso dello Stato per i vent’anni successivi al loro finanziamento20;
5) il consumo del territorio, posto che l’esigenza di contenere la
realizzazione di nuove costruzioni impone di reimpostare il rapporto tra
edifici esistenti e loro utilizzazione/fruizione, quando questi sono di
proprietà pubblica e quindi una loro irrazionale utilizzazione incide sulla
spesa e produce un’inaccettabile ulteriore cementificazione21.
spesa pubblica. Questa scelta ha delle conseguenze innegabili, la cui portata non è stata
ancora valutata e verificata fino in fondo, soprattutto per quanto attiene le azioni che i
poteri pubblici possono e devono svolgere per consentire il godimento dei diritti, e ciò in
relazione alla disponibilità di risorse. Per un inquadramento generale del problema: L.S.
ROSSI, “Fiscal Compact” e Trattato sul Meccanismo di Stabilità: aspetti istituzionali e
conseguenze sull'integrazione differenziata nell'UE, in Dir. Un. Eur., n. 2, 2012, p. 293 ss.; F.
DONATI, Crisi dell'euro, governance economica e democrazia nell'Unione europea, in Dir. Un.
Eur., n. 2, 2013, p. 337 ss.; M. P. CHITI, L'ufficio parlamentare di bilancio e la nuova
governance della finanza pubblica, in Riv. It. di Dir. Pubbl. Comunitario, nn. 5-6, 2013, p. 977
ss.; L.S. ROSSI, L'Unione Europea e il paradosso di Zenone. Riflessioni sulla necessità di una
revisione del Trattato di Lisbona, in Dir. Un. Eur., n. 4, 2013, p. 749 ss.
Nell’introdurre tale vincolo non si è tenuto conto del quadro complessivo della
Costituzione e in particolare del fatto che l’art. 3 Cost. impegni lo Stato a mettere in atto
azioni positive per la tutela dei diritti in quanto queste costituiscono il più potente
strumento per “innalzare la soglia di partenza per le singole categorie di persone
socialmente svantaggiate” anche ai fini di evitare discriminazioni. Vedi tra le tante: Corte
cost., sent. n. 109 del 26 marzo 1993, punto 2.2. del Considerato in diritto.
19 Nel riferirci agli edifici di proprietà pubblica, escludiamo quelli appartenenti al
F.E.C. che, godendo – come vedremo - di un regime giuridico particolare, garantito dagli
accordi concordatari, presentano problematiche che vanno affrontate in modo specifico.
20 Si veda, ad esempio, la Legge 8 marzo 1989, n. 101, Norme per la regolazione dei
rapporti tra lo Stato e l'Unione delle Comunità ebraiche italiane, in G.U. n. 69 del 23 marzo
1989, Suppl. Ordinario n. 21, che, all’art. 28, 2° e 3° comma, recita:
“2. Gli edifici di culto e le predette pertinenze, costruiti con contributi regionali e
comunali, non possono essere sottratti alla loro destinazione, neppure per effetto di
alienazione, se non sono decorsi almeno venti anni dalla erogazione del contributo. Il
vincolo è' trascritto nei registri immobiliari.
3. Tale vincolo può essere estinto prima del compimento del termine, d'intesa tra la
Comunità competente e l'autorità civile erogante, previa restituzione delle somme
percepite a titolo di contributo, in proporzione alla riduzione del termine, e con
rivalutazione determinata in misura pari alla variazione, accertata dall'I.S.T.A.T.,
dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati. Gli atti e i negozi
che comportino violazione del vincolo sono nulli”.
Tale disposizione è stata riprodotta e caratterizza la legislazione regionale con
riferimento agli altri culti.
21 Per un approccio storico-generale al problema: I. INSOLERA, Roma moderna. Da
Napoleone al XXI secolo, Einaudi, Torino, 2011; V. DE LUCIA, Nella città dolente,
Castelvecchi editore, Roma, 2013; ID., Se questa è una città, Donzelli editore, Roma, 2006.
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Si impone quindi un intervento organico di razionalizzazione e
coordinamento della legislazione in materia, tenuto conto dei nuovi fattori
che concorrono a definire gli ambiti entro i quali può avvenire un
intervento attivo delle istituzioni e dello Stato sia centrale sia attraverso le
sue istituzioni pubbliche, per rendere effettivo l’esercizio del diritto di
libertà religiosa. Per conseguire questo obiettivo sono necessari uno sforzo
ricostruttivo e un’analisi critica dell’evoluzione giuridica della nozione
stessa di edificio di culto e delle sue pertinenze.
2 - Configurazione degli spazi degli edifici di culto in relazione al loro
uso pubblico
Per cercare di comprendere in quale modo gli edifici di culto possano e
debbano strutturarsi affinché riescano a soddisfare i bisogni religiosi della
collettività di riferimento occorre, seppure brevemente, prendere in esame
le procedure tecnico-amministrative per la loro realizzazione.
L’introduzione dell’ordinamento regionale ha definitivamente
mutato l’attribuzione delle competenze in materia di edifici di culto prima
appartenenti allo Stato e ai Comuni. Le Regioni sono state investite del
compito di organizzare le norme generali per l’intervento dei Comuni in
questa materia, in ottemperanza alle competenze a esse attribuite
relativamente alla pianificazione urbanistica. Esse, volendo affermare e
consolidare il proprio ruolo, hanno provveduto a emanare una prima
legislazione di dettaglio, condizionata ben presto dall’accordo
concordatario e dalle intese, divenuti parametri di riferimento della
legislazione al fine del concreto esercizio dell’azione amministrativa da
parte dei Comuni per regolamentare l’accesso ai finanziamenti e il
godimento del diritto di disporre di un edificio di culto. I loro
comportamenti sono dovuti passare ben presto al vaglio della Corte
costituzionale22, con il processo di trasferimento delle competenze
Dopo la sentenza n. 195 del 1993 della Corte Cost. solo alcune Regioni si sono
adeguate ai parametri in essa dettati: l’art. 1 della L.R. Liguria n. 4, 24 gennaio 1985,
“Disciplina urbanistica dei Servizi religiosi", è stato modificato con la L.R. Liguria n. 59
del 15 dicembre 1993, “Modifica della legge regionale 24 gennaio 1985 n. 4. Disciplina
urbanistica dei Servizi religiosi"; l’art. 1 della L.R. Piemonte n. 15 del 7 marzo 1989,
“Individuazione negli strumenti urbanistici generali di aree destinate ad attrezzature
religiose - Utilizzo da parte dei Comuni del fondo derivante degli oneri di
urbanizzazione e contributi regionali per gli interventi relativi agli edifici di culto e
pertinenze funzionali all' esercizio del culto stesso”, è stato modificato con L.R. Piemonte
n. 39 del 17 luglio 1997, “Modificazioni alla legge regionale 7 marzo 1989, n. 15
(Individuazione negli strumenti urbanistici generali di aree destinate ad attrezzature
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legislative e amministrative dallo Stato alle Regioni appena ricordato,
anche le funzioni in materia urbanistica (D.lgs n. 112 del 1998) sono
divenute di competenza di quest’ultime. Di conseguenza ogni Regione ha
varato le proprie norme, le quali regolano l’assetto del territorio e
definiscono la strumentazione urbanistica comunale all’interno della quale
anche le problematiche connesse alla realizzazione degli edifici di culto
assumono diverse articolazioni. In via generale comunque la procedura da
seguire per arrivare alla realizzazione di un edificio di culto può essere
definita in quattro momenti essenziali: acquisizione dell’area; permesso di
costruire; progetto in variante al P.R.G. o P.S.C.; cambio di destinazione
d’uso.
Circa il primo aspetto, l’acquisizione dell’area, la Legge n. 847 del
1964 all’art. 4, 2° comma, lett. e), definisce come opere di urbanizzazione
secondaria le “chiese ed altri edifici per servizi religiosi”; il D.m. 2 febbraio
1968 n. 1444 (sugli standard urbanistici) stabilisce che le “aree per le
attrezzature di interesse comune: religiose …” devono obbligatoriamente
essere previste in sede di pianificazione urbanistica, sicché l’area sulla
quale prevedere l’intervento edificatorio dovrà essere collocata all’interno
delle zone destinate a servizi (generalmente indicate come zone F) dello
strumento urbanistico generale del Comune (Piano Strutturale Comunale
– P.S.C. - o ex Piano Regolatore Generale – P.R.G. -).
La realizzazione di tali opere edilizie, nei casi in cui costituiscano
attuazione di strumenti urbanistici, non richiede il pagamento del
contributo per il rilascio del permesso di costruire relativo agli oneri di
urbanizzazione (art. 16, comma 8°, del D.p.r. n. 380 del 2001) e ciò in
quanto l’art. 17, 3° comma, lett. c), D.p.r. n. 380 del 2001, stabilisce che:
“Il contributo di costruzione non è dovuto: […] per gli impianti,
le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale
realizzate dagli enti istituzionalmente competenti, nonché per le
opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in
attuazione di strumenti urbanistici”.
religiose - Utilizzo da parte dei Comuni del fondo derivante dagli oneri di
urbanizzazione e contributi regionali per gli interventi relativi agli edifici di culto e
pertinenze funzionali all' esercizio del culto stesso)”.
Tuttavia vi è da dire che altre Regioni, come ad esempio la Puglia, già a suo tempo
prevedevano anche per le confessioni diverse dalla cattolica prive di intesa la possibilità
di ottenere contributi purché ne facessero apposita domanda. Vedi: L.R. Puglia n. 4 del 4
febbraio 1994, art. 2, Norme in materia di edilizia di culto e di utilizzazione degli oneri di
urbanizzazione. Vedi: V. TOZZI, Edilizia di culto, in AA. VV., Diritto ecclesiastico e Corte
costituzionale, a cura di R. Botta, SEI, Napoli, 2006.
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Per il permesso di costruire, invece, si procede avendo la
disponibilità dell’area (pervenuta attraverso acquisto, donazione o altro),
quindi si redige un progetto che dovrà essere conforme ai parametri dello
strumento urbanistico generale del Comune. Per potere acquisire il
permesso di costruire, il progetto, completo di tutti gli elaborati tecnici di
rito, dovrà essere consegnato allo Sportello Unico per l’Edilizia (S.U.E.) del
Comune interessato (art. 13, l. 7 agosto 2012, entrato in vigore il 12
febbraio 2013).
Per il rilascio del permesso di costruire, il S.U.E. acquisisce
direttamente, o mediante conferenza dei servizi, gli atti di assenso
necessari alla formazione del titolo edilizio per la realizzazione dell’opera.
A titolo di esempio, tra i principali assensi richiesti rientrano: le
autorizzazioni e le certificazioni del competente Ufficio Tecnico Regionale
(ex Genio Civile) per le costruzioni in zone sismiche; il parere dei vigili del
fuoco, se necessario, in ordine al rispetto della normativa antincendio; il
parere dell’A.S.L. competente; il parere dell’autorità competente in
materia di assetti e vincoli idrogeologici; l’autorizzazione dell’autorità
competente per le costruzioni su terreni confinanti con il demanio
marittimo.
Quanto al terzo aspetto, il progetto in variante al P.R.G. o P.S.C.
relativo a una chiesa o a un edificio di culto, rende tale costruzione
assimilabile a un’opera pubblica, è cioè un’opera di pubblica utilità, di
interesse generale; essa, pertanto, in quanto tale, può essere costruita in
variante allo strumento urbanistico generale (P.S.C. o ex P.R.G.). Questo
può accadere quando la disponibilità dell’area non è all’interno delle zone
a servizio (zone F) dello strumento urbanistico, per cui si dovrà procedere
secondo il D.p.r. n. 327 del 2001 (T.U. sulle espropriazioni) il quale, all’art.
19, stabilisce che quando l’opera da realizzare non risulta conforme alle
previsioni urbanistiche, l’approvazione del progetto definitivo da parte
del Consiglio comunale costituisce adozione della variante allo strumento
urbanistico.
Se la Regione o l’ente da questa delegato non manifesta il proprio
dissenso entro il termine di novanta giorni dalla ricezione della delibera
del Consiglio comunale, s’intende approvata la determinazione del
Consiglio comunale, che in una successiva seduta ne dispone l'efficacia23.
Completato l’iter della variante, se prevista, per il rilascio del
permesso di costruire sarà necessario procedere, come sopra indicato,
attraverso lo sportello unico.
23 N. CENTOFANTI, Diritto di costruire. Pianificazione urbanistica. Espropriazione, t. I,
Giuffrè, Milano, 2010, p. 637.
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Infine, il cambio della destinazione d’uso di edifici esistenti o parti
di essi, per adibirli a luoghi di culto presenta invece una molteplicità di
aspetti tecnici talmente specifici e fortemente variabili, anche per le
diverse normative regionali, che trattato in questa sede diverrebbe
argomento farraginoso e scarsamente comprensibile.
Basti dire che di norma il mutamento della destinazione d’uso di un
immobile viene realizzato attraverso lo strumento della Denuncia di Inizio
Attività (D.I.A.) o Segnalazione Certificata d’Inizio Attività (S.C.I.A.) da
presentare agli uffici dell’amministrazione comunale competente.
Nel caso in cui il cambio di destinazione d’uso di un immobile è
finalizzato all’insediamento di un luogo di culto24, la questione diventa
più complessa poiché l’afflusso di un certo numero di persone legate
all’attività che vi verrà svolta potrebbe essere di rilevante impatto
urbanistico e renderebbe necessaria la verifica delle dotazioni di
attrezzature pubbliche rapportate a dette utilizzazioni (per es.: parcheggi,
ecc.) e potrebbe avere effetti sul rilascio del certificato di agibilità.
A conferma della particolarità della fattispecie sopra affrontata
basta ricordare, ad esempio, che la Regione Lombardia con la L.R. n. 12
dell’11 marzo 200525 (legge per il governo del territorio) prevede che ogni
mutamento di destinazione d’uso d’immobili, anche senza opere edilizie,
ma comunque finalizzato alla creazione di luoghi di culto e di luoghi
destinati a centri e strutture a carattere sociale, è sempre assoggettato a
permesso di costruire (art. 52, comma 3 bis)26.
Sulla normativa e la legislazione in materia di mutamento di destinazione d’uso,
vedi: A. FABBRI, L’utilizzo di immobili per lo svolgimento di attività di culto, in Stato, Chiese e
pluralismo confessionale, Rivista telematica (http://www.statoechiese.it), n. 40 del 2013, p. 3 ss.
“Su tale argomento sono intervenuti negli ultimi anni alcuni episcopati nazionali,
dettando orientamenti e criteri specifici sul cambiamento d’uso delle chiese che, pur
muovendo da principi comuni sostanzialmente condivisi, presentano talora differenze
nelle soluzioni pratiche proposte, dipendenti in larga misura dalle specifiche situazioni
locali”. P. CAVANA, Episcopati nazionali, chiese dismesse e nuove destinazioni d'uso, in
QDPE, n. 1, 2010, p. 56. Vengono esaminate dall’A. le posizioni degli episcopati: tedesco,
svizzero, canadese (Québec), statunitense, francese e italiano. Sulle norme concernenti la
costituzione e la messa a disposizione di edifici di culto in altri Paesi: A. FORNEROD,
Entre cultuel et culturel: la construction de lieux de culte en France, ivi, pp. 161-176; M.
LOPEZ, Sous le contrôle des pouvoirs publics: la surveillance des lieux de culte en France et en
Espagne, ivi, pp. 177-198; A. SEGLERS, La nuova legge catalana sui luoghi di culti, ivi, pp.
227–236; J. PRIVOT, La production architecturale des mosquées dans le contexte européen:
essais d’analyse, ivi, pp. 237–256.
25 Sul punto, ampiamente, vedi: N. MARCHEI, La legge della Regione Lombardia
sull’edilizia di culto alla prova della giurisprudenza amministrativa, in Stato, Chiese e pluralismo
confessionale, cit., n. 12, 2014, pp. 1-16.
26 N. MARCHEI, La legge della Regione Lombardia, cit., p. 7 ss.
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Il rilascio del permesso di costruire è condizionato alla verifica che
il progetto contenga strutture essenziali alla configurabilità dell’edificio di
culto relative alla sua funzione. Per quanto riguarda l’attività degli uffici
preposti alla sua approvazione, gli accertamenti riguarderanno la
presenza di uscite di sicurezza in relazione al numero presumibile di
utilizzatori, la presenza di accessi per i disabili, la biocompatibilità27, e
tutte quelle condizioni e requisiti espressamente previsti dalla legislazione
per qualsiasi edificio che preveda l’accesso di un numero rilevante di
persone. Il richiedente l’approvazione del progetto potrà indicare non solo
la tipologia urbanistica della costruzione, ma anche la presenza necessaria
di alcune caratteristiche strutture quali, ad esempio, un minareto, lo
spazio antistante all’ingresso destinato anch’esso al culto pubblico, come
un porticato o una rampa di accesso, eventuali pertinenze funzionali alle
attività che sono connesse all’esercizio del culto, con il limite della
superficie di proprietà del richiedente e della disponibilità delle aree date
in concessione. La realizzazione di tali opere, se ha un limite nelle
Nell’ambito del convegno nazionale Costruire bene per vivere meglio - Edifici di culto
nell'orizzonte della sostenibilità, Roma, 14–16 aprile 2008, sono passati al vaglio della C.E.I.
dei progetti pilota per il recupero energetico degli edifici di culto, da applicare in tutte le
diocesi. La particolare attenzione sulla relazione tra il costruire e l’ambiente, sostenendo
la necessità di una visione bioarchitettonica degli edifici di culto, antichi e nuovi, visti
nell’orizzonte della sostenibilità, è il frutto di un’attenzione che la Chiesa cattolica da anni
dedica alla responsabilità verso l’ambiente. Su queste tematiche grande impulso è stato
dato alla dottrina della Chiesa sotto il pontificato di GIOVANNI PAOLO II, di cui
ricordiamo le encicliche: Redemptor Hominis, 1979, nn. 8, 15-16; Sollicitudo Rei Socialis, 1987,
nn. 26, 29-30, 34; Centesimus Annus, 1991, che introduce il termine “ecologia umana” (n.
37) e l’Evangelium Vitae, 1995, nn. 10, 27 e 42. e, ancora, le esortazioni postsinodali: Ecclesia
in America, 1999, nn. 25, 56; Ecclesia in Oceania, 2001, n. 31; Ecclesia in Europa, 2003, n. 89.
Sul punto si vedano anche il D.l. del 4 giugno 2013, n. 63, recante: Disposizioni urgenti
per il recepimento della Direttiva 2010/31/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19
maggio 2010, sulla prestazione energetica nell'edilizia per la definizione delle procedure
d'infrazione avviate dalla Commissione europea, nonché altre disposizioni in materia di coesione
sociale, il quale interviene drasticamente sul D.lgs. del 19 agosto 2005, n. 192, Attuazione
della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell'edilizia, per quello che
riguarda il settore della riqualificazione ed efficienza energetica del patrimonio
immobiliare italiano, pubblico e privato. Così, in base al combinato disposto dei commi 3,
3-bis e 3-ter dell’art. 3 del nuovo testo del D.lgs. n. 192 del 2005, è stata ampliata
l’individuazione degli edifici non soggetti ad attestato (APE o ACE), introducendo tra le
tipologie di edifici esenti, quelli “adibiti a luoghi di culto e allo svolgimento di attività
religiose”. Sebbene i criteri di biocompatibilità dovrebbero guidare la costruzione dei
nuovi edifici di culto cattolici, non sempre la realtà rispecchia i buoni propositi. Per un
esauriente commento sull’opera del magistero cattolico in materia di ambiente, vedi: A.P.
TAVANI, “Frate sole” e il fotovoltaico. Il ruolo della parrocchia e la tutela dell’ambiente tra
normativa statale e Magistero della Chiesa cattolica, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale,
cit., novembre 2011, pp. 13-21 e bibliografia ivi citata.
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compatibilità urbanistiche e nella disponibilità degli spazi, nonché nel
rispetto degli indici di edificabilità, certamente crea l’occasione per un
rapporto con gli enti di gestione del territorio, pertanto si rende necessaria
dopo attento esame una regolamentazione idonea a dirimere ogni
possibile controversia. In assenza di disposizioni legislative specifiche lo
strumento potrebbe essere quello della convenzione tra i proprietari degli
edifici di culto e il Comune, come già avviene per la Chiesa cattolica.
Esaminati quindi gli adempimenti amministrativi, possiamo entrare
nel merito delle caratteristiche che gli edifici di culto devono avere per
soddisfare il bisogno religioso della comunità di afferenza e se tali
strutture possano configurarsi come parti essenziali all’edificio di culto.
Come abbiamo visto gli strumenti legislativi e regolamentari si sono
definiti nel tempo e tuttavia la legislazione in materia di costruzione e
finanziamento di edifici di culto ha subìto una svolta nel 1993 con la
sentenza n. 195 della Corte costituzionale, la quale ha riconosciuto il
diritto di disporre di edifici di culto anche alle confessioni che non
avevano stipulato intesa con lo Stato28. Tuttavia le Regioni hanno
proceduto sulla strada di una legislazione di favore verso la Chiesa
cattolica, estesa alle confessioni che hanno stipulato intesa con lo Stato,
come dimostra l’ampia elaborazione legislativa29 sia precedente sia
28 La Corte costituzionale nove anni dopo torna sulla questione con la sentenza n. 346
del 2002, nella quale dichiara l’illegittimità costituzionale della norma di cui alla L.R.
Lombardia 20 del 1992 che limitava, come l’art. 1 della L.R. Abruzzo n. 29 del 1988,
l’accesso ai benefici economici per la realizzazione delle attrezzature religiose alla Chiesa
cattolica e alle confessioni munite di intesa. V. TOZZI, Osservazioni a Corte Costituzionale
19-27 aprile 1993, n. 195, in QDPE, n. 3, 1993, pp. 691-692; S. DOMIANELLO,
Giurisprudenza costituzionale e fattore religioso. Le pronunzie della Corte Costituzionale in
materia ecclesiastica (1987-1998), Giuffrè, Milano, 1999, p. 172 ss.; R. MAZZOLA, La
questione dei luoghi di culto alla luce delle proposte di legge in materia di libertà religiosa. Profili
problematici, in AA. VV., Proposta di riflessione per l’emanazione di una legge generale sulla
libertà religiosa, a cura di V. Tozzi, G. Macrì, M. Parisi, Giappichelli, Torino, 2012, pp. 198199; G.P. PAROLIN, Edilizia di culto e legislazione regionale nella giurisprudenza
costituzionale: dalla sentenza n. 195 del 1993 alla sentenza n. 346 del 2002, in Giurisprudenza
italiana, n. 2, 2003, pp. 351-353; G. D’ANGELO, Pronunce recenti in materia di edifici ed
edilizia di culto: uno sguardo d’insieme, in QDPE, n. 3, 2008, pp. 741, 755 e 769.
29 Di seguito sono indicate le leggi regionali, sia antecedenti alla legge nazionale sugli
oratori, sia successive al 2003, che hanno riconosciuto la funzione sociale ed educativa
svolta dalle parrocchie attraverso le attività di oratorio e similari: L.R. Abruzzo n. 36 del
31 luglio 2001, Riconoscimento della funzione sociale ed educativa svolta dagli oratori
parrocchiali e valorizzazione del ruolo; L.R. Calabria, n. 16 del 2 maggio 2001, Riconoscimento
e valorizzazione della funzione sociale svolta dalla comunità cristiana e dagli operatori parrocchiali
nell'ambito del percorso formativo della persona; L.R. Friuli Venezia Giulia n. 2 del 22 febbraio
2000, Disposizioni per la formazione del bilancio pluriennale ed annuale della regione, L.R. Lazio
n. 13 del 13 giugno 2001, Riconoscimento della funzione sociale ed educativa degli oratori; L.R.
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successiva alla legge c.d. sugli oratori30, che segna il definitivo varo di una
legislazione particolarmente di favore verso le strutture religiose presenti
sul territorio, svolgenti attività di carattere sociale. Rilevante è notare come
la suddetta legge n. 206 del 200331 consacri, fuori da ogni dubbio lasciato
Liguria n. 16 del 10 agosto 2004, Interventi regionali per la valorizzazione della funzione sociale
ed educativa svolta dagli oratori e da enti religiosi che svolgono attività similari; L.R. Lombardia
n. 22 del 23 novembre 2001, Azioni di sostegno e valorizzazione della funzione sociale ed
educativa svolta dalle parrocchie mediante gli oratori; L.R. Molise n. 6 del 27 gennaio 2003,
Riconoscimento della funzione educativa svolta dalle parrocchie e valorizzazione del loro ruolo
nella regione Molise; L.R. Piemonte n. 26 dell’11 novembre 2002, Riconoscimento e
valorizzazione della funzione educativa, formativa, aggregatrice e sociale svolta dalle parrocchie,
dagli istituti cattolici e dagli altri enti di culto riconosciuti dallo stato attraverso le attività di
oratorio; L.R. Puglia n. 17 del 25 agosto 2003, Sistema integrato d'interventi e servizi sociali;
L.R. Sicilia n. 19 del 22 dicembre 2005, Misure finanziarie urgenti e variazioni al bilancio della
regione per l'esercizio finanziario 2005. Disposizioni varie; L.R. Umbria n. 28 del 20 dicembre
2004, Riconoscimento e valorizzazione della funzione sociale, educativa e formativa svolta dalle
parrocchie mediante gli oratori; L.R. Veneto n. 3 del 14 gennaio 2003, Legge finanziaria
regionale per l'esercizio 2003. Sull’argomento, tra gli altri, cfr. N. FIORITA, Considerazioni
intorno alla recente legislazione regionale in tema di oratori, in QDPE, n. 2, 2003, p. 457 ss.
30 Si tratta della legge 1 agosto 2003, n. 206 (vedi supra: n. 7) più volte citata. In realtà,
però, il primo passo di una legislazione avente l’obiettivo di “riconoscere, valorizzare,
promuovere” la funzione educativa, formativa, aggregatrice, sociale svolta “dalle
parrocchie e dagli altri istituti religiosi e da enti di altre confessioni riconosciute dallo
Stato” nelle politiche sociali, è stato costituito anni prima dalla Legge n. 328 dell’ 8
novembre 2000, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi
sociali; l’intento del legislatore, espresso all’art. 1, 1 ° comma, fu quello di valorizzare il
più possibile il principio di sussidiarietà: le Regioni e lo Stato dovevano riconoscere e
agevolare il ruolo di tutti i soggetti sociali, compreso quello degli enti riconosciuti delle
confessioni religiose, con cui lo Stato ha stipulato intese nell'organizzazione e nella
gestione dei servizi sociali. Questa scelta risponde a un orientamento dell’Unione
Europea condiviso anche da altri Stati non solo appartenenti a quelli di più antica
presenza nell’Unione, ma anche dell’Est Europa. F. BOTTI, Sui contenuti di una possibile
Intesa con la Chiesa Ortodossa Romena in Italia, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, cit.,
marzo 2008, p. 10, n. 23, e p. 20.
31 Dalle disposizioni contenute nella legge “sugli oratori”, si evince come essa intenda
far sì che le Regioni riconoscano anche formalmente il ruolo educativo e la funzione
sociale degli oratori parrocchiali, i quali poi, dovranno essere adeguatamente supportati
con finanziamenti regionali per fare fronte alle tante necessità che essi hanno, sia
nell'espletamento della loro missione religiosa, sia nella realizzazione della funzione
sociale, educativa e formativa. Benché non vi è dubbio che tali strutture svolgano una
funzione sociale di rilevante importanza, da questa scelta discende una forte
settorializzazione degli interessi religiosi tutelati, in quanto verranno protetti quelli di
segmenti della popolazione afferenti a una determinata confessione religiosa e non quelli
della collettività nel suo complesso e nella sua più articolata composizione. In tal modo
l’appartenenza religiosa diviene motivo per ottenere particolari tutele, con grave lesione
del principio di laicità dello Stato.
Per risolvere questo problema c’è chi propone una rinascita dell’istituto della
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dalla precedente legislazione32, non solo gli oratori quali pertinenze degli
edifici di culto, ma soprattutto estenda la nozione stessa di oratorio, e
quindi di pertinenza, anche agli immobili e alle attrezzature fisse destinate
ad attività similari33. Le dimensioni di tutto ciò che è da intendere come
pertinenza ai sensi del codice civile, sono condizionate dalla superficie
della quale il committente e/o progettista dispongono, subendo i limiti
imposti dalla legislazione urbanistica generale. Questa dilatazione della
nozione di pertinenza pertanto non è lasciata in toto alla discrezionalità del
committente e/o del progettista34: a essi compete l’indicazione dei soli
criteri che dovrà avere la nuova costruzione di culto, come d'altronde
accade per qualsiasi altro progetto.
fabbriceria. “Esse hanno dato nei secoli buona prova delle possibilità d’incontro tra
confessione religiosa e autorità pubbliche, contribuendo a dettare le regole di una sana
collaborazione tra lo Stato e il culto, relativamente alla gestione degli edifici dedicati al
culto pubblico. Oggi occorre trovare - nel rispetto della laicità dello Stato e della libertà di
coscienza - soluzioni ai problemi posti da una società caratterizzata dalla presenza di
numerosi culti, assicurando a tutti gli stessi diritti e consentendo la pacifica convivenza
sul territorio di differenti comunità religiose, senza alcuna lesione della libertà di culto e
di coscienza. Servono perciò regole collaudate, soprattutto per quanto attiene la
collaborazione tra autorità pubbliche e religiose nella gestione dei luoghi deputati al culto
pubblico, dove più acuta si fa la sensibilità religiosa relativamente alle possibili lesioni dei
principi di autonomia e di libertà e più forte l’esigenza dello Stato di affermare la sua
laicità, tolleranza e neutralità”. Così: G. CIMBALO, Fabbricerie, gestione degli edifici, cit., p.
4. In questa direzione sembra andare l’individuazione di una categoria di fabbricerie
“atipiche”, vedi: Decreto Luogotenenziale del 10 maggio 1917, con il quale è approvato il
regolamento per la “Comunità dei greco-ortodossi” in Venezia, in G.U., 6 giugno 1917, n.
132.
32 Il particolare trattamento giuridico nei confronti degli oratori parrocchiali ha riflessi
sulla legislazione fiscale laddove gli oratori sono equiparati agli edifici di culto ai fini
della determinazione della base imponibile per l'imposta sui fabbricati, così anche il
D.lgs. n. 504 del 30 dicembre 1992, Riordino della finanza degli enti territoriali a norma
dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, art. 7, lett. d).
33 In quanto pertinenze, tali immobili erano dunque considerati opere di
urbanizzazione secondaria e non erano sottoposti all’ICI (art. 2, 1° comma). Le minori
entrate che i Comuni avranno in conseguenza di queste politiche sono compensate da
stanziamenti aggiuntivi dello Stato, “non sono soggetti a riduzione per effetto di altre
disposizioni di legge” (art. 2, 2° comma). Per un commento giuridico – economico sulla
legge n. 206 del 2003, vedi: N. FIORITA, Enti ecclesiastici ed agevolazioni fiscali: brevi note su
alcuni recenti provvedimenti governativi, consultabile su: http://tinyurl.com/popj7ht, pp. 8-10.
34 C.E.I., COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA, Nota pastorale, La
progettazione di nuove chiese, Roma 18 febbraio 1993, punti 25, 27, p. 10. La nota richiama
quanto disposto dall’art. 5, comma 3, del concordato del 1984, anche con riferimento alla
individuazione delle pertinenze parrocchiali.
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Inoltre, secondo il codice di diritto canonico la costruzione di una
chiesa è subordinata, tra l’altro, al rispetto delle regole liturgiche35 (can.
1216 c.i.c.), ed è proprio su questo aspetto che soffermeremo la nostra
attenzione, in quanto esso evidenzia l’esclusiva competenza in materia da
parte della Chiesa cattolica, come del resto avviene per ogni altra
confessione religiosa, poiché ogni religione ha le sue norme e le sue
tradizioni dalle quali sono desumibili le caratteristiche da attribuire al
proprio edificio di culto, non solo in ordine all’utilizzazione degli spazi
interni, ma anche alla struttura architettonica dell’edificio, collegata alle
funzioni che dovrà svolgere. Il limite che l’autorità pubblica potrà opporre
a tale discrezionalità è quello generale costituito dai regolamenti
urbanistici relativi al rispetto dei parametri volumetrici e a ogni altra
caratteristica strutturale che collega la disponibilità di suolo posseduta, il
rispetto delle distanze da altri edifici, l’impatto del costruendo edificio sul
territorio, in relazione a quanto previsto negli strumenti urbanistici,
nonché la realizzazione di quelle opere che ne consentano la fruibilità in
relazione al rispetto della normativa anti incendio, la presenza di strutture
di accesso per i portatori di handicap, di uscite di sicurezza, ecc.
Quanto detto comporta che, siccome le caratteristiche dell’edificio
cultuale finiscono per rientrare all’interno d’indicazioni pastorali, non
strettamente normative, o in altre norme religiose per le confessioni
diverse dalla cattolica, le autorità confessionali possono stabilire criteri
diversi, ampliando o restringendo, secondo i propri bisogni, la nozione di
edificio di culto e senza che l’ordinamento giuridico italiano possa
intervenire al di là dei parametri indicati e di carattere generale, in virtù
dell’incompetenza che si è autoattribuita in materia religiosa e degli
impegni bilateralmente assunti ai sensi dell’art. 5 del Concordato 1985. Del
resto le considerazioni appena esposte confermano la natura privata
dell’edificio di culto in quanto esso è funzionale alle esigenze della
confessione di afferenza e d’altra parte non potrebbe essere diversamente,
a condizione, ovviamente, di non violare, come già rilevato, norme
generali relative ai regolamenti edilizi e i principi generali relativi alla
realizzazione dell’edilizia privata che, ferme le norme generali e i
parametri di riferimento, lasciano al proprietario dell’immobile le scelte
architettoniche e la distribuzione interna degli spazi.
“[…] l’autorità competente a manifestare le esigenze religiose dei cives fideles, quanto
l’esclusività riservata ad essa nel fungere da interlocutrice confessionale con l’autorità
civile chiudono qualsiasi spazio ad un controllo diffuso e quindi autenticamente
democratico sulle iniziative promozionali assunte dallo Stato in favore dell’edilizia di
culto”, M. RICCA, Edilizia di culto, normativa concordataria e partecipazione democratica, in
Archivio giuridico, vol. 218, 1998, p. 384.
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Inoltre, per quanto riguarda la Chiesa cattolica, il fatto che: «le
chiese hanno in sé la capacità di modificarsi in relazione alla riforma
liturgica, dal momento che il loro legame con la liturgia è costitutivo: sono
infatti luoghi creati per la liturgia e perciò sono "adeguabili" ad essa»36,
comporta una notevole elasticità nell’individuazione di ciò che può essere
considerato edificio di culto o sua pertinenza. Fino a oggi le modifiche alle
vecchie costruzioni, o i criteri per quelle nuove, che hanno interessato gli
edifici di culto per la loro adattabilità alla nuova liturgia approvata dal
Concilio Vaticano II si sono risolte in modifiche interne all’edificio
relativamente, ad esempio, al posizionamento dell’altare, in modo da
permettere al ministro di culto di essere rivolto frontalmente alla platea
dei fedeli. Ciò però non toglie che in un futuro, sebbene remoto, non
possano essere formulati ulteriori criteri in ambito liturgico, vincolanti per
la struttura dell’edificio di culto e che comportino la necessità di
ampliarne lo spazio con la creazione di pertinenze37 o attraverso una
diversa distribuzione degli arredi. D’altra parte, senza ipotizzare scenari
improbabili, è noto che il sagrato, a partire dal XIX secolo fu oggetto di
desacralizzazione, al punto che era scomparso dalla progettazione delle
chiese. Tuttavia con la riforma seguita al Concilio Vaticano II si è sentita
l’esigenza di ripristinare il significato primitivo del sagrato-atrio, come lo
36 C.E.I., COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA, Nota Pastorale,
L'adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, 31 maggio 1996, punto 2, p. 3. Tale
disposizione non ha carattere normativo, e comunque non è parte del diritto particolare
canonico della Chiesa in Italia.
37 Basti pensare alle novità introdotte dal Concilio Vaticano II. Tuttavia, rilevante è
notare come la giurisprudenza abbia evidenziato la differenza tra la nozione di
pertinenza urbanistica e quella civilistica: mentre per quest'ultima rilevano sia l'elemento
obiettivo sia quello soggettivo, nella prima acquista rilevanza solo l'elemento oggettivo. Il
legislatore, con il testo unico dell'edilizia, approvato con D.p.r. n. 380 del 2001, per
superare le incertezze derivanti dal criterio quantitativo indicato dalla giurisprudenza
per le pertinenze, ha individuato due parametri per precisare quando l'intervento perde
le caratteristiche della pertinenza per assumere i caratteri della nuova costruzione: il
primo rinvia alla determinazione delle norme tecniche degli strumenti urbanistici, che
dovranno tenere conto della zonizzazione e del pregio ambientale e paesistico delle aree;
il secondo, alternativo al primo, qualifica come nuova opera gli interventi che comportino
la realizzazione di un volume superiore al 20% di quello dell'edificio principale. In ogni
caso non bisogna confondere il concetto di pertinenza con quello di parte dell'edificio. Da
ciò consegue che l'ampliamento di un edificio preesistente non può considerarsi
pertinenza ma diventa parte dell'edificio stesso perché, una volta realizzato, completa
l'edificio preesistente affinché soddisfi meglio i bisogni cui è destinato. Cass., sez. III
penale, sent. n. 28504 del 18 luglio 2007.
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spazio dell’accoglienza nella casa di Dio38, facendolo divenire uno spazio
imprescindibile e pertinenziale al luogo di culto.
3 - Pertinenze “liturgiche” e pertinenze “funzionali”: un primo controllo
di spesa
Ogni confessione religiosa nell’espletamento del culto ha specifiche
esigenze le quali trovano origine in una determinata liturgia, oppure
possono a essa essere ricondotte, divenendo in questo modo funzionali ed
essenziali al suo svolgimento. Quando un edificio di culto viene
progettato occorre che esso rispecchi, tra l’altro, nel rispetto di parametri
volumetrici, architettonici e strutturali, le finalità contenute nelle norme
cultuali liturgiche39 le quali, almeno per la Chiesa cattolica, sono
finalizzate principalmente al “culto della maestà divina”40 e costituiscono
“il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte
da cui promana tutta la sua energia”41.
Vale la pena considerare che la diversa distribuzione delle
popolazioni sul territorio muta i parametri di riferimento, per cui sarà
pure vero che muti anche il paesaggio, anche a causa della presenza di
nuovi edifici, ma è un fatto che le popolazioni non sono più quelle di un
tempo e non si può chiedere la non rappresentazione degli interessi
religiosi di una popolazione in ragione della tradizione del luogo, a meno
di non vietare nuovi insediamenti e nuovi apporti di residenti. Del resto,
ovunque il territorio è un luogo vivo che non può essere conservato
immutabile, come anche il paesaggio, a meno di non fissare nel tempo uno
standard di riferimento, che comunque risulterebbe del tutto arbitrario42.
Tale orientamento è ripreso da due note pastorali della C.E.I. (vedi: supra, nn. 34 e
36) che sviluppano la riflessione della Chiesa cattolica sulla caratteristica, le funzionalità e
la conservazione dello spazio antistante alla chiesa. Esse pongono grande attenzione al
significato di detta pertinenza e suggeriscono, più che l’opportunità, la necessità che la
sua esistenza e disponibilità venga presa in dovuta considerazione al momento della
progettazione di un edificio sacro.
39 Sulla relazione che intercorre tra la celebrazione del culto e l’edificio in cui essa si
attua, vedi: C.E.I., COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA, Nota Pastorale,
L'adeguamento, cit., pp. 10-13.
40 COSTITUZIONE SULLA SACRA LITURGIA, Sacrosanctum Concilium, 4 dicembre
1963, p. 33.
41 COSTITUZIONE SULLA SACRA LITURGIA, Sacrosanctum Concilium, cit., p. 10
42 Il dibattito a riguardo concerne soprattutto la conservazione dei centri storici e il
recupero di essi attraverso il restauro. Su queste tematiche, vedi: P. SANPAOLESI,
Discorso sulla metodologia generale del restauro dei monumenti, Edam, Firenze, 1990; S.
SETTIS, Paesaggio Costituzione Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile,
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Per consentire una convivenza il più armoniosa possibile in
rapporto al mutare della composizione religiosa delle popolazioni, i
parametri richiamati elaborati dalla Chiesa cattolica, a ben guardare,
possono essere considerati validi per tutte le confessioni religiose, in
quanto sono sufficientemente generici per essere applicati a qualsiasi
esercizio del culto e consentono d’immettere nell’edificio pertinenze con
finalità liturgiche, come i campanili o i minareti, necessari al richiamo dei
fedeli43; specifiche cappelle destinate a ospitare reliquie o al culto di un
santo, oppure sepolcri annessi all’edifico che conferiscono a esso una
particolare funzione spirituale, oppure, come esplicitamente prevede l’art.
5, 3° comma, del Concordato 1984 “pertinenti opere parrocchiali”44.
Giulio Einaudi Editore, Torino, 2010; AA. VV., Piero Sanpaolesi. Restauro e metodo, Atti
della giornata di studio per il centenario della nascita di Piero Sanpaolesi, 18 aprile 2005,
a cura di G. Tampone, F. Gurrieri, L. Giorgi, Nardini, Firenze, 2012. Mentre gli storici
dell’arte italiani sostengono questa esigenza, soprattutto in Francia l’innovazione è
presente e viene praticata con inserimenti di elementi architettonici moderni in un
contesto urbano antico. Significative a riguardo realizzazioni come il Beaubourg o la
ristrutturazione del quartiere di Les Halles o la trasformazione d’uso dell’ex stazione
d’Orsay che ospita ora il museo dedicato agli impressionisti.
43 Restando nell’ambito degli edifici di culto delle religioni monoteiste, la moschea si
presenta spoglia ed essenziale e di fatto definisce uno spazio destinato alla preghiera
congregazionale, un recinto a forma rettangolare delimitato da uno o più porticati,
coperti con un tetto o con una caratteristica serie di cupolette. In una posizione centrale
sorge una fontana, destinata alle abluzioni dei fedeli. Sul lato del rettangolo
perpendicolare alla direzione in cui si trova La Mecca c'è una nicchia, chiamata in arabo
miḥ rāb, che indica la direzione della preghiera. A destra della "nicchia direzionale", molto
rialzato dal pavimento, trova posto il minbar, costituito da una scala che porta a un podio
con sedile, dal quale colui che guida la preghiera congregazionale del venerdì fa la
predica ai fedeli (khuṭ ba ). In tempi successivi, con l’espandersi dell’Islam, la moschea
assume la forma di grande sala delle preghiere, ricoperta a tetto, a volta, a cupola.
Ogni moschea, poi, ha uno o più minareti con una terrazza sporgente. Dal manāra, il
muezzin fa l’al-anzana, la chiamata alla preghiera. Il complesso di edifici che stanno
intorno alla moschea costituiscono luoghi di incontro nei quali si svolge e si dipana la vita
sociale di coloro che afferiscono a quella moschea e che costituiscono la comunità.
Cfr. S. ALLIEVI, Moschee in Europa. Conflitti e polemiche, tra fiction e realtà, cit., p. 151 ss.
44 Ad esempio le teqe dei bektashi sono spesso dedicate a particolari figure del loro
culto che hanno condotto una vita esemplare e che perciò sono sepolti in locali contigui
all’edificio di culto vero e proprio che, a volte, assume il loro nome e hanno la funzione
d’ispirare una particolare intensa spiritualità ai fedeli che lo frequentano. Così avviene
anche per la Chiesa cattolica dove le reliquie del santo a cui il tempio è dedicato, sono
poste in genere sotto l’altare e finiscono per dare il nome all’insieme dell’edificio di culto.
Ciò non vieta che vengano utilizzati locali parzialmente autonomi o pertinenziali, posti in
edifici collegati a quello principale e parte di un complesso monumentale che nel suo
insieme costituisce il luogo di culto, nei quali vengono ospitati ex voto od oggetti
appartenuti alla figura religiosa di riferimento che sono esposti alla venerazione dei
fedeli.
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Inoltre, l’impegno concordatario relativo alla costruzione di nuovi edifici
di culto del richiamato art. 5 proietta su tutta la normativa a riguardo la
previsione che la costruzione debba rispondere alle esigenze della
popolazione, esigenze che riguardano non solo i cattolici, ma tutte le
confessioni.
Il mutare delle esigenze del culto e delle modalità con le quali si
esercita la funzione di propaganda religiosa hanno inciso e incidono sulla
struttura stessa dell’edificio che viene dotato di nuovi locali destinati allo
svolgimento di specifiche attività. Accanto al tradizionale auditorio per le
manifestazioni a carattere espositivo e culturale, si aggiungono stazioni
radio, istallazioni informatiche e archivi, biblioteche e centri di
comunicazione45.
Vi sono inoltre delle pertinenze “funzionali”, ma “improprie”, che
costituiscono una entità a sé stante. Intendiamo riferirci agli oratori, ai
quali il nostro legislatore ha dedicato specifica attenzione46: si tratta di
strutture polifunzionali rispetto alle quali i locali in cui viene amministrata
l’eucarestia divengono piuttosto una pertinenza di una unità immobiliare
più complessa, dedicata a una pluralità di attività. Malgrado ciò, il luogo
in cui viene celebrata l’eucarestia proietta su di esso la qualificazione
giuridica di edificio di culto, per cui il trattamento giuridico riservato alla
chiesa si estende all’insieme dell’unità immobiliare. L’applicazione di
questo criterio potrebbe essere estesa anche a confessioni diverse dalla
cattolica: è il caso del rapporto tra sala di preghiera di una moschea
rispetto al complesso dei locali di una comunità islamica 47. Infatti, accanto
allo spazio strettamente dedicato alla preghiera rituale, possiamo trovare
Negli edifici di culto di più recente costruzione si notano alcune significative
innovazioni. Ad esempio la nuova grande teqe di Tirana - che sarà presto inaugurata -, nel
piano inferiore alla grande sala di preghiera, ospita numerosi locali : un auditorio, una
biblioteca, gli archivi dell’organizzazione, una sala dotata di computer, ecc., ai fini di
amministrare e gestire con efficacia ed efficienza il culto. Non va dimenticato che nei
locali contigui è posta la sede centrale della comunità religiosa.
Analoga scelta è stata fatta dalla Chiesa ortodossa autocefala d’Albania in occasione
della costruzione della sua cattedrale a Tirana.
46 Un’attenta riflessione sulla diversità di significato tra la nozione di oratorio così
come prevista dal diritto canonico e quella invece attribuita dal legislatore italiano con la
già citata legge n. 206 del 2003 è sviluppata da: M.L. LO GIACCO, La legge sugli oratori tra
funzione sociale e libertà religiosa, in Dir.Eccl., n. 1, 2004, p. 144 ss., ma vedi anche N.
FIORITA, Enti ecclesiastici ed agevolazioni fiscali: brevi note su alcuni recenti provvedimenti
governativi, in www.olir.it, ottobre 2005; A. GUARINO, La giungla delle agevolazioni fiscali
“religiose”. Una via per non perdersi, in QDPE, n. 1, 1998, p. 125.
47 Ad esempio intorno alla moschea di Parigi, la prima di Francia, ruotano strutture
come un ristorante, una biblioteca, una sala da tè, un ḥ ammām, una libreria e annessi
locali che ospitano il personale religioso e nei quali si svolgono attività di istruzione.
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strutture pertinenziali in cui si svolgono anche attività di comunità, dove
vengono affrontate questioni di carattere sociale, culturale e politico e si
tengono attività scolastiche, assistenziali e caritatevoli48. Non di rado in
esse ha sede un waqf che eroga servizi alla comunità che fa capo alla
moschea49
C’è da dire poi che gli edifici di culto sono stati in passato luoghi
intorno ai quali si radunava la comunità per assumere decisioni in ambito
civile e gestire la vita comunitaria; alcune chiese hanno conservato ancora
oggi questa funzione simbolica in ambito civile. Santa Croce a Firenze, ad
esempio, riveste allo stesso tempo un’importanza religiosa e una civica;
luogo di sepoltura di personaggi di spicco della nazione, tra cui anche non
credenti, è stata sede nella quale venne proclamata la Riforma criminale
toscana, con la quale Leopoldo II abolì, primo in Europa, la pena di morte.
Per questi motivi, la Regione Toscana, ha istituito la c.d. “Festa della
Toscana” in occasione della quale il Consiglio regionale toscano si riunisce
in una solenne seduta quale:
“occasione per meditare sulle radici di pace e di giustizia del
popolo toscano, per coltivare la memoria della sua storia, per
attingere alla tradizione di diritti e di civiltà che nella Regione
Toscana hanno trovato forte radicamento e convinta
affermazione, per consegnare alle future generazioni il
patrimonio di valori civili e spirituali che rappresentano la sua
originale identità rigorosamente inserita nel quadro dell'unità
della Repubblica Italiana, rispettosa dei principi sanciti dalla
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea”50.
Sul punto vedi: A. BETTETINI, La condizione giuridica dei luoghi di culto tra
autoreferenzialità e principio di effettività, in QDPE, n. 1, 2010, p. 5 ss.
49 Sul punto vedi F. CASTRO, Diritto mussulmano e dei paesi islamici, in Digesto delle
discipline privatistiche, Sezione civile, vol. VI, Utet, Torino 1990, p. 288 ss.; G. VERCELLIN,
Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, Torino, 1996; SAMI A. ABU-SAHLIEH, Il diritto
islamico. Fondamenti, fonti, istituzioni, ed. it. a cura di M. Arena, Carocci, Roma, 2008, pp.
517-546; W.L.B. HALLAQ, Introduzione al diritto islamico, il Mulino, Bologna, 2013.
50 L.R. Toscana del 21 giugno 2001, n. 26, art. 1, 2° comma, in BURT, n. 20 del 27
giugno 2001. Il caso italiano non è il solo. Un particolare regime giuridico, ad esempio, è
previsto in Spagna per alcune chiese cattedrali che si sono viste riconosciute una funzione
identitaria dalla Comunità Autonoma nella quale sono collocate. Su tali edifici di culto
convergono quindi funzioni identitarie legate alla Comunità Autonoma e alla società per
quanto riguarda il loro valore artistico e storico, che si affiancano al loro valore e dalla
loro funzione religiosa. Per un approfondimento vedi: J.I. ALONSO PÉREZ, Un modello
di collaborazione in un sistema policentrico di competenze: la legislazione spagnola sui beni di
interesse culturale di proprietà ecclesiastica, in AA. VV., Europa delle Regioni e confessioni
religiose, Leggi e provvedimenti regionali di interesse ecclesiastico in Italia e in Spagna, a
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A ben guardare, le considerazioni fin qui svolte valgono per tutte le
confessioni religiose, le quali per necessità di culto sono portate a creare
attorno all’edificio di culto una fitta rete di attività sociali, la cui funzione
non si discosta da quella accordata agli oratori della Chiesa cattolica.
Ciò vale quindi anche per le sinagoghe, le quali si caratterizzano
per una particolare disposizione degli spazi interni. La sinagoga è
l’edificio del culto in cui i fedeli partecipano alla celebrazione del culto;
essa nasce presumibilmente durante l’esilio babilonese e costituisce non
solo il luogo di preghiera, ma anche quello di raccolta della comunità, e
svolge quindi una funzione identitaria. Il suo assetto architettonico
riprende quello delle basiliche romane che si sviluppavano su tre navate.
Queste sono disposte in modo che i fedeli preghino rivolti verso
Gerusalemme; gli elementi di arredo caratteristici di ogni sinagoga sono
costituiti dalla tēbāh o ărōn ha-qōdesh che viene addossata alla parete a est e
rialzata di alcuni gradini. Spesso è costruita in legno decorato con fini
intagli e chiusa da una ricca tenda (pārōket). Contiene i rotoli delle Sacre
Scritture (Torah) e il pulpito del lettore (ammùd) gli sta di fronte, al centro
della sala o al capo opposto, sopra una piattaforma leggermente alzata
(bimàh). Sopra l'ărōn è posta una luce sempre accesa - il ner tamìd -, ossia la
"lampada eterna", in ricordo della menorah del Tempio a Gerusalemme.
Nelle sinagoghe tradizionali vi è ancora la separazione degli spazi
destinati a uomini e donne51; inoltre, oltre a strumenti liturgici come
l’organo, nelle sale attigue a quella di preghiera è di solito presente un
museo che dà conto della storia di quella particolare comunità e che
contiene reliquie delle scole e oggettistica rituale. Si sono aggiunte poi nel
tempo delle pertinenze che potremmo definire “improprie”; intendiamo
riferirci a quanto accade, ad esempio, per la Comunità ebraica di Firenze,
la quale dispone di un posto di ristoro kasher, posto a lato dell’ingresso
della sinagoga, qualificato come “mensa rituale”52. Di esso, non ci risulta
essere stata rivendicata a fini tributari la funzione pertinenziale
all’adiacente sinagoga, ma tuttavia svolge un’attività strumentale
all’esercizio del culto per gli ebrei più osservanti i quali, magari perché
cura di G. Cimbalo, Giappichelli, Torino, 2001, pp. 163-166, e bibliografia ivi citata.
51 Vedi: H. KOHL e C. WATZINGER, Antike Synagogen in Galilaea, Levine, Lipsia,
1916.
52 Da una visura al registro delle imprese presso la Camera di Commercio di Firenze
risulta che l’attività è registrata come “Roots, di Jelinek Tomas e c. S.A.S.”, qualificata
come attività economica, individuata come mensa rituale ebraica (dedita a
somministrazione di alimenti e bevande), operante dal 27 aprile 2001, tuttavia inserita
nella categoria ristoranti e con un solo dipendente!
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momentaneamente lontani dalla loro residenza abituale, non potrebbero
altrimenti soddisfare i loro bisogni alimentari senza contravvenire a
qualche precetto religioso. Il luogo di ristorazione in questione utilizza
infatti esclusivamente alimenti certificati dal rabbino della contigua
sinagoga relativamente alla loro produzione e coltivazione nonchè alla
loro preparazione e assicura che questi vengano confezionati nel rigoroso
rispetto della tradizione ebraica. Benché esso si qualifichi come mensa
rituale, e perciò il locale intende configurarsi come una struttura a
carattere religioso finalizzata a fornire pasti particolari a una categoria di
persone accomunata da un comune sentire religioso o comunque da
un’identica pratica alimentare, l’accesso non è limitato ai membri della
Comunità, ma consentito a tutti, anche a tutela della libertà religiosa di
ognuno.
Questa qualificazione risulta - a nostro avviso - rivelatrice del
legame con l’attività di culto che si svolge nella contigua sinagoga, in
quanto è certamente vero che il servizio fornito ha implicazioni di
carattere religioso, ma al tempo stesso si configura come una tipica attività
di ristorazione, caratterizzata da una particolare tradizione culinaria e
alimentare e pertanto più razionalmente deve essere qualificata al pari di
ogni altra attività di ristorazione sotto il profilo giuridico e fiscale. Non
possono pertanto essere attivati contratti di lavoro in condizioni
particolari come avviene nelle strutture confessionali, ma il contratto
vigente per i lavoratori della ristorazione gestita da privati, anche al fine di
evitare un’illecita concorrenza tra una tale attività di ristorazione e quella
svolta da qualsiasi altro imprenditore del settore, il quale – evidentemente
- sopporta maggiori oneri e subisce quindi una concorrenza illecita.
Tutte le confessioni presentano dunque esigenze che
necessariamente ruotano attorno all’edificio di culto, e ciò è vero non solo
per i culti propri della tradizione occidentale, prova ne siano i templi Sikh
(gurudwara) che servono anche da luogo di riunione, da casa di riposo per i
pellegrini, per non parlare dell’importanza che i fedeli del sikhismo
attribuiscono al cibo, il quale, dato che appartiene a Dio, viene offerto nel
luogo di culto, comportando così la necessità che esso sia provvisto di
idonee attrezzature di preparazione degli alimenti. Tutte queste attività
non sempre riescono a essere concentrate in un unico immobile, ma
possono essere svolte in sedi limitrofe, pertinenze appunto, al tempio.
I casi segnalati non sono certo isolati nella società italiana, sempre
più pluralista e multiconfessionale, ma non dobbiamo dimenticare che
l’obbligo di assicurare il libero esercizio del culto discende dall’art. 19
della nostra Costituzione e che prescinde da accordi con lo Stato stipulati
dalle confessioni: ne deriva, nel rispetto del combinato disposto dell’art. 19
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con gli artt. 3 e 8, 1° comma, Cost., l’obbligo di assicurare il pieno esercizio
del culto.
La natura ampia e indefinita, per i motivi su esposti, di queste
pertinenze, non permette di individuarle secondo categorie oggettive e
ben definite; il fatto poi che i poteri pubblici le considerino tali, trova
fondamento nell’autonomia con la quale le confessioni religiose gestiscono
questa materia. Pertanto è necessaria una conoscenza effettiva delle
caratteristiche dei diversi culti, degli usi, della tradizione, della storia, per
verificare, anche latamente, la fondatezza e la non strumentalità delle
richieste confessionali. Dovrebbero essere individuati quindi almeno dei
parametri, rinvenibili peraltro solamente, e ancora una volta, all’interno
dei regolamenti, usi, tradizioni concernenti l’esercizio del culto la cui
messa a punto spetta alle confessioni; operazione peraltro complicata dal
fatto che, come detto, non è possibile ritrovare un’individuazione precisa
di tali criteri in quanto fanno parte di quelle caratteristiche che
necessariamente rimangono indeterminate in virtù della libertà religiosa
garantita all’art. 19 Cost.: esse infatti potrebbero derivare da innovazioni
in campo liturgico, scelta che appartiene all’autonomia di ogni
confessione, oppure essere proprie di un nuovo culto53.
Rimane comunque il fatto che il regime accordato alle pertinenze è
la testimonianza e l’indice di valutazione del maggiore o minore favore
che le amministrazioni pubbliche mostrano nei confronti di una
determinata religione, esercitando la propria discrezionalità nell’accogliere
e consentire la soddisfazione o meno di questo tipo di bisogni.
Una prima misura da adottare per intervenire sul controllo della
spesa è certamente quella di circoscrivere l’estensione delle pertinenze,
riducendo alle attività più propriamente di religione e di culto i benefici
disposti a favore dell’edilizia di culto. Si tratta di realizzare una totale
inversione di tendenza nelle linee di sviluppo della legislazione in questa
materia, caratterizzata – come abbiamo visto – da una costante dilatazione
della nozione di pertinenza. A sostegno di questa scelta concorrerebbero
L’autorità amministrativa è chiamata ad assumere determinazioni che si riflettono
sul regime giuridico del bene, anche dal punto di vista della sottoposizione a oneri fiscali
relativi che sono collegati alla sua funzione. La grande difficoltà e l’alto tasso di
indeterminatezza dei parametri sono risolvibili soltanto – a parere di chi scrive – in due
modi: o fa fede la dichiarazione dell’ente religioso, il quale attesta la funzionalità e il
collegamento al concreto esercizio del culto delle attività svolte negli immobili, ma ciò
significherebbe affidare al contribuente la scelta sulla tassabilità di un bene, oppure
limitare la funzione di esercizio del culto agli spazi strettamente dedicati e utilizzati per
la celebrazione del rito, scelta che restringe non poco l’esercizio della libertà religiosa.
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non solo motivi di ordine finanziario, ma la mutata afferenza della
popolazione rispetto ai culti.
Il moltiplicarsi delle confessioni operanti nel nostro paese, posto in
relazione con l’eguale trattamento in ordine alla libertà religiosa che
l’ordinamento deve assicurare a ogni culto, induce a recepire le diverse
esigenze delle confessioni in materia di libertà di culto in modo da
consentire a esse una eguale libertà. La conseguenza è che si moltiplicano
le tipologie delle strutture definibili come pertinenze. Si restringe invece
sempre più la gestione degli spazi comunitari mediante le norme di diritto
comune, aumentando gli oneri per lo Stato.
Invertire su questa scelta non nuocerebbe alla libertà religiosa
perché il principio di laicità consente – a nostro avviso – di lasciare
certamente libere le confessioni di intraprendere qualsiasi attività, nel
rispetto tuttavia della legge comune in ordine al loro esercizio, evitando
un trattamento di favore dal punto di vista fiscale e del rispetto delle
norme sul lavoro per quanto attiene il loro esercizio, al fine di evitare una
concorrenza illecita nei confronti di attività profane di identico contenuto.
4 - Utilizzazione pubblica delle pertinenze, anche attraverso lo
strumento delle convenzioni con gli enti pubblici. Gli edifici di culto di
proprietà delle confessioni
L’esistenza di particolari richieste riguardanti la P.A. comporta la necessità
di elaborare criteri che orientino le risposte a tali domande. Tuttavia
esisterà sempre una “zona grigia” determinata dal fatto che su una
specifica pertinenza possa insistere l’interesse pubblico come quello
confessionale, in quanto, a seconda dei diversi punti di vista, essa svolge
funzioni tra loro differenti, ma né incompatibili né esclusive. Ciò avviene
certamente nel caso del sagrato la cui configurazione giuridica è stata
oggetto del dibattito di una parte della dottrina fin verso la metà del
Novecento54 quando la Suprema Corte, con una sua pronuncia del 1957,
Considerato che l’uso del termine e il concetto di “sagrato” è rimasto da un punto di
vista giuridico sconosciuto al diritto dello Stato, fino almeno a quando la Suprema Corte
non si è pronunciata a riguardo della gestione dal punto di vista giuridico degli spazi
antistanti l’ingresso a un edificio di culto, e che nemmeno nel diritto vigente della Chiesa
si trovava qualche indicazione più dettagliata al riguardo, la dottrina si era posta il
problema della configurabilità giuridica di detta nozione. Soprattutto con l’avvento delle
leggi soppressive delle corporazioni religiose (legge 7 luglio 1866 n. 3036, in particolare)
si era manifestata una certa tendenza a qualificare il sagrato come bene demaniale. Tale
dibattito era particolarmente sentito prima della promulgazione del vigente codice civile,
in quanto il previgente codice del 1865 non prevedeva l’esistenza di un rapporto
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non ha definitivamente dipanato ogni questione, affermando che i sagrati
fanno parte a tutti gli effetti di ciò che si intende per edificio di culto e
sono destinati esclusivamente a una migliore esplicazione delle attività
connesse alla pratica religiosa, in collegamento funzionale con l’edificio
chiesa. Sotto questo profilo, il sagrato garantirebbe l’effettivo esercizio
pubblico del culto, essendo strumentale al soddisfacimento del vincolo di
destinazione55 previsto dall’art. 831 c.c. che grava sulla chiesa a esso
pertinenziale posto in essere tra beni immobili. Vedi: Cass., sez. II civile, sent. n. 4362 del
12 novembre 1957, in Foro it., I, 1958, p. 1839 ss.
55 Sotto il profilo civilistico, il vincolo di destinazione al culto pubblico, convenuto
bilateralmente, poiché frutto di normativa pattizia, opera solamente nei confronti degli
edifici di culto cattolici ed ebraici. Sull’art. 14, 1° comma, dell’Intesa tra Italia e Unione
delle Comunità ebraiche italiane, vedi: V. TOZZI, Gli edifici di culto nel sistema giuridico
italiano, Edisud, Salerno, 1990, pp. 213 -215, e bibliografia ivi citata.
La deputatio ad cultum è un atto di volontà di un competente organo ecclesiastico,
rilevante per il diritto statuale nella misura in cui l’art. 831, 2° comma, c.c. si ritiene operi
un rinvio al diritto canonico, laddove fa riferimento alla cessazione alla destinazione al
culto. La deputatio cesserà dal momento in cui l’autorità ecclesiastica cattolica avrà
emanato un decretum de profanando, un atto cioè che revoca la destinazione all’esercizio
pubblico del culto cattolico, a prescindere dalle ipotesi in cui, de iure et de facto, l’uso sia
cessato da lungo tempo. Per quanto riguarda l’accertamento della destinazione
all’esercizio pubblico del culto cattolico, il nostro ordinamento prevede che esso vada
fatto rinviando al diritto canonico; in questo senso assumono rilevanza i cann. 1205-1208,
1214-1215 e 1223 del c.i.c., del 27 novembre del 1983. A norma del can. 1205 c.i.c., affinché
un luogo possa considerarsi giuridicamente sacro, devono concorrere simultaneamente
due elementi: la deputatio e la dedicazione o benedizione. Ai sensi del can. 1208 c.i.c., sarà
cura della curia diocesana conservare copia del documento della dedicazione o
benedizione. Questi documenti, firmati dal vescovo, dal parroco o dal rettore della chiesa
e dai fiduciari della comunità locale, devono essere conservati in duplice copia: una
nell’archivio della curia diocesana e l’altra nell’archivio della chiesa dedicata o benedetta.
In questi atti si deve indicare la data della dedicazione o benedizione, il nome del vescovo
celebrante o di colui che ne è ministro e il titolo della chiesa. Nel can. 1209 c.i.c. si prevede
inoltre che, nel caso in cui dovessero mancare i documenti della dedicazione o
benedizione della chiesa, purché non si provochino danni a qualcuno, l’avvenuta
dedicazione o benedizione può essere provata anche da un solo testimone che deve
essere, però, al di sopra di ogni sospetto. Anche altri segni possono altresì dimostrare la
dedicazione della chiesa, come ad esempio la presenza di croci affisse sulle pareti della
chiesa stessa (vedi: Ordo dedicationis ecclesiae et altaris, II/22). In mancanza di prova
dell’avvenuto atto dell’autorità ecclesiastica, la chiesa, ai sensi del can. 1210 c.i.c., non
serve all’esercizio e alla promozione del culto divino, quindi essa non sarà sotto la
vigilanza dell’autorità ecclesiastica e potrà essere destinata a usi profani non sordidi, ai
sensi del can. 1222 § 2 c.i.c. (attività civiche o culturali). Su queste tematiche: C.
MINELLI, La rilevanza giuridica della “Deputatio ad cultum” (art. 831 Codice Civile) , in AA.
VV., Enti ecclesiastici e controllo dello Stato. Studi sull’Istruzione CEI in materia
amministrativa, a cura di J.I. Arrieta, Marcianum Press, Venezia, 2007, p. 257 ss.; A.
BETTETINI, Gli enti e i beni ecclesiastici. Art. 831, in Il Codice Civile. Commentario, Giuffrè,
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retrostante56 e consentirebbe altresì lo svolgimento di cerimonie religiose
che si tengono all’aperto57. Non si vede come questo criterio non debba
essere applicato anche a edifici appartenenti ad altro culto, a meno che
non si voglia legislativamente definire in modo diverso questa materia. In
assenza comunque di un intervento legislativo che diversifichi il
trattamento, l’orientamento della giurisprudenza va nella direzione di
estendere i medesimi parametri a tutti i culti, poiché una scelta diversa
violerebbe l’eguale libertà e il concreto libero esercizio del culto.
Tra l’altro, quando si tratta di pertinenza58 del luogo di culto, poco
importa che la proprietà dell’edificio di culto e del sagrato appartenga allo
stesso soggetto59 in quanto, in ogni caso, la possibilità di usufruire in toto
del diritto reale di proprietà è limitata dalla disposizione civilistica di cui
al 2° comma art. 831 c.c. che ne vieta una diversa destinazione fin quando
non sia intervenuto un atto della competente autorità ecclesiastica volto a
privare della sacralità il bene giuridico principale60.
Milano, 2005, p. 162 ss; C. CARDIA, Ordinamenti religiosi e ordinamenti dello Stato. Profili
giurisdizionali, il Mulino, Bologna 2003, p. 183.
Sull’argomento si è anche pronunciato il CONSIGLIO D’EUROPA – ASSEMBLEA
PARLAMENTARE, Resolution on redundant religious buildings, n. 916, 9 maggio 1989, in
http://tinyurl.com/lfe786b; CONSIGLIO D’EUROPA – COMMISSIONE PERMANENTE,
Reccomandation relative à la gestion des cathédrales et autres édifices religieux en activité, n.1484,
9 novembre 2000, in http://tinyurl.com/lfe786b.
56 La disposizione, per l’esplicito riferimento alle norme canoniche relative alle
modalità di cessazione della deputatio ad cultum è riferibile unicamente agli edifici di culto
e non anche alle pertinenze di essi che non siano strettamente indispensabili per
l’esercizio del culto, “in relazione alle quali non pone alcun vincolo di destinazione”,
vedi: Corte Cass. , sez. I civile, sent. 1° ottobre 1997, n. 9585.
57 Corte Cass. , sez. II civile, sent. 12 novembre 1957, n. 4362, cit., pp. 1839 -1845.
58 “Il concetto di edificio destinato all’esercizio pubblico del culto cattolico è estensibile
anche alle pertinenze, per la cui configurazione non è decisiva la materiale unicità della
costruzione dei locali, bensì il legame funzionale derivante dalla loro destinazione al
servizio dell’edificio principale al fine di permettere l’esercizio dell’attività di culto”.
T.A.R. Campania, sez. I, Salerno, 10 marzo 2004, n. 133, in Dir. eccl., n. 2, 2004, p. 317. I
beni mobili sacri e quelli che servono all’esercizio del culto, invece, non seguono il regime
del bene principale, derogando in questo senso a quanto sancito dall’art. 818 c.c. e non
sono pignorabili, ai sensi dell’art. 514 n. 1 c.p.c. Cfr. A. BETTETINI, Gli enti e i beni
ecclesiastici, cit., p. 168.
59 Il regime degli edifici di culto relativo alla disposizione codicistica non prevede la
riserva di proprietà agli enti ecclesiastici degli edifici di culto, ma dispone espressamente
che essi possano essere di proprietà di qualunque soggetto privato, con il vincolo di non
potere essere sottratti alla loro destinazione fino alla cessazione di questa, in conformità
delle leggi che li riguardano.
60 Posizioni critiche sul fatto che il rinvio al diritto canonico ex art. 831, 2° comma, c.c.,
possa operare indipendentemente dalla volontà del privato, proprietario di un edificio di
culto, sono riportate da V. MARANO, Art. 831, Beni degli enti ecclesiastici ed edifici di culto,
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La magistratura amministrativa61 ha rilevato in alcuni casi la
presenza di due diversi soggetti proprietari, l’ente chiesa per quello che
riguarda l’edificio di culto e il Comune, proprietario invece del sagrato. La
questione in particolare verteva sull’utilizzazione del sagrato come area
destinata a parcheggio, utilizzazione disposta a seguito dell’adozione del
piano regolatore generale regionale e di due delibere consiliari che
avevano approvato, mediante una variante semplificata, un nuovo piano
particolareggiato del centro storico che prevedeva - per l’appunto - la
nuova destinazione a parcheggio pubblico del sagrato di proprietà
comunale della chiesa62. Facendo leva sulla possibilità lasciata ai Comuni
di promuovere azioni utili a favorire la tutela e la migliore fruibilità dei
centri storici63, spetta a essi il compito d’individuare i criteri per
l’organizzazione degli spazi destinati a parcheggio, nella prospettiva di
una valorizzazione del centro storico64.
La sentenza amministrativa citata, tuttavia, se può sembrare in
controtendenza rispetto a un orientamento più che consolidato, in realtà
in AA. VV., Commentario del Codice Civile, Della Proprietà - Artt. 810-868 c.c., a cura di A.
Jannarelli, F. Macario, vol. I, Utet Giuridica, Torino, p. 267 ss., in particolare nn. 16 e 17. In
tal senso vedi anche la giurisprudenza ivi citata.
61 T.A.R. Lombardia, sez. staccata di Brescia, sez. Prima, 27 agosto 2010, n. 03237.
62 La variante al P.R.G. approvata dalla Regione Lombardia con la D.G.R. n. 6/34173
del 12 gennaio 1998 è intervenuta sul precedente piano particolareggiato dei centri storici
approvato, con durata decennale, dalla Regione Lombardia in data 19 marzo 1985,
classificando l’area oggetto del nostro interesse quale area pubblica di interesse comune
con destinazione funzionale a chiese e attrezzature religiose. Sebbene le norme tecniche
di attuazione precisino che la disciplina dei centri storici rimane regolata dal P.R.G. del
1985, anche dopo alla sua scadenza, il Comune decide comunque di approvare, con due
delibere del 2000 e del 2002, un nuovo piano particolareggiato mediante una variante
semplificata ai sensi dell’art. 2, 2° comma, lett. g) della L.R. Lombardia 23 giugno 1997, n.
23, prevedendo, nell’ottica del recupero del patrimonio edilizio esistente, un parcheggio
pubblico sul sagrato della chiesa che, anziché ostacolarne l’ingresso, garantirebbe una
maggiore fruizione del luogo di culto, vedi: T.A.R. Lombardia, sez. staccata di Brescia,
cit., punto 11.
63 Vedi: legge 5 agosto 1978, n. 457, Norme per l’edilizia residenziale, in particolare il
Titolo IV relativo alle Norme generali per il recupero del patrimonio edilizio e urbanistico
esistente, artt. 27-34, per cui spetta ai Comuni individuare le zone del proprio territorio
oggetto di recupero edilizio.
64 Vedi: art. 17 L.R. Lombardia 15 aprile 1975 n. 51, Disciplina urbanistica del territorio
regionale e misure di salvaguardia del patrimonio naturale e paesistico, così come sostituito
dall’art. 5 L. R. Lombardia n. 1 del 2001. Si potrebbe ipotizzare una relativa libertà del
Comune di intervenire sul sagrato, scorporandolo dall’edificio al quale afferisce, per
un’utilizzazione consona alle esigenze della cittadinanza, ma occorre tenere presente che
si tratta pur sempre di un’area consacrata e quindi si rende necessario per essa il decreto
ecclesiastico di riduzione a uso profano.
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presenta una sua logica stringente. Mentre la sentenza “pilota” della
Suprema Corte sottolineava il rapporto pertinenziale–funzionale del
sagrato all’edificio di culto, rilevando come non potesse essere altrimenti,
data la delimitazione “con pilastrini di pietra che la separano dalla strada
adiacente”65; il T.A.R. Lombardia rileva invece che, nel caso oggetto del
suo giudizio, tale separazione non è così netta ed evidente. Ci troviamo,
infatti, dinanzi a un caso nel quale il sagrato non è delimitato da gradinate
o da altre opere che lo possano identificare con precisione (come ad
esempio l’utilizzazione di una pavimentazione di marmo o comunque
differente da quella del restante manto stradale, ovvero il suo graduale
innalzamento rispetto al piano stradale); oltretutto, affacciandosi la chiesa
su di una piazza, non può certo convenirsi che l’intera piazza possa essere
considerata luogo avente funzione pertinenziale66.
Corte Cass. , sez. II civile, 12 novembre 1957, n. 4362, cit., p. 1843.
Mentre il sagrato è il necessario spazio (consacrato) di ambientazione per passare
dall’ordinarietà della vita frenetica della città al luogo del sacro, del trascendente, alla
dimensione riflessiva e meditativa che tocca la sfera spirituale della persona; la piazza
centrale, o il sistema di piazze che costituiscono il cuore della città, è di per sé il luogo
prescelto della rappresentazione della centralità della presenza delle pubbliche
istituzioni, civili e religiose, perché è delimitata dai principali monumenti cittadini in cui
si incarnano le più significative memorie storiche e ogni privilegiata funzione pubblica.
La piazza è luogo di riunioni, di spettacoli, di prediche, di cerimonie, di processioni,
nonché il luogo privilegiato dello scambio e dell’attività commerciale, del contatto della
comunità con il mondo esterno, dell’informazione in quanto simbolo materializzato della
storia pubblica di una comunità. Pertanto dal punto di vista culturale storico, scientifico,
le piazze prodotte nell’ambito della cultura urbana dell’Occidente costituiscono lo spazio
formale della comunità insediata, il nucleo spaziale ove si realizza l’intersezione di storia
civile, movimenti culturali, tendenze artistiche, cultura materiale, immaginazione
collettiva, proiezioni simboliche, ritualità consolidate, tradizioni popolari e consuetudini
comportamentali. Cfr. C. DARDI, Place d’Italie, in Agorà, n. 1, 1987; T. COLLETTA, Le
piazze seicentesche a Napoli e l'iniziativa degli ordini religiosi, in Storia della città, nn. 54-56,
1993, pp. 103-115, in particolare; M. TAFURI, La piazza, la chiesa, il parco, Saggi di storia
dell'architettura XV-XIX secolo, Mondadori Electa, Milano, 1991. Da ultimo, sulla funzione
degli spazi urbani, vedi: U. TONIETTI, L’arte di abitare la terra, L’asino d’oro, Firenze,
2011.
Sebbene piazza e sagrato siano spesso due spazi ben distinti tra loro per la funzione
che rispettivamente svolgono, la loro vicinanza può essere oggetto di polemica,
soprattutto allorquando la vita ordinaria che si svolge nella piazza, in particolare nelle
ore notturne, si estende, insediandolo, fino al sagrato. Questi sono i termini della
questione, passata agli onori delle cronache, che vedeva il vescovo di Ferrara proporre
provocatoriamente, al fine di evitare commistioni di dubbio gusto tra sacro e profano, di
recintare non solo il sagrato della cattedrale ferrarese, ma l’intera piazza, al fine di
preservare la spiritualità e la sacralità del luogo di culto che ivi si affaccia. Vedi:
http://tinyurl.com/qb2add5.
La recinzione del sagrato, purché non sia di alcuno ostacolo all’accesso pubblico
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“Solo la porzione di piazza prossima alla chiesa può
considerarsi effettivamente pertinenza ai fini della tutela
civilistica […]. Per il resto lo spazio può costituire oggetto di
valutazione da parte dell’amministrazione nell’interesse della
collettività”67.
Questa precisazione non è di poco conto se si pensa alla previsione
di un indennizzo economico dovuto all’espropriazione68 del bene
ecclesiastico, che dovrà riguardare solamente la porzione di piazza
prossima alla chiesa, funzionale a garantirne l’accesso libero al pubblico e
non certo l’intera piazza. Quest’ultima potrà certamente ospitare le
molteplici esplicazioni del culto, previo accordo tra le competenti autorità
civili e religiose, ma non potrà elevarsi a sua volta a luogo di culto, in
quanto si tratterebbe comunque di uno spazio particolarmente ampio che
nell’edificio, tuttavia, non è affatto un problema nuovo. In molte città, in nome di una
“dignità sociale”, tale misura è stata presa proprio per evitare comportamenti non
ritenuti decorosi da parte delle autorità ecclesiastiche e della comunità, parrocchiani e
cittadini del quartiere. Solo per fare qualche esempio, cfr. http://tinyurl.com/ooj49p9;
http://tinyurl.com/ll7aczp.
Il problema dell’accesso al sagrato è stato affrontato recentemente anche nella
sentenza della Corte Cass. , sez. II, 28 novembre 2012, n. 21129. Sebbene i termini della
questione fossero assai diversi da quelli fin qui trattati, nel senso che, nel caso della
sentenza in oggetto, la recinzione non era stata richiesta dall’autorità ecclesiastica, ma era
stata predisposta da parte di un ente pubblico proprietario del fondo servente e
confinante con una chiesa, rilevante è costatare come l’accesso all’edificio di culto non
possa essere in alcun modo impedito o limitato nemmeno con attività di vigilanza.
67 T.A.R. Lombardia, sez. staccata di Brescia, cit., punto 10. Tale rilievo, sebbene possa
essere ritenuto di buon senso, non sempre trova applicazione nei nostri Comuni. Si pensi
al Comune di Mosso (BI), dove l’intera area di piazza Italia, che costituisce da sempre il
fulcro della vita economica, sociale, religiosa e culturale degli abitanti del Comune, è di
proprietà della parrocchia della Beata Vergine Assunta, seppure da sempre assoggettata a
uso pubblico nella parte non corrispondente al sagrato (c.d. piazza inferiore). Ciò ha
comportato la stipula di una convenzione tra l’ente parrocchia e il Comune per consentire
la collocazione, nella c.d. piazza superiore, quella cioè non corrispondente al sagrato, di
banchi mercatali e di zone adibite a parcheggio, restando le spese di manutenzione
ordinaria e straordinaria di tutta la piazza (!), a carico del Comune. Vedi: Comune di
Mosso, Convenzione per l’uso della Piazza Italia, 28 settembre 2011.
68 Vedi: T.A.R. Lombardia, sez. staccata di Brescia, cit., punti 13-14 e 16. Già nello
Statuto Albertino all’art. 29 si leggeva che dinnanzi a casi di un preminente interesse
pubblico, la proprietà privata sebbene inviolabile, poteva essere limitata in modo parziale
o totale, mediante un giusto indennizzo. La sostituzione del diritto reale con il diritto di
credito, la ritroviamo confermata anche all’art. 42, 3° comma, della nostra vigente Carta
costituzionale, all’art. 834 c.c. e ribadita nella sentenza n. 179 del 20 maggio 1999 della
Corte costituzionale.
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andrebbe ben al di là di quella “fascia di rispetto”69 rappresentata dal
sagrato. Semmai, al fine di evitare sovrapposizioni di utilizzo,
l’amministrazione e l’autorità ecclesiastica competenti potranno gestire
l’area interessata previo accordo.
D’altra parte non sono nemmeno nuove all’attuale modus operandi
della P.A. convenzioni di uso temporaneo relative alla concessione in uso
pubblico al Comune di beni immobili di proprietà parrocchiale, destinati
ad aree per attività aggregative, ricreative, sportive o a parcheggio
pubblico, ecc.
Le suddette convenzioni presentano uno schema tipo, che troviamo
riprodotto in tutti questi casi, consistente nella richiesta da parte del
parroco, o dell’amministratore parrocchiale, di autorizzazione all’ente, di
cui è rappresentante, a sottoscrivere con il Comune una convenzione per
l’uso pubblico di una determinata area di proprietà parrocchiale, definita
come da catasto (sagrato e altre pertinenze della chiesa, ecc.), per un
determinato periodo temporale e rinnovabile previa autorizzazione. La
parrocchia quindi, una volta avuta l’approvazione dell’autorità
ecclesiastica e l’esecutività della delibera comunale, potrà concedere al
Comune l’uso gratuito dell’area compatibilmente all’utilizzo da parte
della stessa per le sue finalità religiose, escludendo comunque ogni uso
che, a suo insindacabile giudizio, non sia ritenuto compatibile con le
finalità e gli usi prioritari derivanti dall’esercizio delle attività più
strettamente connesse al culto.
In questi casi le convenzioni possono prevedere, a carico degli enti
pubblici, adeguate norme relative al pagamento, anche mediante
anticipazioni sul rimborso delle spese, nonché eventuali contribuzioni e/o
messa a disposizione di materiali, attrezzature e strutture riconosciute
necessarie in relazione all'entità e alla durata del rapporto convenzionale.
Per questi motivi può accadere che, per quanto concerne le spese, il
Comune potrà sostenere le sole spese ordinarie o anche quelle
straordinarie e quelle di miglioria dell’area, ad esempio l’arredo urbano,
se si tratta di sagrato, che potranno essere realizzate a cura e spese del
Comune e destinate a uso pubblico, pur rimanendo l’area di proprietà
della parrocchia. L’accollo delle spese ordinarie e straordinarie varia
secondo l’accordo che intercorre tra le due parti prima di addivenire alla
stipula della convenzione per cui non è possibile tracciare sotto questo
profilo una casistica generale in quanto essa risulta essere alquanto
differenziata.
Passando poi a esaminare lo status giuridico delle chiese protestanti
69
T.A.R. Lombardia, sez. staccata di Brescia, cit., punto 18.
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rileviamo che esse non sono edifici aperti al culto pubblico, ma edifici
privati, di spettanza della comunità, all’interno dei quali essa svolge le sue
attività collettive, e solo in quel caso sono aperte al pubblico70. Mentre
nella chiesa cattolica si può sempre accedere, anche quando non si stanno
svolgendo delle funzioni religiose, perché “è un edificio in cui Dio e
l'uomo vogliono incontrarsi; una casa che ci riunisce, in cui si è attratti
verso Dio, ed essere insieme con Dio ci unisce reciprocamente”71, per i
protestanti l’edificio, impropriamente, in questo caso, definito di culto, è
un edificio comunitario dove si pratica anche il culto, ma non solo, ed è
per questo motivo che mantiene una sua caratterizzazione privata72.
I culti di più antico insediamento sul territorio italiano sono in
genere proprietari dei propri edifici di culto. Nel tempo si è formato un
patrimonio immobiliare frutto delle donazioni dei fedeli che per motivi
devozionali hanno costruito edifici di culto dedicati a specifiche funzioni.
Vi sono state epoche nelle quali la chiesa è stata l’edificio intorno al quale
si è costituita ed è cresciuta la comunità e intorno a essa si sono sviluppate
A tale proposito, vi è chi in dottrina ritiene più appropriata la locuzione “luoghi di
culto anziché edifici di culto” in quanto, per alcune confessioni religiose, la pratica cultuale
è marginale rispetto ad altre attività (sociali, culturali, ecc.) che servono a soddisfare il
bisogno religioso dei loro appartenenti. Vedi: C. CARDIA, La condizione giuridica, cit., p.
23.
71 BENEDETTO XVI, Omelia, La Chiesa, casa di Dio e degli uomini, II domenica di
Avvento, 10 dicembre 2006, in: http://tinyurl.com/ofzhzh5.
Spesso, tuttavia, l’accesso alle chiese monumentali cattoliche, o che possiedono
particolari opere d’arte non è libero in quanto condizionato al pagamento di un ticket
d'ingresso. Diverso è invece il caso delle fabbricerie, le quali, per loro natura, utilizzano (o
almeno dovrebbero utilizzare) gli introiti che pervengono dal pagamento dei biglietti di
ingresso per alimentare il proprio bilancio destinato alla manutenzione della Chiesa e del
complesso monumentale annesso. Sul punto vedi: A. ROCCELLA, Il regime giuridico delle
opere d’arte negli edifici di culto in Italia, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, cit., aprile
2012, p. 12; F. MARGIOTTA BROGLIO, Per una chiesa a ingresso libero, in
http://tinyurl.com/o6aygj6; ID., Le fabbricerie tra configurazione napoleonica e tentazioni
anglosassoni, in OPERA PRIMAZIALE PISANA, La natura giuridica delle fabbricerie,
Giornata di studio (Pisa 4 maggio 2004), Pontedera, 2005, pp. 33-39; C. CARDIA, Lo
spirito della nuova intesa, in AA. VV., Patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. La
tutela dopo l’Intesa del 26 gennaio 2005, a cura di M. Madonna, Marcianum Press, Venezia,
2007, pp. 29-47.
Ma vedi anche: C.E.I., I beni culturali della Chiesa in Italia. Orientamenti, 9 dicembre
2002, in AA. VV., Codice dei beni culturali di interesse religioso, a cura di M. Vismara
Missiroli, I, Normativa canonica, Milano, 1993, p. 244 ss.
72 Anche la sinagoga è stata considerata per lunghi anni un luogo di riunione, come
discende dall’etimologia del nome il cui significato è “assemblea”, e di studio, piuttosto
che un luogo di pratica collettiva del culto. S.N. EISENSTADT, Civiltà ebraica.
L'esperienza storica degli ebrei in una prospettiva comparativa, Donzelli editore, Roma, 1993,
p. 149.
70
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attività economiche e civili. Non è infrequente che l’autorità pubblica
abbia finanziato e promosso la costruzione di edifici di culto a fini
identitari e come forma di rappresentazione della ricchezza e dello
sviluppo raggiunto dalla comunità, procedendo, a costruzione avvenuta, a
volte al trasferimento della proprietà della chiesa e comunque soprattutto
della sua gestione, alle autorità ecclesiastiche. In questo caso la gestione
dell’edificio di culto, la permanenza in esso di attività di culto e la sua
funzione sociale sono state filtrate attraverso gli atti dispositivi
dell’autorità confessionale la quale procede alla gestione della chiesa sia
pure utilizzando contributi e risorse pubbliche, oltre che di privati. In
questo caso il potere di gestione dell’edificio e delle sue pertinenze da
parte dell’autorità ecclesiastica è pieno e trova limitazioni nell’interesse
pubblico all’utilizzazione dell’edificio per scopi e fini profani.
5 - Gli edifici di culto di proprietà pubblica gestiti attraverso il F.E.C.
Come si è visto, la proprietà degli edifici di culto può essere privata come
pubblica. “Proprietari pubblici” sono lo Stato e gli enti locali territoriali,
quali Regioni, Province, Comuni. A questi bisogna aggiungere Asl o altri
enti pubblici che detengono la proprietà di chiese73. In questo ambito si
colloca il particolare caso del Fondo Edifici di Culto (F.E.C.). Ente di
proprietà pubblica che è amministrato e gestito con le modalità di un
fondo patrimoniale dello Stato “con i privilegi le esenzioni e le
agevolazioni fiscali” a esso riconosciute dalle norme che le amministrano
(art. 56 della legge n. 222/84)74. Il fondo è deputato alla gestione di un
Mentre è noto l’elenco degli edifici di culto appartenenti al Fondo per il culto, non è
stato effettato un censimento puntuale e completo di quelli di proprietà comunale o di
altri enti pubblici. Si pensi ad esempio che sono di proprietà delle Ausl dell’Emilia
Romagna ben quaranta edifici di culto, tra chiese e cappelle annesse a strutture sanitarie,
la gran parte delle quali sono di rilevante valore museale e artistico (per es.: il Santuario
di Santa Maria della Vita, e sue pertinenze, situato nel pieno centro storico di Bologna).
Vedi: G. CAMPANINI, Il patrimonio ecclesiastico di proprietà delle aziende sanitarie
dell’Emilia Romagna, in AA. VV., Le fabbricerie, cit., pp. 73- 80. Situazioni simili si
riscontrano in altre Regioni.
74 Il fondo patrimoniale statale è vincolato al finanziamento di una determinata spesa
pubblica. Esso deve destinare le sue risorse al perseguimento del fine per il quale è stato
costituito e gode di una gestione separata rispetto al bilancio generale dell’Ente al quale
afferisce, in questo caso il bilancio del Ministero degli Interni. Non si tratta di una mera
separazione contabile, ma anche gestionale in relazione ai criteri con i quali il fondo deve
essere amministrato in quanto, oltre a far riferimento ai criteri dell’efficienza e
dell’efficacia della Pubblica Amministrazione, esso dovrà utilizzare una gestione
economica conformemente ai criteri introdotti dal D.P.R. 29/93 e dalle cosiddette “legge
73
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“patrimonio misto” costituito da beni (mobili e immobili) tra loro
diversificati, ma legati da un comune denominatore, rappresentato dalla
provenienza ecclesiastica. Tale patrimonio è pervenuto infatti allo Stato a
seguito delle leggi eversive che, nel corso dell’ultima metà del XIX secolo,
sono state emanate nel nostro, come in altri paesi75.
Basti ricordare che la legislazione napoleonica inaugura il varo di
provvedimenti eversivi dell’asse ecclesiastico che caratterizzano la politica
dei governi liberali nei confronti della Chiesa. I beni così incamerati dallo
Stato vanno a far parte del Fondo per il culto, ente costituito in Italia dalla
legge n. 3036 del 1866, che prende il posto della Cassa ecclesiastica nella
quale, nel 1855, era a sua volta confluito il patrimonio degli enti
ecclesiastici soppressi e che divennero parte del demanio statale. Il Fondo
per il culto poi, estinto a partire dal 1° gennaio 1987 a seguito
dell’adozione della legge n. 222 del 1985, viene sostituito in tutti i suoi
rapporti attivi e passivi (art. 55 legge n. 222/85) dal F.E.C., una persona
giuridica i cui redditi dovrebbero essere utilizzati per “la conservazione, il
restauro, la tutela e la valorizzazione del patrimonio di sua proprietà” (art.
58 legge n. 222/85). Tale patrimonio è costituito, per la maggior parte, da
edifici sacri (settecentocinquanta), edifici di pregevole interesse storicoartistico, nonché dalle opere d'arte e dagli arredi in essi custoditi.
Completano l’elenco delle proprietà del F.E.C. altri beni (aree boschive e
Bassanini” nella gestione delle amministrazioni pubbliche, tanto più quanto l’ente al
quale si riferisce ha come scopo la valorizzazione del proprio patrimonio e si auto
alimenta attraverso i risultati economici di gestione. Ne viene che particolare attenzione
deve essere dedicata alle modalità con le quali l’ente persegue e ottiene un utile di
gestione da investire. Potremmo dunque parlare di una struttura del tipo della
fondazione che persegue i propri fini attraverso operazioni sul mercato (in questo caso
del godimento del patrimonio storico-artistico) con gli strumenti dell’operatore privato,
per ricavare un utile da destinare a fini strettamente pubblici e non speculativi.
75 Non solo come ridimensionamento del patrimonio della Chiesa, ma anche per
effetto dell’avocazione allo Stato di servizi e attività prima svolte dalla Chiesa quali
quelle ospedaliere, di assistenza e beneficenza. Di grande significato a riguardo la Legge
17 luglio 1890, n. 6972 (Legge Crispi). Sul punto vedi: A. MANTINEO, Le confraternite:
una tipica forma di associazione laicale, Giappichelli, Torino, 2008, in particolare, p. 77 e ss.;
F. MARGIOTTA BROGLIO, Legislazione italiana e vita della Chiesa, in Chiesa e Religiosità in
Italia dopo l’Unità (1861-1878). Atti del quarto Convegno di Storia della Chiesa, La
Mendola 31 agosto-5 settembre 1971, Relazioni, I, Vita e pensiero. Pubblicazioni
dell’Università Cattolica, Milano, 1973, pp. 101-146; G. BONI, Nuovi profili di un'antica
questione. Riflessioni sulla mendicità oggi, in Archivio Giuridico, I parte, vol. CCXVIII, 1998,
fascicoli 1-2, Mucchi editore, Modena, pp. 97-218; II parte, vol. CCXVIII, 1998, fascicoli 34, Mucchi editore, Modena, pp. 397-533.
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un fondo librario) e altri immobili, residuali, ma comunque produttivi di
rendita76.
È del tutto evidente che con l’andar del tempo il ruolo del F.E.C.
non sia più centrale nei rapporti tra la Chiesa cattolica e lo Stato, come
quando venne costituito. Esso non testimonia più del passaggio di
proprietà di beni ritenuti importanti per l’identità nazionale e per il
patrimonio storico artistico della nazione, soprattutto a causa del venir
meno da parte dello Stato dell’interesse a rivendicare proprietà e gestione
di beni anche se d’importanza a volte identitaria. La misura di questo
“disimpegno” è data dai contenuti della legge n. 222, con la quale la
gestione del F.E.C. è stata fatta rientrare tra le materie miste in
applicazione di quanto disposto dall’art. 12, 1° comma, dell’Accordo di
Villa Madama la cui formulazione suscitò critiche e polemiche all’epoca
delle trattative per la revisione del Concordato e vide l’intervento di
grandi intellettuali e docenti di Diritto Ecclesiastico e Canonico77.
Ciò malgrado, questi interventi non valsero a impedire in sede di
trattativa che la gestione del F.E.C. divenisse materia mista, anche se era
del tutto evidente che la configurazione del suo patrimonio, sedimentatosi
negli anni, era ormai poco coerente con i fini dichiarati del Fondo, tanto
che le parti disposero di razionalizzare e snellire il funzionamento di
questo ente78 riportandone le funzioni a quelle di una gestione
76 Sulle chiese di proprietà del F.E.C. si veda il sito ufficiale del Governo
(http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/ministero/patrimonio_fec/chi
ese/).
Sui tesori artistici posseduti in gran parte non costituiti da chiese si veda sempre il sito
ufficiale del Governo (http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/se
zioni/ministero/patrimonio_fec/tesori/).
77 P. BELLINI, Sulla tutela governativa del patrimonio artistico ecclesiastico in Italia, in Dir.
eccl., n. 1, 1966, p. 313; ID., Come nasce una "res mixta": la tutela del patrimonio artistico nella
bozza di nuovo Concordato, il Mulino, Bologna, 1978; ID., I beni culturali di proprietà
ecclesiastica nel nuovo Concordato, in Dir. eccl., n. 1, 1984, p. 265; ID., Il patrimonio
ecclesiastico italiano fra concordato e intesa d'attuazione, in Giur. it., 144, n. 11, pp. 486-496;
ID., Il patrimonio artistico italiano fra Concordato e intesa d’attuazione, in I quaderni di Italia
nostra, n. 19, 1985, p. 22; S. BERLINGÒ, Gli enti e il patrimonio della Chiesa, in Dir. eccl., n.
1, 1984, p. 277; F. MARGIOTTA BROGLIO, Il negoziato per la riforma del Concordato tra
Governo e Parlamento, in AA. VV., Concordato e Costituzione. Gli accordi del 1984 tra Italia e
Santa Sede, a cura di S. Ferrari, il Mulino, Bologna, 1985, pp. 6 -18; AA. VV., Beni culturali
di interesse religioso, a cura di G. Feliciani, il Mulino, Bologna, 1995.
78 Gli artt. 59 e ss. della legge n. 222/85 prevedono uno snellimento della gestione
patrimoniale del Fondo, anche al fine (art. 65) di alienare immobili con destinazione
d’uso civile abitazione. Queste disposizioni testimoniano della consapevolezza delle parti
della necessità e opportunità di ridurre il patrimonio dell’ente, sfrondandolo di quei beni
non direttamente di interesse religioso, anche per poter meglio motivare l’introduzione di
una gestione mista, necessaria a simboleggiare la fine della politica di stampo liberale
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patrimoniale dello Stato sia pure – come si è detto - “con i privilegi, le
esenzioni e le agevolazioni fiscali ad esse riconosciuti” (art. 56 legge n.
222/85), ma destinata al precipuo scopo di provvedere alla gestione e
manutenzione dei beni a esso afferenti. I beni non monumentali, storico –
artistici e quelli diversi dagli edifici di culto propriamente detti, ai sensi
dell’art. 65 della legge n. 222/85 potevano essere alienati attraverso
procedimenti a evidenza pubblica o gestiti mediante contratti di locazione,
comodato e affitto, in quanto inquadrati come beni patrimoniali
disponibili (ex artt. 826, 1° comma, e 828, 1° comma del codice civile) dello
Stato e non destinati all’assolvimento di una funzione o di un servizio
pubblico.
Ciò malgrado in capo alla gestione diretta del F.E.C. è rimasto un
cospicuo patrimonio e soprattutto una serie di attività (artt. 60–61, legge n.
222/85). Le modalità con le quali ciò avviene sono peraltro diversificate. In
alcuni casi si tratta di gestione diretta ed essa si ha quando l’ente procede
a svolgere interventi di manutenzione e restauro degli edifici a esso
appartenenti, sollevando le autorità ecclesiastiche degli oneri relativi,
anche quando queste, in ragione dell’importanza storico artistica degli
edifici, percepiscono un biglietto di ingresso da parte dei visitatori79. In
altri casi, i complessi architettonici afferenti al F.E.C. sono organizzati in
“amministrazioni” che potremmo definire autonome o separate, come è il
relativa al ridimensionamento dell’asse ecclesiastico. Sulla tutela e sulla rilevanza dei
beni culturali ecclesiastici nel concordato del 1984: A. VITALE, Beni culturali nel diritto
ecclesiastico, in Dig. Disc. pubbl., Torino, II, 1987, p. 228 ss.; T. MAURO, Beni patrimoniali
ecclesiastici nel diritto ecclesiastico, in Dig. Disc. pubbl., Torino, II, 1987, p. 255 ss.; A.
TALAMANCA, I beni culturali ecclesiastici tra legislazione statale e normativa bilaterale, in
Dir. eccl., n. 1, 1985, p. 3 ss.; AA. VV., Il nuovo accordo tra Italia e Santa Sede, a cura di R.
Coppola, Giuffré, Milano, 2007, p. 703 ss.; L. SCALERA, Beni culturali e “nuovo
Concordato”, Milano, Giuffrè, 1990, p. 83; S. LARICCIA, Tutela dei beni culturali ecclesiastici
e nuovi principi in tema di procedimento amministrativo, in I quaderni di Italia nostra, n. 25,
1993, p. 24 ss.; AA. VV., La tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti agli enti
ecclesiastici. L'art. 12 del nuovo Concordato oltre la prima "bozza" di intesa attuativa, in
Quaderni di Italia nostra, 1993, n. 25, p. 87 ss.; A. ROCCELLA, I beni culturali ecclesiastici, in
Quad. dir. e pol. eccl., 2004, p. 199 ss.; A.G. CHIZZONOTI, I beni culturali di interesse
religioso: la collaborazione tra istitutu pubblici ed ecclesiastici nell’attività di valorizzazione, in
AA. VV., Cultura e istituzioni, la valorizzazione dei beni culturali negli ordinamenti giuridici, a
cura di L. Degressi, Giuffrè, Milano, 2008, p. 78 ss., N. COLAIANNI, La tutela dei beni
culturali di interesse religioso tra Costituzione e convenzioni con le confessioni religiose, in Stato,
Chiese e pluralismo confessionale, cit., n. 21/2012, p. 2 ss.
79 Sull’imposizione di un ticket di ingresso in alcune chiese, la cui manutenzione è
peraltro a carico della fiscalità generale, vedi supra nota 71.
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caso di alcune fabbricerie, la più nota delle quali è certamente quella di
Santa Croce a Firenze80.
Il complesso architettonico in questione è stato costituito come “Opera di Santa
Croce” con decreto granducale nel 1371 e ricostruita come fabbriceria il 14 dicembre 1814.
Dal 12 giugno 1998 ha personalità giuridica propria ai sensi del D.p.r. 13 febbraio 1987, n.
33, ed è amministrata “secondo le norme di legge e di regolamento che disciplinano le
fabbricerie” (art. 1, Statuto dell’Opera di Santa Croce, pubblicato il 15 gennaio 2009). Ai
sensi dell’art. 11 del suo Statuto “ i rapporti tra la fabbriceria, il Fondo Edifici di Culto e il
Comune di Firenze sono regolati da apposite convenzioni. Resta ferma la titolarità e il
regime giuridico dei beni facenti parte del complesso di Santa Croce”. Alcune specifiche
pertinenze di limitata superfice sono di proprietà del demanio, mentre l’intero complesso
è di proprietà del F.E.C.; la Cappella dei Pazzi e il chiostro a essa prospicente sono di
proprietà comunale. Questa distribuzione della proprietà giustifica quanto affermato
nell’art. 11 cit. ai sensi dell’art. 3 Statuto “il Consiglio dell’Opera è composto da sette
membri, nominati per un triennio, due dall’Arcivescovo di Firenze, cinque dal Ministero
dell’Interno, sentito l’Arcivescovo stesso. Il presidente è eletto dal consiglio tra i suoi
membri nominato con decreto del Ministro degli Interni. È fatto divieto di distribuire
anche in modo indiretto utili e avanzi di gestione. nonché fondi riserve o capitale durante
la vita della fabbriceria.
Gli utili e gli avanzi di gestione derivanti dalle attività istituzionali o di quelle a esse
direttamente connesse di cui al D.lgs 4 dicembre 1997, n. 460, dovranno essere impiegati
obbligatoriamente per la realizzazione di dette attività” (art. 9).
Come si vede si tratta di un’amministrazione “chiusa” dove le eventuali plusvalenze
derivanti dalla gestione non vengono devolute al F.E.C. e non contribuiscono al
raggiungimento dei suoi fini istituzionali, mentre l’art. 9 Statuto prevede delle “attività
connesse” delle quali non è chiara. né l’entità. né la natura. Ciò alimenta una dispersione
delle risorse che sarebbero per loro natura destinate a bisogni eventuali di manutenzione
e restauro di altri beni afferenti al Fondo. Lo Statuto consente un penetrante
coinvolgimento nella gestione da parte dell’autorità ecclesiastica che conferma l’indirizzo
generale, poi adottato in sede di trattative legate alla redazione della legge 222/85. Il fatto
inoltre che nella stessa città il F.E.C. sia proprietario della chiesa della SS. Annunziata,
della chiesa di piazza San Firenze, del complesso di San Marco, di quello di Santa Maria
Novella, di Santa Maria Maggiore, di Santa Maria del Carmine, di San Paolino e di Santo
Spirito, tutte chiese e complessi edilizi che ospitano opere d’arte di notevole valore e
interesse storico artistico, consiglierebbe da parte del F.E.C. la costituzione di
un’amministrazione unica cittadina in grado di assicurare le necessarie sinergie nel
quadro di una moderna gestione patrimoniale.
Casi come quello segnalato dimostrano, a nostro avviso, la necessità di un intervento
di razionalizzazione che permetterebbe di fare luce e chiarezza anche sui rapporti tra la
Soprintendenza fiorentina e l’amministrazione dei suddetti beni.
Da non dimenticare infine che nel medesimo territorio esiste la fabbriceria di Santa
Maria del Fiore.
Peraltro le cinque aree (amministrazione del patrimonio fruttifero; accertamento della
consistenza del patrimonio e atti concessori per uso di culto; conservazione e restauro dei
beni del patrimonio; bilancio e consuntivo del F.E.C., affari finanziari e contabili) in cui è
articolato il F.E.C., anche se affiancate da un servizio di documentazione, appaiono non
idonee a svolgere un’attività promozionale. Prova ne sia che in genere l’attività del F.E.C.
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Certamente questa scelta discende da ragioni storiche e da necessità
contingenti, ma non vi è dubbio che la conseguenza più rilevante è quella
d’incidere sulla possibilità di utilizzare a pieno le risorse economiche
percepite, al fine di perseguire gli obiettivi istituzionali del Fondo
(manutenzione, gestione e restauro del patrimonio posseduto), dal
momento che le fabbricerie godono di una relativa autonomia di bilancio e
i proventi della gestione vengono sovente destinati, almeno in parte, alle
attività delle comunità religiose che “cogestiscono” di fatto i complessi
architettonici, sia pure per attività religiose considerate da essi
autonomamente rilevanti.
Desta altresì perplessità la composizione degli organi di gestione
delle fabbricerie, presieduti da soggetti provenienti dal mondo politico, i
quali finiscono per ricoprire incarichi di prestigio che rappresentano una
compensazione sul piano politico istituzionale rispetto alla collocazione di
essi sul territorio.
Succede così che nella gestione il Fondo finisce per assumere
sempre di più la configurazione di uno di quei tanti “enti inutili”, di
difficile se non impossibile soppressione, nei quali si disperde non poca
parte delle risorse pubbliche e che dovrebbero, perciò stesso essere uno
degli obiettivi principali della tanto invocata spending review, la quale
dovrebbe incidere non solo sul piano economico del risparmio di gestione,
ma anche in relazione al recupero di risorse da destinare a fini pubblici.
La natura mista dei beni di proprietà del F.E.C. e la necessità di
razionalizzazione della spesa dello Stato e degli enti pubblici pongono,
dunque, il problema dell’effettiva utilità di questo ente e forse
richiederebbero un’ulteriore dismissione dell’intero pacchetto di proprietà
del F.E.C. rispetto a quella già prevista dalla legge n. 222 del 1985 o
comunque una sua profonda ristrutturazione e razionalizzazione
gestionale. Sarebbe forse opportuno scorporare da esso quei beni aventi
valore storico, artistico e culturale, conferendoli alle strutture deputate alla
gestione dei beni culturali sul territorio, ferme restando le norme
concernenti il loro uso per la celebrazione o le finalità di culto. Non si
tratterebbe che di continuare a muoversi coerentemente nella direzione
della dismissione della gestione diretta del patrimonio dell’ente in
questione, già parzialmente avviata in sede di attuazione dell’accordo
concordatario.
si limita a proporre mostre ed esposizioni delle opere d’arte possedute, anche in una
politica di scambio con strutture museali italiane e straniere. Ben maggiori potrebbero
essere gli introiti se si potesse disporre di una struttura più dinamica, come sembra si
voglia fare co la riforma delle Soprintendenze.
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Non a caso, così come per un’efficace azione di salvaguardia dei
beni naturalistici, la gestione delle aree boschive appartenenti al Fondo dal
1932 è stata devoluta, attraverso convenzioni, per competenza, al Corpo
Forestale dello Stato, l’11 gennaio 2013 il F.E.C. ha siglato un protocollo di
intesa con il Ministero per i Beni e le Attività culturali, potenziando la già
stretta sinergia che intercorreva tra i due dicasteri nella gestione e
promozione del patrimonio culturale religioso. Il Ministero per i Beni e le
Attività culturali provvederà, sempre con fondi provenienti dal bilancio
del F.E.C., alla progettazione e all’esecuzione degli interventi conservativi
sul patrimonio culturale religioso81, coadiuvando pertanto il F.E.C. nella
sua attività. Queste convenzioni, che trovano la loro ratio nel fatto che
l’ente suddetto da solo non possiede le risorse umane necessarie e le
competenze per poter gestire direttamente il complesso delle sue
proprietà, rappresentano comunque una prima significativa devoluzione
di mansioni a enti che per loro natura sono più consoni a svolgerle82.
L’opera di razionalizzazione non si può tuttavia limitare al versante
degli interventi e della spesa, ma deve riguardare anche quello delle
risorse affinché il Fondo si caratterizzi per un equilibrio dei conti e quindi
per una razionalizzazione e un controllo degli introiti derivanti dalla
gestione del notevole patrimonio storico-artistico di cui dispone. Non va
dimenticato che attualmente la natura pubblica, l’importanza e la gestione
patrimoniale dello Stato sono testimoniate dal fatto che il bilancio del
Fondo è sottoposto all’approvazione del Parlamento e fa parte del bilancio
consuntivo dello Stato (art. 59 legge n. 222/85).
Ciò premesso, in nome della nuova politica adottata dallo Stato in
materia di gestione del suo patrimonio, le parti dovrebbero procedere ex
art. 13, 2° comma, del nuovo Concordato, a convocare una commissione
con la partecipazione della C.E.I. con il compito di procedere nella
direzione di un’ulteriore razionalizzazione. L’obiettivo della delegazione
statale dovrebbe essere quello di eliminare la gestione speciale presso il
Ministero degli Interni; tanto più che questa struttura ha mostrato nel
tempo la propria inadeguatezza. I rischi che derivano da una sbagliata o
Vedi: art. 2 del Protocollo di intesa tra il Ministero dell’Interno - Dipartimento delle
libertà civili e l’immigrazione – e il Ministero per i Beni e le Attività culturali, Per la
promozione ed il potenziamento della collaborazione volta ad azioni di restauro conservativo,
tutela e valorizzazione del patrimonio culturale di proprietà del Fondo Edifici di Culto, Roma, 11
gennaio 2013.
82 Non a caso, all’art. 58, 2° comma, si legge che: La progettazione e l'esecuzione delle
relative opere edilizie sono affidate, salve le competenze del Ministero per i beni culturali
e ambientali, al Ministero dei lavori pubblici.
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poco oculata amministrazione83, per un immobilizzo eccessivo di risorse
dovuto sia al reddito che si ricava dalla gestione sia per la mancata
adozione di adeguate strategie per far fruttare il patrimonio sia per la
mancata analisi dei risparmi di spesa che potrebbero derivare
dall’eventuale dismissione di alcuni beni. D’altra parte la legge n. 222
individua già la strada da seguire laddove, ex art. 58, 2° comma, prevede
che la gestione del patrimonio culturale religioso debba avvenire di
concerto col Ministero per i beni culturali. Certo occorrerebbe una
rivisitazione degli accordi concordatari del 1984, in quanto la disciplina di
tale Fondo fa parte delle materie miste84. In questo caso verrebbero
applicate tutte quelle norme che l’ordinamento ha predisposto a tutela
della proprietà privata e su tali edifici non vi sarebbero comunque
interventi restrittivi connessi all’esercizio pieno del diritto di proprietà85.
Considerato che un intervento a carattere strutturale di portata
generale dopo il varo della legge n. 222/85 necessiterebbe di una trattativa
e di un accordo con l’autorità ecclesiastica ai sensi e con le procedure
previste dall’art. 13, 2° comma, del Concordato, su ulteriori intese, vi sono
tuttavia gli spazi per un intervento unilaterale dello Stato che potrebbe - a
nostro avviso – riguardare la direzione generale del Ministero dell’Interno
incaricata della gestione del Fondo. Si potrebbero applicare a esso le
modifiche previste per le soprintendenze86, prevedendo accanto al prefetto
83 Vedi il caso del prefetto Francesco La Motta, direttore del F.E.C. dal 2003 al 2006,
chiamato a rispondere di peculato e falso ideologico per avere sottratto e investito in
Svizzera dieci milioni di euro provenienti dal bilancio dell’ente. È pur vero che, come
abbiamo più volte segnalato, vi è la necessità di introdurre una gestione “economica”
delle risorse del fondo, ma in ogni caso essa non può assumere caratteristiche speculative,
a prescindere dei beneficiari di queste operazioni!
84 Oltre agli accordi andrebbero anche riviste le norme applicative di essi contenute
nella legge n. 222 del 1985, nonché delle leggi n. 121 del 1985 e n. 206 del 1985 nonché nel
D.p.r. 13 febbraio 1987, n. 33, di Approvazione del regolamento di esecuzione della legge 20
maggio 1985, n. 222, recante disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il
sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi.
Sul punto vedi: M.F. SCANDURA, Il Fondo Edifici di Culto, in L’edilizia di culto, cit., pp.
121-132; F. FALCHI, Il Fondo Edifici di Culto, in AA. VV., Enti di culto e finanziamento delle
confessioni religiose: l'esperienza di un ventennio (1985-2005), a cura di I. Bolgiani, il Mulino,
Bologna, 2007; P. FLORIS, L'ecclesiasticità degli enti: standards normativi e modelli
giurisprudenziali, Giappichelli, Torino, 1997.
85 N. COLAIANNI, La tutela dei beni culturali di interesse religioso tra Costituzione e
convenzioni con le confessioni religiose, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, cit., n.
21/2012.
86 Al momento in cui scriviamo molto si discute della riforma delle Soprintendenze,
intorno alla quale si scontrano interessi economici e di potere relativi alla gestione dei
beni culturali sul territorio. Il dibattito sulla riforma mette fortemente in discussione lo
schema delle convenzioni. Comunque vadano le cose la riforma non potrà lasciare fuori
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gestore del fondo sia un vicario con la qualifica di architetto urbanista sia
un vicario incaricato della valorizzazione/fruizione del patrimonio
afferente al Fondo, non solo per garantire la fruibilità “museale” del bene,
ma anche il reperimento delle risorse, al fine di aumentare efficacia e
efficienza dell’ente nella gestione della sua attività istituzionale.
Infine, tenuto conto della composizione del patrimonio gestito dal
F.E.C. e a prescindere dalla sua indisponibilità, trattandosi di una gestione
mista con la confessione religiosa cattolica e tenendo conto dei vincoli
derivanti dall’art. 831 c.c., va detto che non è comunque ipotizzabile una
utilizzazione di questi beni a beneficio di altro culto.
6 - Le convenzioni per l’utilizzazione a fini di culto di edifici di
proprietà pubblica
Considerazioni di ordine differente vanno fatte quando l’edificio
appartiene a un soggetto diverso dall’entità confessionale che ne beneficia,
utilizzandolo a propri fini. Ciò avviene ad esempio nel caso in cui il
Comune, attraverso una convenzione87, affidi in comodato d’uso o in
concessione un immobile o una proprietà comunale a un ente
ecclesiastico88. In questi casi la discrezionalità dell’ente locale subisce
maggiori condizionamenti, come quelli prodotti, ad esempio, dagli artt. 911 del D.p.r. 13 settembre 2005, n. 29689.
una rivisitazione di compiti e funzioni del F.E.C. il quale amministra oggi attivamente un
patrimonio culturale di grande rilevanza sia dal punto di vista economico, sia storico
artistico.
87 Gli enti pubblici godono della capacità giuridica di diritto privato e dunque possono
utilizzare gli strumenti di diritto comune (quindi anche il contratto) per perseguire i
propri fini. Vedi E. CASETTA, Compendio di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2003,
p. 318.
88 L’art. 3 della legge n. 206 del 2003 dispone che, per consentire che le attività di
oratorio siano effettivamente svolte, lo Stato e gli enti locali territoriali possono concedere
in comodato, alla Chiesa cattolica e agli enti delle altre confessioni religiose stipulanti
intese, beni mobili e immobili, senza oneri a carico della finanza pubblica. Tale previsione
appare in contrasto con gli orientamenti più volte ricordati della Corte costituzionale in
materia di diritto a disporre di un edificio di culto anche per le confessioni che non hanno
stipulato intese. Il solo limite potrebbe essere costituito dal possesso della personalità
giuridica civile per la confessione che chiede di stipulare il contratto di comodato.
89 Il D.p.r. 13 settembre 2005, n. 296, Regolamento concernente i criteri e le modalità di
concessione in uso e in locazione dei beni immobili appartenenti allo Stato, “disciplina il
procedimento per l’affidamento in concessione, anche gratuita, ovvero in locazione,
anche a canone ridotto, dei beni immobili demaniali e patrimoniali dello Stato, gestiti
dall'Agenzia del demanio […]”(art.1), purché sussistano finalità di interesse pubblico o di
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La definizione della natura giuridica del bene di proprietà dell’ente
locale risulta, da quanto fino a ora detto, indispensabile al fine della sua
gestione, oltre che della sua tutela. Dal principio di laicità dello Stato90
discende che le finalità di culto non possano rientrare tra i fini istituzionali
dello Stato e degli altri enti pubblici e formare oggetto di “servizio
pubblico”, tanto più che agli enti ecclesiastici non viene riconosciuta la
personalità giuridica pubblica, che peraltro comporterebbe un’ingerenza
dello Stato per quanto concerne i controlli - e ciò è incompatibile con
quanto disposto dagli artt. 7, 8, 19 e 20 Cost.91 - ma la personalità giuridica
particolare rilevanza sociale. Il regolamento distingue tra due categorie di soggetti
destinatari: gli uni legittimati a ricevere i beni immobili demaniali o di proprietà statale a
titolo gratuito e gli altri legittimati, invece, a riceverli in regime di canone agevolato.
Della prima categoria fanno parte, oltre una serie di enti pubblici territoriali e non, una
sola categoria di “altri enti”: quelli ecclesiastici. Più precisamente, gli enti ecclesiastici in
generale, riguardo agli immobili adibiti al culto e le loro pertinenze; e gli oratori di cui
alla legge n. 206 del 2003, riguardo a immobili da destinare ad attività per la gioventù. In
realtà gli enti ecclesiastici compaiono anche nella seconda categoria, con riferimento a
quelli civilmente riconosciuti della Chiesa cattolica e delle altre confessioni religiose i cui
rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di Intese; a questa seconda
categoria vanno aggiunti, oltre che una serie di enti pubblici, anche la Croce Rossa
Italiana; le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, incluse le Onlus di diritto (enti
di volontariato e organizzazioni non governative di cooperazione internazionale) e le
Onlus parziali (cioè, di nuovo gli enti ecclesiastici); le associazioni di promozione sociale
iscritte nel registro nazionale; e infine le istituzioni, le fondazioni e le associazioni non
aventi scopo di lucro che perseguono in ambito nazionale fini di rilevante interesse nel
campo della cultura, dell’ambiente, della sicurezza pubblica, della salute e della ricerca
sulla base di programmi di durata almeno triennale, garantendo la fruibilità degli
immobili ricevuti da parte della collettività. Sul punto vedi: P. MOROZZO DELLA
ROCCA, Il sostegno pubblico agli enti non profit: agevolazioni, concessioni ed erogazioni con
finalità sociali, in Dir. famiglia, n. 2, 2007, p. 811 ss. Cfr. anche M.C. FOLLIERO, Enti
religiosi e non profit tra Welfare State e Welfare Community. La transizione, 2ª ed. aggiornata e
integrata, Giappichelli, Torino, 2010.
Sebbene il regolamento n. 296 del 2005 non abbia efficacia riguardo ai beni pubblici
non statali di cui siano titolari le Regioni e gli enti locali, esso viene richiamato nelle
convenzioni di gestione di immobili del patrimonio comunale sottoscritte tra l’ente
territoriale e le confessioni religiose, con la dicitura “aderendo al”, come è il caso della
convenzione di gestione dell’immobile di proprietà del Comune di Trani denominato
“Sinagoga scola nova” per destinarlo a centro per il culto ebraico: Comune di Trani,
delibera n. 176 del 14 dicembre 2012. Rimane il fatto che la condizione per accedere a tale
beneficio è ancora una volta quella di avere stipulato intese per le confessioni diverse
della cattolica, in palese violazione di quanto disposto dalla giurisprudenza della Corte
Costituzionale, la quale ha stabilito che l’avere o meno sottoscritto intese non costituisce
titolo esclusivo per accedere alla possibilità di disporre di un edificio di culto
beneficiando della legislazione a riguardo.
90 Corte cost., sentenza del 12 aprile 1989, n. 203.
91 Vedi: Corte cost., sentenza 25 maggio 1990, n. 259 che ha dichiarato
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di diritto privato. D’altra parte gli enti ecclesiastici, e i loro beni, nel
regime sia anteriore sia successivo alle modificazioni del Concordato del
1984 tra lo Stato e la Chiesa cattolica, non sono stati configurati come enti
pubblici nell’ordinamento italiano in quanto manca una norma che
riconosca a essi tale qualificazione ex lege92.
Tuttavia, un edificio destinato al culto pubblico, dovendosene
garantire la destinazione, usufruisce di un regime analogo a quello
relativo alla realizzazione di opere pubbliche in quanto, nel configurarsi
quale opera di urbanizzazione secondaria93, è idoneo a giustificare
l’espropriazione per pubblico interesse e la gratuità del permesso di
costruire. Questo criterio vale persino nel caso di lavori di restauro e/o
conservazione del bene, soprattutto quando gli interventi avvengono
grazie a un finanziamento dello Stato. Indicativo in tal senso è il caso dei
lavori alla cattedrale-basilica di Messina, finanziati dallo Stato attraverso
somme erogate all’arcivescovo di Messina e da questi affidate a una ditta
di sua scelta, la quale ha, tuttavia, dovuto sottoporsi alle valutazioni del
genio civile per quello che riguarda le verifiche sullo stato di avanzamento
dei lavori e il collaudo finale94.
costituzionalmente illegittima l’attribuzione della personalità di diritto pubblico alle
Comunità israelitiche, disposta dallo Statuto del 1930; in questo caso l’incompatibilità
riguardava gli artt. 8 e 19 Cost. Sulla personalità giuridica privata degli enti di culto e
sulla giurisprudenza al riguardo, per tutti, vedi: G. CASUSCELLI, La «supremazia» del
principio di laicità nei percorsi giurisprudenziali: il giudice ordinario, in Stato, Chiese e
pluralismo confessionale, cit., marzo 2009, p. 46. Per considerazioni attuali sull’art. 20 Cost.,
vedi: S. MARTUCCI, Note metodologiche per un’interpretazione duale dell’art. 20 Costituzione,
in Laicità e dimensione pubblica del fattore religioso, cit., pp. 341–350.
92 Gli artt. 1 e 5 della legge 20 maggio 1985, n. 222, prevedono che per il
riconoscimento degli effetti civili per gli enti ecclesiastici si segua lo schema previsto per
il riconoscimento delle persone giuridiche private.
93 L’art. 44, lett. e), della legge 22 ottobre 1971, n. 865 in G.U., n. 276 del 30 ottobre
1971, modifica l’art. 4 della legge 29 settembre 1964, n. 847, in G.U., n. 248 dell’8 ottobre
1964, qualificando in questo modo le “chiese e altri edifici per servizi religiosi” come
opere urbanizzazione secondaria. Vedi: V. TOZZI, voce Edifici di culto e legislazione
urbanistica, in Digesto delle discipline pubblicistiche, V, 1990, p. 385 ss.; G. CASUSCELLI,
Edifici ed edilizia di culto, I, Problemi generali, cit., p. 89 ss.; L. ZANNOTTI, Stato sociale,
edilizia di culto e pluralismo religioso, Contributo allo studio della problematica del dissenso
religioso, Giuffrè, Milano, 1990, p. 67 ss.
94 Su questi contratti, in generale, vedi: V. CERULLI IRELLI, Diritto privato
dell’amministrazione pubblica, Giappichelli, Torino, 2008, p. 50; F. CARINGELLA, Corso di
diritto amministrativo, 5ª ed., Giuffrè, Milano, 2008, p. 2460; M. D’ALBERTI, Interesse
pubblico e concorrenza nel codice dei contratti pubblici, in Dir. Amm., n. 2, 2008, p. 297 ss.; S.
MEZZACAPO, Procedure di evidenza pubblica (voce), in AA. VV., Dizionario di diritto
amministrativo, a cura di M. Clarich, G. Fonderico, il Sole 24 Ore, Milano, 2007, p. 522 ss.
Sul caso specifico vedi: G. CIMBALO, Leggi e provvedimenti regionali in materia
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Sebbene possa pensarsi che queste caratteristiche assimilino il
regime degli edifici di culto ai beni demaniali e patrimoniali indisponibili,
consolidata giurisprudenza95 ritiene che ciò non sia possibile poiché la
natura privatistica dei diritti reali degli enti ecclesiastici sui loro beni,
configura l’impossibilità di farli rientrare tra i beni demaniali e
patrimoniali indisponibili degli enti pubblici96. In particolare, quando si
tratta di edifici cattolici aperti al pubblico, essi possono avere solo delle
affinità, per quello che riguarda il regime giuridico, con i beni del
patrimonio indisponibile degli enti pubblici, in quanto non possono essere
sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li
riguardano. Lo strumento che il Comune dovrà utilizzare per la loro
gestione, dato che non possono rientrare nella categoria dei beni
indisponibili, non sarà però quello pubblicistico della concessione
amministrativa, poiché non si configura in questo caso l’attribuzione al
concessionario dell’uso di risorse e/o l’esercizio di attività non disponibili
da parte dei privati e riservate ai soli pubblici poteri, bensì quello della
convenzione che più genericamente rientra nell’attività iure privatorum o
iure gestionis della pubblica autorità97. La P.A. in questo, come in altri casi,
perseguirà dunque le proprie finalità pubbliche attraverso strumenti
privatistici, ponendosi in una posizione sostanzialmente paritaria al
contraente privato, anche se l’attività paritetica dell’agire amministrativo
sottoposta al diritto civile è pur sempre indirizzata al perseguimento di un
ecclesiastica. La costruzione di sistemi integrati pubblico-privato, in AA. VV., Federalismo,
regionalismo e principio di sussidiarietà, cit., p. 264.
95 Corte Cass., Sez. un., 11 gennaio 1990, n. 61; 5 novembre 1990, n. 10607; 6 dicembre
1995, n. 12359.
96 A.C. JEMOLO, Lezioni di diritto ecclesiastico, Giuffrè, Milano, 1962, p. 310, il quale
riteneva che gli edifici di culto, non avendo finalità pubbliche, non possono rientrare
nella categoria dei beni demaniali e in quella dei beni patrimoniali disponibili e
indisponibili. Pur condividendo tale orientamento non si può non tenere conto del fatto
che essi, oggi, sono invece inquadrati come beni di pubblica utilità, in particolare in
ambito urbanistico. Tra l’altro, anche se giuridicamente può lasciare il tempo che trova,
rilevante è anche la percezione che la collettività ha da sempre di detti edifici, che sente
“pubblici”, anche se pubblici non sono. Vedi a riguardo Don Camillo, regia di Julien
Duvivier, 1952, quando Don Camillo redarguisce Peppone, entrato in chiesa con fare
minaccioso, di non danneggiarla in quanto bene pubblico.
97 Nel rapporto contrattuale sorto dall’azione iure privatorum si possono distinguere
due fasi: la prima precede la stipulazione del contratto, è contrassegnata dalla rilevanza
dell’interesse pubblico ed è dominata da norme di diritto pubblico (evidenza pubblica); la
seconda fase segue alla stipulazione e concerne l’esecuzione del contratto secondo le
norme di diritto privato (salvo qualche eccezione). Vi sono tuttavia delle ipotesi in cui
l’amministrazione agisce totalmente iure privatorum, pertanto all’attività contrattuale che
scaturisce da questo tipo di azione si applicano in toto le norme del codice civile.
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interesse che, in questo caso, è quello configurante la pubblica utilità98,
prova ne sia che, come si è già detto:
“Gli edifici di culto e le predette pertinenze, costruiti con
contributi regionali e comunali, non possono essere sottratti alla
loro destinazione, neppure per effetto di alienazione, se non
sono decorsi almeno venti anni dalla erogazione del contributo.
Il vincolo è trascritto nei registri immobiliari”99.
Quando invece si tratta di edifici di culto sconsacrati, essi possono
rientrare nella categoria del demanio c.d. disponibile. In questo caso non
ha ragion d’essere l’indisponibilità del bene, in quanto esso non è soggetto
ad alcun tipo di vincolo, benché, in realtà, l’immobile utilizzato a fini di
culto dovrebbe sempre mantenere una utilizzazione per fini apprezzabili a
livello sociale, anche dopo la sconsacrazione. Esso infatti potrebbe essere
utilizzato per scopi culturali, naturalmente consoni alla natura di quei
luoghi, per esempio trasformandolo in museo, oppure utilizzandolo per
concerti, mostre ed esibizioni temporanee a carattere culturale100.
Particolare a riguardo è la situazione venutasi a creare in contrada
Cesi nel Comune di Terni, divenuto quest’ultimo proprietario della chiesa
di Sant’Angelo101. Nel 1905 viene constatato dalla stessa autorità
ecclesiastica lo stato di abbandono in cui già versava la proprietà
immobiliare, tale da rendervi impossibile la celebrazione di alcuna
funzione religiosa102. Nonostante la denuncia di degrado, conseguente
L’opera di pubblica utilità si caratterizza per l’appartenenza a un privato il quale,
pur nel perseguimento di un proprio interesse, ne soddisfa uno collettivo (o, in questo
caso, di una sua parte). Per diversi anni la giurisprudenza ha ecluso l’estensibilità della
normativa delle opere pubbliche a quelle di pubblica utilità. Tuttavia, con l’introduzione
del T.U. in materia di espropriazioni per pubblica utilità, D.p.r. 8 giugno 2001 n. 327, i
due tipi di opere vengono equiparate (art. 1) e l’unica differenza risiede nella
determinazione dell’indennità di esproprio. AA. VV., L’espropriazione per pubblica utilità, a
cura di F. Caringella, G. De Marzo, R. De Nictolis, L. Maruotti, Giuffrè, Milano, 2007, p.
12.
99 Vedi art. 28, 2° comma della legge n. 101 del 1989 e le leggi regionali relative al
finanziamento dell’edilizia di culto.
100 Ad avviso di chi scrive gli edifici di culto dismessi di proprietà pubblica, poiché
rientrano nel demanio c.d. disponibile, potrebbero essere destinati a edilizia abitativa.
101 In seguito al Decreto di “soppressione dei stabilimenti religiosi ed ecclesiastici” n.
205 dell’11 dicembre 1860, emanato dal Commissario generale straordinario nelle
Provincie dell'Umbria nella persona del marchese Gioacchino Napoleone Pepoli. Vedi:
ARCHIVIO STORICO DIOCESANO SPOLETO, Nota d’archivio, Spoleto, Allegato n. 1,
in ARCIVESCOVO DI SPOLETO-NORCIA, Prot. n. 026569/A/02, 5 febbraio 2002.
102 Nelle risposte al questionario della Sacra Visita Pastorale del Card. Domenico
Serafini, in data 2 giugno 1905, si legge: “S. Angelo, antica chiesa parrocchiale, ed ora
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all’abbandono, tuttavia, dalle ricerche da noi svolte alcun cenno viene
fatto alla sconsacrazione di detta chiesa. Di fatto l’immobile viene adibito,
almeno a partire dalla Prima guerra mondiale, a usi cosiddetti profani (uso
a infermeria dal 1915, residenza abitativa103, deposito della nettezza
urbana e magazzino degli attrezzi comunali) in modo continuativo fino al
2001.
Per questi motivi, il Comune decide di recuperare il sito104,
prevedendone un diverso uso, in ragione del valore storico artistico della
struttura, degli affreschi e dei sarcofagi in essa contenuti105.
abbandonata perché cadente, vuolsi che la sua antica costruzione fosse inansi il 1093.
Però di quell’epoca nulla rimane e fu rimodernata nel XIV secolo. All’ingresso lapide
romana, all’interno, presso la parete d’ingresso due sarcofagi romani”, in ARCHIVIO
STORICO DIOCESANO SPOLETO, Nota d’archivio, cit.
103 Dalle schede anagrafiche della circoscrizione del Comune di Terni, risulta che la
famiglia Montori, dal 1950 al 1962 ha abitato nella chiesa di S. Angelo.
104 Vedi: SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGICA PER L’UMBRIA, prot. n. 4078, 22
maggio 1984, nel quale si legge che nel corso di diversi sopralluoghi compiuti a più
riprese nella suddetta chiesa, nella quale sono conservati numerosi materiali archeologici
in buona parte di proprietà statale, “funzionari di questa Soprintendenza hanno notato
che l’edificio – di notevole interesse monumentale – versa in gravissimo stato di degrado
con grave pregiudizio anche per i materiali in esso conservati. […] A giudizio di questo
Ufficio è necessario trovare una sistemazione più idonea per i reperti archeologici in
modo da garantirne una migliore tutela e una situazione di maggiore decoro e migliore
godibilità”.
105 Così, nel 1989, su richiesta dell’amministrazione comunale ternana, la
Soprintendenza ai Beni Culturali dell’Umbria elabora una perizia di spesa con previsione
di un intervento architettonico (restauro superfici interne, pose di opere nuove di
pavimentazione, ecc.) e di uno storico artistico (consolidamento e restauro dipinti murali,
ecc.) finalizzati al recupero dell’immobile per scopi culturali. A tale richiesta segue, nel
1996, l’autorizzazione della stessa Soprintendenza a che il Comune completi gli interventi
relativi al consolidamento e restauro dei locali della chiesa, al fine di creare una sala
conferenze (utilizzabile per spettacoli e concerti), e della sacrestia, da destinare a sala
riunioni ed eventualmente camerini; opere volte al recupero di palazzo Contelori e
dell’annessa chiesa di S. Angelo da destinarsi a centro visita attrezzato nell’ambito del
progetto per la conoscenza e valorizzazione dell’Area naturalistica archeologica di
Carsuale e delle Terre arnolfe. I lavori di restauro, quindi, procedono e, per il 31 dicembre
2001, viene organizzato all’interno della chiesa di proprietà comunale un “capodanno
rock”, con tanto di notizia diffusa sui quotidiani locali. M. PACELLI, Terni. E il mitico dj
McKenzie prepara un capodanno rock in una chiesa sconsacrata, in Il Messaggero, 8 dicembre
2001, p. 44, n. arch. T32/4.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici, il Paesaggio, il Patrimonio Storico,
Artistico e Demoetnoantropologico dell’Umbria, in seguito a una segnalazione di un
privato cittadino dell’utilizzo non consono della chiesa in questione, lamentava, con le
note del 13 novembre 2001, prot. n. 28003, allegati OAT 32-4 e del 25 gennaio 2002, prot.
n. 32584, allegati OAT 32-4, la mancata richiesta da parte dell’amministrazione comunale,
ai sensi del D.p.r. 7 settembre 2001, dell’autorizzazione alla destinazione d’uso del bene
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A restauro ormai effettuato, e con tutte le autorizzazioni di cui
sopra ottenute dalla Sovrintendenza, nel 2003 perviene al Comune una
richiesta da parte della parrocchia di S. Maria Assunta di Cesi di potere
utilizzare temporaneamente, per il periodo occorrente all’effettuazione di
lavori di manutenzione alla locale chiesa parrocchiale, la chiesa di S.
Angelo nelle festività e nei casi di necessità106. Il Comune, quindi, concede
alla suddetta parrocchia i locali richiesti, previa però la sottoscrizione, da
parte di tutti i soggetti interessati, del relativo atto di obbligo recante le
condizioni di utilizzo107.
Sennonché l’arcivescovo di Spoleto-Norcia, che rivendica l’uso della
chiesa come edificio di culto, in quanto la sconsacrazione non sarebbe mai
avvenuta108, o se ne sono perse le tracce, e malgrado il perdurante non uso
dell’edificio a scopo di culto109, non sottoscrive l’atto e, per contro, invia a
sua volta al Comune una bozza di convenzione110 finalizzata a disciplinare
appartenente al Demanio Comunale (art. 14).
Altresì veniva presunto anche il mancato rispetto, ai sensi dall’art. 21, 2° comma, del
D.Lgs. n. 490 del 29 ottobre 1999, Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni
culturali e ambientali, a norma dell’art. 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352, delle disposizioni
che stabiliscono che i beni culturali “non possono essere adibiti a usi non compatibili con
il loro carattere storico od artistico, oppure tali da creare pregiudizio alla loro
conservazione o integrità”. Per tale destinazione d’uso peraltro era già intervenuta
l’autorizzazione in data 14 marzo 1996 con prot. 4441, da parte della Soprintendenza ai
Beni Culturali dell’Umbria.
106 PARROCCHIA DI S. MARIA ASSUNTA, Nota, prot. n. 34784, 8 aprile 2003.
107 GIUNTA COMUNALE TERNI, Deliberazione, n. 332, del 10 luglio 2003.
108 ARCIVESCOVO DI SPOLETO-NORCIA, Nota, prot. n. 026569/A/02, 5 febbraio
2002. In tale documento l’Arcivescovo Riccardo Fontana fa presente che non risulta alcun
documento che certifichi atti dell’autorità ecclesiastica volti a mutare la condizione
giuridica di S. Angelo in Cesi, se non quello risalente al 1525 per il quale essa era
divenuta “chiesa affiliata” alla collegiata di S. Maria Assunta, cioè oratorio pubblico
regolarmente officiato.
109 La soppressione e l’estinzione del vincolo di destinazione al culto avrebbe avuto
efficacia civile mediante l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche del
provvedimento dell’autorità religiosa competente, similmente a quanto avviene per la
soppressione e l’estinzione degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. Si vedano: art.
20, paragrafo 1, legge n. 222 del 1985, e art. 21 par. 3, legge n. 101 del 1989 relativa
all’intesa con la Comunità ebraica.
110 “La dedicazione di una chiesa al culto pubblico è un fatto permanente non
suscettibile di frazionamento nello spazio o nel tempo, per mezzo di attività diverse dal
culto […]. In concreto si tratta di definire l’ambito delle facoltà d’uso dell’edificio di culto
tra il Comune proprietario e l’ente ecclesiastico concessionario, designato dall’Autorità
ecclesiastica per l’officiatura e l’esercizio delle altre attività di culto e la natura giuridica
di esse […]. Lo strumento della convenzione tra l’ente proprietario (Comune) e l’ente
ecclesiastico concessionario consente alle parti contraenti la ricognizione della condizione
giuridica dell’edificio di culto e la precisazione di alcune particolari esigenze relative a
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in modo permanente l’uso ai fini di culto della chiesa, nel rispetto dell’art.
831 c.c.
Per una soluzione dell’intricata vicenda è a nostro avviso dirimente
il contenuto del canone 1212 del c.i.c. che recita:
“I luoghi sacri perdono la dedicazione o la benedizione se sono
stati distrutti in gran parte oppure destinati permanentemente a usi
profani con decreto del competente Ordinario o di fatto”.
Infatti, a prescindere da ogni altra considerazione, è certamente
vero che i locali della chiesa sono di fatto stati utilizzati per scopi profani
tra i quali quello di civile abitazione.
Tuttavia, dalla ricostruzione della vicenda, risulta in modo evidente
e inequivocabile che l’autorità ecclesiastica ha rivendicato l’utilizzazione
della chiesa oggetto della controversia solo e allorquando i lavori di
recupero e restauro totale dell’immobile non sono stati portati a termine a
carico dello Stato e del Comune. Ora, è pur vero che è compito dello Stato
e delle pubbliche autorità provvedere alla tutela e alla conservazione dei
beni culturali, ma una corretta gestione economica del patrimonio
pubblico deve accompagnarsi al migliore utilizzo del bene per fini di
carattere pubblico secondo l’interpretazione dei bisogni delle popolazioni
data dall’ente locale, il quale aveva optato per usi profani.
Se è vero che un vincolo sull’edificio sconsacrato può comunque
sussistere, conformemente a quanto disposto dal can. 1222 c.i.c.. dovrebbe
essere in ogni caso cura dell’ente territoriale vegliare sulla sorte
dell’edificio di culto sconsacrato111. Al di là dei vincoli che possono
sussistere, la riutilizzazione di un edificio sconsacrato al culto cattolico
come centro di preghiera di un’altra confessione in ogni caso non ne turba,
o dovrebbe turbarne, la destinazione originaria, in quanto si tratta pur
quel determinato edificio, nonché la indicazione degli oneri relativi”. ARCIVESCOVO
DI SPOLETO-NORCIA, Parere pro rei veritate, Nota sulle chiese di proprietà comunale,
Allegato n. 2, in ARCIVESCOVO DI SPOLETO-NORCIA, Nota, prot. n. 029763/A/03
del 1 settembre 2003 (protocollo comunale n. 79234 dell’8 settembre 2003).
111 Si veda a riguardo quanto disposto dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. In tal
caso a tali immobili saranno applicabili le norme in materia di tutela e conservazione da
questo previste e i principi relativi alla fruizione e valorizzazione di tali beni, ai sensi
della legislazione regionale. Vedi: F. MARGIOTTA BROGLIO, Commento all’art. 9. Beni
culturali di interesse religioso, in AA. VV., Il codice dei beni culturali e del paesaggio, Commento
al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, a cura di M. Cammelli, il Mulino, Bologna, 2004,
p. 96 ss.; A. ROCCELLA, I beni culturali ecclesiastici, in Quad. dir. pol. eccl., n. 1, 2004, p. 199
ss.; A.G. CHIZZONITI, Il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio: prime considerazioni
di interesse ecclesiasticistico , in Quad. dir. pol. eccl., n. 2, 2004, p. 402 ss.; M. VISMARA
MISSIROLI, I beni culturali di interesse religioso dall’Accordo del 1984 al Codice Urbani , in
Iustitia, nn. 2-3, 2004, p. 310 ss.
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sempre di consentire il soddisfacimento di un bisogno religioso sentito da
una comunità di fedeli, anche se appartenenti a confessioni religiose
diverse dalla cattolica o comunque non appartenenti alla sfera cristiana,
come nel caso della Comunità ebraica.
È il caso del Comune di Trani il quale concede in uso una chiesa
sconsacrata di proprietà comunale alla Curia Arcivescovile di TraniBarletta-Bisceglie, affinché possa essere praticato il culto cattolico ed
eventualmente anche il culto ortodosso romeno112. A tal fine l’arcidiocesi
si impegna a rendere accessibile e fruibile il sito in questione alla
cittadinanza per visite, domenicali o infrasettimanali, gratuite o guidate; a
provvedere a proprio carico alla vigilanza e custodia del sito;
all’assunzione di ogni responsabilità per danni a persone, cose o terzi; alla
voltura delle utenze a proprio nome e onere. Oltre a ciò si stabilisce che
essa dovrà farsi carico della manutenzione ordinaria e di ogni onere
necessario per la funzionalità dell’edificio di culto. Alla scadenza della
convenzione tutte le migliorie saranno acquisite gratuitamente dal
Comune, “senza alcuna possibilità di rivendicazione di diritti”. Altresì
l’Arcidiocesi provvederà, previa autorizzazione comunale, a stipulare a
sua volta una convenzione con la comunità ortodossa romena per
l’apertura al culto ortodosso romeno della chiesa e della sala di comunità,
poiché la vigilanza della vita pastorale è coordinata da apposite intese tra
la Conferenza episcopale italiana per il tramite dell’Ufficio per
l’ecumenismo e il dialogo interreligioso e le comunità ortodosse.
L’amministrazione comunale si riserva il diritto di recedere dalla
convenzione di concessione prima dello scadere del termine laddove
dovessero ricorrere ragioni di pubblica utilità, senza che la concessionaria
possa richiedere e/o pretendere risarcimenti o indennizzi anche per via
stragiudiziale oltre che giudiziale. Oltretutto si specifica che, in taluni casi
sarà diritto dell’amministrazione comunale, previa comunicazione e
accordo con il gestore, utilizzare l’immobile a titolo gratuito per proprie
attività che certamente, anche se non specificato, dovranno essere
conformi alle naturali propensioni dell’edificio di culto. Ci si chiede se in
questo caso non sarebbe stato opportuno prevedere la sconsacratio ad
cultum dell’edificio per permettere che esso rientrasse nella piena
disponibilità dell’amministrazione comunale, se non fosse per il fatto che
in tal modo si aggira il divieto dell’art. 831 c.c. di destinazione dell’edificio
ad altro culto, peraltro privo di accordi con lo Stato.
Come già è stato fatto notare l’autonomia riconosciuta alla parte
112 Comune di Trani, deliberazione del Commissario straordinario n. 36 del 9 marzo
2007; ID., convenzione, registrata in data 13 aprile 2007.
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concedente relativamente alle modalità di utilizzo del bene e agli oneri da
attribuire al concessionario, determinano una notevole diversificazione
delle convenzioni sottoscritte, impedendo la possibilità di approntare una
casistica generale dello strumento convenzionale che rimane sempre
soggetto della discrezionalità del concedente. Tuttavia, la piena autonomia
del concedente circa la possibilità di determinare i criteri in base ai quali la
convenzione può essere stipulata comporta a volte una sperequazione di
trattamento a seconda di chi sia il potenziale concessionario.
Lo stesso Comune di Trani sottoscrive una convenzione, simile a
quella proposta alla Chiesa cattolica, con la Comunità ebraica circa
l’utilizzazione da parte di quest’ultima di una chiesa di proprietà
comunale, anch’essa sconsacrata. Su istanza registrata al protocollo
generale n. 6913 del 28 febbraio 2001 la Comunità ebraica richiede al
Comune di rinnovare e formalizzare contrattualmente, ai sensi dell’art.
107 del D.lgs n. 267/2000, la concessione in comodato d’uso di una ex
chiesa cattolica, già concessa in comodato alla Comunità ebraica con
deliberazione n. 128 del 22 novembre 2005. Il Comune, con delibera n. 176
del 14 dicembre 2012, rinnova e formalizza la concessione113,
assoggettandola al rispetto di determinate condizioni quali: la
destinazione esclusiva dell’immobile a centro di preghiera del culto
ebraico, l’esclusione dello svolgimento di attività di lucro all’interno della
sinagoga da parte della Comunità, ma soprattutto a condizione che, per
tutta la durata della concessione, nessun onere deve ricadere sul bilancio
comunale. A quest’ultimo fine si dispone che ricadono a carico della
Comunità le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria114, clausola
quest’ultima peraltro prevista relativamente alle sole spese ordinarie nella
L’art. 2, 4° comma della legge n. 136 del 2001, prevede che “i beni immobili
appartenenti allo Stato, adibiti a luoghi di culto, con le relative pertinenze, in uso agli enti
ecclesiastici, sono agli stessi concessi gratuitamente al medesimo titolo e senza
applicazione di tributi. Per gli immobili costituenti abbazie, certose e monasteri restano in
ogni caso in vigore le disposizioni di cui all'art. 1 della legge 11 luglio 1986, n. 390. Con
regolamento da emanare ai sensi dell'art. 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400,
sono individuate le modalità di concessione in uso e di revoca della stessa in favore dello
Stato. Le spese di manutenzione, ordinaria e straordinaria, degli immobili concessi in uso
gratuito sono a carico degli enti ecclesiastici beneficiari”.
114 Ai sensi dell’art. 3, 1° comma, lett. b), del D.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, si intendono per interventi di
manutenzione straordinaria “le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire
parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienicosanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità
immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”.
113
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convenzione con la Chiesa cattolica del 2007, prima esaminata115.
A questa scelta del Comune, la Chiesa cattolica non ha opposto
alcuna osservazione né ha invocato il ricorso all’art. 831 c.c. ad attestare
una desuetudine di fatto della norma.
Inoltre è del tutto evidente per l’osservatore che la discrezionalità
dell’amministrazione comunale è andata nella direzione di creare un
trattamento privilegiato su due livelli. Nel primo caso vi è una concessione
dell’uso dell’edificio di culto alla Chiesa cattolica con la clausola che
questa ne consenta l’uso ad altra confessione con un cospicuo numero di
fedeli sul territorio comunale e nei centri limitrofi; non si vede perché le
esigenze della popolazione afferente alla confessione ortodossa romena,
non avrebbero potuto essere soddisfatte attraverso la concessione diretta
dell’uso dell’immobile alla stessa Chiesa ortodossa romena, peraltro
strutturata e giuridicamente costituita sul territorio nazionale, avendo
registrato il suo statuto116, senza agire per il tramite della Chiesa cattolica,
utilizzando un bene di proprietà comunale. È pur vero che, stando all’art.
3 della legge n. 206 del 2003, il Comune non può concedere l’immobile alla
Chiesa ortodossa romena perché non è una confessione stipulatrice di
intesa, ma è un fatto che così operando la Chiesa cattolica baypassa la
legge per i propri fini. Ciò dimostra l’illogicità della norma che dovrebbe
coerentemente essere impugnata davanti alla Corte costituzionale in caso
di rigetto da parte del Comune di una richiesta proveniente da una
confessione perché priva di intesa.
Inoltre, poiché la norma prevede che non vi debbano essere oneri
per lo Stato, ci si domanda come mai la Chiesa cattolica paghi le sole spese
ordinarie, mentre la Comunità ebraica deve pagare anche quelle
straordinarie. Infatti nel caso del contratto sottoscritto con la Comunità
ebraica le condizioni sono ben più onerose di quelle richieste alla Chiesa
cattolica, a meno che non si voglia supporre una maggiore disponibilità
115 L’art. 4 della Convenzione “Gestione in comodato d’uso immobile comunale
denominato “Chiesa S. Martino” in via S. Martino per destinarlo a culto religioso
cattolico ed eventualmente anche ortodosso, in favore della Curia arcivescovile TraniBarletta-Bisceglie”, Rep. n. 4030, 13 aprile 2007, registrata a Trani il 23 aprile 2007, n. 492,
serie 1, infatti detta che: “Il Gestore non dovrà corrispondere a Comune di Trani alcun
onere per la concessione in comodato d’uso dell’immobile in parola, mentre le spese di
gestione sono poste a carico del Gestore, unitamente alle spese di ordinaria
manutenzione della Struttura in parola; mentre le spese di straordinaria manutenzione
sono poste a carico del comune di Trani”.
116 Cfr. supra n. 91. F. BOTTI, Sui contenuti di una possibile Intesa con la Chiesa ortodossa
romena in Italia, in Libertà di coscienza e diversità di appartenenza religiosa nell'Est Europa, a
cura di G. Cimbalo, F. Botti, Bologna, 21-23 settembre 2007, Bononia University Press,
Bologna, pp. 151-174.
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economica dei fedeli del culto ebraico.
Si potrà obiettare che vi sono tutti i margini per un’attività
discrezionale della P.A. ispirata a esigenze di carattere locale e
amministrativo del territorio delle quali la Giunta e il Consiglio comunale
sono interpreti istituzionali, ma siamo certamente di fronte a una palese
violazione dell’eguale trattamento in materia di libertà religiosa ed
esercizio collettivo del culto.
Rimane il fatto che il vincolo dell’831 c.c., opera e riguarda la
funzione sociale finalizzata alla prestazione di servizi religiosi. In effetti
solo in ragione della funzione sociale svolta può trovare giustificazione da
un lato la limitazione della proprietà privata, proprio in funzione degli
scopi ai quali l’edificio è destinato117, e dall’altro l’immutabilità di tale
destinazione per ragioni identitarie della comunità di afferenza. Infatti
solo l’abbandono da parte dell’autorità ecclesiastica, per il venire meno
delle attività di culto che in esso si svolgono, può determinare, su esplicita
dichiarazione dell’autorità ecclesiastica competente, o per il verificarsi di
una situazione di fatto, il venire meno della sua qualificazione 118. Questa
caratterizzazione da un lato fa crescere i motivi d’incostituzionalità della
norma, dall’altro lato rende impossibile un razionale e funzionale utilizzo
del bene.
Non c’è dubbio che questa rigidità dell’ordinamento nell’attribuire
una qualificazione giuridica all’edifico di culto, individuato come
117 L’ordinamento giuridico tutela la proprietà privata, sia all'art 42 Cost. sia all'art. 832
c.c., difatti il proprietario ha il diritto di disporre in modo pieno ed esclusivo della cosa.
La legge tuttavia (2° comma art. 42 Cost.) ne determina i modi di acquisto, di godimento
e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. Tale
comma, sebbene apparentemente possa sembrare un punto d’incontro tra l’esigenza di
garantire la piena signoria del soggetto titolare e la subordinazione dell’interesse del
privato a quello della collettività, pone però il problema di stabilire quale sia il giusto
limite che si può porre al diritto del privato in quanto “manca un sicuro termine di
riferimento per distinguere le compressioni del diritto legittime da quelle illegittime, e
appare così arduo stabilire la consistenza del riconoscimento e della garanzia di cui al
secondo comma dell’art. 42”. Vedi M. TAMPONI, Il contenuto del diritto di proprietà alla
luce dell’art. 42 Cost., in I rapporti economici nella Costituzione, Rassegna di 40 anni di
giurisprudenza sul Titolo III, vol. 3, Impresa, proprietà e credito (Artt. 41-47), Giuffrè, Milano,
1989, p. 165; S. PUGLIATTI, La proprietà nel nuovo diritto, Giuffrè, Milano, pp. 276 e 281;
S. RODOTÀ, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, il Mulino, Bologna, 2013, pp.
254, 326.
118 Contrariamente a quanto disposto dal canone 1212 c.i.c. di parere contrario il T.A.R.
Campania, sez. I, Salerno, sentenza n. 133 del 2004, cit., per il quale è indispensabile un
atto di volontà di natura costitutiva da parte della competente autorità ecclesiastica. Per
un commento, tra gli altri, cfr. A. FUCCILLO, Giustizia e religione, vol. I, Giappichelli,
Torino, 2011, p. 81.
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destinato al culto cattolico e a quello ebraico, fa sorgere problemi di
costituzionalità in quanto analoghe garanzie non sono previste per altri
culti, con palese violazione sia dell’eguale libertà delle confessioni
religiose sia del diritto garantito a tutti di celebrare il culto e di farne
propaganda, nonché del principio di buon andamento della pubblica
amministrazione attraverso il razionale ed economico utilizzo delle risorse
disponibili per erogare servizi alle popolazioni. Siamo cioè di fronte a un
bene d’interesse pubblico119 che è destinato a una sola categoria di
cittadini, con esplicita esclusione di qualsiasi altro soggetto interessato a
fruirne per esercitarvi il culto ovvero farne propaganda.
Sembra ormai giunto il momento perché vi sia un intervento
legislativo di revisione dell’intera materia, di una sua razionale
risistemazione e di una rivisitazione dell’art. 831 c.c. alla luce dei principi
costituzionali e della mutata composizione delle appartenenze religiose
nel paese, tanto più che da tempo – sia pure tra molte contraddizioni –
questi problemi vengono di fatto affrontati dalle Amministrazioni
comunali con modalità e criteri tra i più diversi. Già nel 1982 vi sono
Comuni, come quello di Imola che, individuati gli enti religiosi presenti
nel suo territorio (la curia vescovile per la Chiesa cattolica e i Testimoni di
Geova), stipula con tali enti un “accordo di massima non formalizzato, ma
da allora richiamato negli atti, che prevede l’erogazione della quota del 7
% nella misura rispettivamente del 94% (curia vescovile) e del 6%
(Associazione Cristiana Testimoni di Geova)”, da ripartirsi annualmente120
V. TOZZI, Le moschee ed i ministri di culto, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale,
cit., settembre 2007, p. 7 e bibliografia citata alla n. 12.
I termini "pubblica utilità", "pubblico interesse", "interesse collettivo", "interesse
generale" sono sostanzialmente equivalenti e si differenziano dalla nozione di “opera
pubblica” in quanto essa prevede la coesistenza di tre elementi costitutivi: la natura
pubblica del soggetto che realizza l’opera e al quale appartiene; la natura immobiliare
della stessa e la destinazione al conseguimento di un pubblico interesse. Da ciò consegue
che mentre un’opera pubblica è in sé anche opera di pubblica utilità, altrettanto non può
dirsi viceversa poiché un’opera di pubblica utilità, pur soddisfacendo interessi collettivi
ed essendo di natura immobiliare, non è realizzata da un ente pubblico, ma da un
soggetto privato. Tuttavia il criterio per determinare quando un’opera sia di pubblica
utilità non è univoco in quanto varia a seconda dei continui cambiamenti ed evoluzioni
dovuti a mutati apprezzamenti della coscienza sociale, che tende a individuare e
assecondare le svariate e diversificate esigenze della collettività. In tal senso: UFFICIO
LEGISLATIVO E LEGALE DELLA REGIONE SICILIANA, Parere, prot. 136.11.2008, in
http://tinyurl.com/nnjxu6d.
120 Vedi: Comune di Imola, Dichiarazione del Servizio gestione urbanistica. del 24 aprile
2010. Col tempo i Testimoni di Geova hanno mantenuto il loro 5% e la Chiesa cattolica è
scesa all’80%. Tale orientamento è confermato dal: Comune di Imola, Delibera n. 193 del
2006. Tuttavia, poiché Testimoni di Geova e Avventisti hanno certificato solo in parte le
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Diversa la situazione nel vicino comune di Cesena dove, a fronte
delle differenti esigenze religiose della popolazione, nel riparto si è
inserita anche la Chiesa cristiana avventista del 7° giorno, alla quale nel
2005 è stato attribuito il 15 % delle somme disponibili iscritte nella relativa
voce di bilancio121.
7 - Il controllo di spesa e il patto di stabilità tra l’attuazione dell’art. 19
Cost., proprietà pubblica di edifici di culto, finanziamenti pubblici per
la loro manutenzione/edificazione
Tra i doveri della P.A. vi è quello di assicurare non solo la gestione efficace
dei servizi, ma anche quella del territorio secondo criteri di economicità.
La garanzia di manutenere gli edifici che ospitano attività a carattere
sociale può dunque essere ascritta nei suoi bilanci, insieme all’adozione di
provvedimenti che dispongono il loro inserimento nel tessuto urbano. Ci
riferiamo alle ordinanze sindacali adottate ai sensi del D.l. 12 novembre
2010, n. 187 (Misure urgenti in materia di sicurezza), convertito dalla legge 17
dicembre 2010, n. 217, utilizzato da molte amministrazioni comunali per
regolamentare, sia l’accesso a edifici di culto, sia la loro disponibilità per
appartenenti a culti diversi da quello cattolico122.
Si è trattato di provvedimenti limitativi della libertà d’uso del
territorio, il più delle volte annullati dall’intervento dei prefetti che hanno
riscontrato l’assenza dell’elemento dell’urgenza, ma che tuttavia
testimoniano dell’interesse dell’ente locale a intervenire in questa delicata
materia per ragioni legate al desiderio di valorizzare le appartenenze
storiche dei territori a determinate tradizioni religiose. Ciò è avvenuto
benché norme quali quelle del patto di stabilità abbiano limitato, a partire
dal bilancio per il 1999123, e limitino ancora oggi fortemente le possibilità
spese effettuate, le somme in eccedenza loro destinate sono state attribuite alla Chiesa
Cattolica e recuperate a loro favore nel bilancio del 2009, attingendo alla quota spettante
alla Chiesa cattolica.
121 Vedi: Documento informatico del Comune di Imola, sottoscritto digitalmente da
Emanuela Antoniacci il 13 ottobre 2009.
122 Sul punto diffusamente R. MAZZOLA, Laicità e spazi urbani. Il fatto religioso tra
governo municipale e spazi urbani, in AA. VV., Laicità e dimensione pubblica del fatto religioso.
Stato attuale e prospettive, a cura di R. Coppola, C. Ventrella, Cacucci, Bari, 2012, pp. 109122, ma anche G. CIMBALO, Il diritto ecclesiastico oggi: la territorializzazione dei diritti di
libertà religiosa, cit., pp. 335-386.
123 Il patto di stabilità interno deriva direttamente dal Patto di stabilità e crescita
(Trattato di Amsterdam), stipulato e sottoscritto nel 1997 dai paesi membri dell’Unione e
introdotto in Italia dall’art. 28, comma 1°, della legge n. 448 del 1998, Misure di finanza
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pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo, in G.U n. 302 del 29 dicembre 1998, Sup. ord. n.
210, il quale disponeva che le Regioni, le Province autonome, le Province, i Comuni e le
Comunità montane concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica che il
Paese ha adottato con l'adesione al patto di stabilità e crescita, impegnandosi a ridurre
progressivamente il finanziamento in disavanzo delle proprie spese e a ridurre il
rapporto tra l’ammontare del proprio debito e il prodotto interno lordo.
Fino al 2002 le leggi per l’anno finanziario riproducono sostanzialmente lo schema di
cui alla legge finanziaria per il 1998, ma in seguito all’accordo Stato-Regioni sulla spesa
sanitaria dell’8 agosto 2001 (D.l. n. 347 del 2001), con il quale è stato definito il patto di
stabilità per le Regioni per gli anni 2002-2004, le regole del patto per le Regioni e per gli
enti locali non sono più definite in un’unica legge finanziaria, bensì in differenti atti
normativi. Solo con le leggi finanziarie per il 2003 (art. 29, legge n. 289 del 2002) e il 2004,
(legge 24 dicembre 2003, n. 350) la regolamentazione del rapporto ritorna a essere
integralmente disciplinata in un unico atto normativo (le leggi finanziarie, appunto). La
legge finanziaria per il 2005 (legge n. 311 del 2004) riscrive, in maniera uniforme per tutte
le tipologie di enti territoriali, le regole del patto di stabilità, così come fino ad allora
considerato, prevedendo un vincolo all’incremento delle spese finali degli enti territoriali,
anziché un vincolo sul disavanzo e stabilendo, tra l’altro, che per gli enti locali
l’applicazione di vincoli più o meno stringenti dipende dalla “virtuosità” dell’ente (limite
del 10% ovvero dell’11,5%), misurata con riferimento al livello della spesa corrente
registrata dall’ente medesimo negli anni precedenti. Questa tendenza, rimasta invariata
anche in occasione dell’emanazione della legge finanziaria per il 2006 (legge n. 266 del
2005), muta con la legge finanziaria 27 dicembre 2006, n. 296, per la quale il fattore di
contenimento su cui intervenire non è più riferito alla spesa, ma al saldo finanziario tra
entrate finali e spese finali. Con la legge finanziaria 24 dicembre 2007, n. 244, viene
introdotto il criterio della “competenza mista”, mentre le leggi finanziarie per il 2009 e
per il 2010 risentono delle innovazioni introdotte dal D. l. n. 112 del 25 giugno 2008.
Con la legge 13 dicembre 2010, n. 220 (legge di stabilità 2011) è introdotta la regola di
carattere generale, che consiste nel conseguimento, da parte di ciascun ente locale, del
saldo finanziario espresso in termini di competenza mista pari a zero e l’introduzione di
una regola specifica per la determinazione del concorso di ciascun ente al contenimento
dei saldi di finanza pubblica. La novità più significativa delle regole che disciplinano il
patto di stabilità interno del 2012 è invece rappresentata dall’introduzione di un
meccanismo di riparto dell’ammontare del concorso agli obiettivi di finanza pubblica tra i
singoli enti, basato su criteri di virtuosità. La legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di
stabilità 2013), disciplina il patto di stabilità interno per il triennio 2013-2015
riproponendo, con alcune modifiche, la normativa prevista dagli artt. 30-32 della legge 12
novembre 2011, n. 183. Infine, con la legge n. 147 del 27 dicembre 2013 (legge di stabilità
2014), vengono, inoltre, abrogati i commi 1-7 dell’art. 9 del D.l. n. 6 luglio 2012, n. 95.
L’abrogazione parziale dell’art. 9 determina anche quella della norma che imponeva agli
enti locali la soppressione, l’accorpamento o la riduzione degli oneri finanziari in misura
non inferiore al 20%, degli enti, delle agenzie e degli organismi comunque denominati e
di qualsiasi natura giuridica che alla data del 15 agosto 2012 esercitavano le funzioni
fondamentali previste dall’art. 117, comma 2°, lett. p) della Costituzione o funzioni
amministrative spettanti a Comuni, Province e Città metropolitane. Con l’abrogazione
del comma 32 del D.l. n. 78 del 2010 vengono, inoltre, eliminate le disposizioni che
imponevano dei limiti al possesso di organismi partecipati, in relazione alle dimensioni
demografiche dell’ente locale (nessuna società partecipata per i Comuni sino ai
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di spesa anche di quei Comuni che dispongono delle somme occorrenti
per effettuare investimenti.
E tuttavia non sembrano avere trovato ostacoli le spese degli enti
locali destinate all’edilizia di culto.
A sostenere questa scelta è stato l’obbligo di destinare all’edilizia di
culto una parte degli oneri di urbanizzazione secondaria124 raccolti
trentamila abitanti, una sola partecipazione per i Comuni compresi fra i trentamila e i
cinquantamila abitanti). Da questa ricostruzione appare evidente che agli enti territoriali
viene lasciata la possibilità di stabilire delle priorità di spesa, fermi restando i saldi e il
ridimensionamento della spesa, fatte comunque salve le spese a destinazione vincolata.
124 È pur vero che sugli artt. 15 e 18 della Bucalossi era già intervenuta la legge
finanziaria 27 dicembre 1997, n. 449, Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica, la
quale, all’art. 49, 7° comma, prevedeva la possibilità da parte dei Comuni di destinare i
proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni al finanziamento di spese di
manutenzione del patrimonio comunale. Tuttavia anche questo obbligo era venuto meno
con il D.p.r. n. 380 del 6 giugno 2001. L’art. 136, infatti, ha abrogato, oltre che gli artt. 1, 3
– 11 e 16, anche il testo di cui all’art. 12 della Bucalossi (come da ultimo riveduto e
corretto dall’art. 11 bis del D.l. 1 luglio 1986 n. 318, convertito con modificazioni nella
legge n. 488 del 96 e art. 11 bis del D.l. 31 agosto 1987 n. 359) laddove prevedeva che i
proventi da oneri di urbanizzazione dovevano essere obbligatoriamente utilizzati dai
Comuni come una forma di finanziamento per la copertura delle spese di urbanizzazione
primaria e secondaria, nonché, tra l’altro, nel limite massimo del 30%, destinandole a
spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale.
Per vedere come in concreto questa complessa normativa ha inciso sulla destinazione
di risorse pubbliche alla manutenzione e costruzione di edifici di culto, esaminiamo il
caso del Comune di Bologna il quale, con delibera della Giunta comunale n. 212 del 1
giugno 2004 ha dettato una serie di criteri di riparto della quota percentuale dei proventi
riscossi a titolo di urbanizzazione secondaria da destinare a chiese ed enti religiosi, in una
percentuale dell’85% dell’importo complessivo da devolversi agli enti cattolici
rappresentati dalla Curia Arcivescovile e il rimanente 15% agli altri enti religiosi. Tale
orientamento è stato confermato anche nella successiva D.G.C. del 19 ottobre 2004, n. 302
e ribadito nella D.G.C. n. 84 del 2010, approvata il 16 febbraio e resa esecutiva il 2 marzo
successivo, nella quale ultima, all’art. 2, si annoverano tra i soggetti beneficiari del
contributo solo le “confessioni religiose riconosciute tramite concordato, intesa o altri
strumenti giuridici dell’ordinamento italiano”. Nello stesso senso delle delibere bolognesi
ritroviamo anche il Comune di Zola Predosa (BO), vedi: allegato “A” alla deliberazione
della Giunta comunale n. 108 del 10 luglio 2002. Ciò non avviene nel Comune di San
Lazzaro di Savena (BO) il quale, con D.G.C. n. 76 del 2006, si discosta da quanto stabilito
nel capoluogo di Regione. Se l’85% del totale delle quote di urbanizzazione secondaria è
destinato alla Chiesa cattolica, il restante 15% viene attribuito alla sola Congregazione
cristiana dei Testimoni di Geova di San Lazzaro e non ad altre confessioni religiose con la
motivazione che non erano pervenute richieste da parte di quest’ultime.
Stesso rispetto della sentenza della Corte costituzionale vi è da parte del Comune di
Cattolica (RN) con deliberazione consiliare n. 151 del 2007 che modifica la ripartizione
interna della quota percentuale dei proventi derivanti dagli oneri di urbanizzazione
secondaria, stabilita al 7% dalla deliberazione 849 del 1988. Così il 4% viene devoluto alla
Chiesa cattolica e il restante 3% è destinato ad altre confessioni religiose, peraltro
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annualmente, poiché tali spese erano ricomprese tra quelle a destinazione
vincolata125.
accantonato poiché nessuna confessione religiosa diversa dalla cattolica ne ha fatto
richiesta. In questo caso viene affermato il principio di una distribuzione almeno
potenziale delle risorse a favore di tutte le confessioni.
125 L’obbligo dei Comuni a destinare parte dei proventi a costruzione e manutenzione
di edifici di culto è stato ampiamente rispettato. Da una verifica a campione delle delibere
di alcuni Comuni dell’Emilia Romagna è possibile evincere i criteri e le modalità con le
quali le Amministrazioni comunali hanno operato. Ad esempio, una delibera consiliare
del Comune di Cattolica (RN) n. 532 del 21 aprile 1980 attribuisce alla Chiesa cattolica
una quota pari all'85% della quota del 7% dei proventi derivanti dagli oneri di
urbanizzazione secondaria. Un riparto interno alla percentuale prevista dalla delibera
regionale, che produce una ripartizione dei proventi ancora più sbilanciata a favore della
confessione cattolica, residuando infatti un 15% di quota interna da assegnare a delle non
meglio precisate “altre confessioni religiose”. Questo riparto sbilanciato (e dettato da una
delibera emanata oltre 30 anni fa, quando di certo la situazione sociale era diversa, e le
correnti migratorie che investono ora il nostro Paese erano ancora lontane dallo
svilupparsi) che però non ha riscontro effettivo nella realtà di oggi, poggia sul fatto che
non sono pervenute richieste al Comune da parte di altre confessioni religiose “in merito
ad acquisizioni di aree destinate al culto e/o interventi di costruzione o ripristino di
attrezzature religiose”. Dal dettato della determinazione si evince, in una ulteriore
istanza, che, in ottemperanza dalla delibera n. 532 del 1980, “l’attribuzione dei contributi
per le attrezzature religiose [...] deve essere devoluta agli enti religiosi istituzionalmente
riconosciuti entro il 31 marzo di ogni anno”.
Viene in tal modo a crearsi un vincolo formale sull’individuazione delle confessioni
religiose alle quali è consentito accedere al finanziamento, vincolo che in linea teorica può
certamente presentarsi come discriminatorio, ma che in pratica non è venuto a
concretizzarsi in questo anno a causa della mancanza di richieste pervenute al Comune
del capoluogo di provincia romagnolo.
Il Comune di Pianoro (BO), invece, con deliberazione n. 386 del 17 settembre 1997,
ribadita con determinazione n. 94 del 2010, nel determinare i criteri di distribuzione della
quota del 7% spettante agli enti ecclesiastici richiedenti, prevede che la somma
complessiva vada distribuita in proporzione ai mq degli edifici, che rientrino nelle c.d.
“attrezzature religiose”, in uso e in possesso dei richiedenti. L’utilizzazione di tale tipo di
criterio comporta che, se una confessione religiosa, benché con un numero esiguo di
fedeli, è proprietaria di un edificio particolarmente grande, ha diritto a una quota
percentuale maggiore rispetto a un'altra confessione religiosa con un più ampio numero
di aderenti, ma dotata di attrezzature religiose stanziate su un numero inferiore di mq.
Vedi: L. PATI, Finanziamenti all’edilizia di culto: sostegno alle minoranze in un Paese pluralista
o emblema di uno Stato confessionale, in L’Ateo, bimestrale dell’UAAR, n. 2, 2014, pp. 34-35.
In generale a seguito della delibera del Consiglio regionale Emilia Romagna n. 849 del
4 marzo 1998, Aggiornamento delle indicazioni procedurali per l’applicazione degli oneri di
urbanizzazione di cui agli articoli 5 e 10 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, i Comuni della
provincia bolognese, con diversi atti di recepimento - basti pensare al Comune di Bologna
che nell’arco di dieci anni, dal 1999 al 2010, ha emanato quattro delibere - hanno
annualmente destinato, adattandola a seconda degli interessi presenti sul territorio, una
quota pari al 7% dei proventi riscossi nell’anno precedente a titolo di oneri di
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L’esiguità delle somme assegnate sui bilanci annuali ha fortemente
ostacolato sia la possibilità di un piano organico di intervento sia quella di
operare a favore delle confessioni di minoranza, erogando somme di una
qualche consistenza126
Cerca di ovviare a questi inconvenienti il Comune di Forlì che, con
propria delibera del 2004, propone un modus operandi del tutto diverso. Gli
stanziamenti predisposti riguardano il piano quinquennale e prevedono
l’accorpamento delle risorse annuali e la loro ripartizione sulla base di
interventi programmati riferiti a un allegato elenco di opere. La
disponibilità complessiva di risorse viene ripartita in tre voci: acquisto
aree (30%), interventi sul patrimonio (40%), nuove costruzioni o loro
completamento (30%)127. Sulla base di questi criteri sono possibili
interventi a favore della Chiesa cattolica (95% del totale), ma anche dei
Testimoni di Geova e, con il nuovo piano quinquennale che adotta i
medesimi criteri il 5% circa degli interventi viene assegnato a nuove
costruzioni per le Chiese cristiane avventiste del 7° giorno128.
urbanizzazione secondaria alla voce “chiese e altri edifici per servizi religiosi”. Nella
stessa direzione ha operato il Comune di Anzola (BO), con D.C.C. n. 56 del 30 luglio 1998.
126 Si veda ad esempio quanto deciso dal Comune di Faenza il quale ha scelto di
ripartire il 7 % degli oneri di urbanizzazione in base alla “ […] consistenza del patrimonio
immobiliare degli Enti religiosi, nonché delle caratteristiche artistiche e architettoniche
degli edifici in relazione al loro restauro o recupero”. Insomma, si premia la confessione
con un patrimonio più consistente sul territorio, indipendentemente dai bisogni
eventualmente mutati – peraltro da accertare - della popolazione residente, come le
norme di legge vigenti richiederebbero. Al riparto hanno partecipato la Curia di Faenza e
i Testimoni di Geova; a questi ultimi è stata attribuita 1986 l’8% del totale, sceso poi al 2%
a partire dal 1998 e rimasto poi invariato. Si veda: Comune di Faenza, Atti del Consiglio
comunale, prot. 6957, verbale 438, del 19 nov. 1998. Va da se che l’estrema esiguità delle
somme erogate ai Testimoni di Geova ha consentito ben pochi lavori di restauro e
certamente poco ha contribuito all’acquisizione di aree per la costruzione di edifici di
culto.
127 Nella delibera, dopo aver precisato che possono concorrere all’assegnazione delle
risorse, oltre alla Chiesa cattolica, le confessioni diverse dalla cattolica “purché dotate di
personalità giuridica riconosciuta dallo Stato” e quindi anche se non hanno stipulato
intese, si precisa che, nel caso non vi siano interventi riferiti alle acquisizione di nuove
aree o nuove costruzioni, le risorse verranno interamente destinate a interventi sul
patrimonio, disposizione che avvantaggia la Chiesa cattolica. In questo caso la
precedenza negli interventi verrà data agli edifici a carattere monumentale o storicoarchitettonico, verrà effettuata una verifica sulla reale quantità effettuata da ciascun ente
religioso, la liquidazione delle somme avverrà a seguito della regolare certificazione delle
spese effettuate. Comune di Forlì, Deliberazione n. 37, 5 aprile 2004, prot. Gen., n.
13746/2004.
128 Vedi: Comune di Forlì, Deliberazione n. 47, pos. Rag. n. 2009, I, 7112/6, 2010.
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Nel mentre le delibere comunali producono la loro efficacia viene
emanata la legge n. 244 del 2007, “Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato” (legge finanziaria 2008)129, la quale
ribadisce all’art. 2, comma 8°, che:
“Per gli anni 2008, 2009 e 2010, i proventi delle concessioni
edilizie e delle sanzioni previste dal testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n.
380, possono essere utilizzati per una quota non superiore al
50% per il finanziamento di spese correnti e per una quota non
superiore ad un ulteriore 25% esclusivamente per spese di
manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio
comunale”130.
129 La principale novità introdotta da questa legge finanziaria, rispetto alle precedenti
consiste nel fatto che la contabilizzazione del saldo obiettivo delle entrate e delle spese di
parte corrente sono considerate in termini di competenza, mentre quelle di parte capitale
sono contabilizzate per cassa. Per una visione riassuntiva delle regole del patto che si
sono succedute negli anni, cfr. supra n. 123.
130 Il Comune di Rimini ha adoperato una strategia simile a quella utilizzata dal
Comune di Cattolica (vedi: supra nn. 124-125), con qualche lieve differenza tecnica. In tale
Comune, per quel che riguarda l'anno 2010, si è provveduto direttamente attraverso una
determina dirigenziale (nella fattispecie la n. 1086 del 26 luglio 2011), la quale agisce in
ottemperanza alla sopracitata deliberazione del Consiglio regionale dell'Emilia Romagna
n. 849 del 1998 e al suo successivo aggiornamento attraverso la deliberazione n. 850 del
1998. Per quanto riguarda il Comune di San Giovanni in Marignano (RN) si è provveduto
all'attribuzione dei contributi per attrezzature religiose derivanti dall’applicazione degli
oneri di urbanizzazione secondaria per l'anno 2010 attraverso una determina del
responsabile d'area, più precisamente la n. 41 del 18 agosto 2011, la quale agisce in
ottemperanza ai criteri stabiliti dal Consiglio regionale. È interessante però il fatto che la
delibera del Consiglio comunale che funge da riferimento per la materia per quanto
riguarda il territorio del Comune di San Giovanni in Marignano sia la n. 6 dell’11 gennaio
1995: un atto emanato quindi anteriormente alla suddetta delibera consiliare regionale,
nel momento in cui era ancora in vigore la risalente Del. reg. n. 1706 del 26 luglio 1978,
modificata poi con delibera del Consiglio regionale n. 1871 del 6 dicembre 1978. La
delibera consiliare comunale afferma che “i fondi, come criterio generale, saranno
ripartiti fra le diverse confessioni religiose in ragione della loro consistenza numerica sul
territorio comunale, avendo cura di lasciare un congruo spazio per le minoranze religiose
ivi presenti”. Un'affermazione, quest'ultima, inedita nel panorama territoriale romagnolo,
che appare essere in consonanza, almeno sulla carta, con quanto pronunciato della Corte
Costituzionale in materia nella sentenza n. 195 del 1993. La delibera prosegue affermando
che “per una pratica applicazione di questo criterio generale si stabilisce che alla Chiesa
cattolica spetti il 95% dei contributi, mentre il rimanente 5% sarà assegnato alle altre
confessioni religiose. Tale rapporto potrà essere variato con delibera del c.c. ove se ne
ravvisassero le condizioni di fatto che ne giustificassero la modifica nel tempo”. Seguono
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altri tre punti che si riferiscono rispettivamente alla “Presentazione dei programmi
d’intervento e destinazione fondi”, alle “Procedure per eventuali espropri” e a
“Liquidazione e controlli”. Per quanto riguarda l'anno 2010, la determinazione del
responsabile d'area sopracitata, a fronte della richiesta pervenuta al Comune da parte
della diocesi di Rimini per i lavori di manutenzione straordinaria alle strutture
parrocchiali di S. Croce in località Pianventena, destina alla stessa diocesi il 7% degli
introiti derivanti dalle concessioni edilizie (“oneri di urbanizzazione secondaria”).
L'ammontare del contributo in questo caso si sostanzia nella cifra di euro 8.702,01. Risulta
evidente come questa cifra rappresenti l'intero ammontare del suddetto 7%. In questo
anno infatti non sono pervenute al Comune richieste da parte di altre confessioni
religiose, e in conseguenza di ciò l'intera quota di finanziamento è stata attribuita alla
Chiesa cattolica, in ottemperanza al dettato compreso nel punto 1 della delibera consiliare
n. 6 del 1995 nella quale si afferma: “Qualora entro i termini fissati per la presentazione
delle domande di contributo, non siano pervenute richieste sufficienti per raggiungere
una delle percentuali sopra indicate, i fondi eccedenti saranno attribuiti agli altri Enti
Religiosi richiedenti”. Interessante costatare, in ultima istanza, come in questo Comune
siano stati attribuiti contributi (nell'ordine del 5% interno alla ripartizione, come sopra
esplicato) alla Congregazione dei Testimoni di Geova presente nel territorio del Comune
negli anni 1998 e 1999. Da quel momento tale confessione non ha più avanzato richiesta
di finanziamento. I criteri adottati hanno comunque avvantaggiato fortemente la Chiesa
cattolica.
Bisogna attendere una “Attestazione di regolarità tecnica” del Comune di Ravenna
relativa all’esercizio 2007 per vedere affermato che, nel mentre con deliberazione del
Consiglio comunale n. 47234/1191 del 15 dicembre 1990 e successive, fino alla 32561/169
del 30 luglio 1998 si recepiscono gli indirizzi regionali si afferma che “considerato che la
Carta costituzionale con la sentenza 195/93 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 1 della legge della regione Abruzzo […] la pubblica amministrazione deve
garantire la salvaguardia della libertà di religione in un regime di pluralismo
confessionale anche attraverso l’assegnazione di aree necessarie e delle relative
agevolazioni per la realizzazione di edifici destinati al culto”. Prova ne sia che il Comune
destina finanziamenti anche ai Testimoni di Geova di Ravenna, oltre alla Curia Diocesana
di Ravenna e Cervia.
Nel Comune di Bellaria-Igea Marina (RN) nel 2012 è stata predisposta nel 2012 la
determina dirigenziale n. 354 con la quale i contributi sono stati assegnati soltanto alla
Chiesa cattolica che risulta essere stata l'unica confessione ad avanzare domanda per la
ripartizione dei finanziamenti. In linea di principio nulla potrebbe opporsi a eventuali
richieste di altre confessioni che volessero accedere a quota-parte dei proventi.
Il Comune di Castenaso (BO), con deliberazione della Giunta comunale n. 18 del 3
marzo 2011, nel richiamare la deliberazione 849/1988 del Consiglio regionale dell’Emila
Romagna, ha previsto che il riparto dei proventi avvenisse d’intesa con gli enti religiosi
istituzionalmente competenti, altri Comuni - Sasso Marconi e Granarolo- non hanno
disposto alcuna previsione a riguardo. Il Comune di Misano Adriatico (RN) ha invece
agito direttamente attraverso una determina dirigenziale (per l'anno 2010 è la det. n. 234
del 29 settembre 2011) la quale, in considerazione della suddetta delibera del Consiglio
Regionale dell'Emilia Romagna, ha predisposto i conteggi dell'Ufficio Ragioneria in
merito, appunto, alla riscossione dei proventi per oneri di urbanizzazione secondaria
dell'anno 2010: da questi risulta che deve essere destinato per interventi a favore di edifici
religiosi e di culto l'importo di euro 13.053.15. Ciò, poi, si concretizza nel momento in cui
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Solo recentemente si è registrata un’inversione di tendenza: con
l’approvazione della legge 14 gennaio 2013, n. 10 (art. 4, comma 3°), è stata
ribaltata nuovamente la situazione, attribuendo le maggiori entrate derivanti dai contributi per il rilascio dei permessi di costruire e dalle
sanzioni previste dal Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia, di cui al D.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 “[…] alla realizzazione di opere pubbliche di urbanizzazione, di recupero
urbanistico e di manutenzione del patrimonio comunale in misura non
inferiore al 50 per cento del totale annuo”131.
Inoltre l’esame delle delibere comunali rivela che le richieste di
finanziamento da parte delle confessioni religiose diverse dalla cattolica
vengono verificate le fatture presentate dalla Diocesi di Rimini, relative a vari interventi
di manutenzione. Non è pertanto prevista in tale Comune alcuna considerazione per gli
eventuali altri culti presenti sul territorio. A tale evenienza potrà farsi fronte sicuramente
attraverso una delibera consiliare in questa direzione. Ma di questo tipo di intervento,
fino ad ora, non è stata riscontrata traccia alcuna.
Il Comune di Riccione (RN) ha dimostrato di relazionarsi con la tematica del
finanziamento all'edilizia di culto in maniera abbastanza simile a quanto ha fatto il
Comune di Misano Adriatico. Qui infatti si è deciso di recepire senza modifica alcuna la
delibera consiliare regionale 849/98. Ciò è avvenuto attraverso una delibera del Consiglio
Comunale, la n. 4 del 17 gennaio 2010. Per valutarne la consistenza è stato necessario
consultare il piano triennale per i lavori pubblici redatto dal Comune: in esso è segnalata
alla voce n. 19 la dicitura “Contributo per la realizzazione di edifici e servizi adibiti al
culto”. Qui si prevede la destinazione di “Euro 150.000 negli anni 2012 e 2013; si tratta di
una parte di oneri di urbanizzazione vincolati per legge alla realizzazione di edifici
adibiti al culto”. E questo prima del ripristino formale di tale vincolo intervenuto nel
2014. Cosi come per il Comune di Misano, nessun tipo di provvidenza è stata disposta a
favore di altri culti.
131 A sostegno dell’edilizia di culto si registrano anche interventi di carattere
straordinario, a prescindere da quanto previsto nella normativa da noi esaminata. È
quanto si evince dal protocollo d’intesa sottoscritto dall’assessore della Regione Sicilia ai
Beni culturali e dell’Identità siciliana, Sebastiano Missineo con monsignor Domenico
Mogavero, vescovo con la delega per i beni culturali della Conferenza Episcopale
siciliana. La Regione ha messo a disposizione i primi 11 milioni di euro dal Po-Fesr 20072013 (Programma Operativo – Fondo europeo per lo sviluppo regionale), cui se ne
aggiungeranno altri undici, per un totale di circa ventidue milioni. Senza contare ulteriori
finanziamenti sui Programmi Operativi Interregionali, sempre a beneficio della Chiesa
cattolica.
Stanziamenti consistenti (100 mila euro) sono stati disposti nel 2012 sia dal Comune di
Ferrara sia da quello di Varese, anche grazie alle risorse accantonate dagli oneri di
urbanizzazione secondaria in base all’art. 73 della L.R. Lombardia 11 marzo 2005, n. 12,
Legge per il governo del territorio. Tale somma è pari all’8% delle somme effettivamente
riscosse a titolo di urbanizzazione secondaria. Infine stanziamenti straordinari sono stati
disposti per la ricostruzione delle chiese danneggiate dal sisma che ha colpito alcuni
Comuni della Provincia di Modena nel 2013.
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sono spesso inesistenti. Ciò non dipende solo dalla distribuzione delle
confessioni non cattoliche in modo non omogeneo sul territorio, ma anche
dei meccanismi di riparto delle risorse disponibili. In effetti tutti i Comuni
procedono come primo atto alla ripartizione delle somme tra le diverse
confessioni, rifacendosi per la ripartizione percentuale di esse alle quote
dell’8 per mille. Pertanto le confessioni di minoranza sanno che comunque
la quota a esse spettanti non supererà cifre decisamente irrisorie e
comunque non sufficienti a effettuare lavori di manutenzione e ancor più
di costruzione dell’edificio. I regolamenti comunali richiedono inoltre –
come è ovvio - la documentazione rigorosa delle spese mediante idonea
fatturazione, difficile da gestire da parte di piccole comunità. A ciò si
aggiungono in alcuni casi i criteri di riparto adottati per cui il risultato
finale è quello di un disincentivo strutturale a fare domanda. Queste
considerazioni sono confermate da casi come quello della delibera del
Comune di Bologna n. 212 del 2004 nella quale si rinviene la rinuncia da
parte della Chiesa cattolica e delle altre confessioni religiose relativamente
all’anno 2004 di tutte le quote a esse spettanti, a favore della Comunità
ebraica, affinché questa possa realizzare lavori indispensabili, urgenti ed
eccezionali riguardanti la sinagoga e il museo ebraico. La Comunità
ebraica si è impegnata a rimborsare la somma devoluta mediante lo storno
a favore della curia arcivescovile e delle altre confessioni per le rispettive
quote dei contributi che le verranno assegnati negli anni successivi, fino a
estinzione del “debito”.
Malgrado l’evoluzione normativa alla quale abbiamo fatto
riferimento, l’esame a campione delle delibere comunali adottate permette
di rilevare che la stragrande maggioranza dei Comuni ha regolarmente
continuato, senza soluzione di continuità, a erogare tali somme, non
tenendo conto di alcun mutamento legislativo e sovente delle sentenze
della Corte costituzionale in ordine all’accesso ai finanziamenti e alle
provvidenze e a estenderne l’efficacia alle pertinenze.
Non si comprende se a determinare tale orientamento sia stato il
ritenere che tali voci di spesa fossero così urgenti e inderogabili da
beneficiare di una corsia preferenziale all’interno del bilancio comunale,
poiché tali bisogni sono stati considerati - a differenza di altri di carattere
sociale – indifferibili e prioritari. Il fatto poi che le delibere si
caratterizzano per una loro ripetitività sia nell’adozione di meccanismi di
attribuzione delle somme, sia di riparto delle risorse disponibili, sia delle
modalità con le quali rendicontare le spese, fa ritenere che le
amministrazioni abbiano semplicemente fotocopiato la delibera
precedente, adeguandosi a una prassi consolidatasi nel tempo. Inoltre, un
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esame del contenuto di tali delibere rivela che esse privilegiano la
confessione religiosa di maggioranza.
È come se le amministrazioni comunali avessero introiettato l’idea
che tra i servizi essenziali per il territorio, quello dell’assistenza spirituale
e l’esercizio del culto (ma solo di alcuni) costituisce una necessità assoluta,
non sottoponibile ad alcuna limitazione. Tuttavia, nel caso in cui il
Comune ha ritenuto che dovessero prevalere altre priorità nella
destinazione di tali somme, questa decisione, seppure impugnata davanti
al T.A.R. dalla Chiesa cattolica, è stata ritenuta legittima e coerente con
l’autonomia finanziaria riconosciuta ai Comuni dall’art. 3 del D.lgs. n. 267
del 2000 e confermata, per quanto riguarda la Regione Toscana, dall’art. 19
della L.R. n. 52 del 1999, la quale aveva precisato esistere la “facoltà” e non
l’obbligo da parte dei Comuni di destinare le somme derivanti dagli oneri
di urbanizzazione secondaria ad altri scopi132.
Così sembra ritenere anche il legislatore nazionale nel momento in
cui ripristina, a decorrere dal 2013, sia pure in una forma più vaga e
blanda, il vincolo di destinazione dei proventi degli oneri di
urbanizzazione secondaria, e questo anche se la mutata composizione
delle popolazioni stanziate sul territorio suggerirebbe una
differenziazione degli interventi, in modo che a beneficiarne siano anche
quelle confessioni di recente insediamento sul territorio.
Una decisione in tal senso assunta dal sindaco del Comune di Civitella in Val di
Chiana (AR) veniva impugnata dal vescovo della diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro.
Tale impugnazione veniva rigettata dal T.A.R. Toscana, con sentenza n. 4082 del 4 ottobre
2004. Il giudice amministrativo motivava la sua decisione per numerosi motivi: 1) la
possibilità di destinare le somme derivanti dagli oneri di urbanizzazione secondaria a
soddisfare le richieste delle confessioni religiose in ordine alle necessità di disporre di
edifici di culto, non è un obbligo, ma una facoltà; 2) il Comune eccepiva il mancato
rispetto dei tempi di impugnazione dei provvedimenti adottati, circostanza che veniva
confermata dal Tribunale; 3) il Comune eccepiva, e il Tribunale confermava, che l’art. 53
della legge n. 222 del 1985, invocato dalla diocesi a sostegno delle richieste formulate, si
riferiva alla “costruzione” di edifici di culto cattolico e non già alla “manutenzione o al
recupero di pertinenze religiose già costruite”. D’altra parte l’art. 12 della legge n. 10 del
1977, non è stato più riprodotto nella legislazione urbanistica successiva per la ragione
che tale vincolo di destinazione era in contrasto con l’autonomia finanziaria dei Comuni,
riconosciuta dalla legge n. 142 del 1990 e ribadita dal T.U. n. 267 del 2000.
Il Tribunale coglieva l’occasione per affermare che “Il sistema di finanziamento
dell’edilizia di culto è oggi rifluito nel nuovo sistema finanziario di cui all’art. 47 della
legge n. 222 cit. e cioè nella quota dell’8 per mille dell’imposta sul reddito delle persone
fisiche liquidata sulla base delle dichiarazioni annuali dei contribuenti […]. Da tutto ciò
deriva che legittimamente il Comune, nell’approvare i propri bilanci degli anni 1999 e
2000, abbia deciso di riservare quegli introiti a interventi determinati (es: abbattimento di
barriere architettoniche) e cioè abbia destinato diversamente l’intero avanzo di
amministrazione accertato in sede di approvazione del bilancio”.
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Rimane poi aperto e insoluto il problema costituito da quegli edifici
destinati all’esercizio del culto di proprietà comunale o comunque
pubblica. Rileviamo a riguardo che vi è comunque l’esigenza di realizzare
economie di scala, avviando una gestione a livello economico razionale
delle già scarse risorse esistenti; si rende perciò inderogabile una modifica
del regime giuridico di tali beni, anche per rispondere ai vincoli di bilancio
introdotti. In effetti non appare oggi più possibile sopportare vincoli che
escludano da una più razionale utilizzazione il patrimonio pubblico
esistente e di rilevante valore, privandolo di ogni fungibilità economica,
vuoi attraverso una diversa utilizzazione finalizzata a soddisfare esigenze
di altri culti o bisogni di carattere sociale delle popolazioni; vuoi
provvedendo, ove del caso, alla sua alienazione.
Di fronte alla situazione venutasi a creare, o le confessioni
attualmente destinatarie dei finanziamenti dello Stato si oppongono
strenuamente all’introduzione del pareggio di bilancio e ai conseguenti
interventi di razionalizzazione della spesa pubblica, con tutti gli strumenti
di carattere politico e istituzionale che l’ordinamento mette a disposizione,
oppure dovrebbe essere possibile, una volta verificatasi la cessazione di
ogni attività nell’utilizzazione di tali beni da parte della confessione
religiosa che ne beneficia133 - e segnatamente di quella di maggioranza che
ne detiene per ragioni storiche il monopolio -, non negarne l’utilizzazione
a soggetti appartenenti ad altre comunità religiose, subentrate nel
territorio alle popolazioni precedenti e che, ai sensi dell’art. 19 Cost.,
reclamano il diritto di celebrare collettivamente il culto.
A raccomandare questa modifica della legislazione vigente sono
criteri di opportunità, soprattutto quando l’edificio di culto è di proprietà
di un ente pubblico, ma anche quando appartiene a un privato che non sia
la confessione religiosa cattolica o ebraica, in quanto tali criteri
risponderebbero a quelli dell’efficienza ed efficacia dell’azione
amministrativa, oltre che a quello di un’oculata gestione delle risorse134,
133 Ad esempio, qualora nell’arco dell’anno solare non venga svolta nell’edificio alcuna
funzione religiosa dovrebbe venire evidentemente meno tale beneficio, prova ne sia che
le pertinenze annesse come la casa parrocchiale non possono godere per l’anno fiscale
corrispondente delle esenzioni collegate alla loro funzione nel caso di mancato esercizio
di almeno una funzione religiosa aperta al pubblico. Viceversa la legislazione esistente
lega la dismissione dell’attività di culto a un decreto del vescovo che esplicitamente
provveda alla sconsacrazione dell’edificio di culto, dichiarando che questi non più
destinato all’esercizio del culto pubblico.
134 C. CARDIA, Stato e confessioni religiose. Il regime finanziario, in Enc. giur., vol. XXX,
Treccani, Roma, 1993, pp. 4-5; C. CARDIA, L’attuazione della Legge 222/1985, in AA. VV.,
Dall’Accordo del 1984 al disegno di legge sulla libertà religiosa, Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Roma, 2001; N. COLAIANNI, Confessioni religiose e intese. Contributo
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criterio quest’ultimo che oggi rappresenta un tratto comune dell’operare
della P.A., la quale si è dotata di strumenti come la spending review anche
per generalizzare comportamenti virtuosi nella gestione del patrimonio
pubblico135.
Sennonché proprio la sussistenza dei vincoli contenuti nell’art. 831
c.c. sottrae il bene in questione alla disponibilità della P.A. e crea in capo
alle amministrazioni comunali un’ulteriore fonte di spesa, quella costituita
dalle risorse necessarie alla manutenzione e gestione conservativa del bene
che viene, attraverso questa strada, sottratto al mercato immobiliare, nel
quale potrebbe essere immesso nel quadro della dismissione di beni non
utilizzati, oppure, in alternativa si potrebbe scegliere di disporne un suo
uso per fini sociali.
Se la revisione delle voci di spesa della P.A. deve avere come
obiettivo il pareggio di bilancio, deve essere consentito il recupero delle
spese improduttive; un tal modo di agire deve costituire il modus operandi
nell’amministrazione dei beni di proprietà pubblica e non si riesce a
vedere il motivo per il quale i beni di cui si discute debbano essere sottratti
dall’assoggettamento al controllo della spesa. La permanenza del vincolo
di destinazione, in costanza del mancato utilizzo del bene o del venir
meno degli utenti che storicamente ne hanno usufruito, a causa della
mutata composizione dei potenziali utilizzatori di esso, diventa
certamente anacronistica e non solo non trova alcuna razionale
all’interpretazione dell’art. 8 della Costituzione, Cacucci, Bari, 1990, pp. 153 ss. e 236 ss.; G.
CASUSCELLI, Libertà religiosa e confessioni di minoranza. Tre indicazioni operative, in
Q.D.P.E., n. 1, 1997, p. 61 ss.; S. FERRARI, Pagine introduttive: appunti su una riforma
incompiuta, in Q.D.P.E., n. 1, 1993, pp. 6-7; G. LONG, Intese: IV) Intese con le confessioni
religiose diverse dalla cattolica, in Enc. giur., vol. XVII, Treccani, Roma, 1989, p. 3; AA. VV.,
Dalla legge sui culti ammessi al progetto di legge sulla libertà religiosa, Atti del Convegno di
Ferrara, 25-26 ottobre 2002, a cura di G. Leziroli, Jovene, Napoli, 2004; G.B. VARNIER, La
ricerca di una legge generale sulla libertà religiosa tra silenzi e rinnovate vecchie proposte, in Dir.
eccl., n. 1, 2007; M. CANONICO, L’idea di una legge generale sulla libertà religiosa: prospettiva
pericolosa e di dubbia utilità, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, cit., gennaio 2010; AA.
VV., Proposta di riflessione per l’emanazione di una legge generale sulle libertà religiose, Atti del
Seminario di studio organizzato dalla Facoltà di scienze politiche dell'Università degli
studi di Salerno e dal Dipartimento di teoria e storia delle istituzioni, Napoli e Fisciano,
15-17 ottobre 2009, a cura di V. Tozzi, G. Macrì, M. Parisi, Giappichelli, Torino, 2010; F.
ALICINO, La legislazione sulla base di intese. I test delle religioni «altre» e degli ateismi,
Cacucci, Bari, 2013.
135 Un riordino di tali beni con il trasferimento di quelli a carattere prevalentemente
museale o artistico al Ministero dei Beni Culturali, permetterebbe, tra l’altro, una
trasparenza di bilancio. Anche degli enti locali e regionali, certamente necessaria oggi se
si vuole procedere a una razionalizzazione della spesa nel settore.
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giustificazione, ma finisce per essere illegittima fonte di privilegio sulla
quale può essere chiamato a pronunciarsi il giudice delle leggi.
La via attraverso la quale ciò può avvenire è quella di un intervento
da parte di un gruppo di fedeli di una confessione che non dispone di
edificio di culto, la quale chiede all’amministrazione comunale di poter
utilizzare l’edificio inutilizzato di proprietà comunale. Laddove il
Comune, a fronte di tale richiesta, opponesse l’esistenza del vincolo
contenuto nell’art. 831 c.c., i richiedenti potrebbero adire il giudice,
chiedendo la sottoposizione della questione all’attenzione della Corte
costituzionale136.
Percorso in parte analogo, sia pur diversamente motivato,
lamentando una limitazione irragionevole del diritto di proprietà,
potrebbe essere seguito nel caso in cui il proprietario dell’immobile
destinato a edificio di culto sia un privato il quale volesse utilizzare per sé
o alienare oppure concedere in locazione a una confessione diversa da
quella cattolica o ebraica, l’immobile perché esso venga utilizzato come
edificio di culto o ad altri scopi. Anche in questo caso dovrebbe essere del
tutto agevole ottenere la sospensione del processo e il rinvio degli atti alla
Corte costituzionale per poter poi procedere alla pronuncia sul merito
della domanda137.
Una prima immediata tutela potrebbe venire da un’azione cautelare. Nel processo
amministrativo questa ha subìto modifiche consistenti a partire dagli ultimi decenni del
Novecento. La sua evoluzione, culminata prima nella riforma del processo
amministrativo, attuata dalla legge 21 luglio 2000, n. 205, è stata autorevolmente
commentata da: F. SAITTA, L’atipicità delle misure cautelari nel processo amministrativo, tra
mito e realtà, in AA. VV., Scritti in onore di Francesco Spagnolo Vigorita, Napoli, Editoriale
Scientifica, 2007, p. 1223 ss. È intervenuto poi il Codice del Processo Amministrativo,
approvato con D. L. 2 luglio 2010, n. 104, in G.U., n. 156 del 7 luglio 2010 - Suppl. Ord. n.
148 - in vigore dal 16 settembre 2010, che ha portato a un ampliamento delle possibilità
d’intervento delle parti nel processo, al fine di ottenere più precise garanzie per i titolari
di diritti. Ulteriori modifiche correttive e integrazioni sono state apportate a questo testo
dal D.lgs. 15 novembre 2011, n. 195 e dal D.lgs. 14 settembre 2012, n. 160. Su queste
complesse e tormentate vicende si veda oggi: AA. VV., Il codice del nuovo processo
amministrativo. Aggiornato con il D.lgs. n. 160 del 2012 e con la giurisprudenza, a cura di
G. Palliggiano e U. G. Zingales, IPSOA, Milano, 2012.
137 Tale procedura appare certamente motivata là dove vi sia una richiesta di locazione
da parte di una confessione religiosa che non dispone di edificio di culto e pertanto la
disponibilità del proprietario ad affittare l’immobile si rivela essere la sola possibilità di
dare concreta attuazione al diritto di libero esercizio del culto. Non è irragionevole che in
questo caso, in via cautelare, il giudice possa concedere la possibilità di affittare
l’immobile per utilizzarlo come edificio di culto, contestualmente rinviando al giudice
delle leggi la questione di legittimità dell’art. 831 c.c. per potersi poi pronunciare sul
merito. Sui procedimenti cautelari: A. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile,
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L’incertezza della situazione normativa derivante dai vincoli dettati
dall’art. 831 c.c. si riflette negativamente nell’operato della P.A., coinvolta,
suo malgrado, in vicende relative a problematiche di carattere religioso
relative ai rapporti tra le confessioni che insistono sul territorio. La
situazione è ulteriormente complicata dalle iniziative di carattere
ecumenico della Chiesa cattolica, la quale concede in comodato gratuito a
Chiese ortodosse l’uso di edifici di culto, anche quando non sono di sua
proprietà, per soddisfare le esigenze di comunità religiose insediatesi sul
territorio.
È quanto avvenuto ad esempio nel Comune di Rimini dove è stata
assegnata nel novembre del 2000 dalla curia riminese una chiesa alla Sacra
arcidiocesi ortodossa di Italia e di Malta, afferente al Patriarcato
ecumenico di Costantinopoli, la quale tiene le sue funzioni presso la chiesa
dell'Ingresso al tempio della SS. Madre di Dio e di San Nicola di Myra.
Tale edificio è divenuto punto di riferimento anche della locale comunità
ortodossa romena. Questa circostanza induce a riflettere sul fatto che la
mancata regolamentazione dell’utilizzo di edifici di culto ingenera
un’attività di captatio benevolentiae dei fedeli da parte delle diverse Chiese
ortodosse oggi operanti in Italia. Il nostro paese è infatti anche sede
dell’Eparchia ortodossa rumena d'Italia, che fa parte della Metropolia
ortodossa rumena d'Europa occidentale e meridionale, anch’essa
beneficiaria dell’utilizzo di edifici di culto grazie a contratti di comodato
d’uso gratuito da parte della Chiesa cattolica138. Ne consegue che
concedere a una o all’altra Chiesa l’edificio di culto si traduce in un
vantaggio sul territorio nella “competizione” comunque esistente
finalizzata a stabilire un controllo delle diverse Chiese sulle comunità
migranti e questo non sempre in sintonia con le possibili scelte dei fedeli,
lasciando a ognuno di essi la possibilità di decidere a quale Chiesa afferire.
8 - Spending review e rivisitazione del rapporto tra consumo del
territorio, edifici esistenti e loro utilizzazione/fruizione
Jovene, Napoli, 1996, p. 651 ss.; ID., La nuova disciplina dei procedimenti cautelari in
generale, in Foro it., 1991, V, c. 94 ss.
138 Più diffusamente su punto: F. BOTTI, Sui contenuti di una possibile Intesa con la
Chiesa ortodossa romena in Italia, in AA. VV., Libertà di coscienza e diversità di appartenenza
religiosa nell'Est Europa, a cura di G. Cimbalo, F. Botti, Bologna, 21-23 settembre 2007,
Bononia Univerity Press, Bologna, pp. 151-174.
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Le problematiche prese in esame e le considerazioni fin qui svolte
inducono a ritenere che vi siano motivi stringenti per un intervento di
razionalizzazione che:
- affronti il problema della conservazione o dismissione della
proprietà pubblica di edifici di culto (nel quadro più generale del
ridimensionamento del patrimonio pubblico);
- regolamenti l’uso pubblico di quegli edifici che dovessero
rimanere di proprietà pubblica;
- disponga una razionale utilizzazione di essi e delle loro
pertinenze.
La crisi finanziaria nella quale versano le amministrazioni locali fa
propendere il legislatore ad attuare una strategia di dismissione di quei
beni non necessari all’erogazione dei servizi direttamente gestiti dagli enti
pubblici, a meno che non si provveda a una loro riqualificazione ai fini
sociali che ne giustifichi la permanenza nel patrimonio. Non va
dimenticato che il mantenimento della proprietà non è privo di oneri
poiché uno dei compiti del corretto funzionamento di un’amministrazione
pubblica è quello di provvedere alla manutenzione e conservazione del
patrimonio. Ne consegue che l’alienazione del bene inutilizzato non solo
consente di recuperarne il valore ai fini di risanamento del bilancio e di
riduzione del debito, ma di realizzare economie in ordine alla gestione e
amministrazione del patrimonio in essere. Va rilevato tuttavia che, nel
caso di una totale dismissione degli edifici di culto di proprietà pubblica, il
problema delle pertinenze si pone comunque a causa del fatto che spesso
su di esse insistono interessi pubblici o di terzi. Ne consegue che, venuto
meno l’edificio nella sua funzione principale, le pertinenze seguono il bene
nel mutamento di destinazione e pertanto cadono i limiti a una piena
utilizzazione di esse, soprattutto quando le pertinenze insistevano su spazi
di proprietà pubblica.
Né può essere trascurato il problema relativo a una diversa
utilizzazione degli edifici di culto quando questi sono di proprietà di
privati e ciò non solo perché anche in questo caso il problema delle
pertinenze potrebbe assumere per i motivi suddetti rilevanza pubblica, ma
per la piena fruibilità del bene che, reinserito sul mercato immobiliare,
libero da vincoli e senza obblighi in ordine alla destinazione d’uso, può
contribuire a una più razionale gestione delle risorse del territorio, anche
al fine di soddisfare interessi collettivi, preoccupazione questa che si
colloca tra i doveri degli enti locali.
I piani e gli strumenti urbanistici hanno introiettato, e stanno
assumendo come parametro in misura crescente, il principio di una più
razionale ed economica utilizzazione del territorio, anche al fine di porre
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un freno alla cementificazione progressiva di esso. In Italia il consumo di
territorio è altissimo139 e perciò, piuttosto che costruire il nuovo, sarebbe
preferibile ristrutturare e restaurare l’esistente, non solo quando il bene ha
un valore storico, artistico o architettonico, ma anche quando esso è
funzionale a un utilizzo rispondente a richieste che emergono dal
territorio, perché è del tutto evidente che il suolo edificatorio è un bene
“finito” e quindi c’è la necessità di preservare le aree attualmente libere
dalla presenza di ulteriori edifici, riadattando, ristrutturando, dedicando a
nuove funzioni quel che già c’è.
Da tempo il legislatore, sotto la spinta crescente dell’opinione
pubblica, si pone il problema d’individuare dei limiti di edificabilità, in
modo da consentire l’uso del territorio con criteri più razionali che
tengano conto della consapevolezza che proprio la dimensione finita del
territorio fa di esso un bene comune, la cui gestione va oculatamente
regolamentata nel rispetto degli interessi di tutti140. La crisi economica
139 Il consumo di suolo in Italia è uno dei più alti tra quelli dei paesi della Comunità
Europea. Sul problema in generale vedi: ISTITUTO SUPERIORE PER LA
PROTEZIONE E LA RICERCA AMBIENTALE (ISPRA), Il Consumo di suolo, Rapporto
n. 195, Roma, 2014.
140 Così si definivano in Inghilterra i Commons, quei beni ai quali attingeva tutta la
popolazione per i propri bisogni. Queste terre furono recintate con la prima rivoluzione
industriale dai proprietari dei fondi limitrofi che se ne impossessarono per sviluppare
soprattutto l’allevamento delle pecore che fornivano la lana per le tessiture. Vedi S.
ASHTONY, La rivoluzione industriale 1760-1830, Laterza, Bari, 2006. Da allora il processo
di privatizzazione dei beni comuni è continuato inarrestabile, al punto che i beni pubblici
si sono sempre più ridotti. Malgrado ciò possono accedere simultaneamente alla loro
utilizzazione più individui, per cui a essi si applicano il “principio della non rivalità” tra i
diversi fruitori e, in quanto nessun individuo dovrebbe poter essere escluso dalla loro
fruizione, il “principio della non escludibilità”, che devono misurarsi con la scarsità del
bene; il loro esaurimento e il crescente numero di coloro che desiderano fruirne pongono
problemi di gestione dell’accesso al godimento di essi. P.A. SAMUELSON, The Pure
Theory of Public Expenditure, in Review of Economics and Statistics, n. 4, 1954, pp. 387-389. Lo
Stato e le comunità, nella loro funzione regolatrice della vita sociale, dettano le regole su
chi può utilizzarli e con quali modalità.
Fanno parte dei beni comuni quelli che definiremmo globali: l’atmosfera, il clima, gli
oceani, la sicurezza alimentare, la pace, ma anche la conoscenza, i brevetti, Internet, cioè
tutti quei beni che sono frutto della creazione collettiva. Questi beni solo recentemente
sono stati percepiti come beni comuni globali perché sono entrati a far parte dei luoghi
nei quali si ricostruisce e si ritrova la comunità. Per il ruolo che essi svolgono nel
consentire il governo dei processi istituzionali e l’utilizzazione collettiva delle risorse essi
sono oggetto di un attacco crescente e vengono espropriati, ridotti a merce, recintati e
inquinati nei contenuti che diffondono e nelle convinzioni che generano, mentre il libero
accesso alla loro utilizzazione è sempre più minacciato.
Possono essere considerati beni comuni i servizi pubblici forniti dai governi in
risposta ai bisogni essenziali dei cittadini. Ci riferiamo all’erogazione dell’acqua, la
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esplosa nel 2008 che – non dimentichiamolo - ha tra le sue origini
gigantesche speculazioni immobiliari, e lo sviluppo della cosiddetta città
diffusa (sprawl)141, porta oggi le amministrazioni locali ad avere più
coscienza dei fenomeni di trasformazione in atto; impone scelte di una
razionale gestione del territorio, dettate da motivi squisitamente
economici, in quanto incidono sulle politiche di urbanizzazione
secondaria e inducono a una maggiore propensione alla ristrutturazione o
riqualificazione di edifici, piuttosto che alla costruzione di nuovi142.
produzione di energia e la sua distribuzione, compresa l’illuminazione, al sistema dei
trasporti, alla sanità, alla sicurezza alimentare e sociale, ma anche all’amministrazione
della giustizia. Si tratta di servizi strategici e risorse essenziali alle produzioni fortemente
innovative e pertanto i detentori della ricchezza tentano in ogni modo di impossessarsene
impedendone l’accesso universale per farne uno dei luoghi di sviluppo di una nuova
accumulazione dei profitti legata al possesso in esclusiva dei beni e alla loro essenzialità.
Infine sono beni comuni l’acqua, la terra, le foreste, il paesaggio rispetto ai quali
esistono diritti collettivi d’uso da parte di una determinata comunità a godere dei frutti di
ognuna di queste risorse, che, proprio perché disponibili in quantità finita e non
illimitata, devono avere un accesso regolamentato. Così dicasi per il territorio il cui
consumo va limitato per arginare la cementificazione. Sul punto in generale: N.
CHOMSKY, Il bene comune, trad. it. di E. Domenichini, Edizioni Piemme, Milano, 2010.
141 Lo sprawl, per dirlo con le parole di Salzano, è un modello insediativo caratterizzato
da “bassa densità, opportunità di espansone illimitata, specializzazione e segregazione
degli usi del suolo, sviluppo discontinuo, assenza di pianificazione di area vasta,
prevalenza del trasporto su gomma, frammentazione amministrativa e pianificatoria,
divari nel prelievo fiscale locale, grandi strutture commerciali, scoraggiamento implicito
delle abitazioni a basso reddito”. AA. VV., No sprawl, a cura di M.C. Gibelli, E. Salzano,
Alinea editrice, Firenze, 2006.
142 Sostiene Renzo Piano che: “Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo
stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le
periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio
le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l’energia umana e quella che
lasceremo in eredità ai nostri figli. C’è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci
vogliono delle idee”.
Muovendo da queste premesse il grande architetto, oggi senatore a vita, ha insediato
presso il suo ufficio al Senato un gruppo di giovani architetti e urbanisti, retribuiti con il
suo stipendio di Senatore, per redigere proposte e piani d’intervento, nella convinzione,
tra l’altro, che un tal modo di procedere rilanci l’investimento nel settore edilizio
attraverso imprese medio piccole ad alto tasso di occupazione che sono le più idonee a
effettuare gli interventi di recupero degli edifici. La riqualificazione delle città, attraverso
una rimodulazione urbanistica delle periferie passa inevitabilmente per l’inserimento
funzionale nel tessuto urbano anche degli edifici di culto la cui presenza va redistribuita
tenendo conto della allocazione dei residenti sul territorio, creando spazi funzionali alle
loro esigenze. Un tale progetto si traduce inevitabilmente per una diversificazione delle
presenze che risponde alla mutata composizione della popolazione. Sul punto vedi: R.
PIANO, Il Rammendo delle periferie, in Domenicale del Sole 24 ore, 26 gennaio 2014.
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Sulla falsa idea che al diritto di proprietà sia connaturato anche lo
ius aedificandi, nell’eterno scontro tra tutela del diritto dell’individuo alla
proprietà privata e tutela dell’interesse della collettività su di un bene,
seppure privato, è incontestabile il fatto che il diritto a edificare
“produce effetti non solo sui beni in proprietà del privato, ma
anche sui beni che sono in proprietà collettiva di tutti, come il
paesaggio, che, essendo un aspetto del territorio, è in proprietà
collettiva del popolo, a titolo di sovranità”143.
La proprietà privata non può essere dunque illimitata e senza
regole, soprattutto se si considera che il territorio, nella sua più ampia
accezione, è un bene di tutti, e quindi è un bene pubblico, il quale deve
trovare altrettanta e maggior tutela rispetto alle garanzie assicurate al
privato, proprio perché di tutti. Nel caso nel quale l’interesse privato allo
ius aedificandi contrasti con l’interesse pubblico al territorio144, quest’ultimo
deve prevalere sull’interesse del singolo.
Ne consegue che oggi non è più possibile interpretare il problema
in termini di “limitazione”, ma è diventato ineludibile chiedersi come
praticare la cosiddetta “opzione zero nel consumo di suolo”145. Uno degli
strumenti per raggiungere questo fine è certamente quello del mutamento
di destinazione del bene, tanto più razionale quando mutano solo i
fruitori, o meglio la loro collocazione cultuale, ma l’edificio mantiene la
sua funzione. È quindi non solo anacronistico, ma non funzionale
impedire il mutamento di destinazione di un edificio di culto ad altra
confessione che non sia quella cattolica o ebraica146!
P. MADDALENA, Il territorio bene comune degli italiani, Proprietà collettiva, proprietà
privata e interesse pubblico, Introduzione di S. Settis, Donzelli editore, Roma, 2014.
144 Si pensi alla cementificazione di un suolo che, oltre a portare danni alla godibilità
di un paesaggio, porterà anche all’impermeabilizzazione del terreno; con un acquazzone
la pioggia scivolerà e non sarà assorbita in modo da ricaricare le falde idriche. Il suolo
non potrà più essere coltivato. Non immagazzinerà più carbonio. Se sopra il velo si
innalzerà un edificio, questo altererà la prospettiva esistente, attirerà più persone,
aumentando la densità abitativa, produrrà più scarichi. “Se invece che uno, gli edifici
sono tanti, tutti questi effetti si moltiplicheranno. Perciò non può essere solo il
proprietario a decidere che cosa fare del suo suolo”. P. MADDALENA, Il territorio bene
comune degli italiani, cit., p. 127 ss.
145 P. MADDALENA, Il consumo di suolo e la mistificazione del ius aedificandi, 17 febbraio
2014, consultabile su http://www.eddyburg.it, urbanistica e pianificazione; G.F. CARTEI, L.
DE LUCIA, Contenere il consumo di suolo. Saperi ed esperienze a confronto, Editoriale
scientifica, Napoli, 2014.
146 Rileva Tozzi: “Ne risulterà che l’attrezzatura urbana data in proprietà a una
confessione non sarà convertibile alle esigenze del nuovo gruppo religioso, con il duplice
143
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Il riassetto del territorio e della sua gestione costituisce oggi una
delle emergenze da affrontare, ma su di esso pesano lacci e laccioli che una
buona legge urbanistica non può risolvere da sola; questa materia in Italia
è da sempre spinosa, poiché spesso si inciampa in quella che gli urbanisti
definiscono la “Sindrome di Sullo”, cioè il fatto che chiunque si occupi di
urbanistica, contrastando gli interessi della speculazione, finisce per subire
una marginalizzazione politica147. Per continuare a costruire s’invocano
limitazioni alla conversione e ristrutturazioni funzionali degli spazi
esistenti e, nel bilanciamento degli interessi tra le garanzie da assicurare
alla tutela di un bene comune e quelle relative alla infungibilità di un bene
- già edificio di culto di una confessione - certamente prevale il secondo
interesse, mentre il primo viene presentato come contrario ai bisogni della
collettività.
Eppure abbiamo avuto modo di vedere come i bisogni religiosi si
vadano differenziando con il crescere della diversificazione delle
appartenenze religiose e ciò costituisce un ulteriore motivo per potere
determinare una diversa destinazione del bene. Vi è chi ha sostenuto che il
diritto di libertà religiosa è un diritto «“assoluto” e non degradabile nei
suoi contenuti essenziali nemmeno di fronte al potere autoritativo della
P.A.» per cui ne deriverebbe che il diritto di disporre di edifici di culto
costituisce un bisogno primario ineludibile, da soddisfare grazie
all’intervento attivo della P.A. Tuttavia i principi costituzionali vanno
applicati effettuando un bilanciamento tra interessi fondamentali anch’essi
costituzionalmente protetti, quali il diritto alla salute, all’istruzione, ecc.
Tutto ciò deve avvenire da un lato nel quadro delle risorse disponibili e
dall’altro nel rispetto del principio di laicità il quale certamente trova
ostacoli nel dispiegare i suoi effetti, visto il livello di tutela diffuso delle
prerogative delle confessioni religiose che permea di sé tutto
l’ordinamento, ma è anche vero che in questo caso si tratta di un criterio
generale di lettura delle norme costituzionali alla luce di detto principio.
Appare pertanto possibile prospettare una rivisitazione della legislazione
risultato negativo, di spreco di utilizzo del territorio, per la presenza di attrezzatura
religiosa non più rispondente ai bisogni della popolazione e di carenza di attrezzatura
per quelli che realmente sono insediati, ma appartengono ad altra fede. In luogo del
vincolo destinativo temporaneo, quindi, bisognerebbe stabilire una concessione
temporanea d’uso, ferma rimanendo la proprietà pubblica del bene e l’inefficacia di
qualsivoglia vincolo destinativo imposto dall’autorità religiosa”. V. TOZZI, Gli edifici di
culto tra fedele e istituzione religiosa, in QDPE, n.1, 2010, p. 44; N. COLAIANNI, Come la
xenofobia si traduce in legge: in tema di edifici di culto, cit.
147 V. DE LUCIA, Nella città dolente. Mezzo secolo di scempi, condoni e signori del cemento
dalla sconfitta di Fiorentino Sullo a Silvio Berlusconi, Castelvecchi Rx, Roma, 2013, p. 17 ss.
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a sostegno del diritto del disporre di edifici di culto in considerazione dei
principi generali invocati148.
Inoltre, le esigenze emergenti dal territorio cambiano con il mutare
della composizione della popolazione che lo abita e quindi è necessaria
una maggiore elasticità e duttilità nell’utilizzo delle pertinenze degli
edifici di culto. Se è vero che esiste un legame tra edificio di culto e le sue
parti pertinenziali, è certamente vero che la sacralità del bene diminuisce
via via che l’utilizzazione ai fini di culto si fa occasionale ed episodica e
comunque inessenziale al godimento del bene in relazione agli scopi ai
quali è destinato. La sola preoccupazione di uno Stato laico può essere
quella di assicurare uguali diritti di libertà religiosa, ma esso non può farsi
carico delle scelte espansive delle attività dei culti che rivendicano sempre
maggiori diritti a carico della fiscalità generale.
Il problema assume rilevanza non tanto in relazione ai
finanziamenti pubblici erogati, ma relativamente alla possibilità di
costruire, con fondi propri di una confessione, un edificio di culto,
ottenendo dal Comune le relative autorizzazioni, nel rispetto del piano
regolatore e dei regolamenti edilizi. Emblematico a riguardo quanto
avvenuto nel Comune di Prato il quale, in parziale modifica del piano
regolatore Sozzi-Somigli, valido per il periodo 1975-1981, emanava il D.g.r.
n. 3826/1985 nel quale indicava le aree disponibili a ospitare infrastrutture
di carattere sociale, indicandole con una "X". Tra queste ricadeva un
terreno in località Galciana, acquistato dall’associazione studenti biblici di
Firenze149. Forte del diritto di proprietà posseduto, la Congregazione dei
Testimoni di Geova presentava al Comune di Prato domanda e relativo
progetto per la costruzione di una Sala del Regno e di una struttura
edilizia necessaria a ospitare il coordinamento Toscana nord della
Congregazione. Il complesso da realizzare avrebbe trovato posto tra via
Lastruccia e via dei Trebbi. A sostegno della sua richiesta la
Congregazione specificava di disporre nel Comune di quattro sedi situate
in locali inidonei a ospitare attività di culto e specificava inoltre che
sull'area pratese insisteva una numerosa comunità di fedeli. Il Comune,
Su queste problematiche vedi: G. CASUCELLI, La «supremazia» del principio di laicità
nei percorsi giurisprudenziali: il giudice ordinario, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale,
cit., marzo 2009, p. 34.
149 Tale associazione è stata costituita il 26 gennaio 1979 e aderisce alla Watch Tower
Bible and Tract Society of Pennsylvania, ammessa a godere dei diritti civili in Italia a
condizione di reciprocità, in applicazione dell’art. 2, cap. II del Trattato di amicizia,
commercio e navigazione tra la Repubblica italiana e gli Stati Uniti d’America in data 2
febbraio 1948 e reso esecutivo con legge 18 giugno del 1949 n. 385.
148
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verificato il possesso della proprietà dei terreni, concedeva i relativi
permessi urbanistici per la realizzazione delle opere.
Venuta a conoscenza di questa richiesta, la curia vescovile di Prato
presentava richiesta di costruzione di un edificio di culto nella stessa area,
ottenendo il rigetto della richiesta da parte del Comune. Contro tale
deliberazione la diocesi impugnava la decisione del Comune150 davanti al
T.A.R. della Toscana, che si pronunciava con sentenza n. 1 del 3 gennaio
1991151, confermando la decisione dell’amministrazione comunale sulla
base delle seguenti motivazioni:
1.
la richiesta della curia era stata presentata scaduti i termini
previsti per la presentazione delle domande;
2.
la Chiesa cattolica disponeva e dispone di due chiese, la
prima posta a distanza di 300 metri dall'area indicata e la seconda,
anch'essa aperta al culto pubblico, a circa un km di distanza dall’area
contesa;
3.
i Testimoni di Geova non disponevano di locali idonei alla
celebrazione del culto nel Comune di Prato, pur essendo acclarato un alto
numero di fedeli residenti sia nel territorio comunale sia in quelli dei
Comuni limitrofi;
4.
il terreno era già di proprietà di altra confessione religiosa e
pertanto sarebbe stato pressoché impossibile motivare una procedura di
esproprio a vantaggio della Chiesa cattolica per realizzarvi l'opera in
questione.
A seguito del rigetto del ricorso della curia di Prato, con D.g.r. n.
3336 del 1994 il Comune confermava la propria decisione, ma non per
questo la Chiesa cattolica desisteva dalle sue richieste e, acquistati alcuni
terreni comunali non molto distanti dalle costruzione realizzata dai
Testimoni di Geova, li cedeva poi alla Parrocchia di Galciana, la quale,
ottenuti i necessari permessi comunali, provvedeva a costruirvi un edificio
di culto cattolico.
La diffusa presenza sul territorio di altre confessioni religiose fa
venir meno oggi ogni ragione che giustifichi la preferenza verso la Chiesa
cattolica nell’attribuzione di un’area destinata a servizi sociali e religiosi
poiché questa confessione è divenuta di maggioranza relativa, anche a
causa dell’incontestabile diminuita appartenenza al culto delle
popolazioni, a motivo della secolarizzazione e laicizzazione della
150
151
Vedi: Ricorso n. 595/88 proposto dalla diocesi di Prato.
T.A.R. Toscana, Seconda sezione, n. 1 reg. sent., anno 1991, n. 595 reg. ric., anno
1988.
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società152. Né vale invocare a sostegno di questi privilegi la tradizione del
territorio, la conservazione del paesaggio, ecc., in quanto il territorio è un
“elemento” vivo che muta la sua composizione e le sue caratteristiche nel
tempo.
Per questi stessi motivi è ragionevole e ipotizzabile l’uso promiscuo
di una piazza o di un auditorio e di qualsiasi altro spazio, non solo tra
confessioni religiose diverse, ma per attività sociali di differente contenuto
e origine, quando queste abbiano per destinatari i fruitori naturali degli
spazi di un determinato territorio, ovvero i residenti.
Questi ultimi, come riconosce l’Unione Europea, sono gli effettivi
titolari dei diritti sul territorio, inteso come bene comune, nonché dei
diritti di libertà religiosa; quindi a essi, oltre che alle confessioni, va
garantito il diritto di utilizzazione delle strutture e degli spazi
disponibili153. Pertanto, se è vero che può sostenersi che l’edificio di culto
propriamente detto sia in qualche modo, anche architettonicamente,
esclusivamente destinato all’esercizio di uno specifico culto mediante
cerimonie di consacrazione, certamente tale requisito non può estendere la
sua efficacia nei confronti di opere e spazi che hanno una possibile
utilizzazione polifunzionale e che, quindi, ben si prestano dal punto di
Vi è chi ha sostenuto che il “ritorno della religione sulla scena pubblica” ha avuto
come suo imprevisto risvolto un rinnovato protagonismo dell’ateismo, nella forma
tradizionale del rifiuto individuale di ogni credenza trascendente e soprannaturale oltre
che in forme associate di non credenti. P. ZUCKERMAN, Ateismo e laicità, vol. I, Problemi
concetti, definizioni, Ipermedium libri, Santa Maria Capua a Vetere, 2013; G. CIMBALO,
L’appartenenza religiosa tra apostasia, divieto di proselitismo e ricerca di identità, in Stato, Chiese
e pluralismo confessionale, cit., settembre 2011; ID., Ateismo e diritto di farne propaganda tra
dimensione individuale e collettiva, in QDPE, n. 1, 2011, pp. 113–126.
153 A partire dagli anni ‘90, la giurisprudenza della Corte costituzionale si esprime a
favore di un bilanciamento tra il riconoscimento dei diritti e il loro concreto realizzarsi,
aspetto quest’ultimo messo sempre più in difficoltà dallo squilibrio economicofinanziario dettato dalla crisi economica e dalla limitatezza delle risorse. All’argomento, il
Quaderno di giurisprudenza costituzionale nel maggio 2013 ha dedicato un numero speciale,
intitolato La tutela dei diritti e i vincoli finanziari, il quale passa in rassegna le sentenze della
Corte relative alle seguenti materie: previdenza, servizio sanitario, assistenza, accesso
degli stranieri alle prestazioni di assistenza sociale, impiego pubblico, istruzione,
occupazione, imposte e tasse. Tuttavia vi è chi ha rilevato, con riferimento esclusivo alle
sentenze della Corte costituzionale relative agli edifici di culto che da esse: “[…] si
deduce pertanto il principio che, a fronte della pianificazione urbanistica, tutte le
confessioni religiose hanno uguale libertà e un interesse tutelato di rilievo costituzionale
alla destinazione di aree per l’edilizia di culto, e non soltanto a concorrere alla
ripartizione delle quote dei contributi di concessione legati alle opere di urbanizzazione
secondaria”. Vedi: A. BETTETINI, La condizione giuridica, cit., p. 13. Viene da chiedersi se,
alla luce della restrizione delle disponibilità finanziarie dello Stato, queste esigenze
possano venire ancora soddisfatte illimitatamente.
152
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vista sia urbanistico sia architettonico sia funzionale a un’utilizzazione
collettiva e promiscua a carattere sociale. Ne sono prova i contratti di
comodato a uso parziale stipulati dalla Chiesa cattolica con le confessioni
ortodosse.
Non vi è alcun dubbio che il problema dell’esclusiva destinazione
degli edifici di culto rimane in tutta la sua problematicità. Né incidono, se
non in modo marginale ed episodico154 sulla sua esclusiva utilizzazione, i
rapporti ecumenici crescenti, almeno tra alcune delle Chiese cristiane che
hanno visto emergere la tendenza a concedere da parte della Chiesa
cattolica l’utilizzazione di edifici di culto ad altre confessioni mediante
contratti di comodato gratuito155. Tuttavia, benché utilizzato, questo
contratto non è propriamente adatto a gestire tali situazioni. Infatti, se è
vero che esso possiede sufficienti livelli di duttilità in quanto, oltre a
prevedere la concessione dell’uso dell’immobile in via esclusiva ne
consente quello a tempo parziale, anche temporalmente limitato ad alcune
ore del giorno o ad alcuni giorni della settimana, non fornisce alcuna
garanzia in ordine alla durata, in quanto la restituzione anticipata
dell’immobile può essere richiesta a causa di un sopravvenuto urgente e
La concessione dell’uso di un edificio di culto da parte di una confessione a un’altra
è sottoposto a condizioni del tutto aleatorie – stante la revocabilità in qualsiasi momento
del contratto di comodato - e avviene comunque nell’ambito di rapporti ecumenici tra la
Chiesa cattolica e alcune Chiese ortodosse con le quali, per i motivi più diversi, si
stabiliscono legami di fratellanza, soprattutto quando le distanze a livello teologico ed
ecclesiale non sono molte. L’esperienza dimostra che, a volte, questa disponibilità si
manifesta nell’ambito di un rapporto di reciprocità con analoghe concessioni in paesi nei
quali la Chiesa ortodossa è quella di maggioranza. Per un inquadramento generale del
problema vedi: F. BOTTI, La transizione dell’Est Europa verso la libertà religiosa, in Stato,
Chiese e pluralismo confessionale, cit., ottobre 2013, pp. 1-38.
Da questi “rapporti di cortesia” restano il più delle volte escluse le confessioni non
cristiane e anche quelle protestanti con grave nocumento dei diritti e della libertà
religiosa. Sarebbe pertanto opportuno che fosse l’autorità pubblica a gestire, sulla base di
criteri obiettivi da elaborare, la distribuzione delle risorse edilizie di proprietà pubblica
da destinare al culto.
155 “Il contratto di comodato, trasferendo gratuitamente la disponibilità di un bene, è
considerato dall’ordinamento canonico come un atto di straordinaria amministrazione e,
per essere considerato valido anche dal punto di vista civilistico, deve essere previamente
autorizzato dall’Ordinario diocesano.
Pertanto, quando un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto intende stipulare un
contratto di comodato, deve presentare apposita istanza motivata al competente ufficio di
Curia – nella Diocesi di Milano è l’Ufficio Amministrativo Diocesano –, allegando la
bozza del contratto concordata con la controparte. L’Ordinario, dopo aver valutato gli
aspetti pastorali, giuridici e fiscali, provvede ad emettere apposito nulla osta che consente
all’Ente di sottoscrivere il contratto stesso”. Vedi:. Le Guide Operative di Ex Lege, Contratto
di comodato di immobili, Supplemento a ex Lege, 2/2006, http://tinyurl.com/kb9pmyq.
154
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imprevisto bisogno, che si può manifestare a esclusivo giudizio del
comodante156.
Il fatto poi che i lavori di ristrutturazione (in quanto lavori
straordinari) gravino sul comodante costituisce un ostacolo a una
completa fruizione del bene. È noto infatti che le chiese nelle quali si
celebra il culto ortodosso devono rispondere a determinate caratteristiche
nel rispetto della liturgia e dello svolgimento del culto e perciò il costo di
tali interventi può essere di ostacolo al manifestarsi della disponibilità del
comodante a concedere il bene.
Si obietterà, in relazione ai finanziamenti pubblici per gli edifici di
culto, che i lavori di manutenzione straordinaria gravano sul proprietario
del bene; infatti le somme a ciò destinate dal Comune non potranno in
alcun modo sostenere i diritti delle confessioni diverse dalla cattolica di
beneficiare di aiuti per il concreto esercizio del culto – contribuendo così
all’eguale diritto alla libertà religiosa – ma verranno esclusivamente
destinate alla Chiesa cattolica. Ne viene che sarebbe opportuno evitare che
il comodante di un edificio di culto, concesso in uso a una confessione, sia
un’altra confessione religiosa, almeno quando la proprietà originaria del
bene è pubblica157.
Certamente, dal punto di vista delle istituzioni pubbliche,
contemperati nel loro insieme tutti i fattori sui quali abbiamo richiamato
l’attenzione, sarebbe più razionale:
a) provvedere al censimento del patrimonio edilizio di proprietà
pubblica e alla predisposizione di un piano di dismissioni che abbia
l’effetto di mettere sul mercato edifici di culto dopo averli sgravati del
vincolo di destinazione, anche attraverso la promozione di una
abrogazione dell’art. 831, in modo che possano essere acquistati da
confessioni religiose che ne hanno bisogno158;
Non va dimenticato inoltre che il contratto di comodato può essere anche con
termine di durata precario (in tal caso l’immobile deve essere restituito appena il
proprietario ne fa richiesta).
157 Ci permettiamo di rilevare che la concessione in comodato da parte della Chiesa
cattolica di chiese delle quali non ha la proprietà è a nostro avviso illegittima.
158 È quanto ha fatto, ad esempio, l'Arcivescovado di Berlino che ha messo in vendita
una cappella e una chiesa costruite nel secolo scorso e situate nei Länder di Brandeburgo
(quello che circonda Berlino) e Meclemburgo-Pomerania-Anteriore.
Sul sito http://www.erzbistumberlin.de, sotto la voce "Immobilien" si trova l'annuncio
della vendita della cappella "Maria Goretti" a Loitz, il cui prezzo è di 20mila euro e
include un terreno di 1.057 metri quadrati e una chiesa costruita nel secolo scorso. Una
chiesa a una navata di 175 metri quadrati e un terreno di 952 metri costa invece 130 mila
euro. L’iniziativa ha sollevato la reazione preoccupata di numerosi fedeli i quali temono
che ad acquistare le chiese siano i mussulmani per trasformarle in moschee.
156
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b) provvedere a stipulare come amministrazioni locali contratti di
locazione per gli edifici che restano di proprietà pubblica da destinare a
edifici di culto. Invece – come abbiamo visto - è la Chiesa cattolica oggi,
quale ente che fruisce dell’uso dell’edificio, a stipulare il contratto di
comodato, con tutte le conseguenze in ordine alla revocabilità dello stesso,
alla scelta dei beneficiari, ecc., anche quando non è proprietaria del bene,
ma soltanto lo utilizza;
c) pensare alla possibilità di spazi polifunzionali159 nei quali
celebrare il culto, con il duplice effetto di realizzare delle economie di
spesa e al tempo stesso far crescere, attraverso la convivenza e il confronto
reciproco, la tolleranza e il pluralismo religioso tra le diverse confessioni
che usano il medesimo edificio.
Si obietterà che una tale scelta andrebbe a discapito dell’identità di
ogni singola comunità religiosa, incentivando la crescita di quel melting pot
di afferenze religiose proprio di una società multietnica e multireligiosa.
Più fattori consigliano il mantenimento di distinte e separate tradizioni che
concorrono a rafforzare l’identità, pur in un quadro di convivenza pacifica
e culturalmente fruttuosa. Ma per fare ciò resta sempre lo spazio offerto
dalla libertà di finanziare, a carico di ogni rispettiva confessione religiosa e
senza alcun gravame per le finanze pubbliche, il libero esercizio del culto e
quindi l’acquisizione in proprietà di edifici da destinare a questa funzione.
Il problema del costo della gestione del patrimonio della Chiesa
cattolica in Italia è ben presente anche alle autorità ecclesiastiche, le quali
non si nascondono la necessità di razionalizzarne la gestione, realizzando
a loro modo anch’esse una spending review160.
Ciò detto gli organi di governo del territorio potrebbero svolgere
una funzione utile a tutte le parti interessate e consentire, a richiesta e
sulla base di parametri oggettivi – costituiti dalla mancanza di strutture
fruibili da una comunità di fedeli – di poter riadattare immobili esistenti,
anche di proprietà pubblica, mutandone la destinazione d’uso a edifici di
culto o di poter consentire a che le confessioni provvedano all’edificazione
Analoga la scelta da parte della Chiesa evangelica in Germania che ha creato il sito
http://www.kirchengrundstuecke.de, per facilitare la vendita di 170 tra chiese e case
parrocchiali e 140 terreni.
159 Favorevole a questa soluzione: L. ZANNOTTI, I luoghi della convivenza religiosa e del
pluralismo culturale, in QDPE, n. 1, 2010, p. 75 ss.
160 Il problema è ben presente anche alla Chiesa in Italia la quale lamenta la crescita del
costo di gestione del patrimonio posseduto. Si veda a riguardo la relazione tenuta da
Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della
Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa alla fine della Giornata di studio
per i 20 anni della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, svoltasi a Roma il
26 novembre 2009. Vedi: http://tinyurl.com/ldv67gk.
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dell’edificio di culto, ovviamente in una prospettiva di compatibilità con la
legislazione comune che regola, dal punto di vista urbanistico, la gestione
del territorio.
Stante lo stato della finanza pubblica e nel rispetto dei vincoli
introdotti in Costituzione relativi al pareggio di bilancio 161 un riordino
della disciplina in materia è oggi ineludibile. Infatti non è possibile
consentire che beni di proprietà pubblica giacciano inutilizzati, o che lo
Stato, anche nelle sue istituzioni pubbliche, continui a farsi carico di oneri
di manutenzione di edifici che non hanno un prevalente interesse pubblico
e per giunta sono inutilizzati; pertanto l’invocata spending review162 relativa
alle spese delle amministrazioni pubbliche non può che toccare anche
questo settore.
Oggi la finanza pubblica non è più in grado di supportare, a carico
della fiscalità generale, la soddisfazione delle richieste di disporre di
edifici di culto, e quindi deve quanto meno procedere a una accurata
161 Nel corso della seconda parte della XVI legislatura si è proceduto a introdurre
ulteriori e più stringenti regole per il consolidamento fiscale e il pareggio di bilancio con
norme di rango costituzionale. Con la Legge costituzionale del 20 aprile 2012, n. 1 è stato
introdotto nella Costituzione, in esecuzione di accordi internazionali peraltro non
vincolanti in ordine allo strumento giuridico da utilizzare, il principio dell'equilibrio
strutturale delle entrate e delle spese del bilancio, il cosiddetto Fiscal compact. Vedi sul
punto: Patto Euriplus, adottato dai capi di Stato e di governo dell’area euro nel marzo del
2011, Direttiva 2911/85/UE, concernente i requisiti per i quadri di bilancio nazionali,
entrata in vigore nel novembre 2011, che ha fissato regole minime perché sia garantita
l'osservanza da parte degli Stati membri dell'obbligo, derivante dal Trattato, di evitare
disavanzi pubblici eccessivi.
162 Quando si invoca la spending review ci si riferisce ad una procedura intesa a
migliorare l'efficienza e l'efficacia dell’attività della P. A. nelle sue diverse articolazioni
nella gestione della spesa pubblica, attraverso la sistematica analisi e valutazione delle
strutture organizzative, delle procedure di decisione e di attuazione, dei singoli atti
all’interno dei programmi, verificandone i risultati. Con questo procedimento si analizza
"più il come che il quanto": ovvero i capitoli di spesa di uno o più ministeri vengono
passati al vaglio per vedere cosa può essere tagliato, per scoprire se ci sono sprechi o casi
di inefficienza. La revisione della spesa pubblica investe anche gli acquisti delle
amministrazioni pubbliche.
L’obiettivo di un tal modo di procedere è quello di identificare spese che non
contribuiscono a raggiungere gli obiettivi che sono stati affidati alle diverse
amministrazioni o che li raggiungono solo in maniera inefficiente, a fronte di spese molto
più alte del necessario. Sull’argomento vedi: AA. VV., Dalla spending review al ritorno del
principe. La pubblica amministrazione come presidio di democrazia, a cura di B. Attili, G.M.
Fara, F.V. Forcella, Datanews, Roma, 2012; AA. VV., La spending review negli enti locali.
D.l. 95 del 2012 convertito in legge n. 135 del 2012, D.l. 52 del 2012 convertito in legge n.
94/2012, a cura di A. Biano et al., Santarcangelo di Romagna (RN), Maggioli editore,
2012; L. HINNA e M. MARCANTONI, La spending review. È possibile tagliare la spesa senza
farsi male?, Donzelli Editore, Roma, 2012.
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verifica che abbia per oggetto il patrimonio edilizio a carattere religioso
che le appartiene, perseguendo almeno alcuni degli obiettivi che abbiamo
individuato supra.
Queste misure assicurerebbero la libera collocazione sul mercato
immobiliare di questa tipologia di beni a condizioni vantaggiose, sia
quando il proprietario è un ente pubblico, sia quando il bene appartiene a
un privato. Contestualmente dovrebbe essere cura dell’ente pubblico
trasferire quei beni di prevalente interesse storico-artistico e monumentale
nel patrimonio e nella competenza del Ministero dei Beni culturali.
In una fase immediatamente successiva occorrerebbe provvedere
all’attribuzione a tali beni di un valore di mercato per poter, se del caso,
alienarli, a esclusione di quei pochi e limitati casi nei quali potrebbe essere
individuato un interesse pubblico prevalente a mantenere la proprietà di
tali beni163. Tutto ciò con l’obiettivo di escludere il regime di concessione
di proprietà pubblica a confessioni religiose, situazione oggi insostenibile
per la finanza pubblica a causa del proliferare di confessioni religiose, il
che eleva in misura esponenziale le richieste provenienti dalla società.
A queste misure potrebbe accompagnarsi una politica di gestione
del territorio che tenga conto della distribuzione delle attività di culto,
verificandone l’impatto tra le popolazioni, in modo da assicurare standard
di fruibilità a coloro che lo abitano. Condizionare a un oculato controllo
l’accoglimento della richiesta di procedere a nuove costruzioni, soggette
comunque ad autorizzazione edilizia, consentirebbe di verificare se non si
può rispondere alle richieste di nuovi edifici attraverso la possibilità di
trasformazione di edifici esistenti, anche quando la loro qualificazione
originaria non era quella di edifici di culto.
Tali criteri permetterebbero di non comprimere in alcun modo la
libertà religiosa di chiunque e di consentire una razionale ed economica
gestione del patrimonio immobiliare esistente.
Abstract:
Religious buildings and their appurtenances, land consumption
and spending review.
163 Ciò dovrebbe avvenire a fronte di un rilevante interesse pubblico per la proprietà
del bene, come ad esempio nel caso che in esso siano conservate opere di interesse
artistico culturale per il territorio, l’esistenza di un particolare valore storico e/o
identitario di esso per la comunità, ecc.
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In a pluralistic and multi-religious society marked by mass
immigration. The territory is transformed and new presences also affect
the enjoyment of the rights of religious freedom. In this new context, the
places of worship take unusual functions and "utility": they perform the
dual task of enabling the exercise of worship and serve as a gathering
place for the community. Particular importance have the liturgical and
functional appurtenances of the building of worship which are often
called upon to perform functions of social utility. To manage these spaces,
public institutions as well as the Confessions, they resort to the instrument
of conventions.
This study analyzes the legal issues related to the structures of
worship, with reference to those owned by public bodies in the area and
those that are part of the patrimony of the Confessions. Because they want
to allow the exercise of rights on the territory, public bodies finance these
activities under certain conditions and in a manner that, tailored to the
Catholic Church, they extend their effectiveness in those with other
denominations. The inclusion of church buildings in the area must deal
with the limited financial resources of local authorities, intended for the
maintenance and construction of them. Spending has to deal with the
rational use of resources (spending review) through the review of the
relationship between use of land and the use and enjoyment of existing
buildings.
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