Decameron II

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Decameron II
Decameron II
di Giovanni Boccaccio
Letteratura italiana Einaudi
Edizione di riferimento:
Einaudi, Torino 1980, 1987 e 1992
Introduzione, note bibliografiche, indici e
commento
a cura di Vittore Branca
Letteratura italiana Einaudi
ii
Sommario
Sesta giornata
Novella prima
Novella seconda
Novella terza
Novella quarta
Novella quinta
Novella sesta
Novella settima
Novella ottava
Novella nona
Novella decima
Conclusione
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839
842
850
855
862
868
873
879
883
890
910
Settima giornata
Novella prima
Novella seconda
Novella terza
Novella quarta
Novella quinta
Novella sesta
Novella settima
Novella ottava
Novella nona
Novella decima
Conclusione
921
924
935
944
954
962
976
983
995
1009
1027
1034
Ottava giornata
Novella prima
Novella seconda
Novella terza
Novella quarta
Novella quinta
1040
1041
1047
1060
1078
1088
Novella sesta
Novella settima
Novella ottava
Novella nona
Novella decima
Conclusione
1095
1107
1146
1154
1185
1206
Nona giornata
Novella prima
Novella seconda
Novella terza
Novella quarta
Novella quinta
Novella sesta
Novella settima
Novella ottava
Novella nona
Novella decima
Conclusione
1211
1213
1224
1230
1239
1248
1264
1273
1278
1288
1299
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Decima giornata
Novella prima
Novella seconda
Novella terza
Novella quarta
Novella quinta
Novella sesta
Novella settima
Novella ottava
Novella nona
Novella decima
Conclusione
1310
1312
1318
1329
1341
1355
1365
1380
1397
1429
1464
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SESTA GIORNATA
1
Finisce la quinta giornata del Decameron: incomincia la sesta,
nella quale, sotto il reggimento d’Elissa, si ragiona di chi con
alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno.
2
Aveva la luna, essendo nel mezzo del cielo, perduti1
i raggi suoi, e già per la nuova luce vegnente ogni parte
del nostro mondo2 era chiara, quando la reina levatasi,
fatta la sua compagnia chiamare, alquanto con lento
passo dal bel palagio, su per la rugiada spaziandosi 3,
s’allontanarono, d’una e d’altra cosa varii ragionamenti
tegnendo e della più bellezza e della meno4 delle raccontate novelle disputando e ancora de’ varii casi recitati in quelle rinnovando le risa, infino a tanto che, già più
alzandosi il sole e cominciandosi a riscaldare, a tutti
parve di dover verso casa tornare: per che, voltati i
passi, là se ne vennero. E quivi, essendo già le tavole
messe, e ogni cosa d’erbucce odorose e di be’ fiori seminata5, avanti che il caldo surgesse più6, per comandamento della reina si misero a mangiare. E questo con
festa fornito, avanti che altro facessero, alquante canzonette belle e leggiadre cantate, chi andò a dormire e chi
a giucare a scacchi e chi a tavole7; e Dioneo insieme con
3
1
Il participio passato accordato col relativo oggetto era
dell’uso: cfr. Rohlfs, 725.
2
emisfero: Par., XXX 2.
3
movendosi, vagando qua e là: V 5,3 n. e Par., XX 73.
4
della maggior o minor bellezza. «È anche dell’uso l’adoperare gli avverbi comparativi per gli aggettivi» (Fanfani).
5
cosparsa, come altrove «giuncata» (Intr., 91 n.).
6
crescesse, aumentasse.
7
Sempre gli stessi gesti e le stesse occupazioni (per es. Intr.,
110 n.; III intr., 15 n.).
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Lauretta di Troilo e di Criseida8 cominciarono a cantare.
E già l’ora venuta del dovere a concistoro9 tornare,
fatti tutti dalla reina chiamare, come usati erano dintorno alla fonte si posero a sedere; e volendo già la reina
comandare la prima novella, avvenne cosa che ancora
adivenuta non v’era, cioè che per la reina e per tutti fu
un gran romore udito10, che per le fanti e’ famigliari si
faceva in cucina. Laonde, fatto chiamare il siniscalco e
domandato qual gridasse11 e qual fosse del romore la
cagione, rispose che il romore era tra Licisca e Tindaro12; ma la cagione egli non sapea, sì come colui che
pure allora giugnea per fargli star cheti, quando per
parte di lei era stato chiamato. Al quale la reina comandò che incontanente quivi facesse venire la Licisca
e Tindaro; li quali venuti, domandò la reina qual fosse
la cagione del loro romore.
Alla quale volendo Tindaro rispondere, la Licisca,
che attempatetta era e anzi superba che no, e in sul gridar riscaldata, voltatasi verso lui con un mal viso disse:
8
«Qui si comprende Messer Giovanni avea prima composto
il Filostrato che questo libro del Decameron» (M.). Il ricordo del
suo poemetto giovanile va avvicinato idealmente alla citazione simile del Teseida nella VII concl., 6, e anche a quella dei cantari
(nella III concl., 8: e cfr. ivi n.), così presenti in ambedue i poemi.
9
riunione, adunanza: Purg., IX 24: «Quando fu ratto al
sommo consistoro» e il Da Buti commenta: «consistono si dice del
luogo dove si sta insieme».
10 Inf., IV 79: «Intanto voce fu per me udita»: e per r o m o r
e vociare cfr. 8, 38 n.
11 chi gridasse.
12 Cioè la «fante» di Filomena e il «famigliare» di Filostrato
(Intr., 99-100). «Episodio eccezionale non solo perché è la sola
volta (a parte quando Tindaro suona la cornamusa) che i servi
sono chiamati per nome dopo l’Introduzione; ma anche a causa
del tono comico e plebeo che essi portano all’atmosfera normalmente pacata e idillica della cornice» (B. Richardson, Onomastica
boccacciana, in “Lingua Nostra”, XXXIV, 1973).
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– Vedi bestia d’uom che ardisce, dove io sia, a13 parlare
prima di me! Lascia dir me –; e alla reina rivolta disse: –
8 Madonna, costui mi vuol far conoscere14 la moglie di
Sicofante15; e né più né meno, come se io con lei usata
non fossi, mi vuol dare a vedere che la notte prima che
Sicofante16 giacque con lei, messer Mazza entrasse in
Monte Nero per forza e con ispargimento di sangue; e
io dico che non è vero, anzi v’entrò paceficamente e con
9 gran piacere di quei d’entro17. Ed è ben sì bestia costui,
che egli si crede troppo bene che le giovani sieno così
sciocche, che elle stieno a perdere il tempo loro, stando
alla bada del padre e dei fratelli, che delle sette volte le
sei soprastanno tre o quattro anni più che non debbono
10 a maritarle18. Frate, bene starebbono, se elle s’indugiasser19 tanto! Alla fè di Cristo (ché debbo sapere quello
che io mi dico quando io giuro) io non ho vicina che
pulcella ne sia andata a marito; e anche delle maritate,
so io ben quante e quali beffe elle fanno à mariti; e questo pecorone20 mi vuol far conoscere le femine, come se
io fossi nata ieri.
11
Mentre la Licisca parlava, facevan le donne sì gran
13
Per questa costruzione di ardire cfr. II 1,20 n.
mi vuol spiegare, insegnare come sia: cfr. più sotto al 10.
15 Nome evidentemente preso dalle stesse fonti comiche classiche da cui derivano quelli di Licisca e Tindaro: il B. probabilmente confuse un nome comune (sicofante, delatore) con uno proprio; o interpretandolo come «mangiatore di fichi» lo senti nella
serie «pappafico», «pappalefave» coi valore di balordo (cfr. B. Richardson, art. cit.; e Intr., 98 n.).
16 la prima notte in cui.
17 Simile linguaggio e simili metafore allusive sessualmente il
B. già aveva usato nel Ninfale, 245, e poi userà nel Corbaccio, 411
sgg.: e cfr. anche VI 10,46 n. e Masuccio Salernitano, Novellino
cit., p. 15.
18 Per questo motivo cfr. V 7,6 n. E per il seguente f r a t e,
ironico, VIII 9,I02.
19 Uno dei soliti riflessivi per attivo: F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, pp. 138 sgg.
20 Cfr. V I,23 n.
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risa, che tutti i denti si sarebbero loro potuti trarre21. E
la reina l’aveva ben sei volte imposto silenzio; ma niente
valea: ella non ristette mai infino a tanto che ella ebbe
detto ciò che ella volle.
Ma poi che fatto ebbe alle parole fine, la reina ridendo, volta a Dioneo, disse: – Dioneo, questa è quistion da te22; e per ciò farai, quando finite fieno le nostre novelle che tu sopr’essa dei23 sentenzia finale. –
Alla qual Dioneo prestamente rispose: – Madonna,
la sentenzia è data senza udirne altro; e dico che la Licisca ha ragione, e credo che così sia com’ella dice; e Tindaro è una bestia. –
La qual cosa la Licisca udendo, cominciò a ridere, e a
Tindaro rivolta, disse: – Ben lo diceva io; vatti con Dio;
credi tu saper più di me tu24, che non hai ancora rasciutti
gli occhi25? Gran mercé26, non ci son vivuta invano io,
no. – E, se non fosse che la reina con un mal viso le
‘mpose silenzio e comandolle che più parola né romor facesse se esser non volesse scopata 27, e lei e Tindaro
mandò via, niuna altra cosa avrebbero avuta a fare in
tutto quel giorno che attendere28 a lei. Li quali poi che
partiti furono, la reina impose a Filomena che alle novelle desse principio; la quale lietamente così cominciò.
21 cavare: e per espressioni simili cfr. II concl., 1 n.; IX 3,25: e
in generale F. AGENO, Alcune antiche frasi proverbiali, in “Lingua Nostra”, XV, 1954.
22 Cfr. V 9,36 n.
23 dia: «f a r a i ... c h e t u ... d e i darai, con forma attenuata
dell’imperativo» (Petronio).
24 Pleonasmi frequenti nel parlar concitato: VII 1,21; VII 4,26
ecc.
25 Cioè: che sei un fanciullo: cfr. Davanzati, Volg. degli Annali
di Tacito, III 59.
26 «E’ qui posto come confermativo di cosa detta di sopra,
come dire sicuro che è vero quel che io affermo; e nel senso medesimo diciamo tuttavia Grazie! anche adesso» (Fanfani).
27 frustata: III 4,5 n.: Novellino, XCV.
28 badare, stare attenti: V 3,6 n.
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NOVELLA PRIMA
1
Un cavaliere dice a madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo, e malcompostamente dicendola, è da lei pregato
che a piè la ponga1.
2
– Giovani donne, come né lucidi sereni2 sono le
stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori
de’verdi prati, e de’colli i rivestiti albuscelli, così de’laudevoli costumi e de’ragionamenti belli sono i leggiadri
motti, li quali, per ciò che brievi sono, tanto stanno meglio alle donne che agli uomini, quanto più alle donne
che agli uomini il molto parlar si disdice. È il vero che,
qual si sia la cagione, o la malvagità del nostro ingegno
o inimicizia singulare che à nostri secoli sia portata dà
cieli, oggi poche o non niuna donna rimasa ci è, la qual
ne sappi né tempi3 opportuni dire alcuno, o, se detto
l’è, intenderlo come si conviene: general vergogna di
tutte noi. Ma per ciò che già sopra questa materia assai
da Pampinea fu detto4, più oltre non intendo di dirne.
3
4
1
L’unico vaghissimo antecedente citato per questa novella –
prontamente imitata dal Sercambi (CXXI) – è quello della
LXXXIX del Novellino («Qui conta d’uno uomo di corte che cominciò una novella che non venia meno»). Ma il racconto durante
il viaggio, per alleviarne la fatica, aveva una lunga tradizione nella
narrativa medievale: dai romanzi cavallereschi a Chaucer e Sercambi. E diffuso era nelle narrazioni di enigmi o indovinelli quello
dell’“enigma del cavallo”: da versioni orientali, fra le quali è notevole per affinità alla novella boccacciana la III 7 del Sefer Saasiùm
del medico ebreo Zabara (secolo XII), a racconti o exempla latini,
come uno contenuto nella Compilatio singularis exemplorum (cfr.
A. FREEDMAN, Il cavallo del B. ecc., in “Studi sul B.”, IX,
1975).
2
nelle notti limpide: «Nota che questo medesimo prolago
usa l’autore di sopra nella decima novella detta da Pampinea, il
che pare vizioso molto» (M.): cfr. I 10, 3-4 nn.; e qui n. 4.
3
momenti, occasioni.
4
Dunque, la ripresa non è casuale, ma voluta da Filomena,
devota satellite di Pampinea.
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Ma per farvi avvedere quanto abbiano in sé di bellezza
à tempi detti5, un cortese impor di silenzio fatto da una
gentil donna ad un cavaliere mi piace di raccontarvi.
Sì come molte di voi o possono per veduta sapere o
possono avere udito, egli non è ancora guari che nella
nostra città fu una gentile e costumata donna e ben parlante6, il cui valore non meritò che il suo nome si taccia.
Fu adunque chiamata madonna Oretta, e fu moglie di
messer Geri Spina7; la quale per avventura essendo in
contado, come noi siamo, e da un luogo ad un altro andando per via di8 diporto insieme con donne e con cavalieri, li quali a casa sua il dì avuti avea a desinare, ed
essendo forse la via lunghetta di là onde si partivano a
colà dove tutti a piè d’andare intendevano disse uno
de’cavalieri della brigata: « Madonna Oretta, quando
voi vogliate, io vi porterò, gran parte della via che ad
andare abbiamo, a cavallo9, con una delle belle novelle
del mondo».
Al quale la donna rispose: « Messere, anzi ve ne
priego io molto, e sarammi carissimo».
Messer lo cavaliere, al quale forse non stava meglio
la spada allato che ’l novellar nella lingua, udito questo,
5
detti a momento opportuno: IX 4,25.
Lode ripetuta altre volte: I 8,7; VI 3,9; VI 9,8; IX 5,9.
È la figlia del marchese Obizzo Malaspina e di Tobia Spinola, e moglie di Geri degli Spini (su cui VI 2,8 n.), del quale già
nel 1332 figura vedova (vari documenti pubblica il Manni, pp. 379
sgg.): è presentata come leggiadra motteggiatrice anche nelle Facezie di Ludovico Domenichi. Oretta o Orietta (da Laura, Lauretta)
è diminutivo frequente in quel-l’età, anche fra i Malaspina, come
abbiamo visto (II 6,18 n.).
8
a causa, a motivo di: VIII 7,6: «un giorno per via di diporto
... »: e cfr. V 9,3I n.
9
Cioè: andrete senza fatica alcuna, come se foste a cavallo.
«Una frase, questa, esemplata sul motto latino: ‘Facundus in itinere comes pro vehiculo est’» (Scherillo). E per l’abitudine di novellare camminando è naturale il ricordo dei Racconti di Canterbury
di Chaucer e della “cornice” del Sercambi, ecc.
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cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé10 era
bellissima; ma egli or tre e quattro e sei volte replicando
una medesima parola, e ora indietro tornando, e talvolta dicendo: « Io non dissi bene » ; e spesso né nomi errando, un per un altro ponendone, fieramente la guastava; senza che11 egli pessimamente, secondo le12 qualità delle persone e gli atti che accadevano, profereva13.
10
Di che a madonna Oretta, udendolo, spesse volte
veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come se inferma fosse stata per terminare14; la qual cosa poi che
più sofferir non potè, conoscendo che il cavaliere era
entrato nel pecoreccio15, né era per riuscirne, piacevol11 mente disse: « Messere, questo vostro cavallo ha troppo
duro trotto; per che io vi priego che vi piaccia di pormi
a piè».
12
Il cavaliere, il qual per avventura era molto migliore
intenditore che novellatore, inteso il motto, e quello in
festa e in gabbo16 preso, mise mano in altre novelle17, e
quella che cominciata avea e mai seguita, senza finita18
lasciò stare. –
10
per se stessa, in se stessa.
senza dire che.
in relazione alle.
13 pronunziava (Fanfani) o forse meglio esponeva (Scherillo):
Par., XXVIII 136: «E se tanto secreto ver proferse».
14 finire, morire.
15 s’era cacciato nell’intrigo, nei pasticci (propriamente quel letamaio fangoso che fanno le pecore dove dormono la notte): Davanzati, Volg. Annali di Tacito, XVI 3: «alla fine uscito del pecoreccio ... ».
16 scherzo.
17 cominciò a raccontare altre novelle: cfr. X 4,3 n.
18 fine: sostantivo come andata, partita, redita di cui ampiamente trattarono i Deputati (pp. 194 sgg.): e cfr. Dante, Rime, XC
68: «Che possan guari star sanza finita»; Guinizzelli, Pura pensar:
«come regnasse qui senza finita». La novella posta proprio al centro del D. (è la 51a) ha certo valore emblematico, allusivo alla necessaria tecnica e all’arte stessa del narrare.
11
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NOVELLA SECONDA
1
Cisti fornaio con una sola parola1 fa raveder messer Geri Spina
d’una sua trascutata domanda2.
2
Molto fu da ciascuna delle donne e degli uomini il
parlar di madonna Oretta lodato, il qual comandò la
reina a Pampinea che seguitasse; per che ella così cominciò:
– Belle donne, io non so da me medesima vedere
che più in questo si pecchi3, o la natura apparecchiando
a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato d’anima nobile vil mestiero4,
sì come in Cisti nostro cittadino5 e in molti ancora ab-
3
1
frase: I 6,16 n.
Nessun antecedente per questa novella, che, come le tre seguenti, trae probabilmente spunto da nostalgiche e compiaciute
rievocazione della cronaca municipale fiorentina del buon tempo
antico. Riscontri di qualche interesse sono quelli col Novellino
(XXI, XLIII) e con una novelletta antica - la XII del Panciatichiano - narrata di Maso Leonardi (Il Novellino e altre novelle antiche,
ed. Sicardi, Livorno 1919, pp. 149 sgg.). Sui possibili elementi di
tradizione narrativa popolare cfr. Rotunda, J 1319.7.1*. Per trascutata non meditata, azzardata, male accorta, cfr. Intr., 65 n.
3
che cosa sia maggiormente da giudicare un vero peccato in
questo (prolettico di ciò che è detto subito dopo). E cfr. Luca
17.3: «si quid peccaverit in te frater tuus».
4
Concetto spesso ripetuto: cfr. per es. V 7,43 n.
5
Cisti (da Bencivenisti) era nome non raro nella Firenze di
quei secoli; e proprio un “Cisto fornaio” appare nel 1300 fra i
Confratelli e Commessi della Chiesa di Santa Maria Ughi presso
cui Cisti, secondo il B., aveva il suo forno (MANNI, op. cit., p.
392); e un Guido di Cisti, popolano di Santa Maria Ughi, figura
testimone in un atto del 12 gennaio 1316 (cod. Magliabechiano
XXV 394, c. I52). Naturalmente una salda tradizione – dalla descrizione delle case possedute nel 1427 dalla Chiesa di Santa
Maria Ughi, agli eruditi del Settecento (cfr. nn. sgg.) – volle confermare e l’identità di Cisti e l’ubicazione del forno.
2
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5
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7
biamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d’altissimo
animo fornito, la fortuna fece fornaio. E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi la natura esser discretissima e la fortuna aver
mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca figurino6. Le
quali io avviso che, sì come molto avvedute, fanno quello che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de’futuri casi, per le loro oportunità le loro più care cose né
più vili luoghi delle lor case, sì come meno sospetti sepelliscono, e quindi né maggiori bisogni le traggono,
avendole il vil luogo più sicuramente servate che la
bella camera non avrebbe7. E così le due ministre del
mondo8 spesso le lor cose più care nascondono sotto
l’ombra dell’arti reputate più vili, acciò che di quelle
alle necessità traendole9 più chiaro appaia il loro splendore. Il che quanto in poca cosa10 Cisti fornaio il dichiarasse, gli occhi dello ‘ntelletto rimettendo a messer
Geri Spina11, il quale la novella di madonna Oretta con6
Cfr. Amorosa Visione, B, XXXI 19 sgg.; e ed. Cit., pp.
LXXXV e 596 sgg.
7
Amorosa Visione, B, XXXI 55 sgg.: “Or quinci segue al
pover che sicuro | Vive di non cader, né spera mai | Che caso fortunal li paia duro ... | E d’altra parte dignitate i rei | Fa manifesti,
ed ogni lor mancanza | È, conosciuta ... ”.
8
Dante chiama la Fortuna “general ministra e duce” (Inf.,
VII 78).
9
al bisogno, all’occorrenza portandole alla luce.
10 in occasione di scarso rilievo, modesta.
11 facendo rimettere messer Geri Spina (“occhi dello ’ntelletto”
anche qui al 26 e a VIII 7,85: cfr. Par., X 121: “l’occhio della
mente”). Geri (accorciativo di Ruggeri) di Mannetto Spina, di famiglia guelfa nera, fu attorno al 1300 uno dei capi della sua fazione (Compagni, I 21 e 23; II 26; III 4I); “egli e la sua compagnia
erano mercatanti di papa Bonifazio, e del tutto guidatori” (G. Villani, VIII 43 e anche 72). Viveva ancora nel 132I; nel I332 era invece già morto (VI I,6 n.). Doveva esser uomo non solo di spirito
ma di una certa sensibilità culturale, se Bartolomeo da San Concordio gli dedicò i suoi Ammaestramenti degli Antichi, scritti proprio a istanza di un agente di Geri, Nero Cambi (Compagni, I 21;
e cfr. relative note del Del Lungo).
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8
tata, che sua moglie fu, m’ha tornata12 nella memoria,
mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi13.
Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il
quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato14, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe
sue gran bisogne15, essendo essi in casa di messer Geri16
smontati, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che17 se ne fosse cagione, messer Geri
con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni
mattina davanti a Santa Maria Ughi18 passavano, dove
12 Attrazione molto naturale, per cui Mussafia, p. 442. E nota
uno dei soliti artifici esterni, qui onomastico o di parentado, per
legare una novella all’altra (cfr. per es. VI 6,3 n.).
13 “Nota” (M., che segna tutto il tratto, dall’inizio delle parole
di Pampinea). È forse questo il più aristocratico e umano cenno al
problema della Fortuna, così sentito nel Medioevo e dal B. stesso
(cfr. II 3,4 n.; V 7,43 n.): e ben si addice a questa giornata in cui,
come nella II, ha gran parte la Fortuna e i suoi casi (cfr. specie VI
4,3). E vedi BRANCA, B. medievale, pp. 16 sgg., 20 sgg.
14 fu tenuto in somma considerazione. L’avvio della narrazione
così altamente esemplare, in cui appaiono personaggi e avvenimenti di grande rilievo storico – quasi a contrasto con l’umiltà del
protagonista e dell’episodio – continua il tono nobile e solenne
della meditativa introduzione: dal Dico iniziale (cfr. Intr., 8 n.) alle
scelte lessicali, alla sequenza dei tre endecasillabi di apertura: e
per il letterario a p p o presso cfr. VIII 3,19 n.
15 Precisamente per tentar di metter pace fra Bianchi e Neri,
nel 1300, durante il priorato di Dante. «Il quale [Nero Cambi]
tanto aoperò coi Papa ... che mandò a Firenze messer frate Matteo
d’Acquasparta, cardinale Portuense, per pacificare i Fiorentini.
Ma niente fece perché dalle parti non ebbe la concessione che
volea; e però sdegnato si partì» (Compagni, I 21).
16 Le case degli Spini erano presso Santa Trinita.
17 qualunque: Tr. Mortis, II I75: «Or, che si sia, diss’ella, i’
n’ebbi onore». A meno di anticipare la virgola dopo a v v e n n e
(e cfr. IV 5,4).
18 Chiesina fatta costruire dagli Ughi (Par., XVI 88) tra Palazzo Strozzi e l’odierna via Portarossa: G. RICHA, Notizie istoriche
delle Chiese fiorentine, Firenze 1754-59, III, pp. 182 sgg. dà varie
notizie su questa chiesina e conclude che Cisti «stava dall’altra
banda della chiesa, ov’è un Palazzo della famiglia degli Strozzi»; e
il Manni (p. 392) mostra che gli ambasciatori movendo dalle case
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Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua
arte esserceva19. Al quale quantunque la fortuna arte
assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli n’era ricchissimo divenuto, e senza volerla
mai per alcuna altra abbandonare splendidissimamente
vivea, avendo tra l’altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o
nel contado.
10
Il quale, veggendo ogni mattina davanti all’uscio
suo passar messer Geri e gli ambasciadori del Papa, e
essendo il caldo grande20, s’avisò che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua condizione e a quella di messer
Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere21 d’invitarlo ma pensossi di tener modo il quale inducesse mes11 ser Geri medesimo a invitarsi. E avendo un farsetto22
bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi
sempre, li quali più tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l’ora che egli avvisava che
messer Geri con gli ambasciadori dover23 passare si faceva davanti all’uscio suo recare una secchia nuova e
stagnata d’acqua fresca e un picciolo orcioletto bolognese24 nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri
12 che parevano d’ariento, sì eran chiari25: e a seder postosi, come essi passavano, e26 egli, poi che una volta o due
9
degli Spini passavano naturalmente di fronte al forno di Cisti sia
che si recassero dai Cerchi, capi dei Bianchi, che dai Donati, capi
dei Neri.
19 Dalla forma latineggiante essercere.
20 Era giugno, come sappiamo dai cronisti citati.
21 avere la presunzione, l’ardire.
22 Cfr. II 4,15 n.
23 Col solito cambio di costruzione (cfr. I 4,3 n.).
24 Vaso di terra cotta o boccale fabbricato a Bologna.
25 La scena ricorda Intr., 104 (e cfr. ivi nota).
26 Una delle solite congiunzioni in ripresa, dopo una proposizione temporale, per indicare istantaneità: Intr., 78 n.
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spurgato s’era27, cominciava a ber sì saporitamente questo suo vino, che egli n’avrebbe fatta venir voglia
a’morti.
La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine
veduta, disse la terza: «Chente è28, Cisti? è buono?»
Cisti, levato prestamente in piè, rispose: «Messer sì,
ma quanto non vi potre’io dare a intendere, se voi non
assaggiaste».
Messer Geri, al quale o la qualità 29 o affanno più
che l’usato avuto o forse il saporito bere, che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli ambasciadori
sorridendo disse: « Signori, egli è buono30 che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo: forse che è
egli tale, che noi non ce ne penteremo31 »; e con loro insieme se n’andò verso Cisti.
Il quale, fatta di presente32 una bella panca venire di
fuori dal forno, gli pregò che sedessero; e alli lor famigliari, che già per lavare i bicchieri si facevano innanzi,
disse: «Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io
sappia infornare; e non aspettaste 33 voi d’assaggiarne
gocciola!» E così detto, esso stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo orcioletto
27 aveva sputato, si era liberato la gola dal catarro, per richiamar l’attenzione e secondo l’uso plebeo prima di gustare cosa prelibata.
28 Qual è? Com’è?: cfr. Intr., 55 n.
29 Si riferisce al vino o probabilmente al tempo e quindi alla calura della stagione riflettendo un precetto diffuso (per es. ANONIMO GENOVESE, Poesie, Roma 1970, CXXI) – «Credo che
voglia dire o la qualità del tempo» (M).
30 è opportuno, è bene: Inf., XII 27: e cfr. anche Intr., 75 n.
31 Dalla solita forma pentere: IV 1,62 n.
32 subito: I 1, 77 n.
33 non vi venga in mente ... «È una specie di congiuntivo potenziale, usato per l’imperativo, ma con maggiore forza, perché
esclude anche la possibilità del caso» (Fornaciari): alla latina.
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del suo buon vino diligentemente diede bere a messer
Geri e a’compagni34, alli quali il vino parve il migliore
che essi avessero gran tempo davanti35 bevuto; per che,
commendatol molto, mentre gli ambasciador vi
stettero36, quasi ogni mattina con loro insieme n’andò a
ber messer Geri.
A’ quali, essendo espediti37 e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito al quale invitò una
parte de’più orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il
quale per niuna condizione38 andar vi volle. Impose
adunque messer Geri a uno de’suoi famigliari che per
un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo
bicchier per uomo desse alle prime mense39. Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto
del vino, tolse un gran fiasco.
Il quale come Cisti vide, disse: « Figliuolo, messer
Geri non ti manda a me».
Il che raffermando40 più volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a messer Geri e sì gliele
disse; a cui messer Geri disse: «Tornavi e digli che sì
fo41: e se egli più42 così sponde, domandalo a cui io ti
mando».
Il famigliare tornato disse: «Cisti, per certo messer
Geri mi manda pure a te».
34 Tre endecasillabi di seguito sottolineano la letizia premurosa di Cisti.
35 da molto tempo: IV 1,10: “di grandissimi tempi davanti
usata non s’era”.
36 finché gli ambasciatori stettero a Firenze.
37 essendosi sbrigati dei loro affari: I 4,2 n.
38 in nessun modo, a nessun patto: Teseida, I 86: “non potrà ...
| Dimorar qui, per nulla condizione”.
39 per uno desse alla prima portata: cioè quando lo potevano
gustare meglio (cfr. Joan. 2. 10).
40 confermando, riaffermando.
41 che sì ti mando, che si lo fo: altro esempio - come al 23 - di
“fare” in sostituzione di altro verbo (Intr., 14 n.), e dell’omissione
del pronome in casi Simili (III 6,29 n.).
42 ancora.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
Al quale Cisti rispose: «Per certo, figliuol, non fa43».
«Adunque», disse il famigliare «a cui mi manda?»
Rispose Cisti: «Ad Arno».
Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s’apersero dello ‘ntelletto44 e disse al famigliare: «Lasciami vedere che fiasco tu vi porti »; e vedutol disse: «Cisti dice vero45»; e dettagli villania gli
fece torre un fiasco convenevole.
27
Il quale Cisti vedendo disse: «Ora so io bene che
egli ti manda a me», e lietamente46 glielo impiè.
E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere
28
d’un simil vino e fattolo soavemente47 portare a casa di
messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse: «Messere, io non vorrei che voi credeste48 che il gran fiasco
stamane m’avesse spaventato; ma, parendomi che vi
fosse uscito di mente ciò che io a questi dì49 co’miei piccoli orcioletti v’ho dimostrato, ciò questo non sia vin da
29 famiglia50, vel volli staman raccordare51. Ora, per ciò
che io non intendo d’esservene più guardiano52 tutto ve
23
24
25
26
43 non ti manda, col solito uso di “fare”: oppure formula di
negazione analoga a quelle dell’antico francese «non fait!», «si
fait!» (Pézard).
44 Cfr. 7 n.
45 Quasi avverbio: parla con verità: Petrarca, LIII 94.
46 volentieri, con piacere: III 1,7.
47 pianamente, delicatamente, cioè senza urti: V intr., 2 n., VI
10,34 n.; VII 8,14 n.; Inf., XIX 130: «Quivi soavemente spuose il
carco».
48 Altri due endecasillabi di seguito.
49 nei giorni passati.
50 vino leggero, da darsi alla servitú: e per l’origine e il valore
dell’espressione: G. PASQUALI, Lingua Nuova e Antica, Firenze
1964, pp. 230 sgg.
51 ricordare: forma non rara (cfr. per es. Novellino, ed. Borghini, XCIX; Buti comm. a Inf., XXXII 1).
52 di più conservarlo per voi. «Con queste parole Cisti fa intendere a messer Geri che il vino non era più cosa sua, da quel giorno
che esso piacque a colui cui egli riguardava come padrone delle
sue cose e di sé» (Fornaciari).
Letteratura italiana Einaudi 848
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
30
l’ho fatto venire: fatene per innanzi53 come vi piace».
Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle
grazie gli rendè che a ciò credette si convenissero, e
sempre poi per da molto l’ebbero54 e per amico.
53
54
di qui avanti.
per uomo di molto valore lo stimò.
Letteratura italiana Einaudi
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NOVELLA TERZA
1
Monna Nonna de’Pulci con una presta1 risposta al meno che
onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone2.
2
Quando Pampinea la sua novella ebbe finita, poi
che da tutte la risposta e la liberalità di Cisti molto fu
commendata, piacque alla reina che Lauretta dicesse
appresso, la quale lietamente così a dire cominciò.
– Piacevoli donne, prima Pampinea e ora Filomena
assai del vero toccarono3 della nostra poca virtù e della
bellezza de’motti; alla quale per ciò che tornar non bisogna, oltre a quello che de’motti è stato detto, vi voglio
ricordare essere la natura de’motti cotale, che essi come
la pecora morde deono così mordere l’uditore, e non
come ‘1 cane; per ciò che, se come il cane mordesse il
4
motto, non sarebbe motto ma villania4.
3
1
pronta: di fatti il tema generale della giornata dice: «... o
con pronta risposta ...»: e cfr. I 5,17: «il presto partirsi»; I 7,7:
«presto parlatore»; VI 4,I: «con una presta parola»; VI 6,2: «bella
e presta risposta»; X 9,II3: «il guiderdone delle lor liete e preste
cortesie».
2
Nessun antecedente di questa novella, prontamente ripresa
dal Sercambi (CXLVI): il rapporto che il Landau istituisce con il
racconto La donna e il merciaio del Libro dei Sette Savi non ha
senso alcuno. L’Ammirato e il Campanile (opp. citt.), il Borghini
(Trattato della moneta, Firenze I578) e il Manni, e vari altri eruditi
napoletani e fiorentini ne affermarono il fondamento storico, ma
senza alcuna documentazione. A Diego e agli episodi ricordati in
questa novella si è voluto riferire anche un sonetto dell’Angiolieri
Lassar vo’ lo trovare: dove del «mariscalco» si dice «ch’ e’ par fiorin d’or ed è di ricalco», e si ammoniscono le «donne e donzelle»
di Firenze «che ’l su’ fatto è solo di parvenza» (cfr. ed. Massera,
Bologna 1906, p. 163; ZINGARELLI, Dante cit., pp. 1198 e
1208). Per il motivo tradizionale nella novellistica cfr. Rotunda, K
1228*.
3
dissero cose assai vere e a proposito.
4
«Nota buona dottrina ne’ motti» (M.): e questo passo altamente è lodato anche dal Casa nel suo Galateo (XX). Per tutto
Letteratura italiana Einaudi 850
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5
6
La qual cosa ottimamente fecero e le parole di madonna Oretta e la risposta di Cisti. È il vero che, se per risposta si dice, e il risponditore morda come cane, essendo come da cane prima stato morso, non par da riprendere, come, se ciò avvenuto non fosse, sarebbe; e per
ciò è da guardare e come e quando e con cui e similmente dove si motteggia. Alle quali cose poco guardando già un nostro prelato, non minor morso ricevette che
‘l desse; il che in una piccola novella vi voglio mostrare.
Essendo vescovo di Firenze messer Antonio
d’Orso5, valoroso e savio prelato, venne in Firenze un
gentile uom catalano, chiamato messer Dego della
Ratta, maliscalco per lo re Ruberto6. Il quale, essendo
questo linguaggio «canino» cfr. IV intr., passim e nn.; I 6,3 n.; V
concl., 3 n.
5
Antonio degli Orsi di Biliotto degli Orsi, già dal 1301 vescovo di Fiesole, successe nel 1309 a Lottieri della Tosa nel vescovato fiorentino, che tenne fino alla morte (1322). Il Compagni lo
dice simoniaco, «di vile nazione, animoso in parte guelfa e molto
nel vulgo del popolo [cioè molto popolare], ma non di santa vita»
(cfr. III 22). Probabilmente proprio dalla diffusa fama della sua
avidità trassero una qualche origine le novelle del B. e del Sacchetti (CXXVIII), che pur lo presentarono come «valoroso e savio
prelato» e «uomo molto venerabile e dabbene». Armò e capitanò
egli stesso il clero durante l’assedio posto da Arrigo VII a Firenze
(G. Villani, IX 47); nel 1310 fu nominato consigliere privato della
corona inglese (A. SAPORI, Studi cit., p. 604); fu uomo di cultura
preumanistica possessore di una ricca libreria e amico di Francesco da Barberino. Per queste e altre notizie vedi DEL LUNGO, in
RR. II.SS2, IX, p. 217; I. DA SAN LUIGI, Delizie degli eruditi toscani (agli indici); I. LAMI, Sanctae Ecclesiae Florentinae Monumenta, Firenze 1758, III, pp. 1675 sgg.; R. DAVIDSOHN, Storia
di Firenze, IV, pp. 506 sgg., 702 sgg., 845 sgg.; R. WEISS, in “Rivista Storica Italiana», LX, 1948, pp. 355 sgg. Cfr. VIII 4,29 n.
6
Diego de la Rath o Dego della Ratta (come scrivono le cronache e i documenti fiorentini), di nobile famiglia barcellonese,
era entrato al servizio di Re Roberto venendo a Napoli al seguito
di Violante d’Aragona, prima moglie del Re. Ebbe numerosi onori
e alti incarichi alla corte angioina (conte di Caserta, gran Camerlengo del Regno, Vicario Generale in Provenza ecc.): aveva sposato Odalina Chiaromonte, sorella di quel Giovanni conte di Modi-
Letteratura italiana Einaudi
851
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
7
8
del corpo bellissimo e vie più che grande vagheggiatore7,
avvenne che fra l’altre donne fiorentine una ne gli piacque, la quale era assai bella donna ed era nepote d’un
fratello del detto vescovo.
E avendo sentito che il marito di lei, quantunque di
buona famiglia fosse, era avarissimo e cattivo8, con lui
compose9 di dovergli dare cinquecento fiorin d’oro,
ed10 egli una notte con la moglie il lasciasse giacere; per
che, fatti dorare popolini d’ariento11, che allora si spendevano, giaciuto con la moglie, come che contro al piacer di lei fosse, gliele diede. Il che poi sappiendosi per
tutto, rimasero al cattivo uomo il danno e le beffe; e il
vescovo, come savio, s’infinse di queste cose niente sentire.
Per che, usando molto insieme il vescovo e ’l maliscalco, avvenne che il dì di San Giovanni, cavalcando
l’uno allato all’altro, veggendo le donne per la via onde
il palio si corre12, il vescovo vide una giovane, la quale
ca che è presentato nell’Amorosa Visione, XLIII 22 sgg. (e cfr.
commento). Fu capitano d’armi e Vicario del Re Roberto in Firenze nel 1305, 1310, 1317-18: l’episodio, poiché Antonio d’Orso è
presentato come vescovo di Firenze, sarebbe dunque avvenuto nel
1310 o più verosimilmente nel 1317-18. Morì nel 1328. Per queste
e altre notizie: G. Villani, VIII 82; CAMPANILE, Insegne cit., p.
69; Bartolomeo da Ferrara, Polistoria, in RR II.SS., XXIV, a. 1307;
M. CAMERA, Annali cit., Il, pp. 189, 228, 320, 342 sgg.; C. MINIERI- RICCIO, in “Arch. Stor. Prov. Napoletane”, VII, 1183, p.
236; R. A. RICCIARDI, Storia e successione feudale e quadro dei
feudatari di Caserta, in “Arch. Stor. Campano”, 1, 1889; I. DEL
LUNGO, in RR. II.SS. 2, IX, p. 208, n. 25; F. SARTINI, Statuti
dell’arte dei rigattieri e linaioli, Firenze 1940, pp. 83 e 178; R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, IV, pp. 409 sgg., 627 sgg., 682 sgg.
7
eccezionale donnaiolo, vagheggino.
8
vizioso: cfr. I 8,7 n.; V 10,51 n. e 62 n.
9
s’accordò, fissò: III 8,36 n.
10 Uso quasi condizionale: se, a patto che: VIII 9,43 n.
11 Moneta del valore di due soldi, di conio molto simile al fiorino: si cominciò a battere nel 1305.
12 Si correva da fuori Porta al Prato a Porta alla Croce, passando per Borgo degli Albizi e Porta San Pier Maggiore, dove ap-
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11
questa pestilenzia presente ci ha tolta donna13, il cui
nome fu monna Nonna de’Pulci, cugina di messere
Alesso Rinucci14, e cui voi tutte doveste conoscere; la
quale, essendo allora una fresca e bella giovane e parlante e di gran cuore15, di poco tempo avanti in Porta
San Piero a marito venutane, la mostrò al maliscalco; e
poi essendole presso, posta la mano sopra la spalla del
maliscalco, disse: «Nonna, che ti par di costui? Crederrestil vincere?»
Alla Nonna parve che quelle parole alquanto mordessero la sua onestà, o la dovesser contaminar16 negli
animi di coloro, che molti v’erano, che l’udirono. Per
che, non intendendo17 a purgar questa contaminazione,
ma a render colpo per colpo, prestamente rispose:
«Messere, è forse non vincerebbe me, ma vorrei buona
moneta18».
La qual parola udita il maliscalco e ‘l vescovo, sentendosi parimente trafitti, l’uno siccome facitore della
disonesta cosa nella nepote del fratel del vescovo, e
punto abitava Nonna de’ Pulci (9: N o n n a era accorciatura di
Madonna).
13 una che allora era giovane e che la pestilenza ha portato via
già divenuta anziana (Barbi): tra il fatto e il racconto sono trascorsi
almeno trent’anni.
14 Una «Domina Lapa vocata Domina Nonna filia quondam
Uberti de Pulcis uxor quondam Passe Passavantis et postea uxor
Domini Manni de Donatis» figura in un atto notarile del 1340
(cod. Magliabechiano XXXVII 299, c. 33). Passa Passavanti fu
socio dei Pazzi fin dal 1307 (cod. Magliabechiano XXV 591, c.
404). Ai Pulci e ai Rinucci (che figurano in quegli stessi atti notarili) Antonio d’Orso era effettivamente legato di parentela.
15 ben parlante, di lingua pronta e di grande animo: per p a r I
a n t e cfr. VI 9,8 e anche VI I,5 n.; Filostrato, II 22 e VI 33.
16 La dovessero macchiare, far ritenere meno onesta.
17 mirando: VI 3,10 n.
18 moneta autentica, non falsata. Con la risposta sdegnosa, e
con tutta la novella, il B. volle probabilmente pungere l’«avara povertà di Catalogna» (Par., VIII 77) e indirettamente la proverbiale
grettezza di Re Roberto, già colpita in altri suoi scritti (per es.
Amorosa Visione, XIV 22 sgg. e comm.; Epistole, XII).
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
l’altro sì come ricevitore nella nepote del proprio fratello, senza guardar l’un l’altro, vergognosi e taciti se n’an12 darono, senza più quel giorno dirle alcuna cosa. Così
adunque, essendo la giovane stata morsa, non le si disdisse il mordere altrui motteggiando. –
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NOVELLA QUARTA
1
Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute1 l’ira di Currado volge in riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado2.
2
Tacevasi già la Lauretta, e da tutti era stata sommamente commendata la Nonna, quando la reina a Neifile
impose che seguitasse; la qual disse:
– Quantunque il pronto ingegno, amorose donne,
spesso parole presti e utili e belle, secondo gli accidenti,
à dicitori3, la fortuna ancora, alcuna volta aiutatrice
de’paurosi, sopra la lor lingua subitamente 4 di quelle
pone, che mai ad animo riposato per lo dicitor si sarebber sapute trovare; il che io per la mia novella intendo
4
di dimostrarvi.
Currado Gianfigliazzi5, sì come ciascuna di voi e
3
1
detta per salvarsi: e cfr. VI 3,1.
Nessun preciso antecedente per questa novella: perché un
episodio tratto dal Kandjur (secolo XIII) ha scarsi punti di contatto (S. PRATO, La leggenda del tesoro di Rampsinite, Corno 1882,
p. 22), e un simile racconto turco è posteriore (Plaisanteries’de
Nasr-Eddin Hodja traduites du turc par J. A. Decourdemanche,
Paris 1876, n. 75). Si potrebbe allora più verisimilmente citare
l’espediente suggerito, per la coscia di cervo sparita, al cuoco dalla
moglie nelle Metamorfosi apuleiane (VIII 31). Alla cronaca municipale fiorentina lo ricondurrebbe - oltre i riferimenti storici che
vedremo e il ricordo del Piccolomini nella Chrisis (369 sgg.) - la citazione del Casa nel suo Galateo (VIII); ma non si può escludere
nella prima parte (il furto e la scusa per celarlo) anche la presenza
di materia tradizionale e ripresa continuamente nella novellistica
(cfr. per es. D’ANCONA, Studi di critica e storia letteraria cit., II,
pp. 132 sgg.; Bolte-Polivka, II, pp. 149 sgg.; Aarne, 785; Thompson e Rotunda, K 402. 1).
3
a chi parla, a chi si trova a dover dire, come più sotto.
4
Tutte parole che sottolineano l’intervento della Fortuna,
così presente in questa giornata (cfr. VI 2,3 sgg. nn.).
5
Currado di Vanni di Cafaggio Gianfigliazzi, vissuto tra la
2
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5
udito e veduto puote avere, sempre della nostra città è
stato nobile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani e in uccelli6 s’è
dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando
stare7. Il quale con un suo falcone avendo un dì presso
a Peretola8 una gru ammazata, trovandola9 grassa e giovane, quella mandò ad un suo buon cuoco, il quale era
fine del secolo XIII e la prima metà del XIV, fu, proprio come
dice il B., splendido signore, secondo rivelano anche i libri di
commercio dei Peruzzi. Appartenne alla celebre famiglia di banchieri bollata da Dante (Inf., XVII 58 sgg.) e citata quale guelfa e
nera dal Villani (V 29, VI 33 e 79, VIII 29): come del resto vi appartennero Geri ricordato dal Petrarca per «l’amore per le lettere» e Curradino, fatto dal Sacchetti (CCX) protagonista di una
novella di miseria e di spilorceria, quasi a contrasto con questo
Currado del «buon tempo antico». Con vari Gianfigliazzi, della
generazione successiva a quella di Currado, il B. ebbe del resto
viva familiarità: Alianora, figlia di Niccolò e sposa a Pacino Peruzzi, compare nella Comedia sotto le vesti di Adiona, e nell’Amorosa Visione tra le più famose bellezze (XLIV 7 sgg.); e il giurista
Luigi è ricordato affettuosamente nel carme a Zanobi da Strada
(«semper clarissimus ille | Affuit orator michi legum doctor amicus | Loisius ...»: V 62 sgg.). Per notizie su Currado cfr. non le pagine fantasiose del Manni (ripetute da tutti i commentatori) ma:
A. SAPORI, I libri della ragione bancaria dei Gianfigliazzi, Milano
1945 (agli indici), e Studi cit., pp. 534 sgg., 555 sgg., 576.
6
Cfr V 9,8 n. per contrasto.
7
per non parlare ora dei suoi atti di maggior importanza: alludendo evidentemente alla parte che ebbe nella potente Compagnia e nella vita pubblica della sua città.
8
Proprio in questa parte del contado di Firenze avevano vari
possedimenti i Gianfigliazzi e particolarmente Corrado (SAPORI,
opp. citt.); e proprio verso Prato era anche il “Pantano”, il podere
della CCX del Sacchetti.
9
Cfr. V 9,25 n. Le gru figurano nei ricettari medievali di cucina: nidifìcavano con una certa frequenza nelle zone paludose
d’Italia (Bestiario toscano, in “Studi romanzi”, VIII, 1912, pp. 42
sgg.; e anche Inf., V 46 sg.; e Esposizioni, V litt. 49); e nella Caccia
(VIII) già il B. ne aveva descritto la caccia. Per i vari modi di cattura delle gru, per le abitudini e la frequenza nell’Italia trecentesca
di questi grandi uccelli viaggiatori, vedi L. MESSEDAGLIA, Chichibío cuoco e le gru, in “Rivista italiana di ornitologia”, 1953 e
anche Chiose al D., in “Atti Ist. Veneto”, CXII, 1953-54.
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6
8
chiamato Chichibio10, ed era viniziano, e sì gli mandò
dicendo che a cena l’arrostisse e governassela11 bene.
Chichibio, il quale come nuovo bergolo12 era così pareva, acconcia13 la gru, la mise a fuoco e con sollicitudine 7
a cuocerla cominciò. La quale essendo già presso che
cotta grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la qual Brunetta14 era chiamata
e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina; e sentendo l’odor della gru e veggendola, pregò
caramente15 Chichibio che ne le desse una coscia.
Chichibio le rispose cantando16 e disse: «“Voi non
10 Nome derivato, secondo il Lovarini (Chichibio e cicisbeo, in
“Atti R. Ist. Veneto”, XCVIII, 1939, p. II, pp. 449 sgg. e Per due
nomi della “Fringilla coelebs”, in “Convivium”, XIV, 1942, pp. 225
sgg.) dal verso e dal nome del fringuello, cicibío, voce onomatopeica diffusa nel Veneto. Se la derivazione e la pronunzia con la palatale sono da respingere (anche per le indicazioni dell’autografo)
l’accentazione sembra garantita da vari esempi che mostrano il
nome diffuso nei secoli seguenti anche in funzione allusiva, come
«buono a nulla, minchione» o «cervello di fringuello» (cfr. specie
C. VIDOSSICH, Rassegna bibliografica, in “Giorn. Stor. Lett. It.”,
CXV, 1940; A PRATI, Chichibío, in “Lingua Nostra”, XVIII,
1957).
11 l’acconciasse, la preparasse: Sacchetti, CCIV: «e’ due contadini ... governorno il porco».
12 vano, leggerone, chiacchierone, fatuo. È con tutta probabilità un “blasone” per i veneziani, per i quali è sempre e soltanto
usato dal B.: cfr. IV 2,12 n. e gli articoli ivi citati, confermati anche
da un esempio non ricordato di Bernardo Tasso, Lettere, Padova
1731, II, p. 283: «io non sono, er dirlo con un termine veneziano,
si bergolo nelle mie amicizie ...». N u o v o vale strano, curioso, e
quindi anche ridicolo. I 7,1 n.; II 1,6 n.
13 Una delle solite forme tronche o abbreviate di participi
passati o aggettivi verbali: cfr. II 8,36; VII 7, II; VIII 9,82.
14 E il nome della servente premurosa e affezionata del B., ricordata in una epistola del 1372 (XX), nel testamento con un lascito e cui forse già allude il Buccolicum carmen (XIV 51). Cfr. V.
BRANCA, Tenerezza affettiva cit.
15 con amorosa insistenza: V 2,22 n.
16 «Parlando nel suo dialetto, che per l’abbondanza delle pa-
Letteratura italiana Einaudi
857
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
l’avrì da mi, donna Brunetta, voi non l’avrì17 da mi”».
Di che donna Brunetta essendo un poco turbata18,
gli disse: «In fè di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai
mai da me cosa che ti piaccia»; e in brieve le parole19
furon molte. Alla fine Chichibio, per non crucciar la
sua donna20, spiccata l’una delle cosce alla gru, gliele
diede.
10
Essendo poi davanti a Currado e a alcun suo forestiere21 messa la gru senza coscia, e22 Currado maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che
fosse divenuta l’altra coscia23 della gru. Al quale il vinizian bugiardo24 subitamente rispose: «Signor mio, le
gru non hanno se non una coscia e una gamba».
9
role tronche e per la varietà delle intonazioni può parere, ai non
Veneziani, un canto» (Massera). Qui il B. si riferisce probabilmente anche a quelle tronche rimate e a quelle riprese di parole che
danno all’intervento di Chichibio un tono proverbioso, da cantilena, da celia familiare.
17 avrete: è antica forma veronese, non veneziana (G. VIDOSSICH, L’elemento veneziano e friulano ecc., in “Boll. Soc. Filol.
Friulana”, XI, 1935; e non veneziani i raddoppiamenti d o n n a e
B r u n e t t a ). E per l’uso del “lenguazo” veneziano nel D. cfr. IV
2,43 nn. e V. BRANCA, Consacrazioni cit. a IV 2,58.
18 adirata, stizzita: II 9, I 2 n.
19 e per farla breve (V 1,53 n.) le questioni, le liti (come più
sotto, 13 e 14: e cfr. V 10, 8 n.).
20 «Scherzosamente, come dire la dama da lui cantata» (Zingarelli). E nota, nello stesso tono caricaturalmente cortese, il voi e
il donna dato da Chichibio a questa «feminetta della contrada» (7
e V 2,15 n.); come alla fine della giornata (concl., 4) Dioneo dirà
ostentatamente «donna Licisca» parlando della saccente e prepotente fante di Filomena.
21
ospite (senza allusione a provenienza da altra città): X 4,23
n.
22 In ripresa, come al solito, dopo gerundiale temporale.
23 che cosa fosse avvenuto dell’altra coscia: IV 2,35 n.
24 «Il B. antiveneziano ... calca troppo acerbamente ... sulla
bugia ... accennando senza necessità a un blasone dei veneziani”
(Chiurlo); come fa del resto, a proposito di un altro veneziano, lo
storico Paolino, in un suo Zibaldone (cfr. V. BRANCA, B. e i veneziani bergoli, in “Lingua Nostra”, III, 1941).
Letteratura italiana Einaudi 858
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
Currado allora turbato disse: «Come diavol25 non
hanno che una coscia e una gamba? Non vid’io mai più
gru che questa26?»
12
Chichibio seguitò: «Egli è, messer, com’io vi dico; e
quando vi piaccia, io il vi farò veder né vivi27».
Currado, per amor dei forestieri che seco aveva, non
13
volle dietro alle parole andare28, ma disse: «Poi che tu
di’ di farmelo vedere ne’ vivi, cosa che io mai più non
vidi né udii dir che fosse, e29 io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo,
che, se altramenti sarà, che30 io ti farò conciare in maniera che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu
ci31 viverai, del nome mio».
Finite adunque per quella sera le parole, la mattina
14
seguente come il giorno apparve, Currado, a cui non
era per lo dormire l’ira cessata, tutto ancor gonfiato32 si
levò e comandò che i cavalli gli fosser menati; e fatto
montar Chichibio sopra un ronzino, verso una fiumana33, alla riva della quale sempre soleva in sul far del dì
vedersi delle gru34, nel menò dicendo: «Tosto vedremo
chi avrà iersera mentito, o tu o io».
11
25
«Modo usato di parlare e dello autore» (M.).
non ho mai visto altre gru che questa?
Si riferisce o a un plurale maschile i gru, dell’uso (Inf. V
46); o meglio poiché il B. usa sempre il femminile - alla specie, agli
uccelli agli animali in generale.
28 continuare le questioni, la discussione.
29 Paraipotattico ebbene (II 8,61 n.); lo Zingarelli anche (I
1,44 n.).
30 La solita ripetizione di che dopo parentetica.
31 Qui, in questo mondo: IV 2,19 n.
32 Per l’ira non sfogata ancora. Aen., VI 407: «tumida ex ira ...
corda»; Inf., VII 7: «quella ’nfiata labbia».
33 Equivale al semplice fiume, ma anche a allagagione di molte
acque, come spiega il Da Buti commentando Inf., II 108.
34 si soleva all’alba veder delle gru; con uso di solere non come
verbo modale, ma indipendente impersonale (Mussafia, p. 450).
26
27
Letteratura italiana Einaudi
859
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
Chichibio, veggendo che ancora durava l’ira di Currado e che far gli convenia pruova della sua bugia35,
non sappiendo come poterlasi fare, cavalcava appresso
a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito; ma non potendo, ora innanzi e ora addietro e da lato si riguardava, e
ciò che vedeva credeva che gru fossero che stessero in
due piedi.
16
Ma già vicini al fiume pervenuti, gli venner36 prima
che ad alcun vedute sopra la riva di quello ben dodici37
gru, le quali tutte in un piè dimoravano38, si come
quando dormono soglion fare. Per che egli prestamente
mostratele a Currado, disse: «Assai bene potete, messer,
vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno
se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle
che colà stanno».
Currado vedendole disse: «Aspettati39, che io ti mo17
sterrò che elle n’hanno due»; e fattosi alquanto più a
quelle vicino gridò: «Ho ho» ; per lo qual grido le gru,
mandato l’altro piè giù, tutte dopo alquanti passi40 cominciarono a fuggire. Laonde Currado rivolto a Chichi15
35
Cioè doveva provare quanto affermato con la sua bugia.
Per quest’uso di venire come ausiliare, ad esprimere subitaneità fortuita, cfr. II 5,70 n.
37 Uno dei soliti numeri indeterminati: III intr., 3 n.; III 3,25
n. E nota i tre endecasillabi di seguito che salutano l’apparizione
desiderata.
38 stavano ritte su un piè: Purg., XIII 71-72: «sparvier selvaggio | ... che queto non dimora». Questo uso delle gru è ripetuto,
con frange fantasiose, dai bestiari del tempo (per es. Bestiario toscano cit., p. 43; B. Latini, Tesoro volg., V 27).
39 Aspetta, Attendi: VIII 3,34; VIII 7,37; IX 4,13; esempi tutti
che mostrano corrente questa forma media contro l’interpretazione pur suggestiva dello Zingarelli («un ti riflessivo che è una minaccia»). È una forma di attivo: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il
verbo, p. 138.
40 Perché, anche secondo i bestiari, prima di volare avevano
bisogno di sgranchirsi e prender lo slancio con qualche passo.
36
Letteratura italiana Einaudi 860
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
bio disse: «Che ti par, ghiottone41? Parti che elle n’abbian due?»
Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stes18
so donde si venisse42, rispose: «Messer sì, ma voi non
gridaste ‘ ho ho ’ a quella di iersera; ché se così gridato
aveste, ella avrebbe così l’altra coscia e l’altro piè fuor
mandata43, come hanno fatto queste».
A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta
19
la sua ira si convertì44 in festa e riso, e disse: «Chichibio,
tu hai ragione, ben lo dovea fare».
Così adunque con la sua pronta e sollazzevol45 ri20
sposta Chichibio cessò46 la mala ventura e paceficossi
col suo signore.
41
canaglia, furfante: IV 2,56 n.
non sapendo egli stesso da che parte [del cervello, della
mente] gli venisse [quella risposta, quella idea].
43 Attrazione naturale, poiché il pensiero della coscia era
quello che più occupava la mente di Chichibio (Dal Rio): V 6,27
n.
44 si mutò: Inf., XIII 92.
45 della quale gli uditori si divertono: con senso attivo, modificazione o estensione di un originario senso strumentale (cfr. F.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 265).
46 sfuggi, schivò: I 3,1 n.
42
Letteratura italiana Einaudi
861
NOVELLA QUINTA
1
Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo
di Mugello, l’uno la sparuta apparenza dell’altro motteggiando
morde1.
2
Come Neifile tacque, avendo molto le donne preso
di piacere della risposta di Chichibio, così Panfilo per
voler della reina disse:
– Carissime donne, egli avviene spesso che, sì come
la Fortuna sotto vili arti2 alcuna volta grandissimi tesori
di virtù nasconde, come poco avanti per Pampinea fu
mostrato, così ancora sotto turpissime forme d’uomini3
si truovano maravigliosi ingegni dalla Natura essere
stati riposti. La qual cosa assai apparve in due nostri cittadini, de’quali io intendo brievemente di ragionarvi.
Per ciò che l’uno, il quale messer Forese da Rabatta4 fu
3
4
1
Nessun antecedente diretto neppure di questa novella, che
da Benvenuto da lmola (comm. a Purg,, XI 95) al Casa, (XIX) al
Vasari al Baldinucci all’Ammiraro (op. cit., p. 112) ecc., è riferita o
citata come storica. Non bisogna però dimenticare che una lunga
tradizione attribuiva ad artisti, non prestanti fisicamente, motti e
facezie sul loro aspetto: basti ricordare per es. quanto un autore
veneratissimo dal B. narra del pittore L. Mallio (Saturnalia, II
II,10), o quanto scrive il Petrarca a questo proposito, riferendosi
anche a Giotto nelle Familiares (V 17). E cfr. V. BRANCA, B. visualizzato, I pp. 4 sgg., 143 sgg.
2
in uomini che esercitano mestieri umili: come Cisti, subito
dopo ricordato indirettamente nella citazione del preludio di
Pampinea alla VI 2.
3
Cioè in uomini bruttissimi.
4
Celebre giureconsulto vissuto nella prima metà del secolo
XIV, professore a Pisa nel 1338-39 (cod. Magliabechiano XXV
591, c. 8), varie volte priore tra il 1320 e il 1335, Gonfaloniere nel
1339-40, nel 1343 ambasciatore fiorentino a San Miniato per trattative con Pisa (D. NIARZI, Cancelleria della Repubblica Fiorentina, San Casciano 1910, p. 639). Sembra apparire ancora in atti fra
il 1354 e il 1359 (codd. Marucelliano A 161; Magliabechiano
XXVI I32, c. 144; XXV 591, 1. 38i), benché si fissi di solito la sua
Letteratura italiana Einaudi 862
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
5
chiamato, essendo di persona piccolo e sformato, con
viso piatto e ricagnato5, che a qualunque de’ Baronci
più trasformato6 l’ebbe sarebbe stato sozzo, fu di tanto
sentimento7 nelle leggi, che da molti valenti uomini uno
armario di ragione civile8 fu reputato; e l’altro, il cui
nome fu Giotto9, ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia,
morte al 1348. La famiglia, originaria del Mugello (Rabatta è presso Borgo San Lorenzo), ebbe case in Via de’ Calderai e cappella
nella Chiesa dell’Annunziata (RICHA, Notizie istoricbe cit., VIII,
pp. 34 sgg.). Per notizie su Forese e la famiglia: codd. Riccardiani
2023, cc. 480 sgg.: 2024, cc. 435 sgg.; codd. Passerini della Bibl.,
Nazionale di Firenze 8 e 191; Magliabechiano IX 66, cc. 265 sgg.;
M. POCCIANTI, Catalogus Scriptorum fiorentinorum, Firenze
1589, p. 73; G. NEGRI, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara
1722, p. 179; E. GAMURRINI, Istoria genealogica delle famiglie
nobili toscane, Firenze 1685, III, pp. 416 sgg., e v, pp. 347 sgg.;
Delizie degli eruditi toscani, X, p. 340; STEFANI, Cronaca cit.,
passim, agli indici.
5
schiacciato, rincagnato.
6
Deforme, contraffatto: cioè con un viso che sarebbe apparso
turpe anche rispetto a chi della famiglia dei Baronci l’ebbe più
deforme. Per la proverbiale bruttezza dei Baronci vedi VI, 6.
7
Sapienza, perizia, discernimento: cfr. VI 9,3 n.; I 3, 8 n.:
«nelle cose di Dio senti molto avanti»; SACCHETTI, Rime,
LXXXIII 5: «... un dottor... di legge ha tanto sentimento ...»
8
un’arca, una libreria di diritto civile: il Rua ricorda il proverbio toscano: “dotto come uno scaffale” e il Petronio l’espressione:
“è una biblioteca ambulante”; e cfr. Ninfale, 472.
9
L’esaltazione di Giotto - comune ai nostri maggiori trecentisti (Purg., XI 94 sgg.; Petrarca., Familiares cit., Itinerarium, testamento; Sacchetti, LXIII, LXXV, CXXXVI) - è assidua nell’opera
del B.: dall’Amorosa Visione (IV 16 sgg.) allo Zibaldone Magliabechiano (c. 232) e alla Genealogia (XIV 6). All’ammirazione per
l’artista si sposa quella per l’uomo: e circa quell’atteggiarnento fatto insieme di entusiasmo per l’altrui grandezza ed umile considerazione delle proprie capacità - in cui il B. ricorda sempre Giotto, come Dante: gli unici due contemporanei che nel Trionfo della
Fama (Amorosa Visione, IV-VI) aveva evocato accanto ai saggi e ai
classici antichi. E Giotto e Forese, accanto a Dante e Petrarca e
Giovanni Pisano (il primo scultore mai ricordato fra i viri illustres)
il B. cita nel suo Zibaldone Magliabechiano (c. 232v). Il B. aveva
visto e forse conosciuto personalmente Giotto già a Napoli, quando l’artista vi dimorò e dipinse dal 1329 al 1333.
Letteratura italiana Einaudi
863
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
che niuna cosa dà la Natura, madre di tutte le cose e
operatrice col continuo girar de’cieli10, che egli con lo
stile11 e con la penna o col pennello non dipignesse sì
simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si
truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore,
quello credendo esser vero che era dipinto12.
6
E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce,
che molti secoli sotto gli error d’alcuni, che più a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo ‘ntelletto de’savi dipignendo13 intendeano, era stata sepulta,
meritamente una delle luci della fiorentina gloria dir si
puote; e tanto più, quanto con maggiore umiltà, maestro degli altri in ciò vivendo, quella14 acquistò, sempre
10 «La Natura generatrice e alimentatrice di tutte le cose per
mezzo dei movimenti dei cieli, secondo la dottrina aristotelica e
scolastica» (Sapegno). Identico il senso se si volesse leggere: «ch’è
niuna cosa dalla natura ...»
11 Stilo: cioè quella verghetta di piombo usata per disegnare
prima che si adoperasse il lapis: Purg., XII 64; Petrarca, LXXVIII
5.
12 Il pensiero era già, in forma più contorta, nei versi
dell’Amorosa Visione: «Humana man non credo che sospinta | mai
fosse a tanto ingegno quanto in ella | Mostrava ogni figura lì distinta, | Eccetto se da Giotto, al qual la bella | Natura parte di sé
somigliante | Non occultò nell’atto in che suggella» IV 13 sgg.; e
prelude all’alta affermazione del Poliziano nell’epigramma in
Santa Maria del Fiore, e a quella più teorizzante del Vasari
(«Quell’obligo stesso che hanno gl’artefici pittori alla natura ...
avere per mi, credere si deve a Giotto ...»). L’accenno finale risponde a una lunga tradizione aneddotica già viva per i pittori
greci. Su questa digressione di estetica visuale, «perfetta collimazione tra i concetti che sull’arte s’andavano diffondendo e l’innovatore della pittura», Cfr. A. PRANDI, Il B. e la critica d’arte, in
“Colloqui del Sodalizio”, II , 1956, B. visualizzato cit.
13 «Non t’intendo» (M.), forse per il gerundio causale ad sensum, usato invece dell’indicativo imperfetto (III 7,87 n.). L’allusione è evidentemente diretta contro la pittura bizantineggiante.
14 Da riferirsi a gloria. Anche per questo periodo si pensa alle
parole del Poliziano: «Ille ego sum per quem pictura extincta re-
Letteratura italiana Einaudi 864
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
rifiutando d’esser chiamato maestro. Il quale titolo rifiutato da lui tanto più in lui risplendeva, quanto con
maggior disidero da quegli che men sapevano di lui o
dà suoi discepoli era cupidamente usurpato. Ma, quan8
tunque la sua arte fosse grandissima, non era egli per
ciò né di persona né d’aspetto in niuna cosa più bello
che fosse messer Forese.
Ma, alla novella venendo, dico che avevano in Mu9
gello15 messer Forese e Giotto lor possessioni; ed essendo messer Forese le sue andate a vedere, in quegli
tempi di state che le ferie si celebran per le corti16, e per
avventura in su un cattivo ronzino da vettura17 venendosene, trovò il già detto Giotto, il qual similmente
avendo le sue vedute 18, se ne tornava a Firenze. Il
quale, né in cavallo né in arnese19 essendo in cosa alcuna meglio di lui, sì come vecchi, a pian passo venendo10 sene, insieme s’accompagnarono. Avvenne, come spesso di state veggiamo avvenire, che una subita piova20 gli
soprapprese21; la quale essi, come più tosto poterono,
fuggirono in casa d’un lavoratore22 amico e conoscente
11 di ciascuno di loro. Ma dopo alquanto, non faccendo
l’acqua alcuna vista di dover ristare23, e costoro volendo
7
vixit | Cui quam rectamanus tam fuit et facilis. | Naturae deerat
nostrae quod defuit arti: | Plus licuit nulli pingere nec melius».
15 Forese e Giotto erano originari di questa regione, a nordest di Firenze, che comprende la Val di Sieve.
16 Si prendono le vacanze nei tribunali: II 10,9 e 16 nn.
17 da nolo: IX 5,8: «prestava a vettura»; IX 6,8: «due ronzini a
vettura».
18 Attrazione naturalissima, come quattro righe sopra andate.
19 vesti, equipaggiamento: I 7,18 n.
20 Usate indifferentemente le due forme piova e pioggia.
21 sorprese: II 2, 16 n.: e cfr. V 7,11.
22 contadino: V 7,12 n.
23 non dando la pioggia alcun segno, indizio di dover cessare:
per simile senso e costruzione di f a r v i s t a (e non col valore di
fingere, simulare) cfr. III intr., 6: «... pergolati di viti, le quali facevano gran vista di dovere ...assai uve fare»; VII 8,31 n.
Letteratura italiana Einaudi
865
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
12
13
14
15
essere il dì24 a Firenze, presi dal lavoratore in prestanza
due mantellacci vecchi di romagnuolo25 e due cappelli
tutti rosi dalla vecchiezza, per ciò che migliori non
v’erano, cominciarono a camminare.
Ora, essendo essi alquanto andati, e tutti molli veggendosi, e per gli schizzi che i ronzini fanno co’piedi in
quantità zaccherosi (le quali cose non sogliono altrui accrescer punto d’orrevolezza26), rischiarandosi alquanto
il tempo, essi, che lungamente erano venuti taciti, cominciarono a ragionare. E messer Forese, cavalcando e
ascoltando Giotto, il quale bellissimo favellatore era27,
cominciò a considerarlo e da lato e da capo e per tutto,
e veggendo ogni cosa così disorrevole e così
disparuto28, senza avere a sé niuna considerazione29, cominciò a ridere, e disse: «Giotto, a che ora30 venendo di
qua allo ’ncontro di noi un forestiere che mai veduto
non t’avesse, credi tu che egli credesse che tu fossi il miglior dipintor del mondo, come tu se’?»
A cui Giotto prestamente rispose: «Messere, credo,
24
di giorno, prima di notte: cfr. II 7,74 n.
Panno grossolano, tessuto con la lana greggia, chiamato
così dalla Romagna o da Roma (Merkel, p. 105): VII 8,46: «vestiti
di romagnuolo»; X 10,52 n.
26 dignità, decoro: II 3,10 n.: il contrario del disorrevole seguente.
27 Vedi simile presentazione di Giotto nel Sacchetti (LXIII) e
nel Vasari.
28 sparuta. La solita concordanza fra aggettivo maschile e ogni
cosa considerata un neutro (II 3,25 n.).
29 senza guardare a se stesso, senza riflettere sulla sua condizione, sul suo aspetto.
30 quando, quando mai: «In questa domanda di Forese a Giotto, così stentata e artificiosa, si sente ... un certo tono di scherzo,
che continua anche nella risposta di Giotto: e a ciò contribuisce
pure il giuocare sulla parola credere che rammenta quel di Dante
(Inf., XIII 25) ‘Cred’io ch’ei credette ch’io credesse’» (Fornaciari):
gioco già imitato altrove (I 1,51 n.; III 6,20 n.; III 8,12 n.).
25
Letteratura italiana Einaudi 866
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
16
che egli il crederebbe allora31 che, guardando voi, egli
crederebbe che voi sapeste l’abicì32».
Il che messer Forese udendo, il suo error riconobbe,
e videsi di tal moneta pagato, quali erano state le derrate vendute33. –
31
È in correlazione con l’a c h e o r a di Forese.
«Sono molti idioti che non saprebbero l’a.b.c. ...» (Convivio, IV XV 16). Nota il voi di rispetto, da inferiore, col quale
Giotto risponde al tu familiare di Forese: il pittore parla ancora
come un artigiano di fronte al messere, al dotto in leggi (e cfr. in
generale anche per questo dialogo S. ZINI, Il tu e il voi nel D., in
“Lingua Nostra”, III, 1941.
33 si vide pagato con a moneta che meritavano le merci (derrate) vendute, cioè si vide ripagato come meritava: IV 10,3 n .
32
Letteratura italiana Einaudi
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NOVELLA SESTA
1
Pruova Michele Scalza a certi giovani come i Baronci sono i
più gentili uomini del mondo o di
aremma1, e vince una cena2.
2
Ridevano ancora le donne della bella e presta3 risposta di Giotto, quando la reina impose il seguitare
alla Fiammetta, la qual così ’ncominciò a parlare:
– Giovani donne, l’essere stati ricordati i Baronci 4
da Panfilo, li quali per avventura voi non conoscete
come fa5 egli, m’ha nella memoria tornata una novella,
nella quale quanta sia la lor nobiltà si dimostra, senza
dal nostro proposito deviare; e per ciò mi piace di rac- 4
contarla.
Egli non è ancora guari di tempo passato che nella
nostra città era un giovane chiamato Michele Scalza6, il
quale era il più piacevole e il più sollazzevole uom del
mondo, e le più nuove novelle aveva per le mani7; per la
3
1
Aggiunta burlesca, di tipico carattere boccacciano (IV 2,41
n.), che avverte subito della giocosità municipale della arguzia.
2
Nessun antecedente della novella che, e per l’ambiente e
per i riferimenti cittadini, appare tipicamente fiorentina.
3
pronta: VI 3,1 n.
4
Cfr. VI 5,4. Famiglia fiorentina della borghesia, abitante
presso Santa Maria Maggiore: al tempo del B. doveva essere assai
noto Tommaso Baronci, priore nel 1346, 1354, 1361 (due volte) e
morto poco dopo, di cui il Sacchetti novellò giocosamente
(LXXXIII). Per le loro proverbiali goffaggine e bruttezza vedi,
oltre il Sacchetti, anche VI 10,21. E cfr. Delizie degli eruditi toscani, XIII, p. 9; STEFANI, op. cit., pp. 228, 246, 259. Per questi
consueti legami onomastici fra novella e novella cfr. VI 2,7 n.
5
conosce: Intr., I 4 n.
6
Non si sono trovate notizie su questo arguto motteggiatore:
poiché quelle accennate nel cod. Riccardiano 3107, e. 491 appaiono derivate dal testo del B.
7
aveva pronte da raccontare le più strane invenzioni, le più
bizzarre storie: I 7,1 n.
Letteratura italiana Einaudi 868
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
5
6
7
qual cosa i giovani fiorentini avevan molto caro, quando
in brigata si trovavano, di poter aver lui. Ora avvenne
un giorno che, essendo egli con alquanti a Montughi8, si
‘ncominciò tra loro una quistion così fatta: quali fossero
li più gentili9 uomini di Firenze e i più antichi; de’quali
alcuni dicevano gli Uberti, e altri i Lamberti10, e chi
uno e chi un altro, secondo che nell’animo gli capea11.
Li quali udendo lo Scalza cominciò a ghignare, e
disse: « Andate via, andate, goccioloni12 che voi siete,
voi non sapete ciò che voi vi dite; i più gentili uomini e i
più antichi13, non che di Firenze, ma di tutto il mondo
o di maremma, sono i Baronci; e a questo s’accordano
tutti i fisofoli14 e ogn’uom che gli conosce, come fo io; e
acciò che voi non intendeste d’altri, io dico de’Baronci
vostri vicini da Santa Maria Maggiore15».
Quando i giovani, che aspettavano che egli dovesse
dire altro, udiron questo, tutti si fecero beffe di lui, e
dissero: « Tu ci uccelli16, quasi come se noi non cognoscessimo i Baronci come facci tu».
8
Amena collina fuori della Porta San Gallo, sulla valle del
torrente Terzolle, fin da quei secoli popolata di ville delle più cospicue famiglie fiorentine. Derivò il nome da Mons Ugonis, che alludeva probabilmente ai beni dei Marchesi di Toscana, da Ugo il
Grande in poi (Par., XVI 127 sgg.).
9
nobili: cfr. II 1,12 n.
10 Due nobilissime e antichissime famiglie fiorentine (cfr. II
3,6 n.; X 6,5 4n.).
11 pensava, reputava: espressione cara al B.: I 1,44 n.
12 sciocconi: Corbaccio, 458: «te ora gocciolone e ora mellone e
ora ser Mestola e talora cenato chiamando»; Sacchetti, LXXX.
13 Le parole di Michele si svolgono sui ritmi burleschi e trionfanti, ricchi di assonanze interne, di un settenario e di tre endecasillabi di seguito (e disse ... antichi).
14 sapienti. Per questa forma popolaresca cfr. II 9,18 n.
15 Varie famiglie del popolo di Santa Maria Maggiore appaiono fra i Possessori di ville a Montughi (per es. i Boni che avevano
quella che sarà la villa della Macine o Pollaio): evidentemente gli
interlocutori di Michele appartenevano ad esse.
16 ci beffi: III 3,33 n.
Letteratura italiana Einaudi
869
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
Disse lo Scalza: «Alle guagnele17 non fo18, anzi mi
dico il vero: e se egli ce n’è niuno che voglia metter su
una cena19 a doverla dare a chi vince con sei compagni
quali più gli piaceranno, io la metterò volentieri; e ancora vi farò più, che io ne starò alla sentenzia di chiunque
voi vorrete».
Tra’ quali disse uno, che si chiamava Neri Manni9
ni20: « Io sono acconcio21 a voler vincer questa cena »; e
accordatisi insieme d’aver per giudice Piero di Fiorentino22, in casa cui23 erano, e andatisene a lui, e tutti gli
altri appresso, per vedere perdere lo Scalza e dargli
noia, ogni cosa detta gli raccontarono.
10
Piero, che discreto24 giovane era, udita primieramente la ragione25 di Neri, poi allo Scalza rivolto, disse:
«E tu come potrai mostrare questo che tu affermi?»
11
Disse lo Scalza: « Che26? Il mosterrò per sì fatta ra8
17 Per il vangelo; giuramento scherzoso corrente : VIII 9,70;
Sacchetti, XXXI, LXXVI, XCVIII, CVII, CLI ecc. Guagnele è alterazione popolaresca per evangelia (e poi eguangelie).
18 non vi uccello: col solito uso di f a re e omissione del pronome per cui VI 2,21 n.: identico uso vicario nella riga precedente (f
a c c i: per la forma cfr. Inf., X 16; Rohlfs, 546).
19 scommettere una cena: II 9,54 n. e qui più sotto 16.
20 Nota famiglia fiorentina, dal cognome derivato dal santo
Protettore di Firenze, san Giovanni, Neri è abbreviatura di Rinieri.
21 Io son pronto.
22 Il Manni (pp. 420 sgg.) volle identificarlo con Piero di Fiorenzino Dini ma senza sicura documentazione (anzi la cronologia
tenderebbe a farlo adulto solo nella seconda metà del Trecento); e
un Piero di Fiorentino, abitante in Borgo San Michele Bertelde
(non lontano da Sant Maria Maggiore), figurerebbe nei Protocolli
di Ser Bellondo Rossi da Colonnata, al 1316 (ma di tali Protocolli
non v’è traccia nell’Archivio fiorentino). Alcuni Fiorentini furono
agenti dei Bardi in Francia (SAPORI, Studi cit., p. 479).
23 di cui, con la solita soppressione della preposizione.
24 pieno di discernimento, di saviezza: Proemio, 3 n.; V 3,3 n.
25 argomentazione: cfr. Inf., XI 33: “udirai con aperta ragione”.
26 Come? Che dici?
Letteratura italiana Einaudi 870
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
12
13
14
15
16
gione, che non che tu27, ma costui che il nega, dirà che
io dica il vero. Voi sapete che, quanto gli uomini sono
più antichi, più son gentili, e così si diceva pur testé tra
costoro; e i Baronci son più antichi che niuno altro
uomo, sì che son più gentili; e come essi sien più antichi
mostrandovi28, senza dubbio io avrò vinta la quistione.
Voi dovete sapere che i Baronci furon fatti da Domenedio al tempo che egli avea cominciato d’apparare29 a dipignere; ma gli altri uomini furon fatti poscia che Domenedio seppe dipignere. E che io dica di questo il
vero, ponete mente a’ 30 Baronci e agli altri uomini:
dove31 voi tutti gli altri vedrete co’ visi ben composti e
debitamente proporzionati, potrete vedere i Baronci
qual col viso molto lungo e stretto, e quale averlo oltre
ad ogni convenevolezza largo, e tal v’è col naso molto
lungo, e tale l’ha corto, e alcuno col mento in fuori e in
su rivolto, e con mascelloni che paiono d’asino; ed evvi
tale che ha l’uno occhio più grosso che l’altro, e ancora
chi l’un più giù che l’altro, sì come sogliono esser i visi
che fanno da prima i fanciulli che apparano a disegnare.
Per che, come già dissi, assai bene appare che Domenedio gli fece quando apparava a dipignere; sì che essi
sono più antichi che gli altri, e così32 più gentili».
Della qual cosa, e Piero che era il giudice, e Neri
che aveva messa la cena, e ciascun altro ricordandosi, e
avendo il piacevole argomento dello Scalza udito, tutti
cominciarono a ridere e affermare che lo Scalza aveva la
ragione, e che egli aveva vinta la cena, e che per certo i
Baronci erano i più gentili uomini e i più antichi33 che
28
e col dimostrarvi che, e se vi dimostrerò che.
imparare: I 4,21 n.
E per convincervi che io dico la verità attorno a questa questione, osservate bene i...: II 5,11 n.
31 con valore avversativo.
32 e per questo, e di conseguenza.
33 Altra serie di quattro endecasillabi (ma interrotta da vinta),
quasi a riecheggiare i ritmi burleschi dell’affermazione iniziale di
Michele (6), ripresa anche nelle ultime parole di questo periodo.
29
30
Letteratura italiana Einaudi
871
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
fossero, non che in Firenze, ma nel mondo o in maremma.
17
E perciò meritamente Panfilo, volendo la turpitudine del viso di messer Forese mostrare, disse che stato
sarebbe sozzo ad un de’Baronci.
Letteratura italiana Einaudi 872
NOVELLA SETTIMA
1
Madonna Filippa dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta sé libera e
fa lo statuto1 modificare2.
2
Già si tacea la Fiammetta, e ciascun rideva ancora
del nuovo argomento dallo Scalza usato a nobilitare
sopra ogn’altro i Baronci, quando la reina ingiunse a Filostrato che novellasse; ed egli a dir cominciò:
– Valorose donne, bella cosa è in ogni parte3 saper
ben parlare, ma io la reputo bellissima quivi saperlo fare
dove4 la necessità il richiede. Il che sì ben seppe fare una
gentil donna, della quale intendo di ragionarvi, che non
solamente festa e riso porse agli uditori, ma sé de’lacci di
vituperosa morte disviluppò, come voi udirete.
Nella terra5 di Prato fu già uno statuto, nel vero non
men biasimevole che aspro, il quale, senza niuna distinzion fare, comandava che così fosse arsa quella donna
che dal marito fosse con alcuno suo amante trovata in
adulterio, come quella che per denari con qualunque
altro uomo stata trovata fosse. E durante questo
statuto6 avvenne che una gentil donna e bella e oltre ad
3
4
5
1
la legge.
Nessun antecedente neppure per questa novella: a meno
che si volesse credere in qualche modo anteriore «l’aspra legge di
Scozia» narrata dall’Ariosto (Orlando Furioso, IV 59: e cfr. P.
RAJNA, Le fonti dell’Orlando Furioso, Firenze 19002, pp. 154
sgg.), ben consona alla fantastica vicenda dal B. ambientata a
Prato e dal Casa citata come storica (XIX). Ma per precedenti di
alcune massime e situazioni giuridiche Cfr. K. PENNINGTON,
A note to D. 6-7, in “Speculum”, LII, 1977.
3
in ogni luogo e quindi in ogni circostanza, in ogni occasione.
4
particolarmente saperlo fare quando o se.
5
città, paese: II 2,22 n.
6
mentre era in vigore questa legge: costruzione alla latina: IX
4,14 n.
2
Letteratura italiana Einaudi
873
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
6
7
8
ogn’altra innamorata, il cui nome fu madonna Filippa,
fu trovata nella sua propria camera una notte da Rinaldo de’ Pugliesi7 suo marito nelle braccia di Lazzarino
de’Guazzagliotri8, nobile giovane e bello di quella terra,
il quale ella quanto sé medesima amava9, ed era da lui
amata. La qual cosa Rinaldo vedendo, turbato forte, appena del correr loro addosso e di uccidergli si ritenne10;
e se non fosse che di sé medesimo dubitava11, seguitando l’impeto della sua ira, l’avrebbe fatto. Rattemperatosi12 adunque da questo, non si potè temperar da voler
quello dello statuto pratese, che a lui non era licito di
fare13, cioè la morte della sua donna.
E per ciò avendo al fallo della donna provare14 assai
7
La famiglia Pugliesi fu una delle più note nella Prato di
quei secoli (ebbe vari gonfalonieri): ma non v’è traccia in essa né
di un Rinaldo né di una Filippa. Per varie notizie e per l’albero genealogico cfr. D. M. MANNI, Sigilli antichi, Firenze 1749, II VI;
[C. Guasti], Bibliografia pratese, Prato 1844, pp. 58, 118, 159, 292;
R. NUTI, Inventario dell’Archivio antico [del comune di Prato],
Prato 1939, pp. 22, 4,, 43; e anche G. Villani, XI 122 e XII 2.
8
Potentissima fu pure in Prato la famiglia Guazzagliotri (o
Guazzalotri, Guazzalotti, Guizzaliotri), di cui ancora resta il grandioso Palazzo (cfr. G. Villani, XI 122 e XII 2; C. Guasti, pp. 90 e
153; R. Nuti, pp. 22, 110, 205; molte notizie nella Miscellanea 8
dell’Archivio Comunale di Prato). Il nome Lazzarino o Zarino appare assai usato nella famiglia: si ha notizia nella prima metà del
Trecento di un Zarino di Jacopo, e di vari altri Zarini o Lazzarini
più tardi (Delizie degli eruditi toscani, XVI pp. 208 e 212; cod.
Magliabechiano XXVI 146, c. 242). Tradizionale e famosa era
l’inimicizia fra Pugliesi e Guazzalotri: questi ebbero parte principale nella cacciata dei Pugliesi nel 1342 (G. Villani, loc. cit.; R.
Noti, pp. 22 e 41 sgg.).
9
“Messer Giovanni mio, tu hai tagliato lo scilinguagnolo”
(M.). Espressioni non peregrine nel D.: IV 6,22 n.; e cfr. anche qui
17.
10 si trattenne appena dal ...
11 temeva (Intr., 55 n.) per se stesso, probabilmente le conseguenze giudiziarie.
12 Trattenutosi, Moderatosi: III 3,26: «io avrei fatto il diavolo;
ma pure mi seri rattemperata».
13 Iperbato da ordinarsi: dal volere dello statuto quello che non
era lecito di fare a lui (Fanfani).
Letteratura italiana Einaudi 874
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
convenevole testimonianza, come il dì fu venuto, senza
altro consiglio prendere15, accusata la donna, la fece ri9
chiedere16. La donna, che di gran cuore era, sì come generalmente esser soglion quelle che innamorate son da
dovero17, ancora che sconsigliata da molti suoi amici e
parenti ne fosse, del tutto dispose18 di comparire e di
voler più tosto, la verità confessando, con forte animo
morire, che, vilmente fuggendo, per contumacia in essilio vivere e negarsi degna19 di così fatto amante come
10 colui era nelle cui braccia era stata la notte passata. E
assai bene accompagnata di donne e d’uomini, da tutti
confortata al negare, davanti al podestà venuta, domandò con fermo20 viso e con salda voce quello che egli
11 a lei domandasse. Il podestà, riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli molto, e, secondo che le sue parole testimoniavano, di grande
animo, cominciò di lei ad aver compassione, dubitando
non ella confessasse cosa per la quale a lui convenisse21,
volendo il suo onor22 servare, farla morire.
12
Ma pur, non potendo cessare23 di domandarla di
14
Altro iperbato, alla latina: a provare il fallo della donna.
senza pensarvi oltre: quasi una formula: II 8,23 n.
16 citare, chiamare in tribunale: VIII 2,14: «m’ha fatto richiedere per una comparigione»; Sacchetti, LXIII: «fa richiedere
Giotto».
17 «Nota» (M.): l’espressione è ripresa a par. II («di grande
animo»).
18 deliberò, decise: non riflessivo, come alla II 7,12 n.
19 dichiararsi, mostrarsi non degna, alla latina: vedi usi simili
alla I 1,13: «Invitato a uno omicidio ..., senza negarlo mai, v’andava» e alla IV 4,21 n.
20 impassibile: II 9,50 n.
21 egli fosse costretto.
22 la sua dignità, il suo dovere di magistrato: come nella X 8,99
di un altro magistrato si dice: «non potendo con suo onore ritrarsi
da far quello che comandavan le leggi...».
23 evitare (I 3,1 n.); o ritrarsi, come è detto in un caso molto
simile, nella citazione della n. precedente; e cfr. VI concl., 13: «voi
vi cessaste da queste ciance ragionare».
15
Letteratura italiana Einaudi
875
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
quello che apposto l’era24, le disse: « Madonna, come
voi vedete, qui è Rinaldo vostro marito, e duolsi25 di
voi, la quale egli dice che ha con altro uomo trovata in
adulterio; e per ciò domanda che io, secondo che uno
statuto che ci26 è vuole, faccendovi morire di ciò vi punisca; ma ciò far non posso, se voi nol confessate, e per
ciò guardate bene quello che voi rispondete, e ditemi se
vero è quello di che vostro marito v’accusa».
13
La donna, senza sbigottire punto, con voce assai
piacevole rispose: «Messere, egli è vero che Rinaldo è
mio marito, e che egli questa notte passata mi trovò
nelle braccia di Lazzarino, nelle quali io sono, per
buono e per perfetto amore27 che io gli porto, molte
volte stata; né questo negherei mai; ma come io son
certa che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte
14 con consentimento di coloro a cui toccano28. Le quali
cose di questa29 non avvengono, ché essa solamente le
donne tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli
uomini potrebbero a molti sodisfare30; e oltre a questo,
non che alcuna donna, quando fatta fu, ci prestasse
consentimento, ma niuna ce ne fu mai chiamata31; per
24
di quello che le era rinfacciato, di cui era accusata: III 7,26 n.
si querela: II 2,17 n., ma qui con più specifico valore giuridico, come per es. nella XXXIV del Sacchetti.
26 qui, a Prato: come c’era in altre città (PENNINGTON, art.
cit.).
27 Espressione della tradizione lirica e cavalleresca già ricorsa
nel D. (III 5,21 n.): e cui danno rilievo i quattro endecasillabi di
seguito che avviano l’inizio baldanzoso della parlata di Madonna
Filippa (L a d o n n a ... n o t t e ).
28 le leggi debbono essere uguali per tutti e fatte col consentimento di quella data classe di persone cui esse riguardano: per
modo che questa legge riguardante le donne doveva esser fatta col
consentimento di esse (Fanfani). La massima era corrente: cfr.
PENNINGTON, art. cit.
29 per questa, a proposito di questa.
30 Concetto più volte affermato dal B. (III I,37 n.) e che qui è
al centro dello scioglimento felice della novella.
31 ma nessuna fu mai invitata a dare il suo consentimento, la
sua approvazione a tale legge (Ageno).
25
Letteratura italiana Einaudi 876
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
le quali cose meritamente malvagia si può chiamare. E
se voi volete, in pregiudicio32 del mio corpo e della vostra anima, esser di quella essecutore, a voi sta; ma,
avanti che ad alcuna cosa giudicar procediate, vi prego
che una piccola grazia mi facciate, cioè che voi il mio
marito domandiate se io ogni volta e quante volte a lui
piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera copia o no».
16
A che Rinaldo, senza aspettare che il podestà il domandasse, prestamente rispose che senza alcun dubbio
la donna ad ogni sua richiesta gli aveva di sé ogni suo
piacer conceduto.
17
«Adunque,» seguì prestamente la donna «domando
io voi, messer podestà, se egli ha sempre di me preso
quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare
o debbo di quel che gli avanza33? Debbolo io gittare ai
cani 34? Non è egli molto meglio servirne un gentile
uomo che più che sé m’ama35, che lasciarlo perdere o
guastare36?»
18
Eran quivi a così fatta essaminazione37, e di tanta38 e
sì famosa donna, quasi tutti i pratesi concorsi, li quali,
udendo così piacevol risposta, subitamente, dopo molte
risa, quasi ad una voce tutti gridarono la donna aver ra15
32
con danno.
rimane d’avanzo, sovrabbonda: intransitivamente e con dativo di interesse: cfr. II 3,11 n.
34 Cfr. Matteo 7.6: «Nolíte dare sanctum canibus»: e del resto
con «sanctum» e «sacrum» si alludeva correntemente al corpo
femminile: cfr. PENNINGTON, art. cit.
35 Una formula assai usata, con diverse varianti, dal B.: cfr.
qui 5 n.
36 «Monna Filippa, tu hai ragione, che tristo faccia Dio chi vi
puose la vergogna, però che il danno è molto piccolo» (M.).
37 interrogatorio: termine tecnico: cfr. Ottimo Commento a
Inf., XVI 126: «quando il giudice per la legge costrigne a giurare
sopra alcuna essaminazione».
38 «L’indeterminato ne accresce il valore semantico» (Marti).
33
Letteratura italiana Einaudi
877
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
gione e dir bene; e prima che di quivi si partissono, a
ciò confortandogli il podestà, modificarono il crudele
statuto e lasciarono che egli39 s’intendesse solamente
per quelle donne le quali per denari a’lor mariti facesser
19 fallo. Per la qual cosa Rinaldo, rimaso di così matta impresa confuso, si partì dal giudicio; e la donna lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne
tornò gloriosa. –
39
Cioè questo statuto.
Letteratura italiana Einaudi 878
NOVELLA OTTAVA
1
Fresco conforta la nepote che non si specchi, se gli spiacevoli,
come diceva, l’erano a veder noiosi1.
2
La novella da Filostrato2 raccontata prima con un
poco di vergogna punse li cuori delle donne ascoltanti,
e con onesto rossore né lor visi apparito ne dieder
segno; e poi, l’una l’altra guardando, appena del ridere
potendosi astenere, sogghignando3 quella ascoltarono.
Ma poi che esso alla fine ne fu venuto, la reina, ad Emilia voltatasi, che ella seguitasse le ‘mpose. La quale, non
altrimenti che se da dormir si levasse, soffiando4 incominciò:
– Vaghe giovani, per ciò che un lungo pensiero
molto di qui m’ha tenuta gran pezza lontana5, per ubbi-
3
4
1
Neppure di questa novella è stato trovato antecedente alcuno. È opportuno soltanto ricordare l’arguta insistenza del B. contro le donne «cascanti di vezzi». Era già stata accennata nelle
opere giovanili (per es. Filostrato, VIII 30-31: «Giovane donna ...
sua bellezza | Estima più ch’allo specchio, e pomposa | Ha vanagloria di sua giovinezza ... | E molte ancor perché d’alto lignaggio |
Discese sono, e sanno annoverare | Gli avoli lor, si credon che
vantaggio | Deggiano aver dall’altre nell’amare | E pensan che costume sia oltraggio, | Torcere il naso, e dispettose andare» ecc.);
troverà poi il più ampio sfogo nel Corbaccio (vedi nelle note seguenti alcuni rimandi particolari). Si ricordi che lo specchio nella
simbologia medievale era l’emblema della verità (cfr. H. BAYLEY, The lost language, London 1951): e cfr. 10 n.
2
Tutto questo primo periodo ripete quasi alla lettera l’impressione e l’imbarazzo creato da un’altra novella maliziosa raccontata da Dioneo: I 5,2 e n.
3
sorridendo, ridendo mezzo di nascosto: I 5,2 n.
4
sospirando: IX 5,12: «altro che soffiar non facea»; Amorosa
Visione, XXVI 14; e più sotto, 7.
5
«Particolare insolito: Emilia è assorta in un pensiero lontano e, la novella settima ce lo dice, ardente» (Momigliano). Per
gran pezza lungo tempo cfr. II 5,28 n.
Letteratura italiana Einaudi
879
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
5
6
dire alla nostra reina, forse con molto minor novella6,
che fatto non avrei se qui l’animo avessi avuto, mi passerò7, lo sciocco error d’una giovane raccontandovi,
con un piacevol motto corretto da un suo zio, se8 ella
da tanto stata fosse che inteso l’avesse.
Uno adunque, che si chiamò Fresco da Celatico,
aveva una sua nepote chiamata per vezzi9 Cesca10, la
quale, ancora che bella persona avesse e viso (non però
di quegli angelici che già molte volte vedemo), sé da
tanto e sì nobile reputava, che per costume aveva preso
di biasimare e uomini e donne e ciascuna cosa che ella
vedeva, senza avere alcun riguardo a sé medesima, la
quale era tanto più spiacevole, sazievole11 e stizzosa che
alcuna altra, che a sua guisa12 niuna cosa si poteva fare;
e tanto, oltre a tutto questo, era altiera, che se stata
fosse de’reali di Francia sarebbe stato soperchio13. E
6
Di fatti è questa, dopo la I 9, la più breve novella del D.
mi sbrigherò: cfr. per esempi simili Intr., 41 n.; IV 5,7 n.
8
Dipende da corretto.
9
Cioè con vezzeggiativo.
10 Il Manni (p. 669) specialmente su appunti comunicatigli da
Francesco di Gherardo Frescobaldi, volle identificare i due protagonisti della novella in Francesco di Lamberto (che sarebbe qui
detto da Celatico per alcuni possedimenti in un luogo del Valdarno fiorentino così chiamato), e nella figlia di suo fratello Guido,
Francesca, poi moglie di Diedo dei Maineri, vissuta tra la seconda
metà del Duecento e i primi del Trecento. Ma a parte che per noi
è impossibile verificare i documenti citati dal Manni, resta assai
problematico il valore da lui dato a quel da Celatico. Da Celatico
sono chiamati per es. anche i Ciampoli (cod. Magliabechiano
XXV 591, c. 95; vendita nel 1252 a Ponte a Signa da «Rainerius et
Davitius Ciampoli de Celatico»).
11 stucchevole, fastidiosa: frequente è l’accoppiamento dei due
aggettivi: VII 6,6: «spiacevole uomo e sazievole»; VIII 4,7. E per
queste rime e assonanze in simili serie di aggettivi qualificativi cfr.
VI 10,17 n.
12 a suo modo, in modo che fosse contenta.
13 Corbaccio, 376: «ed è tanta la sua vanagloria e la pompa ...
che in verità a quelli di Baviera o a’ Reali di Francia o a qualunque
7
Letteratura italiana Einaudi 880
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
quando ella andava per via sì forte le veniva del cencio14, che altro che torcere il muso non faceva, quasi
puzzo le venisse di chiunque vedesse o scontrasse
Ora, lasciando stare molti altri suoi modi spiacevoli
7
e rincrescevoli15, avvenne un giorno che, essendosi ella
in casa tornata là dove Fresco era, e tutta piena di
smancerie postaglisi presso a sedere, altro non faceva
che soffiare; laonde Fresco domandando le disse:
«Cesca, che vuol dir questo che, essendo oggi festa, tu
te ne sé così tosto tornata in casa?»
Al quale ella tutta cascante di vezzi rispose: «Egli è
8
il vero che io me ne sono venuta tosto, per ciò che io
non credo che mai in questa terra16 fossero e uomini e
femine tanto spiacevoli e rincrescevoli quanto sono
oggi, e non ne passa per via uno che non mi spiaccia
come la mala ventura; e io non credo che sia al mondo
femina a cui più sia noioso il vedere gli spiacevoli che è
a me, e per non vedergli così tosto me ne son venuta».
9
Alla qual Fresco, a cui li modi fecciosi17 della nepote dispiacevan fieramente, disse: «Figliuola, se così ti dispiaccion gli spiacevoli, come tu dì, se tu vuoi viver
lieta, non ti specchiare giammai».
10
Ma ella, più che una canna vana18 e a cui di senno
altri… sarebbe soperchio». L’espressione era quasi proverbiale:
cfr. F. AGENO, Reali di Francia, duchi di Baviera, paladini nella
fraseologia proverbiale, in “Lingua Nostra”, XX, 1959. Soperchio
è usato avverbialmente.
14 Mostrava sì forte disgusto come sentisse odore di cencio bruciaticcio. L’espressione non comune è costruita dall’uso particolare
di venire di cui alla V 10,36 n. e sull’abitudine di andar a prendere
il fuoco con un cencio (cfr. V 10,17 n.)
15 Cfr. VIII 4,7 n.: a stessa coppia di aggettivi più sotto, 8.
16 città, paese: II 2,22 n.
17 fastidiosi, disgustosi, ma con particolare veemenza: Sacchetti, LXXXVI: «i modi fecciosi della moglie d’Ugolino».
18 vuota. Forse la frase riecheggia Matteo 11.7; ma a parte
quanto il B. dice di Madonna Lisetta, quasi la stessa frase usò il
Sacchetti per le fiorentine in genere («più vane d’una zucca»:
Letteratura italiana Einaudi
881
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
pareva pareggiar Salamone, non altramenti che un
montone19 avrebbe fatto, intese il vero motto di Fresco;
anzi disse che ella si voleva specchiar come l’altre. E
così nella sua grossezza20 si rimase e ancor vi si sta. –
CXCVI: e cfr. qui IV 2,20 n.). Per il proverbiale accenno seguente
a Salomone cfr. Amorosa Visione, VIII 3 e comm., anche per la
forma con assimilazione, corrente allora.
19 Cioè un animale stupido: II 3,37 n.; V 1,23 n.
20 scempiaggine, stupidità. La novella potrebbe in qualche
modo essere l’ironizzazione del grande mito medievale di Eros
allo specchio e della stessa favola di Narciso (cfr. BAYLEY, op.
cit.; G. AGAMBEN, Stanze, Torino 1977, pp. 84 sgg.).
Letteratura italiana Einaudi 882
NOVELLA NONA
1
Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a
certi cavalier fiorentini li quali soprapreso l’aveano1.
2
Sentendo la reina che Emilia della sua novella s’era
diliberata2 e che ad altri non restava a dir che a lei, se
non a colui che per privilegio aveva il dir da sezzo3, così
a dir cominciò:
– Quantunque, leggiadre donne, oggi mi sieno da
voi state tolte da due in su4 delle novelle delle quali io
m’avea pensato di doverne una dire, nondimeno me n’è
3
1
l’avevano sorpreso (II 2,16). Il motto che sta al centro di
questa novella è attribuito dal Petrarca a Dino da Firenze (il grande medico Dino del Garbo?) nei Rerum memorandarum (II 60),
anteriori al D. (1343-45). Il Parodi (La miscredenza di Guido Cavalcanti ecc., in “Bull. Soc. Dantesca”, n. s., XXII, 1915, pp. 37
sgg.) ne ha sottilmente collegato l’origine a un passo dei notissimi
Dialogi di san Gregorio (IV 3) in cui il diacono Pietro presenta
obiezioni all’immortalità dell’anima: passo ripreso probabilmente
da Salimbene per aneddoti sull’incredulità di Federico II, che
hanno qualche punto di contatto con la narrazione del B. (Cronica
ed. cit., p. 512: «Erat enim Epycurus, et ideo quicquid poterat ínvenire in divina Scriptura per se et per sapientes suos, quod faccret ad ostendendum quod non esset alia vita post mortem, totum
inveniebat ut ... illud Sepulchra eorum domus illorum in eternum»
[Ps. XLVIII 121]). Il motto, derivato probabilmente da questa
singolare interpretazione della frase del salmo XLVIII, doveva
correre fra quelli più popolari del tempo («... que apud nos vulgo
etiam nota sunt ...» scrive il Petrarca). E fu attribuito, rielaborato,
a Guido Cavalcanti dal B., forse per l’immagine sdegnosa e stizzosa che egli si era fatta dell’“amico primo” di Dante e per la presenza nella sua fantasia del X dell’Inferno (cfr. più sotto 9 nn.; evidentemente, ripetendo questa novella, l’aneddoto è narrato da Benvenuto da Imola commentando Purg., XI 97); mentre – forse derivando dalle stesse fonti – è assegnato a Jacopone nella Vita anonima pubblicata in “Zeitschr. f. Rom. Philol.”, II, 1878, p. 29.
2
sbrigata, disimpegnata: IV 7,2.
3
da ultimo: cfr. I 1,19 n.
4
più che due novelle: IX 6,19.
Letteratura italiana Einaudi
883
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4
5
6
pure una rimasa da raccontare, nella conclusione della
quale si contiene un sì fatto motto, che forse non ci se
n’è alcuno di tanto sentimento5 contato.
Dovete adunque sapere che né tempi passati furono
nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle
quali oggi niuna ve n’è rimasa, mercé6 dell’avarizia che
in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l’ha
discacciate7. Tra le quali n’era una cotale, che in diversi
luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportar potessono
acconciamente8 le spese, e oggi l’uno, doman l’altro, e
così per ordine tutti mettevan tavola9, ciascuno il suo
dì, a tutta la brigata; e in quella spesse volte onoravano
e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e
ancora de’cittadini; e similmente si vestivano insieme10
5
di tanta sapienza, di tanto senno, cioè così profondo: cfr. VI
5,4 n. e Esposizioni, IV litt. 264: «Furono le sue risposte di mirabile sentimento».
6
grazie ironico, o a cagione, per colpa, come in Dante, Rime,
LXXIII 8: cfr. BARBI, Problemi di critica dantesca, Il, p. 91. Per
questo nostalgico rimpianto del “buon tempo antico” vedi I 8,7
sgg.; I 9,3 sgg.; VI 1,3 sgg. ecc. Il motivo della decadenza di Firenze qui additato era già stato proclamato da Dante (Inf., VI 74 sg.,
XVI 73 sgg.; Par., XV).
7
L’avarizia e la sfrenata cupidigia sono costantemente indicate nel D. come le cause della decadenza e della rovina della società contemporanea (cfr. per es. Intr., 8 e 25; I 8; III 5; VI 3; VIII
1; X 8, 112: e cfr. Esposizioni, VII all. 58; Consolatoria passim; e V.
BRANCA, B. medievale, pp. 160 sgg.).
8
potessero sopportare (III I,41 n.) comodamente, senza disagio.
9
offrivano convito: IX 9,13: «spendo il mio in metter tavola e
onorare i miei cittadini»; G. Villani, VII 89.
10 l’uno in compagnia dell’altro cioè nello stesso modo: uso simile a quello di c o n a indicare non compagnia ma somiglianza
(VII 7,38 n.), come alla X 9,31: «io ho delle robe il mio signore vestito con voi»: cfr. G. Villani, X 191: «pedoni toscani ... vestiti insieme» e qui IV 9,5 per uso simile.
Letteratura italiana Einaudi 884
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
7
almeno una volta l’anno, e insieme i dì più notabili11cavalcavano per la città, e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta
novella di vittoria o d’altro fosse venuta nella città12.
Tra le quali brigate n’era una di messer Betto Brunelleschi13, nella quale messer Betto è compagni s’eran
molto ingegnati14 di tirare Guido di messer Cavalcante
11 Cioè i giorni di festa, le festività, come quelle di calendimaggio e di San Giovanni.
12 Di queste usanze signorili parlano anche Boncompagno da
Signa (Cedrus), Dante (Inf., XXIX I 30 sgg.; e forse Vita Nuova,
III), Dino Compagni (I 20), il Sacchetti (CCX), Folgore nei suoi
sonetti, il Morelli ecc. Scrive il Villani: «si fece nella contrada di
Santa Felicita oltrarno [nel 1283] ... una compagnia e brigate di
mille uomini o più, tutti vestiti di robe bianche con uno signore
detto dell’Amore. Per la qual brigata non s’intendea se non in
giuochi e in sollazzi e in balli di donne e di cavalieri e d’altri popolani, andando per la terra con trombe e diversi stormenti in gioia e
allegrezza, e stando in conviti insieme ... alla quale vennero di diverse parti e paesi molti gentili uomini ...»; e più avanti scrive che
dopo la vittoria a Campaldino: «si faceano le brigate e compagnie
di gentili giovani vestiti di nuovo ... con gli strumenti e colle ghirlande di fiori in capo, stando in giuochi e in allegrezze, e in desinari e cene» (VII 89 e 132; e anche X 126 ecc.). E il B. altrove: «Nel
tempo nel quale la dolcezza del cielo riveste de’ suoi ornamenti la
terra ... era usanza della nostra città, e degli uomini e delle donne,
nelle loro contrade ciascuno in distinte compagnie festeggiare»
(Trattatello, I 30).
13 Di famiglia già ghibellina, per un breve periodo guelfo
bianco e amico del Cavalcanti e di Dante che gli indirizzò un sonetto (XCIX), divenne, dopo gli avvenimenti del 1301, uno dei
capi dei guelfi neri. Geloso di Corso Donati, contribuì alla sua
fine; nel 1311 fu ucciso a tradimento da due giovani dei Donati.
«Fu ricco di molte possessioni e d’avere; fu in grande infamia del
popolo ... molto era aoperato in ambascerie, perché era buono
oratore ...» Così il Compagni tracciandone un fosco ritratto (III
39, e 7, 19, 37 sgg. e anche II 23,26; G. Villani, VIII 120, IX 12: e
cfr. per molte notizie le note del Del Lungo nell’ed. cit. del Compagni ai luoghi indicati). B e t t o è ipocoristico di Brunetto.
14 Un altro caso di forma invariata del participio nei verbi
composti.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
8
9
de’Cavalcanti15, e non senza cagione: per ciò che, oltre
a quello che egli fu un de’migliori loici che avesse il
mondo e ottimo filosofo naturale 16 (delle quali cose
poco la brigata curava), sì fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto17, e ogni cosa che far volle e
a gentile uom pertenente, seppe meglio che altro uom
fare; e con questo18 era ricchissimo, e a chiedere a lingua19 sapeva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse20. Ma a messer Betto non era mai potuto venir
15 Del «primo amico» di Dante, già ricordato esemplarmente
accanto a lui e a Cino (IV intr., 33 n.), il B. nelle Esposizioni delinea un profilo molto simile a questo: «uomo costumatissimo e
ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio
che alcun altro nostro cittadino: e, oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo» (X 62 e cfr. anche X 92). La
fama popolana di gentilezza e bizzarria – consolidata dal sonetto
di Guido Orlandi (Amico io saccio), dal Compagni (I 20: «cortese
e ardito ma sdegnoso e solitario e intento allo studio») e dal Villani (VIII 42: «filosofo, virtudioso uomo in più cose, se non ch’era
troppo tenero e stizzoso») – è elevata da questa novella del B. in
una nuova atmosfera di ammirazione e di simpatia. Di qui discenderanno subito dopo le presentazioni del Sacchetti (LXVIII), di
vari commentatori danteschi e specialmente di Benvenuto (a proposito di Inf., X 52 sgg.) e di Filippo Villani nel Liber de origine civitatis Florentie ecc. (vedile raccolte con varie altre da G. MANETTI, Operette istoricbe, Firenze 1887): e di qui probabilmente
si allargò anche la fama della miscredenza o irreligiosità del Cavalcanti (E. G. PARODI, art. cit.; M. BARBI, Dante, Firenze 1952,
pp. 221 sgg.).
16 uno dei migliori filosofi speculativi ... e ottimo studioso di
scienze. Anche di Dante il B. scrive che fu: «meraviglioso loico» e
che «prese altissimi principi nella filosofia naturale» (Esposizioni,
accessus 30-32).
17 uomo molto facondo: VI 3,9 n.
18 e oltre a questo.
19 quanto si può desiderare. «Vuol dire: chiedere non solo ciò
che è convenevole o sperabile d’ottenere, ma tutto ciò che la lingua può pronunciare, ossia tutto ciò che viene alla bocca». Così il
Fornaciari che porta esempi del Lasca e del Caro.
20 gli sembrava che lo meritasse: e per la frase stereotipata cfr.
I 1,44 n.
Letteratura italiana Einaudi 886
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
fatto21 d’averlo, e credeva egli co’ suoi compagni che
ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva; e per ciò che
egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri22, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni
eran solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non
fosse.
10
Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito
d’Orto San Michele e venutosene per lo Corso degli
Adimari infino a San Giovanni23, il quale spesse volte
era suo cammino24, essendo arche25 grandi di marmo,
che oggi sono in Santa Reparata26, e molte altre dintorno a San Giovanni, ed egli essendo tra le colonne del
porfido27 che vi sono e quelle arche e la porta di San
21
non era mai riuscito.
Cioè di quelli «che l’anima col corpo morta fanno» (Inf., X
15), e che erano genericamente detti seguaci d’Epicuro, come
chiarisce il B. stesso nelle Esposizioni (X 9 sgg.; e cfr. G. Villani,
IV 30). Cfr. anche PARODI e BARBI, opp. citt.; e A. FAGGI, Democrito che il mondo a caso pone, in “Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino”, LXXIV, 1938 soprattutto per l’equivalenza allora
di epicureismo e ateismo.
23 I Cavalcanti avevano le loro case fra Por Santa Maria e Orsanrnichele (così chiamato dalla Chiesa di San Michele in Orto,
già distrutta ai primi del Trecento). Quindi Guido, movendo dal
celebre edificio (in origine granaio e poi anche chiesa) per la parte
alta della odierna via Calzaiuoli (corso Adimari) sarebbe giunto al
Battistero.
24 Cioè era il suo percorso abituale.
25 sarcofaghi, sepolture (I 1,87): questa scenografia e questa
presentazione risalgono forse al paesaggio infernale delle “arche”
in cui Dante pone gli “epicurei” e Cavalcante (Inf., IX 125).
26 La chiesa che stava dove Arnolfo di Cambio fece sorgere
Santa Maria del Fiore. Quelle “arche”, secondo la tradizione popolare, sarebbero appartenute alle famiglie dei primi abitatori di
Firenze. Rimosse nel 1296, sono ora in piccola parte nel cortile di
Palazzo Medici-Riccardi e attorno al Battistero e nel Museo
dell’Opera del Duomo.
27 Le colonne ancor oggi fiancheggianti le «porte del Paradi22
Letteratura italiana Einaudi
887
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
Giovanni28, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata,
11 veggendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: «Andiamo a dargli briga 29 »; e spronati i cavalli a guisa
d’uno assalto sollazzevole30 gli furono, quasi prima che
egli se ne avvedesse, sopra, e cominciarongli a dire:
«Guido tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco,
quando tu arai trovato che Iddio non sia, che avrai
fatto?»
12
A’quali Guido, da lor veggendosi chiuso31, prestamente disse: «Signori32, voi mi potete dire a casa vostra
ciò che vi piace » ; e posta la mano sopra una di quelle
arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo33 era, prese un salto e fussi gittato34 dall’altra parte,
e sviluppatosi35 da loro se n’andò.
13
Costoro rimaser tutti guatando l’un l’altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato36 e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò
so» (poste allora fra Battistero e Duomo); erano state donate nel
1117 ai Fiorentini, in ringraziamento dell’aiuto avuto contro i
Lucchesi, dai Pisani (che a lor volta le avevano prese a Maiorca:
Testi fiorentini, p. 95; G. Villani, IV 31 Esposizioni, XV 48 sgg.).
Per l’uso dell’articolo cfr. I 1,87 n.
28 Firenze era ancora chiusa dal “secondo cerchio”, essendosi
iniziati appena nel 1284 i lavori per il terzo.
29 dargli noia, in senso scherzoso («a guisa d’uno assalto sollazzevole»): III 3,30.
30 scherzoso: e cfr. VI 4,20 n. e V 5,9 n.
31 circondato: cfr. X 2,7.
32 «S i g n o r i dice, non messeri, perché questo è titolo generico, e quello invece indica effettiva autorità e dominio, come di padroni di casa, in quel luogo» (Zingarelli).
33 agilissimo.
34 Per questo particolare uso del trapassato remoto a indicare
effetto istantaneo cfr. II 5,58 n.; e anche F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, p. 300. E per f u s i cfr. IV 10,13 n.
35 liberatosi, districatosi.
36 balordo, stordito: II 10,31; VII 6,3 n.
Letteratura italiana Einaudi 888
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a far
più che tutti gli altri cittadini, né Guido meno che alcun
di loro.
14
Alli quali messer Betto rivolto disse: «Gli smemorati
siete voi, se voi non l’avete inteso. Egli ci ha detta onestamente 37 in poche parole la maggior villania del
mondo; per ciò che, se voi riguardate bene, queste
arche sono le case de’ morti38, per ciò che in esse si
pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che sono
nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti39 e non litterati siamo, a comparazion di lui e degli
altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per
ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra».
15
Allora ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi né mai più gli diedero briga, e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente40 cavaliere. –
37
con bel garbo, elegantemente, convenientemente: Intr.,7 n.
incolti, ignoranti: I 2,9 n .: si appone al seguente altri uomini scienziati.
39 Proprio sulle guardie di un suo autografo, il Riccardiano
1232 contenente suo Buccolicum carmen, il B. noterà, nel suo
greco approssimativo e in caratteri latini, la sentenza Antropos
agramatos fyton acarpon cioè l’uomo illetterato [è] pianta senza
frutto: affermazione, simile a questa, di una convinzione fatta ragion di vita. Riecheggia qui probabilmente anche il dantesco:
«Questi sciaurati, che mai non fur vivi» (Inf., III 64); e forse dalla
«Vita di Alberto Magno il suo motto in difesa del morto discepolo
san Tommaso, con cui qualificò per morti, di fronte alla luce
dell’Aquinate, suoi avversari» (Fornaciari).
40 acuto, intelligente: I 7,27 n. Per tutto lo svolgimento, la topografia e l’interpretazione della novella, cfr. P. WATSON, On
seeing Guido Cavalcanti and the houses of the dead, in “Studi sul
B.”, XVIII, 1989.
38
Letteratura italiana Einaudi
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NOVELLA DECIMA
1
Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell’agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo1.
2
Essendo ciascuno della brigata della sua novella riuscito2, conobbe Dioneo che a lui toccava il dover dire;
per la qual cosa, senza troppo solenne comandamento
1
Nessun vero antecedente di questa novella. Si sono citate
tuttavia varie redazioni e variazioni di un racconto orientale in cui
degli ambasciatori, portando in dono a un re cassette di gioielli e
trovandole piene o di cenere o di capelli o di terra, sanno prontamente far credere che si tratti di oggetti o di materia miracolosa
(cfr. Pantschatantra ... aus dem Sanscrit übersetzt ... von Th. Benfey, Leipzig 1859, 1, pp. 408 sgg.; Cukasaptati aus dem Sanscrit
übersetzt von R. Schmidt, Stuttgart 1899, LII; Talmud, Synedrion
109a: cfr. Landau, p. 92). Ma certo antecedenti più diretti e interessanti, e seppure non precisi, può offrire l’ampia letteratura medievale sugli abusi delle reliquie: famoso è quello che, a proposito
del braccio di santa Reparata, fu perpetrato proprio a Firenze nel
1352 (M. Villani, III 15 sgg.; Sacchetti, LX): e cfr. Salimbene, Cronica, I, pp. 108 sg., II, pp. 761 e specialmente 733 sgg.; Chaucer,
Canterbury Tales, A 668 sgg., C 329 sgg.; Etienne de Bourbon, op.
cit.; Fra Giordano da Pisa, Prediche, Firenze 1831, I, pp. 216 sgg.;
Sacchetti, LX e Lettere, XI; Erasmo, Ecclesiaste ecc.; e le ampie
documentazioni offerte su questo argomento da L. A. MURATORI, Dissertazioni sopra le antichità italiane Milano 1752, III, pp.
251 sgg.; da G. BOTTARI, Lezioni sopra il D., Firenze 1818, I, pp.
50 sgg. ecc.; da L. LALANNE, Curiosités des traditions des moeurs
et des légendes, Paris 1847, pp. 117 sgg.; da P. SAINTYVES, Les
reliques et les images légendaires, Paris 1912, che a p. 306 cita un
episodio simile a questa novella che sarebbe avvenuto in Germania. Per varie implicazioni popolari cfr. M. P. GIARDINI, Tradizioni popolari nel D., Firenze 1965, pp. 12 sgg. Per suggestioni
possibili dalla letteratura degli itinerari d’oltremare e dei mirabilia
cfr. M. PASTORE STOCCHI, Dioneo e l’orazione di Frate
Cipolla, in “Studi sul B.”, X, 1977-78.
2
sbrigato, come altrove s p e d i t o , d i l i b e r a t o .
Letteratura italiana Einaudi 890
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
4
5
aspettare, imposto silenzio a quegli che il sentito3 motto 3
di Guido lodavano, incominciò:
– Vezzose donne, quantunque io abbia per privilegio di poter di quel che più mi piace parlare, oggi io
non intendo di volere da quella materia separarmi della
qual voi tutte avete assai acconciamente parlato; ma, seguitando le vostre pedate4, intendo di mostrarvi quanto
cautamente con subito riparo5 uno de’ frati di santo
Antonio fuggisse uno scorno che da due giovani apparecchiato gli era. Né vi dovrà esser grave perché6 io, per
ben dir la novella compiuta, alquanto in parlar mi distenda, se al sol guarderete7 il qual è ancora a mezzo il
cielo.
Certaldo8, come voi forse avete potuto udire, è un
3
accorto, giudizioso: VII 9,74; «tu m’hai per sì poco sentita»;
e VI 9,3 n.; Fiore, CLXII II, CLXXX I.
4
orme, cioè il vostro esempio: cfr. VII 9,4 n.
5
con subitaneo rimedio.
6
Con valore concessivo data la proposizione Principale negativa (I 8,3 n.): Inf., XIII 56-57: «e voi non gravi i | Perch’io un
poco a ragionar m’inveschi».
7
Perché era ancor presto, data la brevità delle novelle narrate.
8
Il paese, com’è noto, della famiglia del B. Dopo averlo raffigurato nel Filocolo (III 33,11 sgg. e V 32 sgg.) e in questa novella
col distacco ironico e canzonatorio del cittadino raffinato, già nel
1352-53 il B. ricorda il borgo paterno con trepida commozione,
come un rifugio caro e desiderato (Epistole, VIII: «iam carius Certaldi cognomen est quam Florentie»: e cfr. H. COCHIN, Un
amico di F. Petrarca, Firenze 1901, pp. 7 sgg. e 59); e poi nel ’61,
ritiratosi a Certaldo: «qui ho cominciato ... a confortare la mia vita
... Vi dico che io mi crederrei qui, mortale come io sono, gustare e
sentire della etterna felicità» (Consolatoria, 80-81). E la tarda,
ampia menzione nel De fluminibus sembra coronare l’affetto– che
affiora in tutte le epistole di quegli anni – per quel tranquillo rifugio offerto alla sua vecchiaia: sono parole in cui si può forse scorgere un’eco di queste righe («Elsa fluvius est Tusciac ... a dextro
modico clatum tumulo Certaldum, vetus castellum linquit ... cuius
ego libens rnemoriam celebro, sedes quippe ci natale solum maiorum meorum fuit ...»)
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6
7
castel9 di Valdelsa posto nel nostro contado, il quale,
quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d’agiati fu
abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi trovava,
usò un lungo tempo d’andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi un de’ frati
di santo Antonio10, il cui nome era frate Cipolla11, forse
non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi
volontieri, con ciò sia cosa che quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana12. Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e
il miglior brigante13 del mondo: e oltre a questo, niuna
9
borgo (Intr., 43): invece a par. 14 si riferisce alla parte alta
del borgo dove si elevava il castello.
10 «Nota» (M.). Anche Dante si scaglia particolarmente contro i frati di sant’Antonio come ciurmatori senza scrupoli (Par.,
XXIX 124 sgg.: «Di questo ingrassa il porco sant’Antonio ...»). Il
Bottari (pp. 63 sgg.) parla a lungo delle imprese di questi questuanti che profittavano indegnamente della credulità dei più semplici, tanto che nel 1240 Gregorio IX inflisse pene gravi proprio ai
monaci antoniani di Vienne – casa principale dell’Ordine – e bollò
le loro imposture scrivendo ai vescovi lionesi. Gli antoniani fornirono così a poco a poco alla nostra novellistica il, tipo del frate più
avido e ingannatore (cfr. per es. Sacchetti, CX; Masuccio Salernitano, XVIII).
11 Nome probabilmente analogico suggerito da quanto è
detto nelle righe seguenti: ma è, ad ogni modo, nome toscano (il
MANNI, Veglie piacevoli, I, p. 19 cita Uberto di Cipolla ricordato
in documenti del 1321). È la prima nota di quegli elementi di linguaggio allusivo o equivoco o espressionistico o antifrastico e di
quei riferimenti bilicati fra storia e fantasia sui quali sarà tessuta
tutta la novella.
12 Nel Plinio del Petrarca (cod. Parigino lat. 6802, C. 153v) il
B. annotò le notizie sulle varie qualità di cipolle con la chiesa
scherzosa: «Nondum certaldenses erant» (P. DE NOLHAC, Pétrarque et l’humanisme, Paris 1907, 11, p. 81), e nel Corbaccio si fa
beffare come certaldese dalla malvagia vedova con le parole:
«Torni a sarchiar le cipolle e lasci star le gentildonne!» (459). Anzi
lo stemma di Certaldo portava e porta una cipolla.
13 compagnone: cioè a chi faceva parte di una brigata, di una
compagnia: Sacchetti, LXIV; Morelli, Ricordi, p. 288; e cfr. qui 13
e 16, brigata.
Letteratura italiana Einaudi 892
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scienzia avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che
chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran rettorico14 l’avrebbe stimato, ma avrebbe detto esser Tulio
medesimo o forse Quintiliano15: e quasi di tutti quegli
della contrada era compare16 o amico o benivogliente17.
8
Il quale, secondo la sua usanza, del mese d’agosto
tra l’altre v’andò una volta, e una domenica mattina, essendo tutti i buoni uomini e le femine delle ville da
torno venuti alla messa nella calonica18, quando tempo
9
gli parve, fattosi innanzi disse: «Signori e donne19, come
voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno à poveri del baron20 messer santo Antonio del vostro grano
e delle vostre biade, chi poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua, acciò ché il beato santo Antonio
vi sia guardia de’ buoi e degli asini e de’ porci e delle
10 pecore vostre21; e oltre a ciò solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra compagnia22 scritti sono,
14 oratore, maestro d’eloquenza: G. Villani, IX 136: «rettorico
perfetto».
15 Cicerone stesso o forse Quintiliano: anche per il B. rappresentavano modelli insuperabili di oratoria e retorica. Ma Quintiliano, benché appaia nella libreria di Lapo da Castiglionchio, è citato dal B. solo dopo il 1351 (BILLANOVICH, Petrarca letterato
cit., pp. 94 e I56 sgg.; A. MAZZA, L’inventario della “parva libraria”, in “Italia Medioevale e Umanistica”, IX, 1966, pp. 50 sgg.).
16 Propriamente chi è legato da un vincolo spirituale, essendo
stato padrino di battesimo o di cresima o testimone a nozze: ma si
usava anche a indicare parentela non stretta o grande familiarità.
17 benevolo riferendosi agli inferiori: Tesoro volg., II 24. E
sotto: del mese, «arcaico nelle forme articolate» (Contini).
18 canonica, cioè la chiesa parrocchiale.
19 Appellativo di rispetto, invece di signore usato solo in seguito (V 7,10 n.): e cfr. 37.
20 Titolo d’onore che si usava premettere anche ai nomi di
santi: Par., XXIV 115 e XXV 17: e cfr. IV 3,19, e qui II e 44.
21 Sant’Antonio, fondatore del monachesimo nel secolo III,
era ed è venerato come preservatone del bestiame dai morbi, e per
questo è rappresentato con un porco ai piedi (che alcuni dicono
simbolo di un’incarnazione del diavolo tentatore).
22 confraternita cui si pagava una quota (debito).
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11
12
13
14
quel poco debito che ogni anno si paga una volta. Alle
quali cose ricogliere23 io sono dal mio maggiore24, cioè
da messer l’abate, stato mandato, e per ciò, con la benedizion di Dio, dopo nona25, quando udirete sonare le
campanelle, verrete qui di fuori della chiesa là dove io
al modo usato vi farò la predicazione, e bacerete la
croce; e oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del barone messer santo Antonio, di spezial grazia26
vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la quale io
medesimo già recai dalle sante terre d’oltremare: e questa è una delle penne dell’agnol Gabriello, la quale nella
camera della Vergine Maria rimase quando egli la venne
ad annunziare27 in Nazarette». E questo detto, si tacque
e ritornossi alla messa.
Erano, quando frate Cipolla queste cose diceva, tra
gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto, chiamato l’uno Giovanni del Bragoniera e l’altro Biagio Pizzini28 li quali, poi che alquanto tra sé ebbero riso della
reliquia di frate Cipolla, ancora che molto fossero suoi
amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di29 questa penna alcuna beffa. E avendo saputo che frate Cipolla la mattina desinava nel castello30 con un suo
23
riscuotere, ritirare: VII 2,28 n.
superiore, come più innanzi al 48: e cfr. V 3,34 n.
Dopo le tre pomeridiane, circa, a vespro: e per la frase seguente cfr. 31 n.
26 per grazia, per concessione speciale.
27 «E così ella è l’Annunziata, passandosi dall’idea originaria
di dare a lei l’annunzio a quello di onorarla e santificarla con l’annunzio» (Zingarelli).
28 Sono nomi di famiglie allora esistenti a Certaldo: anzi i Pizzini possedevano proprio case e terreni confinanti coi Boccaccio, e
Biagio Pizzini era buon amico del padre del B., se fu suo mallevadore in un affare nel 1336. Per tutte queste e altre notizie: D.
TORDI, Attorno a G. B. ecc., Orvieto 1923, pp., 9 sgg.
29 a cagione di, a proposito di: Il 7,64 n.; V 3,16 n.
30 Cioè nella parte alta del paese, sul colle, dov’era ed è ancora
il Palazzo comunale e dove erano le case dei Boccaccio.
24
25
Letteratura italiana Einaudi 894
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
amico, come a tavola il sentirono così se ne scesero alla
strada31 e all’albergo dove il frate era smontato se n’andarono con questo proponimento: che Biagio dovesse
tenere a parole32 il fante di frate Cipolla e Giovanni dovesse tralle cose del frate cercare di questa penna, chente33 che ella si fosse, e torgliele, per vedere come egli di
questo fatto poi dovesse al popol dire.
15
Aveva frate Cipolla un suo fante, il quale alcuni
chiamavano Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e
chi gli diceva Guccio Porco34: il quale era tanto cattivo35, che egli non è vero che mai Lippo Topo36 ne fa31 Scesero cioè dalla parte alta del paese (dov’era la calonica e
dove avevano ascoltato la messa e le parole di Frate Cipolla) sulla
strada maestra, dove evidentemente era l’albergo.
32 intrattenere, tenere occupato con discorsi: V 7,27.
33 quale, quale mai: Intr., 55 n.
34 Su questo tipo bizzarro – già ricordato nella IV 7,24 n. – il
Manni raccolse molte notizie più o meno sicure (Veglie piacevoli,
I, pp. 11 sgg.). Guccio Aghinetti o Guccio Porcellana o frate Porcellana o Porcelloni figura in vari documenti, tra il 1318 e il 1335,
abitante proprio nel quartiere stesso dei Boccaccio: poiché era custode dello Spedale di San Filippo (nella parrocchia di San Paolo),
ebbe, benché ammogliato, il titolo di “frate” tradizionale per chi
faceva servizio negli ospedali. Il Manni lo identifica anche – su elementi molto incerti – con un Guccio Imbratta di cui trovò notizie
verso il 1305. Così avrebbe documentato due dei tre appellativi
registrati dal B. (Porco per similitudine di voce da Porcellana o
Porcellone rientra negli usi più correnti del tempo: BARBI, Problemi cit., II, p. 92); mentre il terzo, Balena, deriverebbe dalla corporatura enorme descritta in seguito.
35 inetto, dappoco: I 9,1 n. e II 2,14 n.
36 Proverbiale personaggio, probabilmente di fantasia (ma
Lippo era comune per Filippo), cui si attribuivano varie stranezze
e facezie, fra cui un testamento con enormi lasciti; richiesto chi
avrebbe potuto esserne l’esecutore egli avrebbe risposto: “Qui sta
il punto”, Vedi per esempio L. DOMENICHI, Facezie e motti,
Venezia 1584, p. 273; e cfr. F. AGENO, Nomignoli e personaggi
immaginari, in “Lingua Nostra”, XIX, 1958; G. HERCZEG, I
Cosiddetti ‘nomi parlanti’ nel D., in “Atti e Memorie del VII Congresso Internazionale di Scienze onomastiche”, Firenze 1963. Secondo L. Lazzerini (Lippo Topo, in “Lingua Nostra”, XXXII,
Letteratura italiana Einaudi
895
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
cesse alcun cotanto37. Di cui spesse volte frate Cipolla
era usato di motteggiare con la sua brigata e di dire: «Il
fante mio ha in sé nove cose tali che, se qualunque è
l’una di quelle fosse in Salamone o in Aristotile o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù, ogni lor
senno, ogni lor santità38. Pensate adunque che uom dee
essere egli, nel quale né vertù né senno né santità alcuna
17 è, avendone nove!»: e essendo alcuna volta domandato
quali fossero queste nove cose 39, ed egli, avendole in
rima messe, rispondeva: «Dirolvi: egli è tardo,
sugliardo40 e bugiardo; negligente, disubidente e maldicente; trascutato41, smemorato e scostumato42; senza
che egli ha alcune altre taccherelle43 con queste, che si
18 taccion per lo migliore. E quel che sommamente è da
16
1971), sarebbe un “nome fantasma” e l’espressione del B. deriverebbe da quanto anche san Bernardino scriveva di lui: «habebat
enim pro solatio facere suos familiares desides et ita tristes ...»
(Opera, Venezia 1591, IV, pp. 168 sgg.).
37 altrettanto “cattivo”: cfr. n. 7.
38 I tre sostantivi erano quasi emblema di saggezza (vertú), di
acutezza di pensiero (senno), di sensibilità morale (santità): e
come tali li aveva consacrati il B. stesso nell’Amorosa Visione (VIII
3, IV 42, IV 77 e comm.). Insistenti i ritmi e le formule ternarie in
tutto il discorso di frate Cipolla.
39 Come altre volte in ripresa dopo la frase gerundiale: ecco
che.
40 sudicio, sporco (fr. souillard, Prov. Solhart: da solium: REW
8074).
41 negligente, che non pensa a nulla (provenzale trascujat: cfr.
Intr., 65 n., VI 2,1 n.
42 È questa la più famosa delle sequenze di aggettivi rimati o
assonanzati - spesso, come qui, sulla regola del tre e del nove - care
alla prosa del B. Basti vedere per es. qui 21 e 35; e III 8,65 n.; IV
intr., 4; IV 2,10; VI 8,5 n.; VIII 3,53; Corbaccio, 185: «... quanto
questa perversa moltitudine sia golosa, ritrosa, ambiziosa, invidiosa, accidiosa e delira, né quanto ella nel farsi servire sia imperiosa,
noiosa, vezzosa, stomacosa e importuna».
43 macchioline e quindi difettucci (da “tecca”: cfr. per es. Avventuroso Ciciliano, III 13: «e quattro generali tecche non dee
avere il cavaliere»).
Letteratura italiana Einaudi 896
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
rider de’ fatti suoi è che egli in ogni luogo vuol pigliar
moglie44 e tor casa a pigione; e avendo la barba grande
e nera e unta45, gli par sì forte46 esser bello e piacevole,
che egli s’avisa che quante femine il veggano tutte di lui
s’innamorino, ed essendo lasciato, a tutte andrebbe die19 tro perdendo la coreggia47. È il vero che egli m’è d’un
grande aiuto, per ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che egli non voglia la sua parte udire; e se avviene che io d’alcuna cosa sia domandato, ha sì gran
paura che io non sappia rispondere, che prestamente risponde egli e sì e no, come giudica si convenga».
20
A costui, lasciandolo all’albergo, aveva frate Cipolla
comandato che ben guardasse che alcuna persona non
toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce, per
21 ciò che in quelle erano le cose sacre. Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di stare in cucina che sopra
i verdi rami l’usignolo48, e massimamente se fante vi
sentiva niuna49, avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di
poppe che parean due ceston da letame e con un viso
che parea de’ Baronci50, tutta sudata, unta e affumicata,
44 Secondo i documenti citati, Guccio risulta già ammogliato
nel 1331 e quindi l’episodio sarebbe anteriore.
45 «Come il Cerbero dantesco, che ha ‘la barba unta ed atra’:
Inf., VI 16» (Scherillo); e come il ruffiano di Madonna Fiordaliso
(II 5,52).
46 tanto (francese fort).
47 se lo si lasciasse fare andrebbe dietro a tutte, farebbe il cascamorto con tutte, tanto che non si accorgerebbe di perdere la cintura:
cioè non smetterebbe neppure se gli cascassero i pantaloni.
48 Il tono idillicamente canzonatorio è sottolineato dai due
endecasillabi di seguito.
49 se si accorgeva che ci fosse qualche serva.
50 Cfr. VI 6,3 n.: e VI 5,4 n. Ritratto di Nuta canzonatorio
nelle due sedi aggettivi e nell’intrecciarsi di endecasillabi e settenari. L’allusione avicolo-erotica proposta dal Marucci su testi del
’500 (Guccio Imbratta e l’usignolo, in “Filologia e Critica”, II,
1977) non è convincente.
Letteratura italiana Einaudi
897
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
non altramenti che si gitti l’avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in
22 abbandono, là si calò; e ancora che d’agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere, cominciò con costei, che
Nuta51 aveva nome, a entrare in parole e dirle che egli
era gentile uomo per procuratore52 e che egli aveva
de’fiorini più di millantanove53, senza quegli che egli
aveva a dare altrui, che erano anzi più che meno, e che
egli sapeva tante cose fare e dire, che domine pure un23 quanche 54 . E senza riguardare a un suo cappuccio
sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il
calderon d’Altopascio55, e a un suo farsetto rotto e ripezzato56 e intorno al collo e sotto le ditella57 smaltato
di sucidume, con più macchie e di più colori che mai
drappi fossero tartereschi o indiani58, e alle sue scarpet-
51
Ipocoristico di Benvenuta.
come procuratore «Espressione furbesca, per dire e non
dire: chi agisce con un mandato di procura, fruisce di un titolo legale che non appartiene alla sua persona» (Massera). Così anche il
Sacchetti, LXIII, chiama «gentiluomo per procuratore» «un grossolano artefice».
53 M i l l a n t a è formazione giocosa, indeterminata (VIII
3,15), cui l’aggiunta del nove vorrebbe dare il senso di una scrupolosa precisione: secondo il linguaggio che Guccio ha imparato
da Frate Cipolla, e che insiste pure nella frase seguente che cancella in realtà questa millantata ricchezza.
54 che mai saprebbe fare e dire altrettanto il suo padrone (altri:
il Signore). Per u n q u a n c h e mai: Purg., IV 76.
55 «Era spropositato perché i monaci di quella badia [la Magione degli Ospitalieri] vi facevano minestra per le limosine universali due volte la settimana: e passò in proverbio» (Fanfani).
56 rattoppato.
57 ascelle: Intr., 10 n.
58 Inf., XVII 16 sg.: «Con più color, sommesse e sovraposte |
Non fer mai drappi tartari né turchi»: e il B., nelle ultime righe
delle sue Esposizioni: tartari e turchi «di ciò sono ottimi maestri, sì
come noi possiamo manifestamente vedere ne’ drappi tartareschi,
li quali veramente sono sì artificiosamente tessuti, che non è alcun
dipintore che col pennello gli sapesse fare simiglianti» (XVII 8).
52
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27
te tutte rotte e alle calze sdrucite, le disse, quasi stato
fosse il siri di Castiglione59, che rivestir la voleva e rimetterla in arnese60, e trarla di quella cattività61 di star
con altrui e senza gran possession d’avere62 ridurla in
isperanza di miglior fortuna e altre cose assai: le quali
quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte in
vento convertite, come le più delle sue imprese facevano, tornarono in niente.
Trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intorno alla Nuta occupato; della qual cosa contenti, per
ciò che mezza la lor fatica era cessata63, non contradicendolo alcuno64 nella camera di frate Cipolla, la quale
aperta trovarono, entrati, la prima cosa che venne65 lor
presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la penna;
la quale aperta, trovarono in un gran viluppo di zendado66 fasciata una piccola cassettina; la quale aperta, trovarono67 in essa una penna di quelle della coda d’un
pappagallo, la quale avvisarono dovere esser quella che
egli promessa avea di mostrare a’ certaldesi. E certo egli
il poteva a quei tempi leggiermente far credere, per ciò
che ancora non erano le morbidezze68 d’Egitto, se non
59 «Il titolo di s i r i ci fa pensare ai Châtillons della Francia,
perché anche il Villani quando parla di feudatari francesi scrive
siri» (Zingarelli). La frase vale cioè: come se fosse un gran signore,
ed è usata anche dal Casa (Galateo, XIII).
60 rimetterla in sesto: cfr. I 7,18; II 9,43 n.
61 schiavitù, prigionia, miseria: II 6,33 n. e I 8,7 n.
62 grandi ricchezze, grandi beni. «Sintagma dantesco, tanto più
comico perché ‘l’antica possession d’avere’ entra nella definizione
federiciana della nobiltà (canzone Le dolci rime)» (Contini).
63 scansata, evitata: I 3,1 n.
64 non impedendolo, non opponendovisi alcuno: II 7,12 n.; IV
3,24 n.
65 Cfr. II 5,70 n.
66 un gran involto di drappo di seta: III 7,89 n.
67 È la terza volta che in poche righe si ripete questa locuzione: e del resto tutto il periodo è espressionisticamente caratterizzato da riprese e ripetizioni continue (trovarono… la quale ecc.).
68 mollezze, raffinatezze (III 10,3 n.): e con E g i t t o ci si riferi-
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
in piccola quantità, trapassate in Toscana, come poi in
grandissima copia con disfacimento69 di tutta Italia son
trapassate:
e dove che elle poco conosciute fossero70, in
28
quella contrada quasi in niente erano da gli abitanti sapute; anzi, durandovi ancora la rozza onestà degli antichi, non che veduti avessero pappagalli ma di gran
lunga la maggior parte71 mai uditi non gli avean ricor29 dare. Contenti adunque i giovani d’aver la penna trovata, quella tolsero e, per non lasciare la cassetta vota, vedendo carboni in un canto della camera, di quegli la
cassetta empierono; e richiusala e ogni cosa racconcia72
come trovata avevano, senza essere stati veduti, lieti se
ne vennero con la penna e cominciarono a aspettare
quello che frate Cipolla, in luogo della penna trovando
carboni, dovesse dire.
30
Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa
erano, udendo che veder dovevano la penna dell’agnol
Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono a
casa; e dettolo l’un vicino all’altro e l’una comare
all’altra, come desinato ebbero ogni uomo73, tanti uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena
vi capeano, con desiderio aspettando di veder questa
sce in generale all’Oriente. Queste parole ricordano quelle di Cacciaguida: «Non v’era giunto ancor Sardanapalo …» (Par., XV 107
sgg.), quantunque, riferendosi a età diverse e distanti, siano contraddittorie.
69 rovina.
70 se mai altrove erano poco conosciute. D o v e che ha non solo
il valore di in qualunque luogo ma anche, come qui, di se in alcun
luogo: cfr. per es. Filocolo, II 28,7: «la gran festa della vostra natività s’oppressa; e dove ch’ella si faccia grandissima, sì si fa ella qui
in Marmorina». Forse qui il B. esagera: basti pensare alla precisa
descrizione che dei pappagalli fa Brunetto Latini (Trésor, I 168).
71 la parte di gran lunga maggiore, la massima parte.
72 risistemata: con la solita forma abbreviata del participio
forte: cfr. VI 4,6 n.
73 ognuno: e poiché vale tutti, era corrente accordarlo col plurale.
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35
penna. Frate Cipolla, avendo ben desinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la
moltitudine grande esser venuta di contadini per dovere
la penna vedere, mandò74 a Guccio Imbratta che lassù
con le campanelle75 venisse e recasse le sua bisacce. Il
quale, poi che con fatica dalla cucina e dalla Nuta si fu
divelto, con le cose addimandate con fatica lassù
n’andò: dove ansando giunto, per ciò che il ber
dell’acqua gli avea molto fatto crescere il corpo, per comandamento di frate Cipolla andatone in su la porta
della chiesa, forte incominciò le campanelle a sonare.
Dove, poi che tutto il popolo fu ragunato, frate Cipolla, senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse
stata mossa, cominciò la sua predica, e in acconcio de’
fatti suoi76 disse molte parole; e dovendo venire al mostrar della penna dell’agnol Gabriello, fatta prima con
grande solennità la confessione77, fece accender due
torchi78, e soavemente79 sviluppando il zendado, avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la cassetta ne trasse. E dette primieramente alcune parolette a laude e a
commendazione dell’agnolo Gabriello e della sua reliquia, la cassetta aperse. La quale come piena di carboni
vide, non sospicò80 che ciò che Guccio Balena gli avesse
fatto, per ciò che nol conosceva da tanto81, né il maladisse del male aver guardato che altri ciò non facesse,
ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la guardia delle
sue cose aveva commessa, conoscendol, come faceva,
74
mandò a dire, comandò: V 6,4 I.
Si suonavano all’esposizione delle reliquie, secondo le abitudini degli indulgenzieri fissate anche nel già citato passo di
Chaucer.
76 secondo richiedeva il caso, traendo profitto per il suo caso: I
7,11 n.
77 recitato ... il confiteor: cfr. VII 5,36 n.
78 Erano grossi ceri: cfr. I concl., 22 n.; II concl., 16.
79 delicatamente, adagio adagio: VI 2,28 n.
80 sospettò: IV 3,29 n.
75
Letteratura italiana Einaudi
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negligente, disubidente, trascurato e smemorato82. Ma
non per tanto, senza mutar colore, alzato il viso e le
mani al cielo, disse sì che da tutti fu udito: «O Idio, lodata sia sempre la tua potenzia!»
Poi richiusa la cassetta e al popolo rivolto disse: «Si37
gnori e donne, voi dovete sapere che, essendo io ancora
molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in
quelle parti dove apparisce il sole83, e fummi commesso
con espresso comandamento che io cercassi tanto che
io trovassi i privilegi del Porcellana84, li quali, ancora
che a bollar niente costassero, molto più utili sono a al38 trui che a noi. Per la qual cosa messom’io cammino, di
Vinegia partendomi e andandomene per lo Borgo de’
Greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e
36
81
capace di tanto: Proemio, 3 n.
Ripresa voluta dal par. 17.
dove si vede il sole, cioè allude a un luogo qualsiasi: ma il
tono enfatico della frase fa cadere facilmente, come vuole Frate
Cipolla, nell’equivoco di intendere dove sorge il sole, cioè in
Oriente. È il primo tocco o meglio, l’apertura del grande discorso
tutto appuntato e modulato su un linguaggio prestigioso e funambolesco, caricaturale e grottesco, anfibologico e antifrastico; e in
questa pazza girandola semantica e oratoria le cose più semplici
suonano meravigliose e straordinarie. Così per es. le determinazioni geografiche che si riferiscono in gran parte a Firenze attraversata da est a ovest: P o r c e l l a n a era via e spedale presso il già ricordato San Paolino, V i n e g i a e B o r g o d e i G r e c i sono contrade fra Piazza della Signoria e Santa Croce, G a r b o era l’attuale
via Condotta, B a l d a c c a una strada presso Orsanmichele (i due
nomi fanno pensare a luoghi lontani ma reali: il reame del Garbo
della II 7, e la città di Baldack in Arabia, o quella di Bagdad), P a r i o n e è la via da Santa Trinita alla Carraia, S a r d i g n a una piaggia deserta fuori San Frediano, S a n G i o r g i o contrada presso la
Dogana e anche località Oltrarno (oltre che il Bosforo, come si soleva indicare con b r a c c i o d i S a n G i o r g i o ). Cfr. anche in
generale G. HERCZEG, I cosiddetti ‘nomi parlanti’ cit.; PASTORE STOCCHI, art. cit.
84 A parte la determinazione topografica di cui sopra, la frase
può alludere furbescamente a Guccio forse chiamato anche, come
abbiamo detto, Porcellana.
82
83
Letteratura italiana Einaudi 902
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per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza
sete, dopo alquanto per venni in Sardigna. Ma perché vi
vo io tutti i paesi cerchi85 da me divisando86? Io capitai,
passato il Braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia,
paesi molto abitati e con gran popoli87; e di quindi pervenni in terra di Menzogna88, dove molti de’ nostri frati
e d’altre religioni89 trovai assai, li quali tutti il disagio
andavan per l’amor di Dio schifando, poco dell’altrui
fatiche curandosi, dove la loro utilità vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo che senza conio90 per
40 quei paesi: e quindi passai in terra d’Abruzzi91, dove gli
uomini e le femine vanno in zoccoli su pe’ monti92, rive39
85 cercati, visitati: uno dei frequenti participi accorciati o aggettivi verbali per cui cfr. II 7,89 n. (e qui a par. 52 tocco).
86 indicando, descrivendo: I 7,27 n. E per la struttura della interrogazione retorica cfr. I 1,15 n.
87 Cioè nei paesi dei truffatori e dei beffatori o dei buffoni: il
Petronio ricorda espressioni simili del Dittamondo, II 20 e specie
del Sacchetti, Rime, CCLXVI.
88 Il senso ironico e satirico di questo paese è reso evidente
dalle righe seguenti: «pare una regione per la somiglianza con
Borgogna e la medievale Sansogna» (Zingarelli).
89 ordini religiosi.
90 Proprio parlando dei frati di sant’Antonio e delle loro grossolane mistificazioni Dante aveva scritto nel già citato Par., XXIX
124 sgg.: «Di questo ingrassa il porco sant’Antonio, | E altri assai
che sono ancor più porci, | Pagando di moneta sanza conio», cioè
di false indulgenze, mentre qui si allude probabilmente, in senso
più generico, a chiacchiere; e cfr. Concl., 22 ecc.
91 Regione nominata anche nella VIII 3,9 sgg. a indicare lontananza favolosa e proprio, come in questo passo, accanto alla
“terra dei baschi”, qui equivocamente ridotti a b a c h i (41: non
sembra possibile pensare a Baschi, il borgo medievale in provincia
di Terni): e cfr. anche Guinizzelli, Chi vedesse a Lucia, v. 3.
92 Probabilmente la frase ha valore equivoco sodomitico (cfr.
V 10,9 n.); come la seguente i l p a n n e l l e m a z z e : cfr. G. A.
LEVI, Sconcezze quattrocentesche nel Trecento, in “La Nuova Italia”, IV, 1933: e per l’uso di questi viaggi e di questa topografico
equivoca, testimoniata ancora nel Machiavelli, cfr. D. GUERRI,
Da «gagno» d’Alighiero a Fra Timoteo, ivi, II, 1931.
Letteratura italiana Einaudi
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stendo i porci delle lor busecchie medesime93; e poco 42
più là trovai gente che portano il pan nelle mazze e ‘l
vin nelle sacca94: da’ quali alle montagne de’ bachi pervenni, dove tutte le acque corrono alla ’ngiù. E in brieve tanto andai adentro, che io pervenni mei95 infino in
India Pastinaca96, là dove io vi giuro, per l’abito che io
porto addosso che io vidi volare i pennati97, cosa incredibile a chi non gli avesse veduti; ma di ciò non mi lasci
mentire Maso del Saggio98, il quale gran mercatante io
trovai là, che schiacciava noci e vendeva gusci a rita43 glio99. Ma non potendo quello che io andava cercando
trovare, perciò che da indi in là si va per acqua, indietro
tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove l’anno
41
93
Cioè facendo i salami e le salsicce.
Cioè le ciambelle infilate su bastoni e il vino negli otri: ma
forse anche qui è allusione sessuale come vuole il Levi: e cfr. D.
GUERRI, La corrente popolare nel Rinascimento, Firenze 931, pp.
37 e 130.
95 meglio, quasi a rafforzare i n f i n o e a dire addirittura, proprio fino o anche oltre che fino .. Per la frequenza di questa forma
accorciata (da cui poi me’) cfr. VII 10,20 n.; Cino, S’io ismagato
sono, V. 32; Buonagiunta, Avegna che partenza; Testi fiorentini, p.
68 e Bembo, Prose, pp. 166 sgg.
96 Pastinaca è, com’è noto, una radice dolciastra: forse è usata
qui, come apposizione di India, per alludere alle spezie e ai dolciumi d’Oriente (Segre) o più probabilmente quasi a dire sciocchezza, fandonia, proprio come si usa con tale senso “carota” (la
stessa burlesca designazione geografica è nel Pataffio, III 11).
Questa frase e la seguente (42-43) possono forse, con allusività caricaturale, avvicinare Fra Cipolla e il suo favoloso viaggio a Alessandro Magno e alla sua vittoriosa marcia arrestatasi proprio in
India di fronte all’“acqua” (nello Zibaldone Laurenziano appare
proprio l’apocrifa Epistola Alexandri de situ et mirabilibus Indie:
Cfr. PASTORE STOCCHI, art. cit.).
97 Equivoco tra p e n n a t i coltellacci per potare e p e n n a t i o
pennuti, cioè gli uccelli.
98 Famoso burlone per cui cfr. VIII 3 e 4 e nn.
99 al minuto: cfr. Statuto Arte Calimala (T.): «vendita o compera di panni a ritaglio».
94
Letteratura italiana Einaudi 904
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
di state vi vale il pan freddo quattro denari, e il caldo100
v’è per niente. E quivi trovai il venerabile padre messer
Nonmiblasmete Sevoipiace101, degnissimo patriarca di
44 Ierusalem. Il quale, per reverenzia dell’abito che io ho
sempre portato del baron messer santo Antonio, volle
che io vedessi tutte le sante reliquie le quali egli appresso di sé aveva; e furon tante che, se io ve le volessi tutte
contare, io non ne verrei a capo in parecchie miglia, ma
pure, per non lasciarvi sconsolate102, ve ne dirò alquan45 te103. Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito
Santo così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto del
serafino che apparve a san Francesco, e una dell’unghie
de’ gherubini, e una delle coste del Verbum-caro-fattialle-finestre 104 e de’ vestimenti della santa Fé
catolica105, e alquanti de’ raggi della stella che apparve
a’ tre Magi in oriente e una ampolla del sudore di san
Michele quando combatté col diavole106, e la mascella
100 Altra anfibologia: tion, corre sembra, il pari caldo, ma il
caldo che l’estate non costa nulla.
101 Letteralmente non mi biasimate per favore. «Pare riduzione
del fr. Nemeblasmez Sevosplait (in forma antica), perché blasmete
è francese e fa pensare alla rima; e se voi piace è francese: detto in
questa lingua meno avrebbe dato sospetto agli uditori» (Zingarelli). Il nome è formato su quelli dei personaggi allegorici per es. nel
Roman de la Rose, nel Fiore, nel Tesoretto ecc.
102 scontente, deluse: è usato il femminile di cortesia, come
spesso quando ci si rivolge a un pubblico di uomini e di donne
(cfr. III intr., 4 n.).
103 Sulla serie di reliquie – tutte di esseri incorporei – buffonescamente ricordate in seguito, si possono vedere le citate pagine
del Bottari e del Manni: e sulla robusta e corposa fede e sete di reliquie nel Medioevo, l’op. cit. del Saintyves e J. HUIZINGA, Autunno del Medioevo, Firenze 1944, pp. 226 sgg.; P. DELEHAYE,
Les légendes bagiograpbiques, Bruxelles 19554.
104 Storpiatura buffonesca dalla frase “«Verbum caro factum
est» (Giov. I,14), ripetuta anche nell’Angelus, e cui è aggiunto
quel alle finestre per confondere e stordire gli ascoltatori.
105 Personificata corposamente in donna che veste panni.
106 Forma corrente (Rohlfs, 352).
Letteratura italiana Einaudi
905
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
46
della Morte di san Lazzero107 e altre. E per ciò che io liberamente gli feci copia delle piagge di Monte Morello
in volgare e d’alquanti capitoli del Caprezio108, li quali
egli lungamente era andati cercando, mi fece egli parte47 fice109 delle sue sante reliquie: e donommi uno de’ denti
della santa Croce110 e in una ampolletta alquanto del
suono delle campane del tempio di Salomone e la
penna dell’agnol Gabriello, della quale già detto v’ho, e
l’un de’ zoccoli di san Gherardo da Villamagna111 (il
quale io, non ha molto, a Firenze donai a Gherardo di
Bonsi112, il quale in lui ha grandissima divozione) e die107 È forse la più fantastica e surreale di queste reliquie: cioè la
mascella della Morte (immaginata, secondo le figurazioni correnti,
come uno scheletro femminile) che colpì Lazzaro, poi resuscitato
da Gesù. Ma cfr. DELEHAYF, op. cit., pp. 40 sgg.
108 Monte Morello è montagna a nord di Firenze e Caprezio è
nome inventato che allude anch’esso alla sodomia: si tratta di linguaggio e metafore gergali sessuali (così Monte Nero: VI intr., 8
n.; G. A. LEVI, art. cit.; G. Bruno, Candelaio, Bari 1927, p. 142 e
glossario; M. Franco, Sonetti, s. I., 1759, p. 17: «lascia i capretti e
piglia delle lepri»; Pistoia, Sonetti, Napoli 1908, p. 357: «questi
asini vestiti | Che disprezzali la carne della vacca | Per tor alle caprette i lor mariti»). Naturalmente g l i f e c i c o p i a lascia a bella
posta equivoca l’interpretazione fra donare e copiare (come sarebbe necessario intendere accettando le allusioni di Frate Cipolla a
Monte Morello e Caprezio come a libri; «far copia di sé» vale
anche, suggerisce il Segre, darsi a godere carnalmente): per p i a g g e pendii cfr. VI concl., 21 n.; Inf., I 29, II 62 ecc.
109 partecipe: III 1,33 n.
110 Frequenti erano reliquie di denti, ma ovviamente grottesco
riferirli alla Croce, con evidente equivoco forse sulle “braccia”
della croce.
111 San Gherardo di Villamagna (1174-1267) fu dei più antichi
francescani, forse accolto direttamente da san Francesco nell’Ordine: era rappresentato, per es. in Santa Croce, con gli zoccoli.
Anche il Sacchetti, CI: «magrissimo e pallido e andava onesto, che
parea San Gherardo da Villamagna» (cfr. anche Lettere, p. 101).
112 Gherardo di Bonsi era uno dei più autorevoli membri
dell’Arte della Lana, in rapporto d’affari coi Sassetti (Statuto
dell’Arte della Lana, Firenze 1940, pp. 199 sgg.: qui e nelle Matricole dell’Arte è nominato tra il 1317 e il 1332). Fu priore nel 1317
Letteratura italiana Einaudi 906
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
demi de’ carboni, co’ quali fu il beatissimo martire san
Lorenzo arrostito; le quali cose io tutte di qua113 con
48 meco divotamente le recai, e holle tutte. È il vero che il
mio maggiore non ha mai sofferto che io l’abbia mostrate114 infino a tanto che certificato non s’è se desse sono
o no115; ma ora che per certi miracoli fatti da esse e per
lettere ricevute dal Patriarca fatto n’è certo, m’ha conceduta licenzia che io le mostri; ma io, temendo di fi49 darle altrui, sempre le porto meco. Vera cosa è che io
porto la penna dell’agnol Gabriello, acciò che non si
guasti, in una cassetta e i carboni co’ quali fu arrostito
san Lorenzo in un’altra; le quali son sì simiglianti l’una
all’altra, che spesse volte mi vien presa l’una per l’altra,
e al presente m’è avvenuto; per ciò che, credendomi io
qui avere arrecata la cassetta dove era la penna, io ho
50 arrecata quella dove sono i carboni. Il quale116 io non
reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo che
volontà sia stata di Dio e che Egli stesso la cassetta
de’carboni ponesse nelle mie mani, ricordandom’io pur
testé117 che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì118.
(cod. Marucelliano C 45, c. I25); un suo figlio, Bianco, ebbe numerose e importanti cariche pubbliche (per es. più volte priore e
nel 1359 Gonfaloniere di giustizia). Egli era devoto a san Gherardo, di cui portava il nome, tanto che fondò l’ospedale di San Gherardo in via San Gallo (Manni, p. 671); alla famiglia – che abitava
lo stesso quartiere del B., Santo Spirito – appartenne il Beato Angelo Bonsi francescano (cod. Marucelliano cit.).
113 Cioè di qua dal mare, qui nei nostri paesi: cfr. X 9,76 n.
114 tollerato, permesso che le mostrassi, II 5,34 n.: «Si noti il
perfettivo: analogamente gli attuali dialetti meridionali sostituiscono il piuccheperfetto all’imperfetto congiuntivo» (Contini).
115 se sono proprio esse (II 5,10 n.) o no, cioè se sono autentiche o no, oppure se esse esistono davvero; con nuova e voluta ambiguità.
116 pronome riferito a errore, o neutro col valore di il che, la
qual cosa.
117 solo in questo momento, solo poco fa.
118 Si immagina dunque che l’episodio avvenga l’8 agosto. A
proposito della nuova reliquia inventata da frate Cipolla va ricor-
Letteratura italiana Einaudi
907
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
E per ciò, volendo Idio che io, col mostrarvi i carboni
co’ quali esso fu arrostito, raccenda nelle vostre anime
la divozione che in lui aver dovete, non la penna che io
voleva, ma i benedetti carboni spenti dall’omor119 di
52 quel santissimo corpo mi fe’ pigliare. E per ciò, figliuoli
benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente v’appresserete a vedergli. Ma prima voglio che voi sappiate
che chiunque da questi carboni in segno di croce è
tocco, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol
cocerà che non si senta120».
53
E poi che così detto ebbe, cantando una laude di
san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni; li
quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con
ammirazione reverentemente guardati, con grandissima
calca tutti s’appressarono a frate Cipolla e, migliori offerte dando che usati non erano, che con essi gli doves54 se toccare il pregava ciascuno. Per la qual cosa frate Ci51
data l’enorme Popolarità che - nel Medioevo e anche nelle età seguenti, specialmente nelle province meridionali - godette la credenza nel potere taumaturgico di carboni trovati sotterra il 10
agosto: sarebbero quelli bruciati sotto la graticola del martire. Per
questo vedi G. PANSA, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, Sulmona I924, I, pp. 277 sgg e anche J. G. FRAZER, The golden bough, XI 58.
119 umore, cioè grasso liquefatto o sangue.
120 Un’ultima frase dal suono equivocamente meraviglioso
(cioè: senza che egli non lo senta, non se ne accorga). Lo Zingarelli
e altri immaginano che Frate Cipolla mormori questa, e altre frasi
del suo discorso, a bassa voce, come divertendosi egli stesso a
smentirsi innanzi ai suoi uditori: ma è ipotesi non necessaria e
forse contraria alla prestigiosa costruzione del discorso affidata
tutta al suono meraviglioso, e non al senso logico, delle parole. Le
parodie di prediche, basate su allusioni e cenni equivoci, hanno
un’ampia e ricca tradizione nella letteratura popolare medievale e
moderna (Bolte-Polivka, III, pp. 116 sgg.; Thompson e Rotunda,
K 1961.1.2.1; F. LEHR, Die Parodisliscbe Predigt, Marburg 1907;
P. LEHMANN, Die Parodie in Mittelalter, München 1922). E qui
sono forse prese di mira anche le relazioni di viaggi devoti, così
amate in quel periodo, colle quali sono possibili precisi riscontri
(cfr. PASTORE STOCCHI, art. cit.).
Letteratura italiana Einaudi 908
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
polla, recatisi questi carboni in mano, sopra li lor camisciotti bianchi e sopra i farsetti121 e sopra li veli delle
donne cominciò a fare le maggior croci che vi capevano, affermando che tanto quanto essi scemavano a far
quelle croci, poi ricrescevano nella cassetta, sì come egli
molte volte aveva provato.
55
E in cotal guisa, non senza sua grandissima utilità
avendo tutti crociati i certaldesi, per presto accorgimento fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli la
penna, avevan creduto schernire. Li quali stati alla sua
predica e avendo udito il nuovo riparo122 preso da lui e
quanto da lungi fatto si fosse123 e con che parole, ave56 van tanto riso che eran creduti smascellare124. E poi che
partito si fu il vulgo, a lui andatisene, con la maggior
festa del mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono, e
appresso gli renderono la sua penna; la quale l’anno seguente gli valse non meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni. –
121 I c a m i s c i o n i «corrispondono alla blouse ancora tanto
usata dai contadini e dagli operai francesi» (Merkel); per f a r s e t
t i cfr. II 4,15 n.
122 rimedio: Amorosa Visione, XXXII 52.
123 come l’avesse presa alla lontana: «che è proprio l’accorgimento fondamentale del discorso» (Momigliano).
124 Cfr. II concl., 1 n.
Letteratura italiana Einaudi
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CONCLUSIONE
1
2
3
4
5
Questa novella porse igualmente a tutta la brigata
grandissimo piacere e sollazzo, e molto per tutti fu riso
di fra Cipolla e massimamente del suo pellegrinaggio e
delle reliquie così da lui vedute come recate. La quale la
reina sentendo esser finita, e similmente la sua signoria,
levata in piè, la corona si trasse e ridendo la mise in
capo a Dioneo, e disse: – Tempo è, Dioneo, che tu alquanto pruovi che carico sia l’aver donne a reggere e a
guidare; sii adunque re, e sì fattamente ne reggi, che del
tuo reggimento nella fine ci abbiamo a lodare.
Dioneo, presa la corona, ridendo rispose: – Assai
volte già ne potete aver veduti, io dico delli re da scacchi, troppo più cari1 che io non sono; e per certo, se voi
m’ubbidiste come vero re si dee ubbidire, io vi farei
goder di quello senza il che per certo niuna festa compiutamente è lieta. Ma lasciamo star queste parole: io
reggerò come io saprò. – E fattosi, secondo il costume
usato, venire il siniscalco, ciò che a fare avesse quanto
durasse la sua signoria ordinatamente gl’impose, e appresso disse: – Valorose donne, in diverse maniere ci s’è
della umana industria e de’ casi varii ragionato, tanto
che, se donna2 Licisca non fosse poco avanti qui venuta,
la quale con le sue parole m’ha trovata materia a’ futuri
ragionamenti di domane, io dubito che io non avessi
gran pezza penato a trovar tema da ragionare3. Ella,
come voi udiste, disse che vicina non avea che pulcella4
1
molto più preziosi: detto scherzosamente, poiché gli scacchi
potevano esser di materia preziosa, come l’avorio, e assai finemente lavorati.
2
Con rispetto caricaturato come nella VI 4,9 n.
3
dubito che avrei stentato, indugiato Molto tempo (II 5,28 n.)
a trovare il tema intorno a cui novellare.
4
vergine: VI intr., 10; II 7,1 n.
Letteratura italiana Einaudi 910
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
ne fosse andata a marito; e soggiunse che ben sapeva
quante e quali beffe le maritate ancora facessero à mariti. Ma, lasciando stare la prima parte, che è opera fan6
ciullesca, reputo che la seconda debbia essere piacevole
a ragionarne; e per ciò voglio che domane si dica, poi
che donna Licisca data ce n’ha cagione, delle beffe le
quali o per amore o per salvamento di loro le donne
hanno già fatte a’ lor mariti, senza essersene essi o avveduti o no5.
7
Il ragionare di sì fatta materia pareva ad alcuna delle
donne che male a loro si convenisse, e pregavanlo che
mutasse la proposta6 già detta; alle quali il re rispose: –
Donne, io conosco7 ciò che io ho imposto non meno
8
che facciate voi; e da imporlo non mi potè istorre8 quello che voi mi volete mostrare, pensando che il tempo è
tale che, guardandosi9 e gli uomini e le donne d’operar
9
disonestamente, ogni ragionare è conceduto. Or non sapete voi che, per la perversità di questa stagione10, gli
giudici hanno lasciati i tribunali; le leggi, così le divine
come le umane, tacciono; e ampia licenzia per conser10 var la vita è conceduta a ciascuno11? Per che, se alquanto s’allarga12 la vostra onestà nel favellare, non per dovere con le opere mai alcuna cosa sconcia seguire, ma
per dare diletto a voi e ad altrui, non veggo con che ar5
Cioè essendosene avveduti: VII intr., 1. Ma qui la prima o è
spostata, con posticipazione tuttavia corrente (l’ordine più regolare sarebbe «o senza essersene essi avveduti o ...»); e probabilmente la negazione finale sommandosi colla precedente produce una
doppia negativa, cioè una affermativa (o non senza che essi se ne
avvedessero cioè essendosene essi avveduti).
6
il tema proposto: I concl., 10 n.
7
valuto, mi rendo conto di.
8
distogliere, allontanare.
9
quando, se, sempre che evitino.
10 di questo tempo, di questo periodo di peste: cfr. Intr., 49 n.
11 Vedi per questi fatti Intr., 19 sgg., nn. e specie 23 n.
12 si rilassa, allenta i freni: cfr. Intr., 24: tutta la frase accenna
cioè al parlar largo di cui alla II 9,14 n.
Letteratura italiana Einaudi
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15
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17
gomento da concedere13 vi possa nello avvenire riprendere alcuno. Oltre a questo la nostra brigata, dal primo
dì infino a questa ora stata onestissima, per cosa che
detta ci si sia, non mi pare che in atto alcuno si sia maculata, né si maculerà collo aiuto di Dio. Appresso, chi
è colui che non conosca la vostra onestà? La quale non
che i ragionamenti sollazzevoli, ma il terrore della
morte non credo che potesse smagare14. E a dirvi il
vero, chi sapesse che voi vi cessaste15 da queste ciance
ragionare alcuna volta, forse suspicherebbe16 che voi in
ciò non foste colpevoli, e per ciò ragionare non ne voleste. Senza che voi mi fareste un bello onore, essendo io
stato ubbidente a tutti, e ora avendomi vostro re fatto,
mi voleste17 la legge porre in mano, e di quello non dire
che io avessi imposto. Lasciate adunque questa suspizione18 più atta à cattivi animi che a’ vostri19, e con la
buona ventura pensi ciascuna di dirla bella. – Quando
le donne ebbero udito questo, dissero che così fosse
come gli piacesse; per che il re per infino all’ora della
cena di fare il suo piacere diede licenzia a ciascuno.
Era ancora il sol molto alto, per ciò che il ragionamento20 era stato brieve; per che, essendosi Dioneo con
13
da accogliere, plausibile.
potrebbe sgomentare, disanimare (provenzalismo): Purg., X
106, XXVII 104; Par., III 36. E nota il congiuntivo imperfetto
dove noi useremmo un condizionale: I I,51 n.; VII 9,24 n.; VIII
7,55 n.; Amorosa Visione, XXXVII 37.
15 vi asteneste: VI 7,12 n.: uno dei soliti riflessivi con valore
attivo: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 140.
16 sospetterebbe.
17 «La protasi del periodo ipotetico, invece di essere introdotta con la subordinante se, è coordinata all’apodosi (mi fareste) con
la congiunzione e» (Petronio).
18 questo sospetto, questo falso scrupolo.
19 La signorile esortazione finale si compone nei ritmi di due
endecasillabi di seguito.
20 il novellare: la VI, difatti, è la giornata più breve.
14
Letteratura italiana Einaudi 912
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
gli altri giovani messo a giucare a tavole21, Elissa, chiamate l’altre donne da una parte, disse: – Poi che22 noi
fummo qui, ho io disiderato di menarvi in parte assai vicina di questo luogo, dove io non credo che mai fosse
alcuna di voi, e chiamavisi23 la Valle delle Donne24, né
ancora vidi tempo da potervi quivi menare, se non oggi,
sì è alto ancora il sole; e per ciò, se di venirvi vi piace, io
non dubito punto che, quando vi sarete, non siate contentissime d’esservi state. –
19
Le donne risposono che erano apparecchiate; e
chiamata una delle lor fanti, senza farne alcuna cosa
sentire a’ giovani, si misero in via: né guari più d’un miglio furono andate, che alla Valle delle Donne pervennero. Dentro alla quale per una via assai stretta,
dall’una delle parti della quale correva un chiarissimo
fiumicello, entrarono, e viderla tanto bella e tanto dilettevole, e spezialmente in quel tempo che era il caldo
20 grande, quanto più si potesse divisare25. E secondo che
alcuna di loro poi mi ridisse, il piano che nella valle era,
18
21
Cfr. III intr., 15 n.
Dacché, Dal giorno che.
23 e quel luogo si chiama: col solito uso di un avverbio di
luogo per un sostantivo: III intr., 9 n.; e IX 9,21 n.: «qui si chiama
il Ponte all’Oca».
24 Secondo il Baldelli (Vita del B., Firenze I806, pp. LI sgg.)
sarebbe la valletta presso la Villa Schifanoia (III intr., 2 n.), in cui
si immaginava situato il laghetto in cui sarebbe stata sorpresa
Mensola (Ninfale, 234 sgg.): valletta, circondata non di sei, ma di
cinque montagnette sormontate ciascuna da un castello o villa
(Claustro della Doccia, villa Minerbetti-Orlandini, villa Rassinesi,
villa Micheli Gilles, Casa Nera delle Monache di Sant’Anna). Ma
per queste ipotetiche identificazioni cfr. Intr., 90 n. e più avanti,
20 n. E per le filigrane tutte letterarie risalenti alla letteratura classica e medievale e per il topos del “locus amoenus” Cfr. E. G.
KERN, The Gardens in the D., in “PMLA”, XLVI, I 95 I; e in generale M. BROWN, In the Valley of the Ladies, in “ItalIian Quarterly”, LXXII, 1975.
25 immaginare: I 7,27 n.
22
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI
così era ritondo come se a sesta26 fosse stato fatto,
quantunque artificio della natura e non manual27 paresse; ed era di giro poco più che un mezzo miglio, intorniato di sei montagnette28 di non troppa altezza, e in su
la sommità di ciascuna si vedeva un palagio quasi in
forma fatto d’un bel castelletto29.
21
Le piaggie30 delle quali montagnette così digradando giù verso ’l piano discendevano, come né teatri31
veggiamo dalla lor sommità i gradi infino all’infimo venire successivamente ordinati, sempre ristrignendo il
22 cerchio loro. Ed erano queste piaggie, quante alla plaga
26 se col compasso: Teseida, VII 109: “Nel mezzo aveva un
pian ritondo a sesta”; Amorosa Visione, VI 67. Nota il settenario e
l’endecasillabo di seguito (così ... fatto).
27 fatto dalla mano dell’uomo.
28 Altri due endecasillabi di seguito.
29 Contro le suggestioni realistiche sta l’anticipazione precisa
di questo paesaggio (e anche della seguente scena del bagno) nella
Caccia: «In una valle non molto spaziosa, | Di quattro montagnette
circuita, | Di verdi erbette e di fiori copiosa, | Nel mezzo della qual
così fiorita, | Una fontana chiara, bella e grande, | Abbondevole
d’acqua, v’era sita, | E l’acqua che superflua si spande | Un rivo fa
che tutte l’erbe bagna, | Poi n’esce fuor da una delle bande: | D’albori è piena ciascuna montagna, | Di frondi folti si ch’a pena il
sole | Tra essi può passar nella campagna ... | Quivi Diana, che ’1
tiepido foco | Ne casti petti tien, ricolse quelle Che invitate furono
al suo gioco. | Poi comandò che esse entrasser nelle Chiarissime
onde e de’ freschi liquori | Lavando sé si rifacesser belle» (II 1
sgg.: e cfr. per il rapporto fra le due descrizioni: BRANCA, Tradizione delle opere di G. B., pp. 130 sgg.). E per paesaggi simili cfr.
anche Comedia, XXVI 9 sgg.; Amorosa Visione, XL, XLIX; Ninfale, 234 sgg.; oltre quelli del D. stesso.
30 pendii, pendici: VI 10,46 n.
31 anfiteatri: Teseída, VII 108 sgg.: «... Il teatro ritondo, che girava | Un miglio, che non era meno un dito ... | Nel mezzo aveva un
pian ritondo a sesta ... | Dal quale scale in cerchio si moveno |E cre’
che in più di cinquecento giri | Infino all’alto del muro salieno, |
Con gradi larghi, per petrina miri». Dopo quello iniziale (L e
p i a g g e . . . m o n t a g n e t t e ) due endecasillabi di seguito (d i s c e n d e v a n o . . . g r a d i ).
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27
del mezzogiorno ne riguardavano32, tutte di vigne,
d’ulivi, di mandorli, di ciriegi, di fichi e d’altre maniere
assai d’alberi fruttiferi piene, senza spanna
perdersene33. Quelle le quali il carro di tramontana34
guardava, tutte eran boschetti di querciuoli, di frassini e
d’altri alberi verdissimi e ritti quanto più esser poteano.
Il piano appresso35, senza aver più entrate che quella
donde le donne venute v’erano, era pieno d’abeti, di cipressi, d’allori e d’alcuni pini sì ben composti e sì bene
ordinati, come se qualunque è di ciò il migliore artefice
gli avesse piantati; e fra essi poco sole o niente, allora
che egli era alto, entrava infino al suolo, il quale era
tutto un prato d’erba minutissima e piena di fiori porporini e d’altri.
E oltre a questo, quel che non meno che altro di diletto porgeva, era un fiumicello, il qual d’una delle valli,
che due di quelle montagnette dividea, cadeva giù per
balzi di pietra viva36, e cadendo faceva un romore ad
udire assai dilettevole, e sprizzando pareva da lungi
ariento vivo37 che d’alcuna cosa premuta38 minutamente sprizzasse; e come giù al piccol pian pervenia così
quivi in un bel canaletto raccolta39 infino al mezzo del
piano velocissima discorreva, e ivi faceva un picciol laghetto quale talvolta per modo di vivaio fanno né lor
giardini i cittadini che di ciò hanno destro40. E era que32 tutte quelle che erano esposte in direzione del, verso il mezzogiorno. Piaga è propriamente regione celeste, come nella Divina
Commedia (per es. Par., XIII 4, XXXI 31, e specie XXIII 11 sg.:
«rivolta inver’ la plaga | Sotto la quale il sol mostra men fretta»).
33 senza che ne restasse incolta una spanna, un palmo.
34 Cioè l’Orsa minore, e quindi il nord.
35 che seguiva.
36 Cfr. I concl., 15 n.
37 mercurio.
38 Par., XII 99: «Quasi torrente ch’alta vena prema».
39 Esempio chiaro di sillessi, in cui raccolta si accorda a acqua
sottintesa in fiumicello e in tutta la frase precedente: Intr., 26 n.
40 comodità, opportunità: IV 5,8 n. E per queste abitudini signorili cfr. X 6.
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sto laghetto non più profondo che sia una statura
d’uomo infino al petto lunga; e senza avere in sé mistura alcuna41, chiarissimo il suo fondo mostrava esser
duna minutissima ghiaia, la qual tutta, chi altro non
avesse avuto a fare, avrebbe, volendo, potuta annoverare42; né solamente nell’acqua riguardando vi si vedeva il
fondo, ma tanto pesce in qua e in là andar discorrendo43, che oltre al diletto era una maraviglia; né da altra
ripa era chiuso che dal suolo del prato, tanto d’intorno
a quel più bello, quanto più dello umido sentiva di
quello. L’acqua, la quale alla sua capacità soprabbondava44, un altro canaletto riceveva, per lo qual fuori del
valloncello uscendo alle parti più basse sen correva.
In questo adunque venute le giovani donne, poi che
per tutto riguardato ebbero e molto commendato il
luogo, essendo il caldo grande e vedendosi il pelaghetto
chiaro davanti e senza alcun sospetto d’esser vedute, diliberaron di volersi bagnare. E comandato alla lor fante
che sopra la via per la quale quivi s’entrava dimorasse, e
guardasse se alcun venisse, e loro il facesse sentire tutte
e sette si spogliarono ed entrarono in esso, il quale non
altrimenti li lor corpi candidi nascondeva, che farebbe
una vermiglia rosa un sottil vetro45. Le quali essendo in
41 Purg., XXVIII 28 sgg.: «Tutte l’acque che son di qua più
monde, | Parrieno avere in sé mistura alcuna | Verso di quella che
nulla nasconde ...» E nota i due endecasillabi di seguito (e s e n z a
. . . m o s t r a v a ): Cfr. Comedia, XXXLI 45 e all’origine Ovidio,
Met., III 407 sgg.
42 numerare, contare: I 1,55 n.
43 scorrazzando: Intr., 57 n.: e per l’uso di a n d a r col gerundio: V 3,9 e 12 n.
44 l’acqua che traboccava: è complemento oggetto del seguente
ricevea.
45 La fascinosa rappresentazione di queste figure femminili al
bagno (conclusa con due endecasillabi, gli ultimi di quelli che ingemmano questa descrizione) sembra il punto di arrivo di figurazioni che, sollecitate da una lunga tradizione classica, avevano insistito nella fantasia del giovane B. (Caccia, II; Rime, I; Comedia, III
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quello, né per ciò niuna turbazion d’acqua nascendone,
cominciarono come potevano ad andare in qua in là di
dietro à pesci, i quali male avevan dove nascondersi, e a
volerne con esso le mani pigliare 46. E poi che in così
fatta festa, avendone presi alcuni, dimorate furono alquanto, uscite di quello, si rivestirono, e senza poter più
commendare il luogo che commendato l’avessero, parendo lor tempo da dover tornar verso casa, con soave47
passo, molto della bellezza del luogo parlando, in cammino si misero.
E al palagio giunte ad assai buona ora, ancora quivi
trovarono i giovani giucando48 dove lasciati gli aveano.
Alli quali Pampinea ridendo disse: – Oggi vi pure abbiam49 noi ingannati. –
– E come? – disse Dioneo – cominciate voi prima a
far de’ fatti che a dir delle parole50? –
Disse Pampinea: – Signor nostro, sì –, e distesamente gli narrò donde venivano, e come era fatto il luogo, e
quanto di quivi distante, e ciò che fatto avevano.
Il re, udendo contare la bellezza del luogo, disidero13 sgg., IV, XXVI; Ninfale, 234 sgg.) e si erano già stilizzate in
quella di Efigenia (V I,7 sgg.). Evidenti le suggestioni classiche:
cfr. per es. Ovidio, Met., IV 354 sgg. (e, benché non conosciuto
direttamente al tempo del D., Marziale, IV 2.2 e VIII 68). Ed è
quasi inutile ricordare che l’armonia fra bella natura e bella creatura è uno dei motivi canonici nella letteratura medievale: anzi una
devise secondo Chrétien (Perceval, 1805). Cfr. V. BRANCA, B.
medievale, pp. 117 sgg.
46 proprio con le mani: e per esso usato invariato cfr. II 5,1.;
VII 1,30 n. Anche questa leggiadra scena di donne pescatrici
aveva un diretto antecedente nella Caccia (VIII, XIV, XV); sarà
idealmente ripresa anche nella scena centrale della X 6.
47 lento: V intr. 2 n.
48 che giocavano: gerundio participiale; e per la forma cfr.
Intr., III n.
49 vi abbiamo pure: iperbato assai comune nella sintassi di
quel tempo.
50 Dioneo allude al tema proposto per la giornata seguente,
che riguardava gli inganni delle donne.
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so di vederlo, prestamente fece comandar la cena; la
qual poi che con assai piacer di tutti fu fornita51, li tre
giovani colli lor famigliari, lasciate le donne, se n’andarono a questa valle, e ogni cosa considerata, non essendovene alcuno di loro stato mai più52, quella per una
delle belle cose del mondo lodarono. E poi che bagnati
si furono e rivestiti, per ciò che troppo tardi si faceva, se
ne tornarono a casa, dove trovarono le donne che facevano una carola ad un verso53 che facea la Fiammetta, e
con loro, fornita la carola, entrati in ragionamenti della
Valle delle Donne, assai di bene e di lode ne dissero.
Per la qual cosa il re, fattosi venire il siniscalco, gli comandò che la seguente mattina là facesse che fosse apparecchiato, e portatovi alcun letto54, se alcun volesse o
dormire o giacersi di meriggiana55. Appresso questo,
fatto venire de’ lumi e vino e confetti, e alquanto riconfortatisi, comandò che ogn’uomo fosse in sul
ballare56; e avendo per suo volere Panfilo una danza
presa57, il re rivoltatosi verso Elissa le disse piacevolmente: – Bella giovane, tu mi facesti oggi onore della
corona, e io il voglio questa sera a te fare della canzone;
e per ciò una fa che ne dichi58 qual più ti piace. –
A cui Elissa sorridendo rispose che volentieri, e con
soave voce cominciò in cotal guisa:
Amor, s’io posso uscir de’tuoi artigli,
appena creder posso
che alcun altro uncin più mai mi pigli59.
51
compiuta, finita: III 9,19 n.
mai prima d’allora: cfr. I 7,27.
53 intrecciavano una danza su un motivo, su un’aria.
54 lettuccio, divano: II 8,10 n.
55 nell’ora del meriggio, meridiana: i Vocabolari ne ignorano
altri esempi.
56 attendesse a ballare; VII concl., 8: «furono in sul danzare».
58 Per queste forme del congiuntivo cfr. Intr., 81 n.
59 Dante, Rime, CXIV 6: «Che pigliar vi lasciate a ogni uncino»”; Inf., XXI 73; «Innanzi che l’uncin vostro mi pigli».
52
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45
Io entrai giovinetta en la60 tua guerra,
quella credendo somma e dolce pace,
e ciascuna mia arme posi in terra,
come sicuro chi si fida face61
tu, disleal tiranno, aspro e rapace,
tosto mi fosti addosso
con le tue armi e co’ crude’ roncigli62.
Poi, circundata delle tue catene,
a quel, che nacque per la morte mia63,
piena d’amare lagrime e di pene
presa mi desti, e hammi in sua balia;
ed è sì cruda la sua signoria,
che giammai non l’ha mosso
sospir né pianto alcun che m’assottigli64.
Li prieghi miei tutti glien porta il vento65,
nullo n’ascolta né ne vuole udire;
per che ogn’ora cresce ’l mio tormento,
onde ‘l viver m’è noia66, né so morire.
Deh dolgati, signor, del mio languire,
60 nella. Per guerra cfr. Dante, Rime, L 62, C 62; Petrarca,
passim.
61 come la chi assicurato, ricevuta una garanzia, si fida. Cfr.
(Ovidio, Am., I II 2I-22; Petrarca, III 5-7. Face nel B. è quasi sempre espediente in rima (Teseida, p. CXXXIX).
62 uncini e quindi qui artigli: Inf., XXI 71, XXII 7I
63 a colui che nacque per condurmi a morte: Dante, Rime,
CXVI 82.
64 mi consumi, mi faccia dimagrire: Fiammetta, V 23,18: “E
quale infermità mai alcuno assottiglia, come fa il troppo fervente
amore?”
65 Virgilio, Aen, IX 312-13; Ovidio, Am, I VI 41-42; Petrarca,
CCLXVII 14: “Ma ‘l vento ne portava le parole”.
66 Ha valore monosillabico, secondo l’uso della lirica siciliana,
ancora nel B. (Teseida, p. CLVI). Il verso – che ha lo stesso tono
di un sospiro petrarchesco (CCCXXII 12: «Noia m’è ’l viver») –
ripete la ballata LXXVI: «Non - so qual i’ mi voglia | O viver o
morir, per minor doglia» (e cfr. son. XXXV).
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fa tu quel ch’io non posso;
dalmi legato dentro à tuoi vincigli67.
Se questo far non vuogli, almeno sciogli,
i legami annodati da speranza68.
Deh! io ti priego, signor, che tu vogli;
ché, se tu ‘l fai, ancor porto fidanza
di tornar bella qual fu mia usanza69,
e il dolor rimosso,
di bianchi fiori ornarmi e di vermigli70.
Poi che con un sospiro assai pietoso Elissa ebbe alla
sua canzon fatta fine, ancor che tutti si maravigliasser di
47 tali parole, niuno per ciò ve n’ebbe che potesse
avvisare71 chi di così cantar le fosse stato cagione. Ma il
re, che in buona tempera72 era, fatto chiamar Tindaro,
48 gli comandò che fuor traesse la sua cornamusa, al suono
della quale esso fece fare molte danze 73. Ma, essendo
già buona parte di notte passata, a ciascun disse ch’andasse a dormire.
67
vincoli, catene (da vincio).
Cioè: toglimi almeno ogni speranza nel suo amore.
Ho fiducia (IV 6,40 n.) di ritornare bella (Purg., XVI 32)
come solevo essere.
70 Cioè forse di fiori d’arancio, di gigli e di rose, cioè di fiori
nuziali. La ballata dolorosa ben si addice al profilo di Elissa e alla
sua filigrana letteraria (Intr., 51 n.); e ripete situazioni e lamenti
che risuonano – seppure in rapporto inverso – assidui nelle Rime
del B. (per es. XXXI, LXX, LXXIV, LXXXIII). È, come la 1, costituita da una ripresa (ZyZ) che introduce quattro stanze (AB,
AB; ByZ) colla stessa coppia di versi e di rime (yZ).
71 immaginare, indovinare, come più sopra divisare (19).
72 in buona disposizione, di buon umore: Purg., XV 103: «Risponder lei con viso temperato»; Sacchetti, VI: «... la disposizione
de’ signori quando possono in buona tempera».
73 Cfr. VII concl., 8.
68
69
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SETTIMA GIORNATA
1
Finisce la sesta giornata del Decameron: incomincia la Settima,
nella quale, sotto il reggimento di Dioneo, si ragiona delle beffe, le quali o per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatte a’ suoi mariti, senza essersene avveduti o sì1.
2
Ogni stella era già delle parti d’oriente fuggita, se
non quella sola, la qual noi chiamiamo Lucifero, che ancor luceva nella biancheggiante aurora, quando il siniscalco levatosi, con una gran salmeria2 n’andò nella Valle delle donne, per quivi disporre ogni cosa secondo
l’ordine e il comandamento avuto dal suo signore. Appresso alla quale andata non stette guari a levarsi il re, il
quale lo strepito de’ caricanti e delle bestie aveva desto,
e levatosi fece le donne e’ giovani tutti parimente levare.
Né ancora spuntavano li raggi del sole bene bene,
quando tutti entrarono in cammino3; né era ancora lor
paruto alcuna volta tanto gaiamente cantar gli usignuoli
e gli altri uccelli quanto quella mattina pareva; da’ canti
de’ quali accompagnati infino nella Valle delle donne
n’andarono, dove da molti più4 ricevuti, parve loro che
essi della lor venuta si rallegrassero.
Quivi intorniando quella e riproveggendo tutta5 da
3
4
5
1
o essendosene avveduti: ma cfr. VI concl., 6 n.
con molti bagagli: frase identica in circostanze simili nella III
intr., 2.
3 Inf., II 142: «Intrai per lo cammino alto e silvestro»; e cfr. II
8,4 n.; IX 4,9 n. ecc.
4 Molti più uccelli.
5 percorrendo intorno intorno e riesaminando tutta quella [valle]
minutamente. Per l’uso di i n t o r n i a r e cfr. la Bibbia volgare
ecc., Bologna 1882, Gen., XLI 46: «ricercando e intorniando ogni
regione» (= circuivit omnes regiones): di r i p r o v e g g i a r e o r
i p r o v e d e r e è questo l’unico esempio citato del tempo.
2
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
capo, tanto parve loro più bella che il dì passato, quanto
l’ora del dì era più alla bellezza di quella conforme. E
poi che col buon vino e con confetti6 ebbero il digiun
rotto acciò che di canto non fossero dagli uccelli avanzati7, cominciarono a cantare, e la valle insieme con essoloro8, sempre quelle medesime canzoni dicendo che essi
dicevano; alle quali tutti gli uccelli, quasi non volessero
7
esser vinti, dolci e nuove note aggiugnevano.
Ma poi che l’ora del mangiar fu venuta, messe le tavole sotto i vivaci albori9 e agli altri belli arbori vicine
al10 bel laghetto, come al re piacque, così andarono a sedere, e mangiando, i pesci notar vedean per lo lago a
8
grandissime schiere; il che, come di riguardare, così talvolta dava cagione di ragionare. Ma poi che venuta fu la
fine del desinare, e le vivande e le tavole furon rimosse,
ancora più lieti che prima, cominciarono a cantare e do9
po questo a sonare e a carolare.
Quindi, essendo in più luoghi per la piccola valle
fatti letti, e tutti dal discreto siniscalco di sarge francesche11 e di capoletti12 intorniati13 e chiusi, con licenzia
del re, a cui piacque, si potè andare a dormire; e chi dor10 mir non volle, degli altri lor diletti usati pigliar poteva a
suo piacere. Ma, venuta già l’ora che tutti levati erano e
6
6
Cfr. I 10,14 n.
vinti, superati.
8 Cioè la valle ripercoteva l’eco del canto dei giovani.
9 Dato l’aggettivo tradizionale e caratterizzante (cfr. Purg.,
XXIV 103) il B. deve indicare qui specificamente gli allori, contrapposti ai generici a l t r i b e l l i a r b o r i.
10 accanto al, lungo il: cfr. Amorosa Visione, XVIII 74 e XXVIII
53 B.
11 stoffe leggere dipinte di modello francese ( f r a n c e s c h e ) :
cfr. V 4,26.
12 cortinaggi, drappi che si ponevano a capo del letto o alle pareti: X 10,52: «far porre capoletti e pancali per le sale».
13 circondati: e cfr. 5 n.
14 raccogliersi, recarsi: X 6,5 n.
7
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tempo era da riducersi14 a novellare, come il re volle,
non guari lontano al luogo dove mangiato aveano, fatti
in su l’erba tappeti distendere e vicini al lago a seder postisi, comandò il re ad Emilia che cominciasse. La qual
lietamente così cominciò a dir sorridendo.
Letteratura italiana Einaudi
923
NOVELLA PRIMA
1
Gianni Lotteringhi ode di notte toccar l’uscio suo; desta la moglie, ed ella gli fa accredere1 che egli è la fantasima2; vanno a
incantare3 con una orazione, e il picchiare si rimane4.
2
- Signor mio, a me sarebbe stato carissimo, quando
stato fosse piacere a voi, che altra persona che io avesse
a così bella materia, come è quella di che parlar dobbiamo, dato cominciamento; ma, poi che egli v’aggrada che
io tutte l’altre assicuri5, e6 io il farò volentieri. E ingegnerommi, carissime donne, di dir cosa che vi possa essere
utile nell’avvenire, per ciò che, se così son l’altre come
io, tutte siamo paurose, e massimamente della fantasima
3
1 gli dà a intendere: a c c r e d e r e è forma composta del tipo
di assapere, addomandare non rara negli scritti del tempo quasi
sempre nella frase «fare accredere» (cfr. per es. IX 4,3 n.; Buti,
comm. a Inf., XIII 1: «il fenno accredere all’imperatore»).
2 «... è uno animale a modo d’uno satiro, o come un gatto
mammone che va la notte e fa quella molestia alle genti; e chi lo
chiama fantasima ...» (Passavanti, Specchio, p. 399): cfr. per le
varie immaginazioni M. P.GIARDINI, Tradizioni popolari nel
«D.», Firenze 1965, pp. 22 sgg. Il termine in questa accezione era
di genere femminile.
3 In senso assoluto: a fare incantesimi, esorcismi (cfr. Pulci,
Morgante, XXIV 90).
4cessa: III 3, 19 n. Nessun vero antecedente di questa novella:
Le revenant (Recueil général cit., VI, p. 138), fabliau citato dal
Landau, è affatto diverso nello svolgimento e nello scioglimento; e
ancor più lontano è un antico canto svedese, anch’esso citato dal
Landau (A. A. AFZELIUS, Volkssagen und Volkslieder aus Schweden, Leipzig 1842, II, p. 279). Anzi, tutta la novella sembra appartenere - come varie della giornata precedente - all’aneddotica municipale fiorentina (cfr. 31 sgg. e nn.) contaminata con note della
letteratura più popolare (Thompson, K 1546, 1961, V 66.1, X
441): Cfr. M. P. GIARDINI, op. cit., pp. 21 sgg.
5 incoraggi, rassicuri: Petrarca, CXXVIII 121. ebbene, ecco che:
Il 8,6 i n.
6 ebbene, ecco che: II 8,61 n.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
4
(la quale sallo Iddio che io non so che cosa si sia né ancora alcuna trovai che ’l sapesse, come che tutte ne temiamo igualmente), a quella cacciar via, quando da voi
venisse, notando bene7 la mia novella, potrete una santa
e buona orazione e molto a ciò valevole apparare8.
Egli fu già in Firenze9 nella contrada di San Brancazio10 uno stamaiuolo11, il qual fu chiamato Gianni Lotteringhi12, uomo più avventurato nella sua arte che savio
in altre cose, per ciò che, tenendo egli del semplice 13,
era molto spesso fatto capitano de’ laudesi14 di Santa
Maria Novella, e aveva a ritenere la scuola loro15, e altri
così fatti uficetti aveva assai sovente, di che egli da molto
più si teneva: e ciò gli avveniva per ciò che egli molto
7 istando bene attente a .... se la terrete bene a mente (gerundio
ipotetico): Inf., XV 99; Purg., XXIV 53.
8 valida, efficace (cfr. Filocolo, V 36,5) imparare (I 4,21 n.).
9 Uno dei modi più frequenti di dare inizio al racconto (I 2, 4,
6, 8, 10; II, 3, 5, 10 e così via).
10 Quartiere che prendeva nome dal convento francescano di
San Pancrazio, sull’attuale via della Spada: proprio quello di un
altro devoto e sempliciotto ingannato dalla moglie (III 4).
11 lavoratore o venditore di stame, cioè della parte più fine e resistente della lana (VIII 2,25 n.).
12 Vari Lotteringhi furono nel secolo XIV fattori per l’appunto
dei Bardi (SAPORI, op. cit., pp. 448, 474, 487, 490, 499, 503); e
furono in rapporti di affari, per compere e fitti, proprio colla Società delle Laudi di Santa Maria Novella. Ma non v’è ricordo di un
Gianni, neppure nei libri della Compagnia della Vergine diretta
dai Domenicani di Santa Maria Novella, di cui Gianni sarebbe
stato «capitano» (sono andati distrutti però i volumi per gli anni
1340-70: cfr. per tutto R. TAUCCI, La compagnia maggiore di
Santa Maria, in «Studi storici sull’ordine dei Servi di Maria», III,
1937; G. BILLANOVICH, Restauri cit., p. 117; e anche Delizie
degli eruditi toscani, XVII, 18). Un Vanni di Ugo però figura alla
fine del Duecento nella genealogia dei Lotteringhi della Stufa
(cod. Passerini 8 della Bibl. Nazionale di Firenze, c. 50).
13 essendo egli di carattere bonario, credulone, sempliciotto: cfr.
IV 2, 14 n.
14 superiore, priore degli iscritti alla Compagnia di cui sopra.
15 Cioè doveva badare che i loro esercizi procedessero bene,
con disciplina. E cfr. per indicazioni su queste confraternita 33 n.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
5
6
spesso, sì come agiato uomo, dava di buone pietanze a’
frati16.
Li quali, per ciò che qual calze e qual cappa e quale
scapolare17 ne traevano spesso, gli insegnavano di buone
orazioni e davangli il paternostro in volgare e la canzone
di santo Alesso18 e il lamento di san Bernardo19 e la lauda di donna Matelda20 e cotali altri ciancioni21, li quali
egli aveva molto cari, e tutti per la salute dell’anima sua
se gli serbava molto diligentemente22.
Ora aveva costui una bellissima donna e vaga per
16
«Un risciaquadenti pe’ frati» (M.).
Cioè il cappuccio e la sua base di stoffa che ricade sul petto e
sulle spalle: cfr. VII 3,26 n.
18 Poiché qui si accenna a testi volgari, si potrebbe pensare al
ritmo di Sant’Alessio (cfr. Poeti del Duecento a cura di G. Contini,
Milano 1960, I, pp. 15 sgg.): ma leggende e preghiere simili, specie
sulle orme della Legenia Aurea (94) e delle Vite dei Santi Padri (Firenze 1735, p. 261 sgg.), erano assai diffuse (e cfr. anche Ubbie,
ciancioni e ciarpe del secolo XIV a cura di G. Amati, Bologna 1866;
V. DE BARTHOLOMAEIS Origini della poesia drammatica italiana, Bologna 1924, pp. 41 sgg., 216 sgg.;
Prosatori minori del Trecento a cura di G. De Luca, Milano 1954,
I, pp. 1141 sgg.
19 Con tutta probabilità si allude a qualcuna delle popolarissime Lamentationes attribuite a San Bernardo; più verosimilmente
che alle laudi o ai sermoni, alla lamentazione «O bona gente» o al
Pianto di san Bernardo «Salve Vergine preziosa». Cfr. per tutti
questi testi F. MANCINI, Scritti filologici, Pisa, 1985, pp. 402 sg.
20 Evidentemente una lauda in onore di Mechtilde di Magdeburg, i cui rapimenti mistici e le cui rivelazioni proprio i Domenicani, cui apparteneva il convento di Santa Maria Novella, diffusero in Italia (J. ANCELET-HUSTACHE, Mecbtilde de
Magdebourg, Paris, 1926).
21 Accrescitivo di ciance: e quindi cose da poco e sciocche, ciance
grossolane. Non se ne citano altri esempi, ma era termine proprio
per indicare certe filastrocche o canzoni o laudi popolari: cfr.
Ubbie, ciancioni e ciarpe del secolo XIV cit.
22 Per i tratti fondamentali del borghese devoto, caricaturati dal
B. in Gianni come già in Puccio (III 4), si può tener presente
quanto ne dice realisticamente Fra Giordano da Pisa (cfr. C.
DELCORNO, Giordano da Pisa e l’antica predicazione volgare, Firenze 1975, pp. 66 sgg.
17
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
7
moglie, la quale ebbe nome monna Tessa e fu figliuola
di Mannuccio dalla Cuculia23, savia e avveduta molto24.
La quale, conoscendo la semplicità del marito, essendo
innamorata di Federigo di Neri Pegolotti25, il quale bello e fresco giovane era, ed egli di lei, ordinò con una sua
fante che Federigo le venisse a parlare ad un luogo26
molto bello che il detto Gianni aveva in Camerata27, al
quale ella si stava tutta la state28; e Gianni alcuna volta vi
veniva la sera a cenare e ad albergo, e la mattina se ne
tornava a bottega e talora a’ laudesi suoi.
23 Il Manni, da ricordi manoscritti – ora irreperibili – della nota
famiglia Mannucci di San Frediano, riferisce notizie su una
«Monna Tessa … figliuola di Mannuccio ... maritata a Neri Pegolotti nata l’anno 1307»; Guerri invece pensa che Tessa (diminutivo
di Contessa, e nome assai comune in Toscana dopo Matilde di Canossa) sia eponimo di cattiva moglie, o più probabilmente nome
equivoco, come potrebbe indicare la postilla del Mannelli (cfr. n.
sg.) e la letteratura recenziore (D. GUERRI, Per la storia di Monna
Tessa, in «La Nuova Italia», III, 1933; La corrente popolare cit., p.
142; ma contro tale ipotesi era l’attribuzione del nome alla brava
moglie di Calandrino: VIII 3 e 6; IX 3). Cuculia era un canto proprio in San Frediano, così chiamato da un tabernacolo della Madonna con una cucula, Mannuccio è ipocoristico di Alamanno,
Neri abbreviatura di Rinieri.
24 «Or così mi fa, Messer Giovanni, dimmi la prima lettera di
capo» (M.).
25 Abbiamo già visto che, caso strano, un Neri Pegolotti figurerebbe marito proprio di una Tessa; e un Ser Riccho Pegolotti è tra
gli ufficiali della Compagnia della Vergine nel 1324, e un Lotto di
Ser Lippo Pegolotti pare nell’obituario di Santa Maria Novella nel
1340. (Delizie degli eruditi toscani, IX, p. 190; E. TREVES,
L’opera di Nanni Pegolotti, Città di Castello, 1913, pp. 6 sgg.; G.
BILLANOVICH, Restauri cit., p. 118). Può essere interessante ricordare che vari Pegolotti furono agenti e fattori proprio dei Bardi
(il più autorevole e noto fu Francesco di Balduccio Pegolotti, autore della famosa Pratica di mercatura: A. EVANS, Francesco di
Balduccio Pegolotti, Cambridge 1936): ebbero sepolture nei chiostri della chiesa del Carmine.
26 podere, casa di campagna: II 7,I7 n.; II 10,11 n.
27 Borgata sulle pendici meridionali del poggio di Fiesole (cfr.
IX 5).
28 Secondo l’uso già notato altrove (V 9,10 n.).
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
Federigo, che ciò senza modo disiderava, preso tempo29, un dì che imposto30 gli fu, in sul vespro se n’andò
lassù, e non venendovi la sera Gianni, a grande agio e
con molto piacere cenò e albergò con la donna; ed ella,
standogli in braccio, la notte gl’insegnò da sei31 delle
laude del suo marito.
9
Ma, non intendendo essa che questa fosse così l’ultima volta come stata era la prima, né Federigo altressì,
acciò che ogni volta non convenisse che la fante avesse
10 ad andar per lui, ordinarono insieme a questo modo:
che egli ognindì32, quando andasse o tornasse da un suo
luogo che alquanto più su era, tenesse mente33 in una vigna la quale allato alla casa di lei era, ed egli vedrebbe
un teschio d’asino in su un palo di quelli della vigna34, il
quale quando col muso volto vedesse verso Firenze, sicuramente e senza alcun fallo la sera di notte35 se ne venisse a lei, e se non trovasse l’uscio aperto, pianamente
picchiasse tre volte, ed ella gli aprirebbe; e quando vedesse il muso del teschio volto verso Fiesole, non vi ve8
29
scelta un’occasione, un momento favorevole: II 5,78 n.
stabilito, fissato.
31 circa sei: II 7,7 n. E per l’accenno equivoco cfr. VII 3,40 n.
32 ogni dì: forma non rara specialmente nel parlato e in testi
non dotti (forse incrocio di «ogni dì» con «di dì in dì»: cfr. A.
SCHIAFFINI, Glossario a Testi fiorentini cit.): cfr. Testi fiorentini
cit., p. 181; B. GIAMBONI, Trattato di virtù e vizi, Torino 1968,
XIX 3; Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino cit., passim
«ognendì» (cfr. Glossario).
33 fissasse l’attenzione, come «porre mente» (II 5,11 n.).
34 Questo strano espediente di Tessa riflette probabilmente
l’uso antico, e particolarmente etrusco, di porre teschi d’asino nei
campi a protezione e a propiziazione: anzi il cenno del B. si riferisce forse a usanze ancora vive localmente (cfr. M. MOSETTI, Una
novella del B., in «Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane», XIII, 1938; G. VIDOSSI, Saggi e scritti
minori di folklore, Torino 1960, pp. 290 sgg.; e anche S. DE BENEDETTI, L’orbo che ci vede, in Miscellanea Crescini, Cividale
1927; Thompson, F 874).
35 la sera quand’era buio.
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nisse, per ciò che Gianni vi sarebbe. E in questa maniera
faccendo, molte volte insieme si ritrovarono.
Ma tra l’altre volte una avvenne che, dovendo Federigo cenar con monna Tessa, avendo ella fatti cuocere
due grossi capponi, avvenne36 che Gianni, che venir non
vi doveva, molto tardi vi venne; di che la donna fu molto
dolente, ed egli ed ella cenarono37 un poco di carne salata che da parte aveva fatta lessare; e alla fante fece portare in una tovagliuola bianca i due capponi lessi e molte
uova fresche e un fiasco di buon vino in un suo giardino,
nel quale andar si potea senza andar per la casa, e
dov’ella era usa di cenare con Federigo alcuna volta, e
dissele che a piè d’un pesco, che era allato a un pratello,
quelle cose ponesse.
E tanto fu il cruccio che ella ebbe, che ella non si ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse che Federigo venisse, e dicessegli che Gianni v’era e che egli quelle
cose dell’orto prendesse. Per che, andatisi ella e Gianni
al letto, e similmente la fante, non stette guari che Federigo venne e toccò38 una volta pianamente la porta, la
quale sì vicina alla camera era che Gianni incontanente
il sentì, e la donna altressì; ma, acciò che Gianni nulla
suspicar39 potesse di lei, di dormire fece sembiante.
E stando un poco40, Federigo picchiò la seconda
volta; di che Gianni maravigliandosi punzecchiò41 un
poco la donna, e disse: «Tessa, odi tu quel ch’io? E’ pare
che l’uscio nostro sia tocco».
36
Una delle riprese solite dopo vari incisi.
Transitivo, alla latina, col valore di mangiarono per cena:
come nel Velluti, Cronica, p. 203: «cenare una crostata d’anguille»
(e p. 85); Pecorone, I 2: «cenarono un grosso e grasso cappone»: e
Cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 39 sg.
38 picchiò, bussò.
39 sospettare: IV 3,29 n.
40 passato un po’ di tempo.
41 La chiamò toccandola colle dita quasi per destarla (Gigli).
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La donna, che molto meglio di lui udito l’avea, fece 17
vista di svegliarsi, e disse: «Come di’? Eh?»
«Dico,» disse Gianni «ch’e’ pare che l’uscio nostro
sia tocco».
Disse la donna: «Tocco? Ohimè, Gianni mio, or non
sai tu quello ch’egli è? Egli è la fantasima42, della quale
io ho avuta a queste notti la maggior paura che mai
s’avesse, tale che, come io sentita l’ho, ho messo il capo
sotto né mai ho avuto ardir di trarlo fuori sì43 è stato dì
chiaro».
Disse allora Gianni: «Va, donna, non aver paura, se
ciò è, ché io dissi dianzi il Te lucis e la ’Ntemerata44 e
tante altre buone45 orazioni, quando al letto ci andammo, e anche segnai il letto di canto in canto al nome del
Patre, del Filio e dello Spirito Sancto, che temere non ci
bisogna, ché ella non ci può, per potere ch’ella abbia,
nuocere46».
La donna, acciò che Federigo per avventura altro sospetto non prendesse e con lei si turbasse, diliberò del
tutto di doversi levare e di fargli sentire che Gianni
v’era, e disse al marito:
«Bene sta, tu di’ tue parole tu47; io per me non mi
terrò mai salva né sicura, se noi non la ’ncantiamo, poscia che tu ci se’».
Disse Gianni: «O come s’incanta ella?»
Disse la donna: «Ben la so io incantare; ché l’altrie-
42
Cfr. I n.
fin che: II 2,14 n.
L’inno di compieta (citato anche da Dante, Purg., VIII 13) in
cui campeggia l’invocazione «procul recedant ... noctium phantasmata», e la popolare antifona O intemerata Virgo ( II 2,12 n.).
45 efficaci, come più sotto al 23.
46 Inf., VII 4 sgg.: «... non ti noccia | La tua paura: ché, poder
ch’elli abbia, | Non ci torrà lo scender questa roccia».
47 Cfr. VI intr., 14 n.
43
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ri48, quando io andai a Fiesole alla perdonanza49, una di
quelle romite, che è, Gianni mio, pur la più santa cosa
che Iddio tel dica per me, vedendomene così paurosa,
m’insegnò una santa e buona orazione, e disse che provata l’avea più volte avanti che romita fosse, e sempre
l’era giovato. Ma sallo Iddio che io non avrei mai avuto
ardire d’andare sola a provarla; ma ora che tu ci se’, io
voi50 che noi andiamo a incantarla».
Gianni disse che molto gli piacea; e levatisi, se ne
vennero amenduni pianamente all’uscio, al quale ancor
di fuori Federigo, già sospettando, aspettava. E giunti
quivi, disse la donna a Gianni: «Ora sputerai51, quando
io il ti dirò».
Disse Gianni: «Bene».
E la donna cominciò l’orazione, e disse: «Fantasima,
fantasima che di notte vai, a coda ritta ci venisti, a coda
ritta te n’andrai; va nell’orto a piè del pesco grosso, troverai unto bisunto e cento cacherelli della gallina mia52;
pon bocca al fiasco e vatti via, e non far male né a me né
a Gianni mio53»; e così detto, disse al marito: «Sputa,
Gianni»; e Gianni sputò.
48
l’altro giorno, giorni or sono: III 3,23 n.
a guadagnarmi l’indulgenza, in occasione di una qualche
festa: IV 7, 11 n.
50 Corrente forma ridotta toscana di voglio: cfr. per es. Dante,
Rime, LI 7; Vita Nuova, XII 10.
51 Per la frequenza e il valore di tali atti negli scongiuri e negli
incantesimi cfr. PITRÈ, BUSK, CROMBIE, PAJELLO ecc., Lo
sputo e la saliva ecc., in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», IV, 1885 e VI, 1887; G. BONOMO, Scongiuri del popolo
siciliano, Palermo 1953, pp. 80 sgg.
52 Tutto questo «incantesimo» gioca, com’è naturale, su di un
linguaggio equivoco: dall’allusione fallica dell’inizio ( a c o d a r i t
t a : Cfr. III 1,20 n.; X 10,2 n.) a queste parole che accennano ai
capponi e alle ova.
53 Questa parodia di orazione – come la seguente (32) – Si svol49
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E Federigo, che di fuori era e questo udiva, già di gelosia uscito, con tutta54 la malinconia, aveva sì gran voglia di ridere che scoppiava; e pianamente, quando
Gianni sputava, diceva: «I denti».
La donna, poi che in questa guisa ebbe tre volte la
fantasima incantata, al letto se ne tornò col marito.
Federigo, che con lei di cenar s’aspettava, non avendo cenato e avendo bene le parole della orazione intese,
se n’andò nell’orto e a piè del pesco grosso trovati i due
capponi e ’l vino e l’uova, a casa se ne gli portò e cenò a
grande agio. E poi dell’altre volte, ritrovandosi con la
donna, molto di questa incantazione rise con esso lei55.
Vera cosa è56 che alcuni dicono che la donna aveva
ben volto il teschio dello asino verso Fiesole, ma un lavoratore, per la vigna passando, v’aveva entro dato d’un
bastone e fattol girare intorno intorno, ed era rimaso
volto verso Firenze, e per ciò Federigo, credendo esser
chiamato, v’era venuto; e che la donna aveva fatta l’orage sui ritmi rime e assonanze facili e popolaresche: come del resto
accade altre volte in casi simili nel D. (II 2,7-8 n.; IX 10,17-18 n.):
«ha dei comuni scongiuri non solo la mossa iniziale ma anche il
generale andamento, il tono esortativo e il ritmo» (Giardini). Per
scongiuri di questo genere cfr. Ubbie, ciancioni e ciarpe cit.; T.
CASINI, Scongiuro e poesia, in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», V, 1886; A. D’ANCONA, La poesia popolare, Livorno 1906, pp. 108 sgg.; L. Fumi, Usi e costumi lucchesi, Lucca
1907, 1, pp. 100 sgg.; e la notevole raccolta nel cod. Riccardiano
2067.
54 nonostante: cfr. Intr., 22 n.
55 Per l’uso di esso rafforzativo e invariato cfr. II 5,31 n.; VI
concl., 31 n.; VII 2,8 ecc.
56 La discussione, che si sviluppa di qui alla fine della novella, è
l’esempio più cospicuo di quegli espedienti, che, trasportando il
racconto nel cerchio piccante e attraente della cronaca, mirano a
ravvivare l’attenzione e a sottolineare la comicità delle situazioni
(per es. I 10,10; II 3,6-7; V 10,63-64 ecc.). E risponde anche,
nell’atmosfera paesana e popolaresca di tutta la novella, al piglio
di certi narratori acclamati nel pubblico semicolto (cfr. per es. Andrea da Barberino, Aspromonte, I 44; Reali di Francia, II 6).
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zione in questa guisa: «Fantasima, fantasima, fatti con
Dio57, ché la testa dell’asino non vols’io, ma altri fu, che
tristo il faccia Iddio, e io son qui con Gianni mio58»; per
che, andatosene, senza albergo e senza cena era la notte
rimaso.
33
Ma una mia vicina, la quale è una donna molto vecchia, mi dice che l’una e l’altra fu vera, secondo che ella
aveva, essendo fanciulla, saputo; ma che l’ultimo non a
Gianni Lotteringhi era avvenuto, ma a uno che si
chiamò Gianni di Nello59, che stava in porta San Piero,
non meno sofficiente lavaceci60 che fosse Gianni Lotteringhi.
57 La solita espressione di deprecazione e congedo, con la variante f a t t i o v a t t i (su cui cfr. Annotazioni, pp. 197 sgg.): II
5,54; VI intr., 14; VII 2,22; VII 10,29.
58 «Quell’altra è migliore orazione e più unta» (M.).
59 Un Giovanni di Nello, speziale, era nel 1342 consigliere del
Comune, nel 1345 console della propria arte; il 15 agosto 1347 fu
sepolto proprio in Santa Maria Novella dove a sue spese si era
fatto costruire una cappella; ai Domenicani di quel convento
aveva destinato alcuni lasciti. Abitava però nel popolo di San Donato de’ Vecchietti e non in quello di San Pier Maggiore, cui appartenne la famiglia del B. (Delizie degli eruditi toscani, IX 176,
XIII 190; V. FINESCHI, Memorie sopra il cimitero antico della
Chiesa di Santa Maria Novella, Firenze 1787, pp. 90 sgg., e Il Forestiero istruito in Santa Maria Novella, Firenze 1790, p. 29). È nominato anche nel ternario (Rime, LXIX 35-36) come marito di
una Emiliana o Emilia; e Giovanni si chiama nella Comedia (XXI
10) il tedioso e male avventurato marito di quell’Emilia, la quale
apparirebbe anche nell’Amorosa Visione (XLIV 25 sgg.) – secondo il Torraca e il Billanovich – come il grande amore fiorentino
del B. (cfr. per questa e altre notizie TORRACA, Per la biografia,
pp. 112 sgg.; V. BRANCA, Amorosa Visione, comm. cit., p. 633 e
B. medievale, pp. 197 e 244; G. BILLANOVICH, Restauri, pp.
110 sgg.). Per le «scuole» e le compagnie di disciplinati (III 4) cfr.
in gen. G. M. MONTI, Le confraternite medievali Venezia 1927; I.
HIJMANS-TROMP, Agnolo Torini, Leiden 1957, pp. 20 sgg.
60 insigne sciocco, dappoco (cioè non buono se non a lavare i
ceci); cfr. VIII 9,17: «ci lasciò due suoi sufficienti discepoli»; e
VIII 9,52: «udendo costui e parendogli... un lavaceci»; Sacchetti,
LXXII: «questo Vescovo lavaceci».
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E per ciò, donne mie care, nella vostra elezione61 sta 34
di torre qual più vi piace delle due, o volete amendune.
Elle hanno grandissima virtù a così fatte cose, come per
esperienzia avete udito; apparatele, e potravvi ancor giovare. -
61
scelta.
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NOVELLA SECONDA
1
Peronella mette un suo amante in un doglio1 tornando2 il marito a casa; il quale avendo il marito venduto, ella dice che venduto l’ha ad uno che dentro v’è a vedere se saldo gli pare: il
quale saltatone fuori, il fa radere3 al marito, e poi portarsenelo
a casa sua4.
2
Con grandissime risa fu la novella d’Emilia ascoltata
e l’orazione per buona e per santa commendata da tutti;
la quale al suo fine venuta essendo, comandò il re a Filostrato che seguitasse, il quale incominciò:
- Carissime donne mie, elle son tante le beffe che gli
uomini vi fanno, e spezialmente i mariti, che, quando alcuna volta avviene che donna niuna5 alcuna al marito ne
faccia, voi non dovreste solamente esser contente che
ciò fosse avvenuto o di risaperlo o d’udirlo dire ad alcuno, ma il dovreste voi medesime andare dicendo per tutto, acciò che per6 gli uomini si conosca che, se essi sanno, e7 le donne d’altra parte anche sanno: il che altro
3
4
1
botte, tino, cui si riferisce il quale seguente.
quando, mentre torna.
raschiare, ripulire: cfr. 31.
4 La novella, come la V 10, deriva direttamente e chiaramente –
anzi qualche volta letteralmente - da uno degli autori prediletti dal
B., Apuleio (Metamorlosi, IX 5; e cfr. V 10,1 n.: vedi un raffronto
minuto dei due testi in: L. DI FRANCIA, Alcune novelle cit.,
1904). Per questo è vano richiamarsi a un fabliau, Le Cuvier (Recueil général cit., I, p. 126; e cfr. anche II, p. 24), che di comune
ha poco più che il titolo (BÚDIER, op. cit., p. 458) o a elementi
popolari (Thompson, K 1517.3). La novella fu prontamente ripresa dal Sercambi (CXXXVIII). Cfr. H. G. DICK, The lover in a
cask, in «Italica», XVIII, 1941. Originale e caratterizzante la napoletanizzazione operata dal B.
5 qualche donna.
6 da: Intr., 55 n.
7 anche: la congiunzione è come spesso in ripresa dopo proposizione ipotetica, ma qui quasi anche prolettica dell’ a n c h e che
segue (Marti).
2
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6
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9
che utile essere non vi può; per ciò che, quando alcun sa
che altri sappia, egli non si mette troppo leggiermente a
volerlo ingannare8.
Chi dubita dunque che ciò che oggi intorno a questa
materia diremo, essendo risaputo dagli uomini, non fosse lor grandissima cagione di raffrenamento al beffarvi,
conoscendo che voi similmente, volendo, ne sapreste fare? È adunque mia intenzion di dirvi ciò che una giovinetta, quantunque di bassa condizione fosse9, quasi in
un momento di tempo10, per salvezza di sé11 al marito
facesse.
Egli non è ancora guari che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta chiamata Peronella12, ed esso con l’arte sua, che era muratore,
ed ella filando, guadagnando13 assai sottilmente, la lor
vita reggevano come potevano il meglio. Avvenne che
un giovane de’ leggiadri14, veggendo un giorno questa
Peronella e piacendogli molto, s’innamorò di lei, e tanto
in un modo e in uno altro la sollicitò, che con essolei15 si
dimesticò. E a potere essere insieme presero tra sé questo ordine: che, con ciò fosse cosa che il marito di lei si
levasse ogni mattina per tempo per andare a lavorare o a
trovar lavorio, che16 il giovane fosse in parte che uscir lo
8
Si ripete la spregiudicata posizione proclamata nella II 9,5.
sarebbe: I 1,51 n.
10 in un attimo.
11 per salvarsi
12 Nome non infrequente nella Napoli del tempo (dal fr. Peronnelle): fra le bellezze napoletane nella Caccia Peronella d’Arco (IX
45 XI 16).
13 miseramente, scarsamente: II 3,11: «faccendo sottilissime
spese»; VII 3,12: «la sottil vita»; Sacchetti, CXLIX: «mangiava
sottilmente».
14 galanti, bellimbusti: uso sostantivato non raro: cfr. più avanti
18; Dante, Rime, LXXXIII 52: «Per donneare a guisa di leggiadro».
15 Cfr. VII 1,30 n.
16 Solita ripetizione di c h e dopo inciso causale o temporale.
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vedesse fuori; ed essendo la contrada, che Avorio si
chiama17, molto solitaria, dove stava, uscito lui, egli in
casa di lei se n’entrasse; e così molte volte fecero.
10
Ma pur trall’altre avvenne una mattina che, essendo
il buono uomo fuori uscito18, e Giannello Scrignario19,
ché così aveva nome il giovane, entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in tutto il dì
tornar non soleva, a casa se ne tornò, e trovato l’uscio
serrato dentro, picchiò, e dopo il picchiare cominciò se11 co a dire: «O Iddio, lodato sia tu sempre; ché, benché tu
m’abbi fatto povero, almeno m’hai tu consolato di buona e onesta giovane di moglie20! Vedi come ella tosto
serrò l’uscio dentro, come io ci21 uscii, acciò che alcuna
persona entrar non ci potesse che noia le desse».
Peronella, sentito il marito, ché al modo del picchia12 re il conobbe, disse: «Ohimè, Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio22, che
17 È la via o piazza Aborii iuxta plateam Portenove, non lontano
dalla Loggia di Genova (cfr. B. CAPASSO, Sulla circoscrizione civile ... della città di Napoli ecc., Napoli 1883; TORRACA, G. B. a
Napoli, p. 157).
18 Il racconto, dopo le necessarie premesse, s’avvia vivacemente
sui ritmi di due endecasillabi seguiti da un settenario.
19 Proprio nella piazza Portanova, o nelle vicinanze, appaiono
nel 1324 i fratelli Giovanni e Niccolò Scrignari (C. MINIERI RICCIO, Notizie storiche da 62 registri, p. 153; CAMERA, op. cit., II,
p. 211; TORRACA, art. cit., p. 157): cioè due membri di quella famiglia feudale che, giunta all’apogeo della sua potenza sotto Giovanna e Luigi di Taranto, è celebrata anche nella Caccia (I 24, Il
34, VI 13 e 34); Cfr. V. BRANCA, Tradizione cit., pp. 173 sgg.
20 «Per proprietà di lingua usarono gli antichi di porre in secondo caso il nome di una persona o animale quando innanzi gli
vada un aggettivo indicante qualità dell’animo o del corpo» (Fanfani): come per es. alla II 5,58: «ebber veduto il cattivel d’Andreuccio»; VIII 7,2: «avevan le donne riso del cattivello di Calandrino».
21 di qui: IV 2,50 n.
22 Sequenza deprecatoria su settenario, endecasillabo, settenario rimati.
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ci tornò: e non so che questo si voglia dire, ché egli non
ci tornò mai più a questa otta23; forse che ti vide egli
quando tu c’entrasti. Ma, per l’amore di Dio, come che
il fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io
gli andrò ad aprire, e veggiamo quello che questo vuol
dire di tornare stamane così tosto a casa».
Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella
andata all’uscio aprì al marito, e con un mal viso disse:
«Ora questa che novella è24, che tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu non vuogli oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co’ferri tuoi in
mano; e, se tu fai così, di che viverem noi? Onde avrem
noi del pane? Credi tu che io sofferi che tu m’impegni la
gonnelluccia25 e gli altri miei pannicelli? che non fo il dì
e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s’è spiccata dall’unghia, per potere almeno aver tanto olio che
n’arda la nostra lucerna. Marito, marito, egli non ci ha
vicina che non se ne maravigli e che non facci beffe di
me di tanta fatica quanta è quella che io duro; e tu mi
torni a casa con le mani spenzolate26, quando tu dovresti
esser a lavorare».
E così detto, incominciò a piagnere27 e a dir da capo:
«Ohimè, lassa me, dolente me, in che mal’ora nacqui, in
che mal punto ci venni28! ché avrei potuto avere un giovane così da bene e nol volli, per venire a costui che non
pensa cui egli s’ha recata a casa. L’altre si danno buon
23
ora: VII 4,24; IX 5,35.
che novità è questa?
25 Doveva essere uno dei pegni più soliti, se anche la Belcolore
aveva dato all’usuraio «la gonnella ... del perso» (VIII 2,28): e per
le varie fogge di questo comunissimo indumento maschile e femminile cfr. Merkel, pp. 37 sgg.
26 penzoloni, ciondoloni: Sacchetti, LXXIV: «s’andava colle
gambucce spenzolate a mezzo le barde».
27 «Lacrime mulierum condimentum sunt malitie» (M.).
28 sotto quale cattiva stella venni al mondo: p u n t o è inteso
astrologicamente come posizione degli astri (II 10,9 n.; X 7,13 n.)
24
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tempo con gli amanti loro, e non ce n’ha niuna che non
n’abbia chi due e chi tre, e godono e mostrano a’ mariti
la luna per lo sole; e io, misera me!, perché son buona e
non attendo a così fatte novelle29, ho male e mala ventura; io non so perché io non mi pigli di questi amanti come fanno l’altre. Intendi sanamente30, marito mio, che 18
se io volessi far male, io troverrei ben con cui, ché egli ci
son de’ ben leggiadri che m’amano e voglionmi bene e
hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti
denari, o voglio io robe31 o gioie, né mai mel sofferse il
cuore, per ciò che io non fui figliuola di donna da ciò32;
e tu mi torni a casa quando tu dei essere a lavorare».
Disse il marito: «Deh donna, non ti dar malinconia, 19
per Dio; tu dei credere che io conosco chi tu se’, e pure
stamane me ne sono in parte avveduto. Egli è il vero
ch’io andai per lavorare, ma egli mostra33 che tu nol sappi, come io medesimo nol sapeva: egli è oggi la festa di
santo Galeone34, e non si lavora, e per ciò mi sono tor- 20
nato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno proveduto
e trovato modo che noi avremo del pane per più d’un
mese, ché io ho venduto a costui che tu vedi qui con me
29
Solita espressione: II 9,10 n.
bene: III 4,15 n.
oppure, o se preferisco.
32 Cioè capace di questa disonestà.
33 è evidente, si vede: cfr. I 7,21 n.
34 A Napoli, non lontano dal quartiere di Peronella e degli Scrignari, esisteva effettivamente una veneratissima cappella di
Sant’Eucalione o San Galione (Caleon è il nome dell’innamorato
di Fiammetta nel Filocolo, IV 16 sg. e Caleone nella Comedia,
XXXV 118 e XXXVII 4 sgg.). Anche questo è un particolare tipicamente napoletano che ambienta la novella in modo nuovo rispetto alla fonte apuleiana (per l’inattesa vacanza diceva solo:
«licet forensi negotio officinator noster attentus ferias nobis fecerit»). Cfr. S. D’ALOE, Catalogo di tutti gli edifizii sacri della città
di Napoli ecc., in «Archivio Storico per le Province Napoletane»,
VIII, 1884, p. 295.
30
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co il doglio, il quale tu sai che, già è cotanto, ha tenuta la
casa impacciata, e dammene cinque gigliati35».
Disse allora Peronella: «E36 tutto questo è del dolor
mio37: tu che se’uomo e vai attorno, e dovresti sapere
delle cose del mondo, hai venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non fu’mai appena fuor
dell’uscio, veggendo lo ‘mpaccio che in casa ci dava, l’ho
venduto sette ad un buono uomo, il quale, come tu qui
tornasti, v’entrò dentro per vedere se saldo era».
Quando il marito udì questo, fu più che contento, e
disse a colui che venuto era per esso:
«Buon uomo, vatti con Dio38; ché tu odi che mia
mogliere l’ha venduto sette, dove tu non me ne davi altro che cinque».
Il buono uomo disse:
«In buona ora sia39» ; e andossene.
E Peronella disse al marito:
«Vien su tu, poscia che tu ci se’, e vedi con lui insieme i fatti nostri».
Giannello, il quale stava con gli orecchi levati per vedere40 se di nulla gli bisognasse temere o provvedersi41,
35 Moneta napoletana fatta coniare da Carlo d’Angiò attorno al
1300, di circa 4 grammi d’argento, così chiamata per la croce ornata dei gigli di Francia.
36 Anche (I 1,44 n.); o Appunto (Fanfani).
37 è causa del mio dolore, è cosa che merita il mio dolore: alla latina, con uso analogo a II 2,17 n.
38 Solita formula per congedare: cfr. II 5,54 n.; e anche VII
1,32 n.
39 Come dire sta bene; cioè ciò sia, avvenga in buon’ora, con
buona ventura: VII 5,39 n.
40 L’attribuire a un sentimento o a una facoltà l’azione di
un’altra (sinestesia) è uso frequente nel B. e negli scrittori di tutti i
tempi: VII 7,21: «mai sazia non se ne vedrebbe la voce mia»; Inf.,
XVIII 129.
41 prendere qualche provvedimento. X 9,5: «per meglio poter
provedersi».
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udite le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del
doglio, e quasi niente sentito avesse della tornata42 del
marito, cominciò a dire:
«Dove se’, buona donna?» Al quale il marito, che già
veniva, disse:
«Eccomi, che domandi tu?»
Disse Giannello:
«Qual se’ tu43? Io vorrei la donna con la quale io feci
il mercato di questo doglio».
Disse il buono uomo:
«Fate sicuramente meco, ché io son suo marito».
Disse allora Giannello:
«Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare che voi
ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto impiastricciato44 di non so che cosa sì secca, che io non ne posso
levar con l’unghie, e però nol torrei se io nol vedessi prima netto».
Disse allora Peronella:
«No, per quello non rimarrà il mercato45; mio marito il netterà tutto».
E il marito disse:
«Sì bene» ; e posti giù i ferri suoi, e ispogliatosi in camicione46, si fece accendere un lume e dare una radimadia47, e fuvvi entrato48 dentro e cominciò a radere. E Peronella, quasi veder volesse ciò che facesse, messo il
capo per49 la bocca del doglio, che molto grande non
42
ritorno: e cfr. IV 2,46 n.
Chi sei tu?
44 Storpiamento popolaresco per impiastricciato.
45 non andrà a monte, non fallirà l’affare: II 1,8 n.
46 Cioè senza il farsetto; come oggi: in maniche di camicia: VI
10,54 n.
47 Una specie di raschiatoio: ma non sono citati altri esempi del
tempo.
48 La solita successione di passato e trapassato remoto a indicare istantaneità: II5,58 n.; VI 9,12 n.
49 dentro, attraverso.
43
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
era, e oltre a questo l’un de’bracci con tutta la spalla, cominciò a dire: «Radi quivi, e quivi, e anche colà» ; e:
«Vedine qui rimaso un micolino50».
33
E mentre che così stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella mattina il suo disidero ancor fornito51 quando il marito venne, veggendo che come volea non potea, s’argomentò di
34 fornirlo come potesse; e a lei accostatosi, che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella guisa che negli
ampi campi gli sfrenati cavalli e d’amor caldi le cavalle
di Partia assaliscono52, ad effetto recò il giovinil desiderio53, il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione e fu raso il doglio, ed egli scostatosi, e la Peronella
tratto il capo del doglio, e il marito uscitone fuori54.
50 un briciolo, un pocolino: Volg. Seneca Epistole (T): «I veraci
beni non si partono in tal maniera, che ciascuno non abbia un micolino»; Pataffio, III 47.
51 soddisfatto: II 5,9 n.
52 I «D i P a r t i a disse con bel modo, per mostrar di parlar
coperto: perché, già così il Ruscelli, in Partia le cavalle e i cavalli
fanno ogni cosa naturale, come fanno anco negli altri paesi» (Colombo). Ma come ha dimostrato M. Pastore Stocchi (Note e Chiose interpretative, in «Studi sul B.», II, 1964) l’espressione metaforizzata è derivata, non senza fraintendimento; da una contaminatio
fra due autori emblematici della cultura e del gusto del B., Apuleio e Ovidio (Ars Am., I 209 sg III 785 sg.); e forse fu presente
anche il famoso passo delle Georgiche (III 266 sgg.) sulle cavalle
infoiate. Più confusamente equivoca e immaginosa risuona la frase
nell’eccezionale sequenza di cinque endecasillabi di seguito.
53 «Qui si chiava a parte post ex natura transitionis priapi»
(M).
54 Nel polisindeto rapido ed efficace l’ausiliare è sottinteso (dal
fu precedente) coi tre ultimi participi, benché essi lo richiedano
diverso: II 8,95 n. Per l’espressivismo linguistico napoletano cfr.
Introduzione a questa edizione, pp. XXXIII sg.
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36
Per che Peronella disse a Giannello: «Te’55 questo
lume, buono uomo, e guata se egli è netto a tuo modo».
Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene, e
che egli era contento; e datigli sette gigliati, a casa sel fece portare.
55
tieni familiare: cfr. X 10,32 n.
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NOVELLA TERZA
1
Frate Rinaldo si giace colla comare1; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli incantava vermini al figlioccio2.
2
Non seppe sì Filostrato parlare oscuro delle cavalle
partice3, che l’avvedute donne non lo intendessono e alquanto non ne ridessono, sembiante faccendo di rider
d’altro. Ma poi che il re conobbe la sua novella finita, ad
Elissa impose che ragionasse; la quale, disposta ad ubbidire, incominciò.
Piacevoli donne, lo ’ncantar della fantasima d’Emilia
m’ha fatto tornare alla memoria una novella d’un’altra
incantagione, la quale4, quantunque così bella non sia
come fu quella, per ciò che altra alla nostra materia non
me ne occorre5 al presente, la racconterò.
Voi dovete sapere che in Siena fu già6 un giovane as-
3
4
1 Cioè con la donna di cui ha tenuto a battesimo, come padrino, il figlio.
2 Nessun antecedente, se non quelli vaghissimi di novelle - frequenti in varie raccolte d’Oriente e d’Occidente - in cui mogli sorprese coll’amante dal marito riescono a scampare con le astuzie
più diverse. Qualche punto di contatto può esser notato col Livre
de Matheolus, poème français du XIVe siècle par J. J. Lefèvre
(Bruxelles 1846, II, pp. 143 sgg.), che deriverebbe da un’operetta
latina della fine del Duecento, di cui tuttavia non è conosciuto il
testo; o con alcune tradizioni popolari la cui cronologia però non
è sicura (Thompson e Rotunda, K 1517.2; M. P. GIARDINI, Tradizioni popolari nel D. cit., pp. 40 sgg.). Il Sacchetti riprese in
parte questa novella nella CCVII, e il Sercambi nella CLI.
3 partiche, della Partia: e per la forma cfr. E. G. PARODI, in
«Bull. Soc. Dantesca», n. s., III, 1895, p. 121; e anche X 4,3 n.
4 la quale novella.
5 viene in mente: cfr. I 4,10 n.
6 È questa un’altra formula, o quasi, preferita per dare inizio al
racconto (per es. II 6, IV 9 e 10, V 2 e 9, VI 9, VII 7 e 8, VIII 8,
IX 2, X 1) spesso sui ritmi di uno o più endecasillabi. Questa
prima novella senese già scopre quell’animosità verso la città rivale
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
5
6
7
sai leggiadro e d’orrevole famiglia, il quale ebbe nome
Rinaldo7; e amando sommamente una sua vicina e assai
bella donna e moglie d’un ricco uomo, e sperando, se
modo potesse avere di parlarle senza sospetto8, dovere
aver da lei ogni cosa che egli disiderasse, non vedendone
alcuno9 ed essendo la donna gravida, pensossi di volere
suo compar divenire; e accontatosi10 col marito di lei,
per quel modo che più onesto gli parve gliele di se, e fu
fatto.
Essendo adunque Rinaldo di madonna Agnesa11 divenuto compare e avendo alquanto d’albitrio più colorato12 di poterle parlare, assicuratosi, quello della sua intenzione con parole le fece conoscere che ella molto
davanti negli atti degli occhi suoi avea conosciuto; ma
poco per ciò gli valse, quantunque d’averlo udito non
dispiacesse alla donna.
Addivenne non guari poi, che che si fosse la cagione,
che Rinaldo si fece frate, e chente che13 egli trovasse la
pastura, egli perseverò in quello. E avvegna che egli aldi Firenze, che insisterà in varie altre pagine del D., rappresentando spesso i senesi come sciocchi, creduloni, malfidi (vedi specie
VII 10, IX 4 e anche VIII 8 e X 2: cfr. IV 2,43 n.).
7 Vanamente il Manni volle identificarlo col rimatore Bernardo
da Siena.
8 «Alle consequenzie» (M.).
9 non vedendo alcun modo.
10 familiarizzatosi: II 3,1 n. Riflesso di un precetto già di Ovidio
(Ars Am., I 579 sgg.) e delle artes amandi medievali (per es. A.
Cappellano, De Amore, p. 136) che ritorna nel D. (III 4 e 5 e 8; IV
9; VII 7; VIII 8: e cfr. Fiammetta, I 23,3).
11 Anche qui il nome della protagonista non è al principio (IV
I,17 n.).
12 pretesto alquanto migliore, ragioni e occasioni più plausibili.
La forma a l b i t r i o (arbitrio) era comune: per es. X 3,34; Comedia, XVII 8, XXXVIII 68; Amorosa Visione, XLI 80; ma non
conosco altri esempi della forma albritrio, dovuta probabilmente a
assimilazione popolaresca.
13 qualunque. La frase ricorda Frate Cipolla: «per ciò che
buona pastura vi trovava» (VI 10,6): p a s t u r a , pascolo, cioè
modo di vivere.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
quanto, di que tempi che frate si fece, avesse dall’un de’
lati posto l’amore che alla sua comar portava e certe altre sue vanità, pure in processo di tempo, senza lasciar
l’abito, se le riprese, e cominciò a dilettarsi d’apparere14
e di vestir di buon panni e d’essere in tutte le sue cose
leggiadretto15 e ornato, e a fare delle canzoni e de’ sonetti e delle ballate, e a cantare, e tutto pieno16 d’altre
cose a queste simili.
Ma che dico io di frate Rinaldo nostro, di cui parlia8
mo17? Quali son quegli che così non facciano? Ahi vitupero del guasto mondo! Essi non si vergognano d’appa9
rir grassi, d’apparir coloriti nel viso, d’apparir morbidi18
ne’ vestimenti e in tutte le cose loro; e non come colombi, ma come galli tronfi, con la cresta levata, pettoruti
10 procedono; e, che è peggio (lasciamo stare d’aver le lor
celle piene d’alberelli di lattovari19 e d’unguenti colmi,
di scatole di vari confetti20 piene, d’ampolle e di guastadette con acque lavorate21 e con olii, di bottacci di malvagìa e di greco22 e d’altri vini preziosissimi traboccanti,
14 far bella figura: così al 12: «a cacciare il freddo e non a apparere si vestissero» (Par., XXIX 94).
15 galante ed elegante: VII 2,8 n. (il diminutivo sottolinea la riprovazione canzonatoria); IX 8,5.
16 e ad esser tutto pieno: elegante ellissi: cfr. Intr., 37 n.
17 «Leggi qui per amor de’ frati» (M.). E difatti il passo seguente è uno dei più caratteristici sfoghi del B. contro il malcostume
del clero; ricorda specialmente quello nella III 7,30-43 (e cfr. ivi
note).
18 molli, delicati, raffinati: III 10,3 n.
19 vasetti d’unguenti a base di miele. Anche nel Corbaccio, in
una pagina simile, si lamenta che «la casa mia era piena ... di lembicchi e di pentolini e d’ampolle e d’alberelli e di bossoli» (318); e
per l a t t o v a r o (lat. electuarium) cfr. Fioretti di San Francesco,
XLVII: «tre bossoli di lattovaro». E cfr. E. BIANCHI, in «Lingua
Nostra», I, 1939, p. 77.
20 dolci, pasticcini: I 10,14 n.
21 piccole caraffe con essenze: IV 10,13 n. e 32.
22 fiaschi di malvasia e di vin greco: IX 8,13: «datogli un bottaccio di vetro»; e cfr. anche II 5,30 n. Erano vini particolarmente
pregiati.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
in tanto che non celle di frati, ma botteghe di speziali o
d’unguentari23 appaiono più tosto a’ riguardanti), essi
non si vergognano che altri sappia loro esser gottosi, e
credonsi che altri non conosca e sappia che i digiuni assai, le vivande grosse e poche24 e il viver sobriamente
11 faccia gli uomini magri e sottili e il più25 sani; e se pure
infermi ne fanno, non almeno di gotte gl’ infermano26,
alle quali si suole per medicina dare la castità e ogni altra
12 cosa a vita di modesto frate appartenente. E credonsi
che altri non conosca, oltra la sottil vita27, le vigilie lunghe, l’orare e il disciplinarsi dover gli uomini pallidi e afflitti rendere; e che né san Domenico né san Francesco28, senza aver quatro cappe per uno, non di
tintillani29 né d’altri panni gentili, ma di lana grossa fatti
e di natural colore, a cacciare il freddo e non ad apparere si vestissero. Alle quali cose Iddio provegga, come
all’anime de’semplici che gli nutricano fa bisogno30.
13
Così adunque ritornato frate Rinaldo ne’ primi appetiti, cominciò a visitare molto spesso la comare; e cresciutagli baldanza, con più instanzia che prima non faceva la
cominciò a sollicitare a quello che egli di lei disiderava.
23
profumieri.
grossolane, ordinarie e scarse: Trattatello, I 115: «il più si pasceva di grossi [cibi]».
25 per lo più, generalmente.
26 fanno ammalare. Raro l’uso di informare transitivo: ma cfr.
Volg. Epistole di San Gerolamo (T.). «Nessuna cosa così inferma i
corpi ... come il cibo indigesto».
27 oltre la vita parca, povera: VII 2,7 n. E per la forma o l t r a, non
peregrina nel B., cfr. Teseida, p. CXX; Amorosa Visione, XVI 76.
28 I Francescani e i Domenicani sono i religiosi presi più di
mira dal B., mentre, per esempio, non sono mai attaccati i prediletti Agostiniani.
29 La si dà questa denominazione ai panni fini perché se ne suol
tignere la lana prima di farli, affinché ne riesca più vivo e più durevole il colore» (Colombo): Velluti, Cronica, p. 43. Nello Zibaldone Magliabechiano (c. 259r) per un «amictus cilicio» il B. annota
«non s’usano ancora gli scarlatti».
30 «Amen» (M., che segna a margine i periodi 8-13).
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La buona donna, veggendosi molto sollicitare, e parendole frate Rinaldo forse più bello che non soleva, essendo un dì molto da lui infestata31, a quello ricorse che
fanno tutte quelle che voglia hanno di concedere quello
che è addimandato32, e disse: «Come, frate Rinaldo, o33
fanno così fatte cose i frati?»
A cui frate Rinaldo rispose: «Madonna, qualora io
avrò questa cappa fuor di dosso, che me la traggo molto
agevolmente, io vi parrò uno uomo fatto come gli altri, e
non frate34».
La donna fece bocca da ridere, e disse: «Oimè trista,
voi siete mio compare35; come si farebbe questo? Egli
sarebbe troppo gran male; e io ho molte volte udito che
egli è troppo gran peccato; e per certo, se ciò non fosse,
io farei ciò che voi voleste».
A cui frate Rinaldo disse: «Voi siete una sciocca, se
per questo lasciate. Io non dico che non sia peccato, ma
de’ maggiori perdona Iddio a chi si pente. Ma ditemi,
chi è più parente del vostro figliuolo, o io che il tenni a
battesimo, o vostro marito che il generò?»
La donna rispose: «È più suo parente mio marito».
«E voi dite il vero,» disse il frate «e vostro marito
non si giace con voi?»
«Mai sì36» rispose la donna.
31
tormentata, sollecitata insistentemente: V 9,39 n.
«Nota» (M.).
33 Dialettale e parlato per forse che: cfr. I 1,51 n.
34 «Sì, se non ne venisse del caprino» (M.).
35 Il comparatico stabiliva, secondo le consuetudini e le credenze del Medioevo, un legame molto stretto, quasi un vincolo di sangue: sposare o avere rapporti con una comare era stimato quasi un
incesto (cfr. VII 10; e, per es., un fabliau, L’Oue au chapelain, in
Recueil général VI, p. 46; Chansons et dits arlésiens du XIIIe siècle
..., Bordeaux 1898, VIII; G. PARIS, in «Romania», XXVII, 1898,
pp. 494 sgg.; M. P. GIARDINI, op. cit., p. 46).
36 Sì davvero: III 3,36 n., e VII 5,50 n.
32
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«Adunque,» disse il frate «e37 io che son men parente di vostro figliuolo che non è vostro marito, così mi
debbo poter giacere con voi come vostro marito».
22
La donna, che loica38 non sapeva e di piccola levatura aveva bisogno39, o credette o fece vista di credere che
il frate dicesse vero, e rispose: «Chi saprebbe rispondere
alle vostre savie parole?»; e appresso, non obstante il
comparatico, si recò a dovere fare i suoi piaceri; né incominciarono pure una volta, ma sotto la coverta del comparatico40 avendo più agio, perché la sospezione era minore, più e più volte si ritrovarono insieme.
Ma tra l’altre una n’avvenne che, essendo frate Ri23
naldo venuto a casa la donna41, e vedendo quivi niuna
persona essere, altri che una fanticella della donna, assai
bella e piacevoletta, mandato il compagno suo con essolei nel palco di sopra42 ad insegnarle il paternostro, egli
colla donna, che il fanciullin suo avea per mano, se n’entrarono nella camera, e dentro serratisi, sopra un lettuccio da sedere43, che in quella era, s’incominciarono a trastullare.
24
E in questa guisa dimorando, avvenne che il compar
tornò, e senza esser sentito da alcuno, fu all’uscio della
camera, e picchiò e chiamò la donna.
21
37
anche: I 1,44 n.
logica e anche, più in generale, filosofia e teologia. E tutto il
ragionare del frate è caricatura del sillogizzare scolastico (e cfr.
VII 10,30 n.).
39 ci voleva poca fatica a levarla, a smuoverla da ciò che prima
s’era proposta, per condurla a ciò che voleva il compare. «Metafora presa da arche o pietre o simili, le quali sono murate o fissate
così leggermente che poco ci vuole a smuoverle» (Fanfani). E cfr.
IV 2,41 n. e anche III 8,68 n.
40 col pretesto, collo schermo dell’esser compari: Sacchetti,
CXLIX: «Sotto coverta d’ipocrisia».
41 Cfr. II 5,50 n.
42 soffitta dove stanno i colombi, colombaia: VIII 2,17; Velluti,
Cronica, p. 55.
43 divano: e cfr. II 8,10 n. e VII intr., 9.
38
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Ma donna Agnesa, questo sentendo, disse: «Io son
morta, ché ecco il marito mio; ora si pure avvedrà44 egli
qual sia la cagione della nostra dimestichezza».
26
Era frate Rinaldo spogliato, cioè senza cappa e senza
scapolare45, in tonicella, il quale questo udendo disse:
«Voi dite vero: se io fossi pur vestito, qualche modo
ci avrebbe; ma, se voi gli aprite ed egli mi truovi così,
niuna scusa ci potrà essere».
27
La donna, da subito consiglio aiutata, disse:
«Or vi vestite; e vestito che voi siete, recatevi in
braccio vostro figlioccio, e ascolterete bene ciò che io gli
dirò, sì che le vostre parole poi s’accordino con le mie, e
lasciate fare a me».
28
Il buono uomo non era ristato appena di picchiare,
che la moglie rispose: «Io vengo a te;» e levatasi, con un
buon viso se n’andò all’uscio della camera e aperselo, e
disse:
«Marito mio, ben ti dico che frate Rinaldo nostro
compare ci si venne46, e Iddio il ci mandò; ché per certo,
se venuto non ci fosse, noi avremmo oggi perduto il fanciul nostro».
25
44
pur si avvedrà, certo si accorgerà: iperbato corrente.
Cfr. VII 1,5 n.; e anche MERKEL, art. cit., per l’esatta definizione di questi capi di vestiario.
46 si venne qui.
45
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Quando il bescio sanctio47 udì questo, tutto svenne48 e disse: «Come?»
«O marido mio,» disse la donna «e’ gli venne dianzi
30
di subito uno sfinimento, che io mi credetti ch’e’ fosse
morto e non sapeva né che mi far né che mi dire; se non
che frate Rinaldo nostro compare ci venne in quella49, e
recatoselo in collo disse: ‘Comare, questi son vermini
che egli ha in corpo, gli quali gli s’appressano al cuore e
ucciderebbolo troppo bene50; ma non abbiate paura,
ché io gl’incanterò51 e farògli morir tutti, e innanzi che
io mi parta di qui voi vedrete il fanciul sano come voi ve31 deste mai’. E per ciò che tu ci bisognavi per dir certe
orazioni, e non ti seppe trovar la fante, sì52 le fece dire al
compagno suo nel più alto luogo della nostra casa, ed
32 egli e io qua entro ce n’entrammo. E per ciò che altri che
29
47 sciocco bigotto: due parole storpiate a caricaturare, come altrove qui e nella IX 4, i senesi «gente vana» (Inf., XXIX 121 sg .;
Purg., XIII 151 sgg.). Anche nella VII 10,7 si parla della «bessaggne de ’ sanesi», un blasone assai diffuso (cfr. F. AGENO, Riboboli trecenteschi, in «Studi di filologia italiana», X, 1952). Secondo
il DEI bescio (o besso) proviene forse dal tardo latino «béstius»
cioè bestiale: va tenuto presente l’umbro e cortonese «bíscio» cioè
bastardo che presuppone una forma parallela «bistius». S a n c t i
o in vari manoscritti è trascritto in santoccio: è forse «una volgare
storpiatura della voce sanctus postavi per non profanare la voce
‘santo’» (Dal Rio): si conosce solo un esempio nella Storia di Barlaam e Giosafatte, ed. cit., p. 41. Cfr. per ambedue i termini G.
HERCZEG, I cosiddetti ‘nomi parlanti’ cit.; e per il secondo Nuovi
testi fiorentini, I, p. 45.
48 si smarrì, si spaventò: cfr. III 9,59 n.
49 in quell’ora, in quel momento: IX concl., 12 n.
50 certamente, senza fallo.
51 Preghiere e scongiuri contro i vermi sono frequenti nelle raccolte di tali formule dei secoli XIV-XV, per es. nel Riccardiano
2067: cfr. Ubbie, ciancioni e ciarpe cit.; L. T. BELGRANO, in
«Atti Soc. Ligure di Storia Patria», XLX, 1887; T. CASINI, in
«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», V, 1886; F.
NOVATI, Antichi scongiuri, in Miscellanea Ceriani, Milano 1910;
M. P. GIARDINI, op. cit., pp. 41 sgg.
52 In ripresa dopo proposizione causale (Marti).
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37
la madre del fanciullo non può essere a così fatto servigio, perché altri non c’impacciasse, qui ci serrammo, e
ancora l’ha egli in braccio, e credom’io che egli non
aspetti se non che il compagno suo abbia compiuto di
dire l’orazioni, e sarebbe fatto, per ciò che il fanciullo è
già tutto tornato in sé».
Il santoccio53 credendo queste cose, tanto l’affezion
del figliuol lo strinse, che egli non pose l’animo allo
’nganno fattogli dalla moglie, ma, gittato un gran sospiro, disse: «Io il voglio andare a vedere».
Disse la donna: «Non andare, ché tu guasteresti ciò
che s’è fatto; aspettati, io voglio vedere se tu vi puoi andare, e chiamerotti».
Frate Rinaldo, che ogni cosa udito avea, ed erasi rivestito a bello agio e avevasi recato il fanciullo in braccio, come ebbe disposte le cose a suo modo, chiamò: «O
comare, non sento io costà il compare?»
Rispose il santoccio: «Messer sì».
«Adunque,» disse frate Rinaldo «venite qua».
Il santoccio andò là. Al quale frate Rinaldo disse:
«Tenete il vostro figliuolo per la grazia di Dio sano, dove io credetti, ora fu54, che voi nol vedeste vivo a vespro;
e farete di far porre una statua di cera55 della sua grandezza a laude di Dio dinanzi alla figura di messer santo
Ambruogio56, per li meriti del quale Iddio ve n’ha fatta
grazia».
53 santocchio, e quindi sempliciotto. Altri (Martinelli, Fanfani
ecc.) pensa che sia un equivalente o una storpiatura di santolo,
cioè «colui al quale è stato tenuto un figliolo al battesimo rispetto
a quello che glielo ha tenuto».
54 mentre ci fu un momento che io credetti: VIII 9,94: «e fu ora
che egli vorrebbe essere stato innanzi a casa sua».
55 Cfr. I 1,87 n.
56 Non il grande e famoso sant’Ambrogio, come si preciserà al
par. 41, ma il domenicano beato Ambrogio Sansedoni da Siena
(1220-86), cui nel 1288 fu dedicata dal Comune di Siena una cappella. E forse c’è, attraverso Ambrogio, un’allusione alla forma
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
Il fanciullo, veggendo il padre, corse a lui e fecegli
festa come i fanciulli piccoli fanno; il quale recatoselo in
braccio, lagrimando non altramenti che se della fossa il
traesse, il cominciò a baciare e a render grazie al suo
compare che guerito gliele avea.
39
Il compagno di frate Rinaldo, che non un paternostro, ma forse più di quattro n’aveva insegnati alla fanticella, e donatale una borsetta di refe bianco, la quale a
lui aveva donata una monaca, e fattala sua divota, avendo udito il santoccio alla camera della moglie chiamare,
pianamente era venuto in parte della quale e vedere e
udire ciò che vi si facesse poteva; veggendo la cosa in
buoni termini, se ne venne giuso, ed entrato nella camera disse: «Frate Rinaldo, quelle quattro orazioni che
m’imponeste, io l’ho dette tutte».
40
A cui frate Rinaldo disse: «Fratel mio, tu hai buona
lena e hai fatto bene. Io per me, quando mio compar
venne, non n’aveva dette che due57; ma Domenedio tra
per la tua fatica e per la mia ci ha fatta grazia che il fanciullo è guerito».
41
Il santoccio fece venire di buoni vini e di confetti, e
fece onore al suo compare e al compagno di ciò che essi
avevano maggior bisogno che d’altro58. Poi, con loro insieme uscito di casa, gli accomandò a Dio; e senza alcuno indugio fatta fare la imagine di cera, la mandò ad appiccare con l’altre dinanzi alla figura di santo
Ambruogio, ma non a quel di Melano59.
38
volgare «brogio» cioè sciocco, balordo (cfr. B. MIGLIORINI, Dal
nome proprio al nome comune, Firenze 19682, p. 267). Potrebbe
essere l’ultima nota di quell’espressivismo linguistico, prevalentemente in senso senese, che avviva questa novella.
57 «Nota che l’autore usa questo modo di parlare di sopra ove è
questo segno * nella novella» (M.). Dai margini restaurati è scomparso il segno di richiamo: doveva probabilmente riferirsi alle precedenti simili espressioni equivoche (23,31), per cui cfr. anche VII X,8 n.
58 Solita situazione e solite espressioni: II 10,7; IV 2,30 ecc.
59 Costante questa forma nel D.: III 5,4 n.
Letteratura italiana Einaudi
953
NOVELLA QUARTA
1
Tofano chiude una notte fuor di casa la moglie, la quale, non
potendo per prieghi rientrare, fa vista di gittarsi in un pozzo e
gittavi una gran pietra. Tofano esce di casa e corre là, ed ella in
casa le n’entra e serra lui di fuori, e sgridandolo il vitupera1.
2
Il re, come la novella d’Elissa sentì aver fine, così
senza indugio verso la Lauretta rivolto le dimostrò che
gli piacea che ella dicesse; per che essa, senza stare2, così
cominciò.
1 Questa novella sembra derivi direttamente dall’exemplum
XIV della Disciplina clericalis di Pietro Alfonso, un’opera utilizzata e prediletta dal B. Ma l’episodio, «esemplare» delle ingannevoli
arti femminili, ebbe larghissima fortuna nella narrativa antica e
medievale, orientale e occidentale: per es. nel Cukasaptati (trad.
Schmidt cit., XXV; e cfr. E. TEZA, La tradizione dei Sette Savi,
Bologna 1864, pp. 36 ssg.) nella Historia septem sapientium del
monaco Giovanni d’Altaselva (ed. Goedeke, Göttingen 1866; IV),
nel Dolopathos (ed. Brunet-Montaiglon, Paris 1856, p.144) ecc.
Quasi sempre ripetendo le prime versioni, l’episodio ritorna in
altre raccolte diffusissime: per es. nei racconti medievali pubblicati dal Wright (Selection of latin Stories, London 1842, CI; e VI di
quelli in versi), nelle tradizioni della Disciplina (Discipline de clergie e Chastiement d’un père son fils), nel Directorium di Giovanni
di Capua e nella versione latina del Kalila e Dimna di Raimondo di
Béziers (HERVIEUX, op. cit., V, pp. 766 sgg.), nell’Alphabetum
narrationum (ed. cit., p. 362), in varie versioni e compilazioni dal
Libro dei Sette Savi (A. D’ANCONA, Il libro dei Sette Savi, Pisa
1864, pp. 33 sgg. e 112 sgg.) nei Gesta Romanorum (ed. Grässe,
Leipzig 19052, II, pp. 170 sgg. e anche p. 133) e così via. Per gli
elementi popolari cfr. Aarne, 1377; Thompson e Rotunda, K
1511: e per possibili riscontri con romanzi greci: B. LAVAGNINI, Studi sul romanzo greco, Firenze 1950, p. 41. Fu subito ripresa
dal Sercambi, CXLIII, e dalla Letteratura popolare (cfr. per es.
ALVISI, Canzonette antiche cit., pp. 35; Fabliaux et Contes du
XIIe et XIIIe siècle, ed. Barbazan e Meon, Paris 1808, II p. 99).
Oltre le solite opere cfr. L. DI FRANCIA, Alcune novelle cit.
(1904). Va notato anche, per questa e le seguenti novelle, che la
satira del geloso è tema letterario tradizionale.
2 senza indugiare, senza metter tempo mezzo.
Letteratura italiana Einaudi
954
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
3
4
5
- O Amore, chenti e quali3 sono le tue forze! Chenti
i consigli e chenti gli avvedimenti! Qual filosofo, quale
artista mai avrebbe potuto o potrebbe mostrare quegli
argomenti, quegli avvedimenti, quegli dimostramenti
che fai tu subitamente a chi seguita le tue orme4? Certo
la dottrina di qualunque altro è tarda a rispetto della
tua, sì come assai bene com prender si può nelle cose
davanti mostrate. Alle quali, amorose donne, io una
n’aggiugnerò da una semplicetta donna adoperata, tale
che io non so chi altri se l’avesse potuta mostrare che
Amore.
Fu adunque già in Arezzo un ricco uomo, il quale fu
Tofano5 nominato. A costui fu data per moglie una bellissima donna, il cui nome fu6 monna Ghita, della quale
egli, senza saper perché, prestamente divenne geloso. Di
che la donna avvedendosi prese sdegno, e più volte
3
quali e di che natura: Intr., 55 I.
I due periodi sono costruiti con artifici cari alle artes dictandi
(dicoli e tricoli, inculcatio e omeoteleuto) che sembrano anticipare
l’alto finale della X 8,113 sgg. Alla sentenza e all’esordio teoricizzante (e cfr. VII 6,3 n.) corrisponde la conclusione su un proverbio, su una breve e incisiva dichiarazione morale (cfr. 31 n.). Si
tenga presente anche VII 9,19 sgg. nn.
5 È abbreviazione di Cristofano (Cristoforo), nome corrente
nell’Arezzo del tempo (come del resto Ghita, da Margherita): difficile quindi ogni ricerca di possibili suggestioni storiche. Ma ad
Arezzo, in Via dell’Orto, di fronte alla così detta casa del Petrarca,
vi è un pozzo chiamato, per tradizione secolare, il «pozzo di Tofano» (cfr. per es. A. DEL VITA, Guida d’Arezzo, Arezzo 1923, p.
57; U. TAVANTI, Arezzo in una giornata, Arezzo 1928, p. 106); e
un «Tofanus notarius filius Federigi de Cortona» figura a metà del
Trecento abitante proprio «in borgo Orti» (A. CHIARI, Una novella aretina del D., in «Atti e Memorie della R. Accademia Petrarca», n. s., XX, 1936). Coincidenza singolare: anche se, naturalmente, la determinazione di «Pozzo di Tofano» ha probabilmente
origine letteraria, di gloria, di orgoglio municipale per l’unica novella ambientata in Arezzo dal B. (nella X 7 Arezzo sarà nominata
solo come patria di Minuccio). Ricorre il solito endecasillabo per
aprire la narrazione.
6 «Nota che in tre versi c’è quattro volte la voce fu» (Fanfani).
4
Letteratura italiana Einaudi
955
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
avendolo della cagione della sua gelosia addomandato,
né egli alcuna avendone saputa assegnare, se non cotali
generali e cattive7, cadde nell’animo8 alla donna di farlo
morire9 del male del quale senza cagione aveva paura.
6
Ed essendosi avveduta che un giovane, secondo il
suo giudicio molto da bene, la vagheggiava, discretamente con lui s’incominciò ad intendere. Ed essendo già
tra lui e lei tanto le cose innanzi, che altro che dare effetto con opera alle parole non vi mancava, pensò la donna
7
di trovare similmente modo a questo. E avendo già
tra’costumi cattivi del suo marito conosciuto lui dilettarsi di bere, non solamente gliele cominciò a commenda8
re, ma artatamente10 a sollicitarlo a ciò molto spesso. E
tanto ciò prese per uso, che, quasi ogni volta che a grado
l’era, infino allo inebriarsi bevendo il conducea; e quando bene ebbro il vedea, messolo a dormire, primieramente col suo amante si ritrovò, e poi sicuramente più
volte di ritrovarsi con lui continuò11. E tanto di fidanza
nella costui ebbrezza prese, che non solamente avea preso ardire di menarsi il suo amante in casa, ma ella talvolta gran parte della notte s’andava con lui a dimorare alla
sua, la qual di quivi non era guari lontana.
9
E in questa maniera la innamorata donna continuando, avvenne che il doloroso12 marito si venne accorgendo che ella, nel confortare lui a bere, non beveva però
essa mai; di che egli prese sospetto non così fosse come
era, cioè che la donna lui inebriasse13 per poter poi fare
10 il piacer suo mentre egli addormentato fosse. E volendo
di questo, se così fosse, far pruova, senza avere il dì be7
generiche e non buone, ingiustificate.
venne in mente: II 6,48: «e caddegli nell’animo»; IV 1,19 n.
«In senso psicologico: crepare, schiattare» (Marti).
10 ad arte, con astuzia: II 9,56 n.
11 C o n t i n u a r e si può costruire col d i (III 3,21 n.) come
cominciare (VI 6,13).
12 sciagurato: VII 8,48: «ubriaco doloroso che non si vergogna».
13 Causativo: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 105.
8
9
Letteratura italiana Einaudi
956
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
vuto, una sera tornò a casa mostrandosi 14 il più ebbro
uomo, e nel parlare e ne’ modi, che fosse mai; il che la
donna credendo né estimando che più bere gli bisognasse a ben dormire, il mise prestamente15 a letto. E fatto
ciò, secondo che alcuna volta era usata di fare, uscita di
casa, alla casa del suo amante se n’andò, e quivi infino
alla mezza notte dimorò.
Tofano, come la donna non vi sentì16, così si levò, e
11
andatosene alla sua porta, quella serrò dentro17 e posesi
alle finestre, acciò che tornare vedesse la donna e le facesse manifesto che egli si fosse accorto delle maniere sue; e
tanto stette che la donna tornò. La quale, tornando a casa
e trovandosi serrata di fuori, fu oltre modo dolente, e cominciò a tentare se per forza potesse l’uscio aprire.
12
Il che poi che Tofano alquanto ebbe sofferto18, disse:
«Donna, tu ti fatichi invano, per ciò che qua entro
non potrai tu entrare. Va, tornati19 là dove infino ad ora
se’ stata, e abbi per certo che tu non ci20 tornerai mai,
infino a tanto che io di questa cosa, in presenza de’ parenti tuoi e de’ vicini, te n’avrò fatto quello onore che ti
si conviene».
13
La donna lo ’ncominciò a pregar per l’amor di Dio
14 «Direbbe meglio si mostrò». Così M., non comprendendo di
essere di fronte a uno dei non insoliti gerundi al posto di un passato remoto (mostrò), come già rilevò il Mussafia (p. 467: e cfr. F.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 491 sgg.); il quale illustrò
anche il valore del seguente relativo ( i l c h e ) come dimostrativo colla congiunzione (e la donna credendolo e stimando che non
gli bisognasse bere di più per dormire bene, profondamente).
15 Sottinteso: «a dormire»; oppure «dove potesse fare questo».
Per la costruzione di questa frase cfr. M. BARDI, Chiose e Note,
in «Studi Danteschi», X, I925. In generale invece si pone virgola
dopo b i s o g n a s s e .
16 non sentì in casa.
17 Cioè dalla parte interna.
18 sopportato.
19 I soliti imperativi coordinati di tipo parlato: cfr. II 5,45 n.
20 qui.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
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17
18
che piacer gli dovesse d’aprirle. per ciò che ella non veniva donde s’avvisava21, ma da vegghiare22 con una sua
vicina, per ciò che le notti eran grandi23 ed ella non le
poteva dormir tutte24, né sola in casa vegghiare.
Li prieghi non giovavano nulla, per ciò che quella
bestia era pur disposto25 a volere che tutti gli aretin sapessero la loro vergogna, laddove niun la sapeva. La
donna, veggendo che il pregar non le valeva, ricorse al
minacciare e disse: «Se tu non m’apri, io ti farò il più tristo uom che viva».
A cui Tofano rispose: «E che mi potresti tu fare?»
La donna, alla quale Amore aveva già aguzzato
co’suoi consigli lo ‘ngegno, rispose: «Innanzi che io voglia sofferire la vergogna che tu mi vuoi fare ricevere a
torto, io mi gitterò in questo pozzo che qui è vicino, nel
quale poi essendo trovata morta, niuna persona sarà che
creda che altri che tu, per ebrezza26, mi v’abbia gittata; e
così o ti converrà fuggire e perdere ciò che tu hai ed essere in bando, o converrà che ti sia tagliata la testa, sì come a micidial27 di me che tu veramente sarai stato».
Per queste parole niente si mosse Tofano dalla sua
sciocca oppinione. Per la qual cosa la donna disse: «Or
ecco, io non posso più sofferire questo tuo fastidio28;
Dio il ti perdoni; farai riporre questa mia rocca che io lascio qui29».
E questo detto, essendo la notte tanto oscura che ap21
di là donde egli credeva.
Cfr. IV 8,17 n.
23 lunghe: Beato Giordano, Prediche, ed. Manni, Firenze 1739,
p. 205: «sempre di state sono i di grandi, e il verno piccioli».
24 per intero. Raro quest’uso di dormire transitivo: ma cfr. Petrarca, CCCXXVII 9: «Dormit’hai, bella donna, un breve sonno».
25 Maschile perché la b e s t i a è un uomo: e cfr. VI intr., 9.
26 a causa della tua ubriachezza.
27 uccisore: II 6,39 n.
28 questo dolore che tu mi provochi.
29 «Deh ridi un poco, tu che leggi» (M.). R o c c a è arnese per
filare la lana.
22
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24
pena si sarebbe potuto veder l’un l’altro per la via, se
n’andò la donna verso il pozzo, e presa una grandissima
pietra che a piè del pozzo era, gridando: «Iddio, perdonami», la lasciò cadere entro nel pozzo. La pietra giugnendo nell’acqua fece un grandissimo romore; il quale
come Tofano udì, credette fermamente che essa gittata
vi si fosse; per che, presa la secchia con la fune, subitamente si gittò di casa30 per aiutarla, e corse al pozzo. La
donna, che presso all’uscio della sua casa nascosa s’era,
come il vide correre al pozzo, così ricoverò31 in casa e
serrossi dentro e andossene alle finestre e cominciò a dire: «Egli si vuole inacquare quando altri il bee, non poscia la notte32».
Tofano, udendo costei, si tenne scornato e tornossi
all’uscio; e non potendovi entrare, le cominciò a dire
che gli aprisse.
Ella, lasciato stare il parlar piano come infino allora
aveva fatto, quasi gridando cominciò a dire: «Alla croce
di Dio33, ubriaco fastidioso, tu non c’enterrai stanotte;
io non posso più sofferire questi tuoi modi; egli convien
che io faccia vedere ad ogn’uomo chi tu se’ e a che ora
tu torni la notte a casa».
Tofano d’altra parte crucciato le ’ncominciò a dir
villania e a gridare; di che i vicini, sentendo il romore, si
levarono, e uomini e donne, e fecersi alle finestre e domandarono che ciò fosse.
La donna cominciò piagnendo a dire: «Egli è questo
30 si precipitò fuori di casa: cfr. II 5,83 e 7,12; III 6,43; IV 2,1;
VII 6,5.
31 si rifugiò.
32 Il vino bisogna annacquarlo quando si ( a l t r i uno) beve, e
non più tardi di notte. La sentenza è decontestualizzata col classico
mezzo dell’ironia (cfr. Boncompagno da Signa, Rhetorica, ed. cit.,
p. 290).
33 Giuramento allora corrente (Giuro per la croce di Dio), usato
da un’altra donna e proprio con un altro uomo accusato falsamente di ubriachezza (VII 8,45; e anche 37). E cfr. V 10,55; IX 5,53.
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reo uomo, il quale mi torna ebbro la sera a casa, o s’addormenta per le taverne e poscia torna a questa otta34;
di che35 io avendo lungamente sofferto e dettogli molto
male e non giovandomi36, non potendo più sofferire, ne
gli ho voluta fare questa vergogna di serrarlo fuor di casa, per vedere se egli se ne ammenderà».
Tofano bestia, d’altra parte, diceva come il fatto era
stato, e minacciava forte.
La donna co’ suoi vicini diceva: «Or vedete che uomo egli è! Che direste voi se io fossi nella via come è
egli, ed egli fosse in casa come sono io? In fè di Dio che
io dubito che voi non credeste che egli dicesse il vero.
Ben potete a questo conoscere il senno suo. Egli dice
appunto che io ho fatto ciò che io credo che egli abbia
fatto egli. Egli mi credette spaventare col gittare non so
che nel pozzo; ma or volesse Iddio che egli vi si fosse gittato da dovero e affogato, sì che il vino, il quale egli di
soperchio ha bevuto, si fosse molto bene inacquato».
I vicini, e gli uomini e le donne, cominciaro a riprender tututti37 Tofano, e a dar la colpa a lui e a dirgli villania di ciò che contro alla donna diceva; e in brieve tanto
andò il romore38 di vicino in vicino, che egli pervenne
infino a’parenti della donna.
Li quali venuti là, e udendo la cosa e da un vicino e
da altro, presero Tofano e diedergli tante busse che tutto il ruppono39. Poi, andati in casa, presero le cose della
donna e con lei si ritornarono a casa loro, minacciando
Tofano di peggio.
Tofano, veggendosi mal parato40, e che la sua gelosia
34
a quest’ora: VII 2,12 n.
per la qual cosa.
e non ottenendo alcun risultato.
37 tutti quanti: cfr. III concl., 14 n.
38 la notizia, la fama: V 6,11 n.
39 lo ammaccarono, lo pestarono: II 1,22: «tutto pesto e tutto
rotto il trassero»; VII 7,43.
40 ridotto a mal partito.
35
36
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
l’aveva mal condotto, sì come quegli che tutto ’l suo ben
voleva alla donna, ebbe alcuni amici mezzani41, e tanto
procacciò che egli con buona pace riebbe la donna a casa sua alla quale promise di mai più non esser geloso; e
oltre a ciò le diè licenza che ogni suo piacer facesse, ma
31 sì saviamente, che egli non se ne avvedesse42. E così, a
modo del villan matto, dopo danno fe’ patto43. E viva
amore, e muoia soldo44 e tutta la brigata. -
41 ricorse ad alcuni amici come intercessori, mediatori di pace: I
6,9 n.
42 Tutto il finale di questa novella è simile per molti aspetti a
quello della VII 8.
43 Per il motto sul «villan matto» cfr. D. MERLINI, Saggio di
ricerche sulla satira contro il villano, Torino 1894, p. 127; Thompsonn, J 1705.I, P 411; Novati, Serie proverbiali cit., III, P, 56 e
IV, passim.
44 Oggi diremmo: e crepi l’avarizia: naturalmente anche a tutta
la brigata si riferisce l’iniziale viva. Finale su proverbi, non insolito
nel D. (per es. II 7 e 9, V 10, VIII 10): e cfr. 3 n.
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NOVELLA QUINTA
1
Un geloso in forma di prete1 confessa la moglie, al quale ella dà
a vedere che ama un prete che viene a lei ogni notte; di che mentre che il geloso nascostamente prende guardia all’uscio, la donna per lo tetto si fa venire un suo amante, e con lui si dimora2.
2
Posto avea fine la Lauretta al suo ragionamento3, e
avendo già ciascun commendata la donna che ella bene
avesse fatto e come a quel cattivo si conveniva, il re, per
non perder tempo, verso la Fiammetta voltatosi, piacevolmente il carico le ’mpose del novellare; per la qual
cosa ella così cominciò.
- Nobilissime donne, la precedente novella mi tira a
dovere io similmente ragionar 4d’un geloso, estimando
che ciò che si fa loro dalle loro donne, e massimamente
3
1
travestito da prete.
Il tema di questa novella appare assai diffuso nella letteratura
medievale, senza che tuttavia si possano con sicurezza fissare i rapporti tra le varie versioni né stabilire la «fonte» del B. Si citano un
fabliau, Du chevalier qui est sa fame confesse (Recueil général cit., I
16; BÉDIER, op. cit., pp. 290 sgg., 453), il romanzo provenzale
Flamenca (ed. p. Meyer, Paris 19012: vaghissimi i riscontri), la
Scala Celi di Giovanni Junior e gli Exempla di Jacques de Vitry
(ed. Crane, London 1890, f. 49 e p. LXXXVIII), antichi racconti
tedeschi piuttosto aberranti (Gesammtabenteuer, XLlV e Erzählungen ... gesammelt durch A. von Keller, Stuttgart 1891, p. 383);
e in fine un testo tratto da un codice magliabechiano del Trecento
(G. PAPANTI, Catalogo dei novellieri italiani, Livorno 1871, n.
28), un monologo drammatico bergamasco (V. DE BARTHOLOMAEIS, Un frammento bergamasco e una novella del D., in Scritti
vari di Filologia ... per E. Monaci, Roma 1901 e Rime giullarescbe
cit., pp. 22 sgg.) e alcune versioni popolaresche e novellistiche
(Thompson e Rotunda, K 1528, J 1545.2, T 381.1*).
3 Purg., XVIII 1: «Posto avea fine al suo ragionamento»; e cfr.
VIII 5,2 n.
4 Esordio non insolito, per es. IV 7,3: «la novella detta da Panfilo mi tira a doverne dire una ... simile» e cfr. anche I 8,3.
2
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4
5
quando senza cagione ingelosiscono, esser ben fatto5. E
se ogni cosa avessero i componitori delle leggi6 guardata, giudico che in questo essi dovessero alle donne non
altra pena avere constituta7 che essi constituirono a colui che alcuno offende sé difendendo8; per ciò che i gelosi sono insidiatori della vita delle giovani donne e diligentissimi cercatori della lor morte.
Esse stanno tutta la settimana rinchiuse e attendono
alle bisogne familiari e domestiche9, disiderando, come
ciascun fa, d’aver poi il dì delle feste alcuna consolazione, alcuna quiete, e di potere alcun diporto10 pigliare, sì
come prendono i lavoratori dei campi, gli artefici delle
città e i reggitori delle corti11; come fece Iddio, che il dì
settimo da tutte le sue fatiche si riposò; e come vogliono
le leggi sante e le civili12, le quali, allo onor di Dio e al
ben comune di ciascun riguardando, hanno i dì delle fatiche distinti da quegli del riposo. Alla qual cosa fare
niente i gelosi consentono, anzi quegli dì che a tutte l’altre son lieti, fanno ad esse, più serrate e più rinchiuse13
tenendole, esser più miseri e più dolenti; il che quanto e
5 Cambiamento di costruzione non raro nel D., specialmente
quando dopo la che s’inserisce un lungo inciso.
6 legislatori. «Componere leges» e «compositor iuris» sono
espressioni latine correnti, specie nei testi giuridici, per es. di Giustino e Giustiniano.
7 Stabilita. Due endecasillabi di seguito danno solennità a questa dichiarazione, quasi una sentenza.
8 Cioè per legittima difesa.
9 Naturale, per tutto questo periodo, il ricordo del quadro centrale del Proemio, io sgg.: e cfr. più avanti 5 e 8.
10 sollazzo, svago: IV concl., 16 n.
11 i magistrati.
12 Cfr. II 10,9 e 16 nn.
13 Dittologia sullo stesso concetto che può ricordare Petrarca,
CCC 5 sgg.: «che chiude e serra ... Lo spirto»: «se pure il s e r r a
t e non vuol intendersi della casa in generale e il rinchiuse di una
stanza; tanto che significhi non solo serrate in casa ma anche rinchiuse nelle loro stanze» (Fanfani).
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6
7
8
9
qual consumamento sia delle cattivelle14 quelle sole il
sanno che l’hanno provato15. Perché, conchiudendo, ciò
che una donna fa ad un marito geloso a torto, per certo
non condennare ma commendare16 si dovrebbe.
Fu adunque in Arimino17 un mercatante, ricco e di
possessioni e di denari assai, il quale avendo una bellissima donna per moglie, di lei divenne oltre misura geloso:
né altra cagione a questo avea se non che, come egli
molto l’amava e molto bella la teneva18 e conosceva che
ella con tutto il suo studio s’ingegnava di piacergli, così
estimava che ogn’uomo l’amasse, e che ella a tutti paresse bella e ancora che ella s’ingegnasse così di piacere altrui come a lui (argomento di cattivo uomo e di poco
sentimento era19). E così ingelosito tanta guardia ne
prendeva e sì stretta20 la tenea, che forse assai son di
quegli che a capital pena son dannati, che non sono da’
pregionieri21 con tanta guardia servati22.
La donna, lasciamo stare che a nozze o a festa o a
chiesa andar potesse23, o il piè della casa trarre in alcun
14
poverelle, miserelle: II,53 n.
Il ritmo e la struttura del periodo e il pensiero stesso ricordano quelli dell’inizio del Proemio: e cfr. prima n. 4.
16 lodare.
17 Rimini: forma latineggiante (Ariminum). Nelle Esposizioni, V
litt. 147 sgg. «Rimino».
18 stimava, reputava: III 7,67 n.
19 Già il Salviati osservò che questo è un giudizio che la novellatrice interpone di suo. Interventi simili non mancano del resto
anche altrove nel D. (per es. I 6,9; III 2,18 ecc.; e anche qui 46).
20 così severamente sorvegliata, costretta in casa: come nel Proemio, 10: «ristrette da’ voleri ... de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano»; III 1,23 n.
21 carcerieri: II 6,43 n.
22 custoditi.
23 non parliamo di potere andare a nozze ecc. La locuzione lasciamo stare può esser costruita con negativa o no, con una differenza non grammaticale ma logica: cfr. Intr., 27 n.; III 3,10; III
5,14 ecc., e la sottile trattazione del Mussafia, pp. 511 sgg.
15
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13
modo, ma ella non osava farsi ad alcuna finestra né fuor
della casa guardare per alcuna cagione; per la qual cosa
la vita sua era pessima, ed essa tanto più impaziente sosteneva questa noia, quanto meno si sentiva nocente24.
Per che, veggendosi a torto fare ingiuria al25 marito,
s avvisò, a consolazion di sé medesima, di trovar modo
(se alcuno ne potesse trovare) di far sì che a ragione le
fosse fatto26. E per ciò che a finestra far non si potea, e
così modo non avea di potersi mostrare contenta dello
amore d’alcuno che atteso l’avesse27 per la sua contrada
passando, sappiendo che nella casa la quale era allato alla sua aveva28 alcun giovane e bello e piacevole, si pensò,
se pertugio alcun fosse nel muro che la sua casa divideva
da quella, di dovere per quello tante volte guatare, che
ella vedrebbe il giovane in atto da potergli parlare, e di
donargli il suo amore, se egli il volesse ricevere; e se modo vi si potesse vedere, di ritrovarsi con lui alcuna volta,
e in questa maniera trapassare la sua malvagia29 vita infino a tanto che il fistolo30 uscisse da dosso al suo marito.
E venendo ora in una parte e ora in una altra, quando il marito non v’era, il muro della casa guardando, vide per avventura in una parte assai segreta di quella il
muro alquanto da una fessura esser aperto; per che, riguardando per quella, ancora che assai male discerner
potesse dall’altra parte, pur s’avvide che quivi era una
camera dove capitava la fessura, e seco disse: «Se questa
fosse la camera di Filippo» (cioè del giovane suo vicino)
24
colpevole: II 6,39 n.
dal: Intr., 20 n.
a senso con tutto quanto è detto sopra.
27 l’avesse vagheggiata: come intendere (III 3,17 n.): cfr. anche
III 4,12 n. E per il participio maschile cfr. Intr., 35 n.
28 v’era: II 5,77 n.
29 triste, infelice.
30 quel demone, quello spirito maligno (della gelosia): VIII 2,24.
È termine usato specie in senso metaforico.
25
26 Concordanza
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«io sarei mezza fornita31». E cautamente da una sua fante, a cui di lei incresceva, ne fece spiare, e trovò che veramente il giovane in quella dormiva tutto solo; per che,
visitando la fessura spesso, e, quando il giovane vi sentiva, faccendo cader pietruzze e cotali32 fuscellini, tanto
fece che, per veder che ciò fosse, il giovane venne quivi.
Il quale ella pianamente33 chiamò; ed egli che la sua voce conobbe, le rispose; ed ella, avendo spazio, in brieve
tutto l’animo suo gli aprì. Di che il giovane contento assai, sì fece che dal suo lato il pertugio si fece maggiore,
tuttavia in guisa faccendo che alcuno avvedere non se ne
potesse; e quivi spesse volte insieme si favellavano e toccavansi la mano, ma più avanti per la solenne34 guardia
del geloso non si poteva35.
Ora, appressandosi la festa del Natale, la donna disse al marito che, se gli piacesse, ella voleva andar la mattina della pasqua36 alla chiesa e confessarsi e comunicarsi come fanno gli altri cristiani. Alla quale il geloso disse:
«E che peccati ha’ tu fatti, che tu ti vuoi confessare?»
Disse la donna: «Come! Credi tu che io sia santa,
31 sarei a metà dell’opra, avrei compiuto a mezzo l’impresa, sarei
quasi a posto.
32 certi. L’espediente del buco nel muro è uno dei più popolari
in queste novelle di amore e di gelosia (Thompson e Rotunda, T
41.1); ed appariva anche nella mitica e pietosa storia di Piramo e
Tisbe, come era riferita dal B., chiosa al Teseida, VII 50; cfr. S.
Bernardino, Novellette, Bologna 1868, XIV.
33 sottovoce.
34 accurata, severa: II 7,3 2 n.: «la solenne guardia che faceva di
lei».
35 «Di be’ tratti si può lor torre, ma guardarle non mai» (M.).
36 Così erano chiamate in generale le principali feste religiose:
Testi fiorentini, p. 39: «per tutte le pasque del’anno, cioè per lo
Natale, per Befanie, per Resurrexio, per l’Assensione, per le Pentecoste, per Ogni Sancti, e per kalende gennaio e per tutte e quattro le festivita di di Sancta Maria e per Sancto Gilio»; Sacchetti,
CXLII: «per una pasqua di Natale».
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perché tu mi tenghi37 rinchiusa? Ben sai che io fo de’
peccati come l’altre persone che ci38 vivono, ma io non
gli vo’ dire a te, ché tu non se’prete».
19
Il geloso prese di queste parole sospetto e pensossi
di voler saper che peccati costei avesse fatti e avvisossi
del modo nel quale ciò gli verrebbe fatto; e rispose che
era contento, ma che non volea che ella andasse ad altra
chiesa che alla cappella loro; e quivi andasse la mattina
per tempo e confessassesi o dal cappellan loro o da quel
prete che il cappellan le desse e non da altrui, e tornasse
di presente39 a casa. Alla donna pareva mezzo avere inteso; ma, senza altro dire, rispose che sì farebbe.
20
Venuta la mattina della pasqua, la donna si levò in su
l’aurora e acconciossi e andossene alla chiesa impostale
dal marito. Il geloso d’altra parte levatosi se n’andò a
quella medesima chiesa e fuvvi prima di lei; e avendo già
col prete di là entro composto40 ciò che far voleva, messasi prestamente una delle robe del prete indosso con un
cappuccio grande a gote41, come noi veggiamo che i
preti portano, avendosel tirato un poco innanzi, si mise
a stare in coro.
21
La donna venuta alla chiesa fece domandare il prete42. Il prete venne, e udendo dalla donna che confessar
si volea, disse che non potea udirla, ma che le manderebbe un suo compagno; e andatosene, mandò il geloso
37 Per queste forme del congiuntivo presente (che ricorrono
anche a par. 40) cfr. II 7,100 n.
38 qui, in questo mondo: IV 2,19 n.
39 subito: I 177 n.
40 fissato, combinato: V 5,13 n.
41 Cioè che copriva le gote, e non «a foggia», cioè stretto e ricadente, come ormai si usava correntemente specie dai laici (Sacchetti, CV e CLXV); e in generale per tali distinzioni e per l’uso
dei preti di portare il cappuccio cfr. Merkel, pp. 73 sgg.
42 Per questa costruzione di domandare invece della più comune domandare del cfr. II 6,72 n.: «il garzon che tu dimandi»; e
nota il solito f a r e fraseologico.
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nella sua malora43. Il quale molto contegnoso vegnendo,
ancora che egli44 non fosse molto chiaro il dì ed egli
s’avesse molto messo il cappuccio innanzi agli occhi,
non si seppe sì occultare che egli non fosse prestamente
conosciuto dalla donna; la quale, questo vedendo, disse
seco medesimo45: «Lodato sia Iddio, che costui di geloso è divenuto prete; ma pure lascia fare, ché io gli darò
23 quello che egli va cercando». Fatto adunque sembiante
di non conoscerlo, gli si pose a sedere a’ piedi46.
Messer lo geloso s’avea messe alcune petruzze in bocca47, acciò che esse alquanto la favella gli ’mpedissero, sì
che egli a quella48 dalla moglie riconosciuto non fosse,
parendogli in ogn’altra cosa sì del tutto esser divisato 49
che esser da lei riconosciuto a niun partito50 credeva.
24
Or venendo alla confessione, tra l’altre cose che la
donna gli disse, avendogli prima detto come maritata
era, si fu che ella era innamorata d’un prete, il quale
ogni notte con lei s’andava a giacere.
Quando il geloso udì questo, e’gli parve che gli fosse
25
dato d’un coltello nel cuore51; e se non fosse che volontà
lo strinse di saper più innanzi, egli avrebbe la confessio22
43
Cioè alla sua rovina, alla sua condanna.
Due e g li di valore diverso: il primo è il solito soggetto grammaticale di un impersonale (Intr., 6o n.); il secondo si riferisce al
geloso.
45 È un caso di medesimo indeclinabile, non raro nei testi del
Due-Trecento e nel B. stesso (cfr. IV 2,6 n.; Comedia, XXXII 5;
Corbaccio, 462): cfr. A. E. QUAGLIO, Parole del B., LXVI.
46 Era il classico atteggiamento della penitente: cfr. III 3,22 n.
47 Stratagemma che può ricordare l’espediente di Demostene,
di cui il B. leggeva per es. nel De oratore, I 61 e in Valerio Massimo, VIII 7.
48 Cioè alla favella.
49 trasfigurato, travisato: cfr. IX 1,9: «era si contrafatto e di si
divisato viso».
50 in nessun modo.
51 Così anche in situazione analoga nella II 9,33 n.
44
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ne abbandonata andatosene52. Stando adunque fermo
domandò la donna: «E come? Non giace vostro marito
con voi?»
La donna rispose: «Messer sì».
«Adunque,» disse ’l geloso «come vi puote anche il
prete giacere?»
«Messere,» disse la donna «il prete con che arte il si
faccia non so, ma egli non è in casa uscio sì serrato che,
come egli il tocca, non s’apra; e dicemi egli che, quando
egli è venuto a quello della camera mia, anzi che egli
l’apra, egli dice certe parole per le quali il mio marito incontanente s’addormenta, e come addormentato il sente, così apre l’uscio e viensene dentro e stassi con meco,
e questo non falla mai53».
Disse allora il geloso: «Madonna, questo è mal fatto,
e del tutto egli ve ne conviene rimanere54».
A cui la donna disse: «Messere, questo non crederrei
io mai poter fare, per ciò che io l’amo troppo».
«Dunque,» disse il geloso «non vi potrò io assolvere».
A cui la donna disse: «Io ne son dolente: io non venni qui per dirvi le bugie; se io il credessi poter fare, io il
vi direi».
Disse allora il geloso: «In verità, madonna, di voi
m’incresce, ché io vi veggio a questo partito perder l’anima; ma io, in servigio di voi, ci voglio durar fatica in far
mie orazioni speziali a Dio in vostro nome, le quali forse
vi gioveranno; e sì vi manderò alcuna volta un mio cherichetto, a cui voi direte se elle vi saranno giovate o no; e
se elle vi gioveranno, sì procederemo innanzi».
52 se ne sarebbe andato: anche qui un solo ausiliare è fatto servire a due verbi che lo vorrebbero diverso (II 8,95 n.).
53 e questo riesce sempre. L’atteggiamento del B. di fronte alla
magia e negromanzia, salvo nelle fiabesche X 5 e 9, è di scetticismo e di canzonatura (cfr. III 8; VII 1 e 3 e 9: VIII 3 e 6 e 7 e 9;
IX 1 e 5).
54 astenere, cessare: III 3,19 n.
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A cui la donna disse: «Messer, cotesto non fate voi
che voi mi mandiate persona a casa, ché, se il mio marito
il risapesse, egli è sì forte geloso che non gli trarrebbe
del capo tutto il mondo che per altro che per male vi si
venisse, e non avrei ben con lui di questo anno55».
A cui il geloso disse: «Madonna, non dubitate di
questo, ché per certo io terrò sì fatto modo, che voi non
ne sentirete mai parola da lui».
Disse allora la donna: «Se questo vi dà il cuore di fare,
io son contenta» ; e fatta la confessione56 e presa la penitenzia, e da’ piè levataglisi, se n’andò a udire la messa.
Il geloso soffiando57 con la sua mala ventura s’andò
a spogliare i panni del prete, e tornossi a casa, disideroso
di trovar modo da dovere il prete e la moglie trovare insieme, per fare un mal giuoco e all’uno e all’altro58. La
donna tornò dalla chiesa, e vide bene nel viso al marito
che ella gli aveva data la mala pasqua; ma egli, quanto
poteva, s’ingegnava di nasconder ciò che fatto avea e
che saper gli parea.
E avendo seco stesso diliberato di dover la notte vegnente star presso all’uscio della via ad aspettare se il
prete venisse, disse alla donna: «A me conviene questa
sera essere a cena e ad albergo altrove, e per ciò serrerai
ben l’uscio da via e quello da59 mezza scala e quello della camera, e quando ti parrà t’andrai a letto».
55 in tutto quest’anno: secondo l’uso temporale di di (di questi
giorni, di quaresima, ecc.): cfr. III 5,30 n.; e anche, con valore più
generale, mai più.
56 detto il «confiteor» o un generale atto di contrizione (VI
10,34).
57 sospirando o sbuffando: VI 8,3 n.
58 giocare un brutto tiro e all’uno e all’altra: ma il B. usa il maschile considerando non il sesso ma la persona in se stessa, l’individuo: cfr. II 6,34 n.; e per l’espressione VII 8,26 n.
59 Uso particolare di d a per indicare il luogo dove o verso cui
è qualcosa: cfr. Sacchetti, CX: «entravano dalla porta da via».
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La donna rispose: «In buon’ora60».
E quando tempo ebbe se n’andò alla buca e fece il
cenno usato, il quale come Filippo sentì, così di presente61 a quel venne. Al quale la donna disse ciò che fatto
avea la mattina, e quello che il marito appresso mangiare
l’aveva detto, e poi disse: «Io son certa che egli non
uscirà di casa, ma si metterà a guardia dell’uscio; e per
ciò truova modo che su per lo tetto tu venghi stanotte di
qua62, sì che noi siamo insieme».
Il giovane, contento molto di questo fatto, disse:
«Madonna, lasciate far me».
Venuta la notte, il geloso con sue armi tacitamente si
nascose in una camera terrena, e la donna avendo fatti
serrar tutti gli usci, e massimamente quello da mezza
scala, acciò che il geloso su non potesse venire, quando
tempo le parve e63 il giovane per via assai cauta dal suo
lato se ne venne, e andaronsi a letto, dandosi l’un dell’altro piacere e buon tempo; e venuto il dì, il giovane se ne
tornò in casa sua.
Il geloso, dolente e senza cena, morendo di freddo,
quasi tutta la notte stette con le sue armi allato all’uscio
ad aspettare se il prete venisse; e appressandosi il giorno, non potendo più vegghiare, nella camera terrena si
mise a dormire.
Quindi vicin di terza64 levatosi, essendo già l’uscio
della casa aperto faccendo sembiante di venire altron-
60
Cioè sta bene: VII 2,23 n.
subito, immediatamente.
«Questo modo avverbiale, e il suo fratello di là, suole usarsi,
così senza riscontro, parlando di una stanza della casa rispetto
all’altra ... E qui ancora può considerarsi come una medesima
casa, perché c’era un’apertura nel muro» (Fanfani). Per la solita
forma della II sing. del congiuntivo cfr. qui 18 n.
63 ecco che: I 1,39 n.
64 Cioè verso le nove di mattina.
61
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de65, se ne salì in casa sua e desinò. E poco appresso
mandato un garzonetto, a guisa che stato fosse il cherico
del prete che confessata l’avea, la mandò dimandando66
se colui cui ella sapeva più venuto vi fosse.
La donna, che molto bene conobbe il messo, rispose
che venuto non v’era quella notte, e che, se così facesse,
che67 egli le potrebbe uscir di mente, quantunque ella
non volesse che di mente l’uscisse.
Ora che vi debbo dire? Il geloso stette molte notti
per volere giugnere68 il prete all’entrata, e la donna continuamente col suo amante dandosi69 buon tempo. Alla
fine il geloso, che più sofferir non poteva, con turbato
viso domandò la moglie ciò70 che ella avesse al prete
detto la mattina che confessata s’era. La donna rispose
che non gliele voleva dire, per ciò che ella non era onesta cosa né convenevole.
A cui il geloso disse: «Malvagia femina, a dispetto di
te io so ciò che tu gli dicesti; e convien del tutto che io
sappia chi è il prete di cui tu tanto se’innamorata e che
teco per suoi incantesimi ogni notte si giace, o io ti segherò le veni71».
La donna disse che non era vero che ella fosse innamorata d’alcun prete.
65 da altrove, cioè da fuori di casa: III 5,13 n.; e così altrove
nella VII 6,8
66 Il solito m a n d a r e col gerundio per cui cfr. IV 2,23 n.
67 Consueta ripetizione della c h e dopo incidentale condizionale (I 3,11 n.).
68 cogliere, sorprendere.
69 Dipende sempre da s t e t te , cioè: continuò a darsi.
70 Per d o m a n d a r e con due accusativi cfr. II 7,87 n.
71 Come per es. p o r t a (II 2,16 n.), s p i n a (IX concl., 9),
v e n a ha due desinenze al plurale (vene e veni): VIII 3,62 n. (cfr.
Rohlfs, 362).
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«Come!» disse il geloso «non dicestù così e così72 al
prete che ti confessò?»
La donna disse: «Non che egli te l’abbia ridetto, ma
egli basterebbe, se tu fossi stato presente73, mai sì74, che
io gliele dissi».
«Dunque,» disse il geloso «dimmi chi è questo prete, e tosto».
La donna cominciò a sorridere, e disse: «Egli mi giova molto75 quando un savio uomo è da una donna semplice menato come si mena un montone76per le corna in
beccheria; benché tu non se’ savio, né fosti da quella ora
in qua che tu ti lasciasti nel petto entrare il maligno spirito della gelosia, senza saper perché; e tanto77 quanto tu
se’ più sciocco e più bestiale, cotanto ne diviene la gloria
mia minore.
Credi tu, marito mio, che io sia cieca degli occhi della testa, come tu se’ cieco di quegli della mente? Certo
no; e vedendo conobbi chi fu il prete che mi confessò, e
so che tu fosti desso tu78; ma io mi puosi in cuore di darti quello che tu andavi cercando, e dieditelo. Ma, se tu
72 «È modo tuttor dell’uso per accennare cose già dette, senza
riferirle, a chi già le sa» (Fanfani).
73 Non solamente se egli te lo avesse riferito, ma non potresti saperlo meglio se tu fossi stato presente (quello che sai sarebbe sufficiente anche se tu fossi stato presente). Per costruzioni simili cfr. I
2,12 n.
74 certo sì: col solito mai rafforzativo (cfr. per es. III 3,36 n.).
75 Mi piace molto, ho molto caro: alla latina (juvat impersonale):
Petrarca, XXXVII 69: «E io son un di quei che ’l pianger giova».
76 Solito simbolo di sciocchezza (III 3,37 n.: V 1,23 n.), che ben
campeggia in questo discorso sulla «bestialità» del geloso e cornuto.
77 «Troppo ci è quello ‘tanto’» (M.). Ma l’annotazione non è
esatta: perché era dell’uso porre nella prima parte del confronto
due particelle, di cui si ripeteva la prima all’inizio della seconda
parte: IV 1,46: «li quali, così come loro era stato comandato, così
operarono» e III concl., 10: «tale quale tu l’hai, cotale la dì». Cfr.
ampia trattazione in Annotazioni, pp. 203 sgg.
78 fosti tu, proprio tu: II 5,10 n.
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fussi stato savio come esser ti pare, non avresti per quel
modo tentato di sapere i segreti della tua buona79 donna, e, senza prender vana sospezion, ti saresti avveduto
di ciò che ella ti confessava così essere il vero, senza avere ella in cosa alcuna peccato.
Io ti dissi che io amava un prete: e non eri tu, il quale io a gran torto amo, fatto prete? Dissiti che niuno
uscio della mia casa gli si poteva tener serrato quando
meco giacer volea: e quale uscio ti fu mai in casa tua tenuto80 quando tu colà dove io fossi se’voluto venire?
Dissiti che il prete si giaceva ogni notte con meco: e
quando fu che tu meco non giacessi? E quante volte il
tuo cherico a me mandasti, tante sai quante tu meco non
fosti, ti mandai a dire che il prete meco stato non era.
Quale smemorato altri che tu, che alla81 gelosia tua t’hai
lasciato accecare, non avrebbe queste cose intese? E se’
ti stato in casa a far la notte la guardia all’uscio, e a me
credi aver dato a vedere che tu altrove andato sii a cena
e ad albergo.
Ravvediti oggimai, e torna uomo come tu esser solevi, e non far far beffe di te a chi conosce i modi tuoi come fo io, e lascia star questo solenne82 guardar che tu
fai; ché io giuro a Dio, se voglia me ne venisse di porti le
corna, se83 tu avessi cento occhi come tu n’hai due, e’mi
darebbe il cuore di fare i piacer miei in guisa che tu non
te ne avvedresti».
79 onesta, valente: aggettivo sottolineato con forza e non senza
ironia.
80 tenuto chiuso. T e n e r u s c i o o p o r t a vale tener chiuso
uscio o porta, vietare l’entrata: Sacchetti, II: «comandando ... giammai porta non gli fosse tenuta».
81 dalla.
82 accurato, severo: come al 16
83 anche se. Tutta questa iperbolica dichiarazione riecheggia
non solo il mito di Argo, carissimo al B., ma la visualizzazione
amorosa che egli in qualche modo ne fece nella sua lirica (Rime,
LVI).
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Il geloso cattivo, a cui molto avvedutamente84 pareva avere il segreto della donna sentito, udendo questo, si
tenne scornato; e senza altro rispondere, ebbe la donna
per buona e per savia; e quando la gelosia gli bisognava
del tutto se la spogliò, così come, quando bisogno non
gli era, se l’aveva vestita. Per che la savia donna, quasi licenziata ai suoi piaceri85, senza far venire il suo amante
su per lo tetto, come vanno le gatte86, ma pur per
l’uscio, discretamente operando, poi più volte con lui
buon tempo e lieta vita si diede. -
84
con grande furbizia.
quasi avendo avuto licenza, permesso di fare i suoi piaceri,
quello che voleva: conclusione analoga a quella della VII 4,30 e
VII 8,50.
86 Per questa forma femminile cfr. V 10,20 n.
85
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NOVELLA SESTA
1
Madonna Isabella con Leonetto standosi, amata da un messer
Lambertuccio, è da lui visitata; e tornando il marito di lei, messer Lambertuccio con un coltello in mano fuor di casa ne manda, e il marito di lei poi Leonetto accompagna1.
2
Maravigliosamente era piaciuta a tutti la novella della Fiammetta, affermando ciascuno ottimamente la donna aver fatto, e quel che si convenia al bestiale uomo; ma
poi che finita fu, il re a Pampinea impose che seguitasse.
La quale incominciò a dire:
- Molti sono, li quali, semplicemente2 parlando, dicono che Amore trae altrui del senno e quasi chi ama fa
3
1 Anche il tema di questa novella aveva già prima del B. una
lunga e ricca tradizione. Dalle principali e più diffuse raccolte
orientali (Hitopadesa, Il 9; Cukasaptati, 26; Tûtî-nâmeh, VII; Cfr.
E. TEZA, in Il libro dei Sette Savi, Pisa 1864, pp. XLI sgg.; e poi
Mille e una notte, 581), e più probabilmente dalla versione un po’
diversa del Sindibad (tradotto in spagnolo nel Libro de los Engannos, 6; e in greco nel Syntipas), la novella passò alla letteratura medievale: per es. nella Disciplina clericalis (XI: imitata nella IV delle
favole in versi dei Latin Stories del Wright cit.) nei Gesta Romanorum (n. 21 o 58), nei Lai de l’Espervier (ed. G. Paris in «Romania»,
VII, 1878; e cfr. BÉDIER, op. cit., pp. 228 sgg.), in una novella senese forse della fine del Duecento (L. GENTILE e A. STRACCALI, Tre novelline antiche, Firenze 1887). Di più è difficile dire sui
rapporti fra questi testi (BÉDIER, loc. cit.; DI FRANCIA, Alcune
novelle cit., 1904; DECOURDEMANCHE in «Revue des traditions populaires», XVII, 1902; e cfr. Aarne, 1419 d; Thompson, K
1218.1, 15I7.1; Rotunda, K 1517-I-2*). La novella del B. avrebbe
contatti con la novellina senese nella prima parte, e con le versioni
spagnole e latine nella seconda: ma neppure parzialmente è possibile stabilire una dipendenza diretta. Il Manni cita anche come antecedente una delle Epistole di Aristeneto (II 22): ma i contatti
sono scarsissimi. Nel sommario, come nella novella, v’è oscillazione fra L e o n e t t o e L i o n e t t o .
2 da semplicioni: I 6,5 n.
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4
5
6
divenire smemorato3. Sciocca opinione mi pare; e assai
le già dette cose l’hanno mostrato; e io ancora intendo di
dimostrarlo4.
Nella nostra città, copiosa di tutti i beni5, fu già una
giovane donna e gentile e assai bella, la qual fu moglie
d’un cavaliere assai valoroso e da bene. E come spesso avviene che s sempre non può l’uomo usare un cibo, ma talvolta disidera di variare; non soddisfaccendo a questa
donna molto il suo marito, s’innamorò d’un giovane, il
quale Leonetto era chiamato, assai piacevole e costumato, come che di gran nazion non fosse6, ed egli similmente s’innamorò di lei; e come voi sapete che rade volte è
senza effetto quello che vuole ciascuna delle parti7, a dare
al loro amor compimento molto tempo non si interpose.
Ora avvenne che, essendo costei bella donna e avvenevole8, di lei un cavalier chiamato messer Lambertuccio9 s’innamorò forte, il quale ella, per ciò che spiacevo-
3 balordo, stordito: VI 9,13 n. Era sentenza diffusa: «Amans
quid cupiat scit; quid sapiat non videt», «Amare et sapere vix Deo
conceditur» (L. A. Senecae et P. Syri ... Singulares sententiae, Leiden 1727, p. 2).
4 «Ogni cosa diviene agli amanti possibile» affermerà riprendendo questo atteggiamento polemico il B. nella X 5,14 ( e rifacendosi del resto a Cicerone («Nihil difficile amanti»: Orat., 10) e
Andrea Cappellano («Qui non zelat amare non potest»: De
Amore, p. 310). E cfr. IV 1, 23 n.
5 Così iniziando la III 6,3 «...la nostra città, la quale come
d’ogni altra cosa è copiosa, così è d’essempli ...»
6 benché non fosse di nascita, di famiglia illustre, nobile: IV 1,6 n.
7 «Nota» (M.).
8 aggettivo costruito su avvenente, secondo il modello «piacente – piacevol»; cfr. VIII 3,5; X 10,24; e F. BRAMBILLA AGENO,
Il verbo, p. 282.
9 II Manni vorrebbe identificarlo con Lambertuccio di Ghinò
Frescobaldi, cioè col padre dello stilnovista Dino, di cui il B. parlò
come di ritrovatore dei primi canti dell’Inferno (Trattatello, I 180):
ma l’identificazione non ha fondamento alcuno.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
le uomo e sazievole10 le parea, per cosa del mondo ad
amar lui11 disporre non si potea. Ma costui con ambasciate sollicitandola molto, e non valendogli, essendo
possente uomo, la mandò minacciando12 di vituperarla
se non facesse il piacer suo. Per la qual cosa la donna, temendo e conoscendo come fatto era, si condusse a fare
7
il voler suo. Ed essendosene la donna, che madonna Isabella avea nome, andata, come nostro costume è di
state13, a stare ad una sua bellissima possessione in contado, avvenne, essendo una mattina il marito di lei cavalcato14 in alcun luogo per dovere stare alcun giorno, che
ella mandò per Leonetto che si venisse a star con lei, il
quale lietissimo incontanente v’andò.
8
Messer Lambertuccio, sentendo il marito della donna essere andato altrove15, tutto solo montato a cavallo,
a lei se n’andò e picchiò alla porta.
9
La fante della donna, vedutolo, n’andò incontanente
a lei, che in camera era con Leonetto, e chiamatala le
disse: «Madonna, messer Lambertuccio è qua giù tutto
solo».
La donna, udendo questo, fu la più dolente femina
10
del mondo; ma, temendol forte, pregò Leonetto che grave non gli fosse il nascondersi alquanto dietro alla corti-
10 Solita endiadi (VI 8,5 n.), in contrasto con le precedenti
(«piacevole e costumato», «bella e avvenevole»): che conferma la
predilezione del B. per questi aggettivi in -evole (F. BRAMBILI.A
AGENO, Il verbo, pp. 259 sgg.). E cfr. VI 8,5.
11 Pleonasmo non raro nel D.: ripiglia il precedente quale.
12 Gerundio invece di infinito (preceduto eventualmente da a)
corrente dopo mandare (IV 2,23 n.). Vituperarla svergognarla: III
6,39 n.
13 Cfr. V 9,10 n.
14 Per queste oscillazioni dell’ausiliare tra essere e avere con alcuni intransitivi e particolarmente cavalcare cfr. V 3,10 n.
15 fuori, lontano da casa, come al par. 16, come altronde nella
novella precedente (44 n.).
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na16 del letto, in fino a tanto che messer Lambertuccio
se n’andasse.
Leonetto, che non minor paura di lui avea che avesse
la donna, vi si nascose; ed ella comandò alla fante che
andasse ad aprire a messer Lambertuccio: la quale apertogli, ed egli nella corte smontato d’un suo pallafreno e
quello appiccato ivi ad uno arpione17, se ne salì suso. La
donna, fatto buon viso e venuta infino in capo della scala, quanto più potè in parole lietamente il ricevette e domandollo quello18 che egli andasse faccendo. Il cavaliere, abbracciatala e baciatala, disse: «Anima mia, io intesi
che vostro marito non c’era, sì ch’io mi son venuto a stare alquanto con essolei19». E dopo queste parole, entratisene in camera e serratisi dentro, cominciò messer
Lambertuccio a prender diletto di lei.
E così con lei standosi, tutto fuori della credenza
della donna20, avvenne che il marito di lei tornò; il quale21 quando la fante alquanto vicino al palagio vide, così
subitamente corse alla camera della donna e disse: «Madonna, ecco messer22 che torna: io credo che egli sia già
giù nella corte».
La donna, udendo questo e sentendosi aver due uomini in casa, (e conosceva23 che il cavaliere non si pote16
Cfr. II 3,26 n.
legato ... ad un gancio.
18 Anche qui d o m a n d a r e con due accusativi (II 7,87 n.).
19 Si riferisce ad a n i m a , «e può ben credersi che il B. abbia
fatto dir così a quello spiacevole di Lambertuccio per leziosaggine»
(Fanfani): cfr. le Annotazioni, pp. 207 sgg. Esso rafforzativo è invariabile: cfr. VIII 8,6 n.
20 del tutto contro quanto credeva la donna, senza che per nulla
la donna se l’aspettasse, Per t u t t o avverbiale cfr. II 4,24 n.; e per
c r e d e n z a Amorosa Visione, XXXII 15; Purg., XXVII 29; Par.,
XXIV 73; e qui III 6,42 n.
21 Complemento oggetto.
22 il signore, il padrone.
23 Altro esempio di imperfetto coordinato a gerundio per dar
rilievo all’idea dominante: II 2,20 n.
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va nascondere per lo suo pallafreno che nella corte era),
si tenne morta. Nondimeno, subitamente gittatasi del
letto in terra, prese partito24, e disse a messer Lambertuccio: «Messere, se voi mi volete punto di bene e voletemi da morte campare, farete quello che io vi dirò. Voi
vi recherete in mano il vostro coltello ignudo, e con un
mal viso e tutto turbato ve n’andrete giù per le scale, e
andrete dicendo: ‘Io fo boto25 a Dio che io il coglierò altrove ’; e se mio marito vi volesse ritenere o di niente vi
domandasse, non dite altro che quello che detto v’ho, e
montato a cavallo, per niuna cagione seco ristate26».
Messer Lambertuccio disse che volentieri; e tirato
fuori i coltello, tutto infocato nel viso tra per la fatica
durata e27 per l’ira avuta della tornata del cavaliere, come la donna gl’impose così fece. Il marito della donna,
già nella corte smontato, maravigliandosi del pallafreno
e volendo su salire, vide messer Lambertuccio scendere,
e maravigliossi e delle parole e del viso di lui, e disse:
«Che è questo messere?»
Messer Lambertuccio, messo il piè nella staffa e
montato su, non disse altro, se non: «Al corpo di Dio28,
io il giugnerò29 altrove» ; e andò via.
Il gentile uomo montato su trovò la donna sua in capo della scala tutta sgomentata e piena di paura, alla
quale egli disse: «Che cosa è questa? Cui va messer
Lambertuccio così adirato minacciando?»
La donna, tiratasi verso la camera, acciò che Leonetto l’udisse, rispose: «Messere, io non ebbi mai simil pau-
24
prese le sue decisioni, deliberò: IV 3,12 e 14.
Modo corrente di giurare: VIII 2,43; VIII 9,62; IX 5,61; e
per l’idiotismo cfr. anche I 1,87 n.
26 indugiate con lui.
27 Per questa costruzione consueta nel D. cfr. II 3,48 n.
28 Altra forma di giuramento: VIII 6,21 n.
29 lo raggiungerò.
25
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ra a questa30. Qua entro si fuggì un giovane, il quale io
non conosco e che esser Lambertuccio col coltello in
man seguitava, e trovò per ventura questa camera aperta, e tutto tremante disse: ‘ Madonna, per Dio aiutatemi,
ché io non sia nelle braccia vostre morto31’. Io mi levai
diritta, e come32 il voleva domandare chi fosse e che
avesse, ed ecco messer Lambertuccio venir su dicendo: ‘
Dove se’, traditore? ’ Io mi parai in su l’uscio33 della camera, e volendo egli entrar dentro, il ritenni, ed egli in
tanto fu cortese che, come vide che non mi piaceva che
egli qua entro entrasse, dette molte parole, se ne venne
giù come voi vedeste».
Disse allora il marito: «Donna, ben facesti: troppo
ne sarebbe stato gran biasimo, se persona fosse stata qua
entro uccisa; e messer Lambertuccio fece gran villania a
seguitar persona che qua entro fuggita fosse».
Poi domandò dove fosse quel giovane.
La donna rispose: «Messere, io non so dove egli si
sia nascoso».
Il cavaliere allora disse: «Ove se’ tu? Esci fuori sicuramente».
Leonetto che ogni cosa udita avea, tutto pauroso,
come colui che paura aveva avuta da dovero, uscì fuori
del luogo dove nascoso s’era.
Disse allora il cavaliere: «Che hai tu a fare con messer Lambertuccio?»
Il giovane rispose: «Messer, niuna cosa che sia in
questo mondo34; e per ciò io credo fermamente che egli
30 paura simile a questa: inversione non insolita nel D.: per es.
X 3,2: «Simil cosa a miracolo per certo pareva a tutti».
31 ucciso: II 7,79 n.
32 In ripresa dopo proposizione temporale. Polisindeto che
sottolinea la rapidità concitata delle azioni susseguentisi: cfr. Intr.,
78 n.; IX 7,12.
33 mi posi davanti all’uscio per impedir che entrasse: IV 9,3 n.
34 proprio nulla, niente affatto, nulla al mondo.
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non sia in buon senno, o che egli m’abbia colto in iscambio35; per ciò che, come poco lontano da questo palagio
nella strada mi vide, così mise mano al coltello, e disse:
‘Traditor, tu se’ morto36’! Io non mi posi a domandare
per che cagione, ma quanto potei cominciai a fuggire e
qui me ne venni dove, mercé di Dio e di questa gentil
28 donna, scampato sono».
Disse allora il cavaliere: «Or via, non aver paura alcuna; io ti porrò a casa tua sano e salvo, e tu poi sappi
far cercar37 quello che con lui hai a fare».
29
E, come cenato ebbero, fattol montare a cavallo, a
Firenze il ne menò38, e lasciollo a casa sua. Il quale, secondo l’ammaestramento della donna39 avuto, quella sera medesima parlò con messer Lambertuccio occultamente, e sì con lui ordinò, che quantunque poi molte
parole ne fossero, mai per ciò il cavalier non s’accorse
della beffa fattagli dalla moglie. -
35
mi abbia scambiato per qualcun altro: Cfr. II 10,25 n.
Proprio come il Rossiglione al Guardastagno (IV 9,11), e
forse con connotazione ironico-caricaturale in questa novella in cui
sono chiaramente parodizzate situazioni della IV 1 e 9.
37 cerca di sapere.
38 di lì lo condusse.
39 dalla donna. Un altro chiaro esempio di specificazione soggettiva: I 6,2 n.
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NOVELLA SETTIMA
1
Lodovico discuopre a madonna Beatrice l’amore il quale egli le
porta; la qual manda Egano suo marito in un giardino in forma
di sé, e con Lodovico si giace; il quale poi levatosi, va e bastona
Egano nel giardino1.
2
Questo avvedimento di madonna Isabella da Pampinea raccontato fu da ciascun della brigata tenuto maraviglioso. Ma Filomena, alla quale il re imposto aveva che
secondasse2, disse:
1
La seconda e principale parte della novella (il marito ingannato e fatto battere) sembra discendere da un diffusissimo nucleo
di fabliaux che presentano tutti questo racconto, pur con diverse
varianti: La Borgoise d’Orliens e Le chevalier, sa dame et le clerc (Recueil général, I 8 e II 50: IV 100 una ripetizione, De la dame qui fist
barre son mari), Le Castia Gilos (F. RAYNOUARD, Choix de poesies ... des troubadours, Paris 1821, III, p. 398: cfr. Vrouwen staetikeit, in Gesammtabenteuer, XXVII). Al di fuori dei fabliaux (da
cui con tutta probabilità discese anche l’antica farsa francese pubblicata nell’Ancient théâtre françois cit., I, p. 128) l’episodio appare
in testi dei secoli XIII-XIV: sia – riferito a Enrico IV o Enrico III –
in narrazioni storiche, come nel De bello Saxonico e negli Annales
Palidenses, e in varie cronache posteriori (Mon, Gertn. Hist., V 331
e XVI 71); sia nella letteratura romanzesca, come nel Romans de
Bauduin de Sebourc (Valenciennes 1841) e nella novella francese
pubblicata dal Singer (Shakespeare’s jest-book, Chiswick 1883, pp.
XV sgg). Per tutti questi antecedenti vedi W. H. SCHOFIELD,
The source and history of the seventh novel of the seventh day in the
D., in «Harvard Studies and Notes in Philology and Literature», II,
1893 (e anche Thompson e Rotunda, K 1524.4.1). La prima parte
della novella – l’innamoramento per fama, il servizio, la partita a
scacchi – non ha invece veri antecedenti: ché il riferimento dello
Scherillo a un episodio del già citato Huon de Bordeaux (vv. 7381
sgg.) è quanto mai generico, e certo non più valido e significativo di
quelli che potrebbero esser fatti a opere del B. stesso (per es. Filocolo, IV 96; Teseida, IV 49 sgg.). La novella, di tessuto romanzescocortese-tristaniano, fu ripresa nel Pecorone (III 2).
2
seguitasse col parlare, col narrare: Par., XXV 64.
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6
- Amorose donne, se io non ne sono ingannata, io ve
ne credo uno non men bello raccontare3, e prestamente.
Voi dovete sapere che in Parigi4 fu già un gentile5
uomo fiorentino, il quale per povertà divenuto era mercatante, ed eragli sì bene avvenuto della mercatantia 6,
che egli ne era fatto ricchissimo, e avea della sua donna
un figliuol senza più7, il quale egli aveva nominato Lodovico. E perché egli alla nobiltà del padre e non alla
mercatantia si traesse8, non l’aveva il padre voluto mettere ad alcun fondaco9, ma l’avea messo ad essere con
altri gentili uomini al servigio del re di Francia, là dove
egli assai di be’ costumi e di buone cose aveva apprese10.
E quivi dimorando, avvenne che certi cavalieri, li
quali tornati erano dal Sepolcro, sopravvenendo ad un
ragionamento di giovani 11, nel quale Lodovico era, e
udendogli fra sé ragionare delle belle donne di Francia e
d’Inghilterra e d’altre parti del mondo, cominciò l’un di
loro a dir che per certo di quanto mondo egli aveva cerco12 e di quante donne vedute aveva mai, una simiglian-
3
credo raccontarvene uno [avvenimento] non meno bello.
Solito sfondo per questi ambienti mercanteschi (I 1,2; II 9,4
sgg.; IV 8,11 sgg.); e non insolita anche, per novelle d’amore sognante, come la prima parte di questa, l’apertura su una serie di
endecasillabi ( V o i ... d i v e n u t o ) : cfr. particolarmente VII
3,4 n.
5
Indica qui nobiltà di sangue e non leggiadria di modi e costumi: proprio come a II 1,12 n.; III 9,36 n.; IV1,6 n.; IV 3, 10; VI 6,5
e 12 n. e non come a I 8,9; II 7, 113; III 6,40; VI, 18 ecc.
6
aveva fatto tanta fortuna colla mercatura: per la forma cfr.
Intr., 42 n.
7
soltanto un figlio: II 8,7 n.
8
inclinasse, si indirizzasse alla o ritraesse dalla: V 7,5 n.
9
magazzino, azienda mercantile: IV 5,5 n.
10 Cfr. VII 9,42.
11 conversazione.
12 ricercato, visitato: IV 8,29 n.
4
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7
8
te alla moglie d’Egano de’ Galluzzi di Bologna13, madonna Beatrice chiamata, veduta non avea di bellezza14;
a che tutti i compagni suoi, che con lui insieme in Bologna l’avean veduta, s’accordarono.
Le quali cose ascoltando Lodovico, che d’alcuna ancora innamorato non s’era, s’accese in tanto disidero di
doverla vedere, che ad altro non poteva tenere il suo
pensiere15; e del tutto disposto d’andare infino a Bologna a vederla, e quivi ancora dimorare, se ella gli piacesse, fece veduta16 al padre che al Sepolcro voleva andare;
il che con grandissima malagevolezza17 ottenne.
Postosi adunque nome Anichino, a Bologna pervenne, e, come la fortuna volle, il dì seguente vide questa
donna ad una festa18, e troppo più bella gli parve assai
che stimato non avea; per che, innamoratosi ardentissimamente di lei, propose di mai di Bologna non partirsi
13 Assai nota e cospicua la famiglia Galluzzi a Bologna: ma
non vi appare in quel secolo alcun Egano, benché il nome non fosse insolito nella città. Cfr. F. GALLUZZI, Narrazione Storico Genealogica della Famiglia Galluzzi, Bologna 1740; G. GOZZADINI,
Le Torri gentilizie in Bologna, Bologna 1875, pp.254 sgg.
14 non ne aveva veduta una somigliante di bellezza (in bellezza)
alla moglie di Egano. II nome della donna è evidentemente scelto a
ragion veduta e con sonora eco dantesca (cfr. 8 n.): conclude una
pagina tutta intessuta di termini positivi e quasi beatificanti (gentile, nobile, bene, bello, buono).
15 Uno degli innamoramenti per fama, non raro nel tessuto
medievale del D. e in genere attribuito letterariamente alle classi
elevate (I 5; IV 4,3 n.: e cfr. Andrea Cappellano, De Amore, pp.
124 sgg.).
16 mostrò, diede a vedere, fece credere: Morelli, Ricordi, p. 381
«e’ ci veduta ...che voleva essere insieme con noi».
17 difficoltà: cfr. IV 3,15.
18 L’apparire dell’amata, spesso per la prima volta, nella leggiadra e sontuosa cornice di una festa, vincendo con la sua bellezza
ogni più alta immaginazione, è topos ripetuto anche altra volta dal
B. (per es. VIII 7,6; Filocolo, I 1; Comedia, XXXV). Qui si colora
di luci dantesche, dalla Vita Nuova specialmente (cfr. in particolare
cap. XIV): V. BRANCA, Poetica del rinnovamento ecc., in Studi in
onore di I. Siciliano, Firenze 1966.
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se egli il suo amore non acquistasse. E seco divisando19
che via dovesse a ciò tenere, ogn’altro modo lasciando
stare, avvisò che, se divenir potesse famigliar del marito
di lei, il qual molti ne teneva, per avventura gli potrebbe
venir fatto quel che egli disiderava.
10
Venduti adunque i suoi cavalli, e la sua famiglia acconcia20 in guisa che stava bene, avendo lor comandato
che sembiante facessero di non conoscerlo, essendosi
accontato21 con l’oste suo, gli disse che volentier per servidore d’un signore da bene, se alcun ne potesse trovare,
starebbe. Al quale l’oste disse: «Tu se’ dirittamente22 famiglio da dovere esser caro ad un gentile uomo di questa terra che ha nome Egano, il quale molti ne23 tiene, e
tutti li vuole appariscenti24come tu se’: io ne gli parlerò».
11
E come disse così fece; e avanti che da Egano si partisse, ebbe con lui acconcio Anichino; il che quanto più
12 poté esser gli25 fu caro. E con Egano dimorando e avendo copia26di vedere assai spesso la sua donna, tanto bene e sì a grado cominciò a servire Egano, che egli gli pose tanto amore, che senza lui niuna cosa sapeva fare; e
9
19 pensando: III 1,12 n. Tutto questo pensiero già era stato
quello di Arcita, che, cambiato nome, si era posto, per amore di
Emilia, al servizio di Teseo (Teseida, IV 49 sgg.); ed è espediente
comune in questi casi nella letteratura popolare (Thompson, K
1816 sgg.).
20 e avendo il suo seguito accomodato, sistemato: e così più sotto, II: per la forma cfr. VI 4,6 n.
21 familiarizzatosi: II 3,1 n.
22 proprio, per l’appunto: I 2,28 n.
23 familiari, servitori: implicito nel famiglio e nel servidore delle righe precedenti.
24 di bell’aspetto: III I,12: «temette di non dovervi [nel convento] essere ricevuto per ciò che troppo era giovane e appariscente».
25 A Anichino.
26 frequente occasione, opportunità, possibilità.
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non solamente di sé, ma di tutte le sue cose gli aveva
commesso il governo27.
Avvenne un giorno che, essendo andato Egano ad
uccellare e Anichino rimaso a casa, madonna Beatrice,
che dello amor di lui accorta non s’era ancora quantunque seco28, lui e’ suoi costumi guardando, più volte molto commendato l’avesse e piacessele, con lui si mise a
giucare a’ scacchi29; e Anichino, che di piacerle disiderava, assai acconciamente30 faccendolo, si lasciava vincere31, di che la donna faceva maravigliosa festa. Ed essendosi da vedergli giucare tutte le femine della donna
partite, e soli giucando32 lasciatigli, Anichino gittò un
grandissimo sospiro.
La donna guardatolo disse: «Che avesti, Anichino?
Duolti così che io ti vinco?»
«Madonna,» rispose Anichino «troppo maggior cosa
che questa non è fu cagion del mio sospiro».
Disse allora la donna: «Deh dilmi33 per quanto ben
tu mi vuogli».
Quando Anichino si sentì scongiurare ‘per quanto
ben tu mi vuogli’ a34 colei la quale egli sopra ogn’altra
27 gli aveva affidato l’amministrazione, la cura: come Amerigo a
Pietro nella V 7, come Teseo Arcita («in tutto suo segreto il feo, |
Amando lui più ch’altro servidore»: Teseida, IV 59).
28 tra sé e sé, in cuor suo.
29 La partita a scacchi come situazione in cui si svela l’amore
era un topos nei romanzi cavallereschi: cfr. E. LÖSETH, Le roman
en prose de Tristan, Paris 1890, p. 39; Tristano Riccardiano, pp. 99
sgg.; Tavola Ritonda, pp. 119 sgg. E cfr. anche Filocolo, IV 96. Per
la forma g i u c a r e , insistente in questi paragrafi, cfr. Intr., III n.
30 abilmente, cioè in modo che Beatrice non se ne avvedesse.
31 Riflesso di un precetto dell’ammiratissimo Ovidio (Ars Am.,
II 203 sgg.), non insolito del resto nella letteratura medievale (cfr.
A. Cappellano, De Amore, pp. 124 sgg.; Huon de Bordeaux cit.,
7470 sgg.; Filocolo, IV 96,3 sgg.; La donna del Vergiú, 17 sg.).
32 Gerundio participiale: che giocavano, nell’atto di giocare.
33 dimmelo: il maschile si riferisce a cosa come già in altri casi
(II 3,25 n.).
34 da: Intr., 20 n.
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cosa amava35, egli ne36 mandò fuori un troppo maggiore
che non era stato il primo; per che la donna ancor da capo il ripregò che gli piacesse di dirle qual fosse la cagione de’ suoi sospiri. Alla quale Anichino disse:
«Madonna, io temo forte che egli non vi sia noia37,
se io il vi dico; e appresso dubito che voi ad altra persona nol ridiciate».
19
A cui la donna disse: «Per certo egli non mi sarà grave, e renditi sicuro di questo, che cosa che tu mi dica, se
non quanto ti piaccia, io non dirò mai ad altrui».
Allora disse Anichino: «Poi che voi mi promettete
20
così, e38 io il vi dirò» ; e quasi colle lagrime in sugli occhi
le disse chi egli era, quel che di lei aveva udito e dove e
come di lei s’era innamorato e come venuto e perché per
servidor del marito di lei postosi39; e appresso umilemente, se esser potesse, la pregò che le dovesse piacere
d’aver pietà di lui, e in questo suo segreto e sì fervente
disidero di compiacergli; e che, dove questo far non volesse, che ella, lasciandolo star nella forma nella qual si
stava, fosse contenta che egli l’amasse40.
O singular dolcezza del sangue bolognese41! Quanto
21
se’ tu stata sempre da commendare in così fatti casi! Mai
né di lagrime né di sospir fosti vaga, e continuamente a’
35
Solita affermazione, quasi una formula (IV 6,22 n.).
Di sospiri,
37 non vi dispiaccia.
38 ecco che: I 1,39 n.: «Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io
il vi dirò».
39 si era posto: è sottinteso l’ausiliare con quest’ultimo participio.
40 Linguaggio di tono stilnovistico e dantesco: cfr. Cavalcanti,
XXXV 46: «Anima e tu l’adora sempre nel suo valore»; Vita Nuova, XVIII 4: «Amore ha posto tutta la mia beatitudine in quello
che non mi puote venir meno».
41 «Nota un cortese peduccio per le Bolognesi» (M.). Sempre
le bolognesi sono rappresentate nel D. cortesi e amorose: I 10, X 4.
E cfr. Benvenuto da Imola, Comentum ecc., Firenze 1887, II, p. 16:
«bononienses sunt carnales dulcis sanguinis et suavis naturae».
36
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prieghi pieghevole e agli amorosi disideri arrendevol fosti. Se io avessi degne lode da commendarti, mai sazia42
non se ne vedrebbe la voce mia43!
La gentil donna, parlando Anichino, il riguardava, e
dando piena fede alle sue parole, con sì fatta forza ricevette per li prieghi di lui il suo amore nella mente44, che
essa altressì cominciò a sospirare, e dopo alcun sospiro
rispose: «Anichino mio dolce, sta di buon cuore; né doni né promesse né vagheggiare di gentile uomo né di signore né d’alcuno altro (ché sono stata e sono ancor vagheggiata da molti) mai potè muovere l’animo mio tanto
che io alcuno n’amassi; ma tu m’hai fatta in così poco
spazio, come45 le tue parole durate sono, troppo più tua
divenir che io non son mia. Io giudico che tu ottimamente abbi il mio amor guadagnato, e per ciò io il ti dono, e sì ti prometto che io te ne farò godente avanti che
questa notte che viene tutta trapassi. E acciò che questo
abbia effetto, farai che in su la mezza notte tu venghi46
alla camera mia; io lascerò l’uscio aperto; tu sai da qual
parte del letto io dormo; verrai là, e, se io dormissi, tanto mi tocca che io mi svegli, e io ti consolerò di così lungo disio come avuto hai; e acciò che tu questo creda, io
42 Cfr. Rime, VI 13 sg. «con amor di commendarla | Sazio non
vedea mai il ben ch’io provo»; Vita Nuova, XVIII 9; Petrarca,
CXC 13, Tr. Cupidinis, II 1.
43 Per l’uso di attribuire a una facoltà l’operazione propria di
un’altra (sinestesia) cfr. VII 2,25 n.
44 Espressione canonica in queste situazioni: cfr. per es. IV
1,6; IV 7,6 ecc.: e per la struttura dell’espressione VII 2,25 n.
45 quanto, qual è quello in cui.
46 La solita forma del congiuntivo presente: II 7,100 n.
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ti voglio dare un bacio per arra47» ; e gittatogli il braccio
in collo, amorosamente il baciò, e Anichin lei.
Queste cose dette, Anichin, lasciata la donna, andò a
fare alcune sue bisogne, aspettando con la maggior letizia del mondo che la notte sopravvenisse. Egano tornò
da uccellare, e come cenato ebbe, essendo stanco,
s’andò a dormire, e la donna appresso, e, come promesso avea, lasciò l’uscio della camera aperto.
Al quale, all’ora che detta gli era stata, Anichin venne, e pianamente entrato nella camera e l’uscio riserrato
dentro, dal canto donde la donna dormiva se n’andò, e
postale la mano in sul petto48, lei non dormente trovò; la
quale come sentì Anichino esser venuto, presa la sua
mano con amendune le sue e tenendol forte, volgendosi
per lo letto tanto fece che Egano che dormiva destò, al
quale ella disse: «Io non ti volli iersera dir cosa niuna,
per ciò che tu mi parevi stanco; ma dimmi, se Dio ti sal47 caparra, pegno. È l’ultima nota, l’ultimo vocabolo del linguaggio cortese e amoroso che caratterizza la prima parte della novella, la sua atmosfera nobile e cavalleresca: dall’educazione di Lodovico alla Corte di Francia alle conversazioni cortigiane e galanti,
dall’innamoramento per fama all’umile silenzioso servire di Anichino, dallo splendido vivere di Egano alle cacce col falcone, dalla
signorile partita a scacchi a questo scambio di dichiarazioni amorose ingemmate di alta retorica. Arra infatti, come già nell’Amorosa
Visione (XLVI 87: «l’arra che finirà ’l fieto»), indica, con la precisione della terminologia erotico-cortese, il secondo e terzo «grado»
amoroso di Andrea Cappellano (p. 32), il fiore della nostra lirica
delle origini: cioè il bacio e l’abbraccio che venivano dopo il primo
«grado» o «cominzo» (il vagheggiamento). All’ a r r a succedeva il
quarto grado di Andrea, il «compimento» o «effetto» della nostra
lirica: il mutuo completo possesso degli amanti, cioè l’ e f f e t t o
cui sopra ha accennato Beatrice. Anche qui cioè, come altrove nel
D. (III 6,3 e 5,II; IX 2,5; X 6,36; X 7,47), si riflettono gli alti e rigidi schemi della trattatistica e della lirica amorosa del tempo. Per
documentazione più precisa cfr. V. BRANCA, B. medievale, pp.
224 sgg., e commento all’Amorosa Visione, pp. 640 e 645.
48 Proprio come, in situazione analoga, Girolamo alla Salvestra (IV 8,17).
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vi, Egano, quale hai tu per lo migliore famigliare e per lo
più leale e per colui che più t’ami, di quegli che tu in casa hai?»
Rispose Egano: «Che è ciò, donna, di che tu mi domandi? Nol conosci tu? Io non ho, né ebbi mai alcuno,
di cui io tanto mi fidassi o fidi o ami, quant’io mi fido e
amo Anichino49; ma perché me ne domandi tu?»
Anichino, sentendo desto Egano e udendo di sé ragionare, aveva più volte a sé tirata la mano per andarsene, temendo forte non la donna il volesse ingannare; ma
ella l’aveva sì tenuto e teneva, che egli non s’era potuto
partire50 né poteva.
La donna rispose ad Egano e disse: «Io il ti dirò. Io
mi credeva che fosse ciò che tu di’e che egli più fede che
alcuno altro ti portasse; ma me ha egli sgannata 51, per
ciò che, quando tu andasti oggi ad uccellare, egli rimase
qui, e quando tempo gli parve, non si vergognò di richiedermi52 che io dovessi, a’suoi piaceri acconsentirmi;
e io, acciò che questa cosa non mi bisognasse con troppe
pruove mostrarti e per farlati toccare e vedere, risposi
che io era contenta e che stanotte, passata mezzanotte,
io andrei nel giardino nostro e a piè del pino l’aspetterei.
Ora io per me non intendo d’andarvi; ma, se tu vuogli la
fedeltà del tuo famiglio cognoscere, tu puoi leggiermente, mettendoti indosso una delle guarnacche53 mie e in
49 F i d a r e e a m a r e reggono prima ambedue un genitivo
( d i c u i ) e poi un accusativo ( A n i c h i n o ), a seconda cioè che
il complemento è vicino all’uno o all’altro dei due verbi che richiedono diversa costruzione: uso corrente nell’antica lingua e nel D.
(per es. I 1,3; Petrarca, XXVI 12 sg.: «Ché più gloria è nel regno
degli eletti | D’un spirito converso, e più s’estima ...»).
50 Costruzione col verbo «essere» anche se il pronome riflessivo riguarda un infinito seguente: cfr. Rohlfs, 731.
51 disingannata: III 10,28 n.
52 Anche questo è un verbo tipico della terminologia amorosa
(IV 9,7 n. e VII 8,2): e così il seguente acconsentirmi (Amorosa Visione, XLVI 54).
53 Sopravvesti lunghe: II 9,28 n.
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capo un velo, e andare54 laggiuso ad aspettare se egli vi
verrà, ché son certa del sì».
Egano udendo questo disse: «Per certo io il convengo vedere55» ; e levatosi, come meglio seppe al buio, si
mise una guarnacca della donna e un velo in capo, e andossen nel giardino e a piè d’un pino cominciò ad attendere Anichino56.
La donna, come sentì lui levato e uscito della camera, così si levò e l’uscio di quella dentro serrò.
Anichino, il quale la maggior paura che avesse mai
avuta avea, e che quanto potuto avea s’era sforzato
d’uscire delle mani della donna e centomila volte lei e il
suo amore e sé che fidato se n’era avea maladetto, sentendo ciò che alla fine aveva fatto, fu il più contento uomo che fosse mai; ed essendo la donna tornata nel letto,
come ella volle, con lei si spogliò57, e insieme presero
piacere e gioia per un buono spazio di tempo.
Poi, non parendo alla donna che Anichino dovesse
più stare, il fece levar suso e rivestire, e sì gli disse: «Bocca mia dolce, tu prenderai un buon bastone e andra’tene
54 Questa congiunzione pleonastica fu spiegata sia facendo dipendere andare da puoi (cioè: tu puoi leggermente conoscerla ... e
andare: così il Colombo); sia dando all’infinito valore di gerundio
(cioè: puoi leggermente conoscerla mettendoti ... e andando: così il
Fanfani). Ma sono spiegazioni che non soddisfano. Meglio pensare
a un infinito coordinato, come altre volte, al precedente gerundio
mettendoti.
55 conviene che io lo veda: la solita costruzione personale alla
latina: II 7,80 n.; II 10,7; V 4,18 n.: cfr. F. BRAMBILLA AGENO,
Il verbo, p. 148.
56 L’attesa è caricaturata dai tre versi di diversa misura, tutti di
seguito e con identica rima. Anche questa scena romanzesca avrà
un riflesso più teorico nel Corbaccio (224 e 229: «La loro lussuria è
focosa ... : il fante, il lavoratore ... ciascuno è buono ... Quante nel
letto medesimo co’ mariti [presumettero] farli tacitamente entrare?»)
57 si spogliò come lei: c o n ha qui valore di somiglianza, e non
di compagnia: V 8,21 n.
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al giardino, e faccendo sembianti d’avermi richiesta per
tentarmi, come se io fossi dessa58, dirai villania ad Egano
e sonera’ mel59 bene col bastone, per ciò che di questo
ne seguirà maraviglioso diletto e piacere».
Anichino levatosi e nel giardino andatosene con un
pezzo di saligastro60 in mano, come fu presso al pino e
Egano il vide venire, così levatosi come con grandissima
festa riceverlo volesse, gli si faceva incontro. Al quale
Anichin disse: «Ahi malvagia femina61, dunque ci se’ venuta, e hai creduto che io volessi o voglia al mio signor
far questo fallo? Tu sii la mal venuta per le mille volte!»;
e alzato il bastone, lo incominciò a sonare.
Egano, udendo questo e veggendo il bastone, senza
dir parola cominciò a fuggire, e Anichino appresso sempre dicendo: «Via, che Dio vi metta in malanno, rea femina, ché io il dirò domatina ad Egano per certo».
Egano avendone avute parecchi62 delle buone, come
più tosto poté, se ne tornò alla camera; il quale la donna
domandò se Anichin fosse al giardin venuto. Egano disse: «Così non fosse63 egli, per ciò che, credendo esso che
io fossi te, m’ha con un bastone tutto rotto64, e dettami
la maggior villania che mai si dicesse a niuna cattiva femina; e per certo io mi maravigliava forte di lui che egli
con animo di far cosa che mi fosse vergogna t’avesse
58
come se fossi proprio io.
me lo suonerai, me io bastonerai. «La parola e il dativo etico
fanno sentire la voluttà con cui la donna pregusta la cosa» (Petronio).
60 salice selvatico (è bolognesismo: MIGLIORINI, Storia, p.
209). E, come il pino precedente, albero caratteristico per lo stile
comico e mediocre: E. FARAL, Les Arts poetiques cit., pp. 86 sgg.;
J. E. CIRLOT, A Dictionary of Symbols cit., pp. 328 sgg. E il salice
selvatico era anche simbolo di purezza e purificazione.
61 Cfr. VII 8,21 n.
62 Forma invariata del plurale: cfr. II 10,12 n.
63 È sottinteso il participio precedente v e n u t o.
64 pestato, ammaccato: VII 4,29 n.
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quelle parole dette; ma, per ciò che così lieta e festante65
ti vede, ti volle provare».
Allora disse la donna: «Lodato sia Iddio, che egli ha
44
me provata con parole e te con fatti, e credo che egli
possa dire che io comporti66 con più pazienzia le parole
che tu i fatti non fai. Ma poi che tanta fede ti porta, si
vuole aver caro e fargli onore.
45
Egano disse: «Per certo tu di’ il vero».
E, da questo prendendo argomento, era in oppinio46
ne d’avere la più leal donna e il più fedel servidore che
mai avesse alcun gentile uomo. Per la qual cosa, come
che poi più volte con Anichino ed egli e la donna ridesser di questo fatto, Anichino e la donna ebbero assai più
agio67, di quello per avventura che avuto non avrebbeno68, a far di quello che loro era diletto e piacere, mentre69 ad Anichin piacque di dimorar con Egano in Bologna. –
65
festevole, gaia.
sopporti.
67 assai più agio (Colombo).
68 È forma pistoiese-lucchese-pisana, ma sporadicamente usata anche da scrittori fiorentini (Nuovi testi fiorentini, I, p. 49).
69 finché: cfr. II 9,74 n.; III 5,33 ecc.
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NOVELLA OTTAVA
1
Un diviene geloso della moglie, ed ella, legandosi uno spago al
dito la notte, sente il suo amante venire a lei. Il marito se n’accorge, e mentre seguita l’amante, la donna mette in luogo di sé
nel letto un’altra femina, la quale il marito batte e tagliale le
trecce, e poi va per li fratelli di lei, li quali, trovando ciò non esser vero, gli dicono villania1.
2
Stranamente2 pareva a tutti madonna Beatrice essere
stata maliziosa3 in beffare il suo marito, e ciascuno affermava dovere essere stata la paura d’Anichino grandissi1
Il tema centrale di questa novella (l’inganno teso al marito
dalla moglie infedele con la sostituzione di persona) era già diffusissimo nella narrativa orientale: nel Pantschatantra (I 4) e nell’Hitopadesa (II 6), nel Kalila e Dimna e quindi nella lunga serie di rimaneggiamenti e versioni di queste raccolte, tra cui il Directorium
di Giovanni da Capua (ed. Derenbourg, Paris 1887, pp. 54 sgg.) e
poi le Mille e una notte (554-55). Ma prima della traduzione di
Giovanni da Capua il tema con alcune varianti già appare in Occidente nei fabliaux (Des tresces e De la dame qui fist entendant son
mari qu’il sonjoit: Recueil général, IV 94 e V 124: e I 15) e in racconti medievali tedeschi (per es. Gesammtabenteuer, specialmente
XXXl e XLIII; e KELLER, Erzählungen cit., p. 310). Il Bédier (Les
Fabliaux, pp. 164 sgg.) ha mostrato - contro il Benfey (op. cit., II,
pp. 38 sgg.) - che con tutta probabilità le narrazioni occidentali
non dipendono da quelle orientali, ma discendono per via orale da
una fonte comune, cui hanno aggiunto particolari caratteristici
(per es. il marito non taglia più il naso ma le trecce, secondo un uso
germanico di cui già Tacito, Germania, 19). Il B. ispirandovisi liberamente contaminò, rielaborò, innovò (per es. tutto lo stratagemma del filo; e soprattutto la cornice municipale vivacissima). Cfr.
per tutto anche Aarne, 1417; Thompson e Rotunda, K 1228 e
1512: e per la sostituzione di persona cfr. VIII 4,1 n.
2
In maniera assai singolare. Non è un giudizio di carattere
formale o di pietà come altri espressi dai giovani dell’aristocratica
brigata (per es. VII 10,2; VIII 7,2). La sorpresa è provocata qui
dall’improvviso capovolgimento che caratterizza la novella precedente nella vicenda, nei toni, nei caratteri stessi dei protagonisti
(cfr. V. BRANCA, B. medievale, pp. 132 sg.).
3
scaltra: cfr. III 2,28 n.
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ma, quando, tenuto forte dalla donna, l’udì dire che egli
d’amore l’aveva richesta4; ma poi che il re vide Filomena
tacersi, verso Neifile voltosi, disse: «Dite voi».
La qual, sorridendo prima un poco, cominciò.
– Belle donne, gran peso mi resta se io vorrò con una
bella novella contentarvi, come quelle che davanti hanno detto contentate v’hanno; del quale con l’aiuto di
Dio io spero assai bene scaricarmi5.
Dovete dunque sapere che nella nostra città fu già
un ricchissimo mercatante chiamato Arriguccio Berlinghieri6, il quale scioccamente, sì come ancora oggi fanno
tutto ’l dì i mercatanti pensò di volere ingentilire per
moglie7, e prese una giovane gentil donna8 male a lui
convenientesi, il cui nome fu monna Sismonda. La quale, per ciò che egli, sì come i mercatanti fanno, andava
molto dattorno e poco con lei dimorava, s’innamorò
d’un giovane chiamato Ruberto, il quale lungamente vagheggiata l’avea.
E avendo presa sua dimestichezza9 e quella forse
men10 discretamente usando, per ciò che sommamente
le dilettava, avvenne o che Arriguccio alcuna cosa ne
4
Cfr. IV 9,7 n.; e anche VII 7,33.
Continua l’immagine del «gran peso» usato per il compito
grave di narrare una novella non indegna delle precedenti; immagine non nuova del resto (per es. I 4,2; IV 7,2; VI 9,2 ecc.).
6
Famiglia di mercanti assurti a una certa notorietà soltanto
dopo la metà del Trecento (ebbero vari priori e tre gonfalonieri):
non trovo però notizia di nessun Arrigo o Arriguccio in tale famiglia. Cfr. codd. Passerini 186 e 214 della Bibl. Nazionale di Firenze; cod. Marucelliano C 3, c. 223.
7
nobilitarsi sposando una donna dell’aristocrazia; come il mercante della III 3. Anche il Cavalca, Trattato della mondizia del cuore di San Girolamo, Roma 1846, p. 66: «per uno nobile parentado
tutta la schiatta ne ingentilisce».
8
«Qui nota artificello» (M.).
9
In senso disonesto: II 7,80 n.
10 «Nota minus pro non» (M.); cioè contenendosi nel suo
amore con minore accortezza del necessario. Quasi una formula in
situazioni simili: IV 9,8 n.
5
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sentisse, o come che s’andasse, egli11 ne diventò il più
geloso uom del mondo, e lascionne stare l’andar dattorno e ogni altro suo fatto, e quasi tutta la suo12 sollicitudine aveva posta in guardar ben costei; né mai addormentato si sarebbe, se lei primieramente non avesse sentita
entrar nel letto13; per la qual cosa la donna sentiva gravissimo dolore, per ciò che in guisa niuna col suo Ruberto esser poteva.
Or pure, avendo molti pensieri avuti a dover trovare
alcun modo d’esser con essolui, e molto ancora da lui
essendone sollicitata, le venne pensato14 di tenere questa
maniera: che, con ciò fosse cosa che la sua camera fosse
lungo la via, ed ella si fosse molte volte accorta che Arriguccio assai ad addormentarsi penasse, ma poi dormiva
saldissimo, avvisò di dover far venire Ruberto in su la
mezza notte all’uscio della casa sua e d’andargli ad aprire e a starsi alquanto con essolui mentre il marito dormiva forte. E a fare che ella il sentisse quando venuto fosse,
in guisa che persona non se ne accorgesse, divisò15 di
mandare uno spaghetto fuori della finestra della camera,
il quale con l’un de’ capi vicino alla terra16 aggiugnesse,
e l’altro capo mandatol basso infin sopra ’l palco17 e
conducendolo18 al letto suo, quello sotto i panni mette-
11 Colla corrente omissione di c h e in frase dipendente da avvenne o simili.
12 Forma ridotta non ignota al D.: IV 2,26 n.; X 8,48 n.; Rime,
passim.
13 Il grande tema della novella, la bestialità della gelosia, è
enunciato qui nei ritmi di una serie eccezionale di versi (quattro
endecasillabi e un settenario: q u a s i t u t t a ... n e l l e t t o ).
14 Cfr. III 4,11 n.; e qui 11 n.
15 pensò, escogitò: questo verbo regge prima l’infinito preceduto da di e poi l’infinito semplice (m e t t e r e ... l e g a l l o s i ).
16 Cioè al terreno fuori, sotto la finestra.
17 pavimento: cfr. III 4,24 n.
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re, e quando essa nel letto fosse, legallosi19 al dito grosso
del piede.
E appresso, mandato questo a dire a Ruberto, gl’impose che, quando venisse, dovesse lo spago tirare, ed ella, se il marito dormisse, il lascerebbe andare e andrebbegli ad aprire; e s’egli non dormisse, ella il terrebbe
fermo e tirerebbelo a sé, acciò che egli non aspettasse: la
qual cosa piacque a Ruberto, e assai volte andatovi, alcuna gli venne fatto d’esser con lei, e alcuna no.
Ultimamente, continuando costoro questo artificio
così fatto, avvenne una notte che, dormendo la donna e
Arriguccio stendendo il piè per lo letto, gli venne20 questo spago trovato; per che, postavi la mano e trovatolo al
dito della donna legato, disse seco stesso: – Per certo
questo dee essere qualche inganno –. E avvedutosi poi
che lo spago usciva fuori per la finestra, l’ebbe per fermo21; per che, pianamente tagliatolo dal dito della donna, al suo il legò, e stette attento per vedere quel che
questo volesse dire.
Né stette guari che Ruberto venne, e tirato lo spago,
come usato era, Arriguccio si sentì22, e non avendoselo
ben saputo legare, e23 Ruberto avendo tirato forte ed essendogli lo spago in man venuto, intese di doversi aspettare, e così fece.
Arriguccio, levatosi prestamente e prese sue armi,
18 Questo gerundio coordinato a un participio passato dà eccezionale vivezza all’azione rappresentata.
19
legarlosi: con un’assimilazione corrente (e cfr. 31).
20 Il solito uso di venire come ausiliare a esprimere fortuita subitaneità: II 5,70 n.
21 ne fu certo: una successione dal sospetto alla certezza
espressa come nella IV 3,22 (e cfr. anche I 4,19).
22 se ne accorse, avvertì la cosa: e non, come di solito è interpretato, si risentí, si svegliò, ché evidentemente Arriguccio già era sveglio.
23 ecco che: col solito uso di e in ripresa come del resto al 14.
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corse all’uscio, per dover vedere chi fosse costui, e per
fargli male. Ora era Arriguccio, con tutto che fosse mercatante, un fiero e un forte uomo; e giunto all’uscio e
non aprendolo soavemente24 come soleva far la donna, e
Ruberto che aspettava sentendolo, s’avvisò esser quello
che era, cioè che colui che l’uscio apriva fosse Arriguccio; per che prestamente cominciò a fuggire, e Arriguccio a seguitarlo.
Ultimamente, avendo Ruberto un gran pezzo fuggito25 e colui non cessando di seguitarlo, essendo altressì
Ruberto armato, tirò fuori la spada e rivolsesi, e incominciarono l’uno a volere offendere e l’altro a difendersi.
La donna, come Arriguccio aprì la camera, svegliatasi e trovatosi tagliato lo spago dal dito, incontanente
s’accorse che ‘l suo inganno era scoperto; e sentendo Arriguccio esser corso dietro a Ruberto, prestamente levatasi, avvisandosi ciò che doveva potere avvenire, chiamò
la fante sua, la quale ogni cosa sapeva, e tanto la predicò26, che ella in persona di sé27 nel suo letto la mise,
pregandola che, senza farsi conoscere, quel le busse pazientemente ricevesse che Arriguccio le desse, per ciò
che ella ne le renderebbe sì fatto merito28, che ella non
avrebbe cagione donde29 dolersi. E spento il lume che
nella camera ardeva, di quella s’uscì, e nascosa in una
parte della casa cominciò ad aspettare quello che dovesse avvenire.
Essendo tra Arriguccio e Ruberto la zuffa, i vicini
24
pian piano, dolcemente: VI 2,28 n.
Non frequente avere ausiliare di fuggire intransitivo: ma cfr.
V 3,10 n.
26 la scongiurò, la pregò: II 8,65 n.; Fiore, CCXI 5: «E poi la comincio a predicare | E disse ...»; Velluti, Cronica, p. 42: «il priore ...
il cominciò a pregare e predicare».
27 in vece sua, al suo posto: III 2,11 n.; III 9,1.
28 ricompensa: cfr. III 9,14 n.
29 della quale: Par., XVI 150: «Che non avea cagione onde
piangesse». Per questa relativa all’infinito cfr. F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, p. 403.
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della contrada, sentendola e levatisi, cominciarono loro
a dir male30; e Arriguccio, per tema di non esser conosciuto, senza aver potuto sapere chi il giovane si fosse o
d’alcuna cosa31 offenderlo, adirato e di mal talento32, lasciatolo stare, se ne tornò verso la casa sua; e pervenuto
nella camera adiratamente cominciò a dire: «Ove se’ tu,
rea femina? Tu hai spento il lume perché io non ti truovi, ma tu l’hai fallita33».
E andatosene al letto, credendosi la moglie pigliare,
19
prese la fante, e quanto egli potè menare le mani e’ piedi, tante pugna e tanti calci le diede, tanto34 che tutto il
viso l’ammaccò; e ultimamente le tagliò i capegli, sempre dicendole la maggior villania che mai a cattiva femina si dicesse35.
20
La fante piagneva forte, come colei che aveva di
che36; e ancora che ella alcuna volta dicesse: «Ohimè,
mercé per Dio; oh, non più» ; era sì la voce dal pianto
rotta37, e Arriguccio impedito38 dal suo furore, che discerner non poteva più quella esser d’un’altra femina
che della moglie.
Battutala adunque di santa ragione e tagliatile i cape21
gli, come dicemmo, disse: «Malvagia femina39, io non
30
ingiuriarli, maltrattarli a parole: IV 8,7 n.
in qualche cosa, in nulla.
sdegnato: frase consueta: III 2,23 n.; IV 9,11 n.
33 l’hai sbagliata: II 2,11: «ché, se fallito non ci viene, per mio
avviso tu albergherai pur male».
34 Cfr. VII 5,52 n.
35 Così anche nella VII 7,43: «dettami la maggior villania che
mai si dicesse a niuna cattiva femina»: e cfr. qui più avanti 49.
36 che ne aveva ben il motivo.
37 Vita Nuova, XXIII 13: «la mia voce era sì rotta dal singulto
del piangere, che queste donne non mi pottero intendere» e poi
nella canzone (19): «Era la voce mia sì dolorosa | E rotta sì da l’angoscia del pianto»: e cfr. II 5,15.
38 sconvolto, reso cieco, oppresso: Inf., XXIX 28 sg.: «Tu eri allor sì del tutto impedito | Sovra colui»: e cfr. anche IV 9,17 n.
39 Anche Anichino nella VII 7,40: «Ahi malvagia femina ...».
31
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intendo di toccarti altramenti, ma io andrò per li tuoi
fratelli e dirò loro le tue buone opere; e appresso che essi vengan per te e faccianne quello che essi credono che
loro onor sia, e menintene40; ché per certo in questa casa
non starai tu mai più».
E così detto, uscito della camera, la serrò di fuori e
andò tutto sol via.
Come monna Sismonda, che ogni cosa udita aveva,
sentì il marito essere andato via, così, aperta la camera e
racceso il lume, trovò la fante sua tutta pesta che piagneva forte; la quale, come poté il meglio, racconsolò, e nella camera di lei la rimise, dove poi chetamente41 fattala
servire e governare42 sì di quello d’Arriguccio medesimo
la sovvenne43 che ella si chiamò per contenta.
E come la fante nella sua camera rimessa ebbe, così
prestamente il letto della sua rifece, e quella tutta racconciò e rimise in ordine, come se quella notte niuna
persona giaciuta vi fosse, e raccese la lampana e sé rivestì e racconciò, come se ancora al letto non si fosse andata; e accesa una lucerna e presi suoi panni, in capo della
scala si pose a sedere, e cominciò a cucire e ad aspettare
quello a che il fatto dovesse riuscire.
Arriguccio, uscito di casa sua, quanto più tosto potè
n’andò alla casa de’ fratelli della moglie, e quivi tanto
picchiò che fu sentito e fugli aperto. Li fratelli della donna, che eran tre, e la madre di lei, sentendo che Arriguccio era, tutti si levarono, e fatto accendere de’ lumi vennero a lui e domandaronlo quello che egli a quella ora e
così solo andasse cercando.
A’ quali Arriguccio, cominciandosi dallo spago che
trovato aveva legato al dito del piè di monna Sismonda,
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ti menino via di qui, di casa mia. Cfr. VII 4,12.
segretamente, di nascosto.
curare, medicare,
la soccorse, la compensò con denari di Arriguccio stesso: I
1,82 n.
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infino all’ultimo di ciò che trovato e fatto avea, narrò loro; e per fare loro intera testimonianza di ciò che fatto
avesse, i capelli che alla moglie tagliati aver credeva lor
pose in mano, aggiugnendo che per lei venissero e quel
ne facessero che essi credessero che al loro onore appartenesse, per ciò che egli non intendeva di mai più in casa
tenerla.
I fratelli della donna, crucciati forte di ciò che udito
avevano e per fermo tenendolo44, contro a lei innanimati45, fatti accender de’ torchi, con intenzione di farle un
mal giuoco46, con Arriguccio si misero in via e andaronne a casa sua. Il che veggendo la madre di loro, piagnendo gl’incominciò a seguitare, or l’uno e or l’altro pregando che non dovessero queste cose così subitamente
credere, senza vederne altro o saperne; per ciò che il
marito poteva per altra cagione esser crucciato con lei e
averle fatto male, e ora apporle47 questo per iscusa di sé;
dicendo ancora che ella si maravigliava forte come ciò
potesse essere avvenuto, per ciò che ella conosceva ben
la sua figliuola, sì come colei che infino da piccolina
l’aveva allevata; e molte altre parole simiglianti.
Pervenuti adunque a casa d’Arriguccio ed entrati
dentro, cominciarono a salir le scale. Li quali monna Sismonda sentendo venire, disse: «Chi è là?»
Alla quale l’un de’ fratelli rispose: «Tu il saprai bene,
rea femina, chi è».
Disse allora monna Sismonda: «Ora che vorrà dir
questo? Domine, aiutaci48». E levatasi in piè disse: «Fra-
44
e considerando questo certissimo.
sdegnati, irati: G. Villani, VIII 62: «il Papa maggiormente
s’inanimò contro al Re [di Francia]».
46 giocarle un brutto tiro, trattarla male: VII 5,37 n.
47 attribuirle, imputarle: III 7,26 n.
48 Esclamazione consueta in casi simili: IX 7,12; X 9,91.
45
Letteratura italiana Einaudi 1002
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telli miei, voi siate i benvenuti; che andate voi cercando
a questa ora quincentro tutti e tre49?»
Costoro, avendola veduta a sedere e cucire e senza
alcuna vista50 nel viso d’essere stata battuta, dove Arriguccio aveva detto che tutta l’aveva pesta, alquanto nella
prima giunta51 si maravigliarono e rifrenarono l’impeto
della loro ira, e domandarolla52 come stato fosse quello
di che Arriguccio di lei si doleva, minacciandola forte se
ogni cosa non dicesse loro.
La donna disse:
«Io non so ciò che io mi vi debba dire, né di che Arriguccio di me vi si debba esser doluto».
Arriguccio, vedendola, la guatava come smemorato53, ricordandosi che egli l’aveva dati forse mille punzoni54 per lo viso e graffiatogliele e fattole tutti i mali del
mondo, e ora la vedeva come se di ciò niente fosse stato.
In brieve i fratelli le dissero ciò che Arriguccio loro
aveva detto, e dello spago e delle battiture e di tutto.
La donna, rivolta ad Arriguccio, disse:
«Ohimè, marito mio, che è quel ch’io odo55? Perché
fai tu tener me rea femina con tua gran vergogna, dove
io non sono56, e te malvagio uomo e crudele57 di quello
che tu non se’? E quando fostù58 questa notte più in
49
Purg., XXIV 133: «Che andate pensando si voi sol tre?»
indizio, segno: VI 5,11 n.
sulle prime: Intr., 92 n.
52 e la richiesero, con un’altra assimilazione corrente come
quella a par. 8.
53 fuor di senno, trasognato, instupidito: cfr. 50; e VI 9,13; VII
9,66.
54 colpi, pugni: IX 8,23; Sacchetti, Rime, CLII 44.
55 Inf., III 32: «che è quel ch’i’ odo?»
56 mentre io non lo sono: con la solita omissione del pronome
(III 6,29 n.).
57 L’intervento della donna suona più incalzante per la sequenza di cinque endecasillabi ( L a d o n n a ... c r u d e l e ).
58 fosti tu. Simili sincopi sono abbastanza frequenti nei discorsi diretti e particolarmente concitati nel D. (vedi in questa stessa
novella, 37: b a t t e s t ù ).
50
51
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questa casa, non che con meco? O quando mi battesti
tu? Io per me non me ne ricordo».
Arriguccio cominciò a dire: «Come, rea femina59,
non ci andammo noi iersera al letto insieme? Non ci tornai io, avendo corso dietro all’amante tuo? Non ti diedi
io di molte busse, e taglia’ti60 i capegli?»
La donna rispose: «In questa casa non ti coricasti tu
iersera. Ma lasciamo stare di questo, ché non ne posso
altra testimonianza fare che le mie vere parole, e veniamo a quello che tu di’, che mi battesti e tagliasti i capegli. Me non battestù mai, e quanti n’ha qui61 e tu altressì
mi ponete mente62 se io ho segno alcuno per tutta la
persona di battitura; né ti consiglierei che tu fossi tanto
ardito che tu mano addosso mi ponessi, ché, alla croce
di Dio63, io ti sviserei64. Né i capegli altressì mi tagliasti,
che io sentissi o vedessi; ma forse il facesti che io non me
n’avvidi: lasciami vedere se io gli ho tagliati o no».
E, levatisi suoi veli di testa, mostrò che tagliati non
gli avea, ma interi.
Le quali cose e vedendo e udendo i fratelli e la madre, cominciarono verso d’Arriguccio a dire: «Che vuoi
tu dire, Arriguccio? Questo non è già quello che tu ne
venisti a dire che avevi fatto; e non sappiam noi come tu
ti proverrai il rimanente».
Arriguccio stava come trasognato e voleva pur dire;
ma, veggendo che quello ch’egli credea poter mostrare
non era così, non s’attentava di dir nulla.
La donna, rivolta verso i fratelli, disse: «Fratei miei,
59 Nota l’insistenza su questa qualificazione ignominiosa (18,
21, 29, 34, 35: e cfr. VII 9,69).
60 ti tagliai.
61 Cioè: tutti voi qui presenti.
62 osservatemi: II 5,11 n.
63 Cfr. VII 4,22 n. e qui più sotto 45.
64 guasterei il viso, romperei la laccia, sfregerei: X concl., 14 n.
Letteratura italiana Einaudi 1004
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
io veggio che egli è andato cercando che io faccia quello
che io non volli mai fare, cioè ch’io vi racconti le miserie
e le cattività65 sue, e io il farò. Io credo fermamente che
ciò che egli v’ha detto gli sia intervenuto e abbial fatto; e
udite come».
Questo valente uomo, al qual voi nella mia mala
42
ora66 per moglie mi deste, che si chiama mercatante e
che vuole esser creduto67 e che dovrebbe esser più temperato che uno religioso e più onesto che una donzella,
son poche sere che68 egli non si vada inebbriando per le
taverne, e or con questa cattiva femina e or con quella rimescolando69; e a me si fa infino a mezza notte e talora
infino a matutino aspettare, nella maniera che mi trova43 ste. Son certa che, essendo bene ebbro, si mise a giacere
con alcuna sua trista70, e a lei destandosi trovò lo spago
al piede e poi fece tutte quelle sue gagliardie71 che egli
dice, e ultimamente tornò a lei e battella e tagliolle i capegli; e non essendo ancora ben tornato in sé, si credette, e son certa che egli crede ancora, queste cose aver
fatte a me; e se voi il porrete ben mente72 nel viso, egli è
44 ancora mezzo ebbro. Ma tuttavia, che che egli s’abbia di
me detto, io non voglio che voi il vi rechiate se non co-
65
le dappocaggini e le ribalderie: I 8,5 n. e 7 n.
per mia sventura: VII 2,16.
67 avere, riscuotere credito: II 3,12 n.
68 sono poche quelle sere che.
69 vada bazzicando, frequentando ora questa donnaccia e ora
quell’altra: IX 7,10 n.
70 Come sopra cattiva femina: VIII 9,85 n.
71 prodezze, bravate.
72 se voi l’osserverete. Non rara questa costruzione con l’accusativo: VIII 9, 108 n.; Comedia, XXVIII 3; Passavanti, Specchio, II
4; «Io, dice Iddio, vi chiamai e non mi rispondeste: stesi inverso di
voi la mano mia e non fu chi por la mente» (lat. «non fuit qui aspiceret»). Cfr. M. MARTELLI, Porre (tenere) mente col complemento diretto, in «Lingua Nostra», XXXII, 1971.
66
Letteratura italiana Einaudi 1005
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
me da73 uno ubriaco; e poscia che io gli perdono io, gli
perdonate74 voi altressì».
La madre di lei, udendo queste cose, cominciò a fare
45
romore e a dire: «Alla croce di Dio, figliuola mia, cotesto non si votrebbe75 fare; anzi si vorrebbe uccidere
questo can fastidioso e sconoscente, ché egli non ne fu
degno d’avere una figliuola fatta come se’tu. Frate, bene
46 sta76!; Basterebbe se egli t’avesse ricolta del fango77. Col
malanno possa egli essere oggimai, se tu dei stare al fracidume delle parole di un mercantuzzo di feccia d’asino,
che78 venutici di contado e usciti delle troiate79, vestiti
di romagnuolo80, con le calze a campanile81 e con la
penna in culo82, come egli hanno tre soldi, vogliono le
figliuole de’ gentili uomini e delle buone donne per mo73 voi lo accogliate, lo consideriate se non come proveniente, come detto da.
74 perdonategli: imperativo: cfr. VII 9,17 n.
75 dovrebbe: I 1,26 n.
76 guarda un po’!, non c’è male!: III 3,28 n. e VIII 2,26 n.
77 neanche t’avesse raccolta dal fango: cioè: anche se ti avesse
raccolta dal fango ti tratterebbe troppo duramente.
78 «Questo relativo che non ha antecedente espresso a cui riferiscasi: ma ci s’intende di questi: cioè d’un mercantuzzo di feccia
d’asino, di questi che venutici ecc.» (Colombo).
79 masnade, canagliume. Era propriamente il seguito di masnadieri che accompagnavano i signori di contado; negli Statuti Fiorentini v’è tutto un capitolo De schimis et troiatis. Il disprezzo di
questa vecchia e nobile fiorentina per la gente di contado può ricordare quello di Dante, specie nel XVI del Paradiso.
80 Panno grossolano: VI 5,11n.
81 «Calze sgambate che ricadevano a campana ed a bracaloni;
più modeste che la calza intera, esse, come prova l’esempio del B. e
lascia intendere anche l’espressione del Sacchetti (LXXVI), eran
portate piuttosto da persone di condizione umile» (Merkel).
82 I mercanti e i notai usavano portare, spesso nella tasca posteriore dei pantaloni, il pennaiuolo (astuccio con penna e calamaio): VIII 5,7; Sacchetti, CLIII e CLXIII. Qui invece della consueta espressione la penna a cintola è usata per i s t r a z i o
l’espressione volgare e equivocamente oscena, corrente in Firenze.
«Nota de’ villani orgogliosi arricchiti» (M.).
Letteratura italiana Einaudi 1006
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
glie, e fanno arme83 e dicono: ‘I’ son de’cotali ’ e ‘ quei
47 di casa mia fecer così’. Ben vorrei che’ miei figliuoli
n’avesser seguito il mio consiglio, ché ti potevano così
orrevolmente acconciare in casa i conti Guidi con un
pezzo di pane84, ed essi vollon pur darti a questa bella
gioia, che, dove tu se’ la miglior figliuola di Firenze e la
più onesta, egli non s’è vergognato di mezza notte di dir
che tu sii puttana, quasi noi non ti conoscessimo; ma, alla fè di Dio, se me ne fosse creduto85, se ne gli darebbe
sì fatta gastigatoia86 che gli putirebbe87».
48
E, rivolta a’ figliuoli, disse:
«Figliuoli miei, io il vi dicea bene che questo non doveva potere essere. Avete voi udito come il buono vostro
cognato tratta la sirocchia vostra? Mercatantuolo di
quattro denari che egli è! Ché, se io fossi come voi,
avendo detto quello che egli ha di lei e faccendo quello
che egli fa, io non mi terrei mai né contenta né appagata,
se io nollo levassi di terra88; e se io fossi uomo come io
son femina, io non vorrei che altri ch’io se ne ‘mpacciasse. Domine, fallo tristo89: ubriaco doloroso90 che non si
vergogna!»
83 si fanno uno stemma, un’arme gentilizia: così narra anche il
Sacchetti, LXIII.
84 con piccolissima dote ti potevano onorevolmente maritare a
uno dei conti Guidi. Doveva esser modo di dire quasi proverbiale,
se Dante lo mette in bocca alla madre di Nella Donati: Rime,
LXXIII 13-14: «... Lassa, che per fichi secchi | Messa l’avre’ ’n casa
del conte Guido». Per la fama leggendaria dei conti Guidi cfr. Par.,
XVI; Compagni, I 20; Villani, V 38; e per la costruzione i n c a s a
i c o n t i : II 5,50 n.
85 se mi si desse retta.
86 castigo: Sacchetti, CLXXXIV. L’espressione volgare è ripetuta nella VIII 9,83.
87 puzzerebbe, spiacerebbe: cioè se ne ricorderebbe per un pezzo (Sapegno).
88 non lo facessi fuori, non lo ammazzassi: II 8,21 n.
89 Imprecazione già ricorsa nel D.: II 1,14 n.
90 sciagurato: VII 4,9 n.
Letteratura italiana Einaudi 1007
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
I giovani, vedute e udite queste cose, rivoltisi ad Arriguccio, gli dissero la maggior villania che mai a niun
cattivo uom si dicesse; e ultimamente dissero: «Noi ti
perdoniam questa si come ad ebbro; ma guarda che per
la vita tua91 da quinci innanzi simili novelle noi non sentiamo più, ché per certo, se più nulla ce ne viene agli
orecchi, noi ti pagheremo di questa e di quella»; e così
detto, se n’andarono.
50
Arriguccio, rimaso come uno smemorato92, seco
stesso non sappiendo se quello che fatto avea era stato
vero o s’egli aveva sognato, senza più farne parola, lasciò
la moglie in pace. La qual, non solamente colla sua sagacità fuggì il pericol sopra stante ma s’aperse la via a poter fare nel tempo avvenire ogni suo piacere, senza paura alcuna più aver del marito93. –
49
91
se ti preme, se hai cara la vita: VII 9,14 n.
Cfr. 32 n.
93 Conclusione assai simile – come vari momenti della narrazione – a quella della VII 4.
92
Letteratura italiana Einaudi 1008
NOVELLA NONA
1
Lidia moglie di Nicostrato ama Pirro, il quale, acciò che credere il1 possa, le chiede tre cose, le quali ella gli fa tutte; e oltre a
questo in presenza di Nicostrato si sollazza con lui, e a Nicostrato fa credere che non sia vero quello che ha veduto2.
1
Cioè possa credere che Lidia lo ami.
È una delle poche novelle di cui sia chiara e sicura la fonte:
cioè la Comoedia Lydiae, commedia elegiaca già attribuita a Matteo
di Vendôme, trascritta di proprio pugno dal B. nel cod. Laurenziano XXXIII 31, cc. 71 sgg. (cfr. H. HAUVETTE, Notes sur de mss.
autographes de B., in «Mél. d’Archéologie et d’Histoite de l’Ecole
française de Rome», XIV, 1894; B. M. DA RIF, La Miscellanea
Laurenziana XXXIII 31, in «Studi sul B.», VII, 1973: il poemetto è
pubblicato da E. Lackenbacher in La Comédie latine en France au
XIIe siècle, Paris 1931, I, pp. 225 sgg.: ivi varie notizie sull’autore).
Nel testo medievale – seguito puntualmente dal B. – già si trovano
fusi due diversi racconti che avevano avuto grande fortuna: quello
delle varie mistificazioni fatte subire al marito per dare prove
all’amante (o per altro fine), e quello del pero incantato. II primo,
con diverse e anche profonde varianti, era negli Exempla di Jacques de Vitry (CCXLVIII e anche CCLX) e nello Speculum di Vincenzo di Beauvais (III IX 15); nei fabliaux, Trois dames qui trouvèrent l’annel, De la Dame escolliée e in uno d’Haisel (Recueil
général, I 15 e VI 138; VI 148; e anche III 61); nell’Huon de Bordeaux (vv. 5705 sgg.) e nel Conte devot d’un roi qui vouloit faire
brúler les fils de son sénécbal (Fabliaux, ed. Legrand, V, p. 56; e anche II, pp. 311 sgg.); in due testi tedeschi (KELLER, Erzählungen,
p. 210; Liedersaal di Lassberg, III 5), in versioni del Libro dei Sette
Savi (P. RAJNA, in «Romania», X, 1881), in una delle novelle aggiunte dal Borghini al Novellino (LXVIII: ed. Torino 1946). II secondo era nei fabliaux, Du prestre ki abevete (Recueil général, III
61) e Dou vileins di Maria di Francia, nelle Latin Stories pubblicate
dal Wright (1 e 91), nel Novellino (ed. Biagi, CLV), nell’antico racconto tedesco Der wiîe List (Gesammtabenteuer, XXXVIII), oltre
che in varie raccolte orientali (Bahár i Dánisch, Shrewsbury I799,
II, p. 64; Anciens Sastraskmers, Saigon 1878, II, p. 52; Mille e una
notte, Benares 1888, V, pp. 116 sgg.; Quaranta Visiri, ed. Gibb,
XXXI, London 1886 ecc.). Per la storia dei rapporti fra queste diverse versioni e varie altre, su cui, data la sicurezza della fonte del
B., sarebbe superfluo insistere, cfr. BÉDIER, Les Fabliaux, pp. 265
sgg.; F. LANGLOIS, Nouvelles inédites du XVI siècle, Paris 1918,
2
Letteratura italiana Einaudi 1009
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
2
3
4
5
Tanto era piaciuta la novella di Neifile, che né di ridere né di ragionar di quella si potevano le donne tenere3, quantunque il re più volte silenzio loro avesse imposto, avendo comandato a Panfilo che la sua dicesse. Ma
pur, poi che tacquero, così Panfilo incominciò.
Io non credo, reverende4 donne, che niuna cosa sia,
quantunque sia grave e dubbiosa, che a far non ardisca5
chi ferventemente ama. La qual cosa quantunque in assai novelle sia stato dimostrato6, nondimeno io il mi credo molto più, con una che dirvi intendo, mostrare, dove
udirete d’una donna, alla qua le nelle sue opere fu troppo più favorevole la fortuna, che la ragione avveduta; e
per ciò non consiglierei io alcuna che dietro alle pedate7
di colei, di cui dire intendo, s’arrischiasse d’andare, per
ciò che non sempre è la fortuna in un modo disposta, né
sono al mondo tutti gli uomini abbagliati8 igualmente.
In Argo9, antichissima città di Grecia, per li suoi passati re molto più famosa che grande, fu già uno nobile uomo, il quale appellato fu Nicostrato10, a cui già vicino alla
pp. 18 sgg.; L. DI FRANCIA, Alcune novelle cit., 1907; e per vari
particolari Aarne, 1406, 1423; Thompson e Rotunda, K 1518 e
1545, J 2324, e anche F 770 (per gli alberi straordinari e incantati)
e H 900 (per le prove impossibili).
3
trattenere.
4
È aggettivo di rispetto usato solo qui per le donzelle della
brigata.
5
Solita costruzione di ardire per cui cfr. II 1,20 n.
6
«Virtualmente la q u a l c o s a vuol dire il che: e però qui,
per sillessi, vedesi accordato con d i m o s t r a t o» (Fanfani): caso
analogo a quello più volte notato di ogni cosa considerata neutro
(II 3,25 n.).
7
sulle orme: cfr. VI 10,3 n.
8
Negli occhi dell’intelletto: cioè stupidi (Marti). Cfr. qui par. 78.
9
Nel modello latino non era indicata la città, che al B. forse
piacque identificare con Argo che aveva cantato nel Teseida (II;
VI; ch. II 14: «Argos fu già in Grecia famosissima città»).
10 È l’unico nome mutato dal B. rispetto alla sua fonte latina
(dove il marito era Decius), certo per le esigenze dell’ambientazione greca: significa esercito vincitore ed era assai diffuso anche nelle
letterature greca e latina.
Letteratura italiana Einaudi 1010
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
6
7
8
vecchiezza la fortuna concedette per moglie una gran
donna, non meno ardita che bella, detta per nome Lidia.
Teneva costui, sì come nobile uomo e ricco, molta famiglia e cani e uccegli11, e grandissimo diletto prendea
nelle cacce; e aveva tra gli altri suoi famigliari un giovinetto leggiadro e adorno e bello della persona e destro a12
qualunque cosa avesse voluta fare, chiamato Pirro; il quale
Nicostrato oltre ad ogni altro amava e più di lui si fidava.
Di costui Lidia s’innamorò forte, tanto che né dì né
notte che13 in altra parte che con lui aver poteva il pensiere; del quale amore, o che Pirro14 non s’avvedesse o
non volesse, niente mostrava se ne curasse, di che la
donna intollerabile noia15 portava nell’animo. E disposta del tutto di fargliele sentire, chiamò a sé una sua cameriera nomata Lusca16, della quale ella si confidava17
molto, e sì le disse:
11 Falconi da caccia, evidentemente. Il quadro della vita cortese e signorile può ricordare quello della VII 7. F a m i g l i a come
altrove vale servitù.
12 capace di. Presentazione convenzionale per simili personaggi: cfr. per es. VII 3,4: «un giovane assai leggiadro ... e ornato»; VII
2,8 n. ecc. Normale il rafforzamento in addorno (cfr. X concl., 2;
Sacchetti, Rime, CXXXI 6).
13 Singolare ripetizione, a distanza minima, della c h e : ma già
ne abbiamo visto di analoghe dopo frasi parentetiche o interposte.
14 «Nota che dove è questo segno [cioè accanto a P i r r o] mette l’autore in dubbio qual fosse la cagione che Pirro non si curava
dello amore di Lidia, cioè o non vedere o non volere. E qui dove è
questo segno [cioè accanto a d’ a l c u n a c o s a : 13] afferma esserne suta cagione solamente il non avederserie; la qual cosa par viziosa» (M.).
15 pena, tormento.
16 II B. lascia questo nome francese (louche) della sua fonte accanto agli altri nomi greci: chiaro indizio di dipendenza. E mentre
qui è un puro nome, il poemetto ne sfrutta ampiamente i possibili
sensi allusivi («Lusca, quidem nescis causam cur Lusca voceris: |
Ut reor, a luna nomen et omen babes. | Quinta fuit, fateor, subducens cornua matris, | Coro redit in lucem parturientis onus ... |
Nocte placet quod agis: tibi lux est aemula, Lusca; Constat servitio
nominis umbra sui»).
17 si fidava: III 8,35 n.
Letteratura italiana Einaudi 1011
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13
«Lusca, li benefici li quali tu hai da me ricevuti ti
debbono fare a me obediente e fedele; e per ciò guarda
che quello che io al presente ti dirò niuna persona senta
giammai se non colui al quale da me ti fia imposto18. Come tu vedi, Lusca, io son giovane e fresca donna, e piena
e copiosa19 di tutte quelle cose che alcuna può disiderare; e brievemente, fuor che d’una20, non mi posso rammaricare, e questa è che gli anni del mio marito son
troppi, se co’ miei si misurano, per la qual cosa di quello
che21 le giovani donne prendono più piacere io vivo poco contenta; e pur come l’altre disiderandolo, è buona
pezza che io diliberai meco di non volere, se la fortuna
m’è stata poco amica in darmi così vecchio marito, essere io nimica di me medesima in non saper trovar modo
a’ miei diletti e alla mia salute; e per avergli così compiuti in questo come nell’altre cose, ho per partito preso di
volere, sì come di ciò più degno che alcun altro, che il
nostro Pirro co’ suoi abbracciamenti gli supplisca, e ho
tanto amore in lui posto, che io non sento mai bene se
non tanto quanto io il veggio o di lui penso22; e se io senza indugio non mi ritruovo seco, per certo io me ne credo morire. E per ciò, se la mia vita t’è cara, per quel modo che miglior ti parrà, il mio amore gli significherai e sì
‘l pregherai da mia parte che gli piaccia di venire a me
quando tu per lui andrai».
La cameriera disse di farlo volentieri; e come prima23 tempo e luogo le parve, tratto Pirro da parte, quan-
18
È sottinteso facilmente d i r l o che regge a l q u a l e.
ricca, fornita abbondantemente.
Condizione che ricorda quella di monna Bartolomea (II 10)
e della moglie di Maestro Mazzeo (IV 10).
21 di cui.
22 Per la costruzione pensare di cfr. V 1,54 n.; e per l’appassionata affermazione solita sulle labbra degli amanti del D. cfr. IV 8,6 n.
23 non appena.
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to seppe il meglio l’ambasciata gli fece della sua donna.
La qual cosa udendo Pirro, si maravigliò forte, sì come
colui che mai d’alcuna cosa avveduto non s’era, e dubitò
non la donna ciò facesse dirgli per tentarlo; per che su14 bito e ruvidamente rispose: «Lusca, io non posso credere che queste parole vengano dalla mia donna24, e per
ciò guarda quel che tu parli25; e se pure da lei venissero,
non credo che con l’animo26 dir te le faccia; e se pur con
l’animo dir le facesse, il mio signore mi fa più onore che
io non vaglio27; io non farei a lui sì fatto oltraggio per la
vita mia28; e però guarda che tu più di sì fatte cose non
mi ragioni».
15
La Lusca, non sbigottita per lo suo rigido29 parlare,
gli disse: «Pirro, e di queste e d’ogn’altra cosa che la mia
donna m’imporrà ti parlerò io quante volte ella il mi comanderà, o piacere o noia ch’egli ti debbia essere; ma tu
se’ una bestia30!».
E turbatetta31 con le parole di Pirro se ne tornò alla
16
donna, la quale udendole disiderò di morire, e dopo al17 cun giorno riparlò alla cameriera e disse: «Lusca, tu sai
che per lo primo colpo non cade la quercia32; per che a
me pare che tu da capo ritorni a colui che in mio pregiu-
24
dalla mia padrona.
Per parlare usato transitivamente cfr. II 3,28 n.
26 Cioè: sinceramente.
27 che io non merito, non valgo.
28 per quanto ho cara la vita: VIII 8,49 n.
29 severo, scontroso (II 5,53 n.), come sopra r u v i d a m e n t e
(II 1,23).
30
«Sì, cornuta» (M). II tono impaziente e irato ricorda le simili parole della Licisca (VI intr., 7).
31 inquieta, adirata: II 9,12 n.
32 Proverbio assai diffuso, fin dall’antichità («multis ictibus
deiicitur quercus»): cfr. GIUSTI, Raccolta di proverbi cit., p. 244.
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dicio nuovamente33 vuol divenir leale, e, prendendo
tempo convenevole, gli mostra interamente il mio ardore e in tutto t’ingegna34 di far che la cosa abbia effetto;
però che, se così s’intralasciasse35, io ne morrei ed egli si
crederebbe esser stato tentato; e dove il suo amor cerchiamo, ne seguirebbe odio».
La cameriera confortò la donna, e cercato di Pirro, il
trovò lieto e ben disposto, e sì gli disse: «Pirro, io ti mostrai, pochi dì sono, in quanto fuoco la tua donna e mia
stea per l’amor che ella ti porta, e ora da capo te ne rifò
certo, che, dove tu in su la durezza che l’altrieri36 dimostrasti dimori, vivi sicuro che ella viverà poco; per che io
ti priego che ti piaccia di consolarla del suo disiderio; e
dove tu pure in su la tua ostinazione stessi duro, là dove
io per molto savio t’aveva, io t’avrò per uno scioccone.
Che gloria ti può egli esser maggiore che una così fatta
donna, così bella, così gentile e così ricca, te sopra ogni
altra cosa ami? Appresso questo, quanto ti puo’ tu conoscere alla fortuna obligato, pensando che ella t’abbia
parata dinanzi37 così fatta cosa, e a’ disideri della tua
giovinezza atta, e ancora un così fatto rifugio a’tuoi bisogni! Qual tuo pari conosci tu che per via di diletto38 meglio stea che starai tu, se tu sarai savio? Quale altro troverai tu che in arme, in cavalli, in robe e in denari possa
star come tu starai, volendo il tuo amor concedere a costei39?
33 a mio danno in modo strano, insolito: I 7,1 n. Popolaresca è
la forma p r o g i u d i c i o , corrente anche nel Trecento (per es.,
nel Passavanti, passim).
34 ingegnati: imperativo: cfr. VII 8,44 n.
35 si abbandonasse la cosa.
36 giorni la: III 3,23 n.
37 offerta: IV 9,3 n.
38 quanto a diletto.
39 Perorazione su due esclamative e su due interrogative retoriche, strutturate binariamente, che in certo modo anticipa quella
grandiosa, in ritmi ternari, della conclusione della X 8 (113-16), e
segue l’avvio della VII 4,3 n.
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Apri adunque l’animo alle mie parole e in te ritorna40; e ricordati che una volta senza più 41suole avvenire
che la Fortuna si fa altrui incontro col viso lieto e col
grembo aperto42; la quale chi allora non sa ricevere, poi,
trovandosi povero e mendico, di sé e non di lei s’ha a
rammaricare43. E oltre a questo non si vuol44 quella
lealtà tra’ servidori usare e’signori, che tra gli amici e pari si conviene; anzi gli deono così i servidori trattare, in
quel che possono, come essi da loro trattati sono. Speri
tu, se tu avessi o bella moglie o madre o figliuola o sorella45 che a Nicostrato piacesse, che egli andasse la lealtà
ritrovando46 che tu servar vuoi a lui della47 sua donna?
Sciocco se’ se tu ‘l credi: abbi di certo, se le lusinghe e’
prieghi non bastassono, che che ne dovesse a te parere,
e’vi si adoperrebbe48 la forza49. Trattiamo adunque loro
e le lor cose come essi noi e le nostre trattano. Usa il beneficio della Fortuna; non la cacciare, falleti incontro e
lei vegnente ricevi, ché per certo, se tu nol fai, lasciamo
stare50 la morte la quale senza fallo alla tua donna ne seguirà, ma tu ancora te ne penterai tante volte che tu ne
vorrai morire».
40 Tono e concetto simili nell’esortazione analoga della moglie
del geloso confessore (VII 5,58).
41 una volta sola, una volta e non più: II 3,37 n.
42 «Nota» (M.).
43 Concetto già in qualche modo accennato nella Amorosa Visione, XXXII 28 sgg.; ed era sentenza proverbiale: «Se vien ventura, prendela a man salva | Dinanzi dico, ch’ell’è dietro calva» (NOVATI, Serie alfaabetiche cit., LV, p. 292).
44 deve: I 1,26 n.
45 Due endecasillabi di seguito.
46 avesse in mente, meditasse la lealtà. E per l’uso e il valore di
questo congiuntivo imperfetto di aspettazione cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 358.
47 a rispetto alla: II 7,64 n.
48 Solita forma: I 1,14 n.
49 L’ammonizione sentenziosa si compone qui nel ritmo di
quattro versi di seguito. E cfr. II 7,25 n.
50 a parte, senza considerare: cfr. VII 5,9 n.
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Pirro, il qual più fiate sopra le parole che la Lusca
dette gli avea avea ripensato, per partito avea preso51
che, se ella più a lui ritornasse, di fare52 altra risposta e
del tutto recarsi53 a compiacere alla donna, dove certificar si potesse che tentato non fosse 54; e per ciò rispose:
«Vedi, Lusca, tutte le cose che tu mi di’ io le conosco vere, ma io conosco d’altra parte il mio signore molto savio
e molto avveduto, e ponendomi55 tutti i suoi fatti in mano, io temo forte che Lidia con consiglio e voler di lui
questo non faccia per dovermi tentare; e per ciò, dove tre
cose ch’io domanderò voglia fare a chiarezza di me56, per
certo niuna cosa mi comanderà poi che io prestamente
non faccia. E quelle tre cose che io voglio son queste: primieramente che in presenzia di Nicostrato ella uccida il
suo buono57 sparviere; appresso ch’ella mi mandi una
ciocchetta della barba di Nicostrato; e ultimamente un
dente di quegli di lui medesimo de’ migliori58».
Queste cose parvono alla Lusca gravi e alla donna
gravissime59; ma pure Amore, (che è buono confortatore e gran maestro di consigli, le fece diliberar di farlo, e
per la sua cameriera gli mandò dicendo60 che quello che
egli aveva addimandato pienamente fornirebbe, e tosto;
e oltre a ciò, per ciò che egli così savio reputava Nicostrato, disse che in presenzia di lui con Pirro si sollazze51
aveva deciso.
Cambiamento di costruzione (che lascia sospesa la precedente c h e ) solito specie dopo inciso condizionale.
53 indursi, disporsi: e cfr. più sotto 72.
54 se potesse assicurarsi di non esser messo alla prova soltanto,
dall’offerta di Lidia.
55 Gerundio causale: e poiché mi pone.
56 Cioè per darmi affidamento, per rendermi certo del suo amore e della sua sincerità.
57 valente: ma finora la novella non l’aveva menzionato: v’era
solo stato un accenno generico ai falconi da caccia (6).
58 di quelli tra i più sani di lui medesimo.
59 «Nota» (M.).
60 Per l’uso di mandar col gerundio cfr. IV 2,23 n.
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rebbe e a Nicostrato farebbe credere che ciò non fosse
vero.
Pirro adunque cominciò ad aspettare quello che far
dovesse la gentil donna; la quale, avendo ivi a pochi dì
Nicostrato dato un gran desinare, sì come usava spesse
volte di fare, a certi gentili uomini, ed essendo già levate
le tavole, vestita d’uno sciamito61 verde e ornata molto,
e uscita della sua camera62, in quella sala venne dove costoro erano, e veggente Pirro e ciascuno altro63, se
n’andò alla stanga sopra la quale lo sparviere era cotanto
da Nicostrato tenuto caro, e scioltolo, quasi in mano sel
volesse levare, e presolo per li geti64, al muro il percosse
e ucciselo.
E gridando verso lei Nicostrato: «Ohimè, donna,
che hai tu fatto?» niente a lui rispose; ma, rivolta a’ gentili uomini che con lui avevan mangiato, disse: « Signori,
mal prenderei vendetta d’un re che mi facesse dispetto,
se d’uno sparvier non avessi ardir di pigliarla. Voi dovete sapere che questo uccello tutto il tempo da dover essere prestato dagli uomini al piacer delle donne lungamente m’ha tolto; per ciò che, sì come65 l’aurora suole
apparire, così Nicostrato s’è levato66, e salito a cavallo
61 drappo di velluto: Novellino, LXXXII: «coperta d’uno vcrmiglio sciamito». E si ricordi che il verde era uno dei colori più solenni e onorevoli: III 7,89 n.
62 Perché non partecipava alla mensa degli ospiti: così, in situazione simile, la moglie di Messer Torello (X 9,26 sgg.).
63 Alla latina, per secondaria indipendente: sotto gli occhi di ...:
cfr. VIII 1,12: «veggente il suo compagno»; Corbaccio, 230: «veggenti i mariti».
64 Strisce di cuoio adattate alle zampe dei falconi per attaccarvi la catenella che li teneva legati alla stanga.
65 appena.
66 Il passato prossimo, usato per questa e per le azioni seguenti, indica la rapidità onde all’apparire del sole succede immediatamente l’allontanarsi di Nicostrato, quasi due azioni contemporanee (uso simile a quello già notato a II 5,58). Per questo valore
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col suo sparviere in mano n’è andato alle pianure aperte
a vederlo volare; e io, qual voi mi vedete, sola e mal contenta nel letto mi sono rimasa; per la qual cosa ho più
volte avuta voglia di far ciò che io ho ora fatto, né altra
cagione m’ha di ciò ritenuta se non l’aspettar di farlo in
presenzia d’uomini che giusti giudici sieno alla mia querela67, sì come io credo che voi sarete».
I gentili uomini che l’udivano, credendo non altramente esser fatta la sua affezione a Nicostrato che sonasser le parole68, ridendo ciascuno e verso Nicostrato rivolti che turbato era cominciarono a dire: «Deh! come
la donna ha ben fatto a vendicare la sua ingiuria con la
morte dello sparviere! » e con diversi motti sopra così
fatta materia, essendosi già la donna in camera ritornata,
in riso rivolsero il cruccio di Nicostrato.
Pirro, veduto questo, seco medesimo disse: « Alti
principii ha dati la donna a’ miei felici amori; faccia Iddio che ella perseveri ».
Ucciso adunque da Lidia lo sparviere, non trapassar
molti giorni che, essendo ella nella sua camera insieme
con Nicostrato, faccendogli carezze, con lui cominciò a
cianciare69, ed egli per sollazzo alquanto tiratala per li
capelli, le diè cagione di mandare ad effetto la seconda
cosa a lei domandata da Pirro; e prestamente lui per un
picciolo lucignoletto70 preso della sua barba e ridendo,
sì forte il tirò che tutto del mento gliele divelse. Di che
iterativo e perfettivo del passato prossimo cfr. F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, pp. 299 sgg.
67 della mia protesta, rimostranza. Questo pretesto di Lidia ricorda il racconto dei Gesta Romanorum (LXXXIV) già citato a
proposito della V 9,1 n.
68 non essere diverso il suo affetto per Nicostrato da quello che
manifestavano le sue parole ...
69 scherzare, celiare: VIII 10,27: «incominciò a cianciare e a
ruzzar con lui».
70 ricciolo, ciuffo, ciocchetta: e cfr. III 3,54 n.
Letteratura italiana Einaudi 1018
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ramaricandosi Nicostrato, ella disse: «Or che avesti, che
fai cotal viso per ciò che io t’ho tratti forse sei peli della
barba? Tu non sentivi quel ch’io, quando tu mi tiravi te40 steso71 i capelli». E così d’una parola in una altra continuando il lor sollazzo, la donna cautamente guardò72 la
ciocca della barba che tratta gli avea, e il dì medesimo la
mandò al suo caro amante.
41
Della terza cosa entrò la donna in più pensiero; ma
pur, sì come quella che era d’alto ingegno e Amor la faceva vie più, s’ebbe pensato73 che modo tener dovesse a
42 darle compimento. E avendo Nicostrato due fanciulli datigli da’ padri loro acciò che in casa sua, per ciò che gentili uomini erano, apparassono alcun costume74, dei quali,
quando Nicostrato mangiava, l’uno gli tagliava innanzi 75
e l’altro gli dava bere, fattigli chiamare amenduni, fece lor
vedere che la bocca putiva loro76 e ammaestrogli che
quando a Nicostrato servissono, tirassono il capo indietro
il più che potessono, né questo mai dicessero a persona. I
43 giovanetti, credendole, cominciarono a tenere quella maniera che la donna aveva lor mostrata. Per che ella una
volta domandò Nicostrato: «Se’ ti tu accorto77 di ciò che
questi fanciulli fanno quando ti servono?»
44
Disse Nicostrato: « Mai78 sì, anzi gli ho io voluti79
domandare perché il facciano».
71
testé, poco fa: forma allungata, non insolita nel B.: per es. IX
4,13 n.
72
segretamente custodi.
riuscì a pensare.
74 si educassero, imparassero le abitudini signorili, la cortesia:
cfr. VII 7,5.
75 gli tagliava i cibi sul piatto: cioè uno faceva da scalco e l’altro
da coppiere.
76 diede loro ad intendere, fece loro credere che puzzava loro la
bocca, l’alito.
77 Ti sei avveduto: Inf., XII 80 sg.: «Siete voi accorti | Che quel
di tetro move ciò ch’el tocca?»
78 Per questo rafforzativo cfr. III 3,36 n.
79 sono stato sul punto di: IV 8,18 n.
73
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A cui la donna disse: «Non fare80, ché io il ti so dire
io81, e holti82 buona pezza taciuto per non fartene noia;
ma ora che io m’accorgo che altri comincia ad avvedersene, non è più da celarloti. Questo non ti avviene per
altro, se non che la bocca ti pute fieramente, e non so
qual si sia la cagione, per ciò che ciò non soleva essere; e
questa è bruttissima cosa, avendo tu ad usare con gentili
uomini; e per ciò si vorrebbe veder modo di curarla».
Disse allora Nicostrato: «Che potrebbe ciò essere?
Avrei io in bocca dente niun guasto?»
A cui Lidia disse: «Forse che sì»; e menatolo ad una
finestra, gli fece aprire la bocca, e poscia che ella ebbe
d’una patte e d’altra riguardato, disse: «O Nicostrato, e
come il puoi tu tanto aver patito? Tu n’hai uno da questa parte, il quale, per quel che mi paia, non solamente è
magagnato, ma egli è tutto fracido83, e fermamente, se
tu il terrai guari in bocca84, egli guasterà quegli che son
da lato; per che io ti consiglierei che tu nel cacciassi fuori, prima che l’opera85 andasse più innanzi».
Disse allora Nicostrato: «Da poi che egli ti pare, e86
egli mi piace; mandisi senza più indugio per un maestro87 il qual mel tragga».
Al quale la donna disse: «Non piaccia a Dio che qui
per questo venga maestro; e’ mi pare che egli stea in maniera, che senza alcun maestro io medesima tel trarrò ot80
Non farlo: Purg., XXI 131 sg.: «Frate, | Non far ...»
Corrente la ripetizione del pronome personale a rendere
più energica l’affermazione: cfr. VII 8,44.
82 te lo ho.
83 non solo è cariato ma è tutto guasto: anche nella Comedia,
XXXII II: «fracidi denti, de’ quali il numero in molte parti si vede
scemo».
84 se tu lo terrai ancora un poco in bocca.
85 la cosa, il fatto, cioè il guasto, la rovina (cfr. II 3,27 n.).
86 ecco che, allora: in ripresa, come al solito, dopo causale: I
1,39 n.
87 medico: IV 10,4 n.
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timamente. E d’altra parte questi maestri son sì crudeli a
far questi servigi, che il cuore nol mi patirebbe per niuna maniera di vederti o di sentirti tra le mani a niuno; e
per ciò del tutto io voglio fare io medesima; ché almeno,
se egli ti dorrà troppo, ti lascerò io incontanente, quello
che88 il maestro non farebbe».
Fattisi adunque venire i ferri da tal servigio e mandato fuori della camera ogni persona, solamente seco la
Lusca ritenne; e dentro serratesi, fece distender Nicostrato sopra un desco89, e messegli le tanaglie in bocca, e
preso uno de’ denti suoi, quantunque egli forte per dolor gridasse, tenuto fermamente dall’una, fu dall’altra
per viva forza un dente tirato fuori90; e quel serbatosi, e
presone un altro il quale sconciamente91 magagnato Lidia aveva in mano, a lui doloroso92 e quasi mezzo morto
il mostrarono, dicendo: «Vedi quello che tu hai tenuto
in bocca già è cotanto93».
Egli credendoselo, quantunque gravissima pena sostenuta avesse e molto se ne ramaricasse, pur, poi che
fuor n’era, gli parve esser guarito; e con una cosa e con
altra riconfortato, essendo la pena alleviata, s’uscì della
camera.
La donna, preso il dente, tantosto94 al suo amante il
mandò; il quale già certo del suo amore, sé ad ogni suo
piacere offerse apparecchiato. La donna, disiderosa di
farlo più sicuro, e parendole ancora ogn’ora mille che
88
il che, ciò che.
un tavolo.
«Or t’avess’ella cavato l’ochio!» (M.) Da ricordare che
l’estrazione di un dente può alludere alla castrazione (cfr. J. E.
CIRLOT, A Dictionary of Symbols, pp. 313 sgg.).
91 terribilmente, orrendamente: II 3,12 n.; Sacchetti, CXXXV:
«nelle gambe sconciamente inferriato».
92 dolente: II 5,55 n.
93 da tanto tempo.
94 subito.
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con lui fosse95, volendo quello che profferto gli avea attenergli96, fatto sembiante d’essere inferma ed essendo
un dì appresso mangiare da Nicostrato visitata, non veggendo con lui altri che Pirro, il pregò per alleggiamento
della97 sua noia, che aiutar la dovessero ad andare infino
nel giardino.
Per che Nicostrato dall’un de’ lati e Pirro dall’altro
58
presala, nel giardin la portarono e in un pratello a piè
d’un bel pero la posarono; dove stati alquanto sedendosi, disse la donna, che già aveva fatto informar Pirro di
ciò che avesse a fare: «Pirro, io ho gran disiderio d’aver
di quelle pere, e però montavi98 suso e gittane giù alquante».
Pirro, prestamente salitovi, cominciò a gittar giù del59
le pere; e mentre le gittava cominciò a dire: «Eh, messere, che è ciò che voi fate? E voi, madonna, come non vi
vergognate di sofferirlo99 in mia presenza? Credete voi
che io sia cieco? Voi eravate pur testé così forte malata;
come siete voi così tosto guerita che voi facciate tai cose? Le quali se pur far volete, voi avete tante belle camere; perché non in alcuna di quelle a far queste cose ve
n’andate? E’ sarà più onesto100 che farlo in mia presenza».
La donna, rivolta al marito, disse: «Che dice Pirro?
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Farnetica egli?»
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e ogni ora sembrandole mille prima di essere con lui.
mantenergli quello che gli aveva promesso.
per alleviare la: Proemio, 7 n.
Riferito all’albero, come il seguente s a l i t o v i.
di sopportare, di subire quello che vi fa vostro marito.
più educato, più conveniente.
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Disse allora Pirro: «Non farnetico no, madonna; non
credete voi che i veggia?»
Nicostrato si maravigliava forte, e disse: «Pirro, veramente io credo che tu sogni.»
Al quale Pirro rispose: «Signor mio, non sogno né
mica101, né voi anche non sognate; anzi vi dimenate ben
sì che, se così si dimenasse questo pero, egli non ce ne rimarrebbe su niuna102».
Disse la donna allora: «Che può questo essere? Potrebbe egli esser vero che gli paresse ver ciò ch’e’dice?
Se103 Dio mi salvi, se io fossi sana come io fu’ già, che io
vi sarrei104 suso, per vedere che maraviglie sien queste
che costui dice che vede».
Pirro d’in sul pero pur diceva, e continuava queste
novelle105; al qual Nicostrato disse: «Scendi giù » ; ed
egli scese; a cui egli disse: « Che di’ tu che vedi?»
Disse Pirro: «Io credo che voi m’abbiate per smemorato106 o per trasognato; vedeva voi addosso alla donna
vostra, poi pur dir mel conviene107; e poi discendendo io
vi vidi levare e porvi così dove voi siete a sedere».
«Fermamente,» disse Nicostrato «eri tu in questo
101 per nulla: Petrarca, CXIII 7 sg.: «E perché mitigato nonché
spento, | Né mica trovo il mio ardente desio»; Volg. Vita S.
Baríaam e Giosafatte cit., p. 7: «Me non vi menerai tu, ché io non ti
ubbidirò né mica».
102 nessuna pera: facile ellissi.
103 Deprecativo.
104 salirei: contrazione analoga a dorrei per dolerci.
105 discorsi.
106 scemo, pazzo: cfr. VII 8,32: e qui 67.
107 poiché devo pur dirlo.
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smemorato, ché noi non ci siamo, poi che in sul pero salisti, punto mossi, se non come tu vedi.
Al qual Pirro disse: «Perché ne facciam noi quistione? Io vi pur vidi108; e se io vi vidi, io vi vidi in sul vostro109».
Nicostrato più ogn’ora si maravigliava, tanto che egli
disse: «Ben vo’ vedere se questo pero è incantato, e
che110 chi v’è su vegga le maraviglie » ; e montovvi su.
Sopra il quale come egli fu, la donna insieme con Pirro
s’incominciarono a sollazzare111; il che Nicostrato veggendo cominciò a gridare: «Ahi rea femina, che è quel
che tu fai112? E tu Pirro, di cui io più mi fidava? » e così
dicendo cominciò a scendere del pero.
La donna e Pirro dicevano: «Noi ci seggiamo113 » e
lui veggendo discendere, a seder si tornarono in quella
guisa che lasciati gli avea. Come Nicostrato fu giù e vide
costoro dove lasciati gli avea, così lor cominciò a dir villania.
Al quale Pirro disse: «Nicostrato, ora veramente
confesso io che, come voi diciavate114 davanti, che115 io
falsamente vedessi mentre fui sopra ’l pero; né ad altro il
conosco se non a questo, che io veggio e so che voi falsamente avete veduto. E che io dica il vero, niun’altra cosa
108
Io vi vidi pure: iperbato corrente.
«Val come una scherzosa, o licenziosa, concessione: è vero
che io vi ho visto, ma d’altra parte voi eravate su ciò che v’appartiene» (Marti).
110 se è vero che: facile ellissi.
111 Riprova di quanto il B. affermerà nel Corbaccio, 230: «E,
che maggior vitupero è, veggenti i mariti, ne sono infinite che presummono fare i lor piaceri».
112 Esclamazione e minaccia che già risuonavano nelle novelle
precedenti (per es. VII 8,18 e 35 n.; VII 7,40 ecc.).
113 stiamo qui seduti.
114 Per queste forme dell’imperfetto cfr. II 5,23 n.
115 Solita ripetizione della c h e dopo incidentale.
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vel mostri, se non l’aver riguardo e pensare a che ora116
la vostra donna, la quale è onestissima e più savia che altra volendo di tal cosa farvi oltraggio, si recherebbe117 a
farlo davanti agli occhi vostri. Di me non vo’dire, che mi
lascerei prima squartare118 che io il pur pensassi, non
che io il venissi a fare in vostra presenza. Per che di certo la magagna119 di questo transvedere120 dee procedere
dal pero; per ciò che tutto il mondo non m’avrebbe fatto
discredere121 che voi qui non foste colla donna vostra
carnalmente giaciuto122, se io non udissi dire a voi che
egli vi fosse paruto che io facessi quello che io so certissimamente che io non pensai, non che io facessi mai».
La donna appresso, che quasi tutta turbata s’era levata in piè, cominciò a dire: «Sia con la mala ventura, se
tu m’hai per sì poco sentita123, che, se io volessi attendere a queste tristezze124 che tu di’ che vedevi, io le venissi
a fare dinanzi agli occhi tuoi. Sii certo di questo che qualora volontà me ne venisse, io non verrei qui, anzi mi
crederrei sapere essere125 in una delle nostre camere, in
guisa e in maniera che gran cosa mi parrebbe che tu il risapessi giammai».
Nicostrato, al qual vero parea ciò che dicea l’uno e
l’altro che essi quivi dinanzi a lui mai a tale atto non si
dovessero esser condotti, lasciate stare le parole e le riprensioni di tal maniera, cominciò a ragionar della no-
116
quando mai, a quale scopo: VI 5,14 n.
si indurrebbe.
118 Protesta identica a quella del Conte d’Anguersa (II 8,20 n.).
119 difetto, colpa: e cfr. più sopra 49 n.
120 travedere: forma latineggiante.
121 non credere: cioè non m’avrebbe fatto credere.
122 Cfr. III 2,16.
123 se tu mi stimi tanto poco accorta, giudiziosa, intelligente: VI
10,2 n.; Rime, X 4.
124 disonestà: V 10,1 n.
125 mi crederei capace di stare.
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vità126del fatto e del miracolo della vista che così si cambiava a chi su vi montava.
Ma la donna, che della oppinione che Nicostrato
mostrava d’avere avuta di lei si mostrava turbata, disse:
«Veramente questo pero non ne farà mai più niuna, né a
me né ad altra donna, di queste vergogne, se io potrò; e
perciò, Pirro, corri e va e reca una scure, e ad una ora te
e me vendica tagliandolo, come che molto meglio sarebbe a dar con essa in capo a Nicostrato, il quale senza
considerazione alcuna così tosto si lasciò abbagliar gli
occhi dello ‘ntelletto; ché, quantunque a quegli che tu127
hai in testa paresse ciò che tu di, per niuna cosa dovevi
nel giudicio della tua mente comprendere o consentir128
che ciò fosse».
Pirro prestissimo andò per la scure e tagliò il pero; il
quale come la donna vide caduto, disse verso Nicostrato: «Poscia che io veggio abbattuto il nimico della mia
onestà, la mia ira è ita via » ; e a Nicostrato, che di ciò la
pregava, benignamente perdonò, imponendogli che più
non gli avvenisse di presummere, di colei che più che sé
l’amava129, una così fatta cosa giammai.
Così il misero marito schernito con lei insieme e col
suo amante nel palagio se ne tornarono130, nel quale poi
molte volte Pirro di Lidia, ed ella di lui, con più agio
presero piacere e di letto. Dio ce ne dea a noi131.
126
singolarità, stranezza.
Lidia si rivolge ora al marito.
immaginare o ammettere: I 5,11 n.
129 La consueta affermazione iperbolica (IV 6,22 n.) ha qui
suono grottesco.
130 Solita concordanza a senso per cui cfr. II 9,1n.
131 Conclusione su un’invocazione analoga a quelle che chiudono varie novelle della III giornata (3, 6, 7, 10).
127
128
Letteratura italiana Einaudi 1026
NOVELLA DECIMA
1
Due sanesi amano una donna comare dell’uno; muore il, compare e torna al compagno secondo la promessa fattagli, e raccontagli come di là si dimori1.
2
Restava solamente al re il dover novellare, il quale, poi
1
La novella ha certo relazione con quei numerosi racconti di
ammonimenti fatti da anime di trapassati, che punteggiavano come
esempi edificanti le prediche, e di cui resta ampia testimonianza nei
prontuari del tempo. Anzi sono citati episodi di amici che, come i
protagonisti di questa novella, si erano promessi reciprocamente un
intervento dall’al di là: per es. nel Dialogus miraculorum di Cesario
di Heisterbach (I 33: racconta di due giovani negromanti riferendo
dal Liber Visionum Caraevallis; e cfr. II 15 e III 24), nello Speculum
morale di Vincenzo di Beauvais (II 1,13), nella Summa praedicantium del Bromyard (F, III, 16), nel Cronicorum liber di Elinando
(Bibl. Patr. Cistercensium, VII, p. 163), nello Specchio di vera penitenza del Passavanti (III 2 e IV 2) che derivò dalla Legenda Aurea di
Jacopo da Varazze (163). Si aggiunga il CL del Liber exemplorum
ad usum praedicantium saeculo XII, ed. A. G. Little, Aberdeen
1908. Il Di Francia (Alcune novelle, 1907), fissò come fonte diretta
del B. la pia narrazione di Elinando, ma senza ragioni valide: cfr.
anche A. MONTEVERDI, Studi e saggi sulla letteratura italiana dei
primi secoli, Milano 1954, pp. 186 sgg., 206 sgg. per vari racconti simili diffusi nella letteratura medievale; e per la popolarità del tema
nella novellistica cfr. Aarne, 470; Thompson, E 360 sgg., M 252;
Rotunda, E 374. È anche opportuno ricordare che nella VII 3 già
apparivano maliziosamente burlati gli scrupoli che il comparatico
metteva nell’animo di una donna amata, e proprio, come qui, in
Siena; che nella V 8 già campeggiavano una visione e un ammonimento d’oltre tomba; e che infine il B. nel Corbaccio parla di questi
interventi con parole lontane da ogni incredulità (per es. tra le altre
volte 454: «per alcuni accidenti n’è conceduto da Dio il venir di qua
alcuna volta, e massimamente o per rammentare noi medesimi a coloro a’ quali dee di noi calere, o per simile caso come è questo per
lo quale io sono a te venuto»). Del resto nella novella si riflette grottescamente in qualche modo la situazione centrale del Teseida: due
amici innamorati della stessa donna e dei quali muore quello che
aveva ottenuto l’amata.
Letteratura italiana Einaudi 1027
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
3
4
5
6
7
che vide le donne racchetate, che del pero tagliato che
colpa non avea si dolevano2, incominciò:
– Manifestissima cosa è che ogni giusto re primo servatore dee essere delle leggi fatte da lui, e se altro ne fa3,
servo degno di punizione, e non re, si dee giudicare; nel
quale peccato e riprensione a me, che vostro re sono,
quasi costretto cader con viene. Egli è il vero che io ieri
la legge diedi a’ nostri ragionamenti fatti oggi, con intenzione di non voler questo dì il mio privilegio usare; ma
soggiacendo4 con voi insieme a quella, di quello ragionare che voi tutti ragionato avete. Ma egli non solamente è
stato raccontato quello che io imaginato avea di raccontare ma sonsi sopra quello5 tante altre cose e molto più
belle dette, che io per me, quantunque la memoria ricerchi, rammentar non mi posso né conoscere che io intorno a sì fatta materia dir potessi cosa che alle dette s’appareggiasse6. E per ciò, dovendo peccare nella7 legge da
me medesimo fatta, sì come degno di punizione, infino
ad ora ad ogni ammenda che comandata mi fia mi proffero8 apparecchiato, e al mio privilegio usitato mi tornerò. E dico che la novella detta da Elissa del compare e
della comare9, e appresso la bessaggine10 de’ sanesi,
hanno tanta forza, carissime donne, che, lasciando stare
le beffe agli sciocchi mariti fatte dalle lor savie mogli, mi
2
Non rari questi scherzosi sentimenti di compassione nelle
donne (VII 8,2, VIII 7,2 ecc.).
3
e se altrimenti agisce, si contiene diversamente.
4
sottomettendomi.
5
oltre a ciò che io pensavo di raccontarvi.
6
fosse pari.
7
contro la, alla latina.
8
mi dichiaro
9
Cioè la VII 3, che alla fine (30) è ancora citata esplicitamente, ambientata anch’essa a Siena e con patinature espressivistiche
municipali.
10 bestiaggine, balordaggine, scempiaggine, buaggine: non si citano altri esempi, ma cfr. bescio usato per un senese nella VII 3,29 n.
Letteratura italiana Einaudi 1028
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
tirano a dovervi contare11 una novelletta di loro, la quale, ancora che in sé abbia assai di quello che creder non
si dee12, nondimeno sarà in parte piacevole ad ascoltare.
Furono adunque in Siena due giovani popolari, de’
8
quali l’uno ebbe nome Tingoccio Mini e l’altro fu chiamato Meuccio di Tura13, e abitavano in porta Salaia14, e
quasi mai non usavano se non l’un con l’altro, e per
quello che paresse s’amavan molto15. E andando, come
9
gli uomini vanno, alle chiese e alle prediche, più volte
udito avevano della gloria e della miseria16 che all’anime
di coloro che morivano era, secondo li lor meriti, conceduta nell’altro mondo. Delle quali cose disiderando di
saper certa novella17, né trovando il modo, insieme18 si
promisero che qual prima di lor morisse, a colui che vivo fosse rimaso, se potesse, ritornerebbe, e direbbegli
novelle di quello che egli desiderava; e questo fermarono con giuramento.
Avendosi adunque questa promession fatta, e insie10
me continuamente usando, come è detto, avvenne che
Tingoccio divenne compare d’uno Ambruogio Anselmi-
11
Cfr. II 2,3 n.
Cioè: dell’inverosimile.
13 I Mini e i Tura furono famiglie popolane senesi: cfr. passim,
Cronache senesi, in RR.II.SS 2, XV, XIX, XX, XXIII(assai noto è il
cronista Angiolo di Tura). Non si ha notizia di un Tingoccio Mini
(ma cfr. VIII 8,4 n.). Meuccio potrebbe essere uno dei due Meucci, l’uno barlettaio e l’altro pizzicagnolo, a quel tempo (E. SANTINI, Il B. novellatore d’amore, in «Italia», III, 1915).
14 Si trovava alla metà circa dell’attuale Via di Fontebranda:
ancor oggi la località si chiama Arco di Porta Salaria.
15 Situazione simile a quella dei due Guiglielmi della IV 9.
16 infelicità: Inf., XXX 61.
17 sicura notizia: Par., X III: «Là giù ne gola di saper novella».
18 reciprocamente, scambievolmente: II 7,42: «più colpi ... si
diedono insieme».
12
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
ni19, che stava in Camporeggi20, il qual d’una sua donna
chiamata monna Mita aveva avuto un figliuolo.
11
Il qual Tingoccio, insieme con Meuccio visitando alcuna volta questa sua comare, la quale era una bellissima
e vaga donna, non ostante il comparatico, s’innamorò di
lei; e Meuccio similmente, piacendogli ella molto e molto udendola commendare a Tingoccio, se ne innamorò.
12 E di questo amore l’un si guardava dall’altro21, ma non
per una medesima cagione: Tingoccio si guardava di
scoprirlo a Meuccio per la cattività22 che a lui medesimo
pareva fare d’amare la comare, e sarebbesi vergognato
che alcun l’avesse saputo23; Meuccio non se ne guardava
per questo. ma perché già avveduto s’era che ella piace13 va a Tingoccio, laonde egli diceva: «Se io questo gli discuopro, egli prenderà gelosia di me; e potendole ad
ogni suo piacere parlare, sì come compare, in ciò che
egli potrà le mi metterà in odio, e così mai cosa che mi
piaccia di lei io non avrò ».
14
Ora, amando questi due giovani, come detto è, avvenne che Tingoccio, al quale era più destro24 il potere
alla donna aprire ogni suo disiderio, tanto seppe fare, e
con atti e con parole, che egli ebbe di lei il piacere suo;
di che Meuccio s’accorse bene; e quantunque molto gli
dispiacesse, pure, sperando di dovere alcuna volta pervenire al fine del suo disidero, acciò che Tingoccio non
avesse materia né cagione di guastargli o d’impedirgli alcun suo fatto, faceva pur vista25 di non avvedersene.
19 Altra nota famiglia popolana senese: ma anche di Ambrogio
non si ha notizia. M i t a è accorciatura di Margherita.
20 Nota contrada senese,
21 Cioè se lo tenevano segreto reciprocamente: cfr. II 8,49 n.
22 disonestà, malvagità (I 8,7 n.; V 10,51 n.); alludendo al carattere quasi incestuoso di un tale amore (cfr. VII 3,16 n.).
23 Piuccheperfetto per imperfetto a indicare uno stato anteriore: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 314 sgg.
24 più facile cioè aveva migliore opportunità di: IV 5,8 n.
25 continuava a fingere.
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Così amando i due compagni, l’uno più felicemente
che l’altro, avvenne che, trovando Tingoccio nelle possessioni della comare il terren dolce, tanto vangò e tanto
lavorò26 che una infermità ne gli sopravenne, la quale
dopo alquanti dì sì l’aggravò forte che, non potendola
sostenere, trapassò di questa vita.
E trapassato, il terzo dì appresso (ché forse prima
non aveva potuto) se ne venne, secondo la promession
fatta, una notte nella camera di Meuccio, e lui, il qual
forte dormiva, chiamò.
Meuccio destatosi disse: «Qual se’ tu27?»
A cui egli rispose: «Io son Tingoccio, il qual, secondo la promession che io ti feci, sono a te tornato a dirti
novelle dell’altro mondo».
Alquanto si spaventò Meuccio veggendolo, ma pure
rassicurato disse: «Tu sia il ben venuto, fratel mio » ; e
poi il domandò se egli era perduto28.
Al qual Tingoccio rispose: «Perdute son le cose 29
che non si ritruovano; e come sarei io in mei chi30, se io
fossi perduto?»
«Deh,» disse Meuccio «io non dico così ; ma io ti
26 Il solito linguaggio sessuale figurato sui lavori campestri per
cui II 10,32 n.; III 1,18 n. ecc.
27 Chi sei tu? meglio di: Come sei tu? cioè: sei tu vivo o morto
(Pézard, che rimanda a Inf., I 66).
28 dannato: Inf., III 3; «perduta gente». Ma nella risposta Tingoccio tesserà un bisticcio su questo verbo con una paradossale
tautologia, che ricorda gli esempi buffoneschi di Frate Cipolla (VI
10) e di Maso del Saggio (VIII 3).
29 Anche altrove il B.: «le cose perdute non si ritruovan mai»:
Esposizioni, XV 24.
30 proprio qui, qui in mezzo. Chi è idiotismo senese per qui;
mei ha soltanto valore enfatico, come già sulle labbra di Frate Cipolla (VI 10,42 n.). Anche queste sono note dello spirito caricaturale col quale i Senesi sono presentati nel D. (VII 3,4 n.), con impegno anche linguisticamente espressivistico (cfr. Introduzione a
questa edizione, pp. XXI sgg.).
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25
domando se tu se’ tra l’anime dannate nel fuoco pennace31 di Ninferno».
A cui Tingoccio rispose: «Costetto32 no, ma io son
bene, per li peccati da me commessi, in gravissime pene
e angosciose molto».
Domandò allora Meuccio particularmente Tingoccio che pene si dessero di là per ciascun de’ peccati che
di qua si commettono; e Tingoccio gliele disse tutte. Poi
gli domandò Meuccio s’egli avesse di qua per lui a fare
alcuna cosa. A cui Tingoccio rispose di sì, e ciò era che
egli facesse per lui dir delle messe e delle orazioni33 e fare delle limosine per ciò che queste cose molto giovavano a quei di là34, a cui Meuccio disse di farlo volentieri.
E partendosi Tingoccio da lui, Meuccio si ricordò
della comare, e sollevato alquanto il capo disse: «Ben
che mi ricorda35, o Tingoccio: della comare, con la quale tu giacevi quando eri di qua, che pena t’è di là data36?»
A cui Tingoccio rispose: «Fratel mio, come io giunsi
di là, sì fu uno, il qual pareva che tutti i miei peccati sapesse a mente37, il quale mi comandò che io andassi in
quel luogo nel quale io purgo in grandissima pena le colpe mie, dove io trovai molti compagni a quella medesima pena condennati che io38; e stando io tra loro, e ricordandomi di ciò che già fatto avea con la comare e
31
che dà pena, tormentoso. Solita frase stereotipata: III 3,32 n.
Cotesto: altro idiotismo senese: IX 4,15: «costette parole».
33 «Nota che Messer Giovanni ristora i frati dicendo delle
messe quel che non credeva» (M.): ma il suo testamento mostra il
contrario.
34 Purg., III 145: «Ché qui per quei di là molto s’avanza».
35 Bene, A proposito, Ora che mi ricordo: e per l’uso di ricordare impersonale cfr. II 7,107 n.
36 che pena ti è data nell’al di là del peccato che commettevi giacendoti con la comare quand’eri in questo mondo?
37 Riflesso forse del Minosse dantesco: Inf., V 9 sg.: «E quel
conoscitor de le peccata | Vede qual loco d’inferno è da essa».
38 alla quale ero condannato io.
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aspettando per quello troppo maggior pena che quella
che data m’era, quantunque io fossi in un gran fuoco e
molto ardente, tutto di paura tremava. Il che sentendo39
un che m’era dal lato, mi disse: «Che hai tu più che gli
altri che qui sono, che triemi stando nel fuoco? » « Oh,
» diss’io « amico mio, io ho gran paura del giudicio che
io aspetto d’un gran peccato che io feci già ». Quegli allora mi domandò che peccato quel fosse. A cui io dissi: «
Il peccato fu cotale, che io mi giaceva con una mia comare, e giacquivi tanto che io me ne scorticai40 ». Ed
egli allora, faccendosi beffe di ciò, mi disse: « Va, sciocco, non dubitare; ché di qua non si tiene ragione alcuna
delle comari41 »; il che io udendo tutto mi rassicurai. E
detto questo, appressandosi il giorno, disse: «Meuccio,
fatti con Dio42, ché io non posso più esser con teco » ; e
subitamente andò via.
Meuccio, avendo udito che di là niuna ragione si teneva delle comari, cominciò a far beffe della sua sciocchezza, per ciò che già parecchie n’avea risparmiate; per
che, lasciata andar la sua ignoranza, in ciò per innanzi
divenne savio. Le quali cose se frate Rinaldo avesse saputo, non gli sarebbe stato bisogno d’andare silogizzando43 quando convertì a’suoi piaceri la sua buona comare. –
39
Della quale cosa accorgendosi.
In senso erotico alludendo alle conseguenze del gran lavoro
di cui al 15: proprio al XII 77 del Teseida («... nel fonte amoroso,
ove raro i Buon pescator con util si diventa») il B. chiosa: «perciò
che per troppo pescare nell’amoroso fonte sono di tali che se ne
scorticano».
41 non si tiene conto alcuno delle comari. «E però dice il proverbio: chi la fa alla comare non fa né ben né male» (M.).
42 Modo di prender o dare commiato, quasi sta, rimani con
Dio: VII 1,32 n.; VIII 8,15.
43 ragionando, ragionando sottilmente (Par., X 138): allusione
alle speciose argomentazioni di frate Rinaldo nella VII 3,17 sgg. E
per l’ironizzazione di questo linguaggio cfr. Introduzione a questa
edizione, pp. XXI e XXIX; e V. BRANCA, B. e le tradizioni letterarie, in Il B. nelle culture e letterature nazionali, Firenze 1978.
40
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CONCLUSIONE
1
2
3
Zeffiro era levato per lo sole che al ponente
s’avvicinava1, quando il re, finita la sua novella né alcuno altro restandogli a dire2, levatasi la corona di testa,
sopra il capo la pose alla Lauretta, dicendo: «Madonna,
io vi corono di voi medesima3 reina della nostra brigata;
quello omai che crederete che piacer sia di tutti e consolazione, sì come donna4, comanderete » ; e riposesi a sedere.
La Lauretta, divenuta reina, si fece chiamare il siniscalco, al quale impose che ordinasse che nella piacevole
valle alquanto a migliore ora5 che l’usato si mettesser le
tavole, acciò che poi adagio6 si potessero al palagio tornare; e appresso ciò che a fare avesse, mentre il suo reggimento durasse, gli divisò7.
Quindi, rivolta alla compagnia, disse: «Dioneo volle
ieri che oggi si ragionasse delle beffe che le donne fanno
a’mariti; e, se non fosse ch’io non voglio mostrare d’essere di schiatta di can botolo8 che incontanente si vuol
vendicare, io direi che domane si dovesse ragionare del1
Cioè si era levato un venticello poiché ci si avvicinava al tramonto.
2
non rimanendo ivi alcun altro che dovesse parlare, cioè non
restando da novellare ad alcun altro.
3
Cioè del lauro: gioco di parole amato e ripetuto, com’è noto, dal Petrarca, e che potrebbe confermare l’identità allusiva proposta per questa novellatrice (Intr., 51 n.).
4
signora: termine usato correntemente, per il suo aristocratico valore, a indicare le regine di queste brigate cortesi: II 8,5 n.; V
7,10 n.
5
più presto: VI concl., 33.
6
agiatamente, con agio, o lentamente come potrebbe suggerire l’espressione seguente «con lento passo» (7).
7
gli ordinò, gli espose.
8
È un piccolo cane, per natura vile e ringhioso: Purg., XIV
46 sg.: «Botoli trova poi ... | Ringhiosi più che non chiede lor possa»: e cfr. anche VI 3,3 n.
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le beffe che gli uomini fanno alle lor mogli. Ma, lasciando star questo, dico che ciascun pensi di dire di quelle
beffe che tutto il giorno9, o donna ad uomo, o uomo a
donna, o l’uno uomo all’altro si fanno; e credo che in
questo sarà non men di piacevol ragionare, che stato sia
questo giorno » ; e così detto, levatasi in piè, per infino
ad ora di cena licenziò la brigata.
Levaronsi adunque le donne e gli uomini parimente,
de’quali alcuni scalzi per la chiara acqua cominciarono
ad andare, e altri tra’belli e diritti alberi sopra il verde
prato s’andavano diportando10.
Dioneo e la Fiammetta gran pezza cantarono insieme d’Arcita e di Palemone11; e così, vari e diversi diletti
pigliando, il tempo infino all’ora della cena con grandissimo piacer trapassarono12. La qual venuta e lungo al
pelaghetto13 a tavola postisi, quivi al canto di mille uccelli, rinfrescati sempre da un’aura soave che da quelle
montagnette dattorno nasceva, senza alcuna mosca, riposatamente e con letizia cenarono.
E levate le tavole, poi che alquanto la piacevol valle
ebber circuita14, essendo ancora il sole alto a mezzo vespro, sì come alla loro reina piacque, in verso la loro usata dimora con lento passo ripresero il cammino; e mot9
sempre, di continuo.
a passeggio sollazzando. Come nella V intr., 2: «Fiammetta
... con la sua compagnia ... diportando s’andò».
11 «Qui si comprende che il Teseo fu prima fatto che questo libro Decameron» (M.). L’allusione al Teseida (1340-41?) attraverso
il nome dei due protagonisti è inequivocabile, perché tali personaggi, ignoti alle fonti del poemetto, sono creazione originale del
B. Si noti del resto che il B. nella IV intr., 35-36, si presentava come autore già di «mille versi»; e che la novella VII 10 riflette proprio grottescamente la situazione centrale del Teseida (cfr. 1 n.). E
cfr. VI intr. 3 e n.
12 passarono, trascorsero: Intr., 3 n.
13 Cioè il laghetto di cui qui all’intr., 7.
14 ebbero percorso, girato, come al principio della giornata:
«intorniando quella [valle]» (VII intr., 5 n.): Par., XII 86.
10
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teggiando e cianciando15 di ben mille cose, così di quelle
che il dì erano state ragionate16 come d’altre, al bel palagio assai vicino di notte17 pervennero. Dove con freschissimi vini e con confetti18 la fatica del picciol cammin cacciata via, intorno della bella fontana di
presente19 furono in sul danzare20, quando al suono della cornamusa di Tindaro21 e quando d’altri suoni carolando22.
Ma alla fine la reina comandò a Filomena che dicesse una canzone, la quale così incominciò:
Deh lassa la mia vita!
Sarà giammai ch’io possa ritornare
donde mi tolse noiosa partita23?
Certo io non so, tanto è ‘ disio focoso
che io porto nel petto,
di ritrovarmi24 ov’io lassa già fui.
O caro bene, o solo mio riposo,
che ‘l mio cuor tien distretto25,
deh dilmi tu, ché domandarne altrui
non oso, né so cui,
15 discorrendo scherzosamente, scherzando: come altra volta, III
intr., 3: «e cianciando e motteggiando e ridendo con la sua brigata»: e cfr. VII 9,38.
16 Corrente l’uso transitivo di ragionare (Intr., 52 n.).
17 sull’annottare.
18 Quasi una formula: cfr. per es. III intr., 4.
19 subito, tosto: I 1,77 n.
20 si misero a danzare: VI concl., 39 n.
21 E l’unica volta che uno dei servi compaia in queste azioni
aristocratiche.
22 intrecciando carote su altre melodie di altri strumenti.
23 in quello stato dal quale mi allontanò una partenza dolorosa
(IV 6,30 n.).
24 non so ... se io potrò ancora dimorare.
25 Amorosa Visione, XXIII 64, B: «Sola mia gioia, solo mio disire | Sola speranza mia, se tu ieri vai | Da me ’l cuor partirà nel tuo
partire». Distretto legato: è termine della tradizione lirica di quei
secoli (provenzale destrenher).
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deh, signor mio, deh fammelo sperare
sì ch’io conforti l’anima smarrita26.
Io non so ben ridir27 qual fu ’l piacere28
che sì m’ha infiammata,
ché io non trovo dì né notte loco29,
perché l’udire e ’l sentire e ’l vedere,
con forza non usata,
ciascun per sé accese novo foco;
nel qual tutta mi coco30,
né mi può altri che tu confortare,
o ritornar la virtù sbigottita31.
Deh dimmi s’esser dee, e quando fia,
ch’io ti trovi giammai,
dov’io baciai quegli occhi che m’han morta32.
Dimmel, caro mio bene, anima mia
quando tu vi verrai
e col dir –«Tosto » alquanto mi conforta.
Sia la dimora corta
26 Linguaggio di origine stilnovistica: Vita Nuova, XXIII 21;
Cino, Avegna ched elm’aggia, 6; Filostrato, IV 89 e 124, VII 52.
27 Inf., I 10: «Io non so ben ridir ...»
28 bellezza, avvenenza: anche questo vocabolo è usato spesso
dal B. in senso stilnovistico (II 3,22 n.).
29 luogo ove stare, ove quietare: cioè: non trovo requie: V 4,25
n., VIII 10,11: «la piacevolezza sua aveva si la sua donna presa, che
ella non trovava luogo né di né notte»; Dante, Rime, cui 15: e per il
verso precedente cfr. Par., III 52.
30 ardo, mi consumo: VIII concl., 10: «Lieve mi fa lo star
dov’io mi coco»; Dante, Rime, XLII 3: «d’ira mi coco». E nota le
rime in -oco predilette dal B. e che ritornano anche nella ballata
della VIII (V. BRANCA, Tradizione delle opere di G. B., pp. 136
sg.).
31 o rendermi le facoltà ora ottuse: Vita Nuova, XV 6: «l’alma
sbigottita».
32 Dante, Rime, LXVII 49: «li. occhi micidiali»; Cino, Io son sì
vago, 2: «li occhi traditor che m’hanno ucciso».
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d’ora al venire, e poi lunga allo stare33,
ch’io non men curo, sì m’ha Amor ferita.
Se egli avvien che io mai più ti tenga,
non so s’io sarò sciocca,
com’io or fui, a lasciarti partire.
Io ti terrò, e che può sì n’avvenga;
e della dolce bocca
convien ch’io sodisfaccia al mio disire.
D’altro non voglio or dire.
Dunque vien tosto, vienmi ad abbracciare
che ’l pur pensarlo di cantar m’invita34.
Estimar fece questa canne a tutta la brigata che nuovo e piacevole amore Filomena strignesse; e per ciò che
per le parole di quella pareva che ella più avanti che la
vista sola n’avesse sentito35, tenendonela più felice, invidia per tali vi furono le ne fu avuta36. Ma poi che la sua
canzon fu finita, ricordandosi la reina che il dì seguente
era venerdì, così a tutti piacevolmente disse: – «Voi sapete, nobili donne e voi giovani, che domane è quel dì
che alla passione del nostro Signore è consecrato, il
qual, se ben vi ricorda, noi divotamente celebrammo, essendo reina Neifile, e a’ragionamenti dilettevoli demmo
33 sia l’indugio breve quanto alla tua venuta e lungo quanto al
tuo dimorar presso di me: cioè vieni presto e fermati molto con me.
34 che anche soltanto il pensarlo mi induce a cantare. Nostalgica
ballata di lontananza che può ricordare la situazione dell’Elegia di
Madonna Fiammetta e i suoi lamenti e la sua dolce ardenza, Cfr. v.
36 e Dante, Rime, XCVI 3. La ballata è introdotta da una ripresa
di un settenario e due endecasillabi (zYZ), cui seguono quattro
stanze (AbC, AbC; cYZ), tutte legate dalle rime-ritorneho finali
(YZ).
35 gustato: cfr. difatti gli ultimi cinque versi.
36 le ne fu portata invidia da alcuni che erano là presenti: e per
l’ellissi t a l i v i f u r o n o cfr. IV concl., 18 n.
Letteratura italiana Einaudi 1038
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII
luogo37, e il simigliante facemmo del sabato susseguente.
Per che, volendo il buono essemplo datone da Neifi17
le seguitare, estimo che onesta cosa sia, che domane e
l’altro dì, come i passati giorni facemmo, dal nostro dilettevole novellare ci asteniamo, quello a memoria riducendoci38 che in così fatti giorni per la salute delle nostre anime addivenne».
Piacque a tutti il divoto parlare della loro reina, dalla
18
quale licenziati, essendo già buona pezza di notte passata, tutti s’andarono a riposare.
37 «Nota modum loquendi non secundum autores alios» (M.);
e di fatti correntemente d a r l u o g o a vale mettersi a fare una
cosa e non, come qui, astenersi dal. Ma cfr. senso analogo in VIII
concl., 2: «poi che tenuti ebbe gli occhi alquanto bassi e ebbe il
rossor dato luogo» (cioè cessò, scomparve); e soprattutto Volg. Vita
di San Girolamo (T.): «Girolamo... diede luogo a tanta loro malizia,
onde si parti subito da Roma».
38 richiamandoci alla mente: Purg., XXIII 115; Par., XXIII 51.
Letteratura italiana Einaudi 1039
OTTAVA GIORNATA
1
Finisce la settima giornata del Decameron: incomincia l’Ottava, nella quale, sotto il reggimento di Lauretta, si ragiona di
quelle beffe che tutto il giorno1 o donna a uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno.
2
Già nella sommità de’ più alti monti apparivano la
domenica mattina i raggi della surgente luce2 e, ogni
ombra partitasi, manifestamente le cose si conosceano3,
quando la reina levatasi con la sua compagnia, primieramente alquanto su per le rugiadose erbette
andarono4, e poi in su la mezza terza5 una chiesetta lor
vicina visitata, in quella il divino officio ascoltarono6; e
a casa tornatisene, poi che con letizia e con festa ebber
mangiato, cantarono e danzarono alquanto, e appresso,
licenziati dalla reina, chi volle andare a riposarsi potè.
Ma, avendo il sol già passato il cerchio di meriggio7,
come alla reina piacque, al novellare usato tutti appresso la bella fontana a seder posti, per comandamento
della reina così Neifile cominciò.
3
1
sempre, spesso: II 3,20 n.
Aen., XII 113 sg.: «Postera vix summos spargebat lumine
montis | Orta dies».
3
Cioè erano visibili.
4
La solita concordanza a senso per cui cfr. II 9,1 n. È l’unico
attosociale, pubblico, dei novellatori registrato nel D.
5
Cioè tra l’alba e la terza, circa alle sette e mezzo: III intr., 3
n.
6
Menzione esplicita dell’osservanza del precetto di ascoltare
Messa la domenica che non ricorreva nella III intr., otto giorni
prima.
7
Purg., XXV 2-3: «Ché ’l sole aveva il cerchio di merigge |
Lasciato…»
2
Letteratura italiana Einaudi 1040
NOVELLA PRIMA
1
Gulfardo prende da Guasparruolo denari in prestanza, e con
la moglie di lui accordato di dover giacer con lei per quegli sì
gliele dà; e poi in presenzia di lei a Guasparruol dice che a lei
gli diede, ed ella dice che è il vero1.
2
– Se così ha disposto Idio che io debba alla presente
giornata dare con la mia novella cominciamento, e el2
mi piace. E per ciò, amorose donne, con ciò sia cosa
che molto detto si sia delle beffe fatte dalle donne agli
uomini, una fattane da uno uomo ad una donna mi
piace di raccontarne, non già perché io intenda in quella di biasimare ciò che l’uom fece o di dire che alla
donna non fosse bene investito3, anzi per commendar
l’uomo e biasimare la donna, e per mostrare che anche
gli uomini sanno beffare chi crede loro, come essi da
cui egli credono4 son beffati. Avvegna che, chi volesse
più propriamente parlare, quello che io dir debbo non
si direbbe beffa, anzi si direbbe merito; per ciò che, con
ciò sia cosa che ciascuna donna debba essere onestissima5 e la sua castità come la sua vita guardare, né per al-
3
1
La somiglianza di questa novella con un fabliau, Du bouchier d’Abevile (Recueil cit., III 84), affermata da E. Du Meril
(Hist. de la poésie scandinave, Paris 1839, p. 335) è quanto mai
vaga e generica, come già osservarono il Bartoli (p. 33) e il Bédier
(p. 449). II tema del resto è assai popolare (Thompson e Rotunda,
K 1581.3) e ritorna anche nel Sercambi (XXXII) e nel Chaucer
(Shipman’s Tale).
2
ecco che questo, allora questo: VII 9,50 n. Per ‘el’ cfr. II 6,44
n.
3
non stesse bene: X 10,69: «Al quale non sarebbe forse stato
male investito d’essersi abbattutola una ...»
4
da chi, da colui il qua e essi credono, nel quale hanno fiducia:
cfr. Musafia, p. 526. Per egli eglino, essi cfr. III 7,11 n.
5
Il soggetto l a d o n n a – come altra volta il soggetto o l’oggetto (per es. II 7,3 n., VIII 7,33 n.) – è sottinteso dal periodo precedente: ed è confermato dal seguente colei.
Letteratura italiana Einaudi
1041
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
4
5
6
cuna cagione a contaminarla conducersi; (e questo non
possendosi6 così appieno tuttavia, come si converrebbe,
per la fragilità nostra); affermo colei esser degna del
fuoco la quale a ciò per prezzo si conduce7; dove chi
per amore, conoscendo le sue forze grandissime, perviene 8, da giudice non troppo rigido merita perdono,
come, pochi dì son passati, ne mostrò Filostrato essere
stato in madonna Filippa observato in Prato9.
Fu adunque già in Melano10 un tedesco al soldo11, il
cui nome fu Gulfardo12, pro’ della persona13 e assai
leale a coloro ne’ cui servigi si mettea, il che rade volte
suole de’ tedeschi avvenire14; e per ciò che egli era nelle
prestanze de’ denari che fatte gli erano lealissimo renditore, assai mercatanti avrebbe trovati che per piccolo
utile15 ogni quantità di denari gli avrebber prestata.
Pose costui, in Melan dimorando, l’amor suo in una
donna assai bella, chiamata madonna Ambruogia16, moglie d’un ricco mercatante, che aveva nome Guasparruol Cagastraccio17, il quale era assai suo conoscente e
6
non essendo possibile. Ricorda le appassionate ragioni della
regina di Francia (II 8,2 sgg.).
7
Concetto riaffermato varie volte nel D.: per es., oltre che
nella VI 7 citata nelle righe seguenti, nella VI 3, 10 ecc.
8
al quale atto chi per denaro si induce. Due endecasillabi
congiunti da un decasillabo a un terzo sottolineano la solennità
dell’affermazione.
9
Cfr. VI 7.
10 Costante questa forma nel D.: III 5,4 n.
11 Cioè un soldato mercenario.
12 Forse trascrizione del nome assai comune Wolfard.
13 Quasi una formula: II 7,48; II 8,40 n. e 49 ecc.
14 Naturale il ricordo dei versi petrarcheschi, proprio degli
stessi anni: «Né v’accorgete ancor per tante prove | Del bavarico
inganno | Ch’alzando il dito colla morte scherza?» (CXXVIII 65
sgg.). «Nota» (M.).
15 interesse, come più sotto (10).
16 Costante questa forma dittongata: VII 3,41; VII 10,10.
17 «Nota gentil nome» (M.). Nessuna traccia si è potuto trovare né di questo né degli altri personaggi della novella: ma nomi
Letteratura italiana Einaudi 1042
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
7
8
amico; e amandola assai discretamente, senza avvedersene il marito né altri, le mandò un giorno a parlare,
pregandola che le dovesse piacere d’essergli del suo
amor cortese, e che egli era dalla sua parte presto a
dover far ciò che ella gli comandasse. La donna, dopo
molte novelle18, venne a questa conclusione, che ella era
presta di far ciò19 che a Gulfardo piacesse, dove due
cose ne dovesser seguire: l’una, che questo non dovesse
mai per lui esser manifestato ad alcuna persona; l’altra,
che, con ciò fosse cosa che ella avesse per alcuna sua
cosa bisogno di fiorini dugento20 d’oro, voleva che egli,
che ricco uomo era, gliele donasse21, e appresso sempre
sarebbe al suo servigio.
Gulfardo, udendo la ’ngordigia di costei, sdegnato
per la viltà22 di lei, la quale egli credeva che fosse una
valente donna, quasi in odio trasmutò il fervente amore,
e pensò di doverla beffare23, e mandolle dicendo che
molto volentieri e quello e ogn’altra cosa, che egli potesse, che le piacesse24; e per ciò mandassegli pure a
formati come questo, ricorrono spesso nei documenti lombardi
del tempo (Cagafava, Cagapanno ecc.). Si alternano qui le forme
Guasparruolo e Guasparuolo.
18 ciance, discorsi vani: II 9, 10 n. e II 8,67 n.
19 Nota la ripresa delle parole di Gulfardo.
20 Sintagma o formula proprio di origine mercantesca (cfr.
10): cfr. G. FOLENA, Appunti sulla lingua, in Motti e facezie del
Piovano Arlotto, Milano 1956, p. 378: e qui II 9,60 e anche VIII
2,35 n.
21 «Non emo tanti unum penitere» (M.).
22 bassezza d’animo, contrapposta a «valore» implicato nel
v a l e n t e della stessa riga.
23 Proprio come Rinieri con Elena («il lungo e fervente amor
portatole Subitamente in crudo e acerbo odio trasmutò, seco gran
cose e varie volgendo a trovar modo alla vendetta»: VIII 7,40).
24 Ellissi dell’uso (molto volentieri darebbe e quello; e cfr. 10);
e dell’uso boccacciano è pure la successione di due relative senza
alcun legame, di cui la prima equivale a un aggettivo (ogni altra
cosa a lui possibile che ... ): cfr. II 6,72.
Letteratura italiana Einaudi
1043
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
dire quando ella volesse che egli andasse a lei, ché egli
gliele porterebbe, né che mai di questa cosa alcun sentirebbe, se non un suo compagno di cui egli si fidava
molto e che sempre in sua compagnia andava in ciò che
9
faceva. La donna, anzi cattiva femina25, udendo questo,
fu contenta, e mandogli dicendo che Guasparuolo suo
marito doveva ivi a pochi dì per sue bisogne andare infino a Genova, e allora ella gliele farebbe assapere26 e
manderebbe per lui.
10
Gulfardo, quando tempo gli parve, se n’andò a
Guasparuolo e sì gli disse: «Io son per fare un mio
fatto, per lo quale mi bisognano fiorini dugento d’oro, li
quali io voglio che tu mi presti con quello utile che tu
mi suogli prestare degli altri». Guasparruolo disse che
volentieri, e di presente27 gli annoverò i denari.
11
Ivi a pochi giorni Guasparuolo andò a Genova,
come la donna aveva detto; per la qual cosa la donna
mandò a Gulfardo che a lei dovesse venire e recare li
12 dugento fiorin d’oro. Gulfardo, preso il compagno28
suo, se n’andò a casa della donna, e trovatala che
l’aspettava, la prima cosa che fece, le mise in mano questi dugento fiorin d’oro, veggente il suo compagno, e sì
le disse: «Madonna, tenete questi denari, e daretegli a
vostro marito quando serà tornato».
La donna gli prese, e non s’avide perché Gulfardo
13
dicesse così; ma si credette che egli il facesse, acciò che
’l compagno suo non s’accorgesse che egli a lei per via
25 Evidente qui l’opposizione per dignità morale fra d o n n a
e f e m i n a , come invece per condizione sociale a V 7,10 n.
26 Per questa forma intensiva cfr. III 3,26 n.
27 subito, immediatamente: I 1,77 n.
28 Participio per secondaria indipendente: mentre vedeva il
suo compagno sotto gli occhi del suo compagno: cfr. VII 9,32 n.
Letteratura italiana Einaudi 1044
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
di prezzo29 gli desse. Per che ella disse: «Io il farò volentieri, ma io voglio vedere quanti sono»; e versatigli
sopra una tavola e trovatigli esser dugento, seco forte
contenta, gli ripose, e tornò a Gulfardo, e lui nella sua
camera menato, non solamente quella volta, ma molte
altre, avanti che ’l marito tornasse da Genova, della sua
persona gli sodisfece.
Tornato Guasparuolo da Genova, di presente Gul15
fardo, avendo appostato30 che insieme con la moglie
era, [preso il compagno suo], se n’andò a lui, e in presenza di lei disse: «Guasparuolo, i denari, cioè li dugento fiorin d’oro che l’altrier31 mi prestasti, non m’ebber
luogo32, per ciò che io non pote’ fornir la bisogna33 per
la quale gli pre-si; e per ciò io gli recai qui di presente
alla donna tua, e sì gliele diedi; e per ciò dannerai la mia
ragione34».
Guasparuolo, volto alla moglie, la domandò se avuti
16
gli avea. Ella, che quivi vedeva il testimonio35, nol seppe
negare, ma disse: «Mai36 sì che io gli ebbi, né me n’era
ancora ricordata di dirloti».
29 quale ricompensa, quale pagamento: e per l’espressione p e r
v i a d i cfr. VI 1,6 n.; VII 9,21 n.
30 osservato, spiato: cfr. VIII 2,41 n.
31 Con valore indeterminato: giorni or sono: III 3,23 n.
32 non mi furono necessari, non li adoperai: cfr. III I,15 n.
33 concludere l’affare.
34 casserai, cancellerai la mia partita: espressione tecnica: cfr.
Detto d’amore, 133 sgg. «... è scritto a mi’ conto | Ch’i’ non sia più
tu’ conto. la ragion dannata...» E cfr. anche II 9,10 n.
35 Non è chiaro se si alluda semplicemente a Gulfardo o al
compagno presente anche in questa circostanza, seppure non è
detto esplicitamente.
36 Solito rafforzamento (III 3,36 n.).
Letteratura italiana Einaudi
1045
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
17
18
Disse allora Guasparuolo: «Gulfardo, io son contento; andatevi pur con Dio, che io acconcerò bene la
vostra ragione37».
Gulfardo partitosi, e 38 la donna rimasa scornata
diede al marito il disonesto prezzo della sua cattività; e
così il sagace amante senza costo godé della sua avara
donna39. –
37 metterò in ordine, aggiusterò la vostra partita, il vostro
conto. «O non sapevi tu che egli aveva nome Gulfardo?» (M.).
38 ecco che, allora: secondo il solito uso della congiunzione in
ripresa: cfr. 1,39 n.
39 Si potrebbe richiamare la conclusione della VII 4, contro
l’avarizia nemica d’amore.
Letteratura italiana Einaudi 1046
NOVELLA SECONDA
1
Il Prete da Varlungo si giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro; e accattato da lei un mortaio, il rimanda e
fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza1; rendelo proverbiando2 la buona donna3.
2
Commendavano igualmente e gli uomini e le donne
ciò che Gulfardo fatto aveva alla ’ngorda melanese,
quando la reina a Panfilo voltatasi, sorridendo gl’impose ch’el seguitasse; per la qual cosa Panfilo incominciò:
– Belle donne, a me occorre di dire una novelletta
contro a coloro li quali continuamente n’offendono
senza poter da noi del pari essere offesi, cioè contro a’
preti, li quali sopra le nostre mogli hanno bandita la
croce4, e par loro non altramenti aver guadagnato il
perdono di colpa e di pena, quando una se ne possono
metter sotto, che se d’Allessandria avessero il soldano
menato legato a Vignone5. Il che i secolari cattivelli6
non possono a lor fare; come che nelle madri, nelle sirocchie, nell’amiche e nelle figliuole con non meno ardore, che essi le lor mogli assaliscano, vendichino l’ire
loro7. E per ciò io intendo raccontarvi uno amorazzo
3
4
5
1
per pegno, come al 41 e 43 n.
Con un motto (cfr. 44).
3
Vaghissimi antecedenti sono indicati in un fabliau, Du prestre et de la dame (Recueil général, II 51), e nei distici Versus de
mola piperis (I. DUNLOP, History of prose fiction, London 1888,
II, p. 125). Ma il tema - non dissimile da quello della VIII 1 - forse
era popolare e trovava riscontri nella cronaca aneddotica del
tempo (Thompson e Rotunda, K 1581.3).
4
hanno bandito una crociata per conquistare le nostre mogli:
cfr. I 6,10.
5
Avignone, dove in quegli anni era la corte papale (corrente
l’aferesi).
6
i laici miserelli, poveretti.
7
Sfogo e concetti che possono richiamare la III 7,34 sgg.
2
Letteratura italiana Einaudi
1047
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
6
7
8
9
contadino, più da ridere per la conclusione che lungo di
parole, del quale ancora potrete per frutto cogliere che
a’ preti non sia sempre ogni cosa da credere.
Dico adunque che a Varlungo, villa assai vicina di
qui8, come ciascuna di voi o sa o puote avere udito, fu
un valente prete e gagliardo9 della persona ne’ servigi
delle donne, il quale, come che legger non sapesse troppo, pur con molte buone e sante parolozze la domenica
a piè dell’olmo10 ricreava i suoi popolani; e meglio le lor
donne, quando essi in alcuna parte andavano, che altro
prete che prima vi fosse stato, visitava, portando loro
della festa11 e dell’acqua benedetta e alcun moccolo di
candela talvolta infino a casa, dando loro la sua benedizione.
Ora avvenne che, tra l’altre sue popolane che prima
gli eran piaciute, una sopra tutte ne gli piacque, che
aveva nome monna Belcolore12, moglie d’un lavoratore
che si facea chiamare13 Bentivegna14 del Mazzo, la qual
8
A pochi chilometri da Firenze, nel Valdarno: oggi incorporato nella periferia della città.
9
Aggettivo che ritorna spesso nel D. con un sottinteso erotico: II 10,31; IV 1,5; V 10,8; VIII 9,86 ecc.
10 «Le chiese in contado sogliono avere così dall’un de’ lati un
grand’olmo: quivi sotto, la state, s’adunano all’ombra i contadini:
e mentre ch’essi aspettano l’altra brigata, il Prete gl’intrattiene»
(Sansovino): cfr. VIII 6,41: «Ragunata ... una buona brigata ... dinanzi alla chiesa intorno all’olmo».
11 «Robe solite a vendersi per le feste, come piccole immagini
di santi, abitini, rosari ecc.» (Fanfani).
12 Proprio il testamento di una Donna Belcolore da Varlungo
sembra aver raccolto nel 1363 ser Michele di Salvestro Contadini
(Archivio di Firenze, C 599-605).
13 si chiamava: VIII 5,5: «uno il quale si facea chiamare messer Niccola da S. Lepidio».
14 Era nome augurativo assai comune: un Bentivegna, probabilmente di Certaldo, era socio di Boccaccino e nella Compagnia
dei Bardi (CAMERA, Annali cit., II, pp. 346; F. TORRACA, G.
B. a Napoli cit., pp. 5 sgg.).
Letteratura italiana Einaudi 1048
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
nel vero era pure una piacevole e fresca foresozza15,
brunazza e ben tarchiata, e atta a meglio saper
macinare16 che alcuna altra17. E oltre a ciò era quella
che meglio sapeva sonare il cembalo 18 e cantare:
L’acqua corre la borrana19, e menare la ridda e il ballonchio20, quando bisogno faceva, che 21 vicina che ella
10 avesse, con bel moccichino e gente22 in mano. Per le
quali cose messer lo prete ne ’nvaghì sì forte, che egli ne
menava smanie23; e tutto ’l dì andava aiato24 per poterla
vedere; e quando la domenica mattina la sentiva in chiesa, diceva un Kyrie e un Sanctus sforzandosi ben di mo15 contadinotta: in tutta la novella è caratteristica la espressivistica insistenza su questi accrescitivi-vezzeggiativi rusticani, quasi
a parodiare le presentazioni di Ifigenia, Isotta, Ginevra (V 1, X 6)
e delle ninfe della Comedia (cfr. V. BRANCA, B. medievale, pp.
111 e 116): e Cfr. VIII 4,22 n.
16 Nel tradizionale senso equivoco, sessuale: IV 10,48 n. e qui
23 n.
17 Tre endecasillabi avvivano questo ritratto contadinesco.
18 Tamburello a sonagli : cfr. V concl., 9 n., e qui 47.
19 il fossato, il burrone (da borro). Locuzione proverbiale (e
qui evidentemente allusiva), corrispondente alla più comune
«l’acqua corre sempre all’ingiù» (III 6,37 n.), che ricorre anche nel
Patago (V 67); costituiva il primo verso di una canzonetta a ballo
diffusissima in quel secolo (DE BARTHOLOMAEIS, Rime giullaresche, p. 29; A. MUSSAFIA, in «Il Propugnatore», I, 1868, p.
232; F. NOVATI, in «Giorn. Stor. Lett. It.», IV, 1884, pp. 440
599.; P. TOSCHI, Ultime tracce di antiche canzoni, in Studi in
onore di Angelo Monteverdi, Modena 1959).
20 L’una è una danza in tondo fatta da più persone e accompagnata dal canto; l’altro un ballo contadinesco, un saltarello (cfr.
Inf., VII 24; Dittamondo, IV 5).
21 Da unirsi al m e g l i o di due righe innanzi (meglio che).
22 gentile, leggiadro (prov. e fr. ant. gent): cfr. Fiore, CXXVII
«don sí bel e gente».
23 smaniava: per l’uso di m e n a r e con sostantivi di contegno
e atteggiamento cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 483.
24 andava a zonzo. Come le locuzioni analoghe «andare
aione» «gire aione», probabilmente deriva da «aia» («a l’aia» vale
a zonzo: cfr. F. AGENO, Riboboli trecenteschi, in «Studi di Filologia Italiana», X, 1952, p. 421).
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strarsi un gran maestro di canto, che pareva uno asino
che ragghiasse25, dove, quando non la vi vedeva, si passava assai leggermente; ma pure sapeva sì fare che Bentivegna del Mazzo non se ne avvedeva, né ancora vicino
che egli avesse. E per poter più avere la dimestichezza
di monna Belcolore, a otta a otta la presentava 26, e
quando le mandava un mazzuol d’agli freschi, che egli
aveva i più belli della contrada in un suo orto che egli
lavorava a sue mani, e quando un canestruccio di baccelli, e talora un mazzuol di cipolle malige o di scalogni27; e, quando si vedeva tempo, guatatala un poco in
cagnesco, per amorevolezza la rimorchiava 28, ed ella
cotal salvatichetta29, faccendo vista di non avvedersene,
andava pure oltre in contegno30; per che messer lo
prete non ne poteva venire a capo.
Ora avvenne un dì che, andando il prete di fitto meriggio31 per la contrada or qua or là zazeato32, scontrò
25 Paragone consueto per i preti: cfr. F. C. TUBACH, Index
exemplorum, Helsinki 1969, 4395.
26 di quando in quando le faceva doni.
27 Cipolle di maggio, dalla forma allungata, fortissime; e cipolle a cespi, più piccole e meno forti delle comuni («cipolla
d’Ascalona»).
28 amorevolmente la rimbrottava, si doleva con lei: verbo contadinesco secondo il Varchi (Ercolano, Milano 1880, p. 63) e il
Borghini (Dichiarazioni di alcune voci delle novelle antiche, XLI: ai
rimproveri di Marco Lombardo è sovrapposto nei mss. il titolo
«Rimorchio di M. L., uomo di corte») E cfr. Sacchetti, Rime,
CLIX 19 sgg.: «sente | Primieramente | Rimorchi, | Rimbrocci, |
Gnaffe ed occi»; L. Pulci, Beca, 18 (cfr. F. AGENO, art. cit., p.
447: p. 452 per g u a t a t a l a i n c a g n e s c o guardatala con viso
arcigno).
29 alquanto ritrosetta, scontrosetta. Per c o t a l e con valore avverbiale cfr. II 3,2 n.; e per s a l v a t i c h e t t a III 7,26 n.; V 6,16 n.
30 tutta sostenuta, tutta contegnosa.
31 di bel mezzogiorno, proprio a mezzogiorno.
32 scioperato, a zonzo, girellando. Così l’interpretazione tradizionale, non appoggiata però su alcun esempio antico. Il Fiacchi,
Osservazioni, p. 94, cita soltanto un passo di G. M. Cecchi in cui si
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Bentivegna del Mazzo con uno asino pien di cose innanzi; e fattogli motto, il domandò dov’egli andava.
A cui Bentivegna rispose: «Gnaffe, sere33, in buona
verità io vo infino a città34 per alcuna mia vicenda, e
porto queste cose a ser Bonaccorri da Ginestreto35, che
m’aiuti di non so che m’ha fatto richiedere per una
comparigione del parentorio per lo pericolator suo il
giudice del dificio36».
Il prete lieto disse: «Ben fai, figliuole37; or va con la
mia benedizione, e torna tosto; e se ti venisse veduto
Lapuccio38 o Naldino, non t’esca di mente di dir lor che
dice che il Petrarca «andò zazeando dattorno un pezzo» per
l’amore di Laura; ma un altro esempio cinquecentesco è nelle Lettere di M. Franzesi, IV: «Poiché voi siete stato zazeando io non vi
ho scritto» (Prose fiorentine, Firenze 1716, IV): e cfr. nella quattrocentesca Canzone levata per un contadino, V. 28 «a ogni festa
aval vo zazzerando» (D. DE ROBERTIS, Un nuovo ritmo
nenciale, in «Studi di Filologia Italiana», XXI, 1963). II Parodi,
invece, richiamandosi a «zazzicare» interpreta affannato (in Miscellanea... Ascoli, Torino 1901, p. 481).
33 Titolo (17, 43 ecc.) che si dava al parroco: VIII 6,43. Per
g n a f f é in mia fé cfr. I 55 n.
34 Per l’eccezionalità di questo sintagma (ripetuto al 18) cfr.
E. DE FELICE, La preposiozione italiana ’a’, in «Studi di filologia
italiana», XVIII, pp. 169 sgg., 219. Nota due settenari rimati.
35 Di «Ser Buonaccorius notarius filius Gerii de Ginestreto
populi S. Sirnonis» si hanno documenti tra il 1321 e il 1350: nel
1354 appare defunto (Marini: ma non ve n’è traccia nell’Archivio
di Firenze).
36 il giudice delle cause penali mi ha fatto citare (VI 7,8 n.) per
una comparsa perentoria per mezzo del suo procuratore. «Questo discorso di Bentivegna è messo a posta così spropositato, ché v i c e n d a sta per faccenda, p a r e n t o r i o per perentorio, p e r i c o l a t o r e per procuratore, g i u d i c e d e l d i f i c i o per giudice del
maleficio» (Fanfani). «Tutti i nomi storpiati ... lo sono così ancora
con poco divario da’ villani di quel paese, che pure è vicinissimo
alle mura di Firenze» (Ferrario). E cfr. G. HERCZEG, I cosiddetti
’nomi parlanti’ nel D. cit. Simili storpiature e metaplasmi ricorrono sulle labbra di sempliciotti (per es. III 8,74 n.): e cfr. 44 n.
37 Forma corrente al vocativo: cfr. Purg., XXIII 4.
38 Cfr. V concl., 9 n.: Naldino è ipocoristico di Arnaldo o Rinaldo.
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mi rechino quelle combine39 per li coreggiati miei».
Bentivegna disse che sarebbe fatto; e venendosene
verso Firenze, si pensò il prete che ora era tempo d’andare alla Bel colore e di provare sua ventura40; e messasi
la via tra’ piedi, non ristette sì41 fu a casa di lei, ed entrato dentro disse: «Dio ci42 mandi bene, chi è di qua?»
La Belcolore, ch’era andata in balco43, udendol
disse: «O sere, voi siate il ben venuto; che andate voi
zaconato44 per questo caldo?»
Il prete rispose: «Se Dio mi dea bene, che io mi
vengo a star con teco un pezzo, per ciò che io trovai
l’uom tuo45 che andava a città».
La Belcolore, scesa giù, si pose a sedere, e cominciò
nettar sementa di cavolini, che il marito avea poco innanzi trebbiati. Il prete le cominciò a dire: «Bene46, Belcolore, de’ mi tu far sempre mai morire questo modo?»
La Belcolore cominciò a ridere e a dire: «O che ve47
fo io?»
39 Strisce di cuoio con le quali si unisce al manico la cima del
correggiato, lo strumento adoperato per battere il grano.
40 Espressione quasi tecnica nel linguaggio d’amore: II 9,6 n.:
ma qui forse piegata a allusione equivoca, fallica (cfr. 31 n.).
41 fino a che: II 2,14 n.
42 qui, in questa casa.
43 soffitta o piano superiore, come palco a VII 3,23 n.: «è
luogo alto dove si monta, e si scende» (Buti, comm. a Purg., IX 2).
44 È considerato sinonimo o storpiatura contadinesca del precedente zazeato: ma senza alcun fondamento o documentazione.
Già il Varchi: «... la qual voce io non so quello che si voglia significare» (op. cit., p. 75). «Nel contesto in cui appare sembrerebbe recare una conferma all’interpretazione surriferita del Parodi» (Sapegno).
45 tuo marito. «Anche oggi le contadine dicono il mi’ omo per
mio marito, come i contadini la me’ donna per mia moglie» (Fanfani).
46 «È naturalissimo il cominciare un discorso che si fa con
qualche ritegno con una particella conclusiva, come Dunque, Bene
o simili» (Fanfani): cfr. VII 10,24 n.
47 Idiotismo per vi (VIII 9,30 n.): tali idiotismi qui si infittiscono.
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Disse il prete: «Non mi fai nulla, ma tu non mi lasci
fare a te quei ch’io vorrei e che Idio comandò».
Disse la Belcolore: «Deh! andate, andate48: o fanno
i preti così fatte cose?»
Il prete rispose: «Sì facciam noi meglio che gli altri
uomini; o perché no? E dicoti più, che noi facciamo vie
miglior lavorio; e sai perché? Perché noi maciniamo a
raccolta49; ma in verità bene a tuo uopo50, se tu stai
cheta e lascimi fare».
Disse la Belcolore: «O che bene a mio uopo potrebbe esser questo, ché siete tutti quanti più scarsi che ’l fistolo51?»
Allora il prete disse: «Io non so, chiedi pur tu: o
vuogli un paio di scarpette, o vuogli un frenello52, o
vuogli una bella fetta di stame53, o ciò che tu vuogli».
Disse la Belcolore: «Frate, bene sta54! Io me n’ho di
48 andate svelto, con faciloneria, senza indugi. Andante è usato
forse avverbialmente, come nelle frasi «scrivere, parlare andante»
(cfr. T.): ma cfr. Filocolo, III 33,2 «l’andante cavallo», forse nel
senso di svelto, rapido.
49 «Vale usar di rado l’atto venereo, e perciò con maggior veemenza, tolta la metafora da’ molini, che per mancanza d’acqua
non possono continuamente macinare, ma aspettano la colta»,
cioè che l’acqua si raccolga (Ferrario: cfr. Sacchetti, Rime, LXIV
343: «ben macina ’l mulin ch’ha buona colta»; Poliziano, Ballate,
XXVII 43; Aretino, Sei giornate, Bari 1969, p. 82). Anche nella
Conclusione, 26: «i frati ... macinano a raccolta».
50 a tuo vantaggio,
51 più avari del diavolo: VII 5,12 n.
52 «Una ghirlanda di seta che le donne portano in cima la
fronte, attorno ai confini della cuffia» (Sansovino): o qualcosa di
simile. Cfr. Sacchetti, Rime, CLIII 31 sgg.: «E vo’ lasciar frenelli |
Contar di tanti versi con ciocchette | E venir a la parte de’ lor
visi»; Francesco da Barberino, Reggimento, p. 234: «portava un
suo frenello si stretto, che quasi le segava la testa».
53 una cintura di lana fine (Alunno): VII 1,4 n. In uno statuto
senese si cita «scageale overo fietta d’argento» (Merkel, p. 92). Il
Fanfani e altri annotatori invece: un taglio di stame, tanto quanto
basta a fare un vestito.
54 Esclamazione ironica: III 3,28 n.
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coteste cose; ma se voi mi volete cotanto bene, ché non
mi fate voi un servigio, e io farò ciò che voi vorrete?»
Allora disse il prete: «Di’ ciò che tu vuogli, e io il
farò volentieri».
La Belcolore allora disse: «Egli mi conviene andar
sabato a Firenze a render lana che io ho filata55 e a far
racconciare il filatoio mio; e se voi mi prestate cinque
lire, che so che l’avete, io ricoglierò56 dall’usuraio la
gonnella mia del perso57 e lo scaggiale58 dai dì delle
feste, che io recai a marito 59, ché vedete che non ci
posso andare a santo60 né in niun buon luogo, perché io
non l’ho; e io sempre mai poscia farò ciò che voi vorrete».
Rispose il prete: «Se Dio mi dea il buono anno61, io
non gli ho allato62; ma credimi che, prima che sabato
sia, io farò che tu gli avrai molto volentieri».
«Sì63,» disse la Belcolore «tutti siete così gran promettitori, e poscia non attenete altrui nulla64; credete
voi fare a me come voi faceste alla Biliuzza, che se
n’andò col ceteratoio65? Alla fè di Dio non farete, ché
55
Cfr. IV 7,7 n.
ritirerò, riscatterò: VI 10,10 n. Per l i r a cfr. IX 3,4 n.
57 «Lo perso è uno colore misto di purpureo e di nero, ma
vince lo nero» (Convivio, IV XX 2). E per l’uso dell’articolo: I
1,87 n. (cfr. anche più sotto 40: «il mortaio suo della pietra»).
58 cintura di solito riccamente lavorata: Merkel, pp. 89 sgg.;
Annotazioni, p. 209: e cfr. qui n, 5.
59 portai in dote.
60 in chiesa secondo un uso popolare ancora corrente, quasi a
indicare il luogo santo per eccellenza: cfr. Più sotto 38.
61 Augurio, introdotto dal se deprecativo, assai comune: III
8,45 n.
62 «Oggi si dice: Non ce n’ho in tasca» (Fanfani).
63 Ironico: al 36 è popolarescamente strascicato con epitesi in sie.
64 mantenete ... nulla di ciò che avete promesso: III 3,30 n.
65 Il Fiacchi pensa che sia una storpiatura contadinesca come
quelle ricorse sulle labbra di Bentivegna: e significhi «un precetto
di sfratto o di comparigione, o per debito o per altra cagione ...
per le tante eccetere di che sogliono i legali o i ministri della giusti56
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ella n’è divenuta femina di mondo pur per ciò; se voi
non gli avete, e voi andate per essi».
31
«Deh!» disse il prete «non mi fare ora andare infino
a casa; ché vedi che ho così ritta la ventura66 testè che
non c’è persona, e forse quand’io tornassi ci sarebbe chi
che sia che c’impaccerebbe; e io non so quando e’ mi si
venga così ben fatto come ora».
E ella disse: «Bene sta; se voi volete andar, sì andate;
32
se non, sì ve ne durate67».
33
Il prete, veggendo che ella non era acconcia a far
cosa che gli piacesse, se non a salvum me fac, ed egli
volea fare sine costodia68, disse: «Ecco, tu non mi credi
che io te gli rechi; acciò che tu mi creda, io ti lascerò
pegno questo mio tabarro di sbiavato69».
34
La Belcolore levò alto il viso e disse: «Sì, cotesto tabarro, o che vale egli?»
zia riempire le scritture loro. La Biliuzza affidata alle magnifiche
promesse del Sere, esser potevasi avviluppata in debiti troppo più
gravi ... Andata in fumo ogni promessa, ecco la Biliuzza pegnorata
col ceteratoio, e non avendo con che soddisfare o difendersi, eccola ridotta al lastrico e data alla mala vita». Cfr. Piovano Arlotto,
CLXVIII: «cetere di notai», cioè imbrogli, garbugli; Machiavelli,
Mandragola, III 12: «entriamo in cetere». II Pézard propone invece una derivazione da «cetera», chitarra: cioè la Biliuzza se ne
andò senza altro profitto che un ventre grosso come un chitarrone; altri: se ne andò con una suonata di cetra, di chitarra. In tutti i
casi il senso è se ne andò beffata, con vane promesse. E cfr. G.
HERCZEG, I cosiddetti ’nomi parlanti’ cit. Biliuzza è diminutivo
di Bilia, da Sibilia o anche da Benedetta.
66 Una locuzione corrente («ventura diritta» buona ventura)
usata qui equivocamente (cfr. 37): Sacchetti, CCVI e CCXXVI:
cfr. anche VII 1,27.
67 soffritelo, fatene a meno: riflessivo con una sfumatura significante che chi parla si disinteressa della cosa: Cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 148.
68 «Espressioni ulpiance scherzosamente adoperate a dire
dando garanzia ... senza pegno a garanzia» (Petronio).
69 panno turchino: Sacchetti, XCII. Il tabarro era usato correntemente dagli ecclesiastici di condizione modesta, cui era concesso anche dalle disposizioni canoniche (Merkel, pp. 61 sgg.).
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Disse il prete: «Come, che vale? Io voglio che tu
sappi che egli è di duagio infino in treagio, e hacci di
quegli nel popolo nostro che il tengon di quattragio70, e
non è ancora quindici dì che mi costò da Lotto rigattiere delle lire ben71 sette, ed ebbine buon mercato72 de
soldi ben cinque, per quel che mi dice Buglietto73 d’Alberto, che sai che si conosce74 così bene di questi panni
sbiavati».
«O sie? «disse la Belcolore «se Dio m’aiuti, io non
l’averei mai creduto; ma datemelo in prima».
Messer lo prete, ch’aveva carica la balestra, trattosi
il tabarro, gliele diede; ed ella, poi che riposto l’ebbe,
disse: «Sere, andiancene qua nella capanna, che non vi
vien mai persona «; e così fecero.
E quivi il prete, dandole i più dolci baciozzi del
mondo e faccendola parente di messer Domenedio75,
con lei una gran pezza si sollazzò; poscia, partitosi in
gonnella, che pareva che venisse da servire a nozze76, se
ne tornò al santo.
70 Duagio era il panno fine di Douai in Fiandra (Purg., XX
46) altamente apprezzato nella Firenze del Trecento e commerciato proprio dai Bardi (SAPORI, Studi di storia economica, p. 494;
Merkel, p. 106; Burchiello, Un gatto si dormiva: «vendendomi vestito di doagio»). T r e a g i o e q u a t t r a g i o sono nomi di immaginarie stoffe ancor più preziose, forgiati dal se re su una falsa facile etimologia per meglio infinocchiare la Belcolore: artificio analogo a quelli di Frate Cipolla: cfr. HERCZEG, I cosiddetti ’nomi parlanti’ cit.
71 «Era pratica de’ nostri vecchi dettatori porre l’avverbio
bene in precedenza al numero determinato degli oggetti e specialmente de’ denari che essi nominavano ... per una cotal maggior sicurezza di affermazione» (Dal Rio): cfr. V 3,13. E per sintagma
mercantesco analogo vedi VIII 1,7 n.
72 ci risparmiai, me lo diede per meno: VIII 5,20 n.
73 Evidentemente il padre di Nuto (40).
74 si intende.
75 Solito senso equivoco: II 7,89 n.; III 1,43 n.
76 Perché la gonnella (II 5,68 n.) si portava senza tabarro solo
in solennità straordinarie.
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Quivi, pensando che quanti moccoli ricoglieva in
tutto l’anno d’offerta non valevan la metà di cinque lire,
gli parve aver mal fatto, e pentessi d’aver lasciato il tabarro e cominciò a pensare in che modo riavere lo potesse senza costo77. E per ciò che alquanto era maliziosetto, s’avvisò troppo bene come dovesse fare a riaverlo,
e vennegli fatto; per ciò che il dì seguente, essendo
festa, egli mandò un fanciul d’un suo vicino in casa questa monna Belcolore, e mandolla pregando che le piacesse di prestargli il mortaio suo della pietra78, però che
desinava la mattina con lui Binguccio dal Poggio e
Nuto Buglietti, sì che egli voleva far della salsa. La Belcolore gliele mandò.
E come fu in su l’ora del desinare, e ’l prete
appostò79 quando Bentivegna del Mazzo e la Belcolor
manicassero, e chiamato il chierico suo, gli disse: «Togli
quel mortaio e riportalo alla Belcolore, e di’: ‘Dice il
sere che gran mercé80, e che voi gli rimandiate il tabarro
che ’l fanciullo vi lasciò per ricordanza’». Il cherico
andò a casa della Belcolore con questo mortaio e trovolla insieme con Bentivegna a desco81 che desinavano;
quivi, posto giù il mortaio, fece l’ambasciata del prete.
La Belcolore, udendosi richiedere il tabarro, volle
rispondere; ma Bentivegna con un mal viso disse:
77 Sei settenari di seguito sembrano sottolineare il raccoglimento pensoso e malizioso del sere.
78 di pietra: cfr. I 1, 8 7 n. Il seguente B i n g u c c i o è forma
di Binduccio coristico di Ildebrando; Buglietto (cfr. 35) è soprannome creato per cambiamento di suffisso da bugliolo o buglione
cioè secchio di legno, barile e quindi vale ubriacone (cfr. O.
BRATTÖ, op. cit.), per N u t o cfr. III 1,7 n.
79 il prete spiò, osservò. E la prima vota che l’articolo appare
in questa forma, el forse con connotazione linguistica villereccia
(ma cfr. VIII 9,46 n.); mentre tale forma è corrente per il pronome
(cfr. per es. IX 1,17 n.).
80 che vi ringrazia molto.
81 a tavola: cfr. VII 9,53 n.
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«Dunque toi tu ricordanza82 al sere? Fo boto a Cristo,
che mi vien voglia di darti un gran sergozzone83; va,
rendigliel tosto, che canciola te nasca84; e guarda che di
cosa che voglia mai, io dico s’e’volesse l’asino nostro85,
non ch’altro, non gli sia detto di no».
La Belcolore brontolando si levò, e andatasene al
soppediano86, ne trasse il tabarro e diello al cherico e
disse: «Dirai così al sere da mia parte: ‘La Belcolor dice
che fa prego a Dio che voi non pesterete mai più salsa
in suo mortaio87: non l’avete voi sì bello onor fatto di
questa’».
Il cherico se n’andò col tabarro e fece l’ambasciata
al sere, a cui il prete ridendo disse: «Dira’le, quando tu
la vedrai, che s’ella non ci presterà il mortaio, io non
presterrò a lei il pestello; vada l’un per l’altro».
Bentivegna si credeva che la moglie quelle parole dicesse perché egli l’aveva garrito88, e non se ne curò. Ma
la Belcolore venne in iscrezio col sere, e tennegli favel-
82 prendi tu pegno. Forse altra connotazione villereccia in toi
(ma la forma è usata anche dal Petrarca, CLXXXVM 8).
83 colpo alla gola, pugno al mento: Sacchetti, Rime, CLIX 47,
Per va rendigliel cfr. II 5,45 n.
84 che ti venga il canchero. C a n c i o l a è forma eufemistica o
modo contadinesco e imprecativo di cui non sono segnalati altri
esempi.
85 «Detto con enfasi, come il bene maggiore della famiglia»
(Petronio).
86 Cassa bassa che si teneva a piè del letto, e dove si usava tenere i panni di lana.
87 Evidente e corrente senso equivoco (II 10,37 e 40 n.;
Concl., 5) accostato alla ironizzazione del linguaggio cortese nella
frase seguente e ripreso nel paragrafo 45. Per tutto il linguaggio
espressivistico della novella cfr. la Introduzione a questa edizione,
pp. XXXIV sgg. (e ora B. medievale, pp. 374 sgg.).
88 rimbrottata, rimproverata: IX 6,16 n.; ma per l’uso attivo
cfr. Inf., XV 92; e per il participio invariato Intr., 35 n.
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la89 insino a vendemmia. Poscia, avendola minacciata il
prete di farnela andare in bocca del lucifero maggiore90,
per bella paura entro91, col mosto e con le castagne
calde si rappattumò con lui, e più volte insieme fecer
47 poi gozzoviglia. E in iscambio delle cinque lire le fece il
prete rincartare il cembal92 suo e appiccovi un sonagliuzzo, e ella fu contenta. –
89 si guastò col parroco e si astenne dal parlargli, dal rivolgergli
la parola: cfr. Annotazioni, pp. 209 sgg.
90 Minaccia analoga a quella fatta da un frate a monna Ermellina (III 7,28 n.; lucifero era sentito come nome comune per diavolo: VIII 9,15).
91 Per grande paura che la Belcolore avea dentro di sé. Il Barbi
ricorda per questa espressione il verso di Dante che pone la paura
nel lago del core e i modi di dire sempre vivi: «m’è entrata una
paura, ho una paura in corpo». Cfr. anche Annotazioni, p. 152; e
Morelli, Ricordi, p. 445: «il Siepe per bella paura ... gittò le bandiere»; Sacchetti, CXL.
92 mettere la cartapecora nuova al suo cembalo.
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NOVELLA TERZA
1
Calandrino, Bruno e Buffalmacco giù per lo Mugnone1 vanno
cercando di trovar l’elitropia2, e Calandrino se la crede aver
trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia3, e
egli turbato la batte, e a’ suoi compagni racconta ciò che essi
sanno meglio di lui4.
2
Finita la novella di Panfilo, della quale le donne avevano tanto riso che ancor ridono5, la reina ad Elissa
commise che seguitasse6, la quale ancora ridendo incominciò:
1
Torrentello che si butta nell’Arno a valle di Firenze.
Favolosa pietra, che, simile allo smeraldo (ma chiazzata di
sanguigno), avrebbe avuto la virtù di rendere invisibili. Già lo affermava Plinio, Nat. Hist., XXXVII 60; e da lui la notizia discese a
tutta la cultura medievale: Inf., XXIV 92 sg.: «Correan genti nude
e spaventate, | Sanza sperar pertugio o elitropia»; Mare amoroso,
240-41: «aritropia, | Che fa ciascun si che non sia veduto»; Fiore,
CLXXXII; Intelligenzia, 39 ecc. Per l’importanza della simbolica
delle pietre nell’antichità e nel Medioevo cfr. J. G. FRAZER, The
golden bough, I 3; J. E. CIRLOT, A Dictionary of Symbols, pp. 299
sgg.
3
rampogna, rimprovera: II 5,43 n. e qui più avanti al 51.
4
Nessun preciso antecedente esiste per questa novella, che
ha tutti i caratteri e gli elementi degli aneddoti municipali fiorentini, come chiariranno le note seguenti. Qualche richiamo molto
vago hanno indicato il Landau (pp. 335 sgg.) e il Bédier (p. 448):
ma si tratta di elementi tutt’altro che caratteristici, di tipo popolare (cfr. nn. seguenti; e Thompson e Rotunda, D 1980, J 2337 X
950 sgg.). Qualche elemento sembra anticipato da Vitale di Blois
nella sua Aulularia (Comédie latine en France, Paris 1931, pp. 1
sgg.): Calandrino «è lapidato dagli amici che fingono di non vederlo, come Birria da Geta; si accerta d’esser fatto invisibile per il
mancato saluto di gabellieri e di passanti, come Geta si accerta di
esistere per il saluto d’Anfitrione» (G. A. LEVI, Da Dante al Machiavelli, Firenze 1935, pp. 205 sgg.)
5
Cfr. IX concl., 1: «Quanto di questa novella si ridesse ...
colei sel pensi che ancora ne riderà».
6
affidò il compito di continuare il novellare.
2
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3
4
– Io non so, piacevoli donne, se egli mi si verrà fatto
di farvi con una mia novelletta, non men vera che piacevole, tanto ridere quanto ha fatto Panfilo con la sua, ma
io me ne ’ngegnerò.
Nella nostra città, la qual sempre di varie maniere e
di nuove genti7 è stata abondevole, fu, ancora non è
gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino8, uom
semplice e di nuovi costumi, il quale il più del tempo
con due altri dipintori usava9, chiamati l’un Bruno e
l’altro Buffalmacco10, uomini sollazzevoli molto, ma per
7
di usanze varie e di persone singolari, cioè tipi originali, bizzarri (II 1,6 n.). Questo inizio ricorda quelli della III 3,5 («Nella
nostra città, più d’inganni piena che d’amore o di fede»), VII 6,4
(«Nella nostra città, copiosa di tutti i beni»): e cfr. anche VI 9,4 e
Fiammetta, II 6,20 e V 27,1.
8
È Nozzo – ossia Giovannozzo – di Perino, abitante nel popolo di San Lorenzo (si dirà, al 50, che abita al Canto alla Macina,
cioè all’angolo fra Via Ginori e Via Guelfa): è ricordato in atti
(Archivio di Firenze: G 676) del notaio Ser Grimaldo di Ser Compagno da Pesciola tra il 20 luglio 1301 e il 17 febbraio 1318 (è nominato come morto in un atto del notaio Ser Lando d’Ubaldino
da Pesciola: L 38-39). Era probabilmente allievo di Andrea Tafi:
apparteneva cioè alla scuola fiorentina pregiottesca e più resistente alle esigenze della nuova pittura; di lui si ricordano solo affreschi in una villa di Camerata (per altre notizie cfr. note seguenti).
Ma dovette essere soprattutto noto nella Firenze trecentesca per la
sua semplicità e goffaggine, che lo rendevano naturale bersaglio
delle beffe e delle burle dei colleghi. E difatti dopo l’alta consacrazione letteraria nel D. (VIII 3 e 6; IX 3 e 5: nessun personaggio è
protagonista di tante novelle!), Calandrino appare – sempre nello
stesso atteggiamento – nel Sacchetti (LXVII, LXXX, LXXXIV) e
poi nelle Vite del Vasari (Vita di Buonamico), nelle Notizie del Baldinucci (Firenze 1845, I, pp. 148 sgg.), nella ampia e conclusiva
biografia dedicatagli dal Manni (Veglie piacevoli, II); tanto da passare in proverbio («far Calandrino», burlare uno, pigliarsene
spasso; cfr. anche Bibbiena, Calandria; il soprannome derivò da calandrino che è, come dice il Vasari, una squadra mobile di legno
usata da scalpellini, pittori, ecc., o da un tipo di allodola calandrino o calandrella: è del resto diminuitivo di Calandro, nome diffuso
nella Firenze del tempo).
9
frequentava, bazzicava due altri ... : I 1,14 ecc.
10 Bruno di Giovanni d’Olivieri – menzionato insieme al fra-
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5
altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan
per ciò che de’ modi suoi e della sua simplicità sovente
gran festa prendevano. Era similmente allora in Firenze
un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna
cosa che far voleva astuto e avvenevole 11, chiamato
Maso del Saggio12; il quale, udendo alcune cose della
tello Bartolino, pittore, per una vendita in un atto del già citato
Ser Grimaldo nel 1301 – abitava nel popolo di San Simone; appare in uno dei volumi delle matricole di medici e speziali insieme a
Buffalmacco e Giotto nel 1320 (vol. VIII, c. 732). Fu «compagno
d’arte, non collaboratore di Buffalmacco: un dipintore di camere,
come allora si diceva, non un maestro»; e non sapendo dare alle
sue figure l’espressione necessaria, scriveva – a quel che narra il
Vasari – appropriata parole su cartigli che uscivano loro di bocca.
Vero maestro fu invece Bonarnico, soprannominato Buffalmacco,
abitante in Via del Cocomero, vissuto, secondo il Vasari, dal 1262
al 1340. Allievo anche lui di Andrea Tali, molto dipinse in Toscana e Umbria; sono noti gli affreschi nella chiesa di Badia a Firenze
e nel Duomo di Arezzo. Recentemente il Bellosi gli ha voluto assegnare il Trionfo della Morte nel Camposanto di Pisa: a lui è attribuita anche la famosa rappresentazione dell’Inferno fatta il I°
maggio 1304 in Arno su barche (G. Villani, VIII 70). Di lui, piacevolissimo burlone, narrarono il Sacchetti (CXXXVI, CLXI,
CLXIX, CLXX, CXCI, CXCII), il Vasari (Vita cit.), il Baldinucci
(1, pp. 179 sgg.), il Manni (op. cit.). Cfr. per notizie su questi pittori, oltre le opere già Citate: L. LANZI, Storia pittorica, Milano
1823, I, pp. 47 sgg.; G. CAVALCASELLE - J. A. CROWE, Storia
della pittura, Firenze : 1883, II, pp. 87 sgg.; A. VENTURI, Storia
dell’Arte, Milano 1907, V, pp. 289 sgg.; P. BACCI, Gli affreschi di
Buffalmacco ecc., in «Bollettino d’Arte», v, 1911, e Bonamico Buffalmacco ecc., Pisa 1917; C. FIORILLI, Commenti e frammenti, in
«Marzocco», XXII, 10 giugno 1917; M. SALMI, rec. in «Rivista
d’arte», XI, 1929, p. 140, e Aggiunte al Tre e al Quattrocento fiorentino, ivi, XVI, 1934; L. BELLOSI, Buffalmacco e il Trionfo
della morte, Torino 1974 (ma cfr. C. BRANDI, in «Studi sul B.»,
VIII, 1974). Buffalmacco vale forse gran mangiatore o gran beffatore.
11 abile, cui tutto riusciva bene (con senso diverso da quello a
VII 6,6 e X 10,24): cfr. Volg. Vita San Giovanni Battista, p. 252
(C.): «ed era molto presta ed avvenevole a fare, secondo il mondo,
ciò ch’ella voleva».
12 Anche dal Sacchetti (XCIII), dal Vasari, dal Baldinucci, dal
Manni (opp. e locc. citt.) è presentato come un famoso burlone.
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simplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de’ fatti suoi col fargli alcuna beffa, o fargli credere alcuna nuova cosa13.
E per avventura trovandolo un dì nella chiesa di San
Giovanni, e vedendolo stare attento a riguardar le dipinture e gl’intagli14 del tabernacolo il quale è sopra
l’altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo15 alla sua intenzione. E informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s’accostarono là dove Calandrino solo
si sedeva, e faccendo vista di non vederlo, insieme cominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre,
delle quali Maso così efficacemente parlava come se
stato fosse un solenne e gran lapidario16. A’ quali ragionamenti Calandrino posto orecchie17, e dopo alquanto
levatosi in piè, sentendo che non era credenza18, si congiunse con loro; il che forte piacque a Maso; il quale,
Era sensale e la sua bottega «era un ridotto di cittadini e di quanti
piacevoli uomini aveva a Firenze e burlevoli» (Vasari). Già nella
VI 10,42 era citato da Frate Cipolla ad autenticare le sue favolosità geografiche; e quale bizzarro moqueur ritornerà nella VIII 5.
13 alcuna cosa strana, qualche sciocchezza: II 8,3 n. È questo un
tema frequente nella novellistica: cfr. per es. Sacchetti, CIV.
14 bassorilievi (III intr., 9; Amorosa Visione, XXXIII 28; Sacchetti, CCXXIX). Questo accenno permette di determinare, con
una certa precisione, il tempo in cui il B. immaginò l’azione della
sua novella: poiché è del 1313 la decisione dei consoli dell’arte di
Calimala di affidare a Lippo di Benivieni le ornamentazioni del tabernacolo di cui sopra (BACCI, art. cit.).
15 occasione favorevole: II 3,28 n.
16 un grande esperto, conoscitore di pietre preziose: cfr. Novellino, II: «lo lapidario si mosse guernito di molte pietre di gran bellezza ...» Lapidari erano chiamati anche i trattati attorno alle pietre preziose e alle loro favolose «virtù». E per s o l e n n e cfr. II
7,32 n.
17 Caso eccezionale di participio invariato al femminile (cfr.
Intr., 35 n.) forse favorito dal sintagma corrente «posta orecchia».
18 non v’era segreto: Cfr. III I,21 n.; e qui più avanti 37.
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seguendo le sue parole19, fu da Calandrin domandato
dove queste pietre così virtuose20 si trovassero. Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone, terra de’
Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi21,
nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi
un’oca a denaio22 e un papero giunta23, ed eravi una
montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato,
sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan
che far maccheroni24 e raviuoli, e cuocergli in brodo di
capponi, e poi gli gittavan quindi25 giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di
vernaccia26, della migliore che mai si bevve, senza avervi27 entro gocciol d’acqua.
19
continuando il proprio discorso.
prodigiose, efficaci: cfr. I 6,10 n.
21 Comincia la fantasmagorica girandola di nomi favolosi con
cui Maso, nuovo Frate Cipolla, stordisce e incanta Calandrino.
Berlinzone (anche nella VIII 9,23: «la semistante di Berlinzone») è
nome probabilmente coniato su «berlingare» ciarlare, «berlingaio» ghiottone, «berlingaccio» giovedì grasso (Varchi, Ercolano
cit., p. 64: «chiamano i fiorentini berlingaiuoli e berlingatori coloro i quali si dilettano d’empiere la morfia, cioè la bocca, pappando
e leccando»); si è pensato anche a storpiature da Bellinzona o Berençon (Zingarelli, Fornaciari), I b a s c h i sono proverbialmente
citati come ultima Thule anche nelle VI 10,41 C VIII 9,23. Trasparente, nella sua formazione, il senso favoloso di B e n g o d i , il
mitico paese di Cuccagna del favolello Dit de Coquaigne: gioconda
creazione della fantasia medievale sui cui particolari (riflessi anche
nelle righe seguenti) cfr. F. NOVATI, II paese che non si trova,
Genova 1888 e Freschi e mini del Dugento, Milano 1908, p. 45; U.
FRITTELLI, in «Memorie Valdarnesi», II, 1903; G. HERCZEG,
I cosiddetti ‘nomi parlanti’ cit.; Thompson e Rotunda, X 950.
22 La dodicesima parte di un soldo: cfr. II 2,7 n.
23 di giunta, per giunta.
24 gnocchi: Cfr. U. E. PAOLI, Maccheroni non maccheroni, in
«Lingua Nostra», IV, 1942; L. MESSEDAGLIA, Chiose al D., in
«Atti Ist. Veneto», CXII, 1953-54.
25 di qui.
26 Vino bianco secco, pregiatissimo: cfr. X 2,12 n.
27 esservi, impersonale.
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«Oh,» disse Calandrino «cotesto è buon paese; ma
dimmi, che si fa de’ capponi che cuocon coloro28?»
Rispose Maso: «Mangiansegli i Baschi tutti».
Disse allora Calandrino: «Fostivi tu mai?»
A cui Maso rispose: «Di’ tu se io vi fu’ mai? Sì vi
sono stato così una volta come mille29».
Disse allora Calandrino: «E quante miglia ci ha?»
Maso rispose: «Haccene più di millanta, che tutta
notte canta30».
Disse Calandrino: «Dunque dee egli essere più là
che Abruzzi31».
«Sì bene, «rispose Maso «si è cavelle32».
Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo33 e senza ridere, quella fede vi
dava che dar si può a qualunque verità più manifesta, e
così l’aveva per vere, e disse: «Troppo ci è di lungi a’
28 Le allitterazioni sottolineano burlescamente l’ingordigia di
Calandrino.
29 Sullo stile di Frate Cipolla, nega fingendo di affermare. Il
Poliziano nella sua raccolta di motti cita questo detto (Tagebuch,
ed. Wesselski, Jena 1929, p. 199).
30 Parole dal suono falsamente prestigioso, anche per la rima,
dette per confondere il povero semplicione: come quelle simili del
monaco bolognese a Ferendo (III 8,62) o varie espressioni di
Frate Cipolla. Probabili anche i riflessi popolareschi: A. CASETTI
e V. IMBRIANI, Canti popolari delle province meridionali, Torino
1872, II, p. 197; G. VIDOSSICH, Elementi mitici in un canto popolare, in «Atene e Roma», IV, 1901; HERCZEG, art. cit.; e per la
forma giocosa e indeterminata millanta (rifatta su sette-settanta,
otto-ottanta ecc.) cfr. VI 10,22 n.
31 Altra proverbiale terra remota, menzionata anche da Frate
Cipolla (VI 10,40 n.).
32 un nulla, o anche nulla (Rohlfs, 131 e 502). Evidente il
senso equivoco di questo linguaggio furbesco, simile a quello
usato, ancora con Calandrino, da Buffalmacco nella IX 3, I 2 («Si,
potrestú aver cavelle, non che nulla»): e cfr. anche IX 4,15.
33 impassibile: frase d’uso (II 9,50; VI 7,10 ecc.): e cfr. Purg.,
XXVII 34.
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fatti miei34, ma se più presso ci fosse, ben ti dico che io
vi verrei una volta con essoteco, pur per veder fare il
tomo a quei35 maccheroni, e tormene una satolla36. Ma
dimmi, che lieto sie tu, in queste contrade non se ne
truova niuna di queste pietre così virtuose?»
A cui Maso rispose: «Sì, due maniere di pietre ci si
truovano di grandissima virtù: l’una sono i macigni da
Settignano e da Montisci37, per virtù de’ quali, quando
son macine fatti, se ne fa la farina; e per ciò si dice egli
in que’ paesi di là, che da Dio vengono le grazie e da
Montici le macine; ma ecci di questi macigni sì gran
quantità, che appo noi 38 è poco prezzata, come appo
loro gli smeraldi, de’quali v’ha maggior montagne che
monte Morello che rilucon di mezza notte vatti con
Dio39; e sappi che chi facesse le macine belle e fatte legare in anella, prima che elle si forassero40, e portassele
al soldano, n’avrebbe ciò che volesse41. L’altra si è una
pietra, la quale noi altri lapidari appelliamo elitropia,
pietra di troppo gran virtù, per ciò che qualunque per34 troppo lontano dai miei interessi, per me (cfr. al 5: «de’ fatti
suoi» e I 1,23 n.).
35 fare il capitombolo, ruzzolare giù quei ...: cfr. Inf., XVI 63;
Sacchetti, CLII.
36 farne una scorpacciata: cfr. Pucci, Centiloquio, LXXI 40:
«volendo di pecunia far satolla».
37 Due collinette (e paesi) attorno a Firenze, come Monte Morello, con importanti cave di pietra serena. Per la costruzione
equivoca della frase cfr. Mussafia, p. 530.
38 presso di noi.
39 Quasi: non mi far dire, non mi domandare altro: frase di
commiato dell’uso, in senso più o meno benevolo: cfr. VII 1,32.
«Altro gioco lessicale imperniato sul di m e z z a n o t t e tra r i l u c o n (e questo è lo straordinario) e v a t t i c o n D i o (formula di
saluto: cioè, di mezzanotte sta a casa tua)» (Marti).
40 «Cosa evidentemente impossibile» (Marti).
41 È una variante del motivo popolare, diffusissimo, della preferenza all’utile sul dilettevole (Thompson e Rotunda, J 245.1): e
proprio di pietre da macina preferite a gioielli narra Poggio (Facezie, Roma 1927, n. 74).
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sona la porta sopra di sè, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è42».
Allora Calandrin disse: «Gran virtù son queste; ma
questa seconda dove si truova?»
A cui Maso rispose che nel Mugnone se ne solevan
trovare.
Disse Calandrino: «Di che grossezza è questa pietra? O che colore è il suo?»
Rispose Maso: «Ella è di varie grossezze, ché alcuna
n’è più e alcuna meno43, ma tutte son di colore quasi
come nero».
Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate44,
fatto sembiante d’avere altro a fare, si partì da Maso, e
seco propose di voler cercare di questa pietra; ma diliberò di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente amava. Diessi
adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e
prima che alcuno altro n’andassero a cercare, e tutto il
rimanente di quella mattina consumò in cercargli45. Ultimamente, essendo già l’ora della nona passata, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle
donne di Faenza46, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo
n’andò a costoro, e chiamatigli, così disse loro: «Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo dive42 Altre parole, simili a alcune di Frate Cipolla, che nulla dicono; e invece a Calandrino sembrano dire gran cosa, perché pronunziate con solennità fracipollesca.
43 Cioè meno grossa: cfr. Mussafia, p. 523.
44 Con senso intensivo, come alla VII 1,3 n.
45 «Si noti il ritorno di cercare quattro volte in pochi righi: è
tutto affanno di Calandrino» (Zingarelli).
46 Monache che avevano convento fuori dell’antica porta
Faenza, pressappoco dove sorse poi la Fortezza da Basso, Presso
tali suore, conte narra il Vasari nella Vita di Buffalmacco, effettivamente lavorò questo festoso pittore (probabilmente negli ultimi
anni del Duecento).
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nire i più ricchi uomini di Firenze, per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova
una pietra, la qual chi la porta sopra47 non è veduto da
niun’altra persona; per che a me parrebbe48 che noi
senza alcuno indugio, prima che altra persona v’andas29 se, v’andassimo a cercare. Noi la troveremo per certo,
per ciò che io la conosco; e trovata che noi l’avremo,
che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scarsella49 e andare alle tavole de’ cambiatori50, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi51 e di fiorini, e
torcene quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrà; e così
potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a
schiccherare52 le mura a modo che fa la lumaca».
Bruno e Buffalmacco, udendo costui, fra sé medesi30
mi cominciarono a ridere, e guatando l’un verso l’altro
fecer sembianti di maravigliarsi forte, e lodarono il consiglio di Calandrino; ma domandò Buffalmacco, come
31 questa pietra avesse nome. A Calandrino, che era di
grossa pasta, era già il nome uscito di mente, per che
egli rispose: «Che abbiam noi a far del nome, poi che
noi sappiam la vertù53? A me parrebbe che noi andassomo54 a cercare senza star più».
32
«Or ben,» disse Bruno «come è ella fatta?»
47
addosso.
sembrerebbe bene, ben fatto, come più sotto (31): IX intr.,
3; Inf., XVI 90: «Per ch’al maestro parve di partirsi».
49 Tasca o borsetta di cuoio che si attaccava alla cintura.
50 Cioè ai banchi dei cambiavalute e dei banchieri.
51 Piccole monete d’argento: VIII 10,27; per fiorino cfr. II
1,21 n.
52 imbrattare, sgorbiare.
53 Il Fornaciari ricorda il ciceroniano: «cum intelligitur quid
significetur, minus laborandum est de nomine» (Top., VIII 35).
54 Forma vernacolare dell’imperfetto congiuntivo che il B.
mette anche altrove sulle labbra di questi personaggi (per es. qui
35 e VIII 9,22: e cfr. per forme analoghe VIII 6,8 n.).
55 Ce n’è d’ogni maniera, d’ogni foggia.
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Calandrin disse: «Egli ne son d’ogni fatta55, ma tutte
son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vederem nere, tanto che56
noi ci abbattiamo ad essa; e per ciò non perdiamo
tempo, andiamo».
34
A cui Bruno disse: «Or t’aspetta;» e volto a Buffalmacco disse: «A me pare che Calandrino dica bene; ma
non mi pare che questa sia ora da ciò57, per ciò che il
sole è alto e dà per lo Mugnone entro58 e ha tutte le pietre rasciutte, per che tali paion testé59 bianche delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che il sole l’abbia
35 rasciutte, paion nere; e oltre a ciò molta gente per diverse cagioni è oggi, che è dì di lavorare, per lo Mugnone,
li quali60 vedendoci si potrebbono indovinare quello
che noi andassimo faccendo61, e forse farlo essi altressì,
e potrebbe venire alle mani a loro, e noi avremmo per36 duto il trotto per l’ambiadura62. A me pare, se pare a
voi, che questa sia opera da dover fare da mattina63, che
si conoscon meglio le nere dalle bianche, e in dì di festa,
che non vi sarà persona che ci vegga».
Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, e Calandri37
no vi s’accordò, e ordinarono che la domenica mattina
33
56
finché.
opportuna, adatta a far questo.
Cioè picchia sul greto del Mugnone. Si usava alle volte posporre entro a parole rette dalla preposizione per: Petrarca, CCIV
13: «per la nebbia entro de’ suoi dolci sdegni»: e cfr. Annotazioni,
LXI.
59 a quest’ora, adesso: IX 5,55; Inf., VI 69,
60 Una delle solite concordanze a senso, con g e n te.
61 «La perifrasi accentua l’eventualità dell’azione» (Contini).
62 «Cioè per volere troppa comodità, avremmo perduto lo
scopo del nostro viaggio: come chi volendo avvezzare un cavallo
all’ambio o ambiadura (che è un modo di andare movendo insieme le due gambe del medesimo fianco e così procedendo senza
scuotere il cavaliere) gli togliesse l’andar naturale e non potesse
farlo trottare» (Fornaciari).
63 sul mattino.
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vegnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa
pietra; ma sopra ogn’altra cosa gli pregò Calandrino che
essi non dovesser questa cosa con persona del mondo
ragionare 64 , per ciò che a lui era stata posta in
credenza65. E ragionato questo, disse loro ciò che udito
avea della contrada di Bengodi, con saramenti66 affermando che così era. Partito Calandrino da loro, essi
quello che intorno a questo avessero a fare ordinarono
fra sé medesimi.
Calandrino con disidero aspettò la domenica mattina; la qual venuta, in sul far del dì si levò, e chiamati i
compagni, per la porta a San Gallo67 usciti e nel Mugnon discesi, cominciarono ad andare in giù 68, della
pietra cercando. Calandrino andava, come più volenteroso, avanti, e prestamente or qua e or là saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava69, e quella
ricogliendo si metteva in seno. I compagni andavano
appresso, e quando una e quando un’altra ne ricoglievano; ma Calandrino non fu guari di via andato, che egli il
seno se n’ebbe pieno70; per che, alzandosi i gheroni
della gonnella71, che all’analda non era72, e faccendo di
64
Solito nel D. l’uso transitivo di ragionare (Intr., 52 n.).
Millanteria (cfr. 8), tipica del carattere di Calandrino, come
vedremo (cfr. per es. 50 e 60).
66 giuramenti: I 1,2 n.
67 Cfr. IV 7,11 n.
68 Cioè dirigendosi verso la foce del Mugnone in Arno.
69 Col senso di ingordo desiderio che il verbo già aveva nella
novella di Frate Cipolla (VI 10,21).
70 riempito di pietre. II trapassato remoto ha nella sovraordinata il valore di indicazione di limiti temporali, nella subordinata
quello di compimento immediato dell’azione (F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, p. 303).
71 lembi, falde della veste lunga (II 5,68 n.).
72 Cioè che non era stretta e corta come quella alla foggia
dell’Hainaut (centro vivissimo di industrie tessili e di vita cavalleresca, ora nel Belgio), allora di moda (Merkel, pp. 38 sgg.), e contro cui si scaglierà il B. nelle Esposizioni, V all. 34. Per la forma
cfr. G. Villani, VIII 57, X 153.
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quegli ampio grembo, bene avendogli alla coreggia73 attaccati d’ogni parte, non dopo molto gli empié, e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo74, quello di pietre empiè75. Per che, veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l’ora del
mangiare s’avvicinava, secondo l’ordine da sé posto 76,
disse Bruno a Buffalmacco: «Calandrino dove è?»
Buffalmacco, che ivi presso sel vedeva, volgendosi
intorno e or qua e or là riguardando, rispose: «Io non
so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi».
Disse Bruno: «Ben che fa poco77! a me par egli esser
certo che egli è ora a casa a desinare, e noi ha lasciati
nel farnetico78 d’andar cercando le pietre nere giù per
lo Mugnone».
«Deh come egli ha ben fatto,» disse allora Buffalmacco «d’averci beffati e lasciati qui, poscia che noi
fummo sì sciocchi che noi gli credemmo. Sappi79! chi
sarebbe stato sì stolto che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una così virtuosa pietra, altri
che noi?»
Calandrino, queste parole udendo, imaginò che
quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la virtù
d’essa coloro, ancor che lor fosse presente, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir
73
alla cintura di cuoio: VI 10,18 n.
Cioè prese in mano le falde del mantello in modo da potervi riporre le pietre.
75 Insistente, colorita ripetizione.
76 secondo il piano stabilito fra loro.
77 Altro che poco! Ripresa burlesca delle parole di Buffalmacco, variamente interpretata: Sì, Poco la era qui, ma ... (Sapegno,
Segre); È proprio vero che la poco (Marti); Benché poco fa [fosse qui
dinanzi a noti] (Barbi).
78 ha lasciati ad ammattire, nella pazzia, nell’impiccio: cfr. VII
9,60.
79 Modo di richiamar l’attenzione, come oggi vedi, senti, ma
sì! (imperativo fatico).
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loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa; e volti i passi
indietro80, se ne cominciò a venire.
46
Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno: «Noi che
faremo? Ché non ce ne andiam noi?»
A cui Bruno rispose: «Andianne; ma io giuro a Dio
47
che mai Calandrino non me ne farà più niuna; e se io gli
fossi presso, come stato sono tutta mattina, io gli darei
tale81 di questo ciotto82 nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa «; e il dir le parole e l’aprirsi83 e ‘1 dar del ciotto nel calcagna a Calandrino fu tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, levò
alto il piè e cominciò a soffiare, ma pur si tacque e andò
oltre.
48
Buffalmacco, recatosi in mano uno de’ codoli84 che
raccolti avea, disse a Bruno: «Deh! vedi bel codolo, così
giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino! «e lasciato
andare, gli diè con esso nelle reni una gran percossa. E
in brieve in cotal guisa or con una parola, e or con una
altra su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il
49 vennero lapidando. Quindi, in terra gittate le pietre che
ricolte aveano, alquanto con le guardie de’ gabellieri85 si
ristettero; le quali, prima da loro informate, faccendo
vista di non vedere, lasciarono andar Calandrino con le
80 Cioè risalendo il corso del Mugnone per giungere a Porta
San Gallo e venir via (venire).
81 in tale modo, talmente, avverbialmente (Intr., 100 n.; VIII
9,62 n.).
82 ciottolo, sasso: cfr. Crescenzi, Agricoltura volg., IX 100,3.
83 allargare le braccia per scagliare il ciottolo: Filocolo, V 6,2:
«s’aperse vibrato il dardo ...»; Purg., XXXI 100).
84 Unica testimonianza letteraria, a mia conoscenza, di questa
forma – registrata solo dal GDLI (ma cfr. REW 2288 «cotulus»
dim. di «cotis») viva ancora in vari dialetti veneti e in corso – sostituita poi da «ciottolo» (di origine onomatopeica da una base
«côtt» secondo REW 2454: cfr. c i o t t o ). «È incrociato con ciotto, il precedente di c i o t t o l o » (Contini).
85 dazieri.
Letteratura italiana Einaudi 1072
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
maggior risa del mondo. Il quale senza arrestarsi se ne
venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla Macina; e in tanto fu la fortuna piacevole86 alla beffa, che,
mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la
città, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne
scontrasse, per ciò che quasi87 a desinare era ciascuno.
Entrossene adunque Calandrino così carico in casa
51
sua. Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe
nome monna Tessa88, bella e valente donna, in capo
della scala; e alquanto turbata della sua lunga dimora,
veggendol venire, cominciò proverbiando a dire: «Mai,
frate, il diavol ti ci reca89! ogni gente ha già desinato
quando tu torni a desinare».
52
Il che udendo Calandrino, e veggendo che veduto
era90, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare:
«Ohimè, malvagia femina, o eri tu costì? Tu m’hai diserto91; ma in fè di Dio io te ne pagherò»; e salito in una
sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate
avea, niquitoso92 corse verso la moglie, e presala per le
50
86
favorevole, propizia.
«Determina c i a s c u n o . Perciò la moglie parla di
d i m o r a , ritardo»(Contini).
88 Il nome di Tessa era assai comune in Toscana come eco
della leggendaria fama della Contessa Matilde; e proprio Tessa si
chiamava, secondo il Manni, la moglie di Calandrino, parente del
pittore Nello di Dino (IX 3,6 n.; IX 5,19; e per possibili sensi
equivoci cfr. VII 1,6 n. e l’art. del Guerri ivi citato).
89 Finalmente, Una buona volta il diavolo ti porta a casa, fratello (con il consueto sapore ironico: VIII 2,26). Anche il Sacchetti,
CCIX: «parendo al Minestra che troppo fosse stata dice ‘Il diavol
ti ci reca’». E cfr. specialmente, sul valore particolare di m a i ’ Annotazioni, XXXIV.
90 Un esempio tipico di due accezioni diverse di uno stesso
verbo legate sintatticamente.
91 mi hai rovinato: II 4,7 n.; e per la forma VIII 6,27; VIII
10,57.
92 irato, furibondo, cioè reso cattivo dall’ira (lat. iniquus, nequam): Filostrato, V 15: «nel viso fellone e niquitoso».
87
Letteratura italiana Einaudi
1073
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
treccie la si gittò a’piedi, e quivi, quanto egli poté
menar le braccia e’ piedi, tanto le diè93 per tutta la persona pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso
addosso che macero94 non fosse, niuna cosa valendole il
chieder mercé con le mani in croce95.
53
Buffalmacco e Bruno, poi che co’ guardiani della
porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino, e giunti a piè
dell’uscio96 di lui, sentirono la fiera battitura la quale
alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure allora97 il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso e affannato si fece alla finestra, e pregogli che suso a lui do98
54 vessero andare . Essi, mostrandosi alquanto turbati,
andaron suso e videro la sala piena di pietre, e nell’un
de’canti la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e
rotta nel viso dolorosamente piagnere, e d’altra parte
Calandrino scinto e ansando a guisa d’uom lasso99 sedersi.
93 tanto la picchiò: con uso assoluto di dare come qui al 47 e a
VIII 9,62 n.
94 pesto, ammaccato: IX 9,30 n.; Sacchetti, LXXXVI: «la
donna macera e tormentata».
95 Sono state ricordate le battiture subite da Martellino (II i),
da Biondello e dalla moglie di Giosefo (IX 8 e 9): ma sono da
tener presenti soprattutto l’aspro ricambio di busse fatto dalla
Tessa a Calandrino (IX 5) e una scena della VII 8 molto simile,
fino a riprese verbali (18-19: «’Ove se’ tu, rea femina?’ ... e quanto
egli poté menare le mani e’ piedi tante pugna e tanti calci le diede,
tanto che tutto il viso l’amaccò»).
96 accanto all’uscio, o meglio sotto l’uscio che era generalmente
sollevato di qualche gradino sul livello stradale: II 2,17; IX 1,30.
97 proprio, solo in quel momento.
98 Tre endecasillabi di seguito sottolineano la concitazione
della figura, ritratta con una di quelle serie di aggettivi cadenzati e
rimati caratteristiche in simili momenti del D. (VI 10,17 n. e anche
21 n.).
99 Inf., XXXIV 83: «Disse ’1 maestro, ansando com’uom
lasso».
Letteratura italiana Einaudi 1074
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
Dove come alquanto ebbero riguardato, dissero:
«Che è questo, Calandrino? Vuoi tu murare100, che noi
veggiamo qui tante pietre? «E oltre a questo soggiunsero: «E monna Tessa che ha? E’ par che tu l’abbi battu56 ta; che novelle101 son queste?» Calandrino, faticato dal
peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna
aveva battuta, e dal dolore della ventura102 la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccogliere lo spirito103 a formare intera la parola alla risposta104. Per che
57 soprastando105, Buffalmacco ricominciò: «Calandrino,
se tu aveva altra ira106, tu non ci dovevi perciò straziare107 come fatto hai; ché, poi sodotti108 ci avesti a cercar
teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo, a guisa di due becconi109 nel Mugnon ci lasciasti, e
venistitene, il che noi abbiamo forte per male; ma per
certo questa fia la sezzaia110 che tu ci farai mai».
58
A queste parole Calandrino sforzandosi rispose:
55
100
far muri, fabbricare.
che novità, che discorsi son questi? che storia è questa?: cfr.
II 8,67 n.
102 dal dolore della fortuna (per lo scambio fra di e da cfr. VIII
5,4 n.). Il Dal Rio nota come il B. efficacemente ha fatto qui servire lo stesso participio f a t i c a t o a varie azioni materiali e morali.
103 ripigliare fiato (Purg., XXX 98).
104 Inf., VII 125 sg.: «Quest’inno si gorgoglian ne la strozza, |
Ché dir nol posson con parola integra».
105 indugiando, rimanendo sospeso, cioè continuando a non
parlare: V 2,42; VI intr., 9.
106 se avevi altro motivo di collera, se eri adirato per altra ragione.
107 dileggiare, schernire: I 7,10 n.
108 sedotti, lusingati: idiotismo corrente (cfr. per es. G. Villani,
VIII 92; Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino 1305-1306, Firenze 1974, LXXVIII 8).
109 castroni, bestioni: come nella VIII 5,20: «dove egli doveva
aver menati giudici, egli aveva menati becconi per aveme miglior
mercato».
110 ultima: I 1,19 n.; Par., XVIII 93. Ripetizione dello parole di
Bruno (47).
101
Letteratura italiana Einaudi
1075
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
59
60
61
«Compagni, non vi turbate, l’opera111 sta altramenti che
voi non pensate. Io, sventurato! avea quella pietra trovata; e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste l’un l’altro, io v’era presso a men di diece112 braccia; e veggendo che voi ve ne
venavate e non mi vedavate113, v’entrai innanzi114, e
continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto».
E, cominciandosi dall’un de’ capi, infino la fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano, e mostrò
loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel’avessero, e poi seguitò: «E dicovi che, entrando alla porta
con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna
cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli115 e noiosi que’ guardiani a volere ogni cosa vedere; e oltre a questo ho trovati per la via più miei compari e amici, li quali sempre mi soglion far motto e invitarmi a bere, né alcun fu che parola mi dicesse né
mezza116, sì come quegli che non mi vedeano. Alla fine,
giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi ed ebbemi veduto117, per ciò
che, come voi sapete, le femine fanno perder la virtù ad
111
la cosa, la faccenda: II 3,27 n.
Per la forma cfr. Proemio, I n.
113 Le solite forme: cfr. II 5,23 n.; II 10,31n.; VIII 4,31 n.
114 camminai, mi misi innanzi a voi: V 7, 12 n.
115 seccanti, molesti: VII 6,6 n.
116 neppure mezza. Ma è un puro e maldestro vanto per accreditare la propria invisibilità (cfr. 50), come altri caratteristici della
goffaggine di Calandrino (cfr. per es. 28-29; IX 5,35 sg. e 50).
117 Il trapassato remoto qui «sottolinea il contrasto fra quel
diavolo di femina per a quale è stato vano ogni magico potere
dell’elitropia, e le persone incontrate precedentemente, che non
avevano mostrato di vedere Calandrino passare carico di pietre.
Siamo al confine dove un fatto istituzionale si muta, grazie alla singolare abilità dello scrittore, in un fatto stilistico» (F. AGENO,
Annotazioni sintattiche sul D., in «Studi sul B.», II, 1964).
112
Letteratura italiana Einaudi 1076
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
ogni cosa118: di che io, che mi poteva dire il più avventurato uom di Firenze, sono rimaso il più sventurato; e
62 per questo l’ho tanto battuta quant’io ho potuto menar
le mani119, e non so a quello che io mi tengo120 che io
non le sego le veni121; che maladetta sia l’ora che io
prima la vidi e quand’ella mi venne in questa casa!» E
raccesosi nell’ira, si voleva levar. per tornare a batterla
da capo.
63
Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan
vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano122 quello che Calandrino diceva, e avevano sì gran voglia di ri64 dere che quasi scoppiavano. Ma, vedendolo furioso levare123 per battere un’altra volta la moglie, levatiglisi
allo ’ncontro124 il ritennero, dicendo di queste cose
niuna colpa aver la donna, ma egli che sapeva che le femine facevano perdere la virtù alle cose e non le aveva
detto che ella si guardasse d’apparirgli innanzi quel
giorno: il quale avvedimento Idio gli aveva tolto125 o
per ciò che la ventura non doveva esser sua, o
perch’egli aveva in animo d’ingannare i suoi compagni,
a’quali, come s’avvedeva d’averla trovata, il doveva pa65 lesare. E dopo molte parole, non senza gran fatica, la
dolente donna riconciliata con essolui, e lasciandol malinconoso colla casa piena di pietre, si partirono. –
118 Antico e popolare pregiudizio, consacrato anche in proverbi, e forse disceso dalla narrazione biblica della seduzione di Eva.
119 Sempre la solita frase (52 n.).
120 non so a che fine, perché mi contengo, mi trattengo: cfr. II
5,53 n.
121 Per questi plurali in -i di femminili in -a cfr. VII 5,47 n.
122 confermavano.
123 «In forma non riflessiva dopo il verbum sentiendi»(Contini).
124 andatigli contro.
125 accorgimento, cautela Dio non gli aveva permesso di avere:
cfr. X 8,65.
Letteratura italiana Einaudi
1077
NOVELLA QUARTA
1
Il proposto di Fiesole ama una donna vedova: non è amato da
lei e, credendosi giacer con lei, giace con una sua fante, e i fratelli della donna vel fanno trovare al vescovo suo1.
2
Venuta era Elissa alla fine della sua novella 2, non
senza gran piacere di tutta la compagnia avendola raccontata, quando la reina, ad Emilia voltatasi, le mostrò
voler che ella appresso d’Elissa la sua raccontasse, la
quale prestamente così cominciò:
– Valorose donne, quanto i preti e’ frati e ogni cherico sieno sollecitatori3 delle menti nostre, in più novelle dette mi ricorda essere mostrato; ma per ciò che dir
non se ne potrebbe tanto che ancora più non ne fosse4,
io, oltre a quelle, intendo di dirvene una d’un
proposto5, il quale, malgrado di tutto il mondo, voleva
3
1
Qualche antecedente dell’intrigo centrale di questa novella
già è rintracciabile nella letteratura classica: nella Casina di Plauto,
nel racconto ovidiano di Anna Perenna e di Marte (Fasti, III 667
sgg.), in una declamazione di Quintiliano (CCCLXIII: Vestiplica
pro domina). Ma l’astuzia della sostituzione prende colori e svolgimento molto simili a questa novella in un fabliau, Du prestre et
d’Alison di Guglielmo il Normanno (Recueil général, II 31; BÉDIER, pp. 120 e 468). Per gli elementi popolari e la grande fortuna del tema (ripreso in qualche modo dal Sercambi, XXXIII): cfr.
Thompson, K 1223, 1317, 1512 sgg., e Thompson e Rotunda, K
1228 per il topos della sostituzione della serva (cfr. VII 8). Cfr. in
gen. anche R. WENDRINER, Die Quellen von B. Dovizi’s Calandria, in Abbandlungen H. Prof. Dr. A. Tobler, Halle 1895.
2
O si deve sottintendere un era o il gerundio (essendo venuta) è indipendente: cfr. III 8,2 n.
3
Con un senso amoroso e peccaminoso, come altrove (qui al
9; e VII 2,8; VII 3,13; VII 6,6 ecc.). Altri invece: quanto abbiano
sollecitato le nostre menti, cioè qual ricca materia abbiano prestato
alla nostra memoria per il nostro novellare (Marti). «Nota pe’ cherici» (M.).
4
non ne restasse da raccontare.
5
prevosto.
Letteratura italiana Einaudi 1078
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
4
5
6
7
che una gentil donna vedova gli volesse bene o volesse
ella o no; la quale, si come molto savia, il trattò sì come
egli era degno.
Come ciascuna di voi sa, Fiesole, il cui poggio noi
possiamo di quinci vedere6, fu già antichissima città e
grande, come che oggi tutta disfatta7 sia, né per ciò è
mai cessato che vescovo avuto non abbia8, e ha ancora.
Quivi vicino alla maggior chiesa9 ebbe già una gentil
donna vedova, chiamata monna Piccarda10, un suo podere con una casa non troppo grande; e per ciò che la
più agiata donna del mondo non era, quivi la maggior
parte dell’anno dimorava11 e con lei due suoi fratelli,
giovani assai dabbene e cortesi. Ora avvenne che, usando12 questa donna alla chiesa maggiore ed essendo ancora assai giovane e bella e piacevole, di lei s’innamorò
sì forte il proposto della chiesa13, che più qua né più là
non vedea14. E dopo alcun tempo fu di tanto ardire, che
egli medesimo disse a questa donna il piacer suo, e pregolla che ella dovesse esser contenta del suo amore e
d’amar lui come egli lei amava.
Era questo proposto d’anni già vecchio ma di senno
giovanissimo, baldanzoso e altiero, e di sé ogni gran
6
Poiché si immagina che i novellatori siano sul poggio di Camerata (III intr., 3 n.).
7
in decadenza, in rovina: cfr. VI 10,27 n. e Par., XVI 76.
8
è mai mancato vescovo, o non ha mai smesso di avere vescovo: costrutto impersonale non corrente.
9
Cioè il Duomo, sulla piazza di Fiesole: cfr. II 5,64 n.
10 Non v’è alcun elemento di possibile identificazione: il
nome era assai comune nella Firenze del Due-Trecento.
11 Per economia e secondo un uso riflesso anche nella V 9 (78 e 10 n.).
12 essendo assidua.
13 Il Manni propose – ma senza argomento alcuno – di identificarlo con «Messer Tebaldo», che fu prevosto di Fiesole dal 1282
al 1327.
14 Espressione solita: per es. VII 9,7; X 6,24.
Letteratura italiana Einaudi
1079
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
8
9
cosa presummeva, con suoi modi e costumi pieni di
scede15 e di spiacevolezze, e tanto sazievole e rincrescevole che niuna persona era che ben gli volesse16; e se alcuno ne gli voleva poco, questa donna era colei, ché
non solamente non ne gli voleva punto, ma ella l’aveva
più in odio che il mal del capo; per che ella, sì come
savia, gli rispose: «Messere, che voi m’amiate mi può
esser molto caro, e io debbo amar voi e amerovvi volentieri; ma tra il vostro amore e ’l mio niuna cosa disonesta dee cader mai. Voi siete mio padre spirituale e siete
prete, e già v’appressate molto bene alla vecchiezza, le
quali cose vi debbono fare e onesto e casto; e d’altra
parte io non son fanciulla, alla quale questi innamoramenti steano oggimai bene, e son vedova; ché sapete
quanta onestà nelle vedove si richiede17; e per ciò abbiatemi per iscusata, che al modo che voi mi richiedete
io non v’amerò mai, né così voglio essere amata da voi».
Il proposto, per quella volta non potendo trarre da
lei altro, non fece come sbigottito o vinto al primo
colpo18, ma, usando la sua trascutata prontezza19, la sollicitò molte volte e con lettere e con ambasciate, e anco-
15 smorfie, svenevolezze: Concl., 23: «prediche ... piene di
motti e di ciance e di scede»; Par., XXIX 115 «con motti e con
iscede» e il Buti chiosa il secondo sostantivo «detti beffevoli che
strazieggiano e contraffanno lo parlare altrui».
16 Ritratto simile a quello di un altro stucchevole e fastidioso
innamorato, Lambertuccio (VII 6,6: «spiacevole uomo e sazievole»), o della Cesca da Celatico (VI 8,5: «spiacevole, sazievole e
stizzosa ... ch’a sua guisa niuna cosa si poteva fare»), e delineato
con analoghe sottolineature rimate.
17 «Dell’onestà richiesta alla vedova discorre a lungo, tra gli
altri, Francesco da Barberino nel suo Reggimento e costumi di
donna» (Sapegno), precisamente nelle parti VI e VII.
18 come uno che fosse rimasto spaventato o vinto al primo assalto (colpo, con allusione alla singolar tenzone equestre) (Marti).
19 tracotante, smodata (VI 2,1 n.) improntitudine, sfacciataggine: cfr. «impronto proposto» al 37 n.
Letteratura italiana Einaudi 1080
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
ra egli stesso quando nella chiesa la vedeva venire20. Per
che, parendo questo stimolo21 troppo grave e troppo
noioso alla donna, si pensò di volerlosi levar da dosso
per quella maniera la quale egli meritava, poscia che altramenti non poteva; ma cosa alcuna far non volle, che
22
10 prima co’ fratelli nol ragionasse. E detto loro ciò che il
proposto verso lei operava, e quello ancora che ella intendeva di fare, e avendo in ciò piena licenza da loro, ivi
a pochi giorni andò alla chiesa come usata era. La quale
come il proposto vide, così se ne venne verso lei e,
come far soleva, per un modo parentevole23 seco entrò
in parole.
11
La donna, vedendol venire, e verso lui riguardando,
gli fece lieto viso, e da una parte tiratisi, avendole il proposto molte parole dette al modo usato, la donna dopo
12 un gran sospiro disse «Messere, io ho udito assai volte
che egli non è alcun castello sì forte che, essendo ogni
dì combattuto 24, non venga fatto d’esser preso una
volta, il che io veggo molto bene in me essere avvenuto.
Tanto, ora con dolci parole e ora con una piacevolezza
e ora con un’altra, mi siete andato d’attorno, che voi
m’avete fatto rompere il mio proponimento, e son disposta, poscia che io così vi piaccio, a volere esser vostra».
Il proposto tutto lieto disse: «Madonna, gran mercè;
13
e a dirvi il vero, io mi son forte maravigliato come voi vi 18
20 Proprio come «il prete ... sollicitatore o inducitore a male»
che il Passavanti descrive nel suo specchio (V 4).
21 Nel solito particolare senso amoroso: III 3,23 n.
22 Neutro accordato a e o sa: cfr. II 3,25 n.
23 familiare, confidenziale, come cioè fosse stato un parente: X
8,89: «e fattasi parentevoie e amichevole festa ...»; Morelli, Ricordi, p. 162: «parentevole, domestico, bello novellatore».
24 Preso d’assalto: G. Villani, IX 118: «assediarono la città di
Noli combattendola per più volte».
Letteratura italiana Einaudi
1081
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
siete tanto tenuta25, pensando che mai più di niuna non
m’avvenne26; anzi ho io alcuna volta detto: ‘ Se le femine fossero d’ariento, elle non varrebbon denaio27, per
ciò che niuna se ne terrebbe a martello28 ’ . Ma lasciamo
andare ora questo: quando e dove potrem noi essere insieme?»
14
A cui la donna rispose: «Signor mio dolce, il quando potrebbe essere qual ora più ci piacesse, perciò che
io non ho marito a cui mi convenga render ragion delle
notti, ma io non so pensare il dove».
15
Disse il proposto: «Come no? O in casa vostra?»
Rispose la donna: «Messer, voi sapete che io ho due
16
fratelli giovani, li quali e di dì e di notte vengono in casa
con lor brigate, e la casa mia non è troppo grande, e per
ciò esser non vi si potrebbe, salvo chi non volesse
starvi29 a modo di mutolo, senza far motto o zitto30 alcuno e al buio a modo di ciechi; vogliendo far così, si
potrebbe, per ciò che essi non s’impacciano nella camera mia; ma è la loro sì allato alla mia, che paroluzza sì
cheta31 non si può dire che non si senta».
17
Disse allora il proposto: «Madonna, per questo non
rimanga32 per una notte per due, intanto che io pensi
dove noi possiamo essere in altra parte con più agio».
25
contenuta, trattenuta (dal cedermi), avete tanto resistito: III
6,2 n.
26
«Deh datti la mala pasqua, asino, pazzo, villanaccio» (M.).
Cioè la dodicesima parte del soldo: cfr. II 2,7 n.
28 nessuna resisterebbe al martello (cioè alle insistenze); sicché
non sarebbero d’un argento adatto a coniare moneta.
29 eccetto che volendo starvi. «Poteva dirsi anche chi non volesse lasciando il salvo, perché il chi in questi parlari ha forza di condizionale e vai quasi se alcuno» (Fanfani).
30 zittio, sussurro, minimo cenno di voce: M. Villani, IX 75:
«chetamente e senza fare zitto ... uscì di Bologna».
31 sommessa: X 8,48 n.
32 questo non sia d’impedimento: III 6,41 n.; V 8,43 n.
27
Letteratura italiana Einaudi 1082
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
19
20
21
22
La donna disse: «Messere, questo stea pure a voi33;
ma d’una cosa vi priego: che questo stea segreto, che
mai parola non se ne sappia».
Il proposto disse allora: «Madonna, non dubitate di
ciò, e se esser puote, fate che istasera noi siamo insieme».
La donna disse: «Piacemi»; e datogli l’ordine come
e quando venir dovesse, si partì e tornossi a casa.
Aveva questa donna una sua fante, la quale non era
però troppo giovane, ma ella34 aveva il più brutto viso e
il più contraffatto che si vedesse mai; ché ella aveva il
naso schiacciato forte e la bocca torta e le labbra grosse
e i denti mal composti 35 e grandi, e sentiva del
guercio36, né mai era senza mal d’occhi, con un color
verde e giallo, che pareva che non a Fiesole ma a Sinigaglia37 avesse fatta la state; e oltre a tutto questo era
sciancata e un poco monca dal lato destro; e il suo
nome era Ciuta38; e perché così cagnazzo39 viso avea, da
33 questo sia vostro pensiero, vostra cura: e per la forma stea
corrente nel B. cfr. Teseida, p. CXLIII e Amorosa Visione, p.
CXXXVII.
34 «Dopo n o n e r a t r o p p o g i o v a n e il m a farebbe
aspettare una qualità positiva: seguono invece altri difetti» (Petronio).
35 Il ritratto fortemente caricaturato si sviluppa attraverso endecasillabi, settenari, quinari: un sottile contrappuntato ritmico
prediletto dal B. in casi simili (per es. VI 10,17 e 21; VIII 5,7). Ha
anche tutti i caratteri di una tradizionale vituperatiti (cfr. E.
FARAL, Les Arts Poétiques ecc., Paris 1923, pp. 126, 131, 210,
225).
36 era piuttosto guercia: cfr. IV 2,14 n.
37 Cioè in una regione allora malarica e dove l’estate si pigliavan le febbri. Marti cita Cenne «Di agosto vi reposo eri acre bella |
Eri Sinigallia, che mi par ben fina».
38 Coincidenza curiosa: in un atto del 1305 di Ser Grimaldo
di Compagno (Archivio di Firenze: G 676) è nominata «Da Ciuta
vidua penzochera uxor quondam Cianghelli de Fesulis». C i u t a
è accorciatura di Ricevuta.
39 livido, di color verde giallo: Inf., XXXII 70 sg.: «vid’io mille
visi cagnazzi | Fatti per freddo»; Sacchetti, XCII.
Letteratura italiana Einaudi
1083
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
ogn’uomo era chiamata Ciutazza40; e benché ella fosse
contraffatta della persona, ella era pure alquanto mali23 ziosetta. La quale la donna chiamò a sé e dissele: «Ciutazza, se tu mi vuoi fare un servigio stanotte, io ti donerò una bella camicia nuova».
La Ciutazza, udendo ricordar la camicia, disse:
24
«Madonna, se voi mi date una camicia, io mi gitterò nel
fuoco, non che altro».
25
«Or ben,» disse la donna «io voglio che tu giaccia
stanotte con uno uomo entro il letto mio, e che
tu gli faccia carezze, e guarditi ben di non far 27
motto, sì che tu non fossi sentita da’ fratei miei, ché sai
che ti dormono allato; e poscia io ti darò la camicia».
26
La Ciutazza disse: «Sì dormirò io con sei, non che
con uno, se bisognerà».
Venuta adunque la sera, messer lo ploposto41 venne,
27
come ordinato gli era stato, e i due giovani, come la
donna composto42 avea, erano nella camera loro e facevansi ben sentire; per che il proposto, tacitamente e al
buio nella camera della donna entratosene, se n’andò,
come ella gli disse, al letto, e dall’altra parte la Ciutazza,
28 ben dalla donna informata di ciò che a far avesse. Messer lo proposto, credendosi aver la donna sua allato, si
recò in braccio la Ciutazza, e cominciolla a baciar senza
dir parola, e la Ciutazza lui; e cominciossi il proposto a
40 Altra sghignazzante serie di quattro endecasillabi divisi a
due a due da un lento settenario (e i l s u o n o m e e r a
C i u t ’ e ), conclusa da un sonante peggiorativo. «II nome almeno
è bello si che basta» (M.); ed è forse usato con valore antonomastico dal Sacchetti nella sua frottola burlesca, CLIX 326 (C i u t a è
diminutivo di Bencivenuta). Per simili desinenze caricaturali cfr.
VIII 2,9 n.
41 Metaplasmo vernacolare e rusticano usato qui – e più avanti (28,32) caricaturalmente.
42 combinato, fissato: III 8,36 n.; V 5,13 n.
Letteratura italiana Einaudi 1084
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
sollazzar con lei, la possession pigliando de’ beni lungamente disiderati43.
29
Quando la donna ebbe questo fatto, impose a’ fratelli che facessero il rimanente di ciò che ordinato era; li
quali, chetamente della camera usciti, n’andarono verso
la piazza, e fu lor la fortuna in quello che far volevano
più favorevole che essi medesimi non dimandavano44;
per ciò che, essendo il caldo grande45, aveva domandato
il vescovo46 di questi due giovani, per andarsi infino a
30 casa lor diportando47 e ber con loro. Ma come venir gli
vide, così detto loro il suo disidero, con loro si mise in
via, e in una lor corticella fresca entrato, dove molti
lumi accesi erano, con gran piacer bevve d’un loro
buon vino48.
31
E avendo bevuto, dissono i giovani: «Messer, poi
che tanta di grazia n’avete fatto, che degnato siete di visitar questa nostra piccola casetta49, alla quale noi venavamo50 ad invitarvi, noi vogliam che vi piaccia di voler
vedere una cosetta che noi vi vogliam mostrare».
43 «Tutto ’l danno non fu della Ciutazza, anzi ebbe la buona
notte» (M.).
44 Frase che ritorna con minime varianti spesso in queste novelle di intrigo (II 4,10; II 5,38; VIII 3,50 ecc.).
45 Posizione eccezionale dell’articolo, consueta in frasi simili
(II 10,11 n.).
46 Nonostante le varie ricerche e ipotesi del Manni non è possibile dare alcun profilo storico a questa figura. Troppo vaga è
l’indicazione e troppi i Vescovi di Fiesole negli anni in cui può essere immaginata l’azione: fra i quali è anche la figura gagliarda e
arguta di quell’Antonio d’Orso di cui già nella VI 3 (cfr. 6 n.), e
che passato a Firenze pubblicò costituzioni «ad reformationem
cleri».
47 passeggiando per svago: V intr., 2: e per la costruzione del
gerundio dipendente da andare cfr. V 3,12 n.
48 Limpida freschezza, in quel caldo grande, che può ricordare la nitidissima scena della novella di Cisti (VI 2).
49 Eco delle parole del centurione evangelico (Matteo 8.8,
Luca 7.6).
50 Cfr. VIII 3,58 n.
Letteratura italiana Einaudi
1085
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
Il vescovo rispose che volentieri; per che l’un de’
giovani, preso un torchietto51 acceso in mano e messosi
innanzi, seguitandolo il vescovo e tutti gli altri, si dirizzò verso la camera dove messer lo proposto giaceva
con la Ciutazza. Il quale, per giugner tosto, s’era affrettato di cavalcare52, ed era, avanti che costor quivi venissero, cavalcato già delle miglia più di tre 53; per che
istanchetto, avendo, non ostante il caldo, la Ciutazza in
33 braccio, si riposava. Entrato adunque con lume in mano
il giovane nella camera, e il vescovo appresso e poi tutti
gli altri, gli fu mostrato il proposto con la Ciutazza in
34 braccio54. In questo55 destatosi messer lo proposto, e
veduto il lume e questa gente da tornosi56, vergognandosi forte e temendo, mise il capo sotto i panni57. Al
quale il vescovo disse una gran villania, e fecegli trarre il
35 capo fuori e vedere con cui giaciuto era. Il proposto,
conosciuto lo ’nganno della donna, sì per quello e sì per
lo vituperio che aver gli parea, subito divenne il più doloroso58 uomo che fosse mai; e per comandamento del
vescovo rivestitosi, a patir gran penitenza del peccato
commesso con buona guardia ne fu mandato alla casa59.
Volle il vescovo appresso sapere come questo fosse avvenuto, che egli quivi con la Ciutazza fosse a giacere an-
32
51
52
piccola torcia: III 2,12 n.
«O pur ben dich’io, tutto il mal non fu della Ciutazza»
(M.).
53
Nel solito senso equivoco (III 6,37 n.; V 4,48; VIII 7,102).
Una scena che può ricordare quella centrale della V 6: ma
soprattutto, per il simile senso grottesco – cui forse non fu insensibile l’Ariosto della novella di Giocondo – quella finale della IX 2
o l’inizio del XIX dell’Amorosa Visione.
55 In questo frattempo.
56 dattorno a sé. Non raro il pronome personale enclitico con
preposizione o avverbio: Sacchetti, LXXXVII: «allatogli».
57 le coperte: cfr. VI 18,8.
58 dolente: II 5,55 n.; VIII 7,21: e cfr. anche simili frasi esclamative a II 10,14; IV 9,23; IV 10,16; V 1,38.
59 casa sua.
54
Letteratura italiana Einaudi 1086
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
dato. I giovani gli dissero ordinatamente ogni cosa. Il
che il vescovo udito, commendò molto la donna e i giovani altressì, che, senza volersi del sangue de’ preti imbrattar le mani60, lui sì come egli era degno avean trattato.
37
Questo peccato gli fece il vescovo piagnere quaranta
dì, ma amore e isdegno gliele fecero piagnere più di
quarantanove61, senza che, poi ad un gran tempo62, egli
non poteva mai andar per via che egli non fosse da’ fanciulli mostrato a dito, li quali dicevano: «Vedi colui che
giacque con la Ciutazza»; il che gli era sì gran noia, che
egli ne fu quasi in su lo ’mpazzare. E in così fatta guisa
la valente donna si tolse da dosso la noia dello
impronto63 proposto; e la Ciutazza guadagnò la camiscia64. –
36
60
Cfr. II 6,39 n.; IV 1,3 n.
Non un numero preciso, ma una ripresa scherzosa del precedente «quaranta»: il n o v e è forse aggiunto per suggestione biblica o semplicemente per accentuazione scherzosa.
62 senza dire che poi per lungo tempo.
63 importuno, petulante, sfacciato: cfr. p r o n t e z z a al 9 n. e
Pulci, Morgante, XVIII 130.
64 «E la buona notte» (M).
61
Letteratura italiana Einaudi
1087
NOVELLA QUINTA
1
Tre giovani traggono le brache a un giudice marchigiano in Firenze, mentre che egli, essendo al banco, teneva ragione1.
2
Fatto aveva Emilia fine al suo ragionamento2, essendo stata la vedova donna commendata da tutti, quando
la reina, a Filostrato guardando, disse: – A te viene ora
il dover dire. – Per la qual cosa egli prestamente rispose
sé essere apparecchiato, e cominciò:
– Dilettose donne, il giovane che Elissa poco avanti
nominò, cioè Maso del Saggio3, mi farà lasciare stare
una novella la quale io di dire intendeva, per dirne una
di lui e d’alcuni suoi compagni, la quale ancora che disonesta non sia, per ciò che vocaboli in essa s’usano che
voi d’usar vi vergognate4, nondimeno è ella tanto da ridere, che io la pur dirò.
3
1
sedendo in tribunale, al banco dei giudici, amministrava la
giustizia. Nessun vero antecedente per questa novella di carattere
tipicamente fiorentino: ma non dovevano esser rare simili burle a
giudici forestieri (cfr. per es. Sacchetti, XLII, CXXVII, CXXXIX,
CXLV, CLXIII; e anche De vulgari eloquentia, I XI 3 e nota del
Marigo). Per possibili riferimenti popolareschi cfr. Thompson, K
1285, p. 421; per il tema, diffuso nel Medioevo, delle «brache»,
IX 2,1 n.; per il ridiculum della nudità involontaria prediletto nel
Medioevo cfr. F. R. CURTIUS, op. cit., pp. 533 sg. (prendeva le
mosse spesso dal versetto di Geremia XIII 26 «nudavi femora tua
contra faciem tuam et apparuit ignominia tua»). Anche un fabliau
di Jean de Boves (Recueil cit., IV 97) narra di una gara di bravura
tra ladri in cui uno riesce a sfilare le brache ad un altro.
2
Purg., XVIII 1 sg.: «Posto avea fine al suo ragionamento |
l’alto dottore»; e cfr. VII 5,2 n.
3
3 Cfr, VIII 3,5 n.
4
e sebbene questa novella non sia sconveniente per quanto
siano usati in essa termini che voi avete vergogna di usare. Per ciò
che è concessivo, analogamente a perché (cfr. II 5,31 n.; III 1,24
n.). Non lo comprende il Mannelli che chiosa: «quel non v’è troppo». Si potrebbe però anche intendere p e r c i ò c h e per il fatto
Letteratura italiana Einaudi 1088
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
4
5
6
Come voi tutte potete avere udito, nella nostra città
vengono molto spesso rettori marchigiani5, li quali generalmente sono uomini di povero cuore e di vita tanto
strema6 e tanto misera, che altro non pare ogni lor fatto
che una pidocchieria; e per questa loro innata miseria e
avarizia, menan seco e giudici e notari7 che paion uomini levati più tosto dallo aratro o tratti dalla calzoleria,
che delle8 scuole delle leggi. Ora, essendovene9 venuto
uno per podestà, tra gli altri molti giudici che seco
menò, ne menò uno il quale si facea chiamare messer
Niccola da San Lepidio10, il qual pareva più tosto un
magnano11 che altro a vedere, e fu posto costui tra gli
altri giudici ad udire le quistion criminali12. E come
che. Già i Deputati del resto: «ella non è disonesta, ma dubitò Filostrato ch’ella non fusse tale, o almanco dovesse parere, per alcune parole che mal volentieri nei ragionamenti di costumate persone si trasmettono»; o forse «ci è lasciata qualche parte che facilmente si sottintende, come sarebbe se si intendesse innanzi: ella
può parere, perciò che vocaboli ecc.; ovver dopo perciocché vocaboli
in essa s’usano, non si dovrebbe forse raccontare, nondimeno ecc.»
(XCVIII).
5
Effettivamente molti podestà marchigiani registrano in quel
periodo i Prioristi fiorentini e altri documenti del tempo (specialmente durante il vescovato di Francesco de’ Silvestri da Cingoli); e
della goffaggine di uno di essi parla anche il Sacchetti (CXXVII).
6
di animo gretto, misero e di vita tanto ristretta, pitocca (V
9,31 n.): e cfr. VI 7,9: «di gran cuore era»; I 9,5: «era di si rimessa
vita»; IV 7,6: «non fu ... di sì povero animo».
7
Cioè la «famiglia» di vari funzionari che i podestà conducevano seco per il disbrigo delle loro funzioni.
8
Per il frequente uso nel D. di di invece che da, specialmente coi participi passati, cfr. I 6,2 n.; VIII 3,56 n.
9
A Firenze.
10 Non figura, a quanto mi risulta, in nessun documento: è ricordato, per questa novella, dal Sacchetti, XLIX. San Lepidio o
San Lupidio è in provincia di Ascoli, l’attuale Sant’Elpidio a
Mare: proprio il frate marchigiano Antonio da San Lupidio volgarizzerà il De mulieribus del B. E per l’espressione si facea chiamare
aveva nome cfr. VIII 2,8 n.
11 fabbro.
12 dirigere i processi penali: secondo la classica divisione dei
Letteratura italiana Einaudi
1089
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
7
8
spesso avviene che, bene che i cittadini non abbiano a
fare cosa del mondo a palagio13, pur talvolta vi vanno,
avvenne che Maso del Saggio una mattina, cercando
d’un suo amico, v’andò; e venutogli guardato là dove
questo messer Niccola sedeva, parendogli che fosse un
nuovo uccellone 14, tutto il venne considerando. E,
come che egli gli vedesse il vaio tutto affumicato 15 in
capo e un pennaiuolo16 a cintola, e più lunga la gonnella che la guarnacca17, e assai altre cose tutte strane da18
ordinato e costumato uomo19. Tra queste una, ch’è più
notabile che alcuna dell’altre, al parer suo, ne gli vide, e
ciò fu un paio di brache, le quali, sedendo egli e i panni
per istrettezza standogli aperti dinanzi, vide che il
fondo loro in fino a mezza gamba gli agiugnea20.
Per che, senza star troppo a guardarle, lasciato quelgiudici nel comune fiorentino (civili e criminali).
13 Quello del podestà, per antonomasia (per es. II 1,22 n.; IV
6,32 n.).
14 strano, buffo babbeo: da essere uccellato, beffato: cfr. Canti
carnascialeschi cit., glossario.
15 Di vaio (una varietà di scoiattolo bianco e grigio) portavano
foderata la berretta giudici e medici (VIII 9,4): quello di Niccola
era divenuto nero di untume e sudiciume (VI 10,21).
16 Scatola con penna e calamaio che giudici, notai ecc. portavano alla cintola: VII 8,46 n.; Sacchetti, CLIII.
17 Sopravveste larga e lunga da indossarsi sopra la gonnella
cioè la veste: cfr. II 9,28 n. e II 5,68 n. (e per tutto questo abbigliamento misero e ridevele cfr. Merkel).
18 disadatte, sconvenienti a: Tesoro, III 443: «questa virtù non
crede che alcuna cosa umana sia strana da lei».
19 uomo educato e dabbene. Une serie di tre endecasillabi divisi da un quinario sottolinea anche questo ritratto burlesco (cfr.
VIII 4,21 n.).
20 giungeva, arrivava. Uno dei tipici anacoluti del B. (I 3,II n.);
quel l e q u a l i , anticipato e sospeso, fissa meglio l’attenzione
sull’oggetto che colpisce la fantasia canzonatoria di Maso. Non
capi il Mannelli: «Quel l e q u a l i v’è troppo e vorrebe dire delle
quali e poi non vi fosse quel nome lo r o». E per queste ridevoli e
sconce fogge di vestire cfr. Esposizioni, V all. 31 sgg.; Sacchetti,
CLXV.
Letteratura italiana Einaudi 1090
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
lo che andava cercando, incominciò a far cerca nuova, e
trovò due suoi compagni, de’quali l’uno aveva nome
Ribi e l’altro Matteuzzo21, uomini ciascun di loro non
meno sollazzevoli che Maso, e disse loro: «Se vi cal di
me22, venite meco infino a Palagio, ché io vi voglio mostrare il più nuovo squasimodeo23 che voi vedeste mai».
E con loro andatosene in Palagio, mostrò loro que9
sto giudice e le brache sue. Costoro dalla lungi cominciarono a ridere di questo fatto, e fattisi più vicini alle
panche sopra le quali messer lo giudice stava, vider che
sotto quelle panche molto leggiermente24 si poteva andare, e oltre a ciò videro rotta l’asse sopra la quale messer lo giudicio25 teneva i piedi, tanto che a grand’agio vi
si poteva mettere la mano e ’l braccio.
E allora Maso disse a’ compagni: «Io voglio che noi
10
gli traiamo quelle brache del tutto, per ciò che si può
troppo bene».
11
Aveva già ciascun de’ compagni veduto come: per
che, fra sè ordinato che dovessero fare e dire, la seguen21 «Ridi buffone ... fu piacevolissimo; e fu fiorentino, e molto
si ridusse, come fanno li suoi pari, nelle Corte de’ signori lombardi
e romagnuoli, perché con loro facea bene i fatti suoi, ché dava parole, e riceveva robe e vestimenti; e quando venia in Firenze, non
guadagnando, ricorrea alcuna volta alle nozze, dove pur alcuna
cosa leccava». Così il Sacchetti nella XLIX narrando proprio di
due risposte burlesche a famigli del podestà e a giudici (altri motti
suoi anche nella L). Nessuna notizia di Matteuzzo: probabilmente
anch’egli buffone, della razza di Martellino, Stecchi e Marchese (II
1). R i b i potrebbe essere ipocoristico da Garibaldo, Ribaldo, Riberto.
22 Se mi volete bene, Se mi volete lare un piacere: IX 4,17.
23 minchione, babbeo: Sacchetti, CLXV: «... uno giudice che
parca il più nuovo squasimodeo», e CXCII; Rime, CLIX 125; Pataffio, I 1: cfr. F. AGENO, Riboboli ecc., in «Studi di Filologia
Italiana», x, 1952, p. 442. L’espressione significava spasimo di Dio.
Per il sintagma a palagio cfr. VIII 2,14 n.
24 facilmente.
25 Metaplasmo di declinazione, di carattere popolare, con evidente senso beffardo.
Letteratura italiana Einaudi
1091
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
12
13
14
te mattina vi ritornarono; ed essendo la corte molto
piena d’uomini, Matteuzzo, che persona non se ne avvide26, entrò sotto il banco e andossene appunto sotto il
luogo dove il giudice teneva i piedi. Maso dall’un de’lati
accostatosi a messer lo giudice, il prese per lo lembo
della guarnacca, e Ribi accostatosi dall’altro e fatto il simigliante, incominciò Maso a dire: «Messer27, o messere; io vi priego per Dio, che, innanzi che cotesto ladroncello, che v’è costì dallato, vada altrove, che 28 voi mi
facciate rendere un mio paio d’uose29 le quali egli m’ha
imbolate30, e dice pur di no, e io il vidi, non è ancora un
mese, che le faceva risolare».
Ribi dall’altra parte gridava forte: «Messere, non gli
credete, ché egli è un ghiottoncello31, e perché egli sa
che io son venuto a richiamarmi di lui d’una32 valigia la
quale egli m’ha imbolata, ed egli è testè venuto e dice
dell’uose, che io m’aveva in casa infin vie l’altrieri33. E
se voi non mi credeste, io vi posso dare per testimonia34
la trecca mia da lato35, e la Grassa ventraiuola36, e un
che va raccogliendo la spazzatura da Santa Maria a Verzaia37, che ’l vide quando egli tornava di villa38».
Maso d’altra parte non lasciava dire a Ribi, anzi gri-
26
senza che nessuno se ne avvedesse.
Titolo che spettava di diritto ai giudici.
28 Solita ripetizione di che dopo incidentale.
29 Calzature simili agli stivali.
30 rubate. Solita forma: I 1,14 n.
31 furfantello, bricconcello: IV 2,56 n.
32 a citarlo in giudizio per una: I 9,5 n.
33 da gran tempo. «L’altrieri vale per se stesso giorni fa: e aggiuntavi la particella moltiplicativa vie gli dà valore di un tempo
assai lungo» (Fanfani), Cfr. III 3,23 n.
34 Forma non rara: VIII 7,104 n.; e anche Intr., 56 n.
35 la fruttivendola mia vicina, che abita accanto a me.
36 trippaia.
37 Chiesa a Porta San Frediano.
38 dalla campagna.
27
Letteratura italiana Einaudi 1092
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
dava, e Ribi gridava ancora. E mentre che il giudice
stava ritto e loro più vicino per intendergli meglio, Matteuzzo, preso tempo 39 , mise la mano per lo rotto
dell’asse, e pigliò il fondo delle brache del giudice, e
tirò giù forte. Le brache ne venner giuso incontanente,
15 per ciò che il giudice era magro e sgroppato40. Il quale,
questo fatto sentendo e non sappiendo che ciò si fosse,
volendosi tirare i panni dinanzi e ricoprirsi e porsi a sedere, Maso dall’un lato e Ribi dall’altro pur tenendolo e
16 gridando forte: «Messer, voi fate villania a non farmi ragione, e non volermi udire, e volervene andare altrove;
di così piccola cosa, come questa è, non si dà libello in
questa terra41»; e42 tanto in queste parole il tennero per
li panni, che quanti nella corte43 n’erano s’accorsero essergli state tratte le brache. Ma Matteuzzo, poi che alquanto tenute l’ebbe, lasciatele, se n’uscì fuori e andossene senza esser veduto.
Ribi, parendogli di aver assai fatto, disse: «Io fo
17
boto a Dio d’aiutarmene al sindacato44!».
39
colto il momento opportuno: II 5,78 n.
senza fianchi (groppe: IX 10,18 n.). II termine è usato per i
cavalli: qui caricatureggia efficacemente la figura del giudice
magro e sfiancato come una vecchia rozza.
41 a non si presentano atti scritti, non si tratta per via di scritture in questa città: cfr. Sacchetti, CXLV: G. SALVIOLI, Storia della
procura civile e criminale, Bologna 1898, II, p. 350. È espressione
di tecnica giudiziaria.
42 ecco che: solito valore della congiunzione in ripresa: cfr. I
1,39 n.
43 tribunale.
44 di rifarmene al momento del sindacato, cioè del rendiconto
che del proprio operato i giudici, come tutti i magistrati del Comune fiorentino, dove vano fare al termine del loro ufficio, a
norma degli Ordinamenti (Rubricario del 1344, rubr. 32); e ai
«sindacatori» i cittadini potevano presentare i loro ricorsi. Cfr.
Compagni, I 14 e 19 e l’ampia nota di I. DEL LUNGO, in RR.
II.SS.2, IX 2, p. 41. È un’altra espressione tecnico-amministrativa.
40
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
18
19
20
E Maso dall’altra parte, lasciatagli la guarnacca
disse: «No, io ci pur verrò45 tante volte, che io vi troverrò così impacciato46 come voi siete paruto stamane
«; e l’uno in qua e l’altro in là, come più tosto poterono,
si partirono.
Messer lo giudice, tirate in su le brache in presenza
d’ogni uomo, come se da dormir si levasse accorgendosi
pure allora del fatto, domandò dove fossero andati quegli che dell’uose e della valigia avevan quistione; ma,
non ritrovandosi, cominciò a giurare per le budella di
Dio47 che e’ gli conveniva48 cognoscere e saper se egli
s’usava a Firenze di trarre le brache a’ giudici, quando
sedevano al banco della ragione49. Il podestà d’altra
parte, sentitolo, fece un grande schiamazzio; poi per
suoi amici mostratogli50 che questo non gli era fatto se
non per mostrargli che i fiorentini conoscevano che,
dove egli doveva aver menati giudici, egli aveva menati
becconi51 per averne miglior mercato52, per lo miglior si
tacque53, né più avanti andò la cosa per quella volta.
45
tornerò qui ancora.
occupato o preoccupato, frastornato: cfr. V 9,15 n.
47 Modo di giurare o imprecare simile a quello più frequente
nel D., «per lo corpo di Cristo», e usato anche dal giudice del Sacchetti (XLIX).
48 che gli piaceva, o meglio gli sarebbe piaciuto.
49 giustizia. Proteste e imprecazioni riprese dal giudice Presentato dal Sacchetti (XLIX): e cfr. sommario. È l’ultima nota di
quell’espressivismo linguistico, basato sul linguaggio giuridico,
estraniato per contrasto, che caratterizza tutta la novella (cfr. Introduzione a questa edizione, pp. XXVIII sg.).
50 essendogli stato dimostrato.
51 bestioni: VIII 3,57 n.
52 perché gli costavano meno, perché ci risparmiava: VIII 2,35 n.
53 ritenne cosa migliore tacere.
46
Letteratura italiana Einaudi 1094
NOVELLA SESTA
1
Bruno e Buffalmacco imbolano1 un porco a Calandrino; fannogli fare la sperienzia da ritrovarlo2 con galle di gengiovo3 e
con vernaccia, e a lui ne danno due, l’una dopo l’altra, di quelle del cane confettate in aloè4, e pare che l’abbia avuto egli
stesso: fannolo ricomperare5, se egli non vuole che alla moglie
il dicano6.
2
Non ebbe prima la novella di Filostrato fine, della
quale molto si rise, che la reina a Filomena impose che
seguitando dicesse; la quale incominciò:
– Graziose donne, come Filostrato fu dal nome di
Maso tirato a dover dire la novella la quale da lui udita
avete, così né più né men son tirata io da quello di Calandrino e de’ compagni suoi a dirne un’altra di loro, la
qual, sì come io credo, vi piacerà.
Chi Calandrino, Bruno e Buffalmacco fossero non
bisogna che io vi mostri, ché assai l’avete di sopra udito;
3
4
1
rubano: cfr. I 1,14 n.
l’esperimento, il sortilegio per ritrovarlo.
pallottole di zenzero: cfr. 35; e per la sperienza: 32 sgg. e nn.
4
di quelle di zenzero del cane preparate in aloè: cfr. 39 n.
5
riscattare, pagar la taglia: secondo un senso assai comune
già notato a I,35 n.; e cfr. X 9,52 n.
6
Nessun antecedente è stato trovato per questa novella appartenente, come la VIII 3, al caratteristico nucleo di aneddotica
municipale (e come tale riferita dal BALDINUCCI, op. cit.). Gli
accostamenti a spunti della narrativa orientale (Pantschatantra, ed.
Benfey cit., I, pp. 356 sgg.) o occidentale (BÉDIER, Fabliaux, pp.
448 sgg.) hanno valore più che generico; e così quelli a temi popolareschi in generale posteriori o addirittura a imitazioni, dal Bracciolini al D’Annunzio (cfr. Aarne, 1792; Thompson e Rotunda, K
343.2 sgg., 401; J 2318). Tuttavia un vago raffronto può essere stabilito con un episodio del Roman de Renart (XV). Cfr. 32 sgg. e
no. anche per la tradizione dell’esperienza che sta al centro della
novella.
2
3
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
5
6
7
e per ciò, più avanti faccendomi7, dico8 che Calandrino
aveva un suo poderetto non guari lontano da Firenze,
che in dote aveva avuto della moglie, del quale tra
l’altre cose che su vi ricoglieva9, n’aveva ogn’anno un
porco, ed era sua usanza sempre colà di dicembre 10
d’andarsene la moglie ed egli in villa, e ucciderlo e quivi
farlo salare.
Ora avvenne una volta tra l’altre che, non essendo la
moglie ben sana, Calandrino andò egli solo ad uccidere
il porco; la qual cosa sentendo Bruno e Buffalmacco, e
sappiendo che la moglie di lui non v’andava, se n’andarono ad un prete loro grandissimo amico, vicino di Calandrino, a starsi con lui alcun dì. Aveva Calandrino, la
mattina che costor giunsero il dì11, ucciso il porco, e vedendogli col prete, gli chiamò e disse: «Voi siate i ben
venuti. Io voglio che voi veggiate che massaio 12 io
sono«; e menatigli in casa, mostrò loro questo porco.
Videro costoro il porco esser bellissimo, e da Calandrino intesero che per la famiglia sua il voleva salare. A
cui Brun disse: «Deh! come tu se’ grosso13! Vendilo, e
godianci14 i denari; e a mogliata15 dì che ti sia stato imbolato».
7
proseguendo il mio dire, inoltrandomi nel narrare.
Inizio di narrazione su di un’agile sequenza di quattro endecasillabi (elidendo: udit’e). Per i tre protagonisti cfr. VIII 3,4 nn.
9
ne ricavava, ne ritraeva: VI 10,10 n.
10 verso dicembre: cfr. VIII 9,86: «colà un poco dopo l’avemaria»; Petrarca, CCXXXIX 1: «Là ver’ l’aurora».
11 la mattina stessa del giorno in cui giunsero: di contrapposto
a mattina accenna a giorno avanzato: VI 5,11 n.
12 amministratore: V 9,43 n.
13 sciocco: III 3,8 n.
14 Riflessivo transitivo come al 12: Cfr. F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, p. 144.
15 tua moglie: con la enclisi popolaresca del possessivo, solita
in simili casi nel toscano: cfr. qui 27 «mogliema» e 28; V 5,17 n.;
VIII 7,35: «fratelmo». Cfr. Rohlfs, 430.
8
Letteratura italiana Einaudi 1096
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
Calandrin disse: «No, ella nol crederrebbe, e caccerebbemi16 fuor di casa; non v’impacciate17, ché io nol
farei mai».
Le parole furono assai, ma niente montarono18. Calandrino gl’invitò a cena cotale alla trista19, sì che costoro non vi vollon cenare, e partirsi da lui.
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Disse Bruno a Buffalmacco: «Vogliangli noi imbolare stanotte quel porco?»
10
Disse Buffalmacco: «O come potremmo noi?»
Disse Bruno: «Il come ho io ben veduto, se egli nol
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muta20 di là ove egli era testé».
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«Adunque,» disse Buffalmacco «faccianlo; perché
nol faremo noi? E poscia cel goderemo qui insieme col
domine21».
Il prete disse che gli era molto caro. Disse allora
13
Bruno: «Qui si vuole usare un poco d’arte22. Tu sai,
Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come egli bee
volentieri quando altri paga; andiamo e menianlo23 alla
taverna, e quivi il prete faccia vista di pagare tutto per
onorarci e non lasci pagare a lui nulla; egli si
ciurmerà24, e verracci troppo ben fatto 25 poi, per ciò
8
16 Forma popolaresca e contadinesca, analoga ad altre attribuite a Calandrino (cfr. VIII 3,31 n.). A meno di pensare a una
terza plurale con assimilazione (caccerebbonmi), accordata a senso
con un soggetto sottinteso, come «i miei familiari».
17 non intromettetevi, non prendetevi questa briga: V 5,39 n.
18 non giovarono, non conclusero nulla. Espressione solita: cfr.
per es. II 9,21 n.; III 9,34; IV 6,32; IX 4,15 ecc.
19 così di malavoglia, senza cordialità. C o t a le ha valore di avverbio: II 3,2 n.
20 non lo toglie, per metterlo in un altro luogo: cfr. III 7,10 n.
21 col prete (da «domine» è venuto «donno» e poi «don»):
Pulci, Morgante, III 36.
22 Purg., X 10: «Qui si conviene usare un poco d’arte».
23 Meniamolo.
24 si ubriacherà, «C i u r m a r e ... vuol dire propriamente trar
di senno alcuno con una bevanda magica; poi, per metafora, si
dice degli effetti del vino» (Fornaciari). Cfr. Sacchetti, CCXXIX.
25 ci riuscirà benissimo: cfr. VI 9,9 n.
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che egli è solo in casa». Come Brun disse, così fecero.
Calandrino, veggendo che il prete nol lasciava pagare, si
diede in sul bere26, e benché non ne gli bisognasse troppo, pur si caricò bene27; ed essendo già buona ora di
notte28 quando dalla taverna si partì, senza volere altramenti cenare29, se n’entrò in casa, e credendosi aver serrato l’uscio, il lasciò aperto e andossi al letto. Buffalmacco e Bruno se n’andarono a cenare col prete, e,
come cenato ebbero, presi loro argomenti30 per entrare
in casa Calandrino31 là onde Bruno aveva divisato32, là
chetamente n’andarono; ma, trovando aperto l’uscio,
entrarono dentro, e ispiccato il porco, via a casa del
prete nel portarono, e ripostolo, se n’andarono a dormire.
Calandrino, essendogli il vino uscito del capo, si
levò la mattina, e, come scese giù, guardò e non vide il
porco suo, e vide l’uscio aperto; per che, domandato
questo e quell’altro se sapessero chi il porco s’avesse
avuto, e non trovandolo, incominciò a fare il romore
grande33: oisé34!, dolente sé, che il porco gli era stato
imbolato. Bruno e Buffalmacco levatisi, se n’andarono
verso Calandrino, per udir ciò che egli del porco dicesse. Il qual, come gli vide, quasi piagnendo chiamatigli,
26
si mise a bere: e cfr. VII concl., 8 n.
Cioè: benché non reggesse il vino pure ne bevve assai.
28 notte avanzata.
29 Tre endecasillabi di seguito segnano il momento fatale per
Calandrino.
30 ordigni, arnesi: cfr. Intr., 13 n. e Purg., II 31.
31 in casa di Calandrino, con la solita omissione di di: cfr. II
5,50 n.
32 dalla parte, dal luogo che Bruno aveva pensato.
33 Espressione solita in questi casi: IV 7,15 n.
34 È modellato su oimè. Forme simili (e anche «oité», «oitú»)
non erano rare: cfr. per es. Tristano Riccardiano cit., p. 55: «incominciassi a chiamare oissé e lasso tapino»; Dialoghi di San Gregorio (T.): «oité, domino, che non ne dovete avere più de’ vescovi».
Qui danno comico colorito al discorso indiretto.
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disse: «Oimè, compagni miei, che il porco mio m’è
stato imbolato».
Bruno, accostatoglisi, pianamente35 gli disse: «Maraviglia, che se’ stato savio una volta36».
«Oimè» disse Calandrino «ché io dico da dovero».
«Così di’,» diceva Bruno «grida forte sì, che paia
bene che sia stato cosi».
Calandrino gridava allora più forte e diceva: «Al
corpo di Dio37, che io dico da dovero che egli m’è stato
imbolato».
E Brun diceva: «Ben di’, ben di’: e’si vuol ben dir
così, grida forte fatti ben sentire, sì che egli paia vero».
Disse Calandrino: «Tu mi faresti dar l’anima al nemico38: io dico che tu non mi credi, se io non sia impiccato per la gola, che egli m’è stato imbolato39».
Disse allora Bruno: «Deh! come dee potere esser
questo? Io il vidi pure ieri costì. Credimi tu far credere
che egli sia volato40»?
Disse Calandrino: «Egli è come io ti dico».
«Deh!» disse Bruno «può egli essere?»
«Per certo,» disse Calandrino «egli è così, di che io
son diserto41 e non so come io mi torni a casa: moglie-
35
sottovoce, con aria di complicità: VIII 9,96 n.
Strano che per una volta sei stato turbo. Una serie di endecasillabi e settenari, conclusa da un quinario (O i m è … u n a
v o l t a ) sottolinea questo momento culminante dell’azione.
37 Solita esclamazione o forma di giuramento per cui cfr. VII
6,18 n.
38 al diavolo: cioè: mi faresti dannare.
39 così io vada libero dall’essere appiccato, come è vero che il
porco mi è stato rubato: il che viene a dire: se non mi è stato imbolato che io possa essere appiccato (Fanfani).
40 Per il bisticcio solito cfr. VI 5,14-15 n.: e nota in volato
l’eco beffarda del precedente in volato l’eco beffarda del precedente imbolato.
41 rovinato: II 4,7 n. e VIII 3,52 (proprio sulle labbra di Calandrino).
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ma nol mi crederà, e se ella il mi pur crede42, io non
avrò uguanno43 pace con lei».
Disse allora Bruno: «Se Dio mi salvi, questo è mal
fatto, se vero è; ma tu sai, Calandrino, che ieri io t’insegnai dir così: io non vorrei che tu ad un’ora44 ti facessi
beffe di moglieta e di noi».
Calandrino incominciò a gridare e a dire: «Deh perché mi farete disperare e bestemmiare Iddio e’ santi e
ciò che v’è45? Io vi dico che il porco m’è stato sta notte
imbolato».
Disse allora Buffalmacco: «Se egli è pur così, vuolsi
veder via, se noi sappiamo, di riaverlo».
«E che via» disse Calandrino «potrem noi trovare?»
Disse allora Buffalmacco: «Per certo egli non c’è venuto d’India46 niuno a torti il porco; alcuno di questi
tuoi vicini dee essere stato; e per ciò, se tu gli potessi ragunare, io so fare la esperienza del pane e del
formaggio47e vederemmo di botto48 chi l’ha avuto».
42 «II B. si diletta, seguendo un antico uso provenzale, di posporre immediatamente la particella pure ai monosillabi mi, ti, si,
ci, ecc.» (Fornaciari).
43 quest’anno letteralmente, e quindi mai piú: cfr. IV 10,44 n.
44 a un tempo, insieme.
45 ogni cosa, tutto quello che esiste: VIII 7,24 C 52 nn.
46 Nominata come paese di favolosa lontananza, ai confini del
mondo: cfr. VI 10,42 n.; VIII 7,50.
47 Era un sortilegio, un incantesimo assai diffuso e che aveva
assunto quasi forme di rito: il Martène (De antiquis Ecclesiae ritibus, Anversa 1763, II, pp. 334 sgg.) tra le varie prove «ad tegenda
occulta seu dubia crimina» cita «ad furtum inveniendum» proprio
la prova del pane e formaggio: fatti certi segni e data la benedizione su bocconi confezionati con formaggio e pane (d’orzo, in genere), si invitavano i presunti ladri a giurare la loro innocenza; e,
dette speciali orazioni, si davano loro da mangiare quei bocconi
che non potevano esser inghiottiti dal colpevole. Cfr. anche per la
diffusione e il rituale del sortilegio: L. A. Muratori, Antiquitates
italicae, Milano 1738, XXXVIII; G. BOTTARI, Lezioni sopra il D.
cit., II, pp. 177 sgg.; G. AMATI, Ubbie, ciancioni e ciarpe, Bologna
1866, p. 51; T. CASINI, Scongiuro e poesia, in «Archivio per lo
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«Sì,» disse Bruno «ben farai49 con pane e con formaggio a certi gentilotti che ci ha da torno50! ché son
certo che alcun di loro l’ha avuto, e avvederebbesi del
fatto, e non ci vorrebber venire».
«Come è dunque da fare?» disse Buffalmacco.
Rispose Bruno: «Vorrebbesi fare con belle galle di
gengiovo51 e con bella vernaccia, e invitargli a bere. Essi
non sel penserebbono e verrebbono; e così si possono
benedire le galle del gengiovo, come il pane e ‘cacio».
Disse Buffalmacco: «Per certo tu di’ il vero; e tu,
Calandrino, che di’? Vogliallo fare?»
Disse Calandrino: «Anzi ve ne priego io per l’amor
di Dio; ché, se io sapessi pur chi l’ha avuto, sì mi parrebbe esser mezzo consolato». «Or via,» disse Bruno
«io sono acconcio52 d’andare infino a Firenze per quelle
cose in tuo servigio, se tu mi dai i denari».
Aveva Calandrino forse quaranta soldi53, li quali egli
gli diede. Bruno, andatosene a Firenze ad un suo amico
speziale, comperò una libbra di belle galle di gengiovo,
studio delle tradizioni popolari», v, 1886; A. GIANNINI, in
«Fanfulla della Domenica», 27 agosto 1905; GIARDINI, Tradizioni popolari nel D. cit., pp. 78 sgg.
48 di colpo, subito: Inf., XXII 130.
49 Cioè, ironicamente: concluderai molto.
50 signorotti, galantuomini che stanno qui intorno. «Nome che
davasi, non senza qualche intenzione di disprezzo, a gentile o nobile, signore di feudo in contado» (C.); ed è ironico come il precedente ben f arai. Cfr. Merelli, Ricordi, p. 148: «fecionsi matricolare
molti gentilotti»; M. Villani, II 47: «i loro principi e gli altri gentilotti cominciarono a ricettare i malandrini nelle loro tenute».
51 pallottole, pillole di zenzero: cfr. 1 n. Bruno qui burlescamente sostituisce al pane e cacio le galle di zenzero, all’acqua benedetta la vernaccia, se stesso al prete, l’incantagione alla benedizione (cfr. 40). E nota in questa frase la solita oscillazione nell’uso
dell’articolo («belle galle di gengiovo ... le galle del gengiovo») per
cui I 1,87 n.
52 disposto: VIII 7,94 n.
53 Cioè circa un mezzo fiorino, al tempo in cui si immagina
l’azione della novella.
Letteratura italiana Einaudi
1101
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
e fecene far due di quelle del cane54, le quali egli fece
confettare in uno aloè patico fresco55; poscia fece dar
loro le coverte del zucchero56, come avevan l’altre, e per
non ismarrirle o scambiarle, fece lor fare un certo segnaluzzo per lo quale egli molto bene le conoscea, e
comperato un fiasco d’una buona vernaccia, se ne tornò
40 in villa57 a Calandrino e dissegli: «Farai che tu inviti domattina a ber con teco tutti coloro di cui tu hai sospetto; egli è festa, ciascun verrà volentieri, e io farò stanotte insieme con Buffalmacco la ’ncantagione sopra le
galle, e recherolleti domattina a casa, e per tuo amore io
stesso le darò, e farò e dirò ciò che fia da dire e da
fare».
41
Calandrino così fece. Ragunata adunque una buona
brigata tra di giovani fiorentini, che per la villa erano, e
di lavoratori, la mattina vegnente, dinanzi alla chiesa intorno all’olmo58, Bruno e Buffalmacco vennono con
una scatola di galle e col fiasco del vino, e fatti stare co42 storo in cerchio, disse Bruno: «Signori, e’mi vi convien
dir la cagione per che voi siete qui, acciò che, se altro
54 Cioè: due galle di zenzero canino, uno zenzero di meno
pregio, forse da riconoscersi nel pepe d’acqua: Cfr. M. PASTORE
STOCCHI, Altre annotazioni, in «Studi sul B.», VII, 1973.
Nell’articolo (che ha chiarito quest’allusione restata misteriosa
fino allora) si documenta pure il largo uso dei confetti aromatici di
zenzero, presentato anche nei romanzi cortesi come ingrediente di
pozioni magiche.
55 preparare con succo d’aloè (pianta liliacea amarissima) appena spremuto e buono per la cura del legato (patico aferesi di
epatico). Un Antico ricettario fiorentino, citato dalla Crusca, parla
proprio del «secondo aloè ... che è chiamato volgarmente epatico»: e cfr. PASTORE STOCCHI, art. cit.
56 le fece coprire di zucchero, avvolgere nello zucchero: col solito uso della preposizione articolata innanzi a nome di materia preceduto da sostantivo con articolo: cfr. I 1, 87 n.
57 al villaggio: II 3, 24 n.
58 Cfr. VIII 2, 6 n.
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avvenisse che non vi piacesse, voi non v’abbiate a ramaricar di me. A Calandrino, che qui è, fu ier notte tolto
un suo bel porco, né sa trovare chi avuto se l’abbia; e
per ciò che altri che alcun di noi che qui siamo non gliele dee potere aver tolto, esso, per ritrovar chi avuto l’ha,
vi dà a mangiar queste galle una per uno, e bere. E infino da ora sappiate che chi avuto avrà il porco, non
potrà mandar giù la galla, anzi gli parrà più amara che
veleno, e sputeralla59; e per ciò, anzi che questa vergogna gli sia fatta in presenza di tanti, è forse il meglio che
quel cotale che avuto l’avesse, in penitenzia il dica al
sere60, e io mi rimarrò di61 questo fatto».
Ciascun che v’era disse che ne voleva volentier man44
giare; per che Bruno, ordinatigli e messo Calandrino tra
loro, cominciatosi all’un de’capi, cominciò a dare a ciascun la sua, e, come fu per mei62 Calandrino, presa una
delle canine, gliele pose in mano. Calandrino presta45 mente63 la si gittò in bocca e cominciò a masticare; ma
sì tosto come la lingua sentì l’aloè, così Calandrino, non
46 potendo l’amaritudine sostenere, la sputò fuori. Quivi
ciascun guatava nel viso l’uno all’altro, perveder chi la
sua sputasse; e non avendo Bruno ancora compiuto di
darle, non faccendo sembianti d’intendere64 a ciò, s’udì
dir dietro: «Eia65, Calandrino, che vuol dir questo?
«per che prestamente rivolto, e veduto che Calandrino
43
59 II rigettare è prova tradizionale di colpevolezza, fin dal famoso aneddoto della fanciullezza di Esopo: cfr. Rotunda, J
1142.3*.
60 lo dica in confessione al parroco (VIII 2,4 n.): cfr. Passavanti, Specchio, pp. 5, 9 e passim.
61 mi asterrà da, rinuncerò a: III 3,19 n.
62 davanti a, di fronte a: Cfr. V 10,48 n.
63 subito, senza sospetti: cfr. II 7,20 n.
64 badare, porre mente: I 1,17 n.
65 Ehi, Ohe, o simili interiezioni di meraviglia: Sacchetti,
CXLVI: «Eia, questo è pure il più bel frodo che si vedesse mai».
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la sua aveva sputata, disse: «Aspettati66, forse che alcuna altra cosa gliele fece sputare: tenne67 un’altra »; e
presa la seconda, gliele mise in bocca, e fornì68 di dare
l’altre che a dare aveva. Calandrino, se la prima gli era
paruta amara, questa gli parve amarissima69; ma pur
vergognandosi di sputarla, alquanto masticandola la
tenne in bocca, e tenendola cominciò a gittar le lagrime
che parevan nocciuole, sì eran grosse; e ultimamente,
non potendo più, la gittò fuori come la prima aveva
fatto70. Buffalmacco faceva dar bere71 alla brigata, e
Bruno72: li quali, insieme con gli altri questo vedendo,
tutti dissero che per certo Calandrino se l’aveva imbolato egli stesso; e furonvene di quegli che aspramente il ripresono.
Ma pur, poi che partiti si furono, rimasi Bruno e
Buffalmacco con Calandrino, gl’incominciò Buffalmacco a dire: «Io l’aveva per lo certo tuttavia 73 che tu te
l’avevi avuto tu, e a noi volevi mostrare che ti fosse stato
imbolato, per non darci una volta bere de’ denari che tu
n’avesti».
66
Aspetta un po’, Vediamo un poco: VI 4,17 n.; VII 3,34; VIII
7,37.
67
tienine, eccotene: e cfr. X 10,32 n.
compí, fini: I 1,86 n.
69 «È forse il più bell’anacoluto della nostra letteratura» (Momigliano). Non l’avverti il Mannelli quando notò «Melius: a Calandrino».
70 Proprio come nei simili esorcismi e sortilegi riferiti dal
Martène (op. cit., pp. 334 e 339) e dal Bottari (op. cit., pp. 177
sgg.): «guttur sic concludatur ut non glutiat ... constricto gutture
et gula, ... nisi inflato ore cum spuma et gemitu et dolore et lacrimis et faucibus suis constrictis et obligatis hunc cibum emittat»;
«faux eius claudatur, guttur eius stranguletur ... et ante illud eiciatur quam devoretur».
71 Solita omissione della preposizione a o da: II 7,26 n.
72 e così pure Bruno: cfr. IX 3,32 n.
73 Io avevo la certezza sempre.
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Calandrino, il quale ancora non aveva sputata l’amaritudine dello aloè, incominciò a giurare che egli avuto
non l’avea.
52
Disse Buffalmacco: «Ma che n’avesti, sozio, alla
buona fè? avestine sei74?»
53
Calandrino, udendo questo, s’incominciò a disperare. A cui Brun disse: «Intendi sanamente75, Calandrino,
che egli fu tale nella brigata che con noi mangiò e
bevve, che mi disse che tu avevi quinci su una giovinetta che tu tenevi a tua posta76, e davile ciò che tu potevi
rimedire77, e che egli aveva per certo che tu l’avevi mandato questo porco. Tu sì hai apparato ad esser
54 beffardo78! Tu ci menasti una volta giù per lo Mugnone
ricogliendo pietre nere, e quando tu ci avesti messo in
galea senza biscotto79, e tu80; e poscia ci volevi far cre51
74 Ma tu, amico, compare (IX 5,12 n. con valore ironico, come
altra volta frate: III 3,28 n.; VIII 2,26 n.), dimmi la verità, quanto
ne ricavasti? sei fiorini? «II numero sei era dai fiorentini usato per
un prezzo qualunque indeterminato ma grande. P- come dire: hai
dunque trovato da fare buoni affari?» (Fornaciari).
75 Ascoltami bene: III 4,15 n.
76 tu avevi quassù, da queste parti una giovinetta che tenevi a
tua disposizione: cfr. IX 5,8 n. Come questa frase sembra in qualche modo anticipazione della IX .5, così le righe seguenti ricordano la VIII 3.
77 rimediare, raggranellare (forse metatesi dal lat. redimere):
cfr. G. Villani, VI 21: «impegnati i suoi g101elli e vasellamenti, e
più moneta non potea rimedire».
78 Tu hai imparato davvero ad essere un beffatore! (per questo
s i cfr. 55). Il Casa dà questa definizione: «i beffardi, cioè coloro
che si dilettano di far beffe e di uccellare ciascuno, non per ischerzo né per disprezzo, ma per piacevolezza» (Galateo, XIX).
79 Cioè negli impicci, in un’impresa o condizione disperata;
come chi senza provviste (b i s c o t t o è il pane tostato che si portava in navigazione) si imbarcasse per un viaggio in mare. Così il
B., a proposito delle sue lezioni dantesche del 1374, in un sonetto:
«Io ho messo in galea senza biscotto L’ingrato vulgo» (CXXV).
80 allora tu te ne ritornasti a casa: cfr. VIII 3,57.
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dere che tu l’avessi trovata; e ora similmente ti credi co’
tuoi giuramenti far credere altressì che il porco, che tu
hai donato o ver venduto, ti sia stato imbolato. Noi sì
siamo usi delle tue beffe e conoscialle; tu non ce ne potresti far più; e per ciò, a dirti il vero, noi ci abbiamo
durata fatica in far l’arte81, per che noi intendiamo che
tu ci doni due paia di capponi, se non che noi diremo a
monna Tessa ogni cosa».
Calandrino, vedendo che creduto non gli era, parendogli avere assai dolore, non volendo anche il riscaldamento82 della moglie, diede a costoro due paia di
capponi. Li quali, avendo essi salato il porco, portatisene a Firenze, lasciaron Calandrino col danno e con le
beffe.
81 far l’incantesimo: Sacchetti, CXCVI,,: «io farò fare l’arte a
un mio amico»; Tavola ritonda cit., pp. 424, 426 ecc. «La proposizione che logicamente dovrebbe essere causale sospesa (poiché noi
ci abbiamo ecc.) è posta assolutamente come principale, e quindi la
conclusione (n o i i n t e n d i a m o ecc.) le viene unita per mezzo
d’una congiunzione consecutiva (per che): modo rotto di ordinare
i concetti e conforme al parlar famigliare ed all’intenzione di
Bruno, il quale vuole insistere principalmente sull’idea della fatica
durata» (Fornaciari).
82 il rabbuffo, la sgridata: e cfr. III 3,30 n. Nota i tre gerundi
di seguito senza congiunzione alcuna.
Letteratura italiana Einaudi 1106
NOVELLA SETTIMA
1
Uno scolare1 ama una donna vedova, la quale, innamorata d’altrui, una notte di verno il fa stare sopra la neve ad aspettarsi; la
quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un dì la fa stare in su una torre alle mosche e a’ tafani e al sole2.
1
studente: in generale così si chiamava chi frequentava o
aveva frequentato uno Studio, anche senza addottorarsi.
2
Per questa novella – la più lunga del D. – l’antecedente di
Somadeva (I 12), citato dal Landau (p. 104) non è significante: si
tratta di un innamorato che fa esporre nuda in cima ad un tempio
– perché a lui nemica – la madre dell’amata. Piuttosto è opportuno richiamare per la prima parte della novella una lunga tradizione medievale: ché di solenni beffe fatte da donne a filosofi, a poeti
a studiosi – da Aristotile a Virgilio – è piena la letteratura latina e
volgare dell’età di mezzo (cfr. per es. Gesammtabenteuer cit., I pp.
LXXV sgg., III pp. CXXXIX sgg.; D. COMPARETTI, Virgilio
nel medioevo, Firenze 1941, II, specie pp. 106 sgg.; BÉDIER, Fabliaux, pp. 334 sgg.; e per possibili riferimenti antropologici e popolari cfr. J. G. FRAZER, The golden bough, I 3; M. P. GIARDINI, Tradizioni popolari nel D., pp. 73 sgg.; Thompseri, D 1900, K
1211, 1212). Ma in generale si è insistito soprattutto, dal Groto e
dal Sansovino fino ai giorni nostri, a voler riconoscere in questa
novella un episodio autobiografico da mettere in rapporto col Corbaccio: senza accorgersi del tessuto letterario, dipendente da una
robusta tradizione medievale, di questi sfoghi misogini (tipo Ibis),
di queste rappresentazioni di amori per vedove. La stessa opera
del B. ne è fittamente punteggiata: dalla sua b109rafia romanzata
(Comedia, XXIII 28 sgg.) e dal suo primo poema (Criscida nelle
fonti è pulcella, nel Filostrato vedova), a varie novelle del D. (per
es. II 2 II 5, II 6, IV I, VIII 4, IX 1; e anche II 8) e al Corbaccio.
Anzi il B. teorizza ripetutamente l’eccellenza dell’amore delle vedove al confronto di quello delle fanciulle (Filocolo, IV 51 sgg.;
Rime, LXXXI-LXXXII), seguendo anche in questo i canoni della
precettistica medievale, da Andrea Cappellano (pp. 79 sgg.) al Petrarca stesso (Familiares, XXII 1; Seniles, IV 5). E cfr. in gen. G.
BILLANOVICH, Restauri cit., pp. 161 sgg.; V. BRANCA, B. medievale, pp. 200, 219, 232, e Per il testo del D., I, pp. 38 sgg. La
novella, ricca di echi danteschi, è impostata sull’idea stessa del
contrappasso dantesco.
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Molto avevan le donne riso del cattivello3 di Calandrino, e più n’avrebbono ancora, se stato non fosse che
loro in crebbe di vedergli torre ancora i capponi, a 4
color che tolto gli aveano il porco5. Ma poi che la fine
fu venuta, la reina a Pampinea impose che dicesse la
sua; ed essa prestamente così cominciò:
– Carissime donne, spesse volte avviene che l’arte è
dall’arte schernita, e per ciò è poco senno il dilettarsi di
schernire altrui6. Noi abbiamo per più novellette dette
riso molto delle beffe state fatte, delle quali niuna vendetta esserne stata fatta s’è raccontato; ma io intendo di
farvi avere alquanta compassione d’una giusta retribuzione ad una nostra cittadina renduta, alla quale la sua
beffa presso che con morte, essendo beffata, ritornò
sopra il capo. E questo udire non sarà senza utilità di
voi, per ciò che meglio di beffare altrui vi guarderete, e
farete gran senno7.
Egli non sono ancora molti anni passati8, che in Firenze fu una giovane del corpo bella e d’animo altiera e
di legnaggio assai gentile, de’beni della fortuna convenevolmente abondante e nominata Elena9; la quale ri3
di quel misero, disgraziato: I 1,53 n.
da.
Pietà e simpatia donnesche analoghe a quelle accennate
nella VII 10,2.
6
Sentenza che ricorda proprio quelle che iniziano le II 9 e
VIII 10; C che riecheggia qui, più che detti popolari (II 9,3 n.), i
Distica Catonis (I 26: «Sic ara deluditur arte»). Naturalmente arte
astuzia, accorgimento: cfr. VIII 6,13 n.
7
Petrarca, CCXLIII: «II mio cor | E fé gran senno».
8
Uno dei più soliti inizi narrativi, quasi una formula dalle
minime variazioni (cfr. per es. II I,3; IV 7,6; IV 10,4; V 4,4; VI 6,4;
VII 2,7 ecc.).
9
Un nome risonante per il B. di tutta una serie di echi letterari: da quelli dell’argiva Elena (così sottolineati per es. dal Filocolo, II 13,6 e III 35,6 e dall’Amorosa Visione, VIII 70 sgg. alla Genealogia, XI 7 e De mulieribus, XXXVII) a quelli di Madonna
Elena nel cantare omonimo.
4
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6
masa del suo marito vedova, mai più rimaritar non si
volle, essendosi ella d’un giovinetto bello e leggiadro a
sua scelta innamorato10; e da ogni altra sollicitudine sviluppata11, con l’opera d’una sua fante, di cui ella si fidava molto, spesse volte con lui con maraviglioso diletto si
dava buon tempo12. Avvenne in questi tempi che un
giovane chiamato Rinieri13, nobile uomo della nostra
città, avendo lungamente studiato a Parigi, non per vender poi la sua scienzia a minuto14, come molti fanno,
ma per sapere la ragion delle cose e la cagion d’esse (il
che ottimamente sta in gentile uomo15), tornò da Parigi
a Firenze; e quivi onorato molto sì per la sua nobiltà e sì
per la sua scienzia, cittadinescamente16 viveasi.
Ma, come spesso avviene, coloro17 ne’ quali è più
l’avvedimento delle cose profonde più tosto da amore
essere incapestrati18, avvenne a questo Rinieri. Al quale,
essendo egli un giorno per via di diporto19 andato ad
una festa20, davanti agli occhi si parò questa Elena, vestita di nero sì come le nostre vedove vanno21, piena di
tanta bellezza al suo giudicio e di tanta piacevolezza,
10 Uno dei soliti casi di forma invariata del participio nei verbi
composti: cfr. Intr., 35 n. e qui 21 n.
11 essendo libera o liberatasi: II 4,24 n.
12 Espressione stereotipata in casi simili: e cfr. V 3,46 n.
13 Nome comune nella Firenze del tempo e già ricorso nel D.
(III 4,4).
14 Cioè non per esercitare una professione a fine di lucro: cfr.
VI 10,42. E cfr. Convivio, III XI 9 sgg.
15 conviene a: III 9,22. «Nota bene» (M., segnando a margine
il periodo).
16 civilmente, signorilmente: cfr. V 1,8 n. e V 9,8 n.
17 È soggetto del seguente essere incapestrati.
18 presi al capestro: cfr. linguaggio simile nella IX 5,11 n.
19 Anche Madonna Oretta andava «per via di diporto» (VI
1,6 n.). Tutta questa scena ricorda strettamente l’innamoramento
di Troilo (Filostrato, I 18 sgg.).
20 Cfr. VII 7,8 n.
21 Cfr. III 7,10 n.
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quanto alcuna altra ne gli fosse mai paruta vedere; e
seco estimò colui potersi beato chiamare, al quale Idio
grazia facesse lei potere ignuda nelle braccia tenere22. E
una volta e altra cautamente riguardatala, e conoscendo
che le gran cose e care non si possono senza fatica acquistare, seco diliberò del tutto di porre ogni pena23 e
ogni sollicitudine in piacere a costei24, acciò che per lo
piacerle il suo amore acquistasse, e per questo il potere
aver copia di lei.
La giovane donna, la quale non teneva gli occhi fitti
in inferno25, ma, quello e più tenendosi che ella era, artificiosamente movendogli si guardava dintorno, e prestamente conosceva chi con diletto la riguardava; e26 accortasi di Rinieri, in sé stessa ridendo disse: «Io non ci27
sarò oggi venuta in vano, ché, se io non erro, io avrò
preso un paolin28 per lo naso». E cominciatolo con la
coda dell’occhio alcuna volta a guardare, in quanto ella
poteva, s’ingegnava di dimostrar gli che di lui le calesse29; d’altra parte, pensandosi che quanti più n’adescasse e prendesse col suo piacere30, tanto di maggior pre22 Cfr. Filostrato, III 32; e forse ironizzando Vita Nuova, III
15: «Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire
nuda».
23 fatica, cura.
24 Sembra riccheggiar una frase di senso diverso della VII 8,6:
«tutta la sua sollicitudíne aveva posta in guardar ben costei».
25 «Non gli teneva fissi a terra; e dice in inferno per enfasi»
(Fanfani).
26 Superflua o con valore illativo (perché, per la qualcosa):
Mussafia, p. 466.
27 qui.
28 È una specie di uccello acquatico (cfr. Caccia, VIII 55);
oggi si direbbe merlotto, pollastro: Sacchetti, LXIX: «aveva trovato gente paolina»; Pataffio, III 25: «tu se’ un nuovo pagolino»: cfr.
F. AGENO, Nomignoli ecc., in «Lingua Nostra», XIX, 1958, p.
73.
29 le importasse: III 4,29 n. Per g l i le cfr. III 9,9 n. «Deh
nota» (M.).
30 con la sua avvenenza, con la sua bellezza: II 3,22 n.
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gio fosse la sua bellezza, e massimamente a colui al
quale ella insieme col suo amore l’aveva data.
Il savio scolare, lasciati i pensier filosofici da una
parte, tutto l’animo rivolse a costei31; e, credendosi doverle piacere, la sua casa apparata32, davanti v’incominciò a passare, con varie cagioni colorando33 l’andate. Al
qual la donna, per la cagion già detta di ciò seco stessa
vanamente gloriandosi, mostrava di vederlo assai volentieri; per la qual cosa lo scolare, trovato modo, s’accontò con la fante34 di lei, e il suo amor le scoperse, e la
pregò che con la sua donna operasse sì che la grazia di
lei potesse avere.
La fante promise largamente e alla sua donna il raccontò, la quale con le maggior risa del mondo l’ascoltò,
e disse: «Hai veduto dove costui è venuto a perdere il
senno che egli ci ha da Parigi recato? Or via, diangli di
quello ch’e’va cercando. Dira’gli, qualora egli ti parla
più, che io amo molto più lui che egli non ama me; ma
che a me si convien di guardar35 l’onestà mia, sì che io
con l’altre donne possa andare a fronte scoperta, di che
egli, se così è savio come si dice, mi dee molto più cara
avere». Ahi cattivella, cattivella! ella non sapeva ben,
donne mie, che cosa è il mettere in aia36 con gli scolari.
La fante, trovatolo, fece quello che dalla donna sua le fu
imposto. Lo scolar lieto procedette a più caldi prieghi e
31
Variazione dell’espressione già notata al 7.
imparata, conosciuta: I 4,21 n. Per la frase cfr. X 8,91 n.
33 giustificando con vari pretesti: cfr. I 3,7 n. E per questo canonico espediente degli amanti cfr. per es. I 10,2; III 2,7; III 9,8;
IV 7,7 ecc.
34 si fece familiare, strinse amicizia con la cameriera: II 3,1 n.
Anche questo è espediente canonico: cfr. per es. II 9,25; V 5,9 e
12; VII 7,10 ecc.
35 salvaguardare.
36 intrigarsi, avere a che fare (metafora dal senso originario distendere i covoni sull’aia per battere il grano). «E’ sanno dove il
diavolo tien la coda» (M.): cfr. 56 n. e 149 n.
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a scriver lettere e a mandar doni, e ogni cosa era ricevuta, ma in dietro non venivan risposte se non generali; e
in questa guisa il tenne gran tempo in pastura37.
Ultimamente, avendo ella al suo amante ogni cosa
scoperta ed egli essendosene con lei alcuna volta turbato e alcuna gelosia presane, per mostrargli che a torto di
ciò di lei sospicasse38, sollicitandola lo scolare molto, la
sua fante gli mandò, la quale da sua parte gli disse che
ella tempo mai non aveva avuto da poter fare cosa che
gli piacesse poi che del suo amore fatta l’aveva certa39,
se non che per le feste del Natale che s’appressava ella
sperava di potere esser con lui; e per ciò la seguente
sera alla festa40, di notte, se gli piacesse, nella sua corte
se ne venisse, dove ella per lui, come prima potesse, andrebbe. Lo scolare, più che altro uom lieto, al tempo
impostogli andò alla casa della donna, e messo dalla
fante in una corte e dentro serratovi, quivi la donna cominciò ad aspettare.
La donna, avendosi quella sera fatto venire il suo
amante e con lui lietamente avendo cenato, ciò che fare
quella notte intendeva gli ragionò, aggiugnendo: «E potrai vedere quanto e quale sia l’amore, il quale io ho
portato e porto a colui del quale scioccamente hai gelosia presa». Queste parole ascoltò l’amante con gran piacer d’animo disideroso di vedere per opera41 ciò che la
donna con parole gli dava ad intendere. Era per avven37 lo tenne lungo tempo pascendolo di speranze, cioè lo tenne a
bada. Invece Marti: a pascolo [della sua civetteria].
38 sospettasse: cfr. V 7,36 n.; VI 10,35 n
39 Le note di linguaggio cortese, riflesse da questa espressione, sono naturali nel tessuto tutto canonico di questa storia
d’amore (6 «stupor» o «cominzo»; 10 sgg. «arnor terribilis et diutina lassitudo» o «fiore»; 16 sgg. promessa della «gioia compiuta»:
cfr. BRANCA, B. medievale, pp. 221 sgg.).
40 la sera seguente alla festa, la sera dopo la lesta di Natale
(Fanfani).
41 di fatto, in realtà: cfr. II 8,27 n.
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tura il dì davanti a quello nevicato forte, e ogni cosa di
neve era coperta; per la qual cosa lo scolare fu poco
nella corte dimorato, che egli cominciò a sentir più
freddo42 che voluto non avrebbe; ma, aspettando di ristorarsi, pur pazientemente il sosteneva43.
20
La donna al suo amante disse dopo alquanto: «Andiancene in camera, e da una finestretta guardiamo ciò
che colui, di cui tu se’divenuto geloso, fa, e quello che
egli risponderà alla fante44, la quale io gli ho mandata a
favellare».
21
Andatisene adunque costoro a una finestretta, e
veggendo senza esser veduti, udiron la fante da un’altra
favellare allo scolare e dire: «Rinieri, madonna è la più
dolente femina che mai fosse45, per ciò che egli ci è stasera venuto uno de’ suoi fratelli e ha molto con lei favellato, e poi volle cenar con lei, e ancora non se n’è andato; ma io credo che egli se n’andrà tosto; e per questo
non è ella potuto46 venire a te, ma tosto verrà oggimai;
ella ti priega che non ti incresca l’aspettare».
22
Lo scolare, credendo questo esser vero, rispose:
«Dirai alla mia donna che di me niun pensier si dea in
fino a tanto che ella possa con suo acconcio47 per me
venire; ma che questo ella faccia come più tosto può».
23
La fante, dentro tornatasi se n’andò a dormire. La
donna allora disse al suo amante: «Ben, che dirai? Credi
42 Una coppia di endecasillabi sottolinea la situazione eccezionale e decisiva per lo svolgersi del racconto.
43 sopportava, soffriva. Tema popolare nella novellistica questo dell’amante che attende sotto la neve, mentre alle volte l’amata
si intrattiene con un altro uomo: cfr. Thompson e Rotunda, K
1212.
44 Solito scambio tra ‘verba sentiendi’ (sinestesia) corrente,
come abbiamo visto, nel D.: VII 2,25 n.
45 Espressione che è quasi una formula (per es. VIII 4,35 n.).
46 Un altro caso di forma invariata del participio: cfr. qui 4 n.
47 a suo comodo: VIII 20,49 n.
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tu che io, se quel ben gli volessi che tu temi, sofferissi48
che egli stesse là giù ad agghiacciare? «e questo detto,
con l’amante suo, che già in parte era contento, se
n’andò a letto, e grandissima pezza stettero in festa e in
piacere, del misero iscolare ridendosi e faccendosi
beffe.
Lo scolare andando per la corte sé essercitava49 per
riscaldarsi, né aveva dove porsi a sedere né dove fuggire
il sereno50, e maladiceva la lunga dimora del fratel con
la donna; e ciò che51 udiva credeva che uscio fosse che
per lui dalla donna s’aprisse; ma invano sperava.
Essa infino vicino della mezza notte col suo amante
sollazzatasi, gli disse: «Che ti pare, anima mia, dello
scolare nostro? Qual ti par maggiore o il suo senno o
l’amore ch’io gli porto? Faratti il freddo che io gli fo patire uscir del petto quello che per li miei motti52 vi
t’entrò l’altrieri?»
L’amante rispose: «Cuor del corpo mio 53, sì, assai
conosco che così come tu se’il mio bene e il mio riposo
e il mio diletto e tutta la mia speranza, così sono io la
tua».
«Adunque» diceva la donna «or mi bacia ben mille
volte, a veder se tu di’ vero». Per la qual cosa l’amante,
abbracciandola stretta, non che mille, ma più di cento
milia la baciava54.
48 Come altra volta il congiuntivo imperfetto per il condizionale: cfr. VII 9,24 n.
49 faceva del moto, si agitava (alla latina).
50 l’aria aperta: e quindi il freddo e l’umidità della notte: cfr. I
10,3 n.; VI I,2 n.; Amorosa Visione, XLIX 7.
51 tutto quello che, cioè ogni rumore che: cfr. VIII 6,29.
52 parole, cenni o celie: cfr. 15.
53 Il solito tenero appellativo popolaresco, per cui cfr. II
10,30 n. (anche per le espressioni seguenti),
54 Due endecasillabi di seguito danno rilievo alla tenerezza
amorosa.
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E poi che in cotale ragionamento stati furono alquanto, disse la donna: «Deh! levianci un poco, e andiamo a vedere se ’l fuoco è punto spento, nel quale
questo mio novello amante tutto il dì mi scrivea che ardeva55».
E levati, alla finestretta usata n’andarono, e nella
corte guardando, videro lo scolare fare su per la neve
una carola trita56 al suon d’un batter di denti, che egli
faceva per troppo freddo, sì spessa e ratta, che mai simile veduta non aveano. Allora disse la donna: «Che dirai,
speranza mia dolce? Parti che io sappia far gli uomini
carolare57 senza suono di trombe o di cornamusa?»
A cui l’amante ridendo rispose: «Diletto mio grande, sì».
Disse la donna: «Io voglio che noi andiamo infin giù
all’uscio: tu ti starai cheto e io gli parlerò, e udirem
quello che egli dirà; e per avventura n’avrem non men
festa che noi abbiam di vederlo». E aperta la camera
chetamente, se ne scesero all’uscio, e quivi, senza aprir
punto, la donna con voce sommessa da un pertugetto
che v’era il chiamò.
Lo scolare, udendosi chiamare, lodò Idio, credendosi troppo bene entrar dentro; e accostatosi all’uscio
disse: «Eccomi qui, madonna: aprite per Dio, ché io
muoio di freddo».
La donna disse: «O sì che io so che tu se’ uno assiderato58; e anche è il freddo molto grande, perché costì
55 Questi e i seguenti scherni, come del resto tutta la scena,
hanno precisi e interessanti riscontri nel Corbaccio, 450 sgg.
56 una danza a passi piccoli e frequenti: cfr. Orlando Furioso,
XIX 81. L’immagine può anche ricordare Inf., XIV 40.
57 danzare la carola, con riferimento ironico ai movimenti di
Rinieri.
58 freddoloso, troppo curante del freddo: VIII 9,90 n. «La
donna parla qui ironicamente dicendo: ‘O è codesto un gran fred-
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sia un poco di neve! Già so io che elle59 sono molto
maggiori a Parigi. Io non ti posso ancora aprire, per ciò
che questo mio maladetto fratello, che ier sera ci venne
meco a cenare, non se ne va ancora; ma egli se n’andrà
tosto, e io verrò incontanente ad aprirti. Io mi son testé
con gran fatica scantonata60 da lui, per venirti a confortare che l’aspettar non t’incresca».
Disse lo scolare: «Deh! madonna, io vi priego per
Dio che voi m’apriate, acciò che io possa costì dentro
stare al coperto, per ciò che da poco in qua s’è messa61
la più folta neve del mondo, e nevica tuttavia; e io v’attenderò quanto vi sarà a grado».
Disse la donna: «Ohimè, ben mio dolce, che io non
posso ché questo uscio fa sì gran romore quando s’apre,
che leggermente sarei sentita da fratelmo62, se io t’aprissi; ma io voglio andare a dirgli che se ne vada, acciò che
io possa poi tornare ad aprirti».
Disse lo scolare: «Ora andate tosto; e priegovi che
voi facciate fare un buon fuoco, acciò che, come io enterrò dentro, io mi possa riscaldare, ché io son tutto divenuto sì freddo che appena sento di me63».
Disse la donna: «Questo non dee potere essere, se
quello è vero che tu m’hai più volte scritto, cioè che tu
per l’amor di me ardi tutto; ma io son certa che tu mi
beffi. Ora io vo: aspettati, e sia di buon cuore».
do per un po’ di neve che v’è! A Parigi dove tu se’ stato è ben più
freddo’» (Fanfani).
59 Cioè le nevi: concordanza ardita ma cfr. Concl., 5 n.
60 allontanata di soppiatto, alla sfuggita: Casa, Galateo, XVIII:
«da’ maestri e da’ padri... i figliuoli e i discepoli si scantonano
tanto volentieri».
61 è cominciata: II 4,16 n.
62 Una di quelle forme popolari o familiari per cui cfr. VIII
6,7 n.
63 che appena conservo la coscienza, che appena non sono venuto meno.
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L’amante, che tutto udiva e aveva sommo piacere,
con lei nel letto tornatosi, poco quella notte dormirono64, anzi quasi tutta in lor diletto e in farsi beffe dello
scolare consumarono.
39
Lo scolare cattivello (quasi cicogna divenuto, sì
forte batteva i denti65) accorgendosi d’esser beffato, più
volte tentò l’uscio se aprir lo potesse, e riguardò se altronde ne potesse uscire; né vedendo il come, faccendo
le volte del leone66, maladiceva la qualità del tempo, la
malvagità della donna e la lunghezza della notte, insie40 me con la sua simplicità67; e sdegnato forte verso di lei,
il lungo e fervente amor portatole subitamente in crudo
e acerbo odio transmutò68, seco gran cose e varie volgendo a trovar modo alla vendetta, la quale ora molto
più disiderava, che prima d’esser con la donna non avea
disiato.
41
La notte, dopo molta e lunga dimoranza, s’avvicinò
al dì, e cominciò l’alba ad apparire. Per la qual cosa la
fante della donna ammaestrata, scesa giù, aperse la
corte, e mostrando d’aver compassion di costui, disse:
«Mala ventura possa egli avere che iersera ci venne 69!
Egli n’ha tutta notte tenute in bistento70, e te ha fatto
38
64 Uno dei non rari esempi in cui due sostantivi legati da con
reggono un verbo plurale: cfr. II 9,1 n.
65 Cfr. II 2,22 n.: e tutta la situazione è quella di Rinaldo
d’Asti, ma rovesciata.
66 Cioè andando su e giù come un leone in gabbia.
67
stupidità, ingenuità: cfr. III 3,54 n.
68
Situazione ed espressione molto simili a quelle della II 8,2I
e IV 3,22 («rivoltato l’amore il quale a Restagnon portava in acerbo odio») e VIII 1,8 («quasi in odio transmutò il fervente
amore»).
69 colui avere che venne qui ieri sera.
70 in gran pena, in gran disagio (forse da bis e stento, cioè
quasi doppio stento); oppure in impaccio, in sospeso: cfr. G. Villani, VII 94: «stando il detto stuolo in bistento» (e anche VIII 56, X
92). Dovuto a attrazione è il t e n u t a riferito alle due donne,
come accerta il pronome precedente ne: cfr. Mussafia, p. 455.
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45
agghiacciare; ma sai che è? Portatelo 71 in pace, ché
quello che stanotte non è potuto essere sarà un’altra
volta; so io bene che cosa non potrebbe essere avvenuta, che tanto fosse dispiaciuta a madonna».
Lo scolare sdegnoso, sì come savio, il quale sapeva
niun’altra cosa le minacce essere che arme del minacciato72, serrò dentro al petto suo ciò che la non temperata
volontà73 s’ingegnava di mandar fuori, e con voce sommessa, senza punto mostrarsi crucciato, disse: «Nel
vero io ho avuta la piggior notte che io avessi mai, ma
bene ho conosciuto che di ciò non ha la donna alcuna
colpa, per ciò che essa medesima, sì come pietosa di
me, infin quaggiù venne a scusar sé e a confortar me; e
come tu di’, quello che stanotte non è stato sarà un’altra
volta; raccomandalemi e fatti con Dio74».
E quasi tutto rattrappato75, come potè a casa sua se
ne tornò; dove, essendo stanco e di sonno morendo,
sopra il letto si gittò a dormire, donde tutto quasi perduto76 delle braccia e delle gambe si destò. Per che,
mandato per alcun medico e dettogli il freddo che
avuto avea, alla sua salute fe’ provedere. Li medici con
grandissimi argomenti e con presti77 aiutandolo, appena
dopo alquanto di tempo il poterono de’ nervi guerire e
far sì che si distendessero; e se non fosse che egli era
71
Sopportalo.
È frase proverbiale: cfr. per es. T. Lucino, Dictorum isagogicus libellus, Ferrara 1492 (?). E fu annotata da Leonardo nel codice Atlantico: cfr. C. DIONISOTTI, Leonardo uomo di lettere, in
«Italia Medioevale e Umanistica», V, 1962.
73 la volontà se non fosse stata tenuta a freno. «Nota bel detto»
(M.).
74 Solita formula di commiato: VII 10,29 n.
75 attratto, rattratto, come sarà spiegato subito dopo (45): è
forma corrente nel Trecento per rattrappito.
76 rovinato, paralizzato: anche Martellino sembrava «tutto
della persona perduto e ratratto» (II 1,11 n.).
77 con rimedi, mezzi efficaci e solleciti: Intr., 13 n.
72
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giovane e sopravveniva il caldo, egli avrebbe avuto
troppo da sostenere78. Ma ritornato sano e fresco, dentro il suo odio servando, vie più che mai si mostrava innamorato della vedova sua.
46
Ora avvenne, dopo certo spazio di tempo, che la
fortuna apparecchiò caso da poter lo scolare al suo disiderio sodisfare; per ciò che, essendosi il giovane che
dalla vedova era amato (non avendo alcun riguardo
all’amore da lei portatogli), innamorato di un’altra
donna, e non volendo né poco né molto dire né far cosa
che a lei fosse a piacere, essa in lagrime e in
47 amaritudine79 si consumava. Ma la sua fante, la qual
gran compassion le portava80, non trovando modo da
levar la sua donna dal dolor preso per lo perduto amante, vedendo lo scolare al modo usato per la contrada
passare, entrò in uno sciocco pensiero, e ciò fu che
l’amante della donna sua ad amarla come far solea si
dovesse poter riducere per alcuna nigromantica operazione81, e che di ciò lo scolare dovesse essere gran mae48 stro, e disselo alla sua donna. La donna poco savia,
senza pensare che, se lo scolare saputo avesse nigromantia, per sé adoperata l’avrebbe, pose l’animo82 alle
parole della sua fante, e subitamente le disse che da lui
sapesse se fare il volesse, e sicuramente gli promettesse
che per merito di ciò83, ella farebbe ciò che a lui piacesse.
78
sopportare.
Un accoppiamento amato dal B.: III 7,17 V 9,39 ecc.
80 che aveva di lei grande compassione: Inf. XX 30: «Al giudicio divin passion comporta»: e cfr. Annotazioni, XV. E nota il parallelismo della frase con la precedente finta pietà (41).
81 condurre, indurre per mezzo di qualche atto di negromanzia,
qualche sortilegio, incantesimo. Scanzonato atteggiamento caratteristico del B.: cfr. VIII 6 e 9; cede solo nel crescendo meraviglioso
della X (5 e 9).
82 diede retta, diede ascolto.
83 in ricompensa di questo: III 9,14 n.
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La fante fece l’ambasciata bene e diligentemente, la
quale udendo lo scolare, tutto84 lieto seco medesimo
disse: «Iddio lodato sie tu: venuto è il tempo che io farò
col tuo aiuto portar pena alla malvagia femina della ingiuria fattami in premio del grande amore che io le portava». E alla fante disse: «Dirai alla mia donna che di
questo non stea in pensiero, che, se il suo amante fosse
in India85, io gliele farò prestamente venire e domandar
mercé di ciò che contro al suo piacere avesse fatto; ma il
modo che ella abbia a tenere intorno a ciò, attendo di
dire a lei, quando e dove più le piacerà; e così le di’, e
da mia parte la conforta». La fante fece la risposta, e ordinossi che in Santa Lucia del Prato86 fossero insieme.
Quivi venuta la donna e lo scolare, e soli insieme
parlando, non ricordandosi ella che lui quasi alla morte
condotto avesse, gli disse apertamente ogni suo fatto e
quello che disiderava, e pregollo per la sua salute. A cui
lo scolar disse: «Madonna, egli è il vero che tra l’altre
cose che io apparai a Parigi si fu nigromantia, della
quale per certo io so ciò che n’è87, ma per ciò che ella è
di grandissimo dispiacer di Dio, io avea giurato di mai
né per me né per altrui d’88adoperarla. È il vero che
84 Tre endecasillabi di seguito (ella ... tutte) inframezzati da
un settenario (e diligentemente).
85 Un toponimo usato, come altri simili, a indicare favolosa
distanza: VIII 6,32 n.
86 fu stabilito che si ritrovassero nella chiesa di Santa Lucia a
Porta al Prato, tuttora esistente (di incontri amorosi o galanti in
chiese è punteggiata l’opera del B.: VIII 2, VIII 4; Filocolo, I 17
sgg.; Filostrato, I 18 sgg. ecc.).
87 tutto quello che se ne può sapere: cfr. 24 e VIII 6,29 n. «E
poco dopo io n’ebbi troppo d’una, francesismi pretti (‘je sais ce
qui en est’ ‘j’en eus trop d’une’) attribuiti dal B. allo scolare che
aveva studiato a Parigi» (Foscolo, Opere, III, p. 66); modi però
non peregrini in quel periodo.
88 Una delle solite ripetizioni della preposizione dopo inciso e
dinanzi al verbo.
Letteratura italiana Einaudi 1120
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
l’amore il quale io vi porto è di tanta forza, che io non
so come io mi nieghi cosa che voi vogliate che io faccia;
e per ciò, se io ne dovessi per questo solo andare a casa
54 del diavolo, sì son presto di farlo, poi che vi piace. Ma
io vi ricordo che ella è più malagevole cosa a fare che
voi per avventura non v’avvisate; e massimamente
quando una donna vuole rivocare uno uomo ad amar sé
o l’uomo una donna, per ciò che questo non si può far
se non per la propria persona a cui appartiene89; e a far
ciò convien che chi ’l fa sia di sicuro animo90, per ciò
che di notte si convien fare e in luoghi solitari e senza
compagnia; le quali cose io non so come voi vi siate a
far disposta».
55
A cui la donna, più innamorata che savia, rispose:
«Amor mi sprona per sì fatta maniera91, che niuna cosa
è la quale io non facessi92 per riaver colui che a torto
m’ha abbandonata; ma tuttavia, se ti piace, mostrami in
che mi convenga esser sicura».
Lo scolare, che di mal pelo avea taccata la coda93,
56
disse: «Madonna, a me converrà fare una imagine di
stagno94 in nome di colui il qual voi disiderate di racquistare, la quale quando io v’arò mandata, converrà
89
dalla persona medesima che lo vuole, cioè dall’interessato
stesso.
90
sia di animo coraggioso, abbia coraggio: cfr. VIII 9,80: «a voi
conviene esser molto sicuro»; IX 1,11: «del quale ... i più sicuri
uomini ... avevan paura».
91 Affermazione, all’inizio del discorso, che può ricordare
quella di Guiscardo (IV 1,23).
92 Il solito congiuntivo imperfetto in luogo del condizionale
futuro: VI concl., 12 n.; VII 9,24 n.
93 Era tristo e furbo quanto uomo può essere (Fanfani): poiché aveva la coda screziata di mal pelo, come i diavoli.
94 Tali quasi sempre le immagini negli incantesimi d’amore: e
per questo, come per gli altri particolari del sortilegio (il volgersi
verso Nord, l’immagine, la luna, la nudità, la formula, le damigelle
ecc.), cfr. THOMPSON, locc. citt.; J. G. FRAZER, op. e loc. citt.;
M. P. GIARDINI, op. cit., pp. 74 sgg.
Letteratura italiana Einaudi
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che voi, essendo la luna molto scema95, ignuda in un
fiume vivo96, in sul primo sonno e tutta sola, sette97
volte con lei vi bagniate; e appresso, così ignuda, n’andiate sopra ad un albero, o sopra una qualche casa disabitata; e, volta a tramontana con la imagine in mano,
sette volte diciate certe parole che io vi darò scritte; le
quali come dette avrete, verranno a voi due damigelle
delle più belle che voi vedeste mai, e sì vi saluteranno e
piacevolmente vi domanderanno quel che voi vogliate
che si faccia. A queste farete che voi diciate bene e pienamente i disideri vostri; e guardatevi che non vi venisse nominato un per un altro; e come detto l’avrete, elle
si partiranno, e voi ve ne potrete scendere al luogo dove
i vostri panni avrete lasciati e rivestirvi e tornarvene a
casa. E per certo, egli non sarà mezza98 la seguente
notte, che il vostro amante piagnendo vi verrà a dimandar mercé e misericordia; e sappiate che mai da questa
ora innanzi egli per alcuna altra non vi lascierà».
La donna, udendo queste cose e intera fede prestandovi, parendole il suo amante già riaver nelle braccia,
mezza lieta99 divenuta disse: «Non dubitare, che queste
cose farò io troppo bene, e ho il più bel destro da ciò
del mondo100; ché io ho un podere verso il Valdarno di
sopra101, il quale è assai vicino alla riva del fiume, ed
egli è testé di luglio102, che sarà il bagnarsi dilettevole. E
95
calante.
d’acqua corrente: alla latina: e cfr. X 6,6 «avendo d’acqua
viva copia».
97 Uno dei classici numeri magici o favolosi (III 3,25 n.; III
7,7 n.).
98 non sarà giunta alla sua metà.
99 Cfr. VIII 6,37: «mezzo consolato».
100 ho per questo il più bel comodo, agio del mondo: IV 5,8 n.
101 Valdarno superiore.
102 è da poco cominciato il mese di luglio.
96
Letteratura italiana Einaudi 1122
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
ancora mi ricorda103 esser non guari lontana dal fiume
una torricella disabitata, se non che per cotali scale di
castagnuoli104 che vi sono, salgono alcuna volta i pastori
sopra un battuto105 che v’è, a guardar di lor bestie
smarrite (luogo molto solingo e fuor di mano), sopra la
quale io salirò, e quivi il meglio del mondo spero di fare
quello che m’imporrai».
Lo scolare, che ottimamente sapeva106 e il luogo
62
della donna e la torricella, contento d’esser certificato
della sua intenzion107, disse: «Madonna, io non fu’mai
in coteste contrade, e per ciò non so il podere né la torricella; ma, se così sta come voi dite, non può essere al
mondo migliore108. E per ciò, quando tempo sarà, vi
manderò la imagine e l’orazione; ma ben vi priego che,
quando il vostro disiderio avrete e conoscerete che io
v’avrò ben servita, che vi ricordi di me e d’attenermi la
63 promessa». A cui la donna disse di farlo senza alcun
fallo; e preso da lui commiato, se ne tornò a casa.
64
Lo scolar, lieto di ciò che109 il suo avviso pareva dovere avere effetto, fece una imagine con sue cateratte110,
103
Solito uso impersonale, come più sotto (62): II 7,107 n.
rami di castagno.
pavimento e quindi qui terrazza: e cfr. 69 e 72.
106 conosceva come tre righe più sotto: IV 10,36 n.
107 di essere fatto e certo, d’esser assicurato riguardo al disegno
che aveva concepito: cfr. III 3,22; VII 9,27 n.
108 Sottinteso: luogo o modo.
109 perciocché, perché: VIII 10,49 n.
110 Probabilmente voce burlesca nel senso di caratteri magici,
come sembra confermare la IX 5,48: «scrisse in su quella carta
certe sue frasche con alquante cateratte»: cfr. p. Aretino, Sei giornale, Bari 1 969, p. 37 «catarattole dipinte». Altri pensa a una confusione con un nome di origine greca, altri a una metatesi scherzosa per caratteri quasi a indicare sgorbi, caratteracci... Cfr. B. MIGLIORINI, Che cos’è un vocabolario, Firenze 1951, pp. 21 sgg.;
B. RICHARDSON, Onomastica boccacciana, in «Lingua Nostra»,
XXXIV, 1973.
104
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e scrisse una sua favola per orazione; e, quando tempo
gli parve, la mandò alla donna e mandolle a dire che la
notte vegnente senza più indugio dovesse far quello che
detto l’avea; e appresso segretamente con un suo fante
se n’andò a casa d’un suo amico che assai vicino stava
alla torricella, per dovere al suo pensiero dare effetto.
La donna d’altra parte con la sua fante si mise in via
e al suo podere se n’andò; e come la notte fu venuta,
vista faccendo d’andarsi al letto, la fante ne mandò a
dormire, e in su l’ora del primo sonno, di casa chetamente uscita, vicino alla torricella sopra la riva d’Arno
se n’andò, e molto dattorno guatatosi111, né veggendo
né sentendo alcuno, spogliatasi e i suoi panni sotto un
cespuglio nascosi, sette volte con la imagine si bagnò, e
appresso, ignuda con la imagine in mano, verso la torricella n’andò. Lo scolare, il quale in sul fare della notte,
col suo fante tra salci e altri alberi presso della torricella
nascoso s’era, e aveva tutte queste cose vedute, e passandogli ella quasi allato così ignuda, ed egli veggendo
lei con la bianchezza del suo corpo vincere le tenebre
della notte, e appresso riguardandole il petto e l’altre
parti del corpo, e vedendole belle e seco pensando quali
infra piccol termine dovean divenire, sentì di lei alcuna
compassione. E d’altra parte lo stimolo della carne l’assalì subitamente e fece tale in piè levare che si
giaceva112, e confortavalo che egli da guato uscisse113 e
lei andasse a prendere e il suo piacer ne facesse; e vicin
fu ad essere tra dall’uno e dall’altro114 vinto. Ma nella
111 Participio invariato, come spesso già abbiamo notato nel D.
e in questa novella: cfr. Intr., 35 n.
112 «Steterunt et membra que iacebant ante» (M.). È citazione
da Apuleio, Met., II 7: e cfr. IX 10,18 n.
113 lo spingeva ad uscire dal lungo ov’era in agguato, dal nascondiglio.
114 Cioè dalla compassione e dallo stimolo della carne.
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memoria tornandosi115 chi egli era, e qual fosse la ’ngiuria ricevuta, e perché e da cui116, e per ciò nel lo sdegno
raccesosi, e la compassione e il carnale appetito cacciati,
stette nel suo proponimento fermo, e lasciolla
andare117. La donna, montata in su la torre e a tramontana rivolta, cominciò a dire le parole datele dallo scolare118; il quale, poco appresso nella torricella entrato,
chetamente a poco a poco levò quella scala che saliva in
sul battuto dove la donna era, e appresso aspettò quello
che ella dovesse dire e fare.
La donna, detta sette volte la sua orazione, cominciò ad aspettare le due damigelle, e fu sì lungo l’aspettare (senza che119 fresco le faceva troppo più che voluto
non avrebbe) che ella vide l’aurora apparire120; per che,
dolente che avvenuto non era ciò che lo scolare detto
l’avea, seco disse: «Io temo che costui non m’abbia voluto dare una notte chente io diedi a lui; ma, se per ciò
questo m’ha fatto, mal s’è saputo vendicare, ché questa
non è stata lunga per lo terzo che fu la sua121, senza che
il freddo fu d’altra qualità». E perché il giorno quivi
non la cogliesse, cominciò a volere smontare della torre,
ma ella trovò non esservi la scala. Allora, quasi come se
il mondo sotto i piedi venuto le fosse meno, le fuggì
l’animo122, e vinta cadde sopra il battuto della torre. E
115
richiamandosi alla mente.
e per quale ragione e da quale persona.
117 Della sete di vendetta, che vince la forza di ogni altra passione (cfr. 80) parlerà il B. nella Consolatoria.
118 Cioè la «favola per orazione» (64).
119 a parte il fatto che.
120 Omesso, come altre volte, il che che dovrebbe reggere questo verbo: e cfr. Mussafia, pp. 534 sgg.
121 il terzo, una terza parte di quello che fu lunga la sua.
122 le venne meno lo spirito vitale, svenne più che si sgomentò,
si perse d’animo. Tutta l’espressione ricorda i danteschi: «l’animo
mio ch’ancor fuggiva» e «gent’è che par nel duol si vinta» (Inf., I
25 e III 33); e le classiche espressioni: «aufugit mi animus» (Q.
116
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poi che le forze le ritornarono, miseramente cominciò a
piagnere e a dolersi; e assai ben conoscendo questa dovere essere stata opera dello scolare, s’incominciò a ramaricare d’avere altrui offeso, e appresso d’essersi troppo fidata di colui, il quale ella doveva meritamente creder nimico; e in ciò stette123 lunghissimo spazio.
Poi, riguardando se via alcuna da scender vi fosse e
non veggendola, ricominciato il pianto, entrò in uno
amaro pensiero, a sé stessa dicendo:«O sventurata, che
si dirà da’ tuoi fratelli, da’ parenti e da’ vicini, e generalmente da tutti i fiorentini, quando si saprà che tu sii qui
trovata ignuda? La tua onestà124, stata cotanta, sarà conosciuta essere stata falsa; e se tu volessi a queste ce
avrebbe, il maladetto scolare, che tutti i fatti tuoi sa,
non ti lascerà mentire. Ahi misera te, che ad una ora
avrai perduto il male amato giovane125 e il tuo onore!
«E dopo queste126 venne in tanto dolore, che quasi fu
per gittarsi della torre in terra.
Ma, essendosi già levato il sole ed ella alquanto più
dall’una delle parti più127 al muro accostatasi della
torre, guardando se alcuno fanciullo quivi colle bestie
s’accostasse cui essa potesse mandare per la sua fante,
avvenne che lo scolare, avendo a piè d’un cespuglio
dormito alquanto, destandosi la vide ed ella lui. Alla
quale lo scolare disse: «Buon dì, madonna; sono ancor
venute le damigelle?»
Catulo citato da Gellio, XIX 9,14) e «evicta dolore» (Aen., IV
474). E Cfr. 112 C V 3,17 n.
123 in questo stato o in questo meditare.
124 buon nome, buona lama: cfr. III 8,76 n.
125 il giovane in mal punto, con mala ventura, preso ad amare.
Cfr. Intr., 18: «gli mal tirati stracci».
126 Si riferisce a un parole sottinteso a senso: e cfr. II 7,3 n.
127 Resta dubbio se il più sia ripetuto pleonasticamente o se si
debba intendere che Elena si era avvicinata di più al muro spostandosi di più verso l’uno dei lati della torre. Per a c c o s t a t o s
i cfr. 65 n.
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La donna, vedendolo e udendolo, ricominciò a piagner forte e pregollo che nella torre venisse, acciò che
essa potesse parlargli. Lo scolare le fu di questo assai
cortese.
77
La donna, postasi a giacer boccone sopra il battuto,
il capo solo fece alla cateratta128 di quello, e piagnendo
disse: «Rinieri, sicuramente, se io ti diedi la mala notte,
tu ti se’ ben di me vendicato, per ciò che, quantunque
di luglio sia, mi sono io creduta questa notte, stando
ignuda, assiderare; senza che io ho tanto pianto e lo
’nganno che io ti feci e la mia sciocchezza che ti
credetti129, che maraviglia è come gli occhi mi sono in
capo rimasi.
78
E per ciò io ti priego, non per amor di me, la qual tu
amar non dei, ma per amor di te, che se’gentile uomo,
che ti basti, per vendetta della ingiuria la quale io ti feci,
quello che infino a questo punto fatto hai, e faccimi i
miei panni recare, e che io possa di quassù discendere,
e non mi voler tor quello che tu poscia vogliendo130
render non mi potresti, cioè l’onor mio; ché, se io tolsi a
te l’esser con meco quella notte, io, ognora che a grado
79 ti fia, te ne posso render molte per quella una. Bastiti
adunque questo, e come a valente uomo, sieti assai131
l’esserti potuto vendicare e l’averlomi fatto conoscere;
non volere le tue forze contro ad una femina esercitare;
niuna gloria è ad una aquila l’aver vinta una colomba132;
76
128 Cioè all’apertura, alla botola cui si appoggiava la scala: cfr.
121; oppure alla buca per lo scolo dell’acqua piovana (Sapegno).
129 la sciocchezza di me che ti credetti, con una delle più solite
sillessi: cfr. IV 2,21 n. A meno di pensare a una oggettiva equivalente a dell’averti creduto (Mussafia, p. 523).
130 Gerundio con valore concessivo: anche se me lo volessi restituire.
131 ti basti: cfr. Proemio, 13 n.
132 Cfr. Teseida, I 104: «’1 guerreggiar con donne e aver vittoria | Del vincitor è più biasmo che gloria».
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dunque, per l’amor di Dio e per onor di te, t’incresca di
me».
Lo scolare, con fiero animo seco la ricevuta ingiuria
rivolgendo, e veggendo piagnere e pregare, ad una ora
aveva piacere e noia nello animo; piacere della vendetta,
la quale più che altra cosa disiderata avea; e noia sentiva, movendolo la umanità sua a compassion della misera. Ma pur, non potendo la umanità vincere la fierezza
dello appetito133, rispose: «Madonna Elena, se i miei
prieghi (li quali nel vero io non seppi bagnare di lagrime né far melati 134 come tu ora sai porgere i tuoi)
m’avessero impetrato, la notte che io nella tua corte di
neve piena moriva di freddo, di potere essere stato
messo da te pure135 un poco sotto il coperto, leggier
cosa mi sarebbe al presente i tuoi esaudire. Ma se cotanto or più che per lo passato del tuo onor ti cale, ed
etti grave il costà su ignuda dimorare, porgi cotesti prieghi a colui nelle cui braccia non t’increbbe, quella notte
che tu stessa ricordi, ignuda stare, me sentendo per la
tua corte andare i denti battendo e scalpitando 136 la
neve, e a137 lui ti fa aiutare, a lui ti fa i tuoi panni recare,
a lui ti fa por la scala per la qual tu scenda, in lui t’ingegna di mettere tenerezza138 del tuo onore, per cui quel
medesimo, e ora e mille altre volte, non hai dubitato di
mettere in periglio. Come nol chiami tu che ti venga ad
aiutare? E a cui appartiene139 egli più che a lui? Tu se’
sua: e quali cose guarderà egli o aiuterà, se egli non
133
Cioè la forza del desiderio di vendetta.
dolci come il miele: III 8,51 n.; Jacopone, LXXXIII 23.
«Dum femina plorat | Decipere laborat» (joca monachorum); e cfr.
VIII 10,28 n.
135 almeno.
136 calpestando: II intr., 2 n.
137 da: Intr., 20 n.
138 sollecitudine, cura, compassione.
139 conviene, si addice: cfr. 54.
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guarda e aiuta te? Chiamalo, stolta che tu se’, e prova se
l’amore il quale tu gli porti e il tuo senno col suo ti possono dalla mia sciocchezza liberare, la qual 140, sollazzando141 con lui, domandasti quale gli pareva maggiore
o la mia sciocchezza o l’amor che tu gli portavi142. Né
essere a me ora cortese di ciò che io non disidero, né
84 negare il mi puoi se io il disiderassi; al tuo amante le tue
notti riserba, se egli avviene che tu di qui viva ti parti;
tue sieno e di lui; io n’ebbi troppo d’una, e bastimi d’essere stato una volta schernito. E ancora, la tua astuzia
usando nel favellare, t’ingegni col commendarmi143 la
mia
benivolenzia acquistare, e chiamimi gentile uomo e
85
valente, e tacitamente, che io come magnanimo mi ritragga dal punirti della tua malvagità, t’ingegni di fare;
ma le tue lusinghe non m’adombreranno 144 ora gli
occhi dello ’ntelletto145, come già fecero le tue disleali
promessioni; io mi conosco, né tanto di me stesso apparai mentre dimorai a Parigi, quanto tu in una sola notte
delle tue mi facesti conoscere. Ma, presupposto che io
pur magnammo fossi, non se’ tu di quelle in cui la ma86 gnanimità debba i suoi effetti mostrare; la fine della penitenzia, nelle salvatiche fiere come tu se’, e similmente
della vendetta, vuole esser la morte, dove negli uomini
quel dee bastare che tu dicesti. Per che, quatunque io
aquila non sia, te non colomba, ma velenosa serpe co-
140 «Malo latino: direbe meglio [il] quale» (M.). Ma forse il
Mannelli fraintendeva: la qual si riferisce a tu: tu che.
141 Questo gerundio si riferisce al soggetto della sovraordinata:
cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 214 sgg.
142 Già Fausto da Longiano osservò che queste parole Madonna Elena le aveva dette segretamente al suo amante e Rinieri non
poteva quindi saperle.
143 lodarmi.
144 non mi offuscheranno, non m’incanteranno: X 7,24 n.
145 Cfr. VI 2,7 n.
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noscendo, come antichissimo nemico146 con ogni odio e
con tutta la forza di perseguire intendo, con tutto che147
questo che io ti fo non si possa assai propriamente vendetta chiamare, ma più tosto gastigamento148, in quanto
la vendetta dee trapassare l’offesa, e questo non v’agiugnerà149; per ciò che se io vendicar mi volessi, riguardando a che partito tu ponesti l’anima mia150, la tua vita
non mi basterebbe, togliendolati, né cento altre alla tua
simiglianti, per ciò che io ucciderei una vile e cattiva151
e rea feminetta. E da che diavol togliendo via cotesto
tuo pochetto di viso, il quale pochi anni guasteranno
riempiendolo di crespe152 se’ tu più che qualunque altra
dolorosetta fante153? Dove per te non rimase di154 far
morire un valente uomo, come tu poco avanti mi chiamasti, la cui vita ancora potrà più in un dì essere utile al
mondo, che centomilia tue pari non potranno mentre il
mondo durar dee155. Insegnerotti adunque con questa
noia che tu sostieni che cosa sia lo schernir gli uomini
che hanno alcun sentimento156, e che cosa sia lo scher146 Tutta la frase richiama alla tradizionale figurazione del diavolo tentatore in un serpente.
147 benché.
148 riprensione, castigo: III 3,51 n.
149 Cioè non raggiungerà il livello dell’offesa.
150 la mia vita: Volg. Omelie di San Gregorio, p. 18 (T.): «II
buon pastore pone l’anima sua per le pecorelle sue» (Giov. 10.11).
151 dappoco, meschina: I 9,1 n.
152 rughe: cfr. Crescenzi, Agricoltura volg. (Verona 1851), VI
63 «mondificherà la faccia e rimoverà le crespe». «Quam cito, me
miseram, lassantur corpora rugis» (M.). È citazione da Ovidio, Ars
Am., III 73 (ma «miserum»); motivo sviluppato dal B. anche nelle
Rime (XLIII 8 sg.: «vedere | e Canuta e crespa pallida colei ...»;
XLIV 4: «E crespo farsi il viso di costei»: e cfr. anche 13).
153 miserella, cioè, serva povera e dappoco (Fanfani): un diminutivo in senso dispregiativo, come il precedente pochetto.
154 tu non trascurasti nulla per: III 7,46.
155 finché il mondo durerà. «È, una forma di futuro locuzionale
col verbo ‘dovere’» (Marti).
156 sapienza, maturità umana: VI 5,4 n.; VI 9,3 n.
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nir gli scolari; e darotti materia di giammai più in tal
follia non cader, se tu campi. Ma se tu n’hai così gran
voglia di scendere, ché non te ne gitti tu in terra? E ad
una ora con lo aiuto di Dio fiaccandoti tu il collo, uscirai della pena nella quale esser ti pare, e me farai il più
lieto uomo del mondo. Ora io non ti vo’dir più; io seppi
tanto fare che io costà su ti feci salire; sappi tu ora tanto
fare che tu ne scenda, come tu mi sapesti beffare».
Parte 157 che lo scolare questo diceva, la misera
donna piagneva continuo158, e il tempo se n’andava, sagliendo tuttavia il sol più alto. Ma poi che ella il sentì
tacer, disse: «Deh! crudele uomo, se egli ti fu tanto la
maladetta notte grave e parveti il fallo mio così grande
che né ti posson muovere a pietate alcuna la mia giovane bellezza, le amare lagrime né gli umili prieghi, almeno muovati alquanto e la tua severa rigidezza diminuisca questo solo mio atto, l’essermi di te nuovamente159
fidata e l’averti ogni mio segreto scoperto col quale ho
dato via160 al tuo disidero in potermi fare del mio peccato conoscente; con ciò sia cosa che, senza fidarmi io
di te, niuna via fosse a te161 a poterti di me vendicare, il
che tu mostri con tanto ardore aver disiderato. Deh, lascia l’ira tua e perdonami omai! io sono, quando tu perdonar mi vogli e di quinci farmi discendere, acconcia162
d’abbandonar del tutto il disleal giovane e te solo aver
per amadore e per signore, quantunque tu molto la mia
bellezza biasimi, brieve e poco cara mostrandola; la
quale, chente che ella, insieme con quella dell’altre, si
157
Mentre: VIII 9,40 n.; Inf., XXIX I 6; Purg., XXI 19 ecc.
continuamente: Filocolo, III 28,7: «continuo le mani menandosi davanti al viso»; e qui V 10,8 n. e anche III 2,II n.
159 da ultimo.
160 ho dato modo, mezzo.
161 avresti avuta.
162 pronta, disposta: VIII 6,38 n.
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sia, pur so che, se per altro non fosse da aver cara, si è
per ciò che vaghezza e trastullo e diletto è della giovanezza degli uomini; e tu non se’ vecchio163. E quantunque io crudelmente da te trattata sia, non posso per ciò
credere che tu volessi vedermi fare così disonesta 164
morte, come sarebbe il gittarmi a guisa di disperata
quinci giù dinanzi agli occhi tuoi, a’ quali, se tu bugiardo non eri come sei diventato, già piacqui cotanto165.
Deh! increscati di me per Dio e per pietà: il sole s’incomincia a riscaldar troppo, e come il troppo freddo questa notte m’offese, così il caldo m’incomincia a far grandissima noia».
A cui lo scolare, che a diletto la teneva a parole166,
rispose: «Madonna, la tua fede167 non si rimise ora nelle
mie mani per amor che tu mi portassi, ma per racquistare quello che tu perduto avevi; e per ciò niuna cosa merita altro che maggior male; e mattamente credi, se tu
credi questa sola via senza più168 essere, alla disiderata
vendetta da me, oportuna stata169. Io n’aveva mille
altre, e mille lacciuoli170, col mostrar d’amarti, t’aveva
tesi intorno a’ piedi, né guari di tempo era ad andare171,
che di necessità, se questo avvenuto non fosse, ti convenia in uno incappare; né potevi incappare in alcuno,
che in maggior pena e vergogna che questa non ti fia ca-
163
«Nota dolci parole» (M., che segna a margine tutto il periodo)
disonorevole e crudele, alla latina (Aen., VI 497): VIII 5,3
n.; Inf., XIII 140: «lo strazio disonesto».
165 Purg., I 85: «Marzia piacque tanto a li occhi miei».
166 si dilettava di pascerla di chiacchiere, d’intrattenerla con parole: VI 10,14 n.
167 fiducia, confidenza.
168 e nessun’altra: II 3,37 n.
169 essere stata opportuna alla vendetta desiderata da me.
170 Inf., XXII 109: «avea lacciuoli a gran divizia»; e qui 146 n.
171 non sarebbe passato troppo tempo: Purg., XI 140: «Ma poco
tempo andrà ...»
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duta non fossi; e questo presi non per agevolarti, ma
per esser più tosto lieto. E dove tutti mancati mi fossero, non mi fuggiva la penna, con la quale tante e sì fatte
cose di te scritte avrei e in sì fatta maniera, che, avendole tu risapute (ché l’avresti), avresti il dì mille volte disiderato di mai non esser nata 172. Le forze della penna
sono troppo maggiori che173 coloro non estimano che
quelle con conoscimento provate non hanno. Io giuro a
Dio (e se174 Egli di questa vendetta, che io di te prendo,
mi faccia allegro175 infin la fine, come nel cominciamento m’ha fatto) che io avrei di te scritte cose che, non che
dell’altre persone, ma di te stessa vergognandoti, per
non poterti vedere t’avresti cavati gli occhi176; e per ciò
non rimproverare al mare d’averlo fatto crescere il piccolo ruscelletto. Del tuo amore, o che tu sii mia, non ho
io, come già dissi, alcuna cura; sieti pur177 di colui di
cui stata se’, se tu puoi, il quale, come io già odiai, così
al presente amo, riguardando a ciò che egli ha ora verso
te operato. Voi v’andate innamorando e disiderate
l’amor de’ giovani, per ciò che alquanto con le carni più
vive e con le barbe più nere gli vedete, e sopra sé andare178 e carolare e giostrare179; le quali cose tutte ebber
coloro che più alquanto attempati sono, e quel sanno
172
Marco, 14.21: «Bonum erat ci si non esset natus homo ille».
di quanto.
174 e così: è uno dei soliti se deprecativi (II 4,18 n.).
175 Inf., XIV 60: «Non ne potrebbe aver vendetta allegra».
176 Forse è presente una qualche reminiscenza letteraria della
leggenda di Neobule, impiccatasi per la vergogna causatale dagli
atroci giambi di Archiloco da lei respinto. Sono del resto queste
righe e le seguenti quelle che più direttamente vengono riflesse e
ampliate, in tutte le loro pieghe letterarie, nel Corbaccio, anche
nella difesa dell’intellettuale e nella esaltazione del potere dello
scrittore.
177 continua a essere.
178 portare ben dritta la persona, camminare pettoruti e impettiti.
179 danzare e combattere nelle giostre: Intr., 106 n.; III 6,7 n.
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che coloro hanno ad imparare. E oltre a ciò, gli stimate
miglior cavalieri e far di più miglia180 le lor giornate che
gli uomini più maturi181. Certo io confesso che essi con
maggior forza scuotono i pilliccioni182, ma gli attempati,
103 sì come esperti, sanno meglio i luoghi dove stanno le
pulci; e di gran lunga è da eleggere più tosto il poco e
saporito che il molto e insipido; e il trottar forte rompe
e stanca altrui, quantunque sia giovane, dove il soavemente183 andare, ancora che alquanto più tardi altrui
meni allo albergo, egli il vi conduce almen riposato. Voi
non v’accorgete, animali senza intelletto184, quanto di
185 di bella apparenza stea nasco104 male sotto quella poca
so. Non sono i giovani d’una contenti, ma quante ne
veggono tante ne disiderano, di tante par loro esser
degni; per che essere non può stabile il loro amore; e tu
ora ne puoi per pruova esser verissima testimonia186. E
par loro esser degni d’essere reveriti e careggiati187 dalle
105 loro donne; né altra gloria hanno maggiore che il vantarsi di quelle che hanno avute; il qual fallo già sotto a’
frati, che nol ridicono, ne mise molte 188. Benché tu
180 Nei soliti sensi equivoci per cui III 6,37 n. e VIII 4,32 n.:
giornate tappe.
181 Segnando a margine queste e le righe seguenti (da il quale
101 a v’è donato 105): «Messer Giovanni mio tu predichi nel diserto, quantunque a me paia che dica il vero» (M.).
182 Altra consueta metafora sessuale (IV 10,46 n.; X 10,69 n.),
come la seguente delle p u l e i .
183 riposatamente, lentamente: VI 2,28.
184 Espressione energica amata dal B.: Amorosa Visione,
XXXII 2.
185 Solita attrazione per cui cfr. II 10,18 n.
186 Forma frequente nel D.: VIII 5,13 n., e anche Intr., 56 n.
187 vezzeggiati, tenuti cari: VIII 9,1 12: «molto più gli onorò e
careggiò»; Esposizioni, VI litt. 34: «non erano acostanti all’usanze
degli uomini, né gli careggiavano».
188 Cioè: ne indusse molte ad accondiscendere alle voglie dei
frati, che almeno non hanno l’abitudine di vantarsene (Sapegno).
«E pe’ fra(ti)» (M.).
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dichi189 che mai i tuoi amori non seppe altri che la tua
fante e io, tu il sai male, e mal credi se così credi. La
sua190 contrada quasi di niun’altra cosa ragiona, e la
tua; ma le più volte è l’ultimo, a cui cotali cose agli
orecchi pervengono, colui a cui elle appartengono191.
Essi192 ancora vi rubano, dove dagli attempati v’è donato. Tu adunque, che male eleggesti, sieti di colui a cui
tu ti desti, e me, il quale schernisti, lascia stare ad altrui,
ché io ho trovata donna da molto più che tu non se’,
che meglio n’ha conosciuto che tu non facesti. E acciò
che tu del disidero degli occhi miei possi maggior certezza nell’altro mondo portare che non mostra193 che tu
in questo prenda dalle mie parole, gittati giù pur tosto,
e l’anima tua, sì come io credo, già ricevuta nel le braccia del diavolo, potrà vedere se gli occhi miei d’averti
veduta strabocchevolmente194 cadere si saranno turbati
o no. Ma per ciò che io credo che di tanto non mi vorrai far lieto, ti dico che, se il sole ti comincia a scaldare,
ricorditi del freddo che tu a me facesti patire, e se con
cotesto caldo il mescolerai, senza fallo il sol sentirai
temperato».
La sconsolata donna, veggendo che pure a crudel
fine riuscivano le parole dello scolare, ricominciò a piagnere e disse: «Ecco, poi che niuna mia cosa di me a
pietà ti muove195, muovati l’amore, il qual tu porti a
quella donna che più savia di me di’che hai trovata, e da
cui tu di’che se’ amato, e per amor di lei mi perdona e i
189
Per queste forme del congiuntivo cfr. II 7,100 n.
Dell’amante.
si riferiscono:
192 Cioè i giovani.
193 Impersonale: IV 10,36 n.
194 precipitando, a capofitto: V 6,3 n.; e Corbaccio, 392: «le dure
rocce e gli strabocchevoli balzi».
195 Purg., VI 116: «E se nulla di noi pietà ti move».
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miei panni mi reca, ché io rivestir mi possa, e quinci mi
fa smontare».
Lo scolare allora cominciò a ridere; e veggendo che
già la terza era di buona ora passata, rispose: «Ecco, io
non so ora dir di no, per tal donna me n’hai pregato196;
insegnamegli197, e io andrò per essi e farotti di costà su
scendere».
La donna, ciò credendo, alquanto si confortò, e insegnogli il luogo dove aveva i panni posti. Lo scolare,
della torre uscito, comandò al fante suo che di quindi
non si partisse, anzi vi stesse vicino, e a suo poter guardasse che alcun non v’entrasse dentro198 infino a tanto
che egli tornato fosse; e questo detto, se n’andò a casa
del suo amico, e quivi a grande agio desinò, e appresso,
quando ora gli parve, s’andò a dormire.
La donna, sopra la torre rimasa, quantunque da
sciocca speranza un poco riconfortata fosse, pure oltre
misura dolente si dirizzò a sedere, e a quella parte del
muro dove un poco d’ombra era s’accostò, e cominciò
accompagnata da amarissimi pensieri ad aspettare; e ora
pensando e ora piagnendo, e ora sperando e or disperando della tornata dello scolare co’panni, e d’un pensiero in altro saltando, sì come quella che dal dolore era
vinta, e che niente la notte passata aveva dormito, s’addormentò. Il sole, il quale era ferventissimo, essendo già
al mezzo giorno salito, feriva alla scoperta e al diritto199
sopra il tenero e dilicato corpo di costei e sopra la sua
testa, da niuna cosa coperta, con tanta forza, che non
solamente le cosse le carni tanto quanto ne vedea, ma
196
Risposta analoga a quella di Ricciardo a Catella (III 6,12).
mostrami, indicami dove sono.
198 Uso solito nel B., quasi «entrare» valesse genericamente andare: cfr. 2,15 e soprattutto V 7,12 n.
199 dardeggiava, batteva senza trovare ostacoli e a perpendicolo.
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quelle minuto minuto200 tutte l’aperse; e fu la cottura
tale, che lei che profondamente dormiva constrinse a
destarsi.
E sentendosi cuocere e alquanto movendosi, parve
nel muoversi che tutta la cotta pelle le s’aprisse e
ischiantasse, come veggiamo avvenire d’una carta di pecora abbruciata, se altri la tira; e oltre a questo le doleva
sì forte la testa201, che pareva che le si spezzasse, il che
niuna maraviglia era. E il battuto della torre era fervente202 tanto, che ella né co’ piedi né con altro vi poteva
trovar luogo203; per che, senza star ferma, or qua or là si
tramutava piagnendo. E oltre a questo, non faccendo
punto di vento, v’erano mosche e tafani in grandissima
quantità abondanti204, li quali, ponendolesi sopra le
carni aperte, sì fieramente la stimolavano205, che ciascuna le pareva una puntura d’uno spontone206 per che ella
di menare le mani attorno non restava niente207, sé, la
sua vita, il suo amante e lo scolare sempre maladicendo.
E così essendo dal caldo inestimabile, dal sole, dalle
mosche e da’ tafani, e ancor dalla fame, ma molto più
dalla sete, e per aggiunta da mille noiosi pensieri angosciata e stimolata e trafitta, in piè dirizzata, cominciò a
guardare se vicin di sé o vedesse o udisse alcuna perso-
200 Ripetizione con valore di superlativo: minutissimamente,
cioè con fittissime screpolature.
201 Cfr. 123 n.
202 Caldo, scottante.
203 trovare dove stare: VII concl., 12 n.
204 vi erano ... venuti, sopraggiunti abbondantemente: cfr. per
es. Jacopo da Cessole, Volgarizzamento del giuoco degli scacchi,
Milano 1829, p. 96; Pulci, Morgante, III 22.
205 pungevano, punzecchiavano: cfr. II 9,75 e lnf., III 65-66:
«ignudi, stimolati molto | Da mosconi e da vespe ch’eran ivi».
206 spiedo, asta dalla punta acuta.
207 non si interrompeva, non sostava per nulla: Inf., XIV 40-41:
«Sanza riposo mai era la tresca | De le misere mani».
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na, disposta del tutto, che che avvenire ne le dovesse, di
chiamarla e di domandare aiuto. Ma anche questo
l’aveva la sua nimica fortuna tolto.
I lavoratori eran tutti partiti de’campi per lo caldo,
avvegna che208 quel dì niuno ivi appresso era andato a
lavorare, sì come quegli che allato alle lor case tutti le
lor biade battevano; per che niuna altra cosa udiva che
cicale, e vedeva Arno, il qual, porgendole disiderio delle
sue acque, non iscemava la sete ma l’acresceva209. Vedeva ancora in più luoghi boschi e ombre e case, le quali
tutte similmente l’erano angoscia disiderando210. Che
direm più della sventurata vedova? Il sol di sopra e il
fervor del battuto di sotto e le trafitture delle mosche e
de’ tafani da lato sì per tutto l’avean concia, che ella,
dove la notte passata con la sua bianchezza vinceva le
tenebre, allora rossa divenuta come rabbia211, e tutta di
sangue chiazzata, sarebbe paruta, a chi veduta l’avesse,
la più brutta cosa del mondo.
E così dimorando costei, senza consiglio alcuno o
speranza, più la morte aspettando che altro, essendo già
la mezza nona212 passata, lo scolare, da dormir levatosi
e della sua donna ricordandosi, per veder che di lei
fosse se ne tornò alla torre, e il suo fante, che ancora era
digiuno, ne mandò a mangiare; il quale avendo la donna
sentito, debole e della grave noia angosciosa213, venne
208
per quanto, benché.
Inf., XXX 64 sgg .: «Li ruscelletti che d’i verdi colli I| Del
Casentin discendon giuso in Arno ... | Sempre mi stanno innanzi, e
non indarno, | Ché l’imagine lor vie più m’asciuga».
210 poiché le desiderava, per lei che le desiderava: IV concl., 16
n.; Vita Nuova, III 12; Compagni, I 10: «furono messi in caccia uccidendoli».
211 La rabbia o ’stizza’ è un malore che rende rossa la pelle e
tutta scabbiosa (Colombo, Fanfani, Tommasco). O forse il riferimento è, brachilogicamente a senso, al rossore provocato dall’ira?
212 Cioè circa l’una e mezza del pomeriggio.
213 e angosciata, sfinita per tutte quelle sofferenze.
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sopra la cateratta, e postasi a sedere, piagnendo cominciò a dire: «Rinieri, ben ti se’ oltre misura vendico214,
ché se io feci te nella mia corte di notte agghiacciare, tu
hai me di giorno sopra questa torre fatta arrostire, anzi
ardere, e oltre a ciò di fame e di sete morire; per che io
ti priego per solo Idio215 che qua su salghi, e poi che a
me non soffera il cuore216 di dare a me stessa la morte,
dallami tu, ché io la disidero più che altra cosa, tanto e
tale è il tormento che io sento. E se tu questa grazia non
mi vuoi fare, almeno un bicchier d’acqua mi fa venire,
che io possa bagnarmi la bocca, alla quale non bastano
le mie lagrime, tanta è l’asciugaggine 217 e l’arsura la
quale io v’ho dentro».
Ben conobbe lo scolare alla voce la sua debolezza, e
ancor vide in parte il corpo suo tutto riarso dal sole, per
le quali cose e per gli umili suoi prieghi un poco di
compassione gli venne di lei; ma non per tanto rispose:
«Malvagia donna, delle mie mani non morrai tu già, tu
morrai pur delle tue, se voglia te ne verrà; e tanta acqua
avrai da me a sollenamento218 del tuo caldo, quanto
fuoco io ebbi da te ad alleggiamento219 del mio freddo.
Di tanto mi dolgo forte, che la ’nfermità del mio freddo
214 vendicato. Uno dei soliti participi accorciati o aggettivi verbali: cfr. II 7,89 n.
215 solo per amor di Dio: e non per la bellezza e per l’amore,
come prima aveva supplicato.
216 non soffre, non sopporta il cuore, cioè non ho coraggio.
217 secchezza. Ricorda l’«asciuga» dell’esempio dantesco or ora
citato: Da Buti, comm. a Purg., XXIV 32: «con men secchezza,
cioè con minore asciugaggine che non avea ora quando io lo vidi».
E per l’arsura cfr. Inf., XXX 127: «tu hai l’arsura e il capo che ti
duole» (per questo particolare cfr. 114).
218 sollevamento, sollievo, lenimento: sostantivo raro dal verbo
corrente «sollenare» (dal lat. lenis, forgiato sui composti del tipo
delenire, oblenire): cfr. per es. Vita Nuova, XII 2, XXXIX 4; C.
Davanzati, Rime, Bologna 1965, XVl 55; 30,9.
219 alleviamento: Proemio, 7 n.
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col caldo del letame puzzolente si convenne curare, ove
126 quella del tuo caldo col freddo della odorifera acqua
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rosa220 si curerà; e dove io per perdere i nervi e la persona221 fui, tu da questo caldo scorticata, non altramenti rimarrai bella che faccia la serpe lasciando il vecchio
cuoio».
«O misera me!» disse la donna «queste bellezze in
così fatta guisa acquistate dea Iddio a quelle persone
che mal mi vogliono; ma tu, più crudele che ogni altra
fiera, come hai potuto sofferire di straziarmi a questa
maniera? Che più doveva io aspettar da te o da alcuno
altro, se io tutto il tuo parentado sotto crudelissimi tormenti avessi uccisi222? Certo io non so qual maggior
crudeltà si fosse potuta usare in223 un traditore che
tutta una città avesse messa ad uccisione, che quella alla
qual tu m’hai posta a farmi arrostire al sole e manicare 224 alle mosche; e oltre a questo non un bicchier
d’acqua volermi dare, che a’ micidiali dannati dalla ragione225, andando essi alla morte, è dato ber molte volte
del vino, pur che essi ne domandino. Ora ecco, poscia
che io veggo te star fermo nella tua acerba crudeltà, né
poterti la mia passione in parte alcuna muovere, con pazienzia mi disporrò alla morte ricevere, acciò che Iddio
abbia misericordia della anima mia, il quale io priego
che con giusti occhi questa tua operazion riguardi». E
queste parole dette, si trasse con gravosa sua pena verso
il mezzo del battuto, disperandosi di dovere da così ardente caldo campare; e non una volta ma mille, oltre
220 Acqua odorosa distillata dalle rose: è nominata anche nella
VIII 10,18 tra i vari profumi usati da Madonna Iancofiore.
221 le forze e la vita: II 5,60 n.
222 Facile concordanza, a senso, con il collettivo parentado.
223 contro: II 1,31 n.
224 mangiare: I 1,42 n.
225 mentre agli assassini, agli omicidi condannati dalla giustizia:
II 6,39 n. e VIII 5,1 n.
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agli altri suoi dolori, credette di sete spasimare226, tuttavia227 piagnendo forte e della sua sciagura dolendosi.
Ma essendo già vespro e parendo allo scolare avere
assai fatto, fatti prendere i panni di lei e inviluppare nel
mantello del fante, verso la casa della misera donna se
n’andò, e quivi sconsolata e trista e senza consiglio228 la
fante di lei trovò sopra la porta sedersi, alla quale egli
disse: «Buona femina, che è della donna tua?»
A cui la fante rispose: «Messere, io non so; io mi
credeva stamane trovarla nel letto dove iersera me l’era
paruta vedere andare; ma io non la trovai né quivi né altrove, né so che si sia divenuta229, di che io vivo con
grandissimo dolore; ma voi, messere, saprestemene dir
niente?»
A cui lo scolar rispose: «Così avess’io avuta te con
lei insieme là dove io ho lei avuta, acciò che io t’avessi
della tua colpa così punita come io ho lei della sua! Ma
fermamente tu non mi scapperai dalle mani, che io
non230 ti paghi sì dell’opere tue che mai di niuno uomo
farai beffe che di me non ti ricordi». E questo detto,
disse al suo fante: «Dalle cotesti panni e dille che vada
per lei, s’ella vuole».
Il fante fece il suo comandamento; per che la fante,
presigli e riconosciutigli, udendo ciò che detto l’era, temette forte non l’avessero uccisa, e appena di gridar si
ritenne; e subitamente, piagnendo, essendosi già lo scolar partito, con quegli verso la torre n’andò correndo.
Aveva per isciacura uno lavoratore di questa donna
quel dì due suoi porci smarriti, e andandoli cercando,
226
struggersi, consumarsi, venir meno.
sempre, continuamente: I 1,15 n.
228 senza sapere che risoluzione prendere e quindi: disperata,
smarrita.
229 che cosa ne sia avvenuto: cfr. Annotazioni, LXII.
230 senza che io.
227
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135 poco dopo la partita dello scolare a quella torricella
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pervenne, e andando guatando per tutto se i suoi porci
vedesse, sentì il miserabile pianto che la sventurata
donna faceva, per che salito su quanto potè, gridò: «Chi
piagne là su?»
La donna conobbe la voce del suo lavoratore, e
chiamatol per nome gli disse: «Deh! vammi per la mia
fante231, e fa sì che ella possa qua su a me venire».
Il lavoratore, conosciutala, disse: «Ohimè! madonna: o chi vi portò costà su? La fante vostra v’è tutto
dì232 oggi andata cercando; ma chi avrebbe mai pensato
che voi doveste essere stata qui?»
E presi i travicelli233 della scala, la cominciò a dirizzar come star dovea e a legarvi con ritorte i bastoni a
traverso. E in questo234 la fante di lei sopravenne, la
quale, nella torre entrata, non potendo più la voce tenere, battendosi a palme235 cominciò a gridare: «Ohimè,
donna mia dolce, ove siete voi?»
La donna udendola, come più forte potè, disse: «O
sirocchia236 mia, io son qua su; non piagnere, ma recami
tosto i panni miei».
Quando la fante l’udì parlare, quasi tutta riconfortata, salì su per la scala già presso che racconcia237 dal la231 va a cercare la mia fante: solito uso delle particelle me, mi
ad accennare servigio o favore: cfr. per es. VII 7,39 n.
232 per tutto il giorno, sempre: sintagma consueto: V 10,34 n.
233 Le due assi, le due travi laterali. Ma nella precedente azione
non era detto che la scala fosse stata scomposta o rovinata, ma
solo levata (69).
234 in questo mezzo, in questo frattempo.
235 percuotendosi con le palme delle mani il viso per disperazione: Inf., IX 50: «Battiensi a palme», che il B. chiosa: «come qui
fanno le femine che gran dolor sentono» (Esposizioni, IX litt. 30; e
cfr. anche III litt. 17).
236 Consueti simili appellativi per i domestici e i familiari: cfr.
per es. VIII 3,5I; Purg., IV 127.
237 riassettata, raggiustata: un altro participio accorciato: cfr. II
7,89 n.
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140 voratore, e aiutata da lui in sul battuto pervenne; e ve-
dendo la donna sua, non corpo umano ma più tosto un
cepperello inarsicciato238 parere, tutta vinta, tutta spunta239, e giacere in terra ignuda, messesi l’unghie nel viso
cominciò a piagnere sopra di lei240, non altramenti che
se morta fosse. Ma la donna la pregò per Dio che ella
tacesse e lei rivestire aiutasse241. E avendo da lei saputo
141 che niuna persona sapeva dove ella stata fosse, se non
coloro che i panni portati l’aveano e il lavoratore che al
presente v’era, alquanto di ciò racconsolata, gli pregò
per Dio che mai ad alcuna persona di ciò niente dicessero. Il lavoratore dopo molte novelle 242, levatasi la
donna in collo, che andar non poteva, salvamente 243
142 infin fuor della torre la condusse. La fante cattivella,
che di dietro era rimasa, scendendo meno avvedutamente, smucciandole il piede244, cadde della scala in
terra e ruppesi la coscia, e per lo dolor sentito cominciò
a mugghiar che pareva un leone245.
Il lavoratore, posata la donna sopra ad uno
erbaio246, andò a vedere che avesse la fante, e trovatala
238 un piccolo ceppo bruciacchiato, alquanto arso: cfr. Amorosa
Visione, IX 53.
239 tutta inerte, affranta, tutta smunta, consunta: cfr. Sacchetti,
Rime, CCXCVIII 5 sgg.: «L’altro con membra nude nere e smorte
| Sul bove scapigliata si figura | Orrida spunta e scura»; Pataffio,
IV 24.
240 Vita Nuova, VIII 6: «io ’1 vidi lamentare in forma vera |
Sovra la morta imagine avvenente».
241 Solita omissione della preposizione a: IV intr., 36 n.
242 discorsi, ciance: II 8,67 n.
243 Cioè: sana e salva.
244 scivolandole il piede: Inf., XXIV 127; Pulci, Morgante, XXI
72.
245 «In che nuova Africa o Nuovo Mondo mugghiano i leoni e
per íscambio ruggiano i buoi?» Così il Bartoli nell’ultimo paragrafo del Torto e diritto del non si può: ma anche il Tasso scrive:
«Così leon ch’anzi l’orribil chioma | Con inuggito scotea superbo
e fiero» (Gerusatemme Liberata, VIII 83).
246 luogo erboso.
Letteratura italiana Einaudi
1143
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
143 con la coscia rotta, similmente nello erbaio la recò, e al-
lato alla donna la pose. La quale veggendo questo a
giunta degli altri suoi mali avvenuto, e247 colei avere
rotta la coscia da cui ella sperava essere aiutata più che
da altrui, dolorosa senza modo 248 ricominciò il suo
pianto tanto miseramente, che non solamente il lavoratore non la potè racconsolare, ma egli altressì cominciò
a piagnere. Ma, essendo già il sol basso, acciò che quivi
non gli cogliesse la notte, come alla sconsolata donna
144 piacque, n’andò alla casa sua, e quivi chiamati due suoi
fratelli e la moglie, e là tornati con una tavola, su v’acconciarono la fante e alla casa ne la portarono; e riconfortata la donna con un poco d’acqua fresca e con
buone parole, levatalasi il lavoratore in collo, nella camera di lei la portò. La moglie del lavoratore, datole
mangiar pan lavato249 e poi spogliatala, nel letto la mise,
145 e ordinarono che essa e la fante fosser la notte portate a
Firenze; e così fu fatto.
Quivi la donna, che aveva a gran divizia lacciuoli250,
fatta una sua favola tutta fuor dell’ordine delle cose av146 venute251, sì di sé e sì della sua fante fece a’ suoi fratelli
e alle sirocchie e ad ogn’altra persona credere che per
indozzamenti di demoni252 questo loro fosse avvenuto.
247 «E pro idest» (M.). «Ma ... la e qui non vai di certo cioè
perché questo è un parlar semplicissimo ed è da intendersi: veggendo che per giunta era precipitata dalla scala la fante e che si era
rotta la coscia» (Fanfani).
248 Cfr. VIII 4,35: «divenne il più doloroso uomo che fosse
mai».
249 Pane che affettato e arrostito s’inzuppa nell’acqua e condiscesi con olio aceto zucchero e simili (T.).
250 Cioè: malizie, inganni: cfr. Inf., XXII 109: «Ond’ei ch’avea
lacciuoli a gran divizia»; e cfr. qui 98 n.
251 Come la Violante: cfr. V 7,23 n.
252 per malie, fatture diaboliche che intorpidiscono le membra.
Di indozzamento i Vocabolari non citano se non tardi esempi, con
Letteratura italiana Einaudi 1144
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
I medici furon presti253, e non senza grandissima angoscia e affanno della donna che tutta la pelle più volte
147 appiccata lasciò alle lenzuola, lei d’una fiera febbre e
degli altri accidenti254 guerirono, e similmente la fante
della coscia. Per la qual cosa la donna, dimenticato il
suo amante, da indi innanzi e di beffare e d’amare si
148
guardò saviamente255. E lo scolare, sentendo alla fante
la coscia rotta, parendogli avere assai intera vendetta,
lieto, senza altro dirne, se ne passò256.
Così adunque alla stolta giovane addivenne delle
sue beffe, non altramente con uno scolare credendosi
149 frascheggiare257 che con un altro avrebbe fatto; non
sappiendo bene che essi, non dico tutti ma la maggior
parte, sanno dove il diavolo tien la coda258.
E per ciò guardatevi, donne, dal beffare, e gli scolari
spezialmente259.
tutta probabilità ripresi da questo passo. Ma cfr. Teseida, VIII 84:
«Tal di quel colpo sentiva la ’ndozza»; Sacchetti, CCXXV: «Per
certo, Golzo, tu dei essere indozzato» (cioè stregato) e Rime,
CLIX 83: cfr. F. AGENO, Riboboli trecenteschi, in «Studi di Filologia Italiana», X, 1952, p. 427.
253 pronti e solleciti.
254 mali.
255 «Scioccamente direbbe meglio» (M.).
256 lasciò correr la cosa, non fece altro: IV 5,7 n.
257 civettare, scherzare: cfr. III 3,26 n.
258 «Modo famigliare per accennare un furbo trincato, un
uomo astutissimo e da non potersi o doversi beffare» (Fanfani); e
cfr. nota del Mannelli al 13.
259 «Nota» (M. segnando a margine tutto il periodo).
Letteratura italiana Einaudi
1145
NOVELLA OTTAVA
1
Due usano insieme; l’uno con la moglie dell’altro si giace; l’altro, avvedutosene, fa con la sua moglie che1 l’uno è serrato in
una cassa, sopra la quale, standovi l’un dentro, l’altro con la
moglie dell’un si giace2.
2
Gravi e noiosi erano stati i casi d’Elena ad ascoltare
alle donne; ma per ciò che in parte giustamente avvenutigli3 gli estimavano, con più moderata compassion gli
avean trapassati4, quantunque rigido e costante fieramente, anzi crudele, riputassero lo scolare. Ma essendo
Pampinea venutane alla fine, la reina alla Fiammetta impose che seguitasse, la quale, d’ubidire disiderosa 5,
disse:
– Piacevoli donne, per ciò che mi pare che alquanto
trafitto v’abbia la severità dello offeso scolare, estimo
che convenevole sia con alcuna cosa più dilettevole
rammorbidire gl’innacerbiti spiriti; e per ciò intendo di
dirvi una novelletta d’un giovane, il quale con più mansueto animo una ingiuria ricevette, e quella con più mo-
3
1
combina con sua moglie che, d’accordo con sua moglie la in
modo che ...
2
Nessun preciso e diretto antecedente di questa novella:
poiché relazioni che sono state stabilite con un fabliau, Constant
du Hamel (Recueil général, IV 166; BÉDIER, pp. 331 sgg. e 454
sgg.) e colle sue possibili fonti (La fleur lascive orientale, Oxford
1884, p. 10; CLOUSTON, Popular tales cit., II, pp. 298 sgg.; Gesammtabenteuer cit., III, pp. XXXV sgg.), sono assai vaghe e riguardano vendette di donne contro amanti importuni. Cfr. anche
Thompson e Rotunda, K 1566: e A. L. STIEFEL, Zum Schwank
von der Roche eines betrogenen Ehemannes, in «Zeitschr. f. neufranzösische Sprache und Literatur», XXXII, 1908, pp. 268 sgg.
3
avvenutile: solecismo già notato altra volta (III 9,9 n.).
4
Cioè ascoltati ad uno ad uno.
5
Per lo stilema dantesco cfr. V 3,2 n.
Letteratura italiana Einaudi 1146
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4
5
derata operazion vendicò. Per la quale potrete comprendere che assai dee bastare a ciascuno, se quale
asino dà in parete tal riceve6, senza volere, soprabondando oltre la convenevoleza della vendetta, ingiuriare,
dove l’uomo si mette alla ricevuta ingiuria vendicare7.
Dovete adunque sapere che in Siena, sì come io intesi già, furon due giovani assai agiati e di buone famiglie popolane, de’ quali l’uno ebbe nome Spinelloccio
Tavena8 e l’altro ebbe nome Zeppa di Mino9, e amenduni eran vicini a casa in Camollia10. Questi due giovani
sempre usavano insieme, e per quello che mostrassono,
così s’amavano, o più, come se stati fosser fratelli11, e
ciascun di loro avea per moglie una donna assai bella.
6
Cioè se facendo un’ingiuria ne riceve una pari: proverbio
già riferito nelle II 9,6 e V 10,64 (cfr. ivi nn.), e simile a quello che
ricorre più innanzi (30: «voi m’avete renduto pan per focaccia»).
«Vuol dire che all’offeso deve bastare una vendetta che, senza trascendere, pareggi l’ingiuria. S’avverta che, in questi limiti, la vendetta era considerata lecita dalle leggi» (Sapegno).
7
quando ci si mette a vendicare l’ingiuria ricevuta: iperbato
simile a quelli notati a Intr., 20 n. ecc.
8
Nota famiglia senese: cfr. per es. BIAGI-PASSERINI, Codice diplomatico dantesco, Firenze 1895, p. 3, Un «dominus Spinellus quondam domini Mei Tavene de Tolomeis» è ricordato in
documenti dei primi del Trecento; abitava con la moglie Caterina
di Naddo Piccolomini nel Terzo di Camollia (E. SANTINI, II B.
novellatore d’amore, in «Italia», III, 1913, numero dedicato al B.
S p i n e l l o c c i o è ipocoristico di Spina, Spinello.
9
Mino de’ Tolomei, detto Zeppa, è spesso e irosamente ricordato dal fratello Meo: ebbe varie cariche tra il 1279 e il 1307, e
come Podestà a San Gimignano ricevette nel Trecento l’ambasceria di cui fece parte Dante (abitò nel Terzo di Camollia: BIAGIPASSERINI, Codice diplomatico cit., pp. 2 599; M. MARTI, Cultura e stile nei poeti giocosi, Pisa 1953, pp. 59 sgg.; e anche Codice
diplomatico dantesco edito da R. Piattoli, Firenze 1950, p. 81; e cfr.
VII 10,8 n.). Si noti però che i Tolomei non si potevano dire «popolani». M i n o è ipocoristico di vari nomi, per es. Anselmo, Giacomo.
10 vicini di casa nella contrada di Porta Camollia.
11 Proprio come i protagonisti di un’altra novella senese (VII 10,8).
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Ora avvenne che Spinelloccio, usando molto in casa
del Zeppa12, ed essendovi il Zeppa e non essendovi, per
sì fatta maniera con la moglie del Zeppa si dimesticò,
che egli incominciò a giacersi con essolei13; e in questo
continuarono una buona pezza avanti che persona se
n’avvedesse. Pure al lungo andare, essendo un giorno il
Zeppa in casa e non sappiendolo la donna, Spinelloccio
venne a chiamarlo. La donna disse che egli non era in
casa; di che14 Spinelloccio prestamente andato su e trovata la donna nella sala, e veggendo che altri non v’era,
abbracciatala la cominciò a baciare, ed ella lui 15. Il
Zeppa, che questo vide, non fece motto, ma nascoso si
stette a veder quello a che il giuoco dovesse riuscire; e
brievemente egli vide la sua moglie e Spinelloccio così
abbracciati andarsene in camera e in quella serrarsi, di
che egli si turbò forte. Ma conoscendo che per far romore né per altro la sua ingiuria non diveniva minore,
anzi ne cresceva la vergogna, si diede a pensar che vendetta di questa cosa dovesse fare16, che, senza sapersi da
torno17, l’animo suo rimanesse contento; e dopo lungo
pensiero, parendogli aver trovato il modo, tanto stette
nascoso quanto Spinelloccio stette con la donna.
Il quale come andato se ne fu, così egli nella camera
se n’entrò, dove trovò la donna che ancora non s’era
compiuta18 di racconciare i veli in capo, li quali scher12 Nota in tutta la novella l’articolo preposto a questo nome
proprio o soprannome: come del resto per es. nelle III 5, IV 3 ecc.
13 E s s o rafforzativo è invariabile: II 5,31 n.; VII 6,13 n. (e
qui 21, e s s o n o i ); e per la sfumatura erotica in s i d i m e s t i c ò
cfr. II 7,22 n.; II 7,28 n.
14 per la qual cosa.
15 «Insino a qui non cade vendetta» (M.).
16 Atteggiamento simile a quello del fratello di Lisabetta da
Messina (IV 5,7).
17 tale che, per modo che, senza che si sapesse in giro, che si divulgasse.
18 aveva compiuto, finito: uso corrente.
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15
zando Spinelloccio fatti l’aveva cadere, e disse: «Donna,
che fai tu?»
A cui la donna rispose: «Nol vedi tu?»
Disse il Zeppa: «Sì bene, sì, ho io veduto anche
altro che io non vorrei«; e con lei delle cose state entrò
in parole, ed essa con grandissima paura dopo molte
novelle19 quello avendogli confessato che acconciamente della sua dimestichezza con Ispinelloccio negar non
potea, piagnendo gl’incominciò a chieder perdono.
Alla quale il Zeppa disse: «Vedi, donna, tu hai fatto
male, il quale se tu vuogli che io ti perdoni, pensa di
fare compiutamente quello che io t’imporrò, il che è
questo. Io voglio che tu dichi20 a Spinelloccio che domattina in su l’ora della terza21 egli truovi qualche cagione di partirsi da me e venirsene qui a te; e quando
egli ci sarà, io tornerò, e come tu mi senti, cosi il fa entrare in questa cassa e serracel dentro; poi, quando questo fatto avrai, e22 io ti dirò il rimanente che a fare avrai;
e di far questo non aver dottanza23 niuna, ché io ti prometto che io non gli farò male alcuno». La donna, per
sodisfargli, disse di farlo, e così fece.
Venuto il dì seguente, essendo il Zeppa e Spinelloccio insieme in su la terza, Spinelloccio, che promesso
aveva alla donna d’andare a lei a quella ora, disse al
Zeppa: «Io debbo stamane desinare con alcuno amico,
al quale io non mi voglio fare aspettare, e per ciò fatti
con Dio24».
19
ciance, storie: II 8,67 n.
Forme popolaresche consuete: II 7,100 n.
21 Cioè verso le nove.
22 Solito uso della congiunzione in ripresa dopo una temporale a indicare istantaneità: Intr., 78 n.
23 timore, sospetto: Amorosa Visione, XLI 77.
24 Consueta forma di commiato: VII 10,29 n.
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Disse il Zeppa: «Egli non è ora di desinare di questa
pezza25».
Spinelloccio disse: «Non fa forza26; io ho altressì a
parlar seco d’un mio fatto, sì che egli mi vi convien
pure essere a buona ora».
Partitosi adunque Spinelloccio dal Zeppa, data una
sua volta27, fu in casa con la moglie di lui; ed essendosene entrati in camera, non stette guari che il Zeppa
tornò; il quale come la donna sentì, mostratasi paurosa
molto, lui fece ricoverare in quella cassa che il marito
detto l’avea e serrollovi entro, e uscì della camera.
Il Zeppa, giunto suso, disse: «Donna, è egli otta28 di
desinare?»
La donna rispose: «Sì, oggimai29».
Disse allora il Zeppa: «Spinelloccio è andato a desinare stamane con un suo amico e ha la donna sua lasciata sola; fatti alla finestra e chiamala, e dì che venga a desinar con essonoi».
La donna, di se stessa temendo e per ciò molto ubbidiente divenuta, fece quello che il marito le ‘mpose.
La moglie di Spinelloccio, pregata molto dalla moglie
del Zeppa, vi venne, udendo che il marito non vi30 doveva desinare.
E quando ella venuta fu, il Zeppa, faccendole le carezze31 grandi e presala dimesticamente per mano, comandò pianamente alla moglie che in cucina n’andasse,
e quella seco ne menò in camera, nella quale come fu,
25
in questo tempo, a quest’ora: IV 2,23 n. e IX 8,19 n.
Non importa, Non vuol dire: Sacchetti, CLXIII: «la cioppa... perché ella sia più corta, non fa forza». E cfr. Annotazioni,
CII.
27 fatto un giro: IX 6,8 n. e 9; Amorosa Visione, XLII 17.
28 ora: VII 2,12 n.
29 ormai: III 6,41 n.
30 In casa.
31 affettuosità, feste: II 5,16 n.
26
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voltatosi addietro, serrò la camera dentro. Quando la
donna vide serrar la camera dentro, disse: «Oimè,
Zeppa, che vuol dire questo? Dunque mi ci avete voi
fatta venir per questo? Ora, è questo l’amor che voi
portate a Spinelloccio e la leale compagnia che voi gli
fate?»
Alla quale il Zeppa, accostatosi alla cassa dove serrato era il marito di lei e tenendola bene, disse: «Donna,
imprima che tu ti ramarichi, ascolta ciò che io ti vo’
dire: io ho amato e amo Spinelloccio come fratello, e
ieri, come che egli nol sappia, io trovai che la fidanza32
la quale io ho di lui avuta era pervenuta a questo, che
egli con la mia donna così si giace come con teco; ora,
per ciò che io l’amo, non intendo di voler di lui pigliare
altra vendetta, se non quale è stata l’offesa33: egli ha la
mia donna avuta, e io intendo d’aver te. Dove tu non
vogli, per certo egli converrà che io il ci colga34, e per
ciò che io non intendo di lasciare questa vendetta35 impunita, io gli farò giuco36 che né tu né egli sarete mai
lieti».
La donna, udendo questo e dopo molte riconfermazioni fattelene dal Zeppa, credendol, disse: «Zeppa
mio, poi che sopra me dee cadere questa vendetta, e37
io son contenta, sì veramente38 che tu mi facci, di questo che far dobbiamo, rimanere in pace con la tua
donna, come io, non ostante quello che ella m’ha fatto,
intendo di rimaner con lei».
32
fiducia: I X,8 n.; IV 6,40 n.
Ripete il concetto già enunciato al 3: cioè: non voglio da lui
prendere più di quello che egli offendendomi mi ha preso. E cfr.
X 3,29 n.
34 lo colga sul fatto, in flagrante.
35 spregio, azione oltracotante: un uso insolito ma possibile.
36 Espressione solita in simili casi: VII 5,37; VII 8,26 ecc.; e
per giuco cfr. III 1,11 n.
37 Enfatico, in ripresa dopo causale, quasi un etiam: I 1,44 n.
38 Purché naturalmente, a questo patto: I 2,10 n.; II 9,22 n.
33
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A cui il Zeppa rispose: «Sicuramente io il farò; e
oltre a questo ti donerò un così caro e bello gioiello,
come niun altro che tu n’abbi»; e così detto, abbracciatala e cominciatala a baciare, la distese sopra la cassa,
nella quale era il marito di lei serrato e quivi su, quanto
gli piacque, con lei si sollazzò, ed ella con lui.
Spinelloccio, che nella cassa era e udite aveva tutte
le parole dal Zeppa dette e la risposta della sua moglie,
e poi aveva sentita la danza trivigiana39 che sopra il
capo fatta gli era, una grandissima pezza sentì tal dolore
che parea che morisse; e se non fosse40 che egli temeva
del Zeppa, egli avrebbe detta alla moglie una gran villania così rinchiuso come era. Poi, pur ripensandosi che
da lui era la villania incominciata e che il Zeppa aveva
ragione di far ciò che egli faceva, e che verso di lui umanamente e come compagno s’era portato, seco stesso
disse di volere esser più che mai amico del Zeppa,
quando volesse.
Il Zeppa, stato con la donna quanto gli piacque,
scese della cassa, e domandando la donna il gioiello
promesso, aperta la camera fece venir la moglie, la
quale niun’altra cosa disse, se non: «Madonna, voi
m’avete renduto pan per focaccia41»; e questo disse ridendo.
Alla quale il Zeppa disse: «Apri questa cassa»; ed
ella il fece; nella quale il Zeppa mostrò alla donna il suo
Spinelloccio.
39 «Ballo antico, e men che onesto, che usava già a Trevigi»
(Manni): in senso equivoco il termine era assai diffuso: come nei
fabliaux «la danse du lou», «la queue entre les jambes».
40 se non fosse stato: enallage consueta (per es. I 6,20; VI intr.,
15). «Questa forma di dire... è costantemente usata dagli antichi e
buoni scrittori che sembra appresso loro più tosto regola che licenza» (Bartoli).
41 Cfr. 3 n.
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35
E lungo sarebbe a dire qual più di lor due si vergognò, o Spinelloccio vedendo il Zeppa e sappiendo che
egli sapeva ciò che fatto aveva, o la donna vedendo il
suo marito e conoscendo che egli aveva e udito e sentito
ciò che ella sopra il capo fatto gli aveva.
Alla quale il Zeppa disse: «Ecco il gioiello il quale io
ti dono».
Spinelloccio, uscito della cassa, senza far troppe novelle42, disse: «Zeppa, noi siam pari pari; e per ciò è
buono, come tu dicevi dianzi alla mia donna, che noi
siamo amici come solavamo43; e non essendo tra noi
dua44 niun’altra cosa che le mogli divisa, che45 noi quelle ancora comunichiamo46».
Il Zeppa fu contento; e nella miglior pace del
mondo tutti e quattro desinarono insieme. E da indi innanzi ciascuna di quelle donne ebbe due mariti, e ciascun di loro ebbe due mogli, senza alcuna quistione o
zuffa mai per quello insieme averne. –
42
ciance, chiacchiere, storie: cfr. 12 n.
Desinenze correnti già notate altre volte (per es. II 5,23 n.),
e qui forse usate a contraffare la pronunzia senese.
44 Altra forma diffusa soprattutto nella Toscana orientale e
meridionale (Rohlfs, 971): ma cfr. Rime, 17.
45 Dipende sempre dal precedente è b u o n o .
46 anche quelle mettiamo in comune: X 8,1: «con lui comunica
ogni suo bene». Si potrebbe ricordare il proverbio latino. «Omnia
amicorum communia».
43
Letteratura italiana Einaudi
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NOVELLA NONA
1
Maestro Simone medico da Bruno e da Buffalmacco, per esser
fatto d’una brigata che va in corso, fatto andar di notte in alcun
luogo, è da Buffalmacco gittato in una fossa di bruttura e lasciatovi1.
2
Poi che le donne alquanto ebber cianciato dello accomunar le mogli fatto da’ due sanesi2, la reina, alla
qual sola restava a dire, per non fare ingiuria a Dioneo3,
incominciò:
– Assai bene, amorose donne, si guadagnò Spinelloccio la beffa che fatta gli fu dal Zeppa; per la qual
cosa non mi pare che agramente sia da riprendere,
come Pampinea volle poco innanzi mostrare4, chi fa
beffa alcuna a colui che la va cercando o che la si guadagna. Spinelloccio la si guadagnò; e io intendo di dirvi
d’uno che se l’andò cercando; estimando che quegli che
gliele fecero, non da biasimare ma da com mendar
sieno. E fu colui a cui fu fatta un medico, che a Firenze
3
1
Nessun antecedente per questa tipica novella municipale:
se non, in qualche modo, le tradizioni e le narrazioni classiche di
magie in Luciano, Petronio, Apuleio, e quelle medievali del
Sabah, di cui largamente già discorse il Bottari (II, pp. 209 sgg.), e
le relative tradizioni popolari (Thompson, K 1286, P 424, X 950
sgg.; G. BONOMO, Caccia alle streghe, Palermo 1959, pp. 339
sgg.; M. P. GIARDINI, Tradizioni popolari cit., pp. 69 sgg.; e cfr.
anche per qualche riscontro orientale R. BASSET, Contes et légendes de l’extréme Orient, in «Rev. des traditions populaires»,
XVIII, 1902). Il Baldinucci (Vita di Bruno cit.) narra l’avvenimento come realmente accaduto. Per il particolare valore di «va in
corso», cfr. la spiegazione a 19-30.
2
Due endecasillabi e un quinario di seguito, d’apertura.
3
Cioè per non togliere a Dioneo il diritto di parlare per ultimo.
4
Cfr. VIII 7,3 e VIII 8,2.
Letteratura italiana Einaudi 1154
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
4
5
da Bologna, essendo una pecora5, tornò tutto coperto
di pelli di vai6.
Sì come noi veggiamo tutto il dì i nostri cittadini da
Bologna7 ci tornano qual giudice e qual medico e qual
notaio, co’ panni lunghi e larghi, e con gli scarlatti8 e
co’ vai, e con altre assai apparenze grandissime9, alle
quali come gli effetti succedano anche veggiamo tutto
giorno10. Tra’ quali un maestro Simone da Villa11, più
ricco di ben paterni che di scienza, non ha gran tempo,
vestito di scarlatto e con un gran batalo12, dottor di medicine, secondo che egli medesimo diceva, ci ritornò13,
5
pur essendo un bestione, uno scroccone: cfr. VI intr.,10 e
anche la nota del M. a II 8,21; e qui, più avanti (12), pecoraggine.
6
Secondo l’uso degli addottorati: VIII 5,7 n.
7
Si ricordi che l’università a Firenze funzionò solo dopo il
1349.
8
La veste scarlatta (cfr. n. a VII 3,12) caratteristica di chi
aveva titolo dottorale: i p a n n i l u n g h i e l a r g h i alludono alla
guarnacca (VII I 5,9).
9
Si conclude qui l’eccezionale serie di versi che caratterizza
questo inizio di novella, in cui il movimento burlesco è sottolineato dagli echi caricaturali delle rime e dalla mobilità estrema degli
accenti e della misura dei versi.
10 Risponde al precedente tutto il dì: e cfr. I 1,88 n.
11 Di questo credulo e sciocco medico tessé una vita, mescolando notizie d’archivio a quelle fornite dalle novelle del B. (VIII
9 e IX 3), il Manni nelle Veglie piacevoli (IV, pp. 3 sgg.). Esistette
effettivamente una famiglia Da Villa, e un Ricciardo da Villa fu
Podestà di Bologna nel 1250 e 1255; un Messer Simone da Villa è
ricordato nelle Storie pistoresi nel 1315 e 1326 (RR.II.SS.2, XI 5,
pp. 65, 104, 105). Un Maestro Simone Medico risulta sepolto in
Santa Croce, verso la metà del Trecento, dal Sepoltuario della
Chiesa stessa conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze
(cod. Magliabechiano XXXVII 286).
12 meglio batolo: falda del cappuccio che nobili, preti, dottori
ecc. lasciavano cadere sulle spalle. Cfr. Sacchetti, XLII e CLV, da
cui si trae che a Firenze l’uso era caratteristico dei medici (cfr.
Merkel, pp. 64 sgg.).
13 venne a stare di casa qui a Firenze (II 5,22 n.). Difatti, come
si dirà più innanzi, «a Bologna nato e cresciuto era» (78).
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e prese casa nella via la quale noi oggi chiamiamo la Via
del Cocomero14.
Questo maestro Simone novellamente tornato, sì
come è detto, tra gli altri suoi costumi notabili aveva in
costume di domandare chi con lui era chi15 fosse qualunque uomo veduto avesse per via passare; e quasi
degli atti degli uomini dovesse le medicine che dar doveva a’ suoi infermi comporre, a tutti poneva mente e
raccoglievagli16.
E intra gli altri, alli quali con più efficacia gli vennero gli occhi addosso posti17, furono due dipintori dei
quali s’è oggi qui due volte ragionato, Bruno e Buffalmacco, la compagnia de’ quali era continua18, ed eran
suoi vicini. E parendogli che costoro meno che alcuni
altri del mondo curassero19 e più lieti vivessero, sì come
essi facevano, più persone domandò di lor condizione;
e udendo da tutti costoro essere poveri uomini e dipintori, gli entrò nel capo non dover potere essere che essi
dovessero così lietamente vivere della lor povertà, ma
s’avvisò, per ciò che udito avea, che astuti uomini
erano, che d’alcuna altra parte non saputa da gli uomini
14 Corrispondeva a un tratto dell’attuale Via Ricasoli, presso
Mercato Vecchio, dove abitavano anche Bruno e Buffalmacco: cfr.
IX 3,17: «maestro Simone ... allora a bottega stava in Mercato
Vecchio alla ’nsegna del mellone». Certo questa toponomastica è
scelta anche per alludere alla balordaggine di Simone (cfr. 15 n.).
E per l’uso di ripetizioni simili a quella di via in questa frase cfr.
Esposizioni, X 24: «il mare fu chiamato il mar Tireno»; Vita
Nuova, XXV 9 e la nota del Barbi nell’ed. cit.
15 La solita costruzione di domandare con due accusativi: II
7,87 n.
16 osservava e meditava: III 9,37 n.
17 e intra gli altri addosso li quali ecc. (Foscolo).
18 i quali stavano sempre insieme (cfr. VIII 3 e 6). E cfr. VIII
3,4 nn.
19 si preoccupassero della gente, si curassero del successo mondano.
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dovesser trarre profetti 20 grandissimi; e per ciò gli
venne in disidero di volersi, se esso potesse con amenduni, o con l’uno almeno, dimesticare; e vennegli fatto
di prendere dimestichezza con Bruno. E Bruno, conoscendolo21, in poche di volte che con lui stato era, questo medico essere uno animale 22, cominciò di lui ad
avere il più bel tempo del mondo con sue nuove
novelle23, e il medico similmente cominciò di lui a prendere maraviglioso piacere. E avendolo alcuna volta seco
invitato a desinare e per questo credendosi dimesticamente con lui poter ragionare, gli disse la maraviglia
che egli si faceva di lui e di Buffalmacco, che, essendo
poveri uomini, così lietamente viveano; e pregollo che
gli ’nsegnasse come facevano.
Bruno, udendo il medico, e parendogli la domanda
dell’altre sue sciocche e dissipite24, cominciò a ridere, e
pensò di rispondergli secondo che alla sua pecoraggine 25 si convenia, e disse: «Maestro26, io nol direi a
molte persone come noi facciamo, ma di dirlo a voi,
perché siete amico e so che ad altrui nol direte, non mi
guarderò. Egli è vero che il mio compagno e io viviamo
20 profitti. Forma meno frequente ma corrente (cfr. per es.
Fra Giordano, Prediche, ed. Moreni, Firenze 1831, II, pp. 43 e
45).
21 -lo è prolettico della frase seguente. Non pare invece possibile costruire diversamente, considerando questo medico soggetto
di era: «E Bruno conoscendolo (in poche di volte che con lui stato
era questo medico) essere uno animale».
22 Espressione generica, a indicare la sciocchezza di Simone,
analoga a quelle della VI intr., 7 e 9; VII 6,2 ecc.; ma già usata dal
B. nell’Amorosa Visione proprio per coloro che credono le ricchezze sommo bene e unica fonte di felicità (XXXII 2 sgg.).
23 a prender sollazzo delle sue strane scempiaggini, ciancie.
24 una delle sue solite sciocchezze e delle più insipide: III 8,6 n.
25 scempiaggine, balordaggine: cfr. 3 n.
26 Il solito titolo degli addottorati in medicina: IV 10,4 n.
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così lietamente e così bene come vi pare e più; né di nostra arte né d’altro frutto, che noi d’alcune possessioni
traiamo27, avremmo da poter pagar pur l’acqua che noi
logoriamo28; né voglio per ciò che voi crediate che noi
andiamo ad imbolare29, ma noi andiamo in corso, e di
questo ogni cosa che a noi è di diletto o di bisogno,
senza alcun danno d’altrui, tutto traiamo, e da questo
viene il nostro viver lieto che voi vedete».
Il medico udendo questo e, senza saper che si fosse,
credendolo, si maravigliò molto; e subitamente entrò in
disidero caldissimo di sapere che cosa fosse l’andare in
corso; e con grande instanzia il pregò che gliel dicesse,
affermandogli che per certo mai a niuna persona il direbbe30.
«Omè!» disse Bruno «maestro, che mi domandate
voi? Egli è troppo gran segreto quello che voi volete sapere, ed è cosa da disfarmi31 e da cacciarmi del mondo;
anzi da farmi mettere in bocca del Lucifero da San
Gallo32, se altri il risapesse; ma sì è grande l’amor che io
porto alla vostra qualitativa mellonaggine da Legnaia33,
27
ricaviamo.
consumiamo: «ma non detto propriamente, ché logorare dicesi di cose che si deteriorano e vengon meno per lungamente
trattarle» (Fanfani).
29 involare, rubare.
30 Come già un altro babbeo, Puccio (III 4,14 n.) a un altro
furbo matricolato.
31 rovinarmi, farmi perire: IV 9,24 n. e VIII 4,4 n
32 L’ospedale, di cui alla IV 7,11 n., «nella facciata aveva dipinto il Diavolo grandissimo con più bocche; laonde i fanciulli
avevan grandissima paura a vederlo» (Sansovino): e cfr. VIII 2,46
n.
33 A Legnaia, borgo presso Firenze, si producevano melloni
assai pregiati. Mellonaggine vale naturalmente stupidaggine, scempiaggine (cfr. 64 n. e Corbaccio, 458); qualitativa, aggettivo corrente nel linguaggio scientifico del tempo, è qui parola di colore oscuro e senza preciso senso che serve soltanto a rendere equivocamente stupefacente il suono della frase, colla quale forse Bruno
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e la fidanza34 la quale ho in voi, che io non posso negarvi cosa che voi vogliate; e per ciò io il vi dirò con questo
patto, che voi per la croce a Montesone35 mi giurerete
che mai, come promesso avete, a niuno il direte».
Il maestro affermò che non farebbe36.
«Dovete adunque,» disse Bruno «maestro mio dolciato37, sapere che egli non è ancora guari che in questa
città fu un gran maestro in nigromantia, il quale ebbe
nome Michele Scotto38, per ciò che di Scozia era, e da
molti gentili uomini, de’ quali pochi oggi son vivi, ricevette grandissimo onore; e volendosi di qui partire, ad
istanzia de’prieghi loro ci lasciò due suoi soffficienti39
discepoli, a’ quali impose che ad ogni piacere di questi
cotali gentili uomini, che onorato l’aveano, fossero semvuol dire: la vostra stupidaggine squisita, di buona qualità, e da
legno, cioè degna di bastone («ed è uno dei molti termini dispregiativi della sciocchezza del medico che Bruno usa con tono di rispettoso affetto, come dolciato, 17, zucca mia da sale, 22»: Segre).
Bruno, in questo e nei discorsi seguenti, sfrutta anche evidentemente l’ignoranza di Simone circa la toponomastica di Firenze e
del contado, si che quei nomi e quei termini anfibologici suonano
sempre meravigliosi, come già per i poveri certaldesi quelli simili
fioriti, anche espressivisticamente come qui, sulle labbra di Fra Cipolla.
34 fiducia: I 1,8 n.; IV 6,40 n.
35 Montisoni, Poggio presso Firenze, sopra l’Antella, con monastero, chiesa e castello assai noti. V’era un crocefisso famoso
(cfr. P. BERTI, San Lorenzo a Montisoni, Firenze 1889).
36 non lo direbbe: secondo l’uso corrente (cfr. Intr., 14 n.).
37 dolce; ma qui Bruno intende dire, come altrove (60 n.),
dolce di sale (IV 2,20 n.), scimunito. Cfr. IV 3,66 n.
38 Valente pensatore scozzese, celebre specie quale astrologo
di Federico II: Sembra che abbia vissuto oltre il 1290. Scrisse di filosofia, d’astrologia, diritto ammirativo e ne riferí varie profezie
(cfr. specie pp. 515 sgg. e 525 sgg.); Leonardo Fibonacci lo esaltò
quale sommo maestro; Dante lo pose nella quarta bolgia con alte
parole di lode per la sua arte (Inf., XX 116 sg.: «Michele Scotto
fu, che veramente | De le magiche frode seppe ’l gioco»). Altre notizie più o meno fantastiche danno i commentatori danteschi.
39 valenti, insigni: VII 1,33 n.; Par., XIII 96,
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pre presti. Costoro adunque servivano i predetti gentili
uomini di40 certi loro innamoramenti e d’altre cosette liberamente; poi, piacendo lor la città e i costumi degli
uomini, ci si disposero a voler41 sempre stare, e preserci
di grandi e di strette amistà con alcuni, senza guardare
chi essi fossero, più gentili che non gentili, o più ricchi
che poveri, solamente che uomini fossero conformi a’
lor costumi. E per compiacere a questi così fatti loro
amici ordinarono una brigata forse di venticinque42 uomini, li quali due volte almeno il mese insieme si dovessero ritrovare in alcun luogo da loro ordinato; e qui vi
essendo, ciascuno a costoro il suo disidero dice, ed essi
prestamente per quella notte il forniscono43. Co’ quali
due avendo Buffalmacco e io singulare amistà e dimestichezza, da loro in cotal brigata fummo messi, e siamo. E
dicovi così che, qualora egli avvien che noi insieme ci
raccogliamo, è maravigliosa cosa a vedere i capoletti44
intorno alla sala dove mangiamo, e le tavole messe alla
reale45, e la quantità de’ nobili e belli servidori, così femine come maschi, al piacer di ciascuno che è di tal
compagnia, e i bacini, gli urciuoli, i fiaschi e le coppe e
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circa, riguardo a.
si disposero a volerci ... : uno dei consueti iperbati.
Il solito numero approssimativo e generico: III intr., 3 n.
43 compiono, adempiono quel desiderio. A simili magici conviti alludono i commentatori danteschi parlando proprio di Michele
Scotto: per es. il Lana, commentando Inf., XX I 15-17, «usando
con gentili uomini e cavalieri, e mangiando come s’usa tra essi in
brigata a casa l’uno dell’altro, quando venia la volta di lui d’apparecchiare ... aveva spiriti a suo comandamento che li facea levare
lo lesso dalla cucina dello re di Francia, lo rosto da quella del re
d’Inghilterra, le tramesse di quella del re di Sicilia, lo pane d’un
luogo e ’l vino d’un altro, confetti e frutta là onde li piacea ...»
(cfr. più avanti, 20).
44 drappi da parare stanze, come alla X 10,52, più che nel
senso particolare della VII intr., 9.
45 imbandite regalmente.
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l’altro vasellamento d’oro e d’argento, ne’ quali noi
mangiamo e beiamo; e oltre a questo le molte e varie vivande, secondo che ciascun disidera, che recate ci sono
davanti ciascheduna a suo tempo. Io non vi potrei mai
divisare chenti46 e quanti sieno i dolci suoni d’infiniti
istrumenti e i canti pieni di melodia che vi s’odono; né
vi potrei dire quanta sia la cera che vi s’arde a queste
cene, né quanti sieno i confetti che vi si con sumano e
come sieno preziosi i vini che vi si beono. E non vorrei,
zucca mia da sale47, che voi credeste che noi stessomo48
là in questo abito o con questi panni che ci vedete: egli
non ve n’è niuno sì cattivo49 che non vi paresse uno imperadore, sì siamo di cari50 vestimenti e di belle cose ornati. Ma sopra tutti gli altri piaceri che vi sono, si è
quello delle belle donne, le quali subitamente, purché
l’uom voglia, di tutto il mondo vi son recate. Voi vedreste quivi la donna dei Barbanicchi, la reina de’ Baschi,
la moglie del soldano, la imperadrice d’Osbech, la ciancianfera di Norrueca, la semistante di Berlinzone e la
scalpedra di Narsia51. Che vivo io annoverando52? E’ vi
46 descrivere, narrare partitamente e minutamente quali ... : II
8,86 n.; VI 10,39 n.
47 Variazione sul tema dell’appellativo precedente dolciato
(17): e cfr. IV 2,20 n.
48 Per la forma cfr. VIII 3,31 n.
49 povero, meschino: II 5,58 n.; IX 5,67 n.
50 preziosi: II 5,77 n.
51 Sono nomi in parte del tutto fantastici, in parte con qualche riferimento etimologico o furbesco alla realtà: ma tutti stravolti e lasciati cadere con un’intonazione meravigliosa e stupefacente,
degna di Frate Cipolla (VI 10) e di Maso del Saggio (VIII 3). La
terra dei B a s c h i e B e r l i n z o n e sono nominati come paesi di
fiabesca distanza proprio nella VIII 3 (9 e II); O s b e c h è ricordato nel fulgore della sua favolosa potenza nella II 7,76 sgg.; il S o l d a n o appare più volte anche nelle novelle del D.; N o r r u e c a è
forse deformazione per Norweg e Norvegia; b a r b a n i c c h i ricorre anche nel sonetto del Burchiello Andando fuor l’altra sera a
sollazzo; c i a n c i a n f e r a (da ricondurre forse a «ciancia»), s e m i -
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sono tutte le reine del mondo, io dico infino alla schinchimurra53 del Presto Giovanni, che ha per me’ ‘1 culo
le corna: or vedete oggimai voi! Dove, poi che hanno
bevuto e confettato54, fatta una danza o due, ciascuna
con colui a cui stanza55 v’è fatta venire se ne va nel la
sua camera. E sappiate che quelle camere paiono un paradiso a veder, tanto son belle; e sono non meno odorifere56 che sieno i bossoli57 delle spezie della bottega vostra, quando voi fate pestare il comino58, e havvi letti
che vi parrebber più belli che quello del doge di Vinegia, e in quegli a riposar se ne vanno. Or che menar di
calcole e di tirar le casse a sè per fare il panno serrato
faccian le tessitrici59, lascerò io pensare pure a voi! Ma
s t a n t e (che richiama «amostante», «almirante»), s c a l p e d e r a
(forse contaminazione di «scalpitare» e «puledra»), come nota Sapegno, sono titoli presentati immaginosamente e burlescamente
per incantare Simone. Simili sono del resto vari di quelli enumerati dal Sacchetti nella sua frottola di «molti strani vocaboli de’ fiorentini» (Rime, CLIX). E cfr. in generale G. HERCZEG, I cosiddetti ‘nomi parlanti’ nel D. cit.; e, per l’espressivismo, Introduzione
pp. XXXII sg.
52 Ricorda puntualmente un momento del discorso di Frate
Cipolla (VI 10,39).
53 «Parola foggiata in modo che possa sembrare un termine
della lingua Originale del prete Gianni: sarà ‘moglie’, ‘regina’ o simili» (Marti). Il leggendario Pretejanni (Imperatore-sacerdote
d’Etiopia) fu chiamato a Firenze P r e s t o G i o v a n n i (cfr. per
es. Novellino, 1; G. Villani, passim: fr. Preste Jean): gli furono attribuiti ricchezze smisurate e poteri sovrannaturali. Il M. a margine:
«che ha per me’ ’1 culo le corna».
54 mangiato confetti, dolciumi: VIII 10,21.
55 a richiesta del quale.
56 Come sono sempre le camere di convegni amorosi: II 5,17;
VIII 10,17 sgg.
57 barattoli. «Questo mostra che i medici erano anco speziali e
fabbricavano e vendevano rimedi» (Martinelli); cfr. difatti IX 4,28
sgg.
58 Pianta ombrellifera medicinale dai cui semi si estraggono
essenze adoperate per liquori e profumi.
59 Linguaggio equivoco tratto dall’arte tessile, come nella nota
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tra gli altri che meglio stanno, secondo il parer mio,
siam Buffalmacco e io, per ciò che Buffalmacco le più
delle volte vi fa venir per sè la reina di Francia, e io per
me quella d’Inghilterra, le quali son due pur le più belle
donne del mondo; e sì abbiamo saputo fare che elle non
hanno altro occhio in capo che noi60. Per che da voi
medesimo pensar potete se noi possiamo e dobbiamo
vivere e andare più che gli altri uomini lieti, pensando
che noi abbiamo l’amor di due così fatte reine; senza
che61, quando noi vogliamo un mille o un dumilia fiorini da loro, noi non gli abbiamo62. E questa cosa chiamiam noi vulgarmente l’andare in corso63; per ciò che sì
come i corsari tolgono la roba d’ogn’uomo, e così facciam noi; se non che di tanto siam differenti da loro,
che eglino mai non la rendono, e noi la rendiamo come
adoperata l’abbiamo. Ora avete, maestro mio da bene64,
inteso ciò che noi diciamo l’andare in corso; ma quanto
questo voglia esser segreto voi il vi potete vedere, e per
ciò più nol vi dico né ve65 ne priego».
Il maestro, la cui scienzia non si stendeva forse più
del M. alla IV 7,8; e cfr. Pataffio, VIII 24. C a l c o l a e c a s s a
sono parti del telaio.
60 Modo assai diffuso per dire che non hanno altra cosa più
cara.
61 senza aggiungere che.
62 È, detto certo scivolando sulla negazione, per goder meglio
della scempiaggine del Maestro: proprio come Frate Cipolla aveva
detto che chi fosse segnato dai carboni miracolosi «fuoco noi cocerà che non si senta» (VI 10,52), o Maso a Calandrino, esaltando
le virtù dell’elitropia, aveva affermato che chi la tiene addosso
«non è da alcuna altra persona veduto dove non è» (VIII 3,20).
63 L’espressione (letteralmente esercitare la pirateria) ricorda i
termini tecnici delationem ad ludum e portari ad ludum del linguaggio canonico riferentesi alle streghe, agli incantesimi e alle
feste demoniache.
64 Bruno gioca evidentemente su d a b e n e e d a b b e n a g g i n e : mentre chiama Simone scimunito, sembra fargli una lode.
65 Idiotismo per vi: Cfr. VIII 2,20 n.
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oltre che il medicare i fanciulli del lattime66, diede tanta
fede alle parole di Bruno quanta si saria convenuta a
qualunque verità; e in tanto disiderio s’accese di volere
essere in questa brigata ricevuto, quanto di qualunque
altra cosa più disiderabile si potesse essere acceso. Per
la qual cosa a Bruno rispose che fermamente maraviglia
non era se lieti andavano; e a gran pena si temperò in riservarsi67 di richiederlo che essere il vi facesse, infino a
tanto che, con più onor fattogli, gli potesse con più fidanza68 porgere i prieghi suoi. Avendoselo adunque riservato, cominciò più a continuare con lui l’usanza69 e
ad averlo da sera e da mattina a mangiar seco e a mostrargli smisurato amore70; ed era sì grande e sì continua questa loro usanza, che non parea che senza Bruno
il maestro potesse né sapesse vivere.
Bruno, parendogli star bene, acciò che ingrato non
paresse di questo onor fattogli dal medico, gli aveva dipinto nella sala sua la Quaresima71 e uno agnus dei
all’entrar della camera e sopra l’uscio della via uno orinale72, acciò che coloro che avessero del suo consiglio
bisogno il sapessero riconoscere dagli altri; e in una sua
loggetta gli aveva dipinta la battaglia dei topi e delle
gatte73, la quale troppo bella cosa pareva al medico. E
oltre a questo diceva alcuna volta al maestro, quando
con lui non avea cenato: «Stanotte fu’ io alla brigata, ed
66
Cioè quelle croste che vengono ai lattanti.
si trattenne, fece forza a se stesso nell’astenersi.
68 fiducia, confidenza: cfr. 15 n. e 41.
69 a frequentarlo familiarmente sempre più: cfr. IV 3,12 n.
70 Due endecasillabi di seguito.
71 Cioè una di quelle personificazioni e raffigurazioni della
Quaresima, come donna macilenta e penitente, che non erano rare
in quel secolo.
72 Perché l’esame delle urine era uno dei mezzi diagnostici
più usati: IX 3,15 n.
73 Per l’uso di questo femminile cfr. V 10,20 n.
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essendomi un poco la reina d’Inghilterra rincresciuta,
mi feci venire la gumedra del gran Can d’Altarisi74».
Diceva il maestro: «Che vuol dire gumedra? Io non
gli intendo questi nomi».
«O maestro mio,» diceva Bruno «io non me ne maraviglio, ché io ho bene udito dire che Porcograsso e
Vannaccena75 non ne dicon nulla».
Disse il maestro: «Tu vuoi dire Ipocrasso e Avicena».
Disse Bruno: «Gnaffé! io non so; io m’intendo così
male de’ vostri nomi come voi de’ miei; ma la gumedra
in quella lingua del gran Cane vuol tanto dire quanto
imperadrice nella nostra. O ella vi parrebbe la bella feminaccia! Ben vi so dire che ella vi farebbe dimenticare
le medicine e gli argomenti76 e ogni impiastro».
E così dicendogli alcuna volta per più accenderlo,
avvenne che, parendo a messer lo maestro una sera a
vegghiare77, (parte che78 il lume teneva a Bruno che la
battaglia de’ topi e delle gatte dipignea), bene averlo co’
suoi onori preso 79 , che 80 egli si dispose d’aprirgli
l’animo suo; e soli essendo, gli disse: «Bruno, come
74 Altra buffonesca invenzione; forse il nome è foggiato su
qualche suggestione di «scuccumedra» (cavalla da poco, rozza: Sacchetti, LXIV)? A 1 t a r i s i potrebbe esser coniato fantasiosamente su una contaminazione fra ‘altare’ e ‘Altai’, la regione mongola
descritta da Marco Polo (LXIX-LXXI) parlando di Cinghis Can e
dei suoi discendenti.
75 Deformazioni caricaturali, a sfondo culinario, per Ippocrate
e Avicenna (i celeberrimi medici l’uno greco e l’altro arabo) che
devono convincere Maestro Simone della sua superiorità su quel
povero pittore ignorante: e cfr. per queste e le precedenti deformazioni G. HERCZEG, art. cit.
76 serviziali, clisteri più probabilmente che rimedi come a
Intr., 13 n.
77 una sera a veglia.
78 mentre: VIII 7,92 n.
79 conquistato, reso amico coi suoi inviti e colle sue cortesie.
80 Solita ripetizione del che dopo la lunga frase parentetica: I
3,II n.
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Iddio sa, egli non vive oggi alcuna persona per cui io facessi ogni cosa come io farei per te; e per poco81, se tu
mi dicessi che io andassi di qui a Peretola82, io credo
che io v’andrei; e per ciò non voglio che tu ti maravigli
se io te dimesticamente e a fidanza richiederò. Come tu
sai, egli non è guari che tu mi ragionasti de’ modi della
vostra lieta brigata, di che sì gran disiderio d’esserne83
m’è venuto, che mai niuna altra cosa si disiderò tanto. E
questo non è senza cagione, come tu vedrai se mai avviene che io ne sia; ché infino ad ora voglio io che tu ti
facci beffe di me se io non vi fo venire la più bella fante
che tu vedessi già è buona pezza, a che io vidi pur
l’altr’anno a Cacavincigli84, a cui io voglio tutto il mio
bene; e per lo corpo di Cristo che io le volli dare dieci
bolognin 85 grossi, e 86 ella mi s’acconsentisse, e non
volle. E però quanto più posso ti priego che m’insegni
quello che io abbia a fare per dovervi potere essere, e
che tu ancora facci e adoperi che io vi sia; e nel vero voi
avrete di me buono e fedel compagno e orrevole. Tu
vedi innanzi innanzi87 come io sono bello uomo e come
mi stanno bene le gambe in su la persona88, e ho un viso
81
quasi: II 5,8 n.
«Non sa come forestiero e come goffo che in un’ora si farebbe quel viaggio per la vicinità di quei luoghi» (Nisiely): cfr. VI
4,5 n.
83 essere uno della brigata, esservi compreso: come al 43 e al 51
che io ne sia.
84 «È un chiasso in Firenze così nominato, cioè calle ovvero
ruga sporca e da vil gente abitata ... Cacavincigli tanto vuol dire
quanto cacavinci o vincigli, cioè di stirpe de’ villani; e cacastecchi in
Toscana anco si dice a uno che sia misero e avaro» (Alunno). È toponimo certo usato come burlesca anticipazione della maleodorante conclusione della novella.
85 Monete bolognesi d’argento del valore di circa sei quattrini
(I 1,55 n.).
86 Con valore condizionale come alla VI 3,7 n.
87 anzi tutto.
88 come sono aitante, in gamba: IV 2,32 n.
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che pare una rosa, e oltre a ciò son dottore di medicine,
che non credo che voi ve n’abbiate niuno; e so di molte
belle cose e di belle canzonette, e vo’tene dire una - ; e
di botto incominciò a cantare89».
Bruno aveva sì gran voglia di ridere che egli in sè
medesimo non capeva; ma pur si tenne. E finita la canzone, el90 maestro disse: «Che te ne pare?»
Disse Bruno: «Per certo con voi perderieno le cetere de’ sagginali91, sì artagoticamente stracantate92».
Disse il maestro: «Io dico che tu non l’avresti mai
creduto, se tu non m’avessi udito».
«Per certo voi dite vero,» disse Bruno.
Disse il maestro: «Io so bene anche dell’altre, ma lasciamo ora star questo. Così fatto come tu mi vedi93,
mio padre fu gentile uomo, benché egli stesse in contado, e io altressì son nato per madre di quegli da Vallecchio94; e, come tu hai potuto vedere, io ho pure i più
89 Anticipazione della goffaggine di Calandrino innamorato
(IX 5,39).
90 Altro esempio nel D. di questa forma corrente dell’articolo
maschile, forse con connotazione ironica e contadinesca (A. CASTELLANI, Nuovi testi fiorentini, Firenze 1952, p. 44): ma ricorre in altri scritti del B. (per es. VIII 2,41 n.; Amorosa Visione, VIII
18; Rime, XVII 12, XVIII 5, LV 2 e 5). Per questo non è necessario scrivere e ’1, come fecero alcuni editori.
91 Cetere o zufoli fatti dalle canne di saggina: ma cfr. VIII
2,30 n.
92 È evidentemente verbo coniato su straparlare, stralare ecc.;
e mentre a Simone suona come una lode superlativa (il prefisso
stra- serve talora a formare proprio superlativi) in realtà significa
cantar male, uscir dai termini del bel canto. Così a r t a g o t i c a m e n t e , interpretato dalla Crusca miracolosamente, più probabilmente vuol significare arcigoffamente, arcirozzamente (dal senso
spregiativo che aveva «gotico»). Ma naturalmente tutta la frase ha
valore nel suo complessivo suono grandioso ed equivoco che sempre più intontisce Simone (cfr. Introduzione a questa edizione, p.
XXXIII).
93 Tal quale mi vedi: Inf., XXXIII 70.
94 Borgo ora nel comune di Castelfiorentino.
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be’ libri e le più belle robe che medico95 di Firenze. In
fè di Dio, io ho roba che costò, contata ogni cosa, delle
lire presso a cento di bagattini96, già è degli anni più di
diece97! Per che quanto più posso ti priego che facci
che io ne sia; e in fè di Dio, se tu il fai, sie pure infermo
se tu sai98, che mai di mio mestiere io non ti torrò un
denaio».
Bruno, udendo costui, e parendogli, sì come altre
volte assai paruto gli era, un lavaceci99, disse: «Maestro,
fate un poco il lume più qua, e non v’incresca infin
tanto che io abbia fatte le code a questi topi, e poi vi risponderò».
Fornite100 le code, e Bruno faccendo vista che forte
la petizion gli gravasse, disse: «Maestro mio, gran cose
son quelle che per me fareste, e io il conosco; ma tuttavia quella che a me addimandate, quantunque alla grandezza del vostro cervello sia piccola, pure è a me grandissima, né so alcuna persona del mondo per cui io potendo la mi facessi101, se io non la facessi per voi, sì perché v’amo quanto si conviene, e sì per le parole vostre
le quali son condite di tanto senno che trarrebbono le
pinzochere degli usatti102, non che me del mio proponi-
95
che qualsiasi altro medico: secondo termine di paragone.
circa cento lire di bagattini: così erano chiamati i piccioli (I
1,55 n.) o danari (11 2,7 n.) a Venezia e in generale nell’Italia Settentrionale. L’espressione equivale quindi a lire di piccioli (IX 3,4 n.).
97 sono passati già più di dieci anni.
98 ammalati pure quanto ti piace.
99 scimunito, uomo dappoco: VII 1,33 n.
100 Finite, Compiute.
101 Da notare qui, perché l’una accanto all’altra, le due desinenze in -e e -i della prima persona del congiuntivo imperfetto che
si alternano nel B. come in generale nel Due-Trecento (Inf., XIII
25, Purg., VIII 47: cfr. Rohlfs, 560).
102 caverebbero le pinzochere (III 7,35) dai loro stivaletti, le farebbero andar scalze. Un’altra frase di colore oscuro per stordire
Maestro Simone: forse accenna burlescamente a cosa impossibile,
96
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mento; e quanto più uso con voi, più mi parete savio. E
dicovi ancora così, che se altro non mi vi facesse voler
bene, sì vi vo’ bene perché veggio che innamorato siete
di così bella cosa come diceste. Ma tanto103 vi vo’ dire:
io non posso in queste cose quello che voi avvisate104, e
per questo non posso per voi quello che bisognerebbe
adoperare; ma, ove voi mi promettiate sopra la vostra
grande e calterita105 fede di tenerlomi credenza106, io vi
darò il modo che a tenere avrete; e parmi esser certo
che, avendo voi così be’libri e l’altre cose che di sopra
dette m’avete, che egli vi verrà fatto».
A cui il mastro disse: «Sicuramente di’: io veggio
che tu non mi conosci bene e non sai ancora come io so
tenere segreto. Egli erano poche cose che messer Guasparruolo da Saliceto facesse, quando egli era giudice
della podestà di Forlimpopoli, che egli non me le mandasse a dire, perché mi trovava così buon segretaro107.
E vuoi vedere se io dico vero? Io fui il primaio108 uomo
a cui egli dicesse che egli era per isposare la Bergamina:
vedi oggimai tu109!»
poiché le pinzochere avevano per regola di andare scalze. Per
u s a s t i (da uose) cfr. Corbaccio, 460.
103 soltanto: cfr. V 8,20 n.
104 credete, immaginate: Intr., 20 n.; VI concl ., 47 n
105 Forse anche questa è parola usata senza preciso senso: a
meno che Bruno abbia voluto a bella posta giocare equivocamente
fra i due significati che sono documentati nei vocabolari, e cioè
scaltrito, accorto (Jacopone, XLIII 139: lat. cauteritus) e impuro,
macchiato (Volg. Trattati di Albertano cit.: T.).
106 tenermelo segreto: III 1,21 n.; VIII 3,8 e 37 no.
107 uomo che tiene il segreto: cfr. G. Villani, IX 163: «La cagione nullo sapea, se non certi segretari». E si noti, per quel che può
valere, che Guglielmo da Saliceto fu autorevole professore di medicina a Bologna fra il XIII e il XIV secolo.
108 È esito toscano da primarius: Teseida, IV 16, VII 49, XII 46
ecc.
109 vedi ormai tu, vedi un po’ tu.
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«Or bene sta dunque,» disse Bruno «se cotestui se
ne fidava, ben me ne posso fidare io. Il modo che voi
avrete a tener fia questo. Noi sì abbiamo a questa nostra
brigata un capitano con due consiglieri110, li quali di sei
in sei mesi si mutano; e senza fallo a calendi111 sarà capitano Buffalmacco e io consigliere, e così è fermato; e
chi è capitano può molto in mettervi e far che messo vi
sia chi egli vuole; e per ciò a me parrebbe che voi, in
quanto voi poteste, prendeste la dimestichezza di Buffalmacco e facestegli onore. Egli è uomo che, veggendovi così savio, s’innamorerà di voi incontanente, e quando voi l’avrete col senno vostro e con queste buone cose
che avete un poco dimesticato112, voi il potrete richiedere: egli non vi saprà dir di no. Io gli ho già ragionato
di voi, e vuolvi il meglio del mondo113; e quando voi
avrete fatto così, lasciate far me con lui».
Allora disse il maestro: «Troppo114 mi piace ciò che
tu ragioni; e se egli è uomo che si diletti de’savi uomini,
e favellami pure un poco, io farò ben che egli m’andrà
sempre cercando, per ciò che io n’ho tanto del senno,
che io ne potrei fornire una città. e rimarrei savissimo».
Ordinato questo, Brun disse ogni cosa a Buffalmacco per ordine; di che a Buffalmacco parea mille anni di
dovere essere a far quello che questo maestro sapa 115
andava cercando. Il medico che oltre modo disiderava
110 Secondo il modello delle compagnie dei laudesi e delle
confraternita religiose in generale (cfr. VII 1,4 n.).
111 il primo del mese venturo: III 8,70 n.
112 ve lo sarete ... fatto un poco amico: cfr. V 5,12 n.
113 vi vuole il più gran bene del mondo: solito superlativo (II
10,16 n.) ripetuto anche al 68.
114 Col solito valore di moltissimo.
115 Appellativo burlevole che riprende il precedente dolciato
(17 n.): sapa è il mosto cotto, il miele d’uva: ed è proverbiale
«Dolce come la sapa» (Giusti, Proverbi toscani, p. 363).
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d’andare in corso, non mollò mai che116 egli divenne
amico di Buffalmacco, il che agevolmente gli venne
fatto; e cominciogli a dare le più belle cene e i più belli
desinari del mondo, e a Bruno con lui altressì; ed essi si
carapinavano117. come que’signori, li quali118 sentendogli bonissimi vini119 e di grossi capponi ed altre buone
cose assai, gli si tenevano assai di presso, e senza troppi
inviti, dicendo sempre che con uno altro ciò non farebbono, si rimanevan con lui.
Ma pure, quando tempo parve al maestro, sì come
Bruno aveva fatto120, così Buffalmacco richiese. Di che
Buffalmacco si mostrò molto turbato e fece a Bruno un
gran romore in testa121, dicendo: «Io fo boto all’alto
116 non posò, non ristette mai fin che: Corbaccio, 380: «di ciarlare mai non ristà, mai non molla».
117 si attaccavano a lui o si davan buon tempo, si soltazzavano.
Ma questi significati sono stati dati al verbo tirando a indovinare,
perché mancano altri esempi contemporanei. II verbo figura però
in qualche ms. alla VIII 6,14 invece di «si caricò»; più tardi fu ripreso per es. dal Sassetti nel secondo significato (Lettere, Firenze
1855, p. 205). Vedi per maggiori particolari la discussione del
Barbi, La Nuova Filologia, pp. 68 sgg. (pensa a una derivazione
dell’ant. fr. charpigner, o a un incrocio di carmignare con carpire) e
del Singleton e Spitzer, D. VIII 9: carapignare, in «Mod. Lang.
Notes», L,X, 1944 (deriverebbe dal lat. volg. carpiniare, «afferrare», «arraffare»: cfr. REW 7663, FEW s. v. carpere; o dal fr. écarpigner «grattarsi», cioè ‘si grattavano l’un l’altro per la contentezza’,
come si dice ‘grattarsi la pancia per la gioia’). Sembra più probabile dunque il secondo significato (ma il DEI registra il primo: e cfr.
anche R. LEVY, Encore un mot sur l’italien «carapignarsi», in
«Studies in Philology», 1945).
118 come coloro che (lat. quippe qui). «Invece di come quello si
può dire come quell’uomo ... e per ischerzo come quel signore»
(Mussafla, p. 487).
119 sapendo che egli possedeva ottimi vini.
120 richiesto; col solito uso per cui Intr., 14 n.
121 una grande sfuriata: III 7,28: «mi fece un romore in capo
che ancor mi spaventa»; IV 10,31.
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Dio da Passignano122 che io mi tengo a poco123 che lo
non ti do tale124 in su la testa, che il naso ti caschi nelle
calcagna traditor che tu se’, ché altri che tu non ha queste cose manifestate al maestro».
Ma il maestro lo scusava forte, dicendo e giurando
sè averlo d’altra parte saputo; e dopo molte delle sue
savie parole pure il paceficò.
Buffalmacco rivolto al maestro disse: «Maestro mio,
egli si par bene che voi siete stato a Bologna, e che voi
infino in questa terra abbiate recata la bocca chiusa125;
e ancora vi dico più, che voi non apparaste miga l’abbiccì in su la mela126, come molti sciocconi voglion fare,
anzi l’apparaste bene in sul mellone, ch’è così lungo; e
se io non m’inganno, voi foste battezzato in domenica127. E come che Bruno m’abbia detto che voi studia122 «Nella facciata della chiesa di Passignano c’era dipinto un
Dio Padre, e su questo finge di giurare Buffalmacco, sapendo che
il dottore non sapeva di tale immagine, e che avrebbe preso queste
parole per qualche imprecazione da uomo infuriato» (Fanfani).
123 mi trattengo a stento: cfr. III 6,38 n. e anche II 5,53 n.
124 in modo tale, così. avverbio: VIII 3,47 e 52 nn. E per la costruzione che sostituisce l’indicativo, più forte, al congiuntivo cfr.
V 6,22 n.
125 Cioè abbiate saputo mantenere i segreti.
126 «I maestri, o anche i padri, quando vogliono fare apparare i
fanciulli a conoscere le lettere sogliono scrivere una o due lettere
sopra d’una mela e mostrandola al fanciullo dicono che se conosce
quella lettera o quelle lettere, gli darà la mela» (Ruscelli). Nel vocabolarietto filare dell’ed. aldina del 1522 si dice che il modo di
dire ha senso equivocamente osceno. Ma qui tutta la frase – come
è evidente dal seguito – è usata soprattutto per alludere, con un
giuoco di parole, alla mellonaggine del medico (e cfr. Corbaccio,
329: «te ora gocciolone e ora mellone ... chiamando»); riferendosi
forse anche a quanto sarà detto nella IX 3,17: «a bottega stava in
Mercato Vecchio alla ’nsegna del mellone». Ma cfr. anche Sacchetti, CXLVII: «Antonio che già avea studiato e letto l’abbicí in
sul mellone».
127 «Si diceva già per sciocco, perché le domeniche non si vendeva il sale» (Fanfani): che nel battesimo è somministrato come
simbolo e auspicio di sapienza.
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ste là in medicine, a me pare che voi studiaste in apparare a pigliar uomini; il che voi, meglio che altro uomo
che io vidi mai, sapete fare con vostro senno e con vostre novelle».
Il medico, rompendogli la parola in bocca128, verso
Brun disse: «Che cosa è a favellare e ad usare co’
savi129! Chi avrebbe così tosto ogni particularità compresa del mio sentimento, come ha questo valente
uomo? Tu non te ne avvedesti miga così tosto tu130 di
quel che io valeva, come ha fatto egli; ma di’ almeno
quello che io ti dissi quando tu mi dicesti che Buffalmacco si dilettava de’ savi uomini: parti che io l’abbia
fatto?»
Disse Bruno: «Meglio131».
Allora il maestro disse a Buffalmacco: «Altro avresti
detto se tu m’avessi veduto a Bologna, dove non era
niuno grande né piccolo, né dottore né scolare, che non
mi volesse il meglio del mondo, sì tutti gli sapeva appagare col mio ragionare e col senno mio. E dirotti più,
che io. non vi dissi mai parola che io non facessi ridere
ogn’uomo, sì forte piaceva loro; e quando io me ne partii, fecero tutti il maggior pianto del mondo, e volevano
tutti che io vi pur rimanessi; e fu a tanto la cosa perch’io
vi stessi, che vollono lasciare a me solo che io leggessi, a
quanti scolari v’aveva, le medicine132; ma io non volli,
ché io era pur disposto a venir qua a grandissime eredità che io ci ho, state sempre di quei di casa mia, e così
feci».
128
interrompendolo
Vedete che cosa vuol dire parlare e aver dimestichezza cogli
uomini saggi, sapienti?
130 Consueta ripetizione del pronome nel discorso diretto concitato: VI intr., 14 n.
131 Meglio [che non m’aspettassi].
132 insegnassi dalla cattedra le materie mediche a tutti gli studenti che v’erano. L e g g e r e era termine tecnico a indicare l’insegnamento universitario.
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Disse allora Bruno a Buffalmacco: «Che ti pare? Tu
nol mi credevi, quando io il ti diceva. Alle guagnele133!
Egli non ha in questa terra medico che s’intenda d’orina
d’asino134 a petto a costui, e fermamente tu non ne troverresti un altro di qui alle porti 135 di Parigi de’ così
fatti. Va, tienti oggimai tu di 136 non fare ciò
ch’e’vuole!»
Disse il medico: «Brun dice il vero, ma io non ci137
sono conosciuto. Voi siete anzi gente grossa138 che no;
ma io vorrei che voi mi vedeste tra’ dottori, come io soglio stare».
Allora disse Buffalmacco: «Veramente, maestro, voi
le sapete troppo più che io non avrei mai creduto; di
che io, parlandovi come si vuole parlare a’ savi come
voi siete, frastagliatamente139 vi dico che io procaccerò
senza fallo che voi di nostra brigata sarete».
Gli onori dal medico fatti a costoro appresso questa
promessa multiplicarono; laonde essi, godendo, gli facevan cavalcar la capra delle maggiori sciocchezze del
mondo140 e impromisongli di dargli per donna la contessa di Civillari141, la quale era la più bella cosa che si
trovasse in tutto il culattario dell’umana generazione.
133
Per il, Sul Vangelo: VI 6,8 n.
Quasi a farlo, da medico, veterinario.
Forma di plurale corrente: cfr. II 2,16 n.
136 guardati ... da, astieniti ... da: II 9,16: e cfr. anche II 5,45 n.
e qui 62 n.
137 qui, a Firenze.
138 rozza, sempliciotta: III 8,5 n.; IX 10,13 n.
139 Voce probabilmente senza senso, delle molte dette per
stordire Maestro Simone. Alcuni pensano derivi da frastagliare,
cioè dire «cose grandi impossibili ... per ingannare e giuntare chicchessia» (Varchi); «al medico forestiero sfugge il significato del
vocabolo o forse l’intende nel senso di francamente, schiettamente» (Sapegno).
140 gli davano a intendere le maggiori sciocchezze del mondo:
cfr. II 10,43 n.
141 «È la regina dei Condotti, ovvero Cacatoi o del Sterco ...
Civillari è un chiasso così detto in Firenze, sopra il monastero di
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Domandò il medico chi fosse questa contessa; al
quale Buffalmacco disse: «Pinca mia da seme142, ella è
una troppo gran donna, e poche case ha per lo mondo,
nelle quali ella non abbia alcuna giurisdizione; e non
che altri, ma i frati minori a suon di nacchere143 le rendon tributo. E sovvi dire, che quando ella va dattorno,
ella si fa ben sentire, benché ella stea il più rinchiusa;
ma non ha per ciò molto che ella vi passò innanzi
all’uscio, una notte che andava ad Arno a lavarsi i
piedi144 e per pigliare un poco d’aria; ma la sua più continua dimora è in Laterino145. Ben vanno per ciò de’
suoi sergenti spesso dattorno, e tutti a dimostrazion
della maggioranza146 di lei portano la verga e ‘1 piombino147. De’ suoi baron si veggon per tutto assai, sì come
è il Tamagnin dalla Porta 148, don Meta, Manico di
San Jacopo a Ripoli, nel qual luogo si caca senza rispetto; e fannovisi certe buche o fosse per comodità di votarvi i condotti, e a
tempi debiti poi di quel sterco i lavoratori ingrassano gli orti»
(Alunno). Cfr. 97 sgg. Da questo sfondo puzzolente e escrementizio (che ricorda Inf., XVIII) si levano coerenti tutti i particolari seguenti (subito nella riga sotto, l’equivoco culattario: cfr. Pataffio,
III 13, IX 47).
142 Cetriolo mio grosso da seme: ingiuria equivoca: cfr. Pataffio, V 3.
143 In senso sudiciamente equivoco: Sacchetti, Rime, CLIX
187.
144 Cioè: «a deporre le some di siffatte schifiltà» (Nisiely): la
trasporta per scaricarla in Arno.
145 Facile gioco sul nome del paese nel Valdarno, verso Arezzo: già Plauto aveva scherzosamente accennato a un simile equivoco (Curculio, IV 4).
146 potenza, signoria: Intr., 96 n.
147 Strumenti dei nettacessi: ma verga può valere anche scettro
(X I,17 n.) e piombino sigillo.
148 «Uomo piccolo e che ha più anni che non mostra; e qui per
scherzo stronzolo corto e grosso; e così queste altre voci indicano
forme diverse dello sterco che esce dal ventre. Ma io non vo’ fermarmi, come altri fa, tra simili lordure» (Fanfani). Cfr. Sacchetti,
Rime, CLIX 179 sgg. Secondo il Nisiely possono anche essere «soprannomi di gente vile, che allora si doveano intendere».
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Scopa, lo Squacchera e altri, li quali vostri dimestici
credo che sieno, ma ora non ve ne ricordate. A così
gran donna adunque, lasciata star quella da Cacavincigli, se ’l pensier non c’inganna149, vi metteremo nelle
dolci braccia».
Il medico, che a Bologna nato e cresciuto era, non
intendeva i vocaboli di costoro, per che egli della donna
si chiamò per contento. Nè guari dopo queste novelle150 gli recarono i dipintori che egli era per ricevuto151.
E venuto il dì che la notte seguente si dovean ragunare,
il maestro gli ebbe amenduni a desinare, e desinato
ch’egli152 ebbero, gli domandò che modo gli conveniva
tenere a venire a questa brigata; al quale Buffalmacco
disse: «Vedete, maestro, a voi conviene esser molto sicuro153, per ciò che, se voi non foste molto sicuro, voi
potreste ricevere impedimento e fare a noi grandissimo
danno; e quello a che egli vi conviene esser molto sicuro, voi l’udirete. A voi si convien trovar modo che voi
siate stasera in sul primo sonno154 in su uno di quegli
avelli rilevati che poco tempo ha si fecero di fuori a
Santa Maria Novella155, con una delle più belle vostre
robe in dosso, acciò che voi per la prima volta compariate orrevole dinanzi alla brigata, e sì ancora per ciò
che (per quello che detto ne fosse, ché non vi fummo
noi poi), per ciò156 che voi siete gentile uomo, la contes149 Conclusione equivocamente magniloquente sul plurale
«maiestatis» e su una serie di due settenari e un endecasillabo alternati.
150 ciance, baie.
151 gli riferirono i pittori che egli era stato ammesso.
152 Per eglino, essi: III 7,11 n.
153 coraggioso, intrepido. VIII 7,54 n.
154 Tra le dieci e le undici circa: V 3,43 n. e VIII 7,56.
155 Erano stati edificati per la maggior Parte nel 1314 (soltanto
alcuni qualche anno prima); ed erano a v e l l i r i l e v a t i cioè
arche grandi rilevate da terra come quelle della VI 9,10 (avello vale
invece genericamente fossa da sepoltura).
156 Una delle solite riprese dopo frase parentetica.
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sa intende di farvi cavaliere bagnato157 alle sue spese158;
e quivi v’aspettate tanto, che per voi venga colui che noi
manderemo. E acciò che voi siate d’ogni cosa informato, egli verrà per voi una bestia nera e cornuta, non
molto grande, e andrà faccendo per la piazza dinanzi da
voi un gran sufolare e un gran saltare per ispaventarvi;
ma poi, quando vedrà che voi non vi spaventiate, ella vi
s’accosterà pianamente. Quando accostata vi si sarà,
e159 voi allora senza alcuna paura scendete giù dello
avello, e, senza ricordare o Iddio o’ santi, vi salite suso,
e come suso vi siete acconcio, così, a modo che se steste
cortese160, vi recate le mani al petto, senza più toccar la
bestia. Ella allora soavemente si moverà e recherravverle a noi; ma infino ad ora, se voi ricordaste o Iddio o’
santi, o aveste paura, vi dich’io che ella vi potrebbe gittare o percuotere in parte che vi putirebbe161; e per ciò,
se non vi dà il cuore d’esser ben sicuro, non vi venite,
ché voi fareste danno a voi, senza fare a noi pro veruno».
Allora il medico disse: «Voi non mi conoscete ancora; voi guardate forse per ché io porto i guanti in mano
157 Altra frase equivoca, come chiarirà il seguito della novella:
ma realmente, fra le varie specie di cavalieri, esistevano allora «li
cavalieri bagnati: si fanno con grandissime cerimonie e conviene
che sieno bagnati e lavati d’ogni vizio» (Sacchetti, CLIII).
158 Cioè sostenendo lei le spese necessarie alla cerimonia e alla
grande pompa: G Villani, IX 33: «Il popolo di Firenze alle spese
del Comune fece quattro de’ Pazzi cavalieri»; Morelli, Ricordi, p.
131.
159 La solita congiunzione in ripresa dopo temporale a indicare
successione immediata nelle azioni: Intr., 78 n.
160 Cioè con le braccia íncrociate sul petto: cfr. 96: «si recò con
le mani a star cortese»; Sacchetti, CLVI: «recandosi cortese».
161 «II medico intende genericamente vi dispiacerebbe (così a
VII 8,47); ma Bruno e Buffalmacco pensano al bagno progettato,
ove il putire sarà non metaforico» (Petronio).
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e’ panni lunghi162. Se voi sapeste quello che io ho già
fatto di notte a Bologna, quando io andava talvolta
co’miei compagni alle femine, voi vi maravigliereste. In
fè di Dio egli fu tal notte che, non volendone una venir
con noi (ed era una tristanzuola163, ch’è peggio164, che
non era alta un sommesso165), io le diedi in prima di
molte pugna, poscia, presala di peso, credo che io la
portassi presso ad una balestrata166, e pur convenne, sì
feci, che ella ne venisse con noi. E un’altra volta mi ricorda che io, senza esser meco altri che un mio fante,
colà167 un poco dopo l’avemaria passai allato al cimitero
de’ frati minori, ed eravi il dì stesso stata sotterrata una
femina, e non ebbi paura niuna; e per ciò di questo non
vi sfidate168; ché sicuro e gagliardo son io troppo. E dicovi che io, per venirvi bene orrevole, mi metterò la
roba mia dello scarlatto169 con la quale io fui conventato170, e vedrete se la brigata si rallegrerà quando mi
vedrà, e se io sarò fatto a mano a man171 capitano. Vedrete pure come l’opera 172 andrà quando io vi sarò
stato, da che, non avendomi ancor quella contessa ve162 Particolari caratteristici nell’abbigliamento dei dottori e
delle persone autorevoli (Merkel, pp. 95 sgg.): cfr. per es. VIII 5,7;
VIII 9,4.
163 una mingherlina, una donnetta sparuta: II 10,39: «si tisicuzzo e tristanzuol parete»; Sacchetti, LXIV.
164 quelch’è peggio.
165 Cioè la lunghezza del pugno col pollice alzato: G. Villani,
XII 84: «vermini grandi uno sommesso».
166 circa lo spazio del tiro di una balestra: cfr. X 6,6 n.
167 circa, verso: VIII 6,4 n.
168 diffidate, perdete la fiducia: Pucci, Certiloquio, XXVI 57:
«veggendogliene andar così sfidati».
169 Col solito uso della preposizione articolata: cfr. I 1,87 n.
170 addottorato: Jacopone, XVII 2 7, LXXX 36; Sacchetti,
CXXIII; M. Villani, 18. Lo scarlatto era colore di prammatica in
simili circostanze: Merkel, p. 107.
171 presto, senza indugio: X 9,49: «quasi a mano a man cominciò una grandissima infermeria»; VIII 10,13 n.
172 faccenda, come più sotto (93): II 3,27 n.
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duto, ella s’è sì innamorata di me che ella mi vol fare cavalier bagnato; e forse che la cavalleria mi starà così
male, e saprolla così mal mantenere o pur bene? Lascerete pur far me!»
Buffalmacco disse: «Troppo dite bene, ma guardate
che voi non ci faceste la beffa, e non vi veniste o non vi
foste trovato quando per voi manderemo; e questo dico
per ciò che egli fa freddo, e voi signor medici ve ne
guardate molto».
«Non piaccia a Dio!» disse il medico «io non sono
di questi assiderati173; io non curo freddo; poche volte è
mai che io mi levi la notte così per bisogno del corpo,
come l’uom fa talvolta, che io mi metta altro che il pilliccione mio sopra il farsetto174; e per ciò io vi sarò fermamente».
Partitisi adunque costoro, come notte si venne faccendo, il maestro trovò sue scuse in casa con la moglie,
e trattane celatamente la sua bella roba, come tempo gli
parve, messalasi in dosso, se n’andò sopra uno de’ detti
avelli; e sopra quegli marmi ristrettosi175, essendo il
freddo grande, cominciò ad aspettar la bestia. Buffalmacco, il quale era grande e atante della persona176, ordinò d’avere177 una di queste maschere che usare si soleano a certi giuochi li quali oggi non si fanno178, e messosi in dosso un pilliccion nero a rivescio179, in quello
173
freddolosi, morti di freddo, ma con tono caricaturato: VIII
7,33 n.
174
«Ripari che sarebbero troppi nella Scizia» (Nisieiy).
rannicchiatosi.
robusto, aitante, un pezzo d’uomo: II 8,75 n.
177 fece in modo dovere.
178 «Deve essere una delle maschere usate nel cosiddetto Gioco
del Veglio, mascherata proibita almeno dal 1325» (Petronio). Il
travestimento di Buffalmacco si rifà in qualche modo anche alle figurazioni tradizionali del demonio sempre nero e sempre mezza
bestia e mezzo uomo.
179 Forma allora corrente per rovescio.
175
176
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96
s’acconciò in guisa che pareva pure uno orso; se non
che la maschera aveva viso di diavolo ed era cornuta. E
così acconcio, venendoli Bruno appresso per vedere
come l’opera andasse, se n’andò nella piazza nuova di
Santa Maria Novella. E come egli si fu accorto che messer lo maestro v’era, così cominciò a saltabellare e a fare
un nabissare180 grandissimo su per la piazza, e a sufolare e ad urlare e a stridere a guisa che se imperversato181
fosse.
Il quale come il maestro sentì e vide, così tutti i peli
gli s’arricciarono adosso182, e tutto cominciò a tremare,
come colui che era più che una femina pauroso; e fu ora
che egli183 vorrebbe essere stato innanzi a casa sua che
quivi. Ma non per tanto pur, poi che andato v’era, si
sforzò d’assicurarsi184, tanto il vinceva il disidero di giugnere a vedere le maraviglie dettegli da costoro. Ma poi
che Buffalmacco ebbe alquanto imperversato, come è
detto, faccendo sembianti di rappacificarsi, s’accostò
allo avello sopra il quale era il maestro, e stette fermo. Il
maestro, sì come quegli che tutto tremava di paura, non
sapeva che farsi, se su vi salisse o se si stesse185. Ultimamente, temendo non gli facesse male se su non vi salisse, con la seconda paura cacciò la prima, e sceso dello
avello, pianamente186 dicendo, «Idio m’aiuti «, su vi
salì, e acconciossi molto bene, e sempre tremando tutto
180 saltabeccare e a impazzare: Filostrato, IV 27; Sacchetti,
LXIV: «entrò dentro correndo e nabissando»; e LXVI (e cfr. III
3,39 n.).
181 indemoniato, spiritato: G. Villani, VII 155: «sanando infermi, e rizzando attratti, e sgombrando imperversati».
182 Cfr. V 8,28 n. e IX 1,25: «tutti i peli gli s’incominciarono a
arricciare addosso».
183 ci fu un momento in cui: VII 3,37 n.
184 farsi coraggio, rassicurarsi: VII 1,2 n.
185 se ne astenesse: I 2,17 n.; III 7,92 n.
186 sottovoce: VIII 6,18 n.
Letteratura italiana Einaudi 1180
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
si recò con le mani a star cortese, come detto gli era
stato. Allora Buffalmacco pianamente s’incominciò a dirizzare verso Santa Maria della Scala, e andando carpo98 ne infin presso le donne di Ripole il condusse187. Erano
allora per quella contrada fosse, nelle quali i lavoratori
di que’ campi facevan votare la contessa di Civillari188,
99 per ingrassare i campi loro. Alle quali come Buffalmacco fu vicino, accostatosi alla proda d’una e preso
tempo, messa la mano sotto all’un de’piedi del medico e
con essa sospintolsi da dosso, di netto col capo innanzi
il gittò in essa, e cominciò a ringhiare forte e a saltare e
ad imperversare e ad andarsene lungo Santa Maria della
Scala verso il prato d’Ognissanti, dove ritrovò Bruno
che per non poter tener le risa fuggito s’era; e amenduni
festa faccendosi, di lontano si misero a veder quello che
100 il medico impastato189 facesse. Messer lo medico, sentendosi in questo luogo così abominevole, si sforzò di
rilevare 190 e di volersi aiutare per uscirne, e ora in
qua191 e ora in là ricadendo, tutto dal capo al piè impastato, dolente e cattivo192, avendone alquante dragme193
97
187 Buffalmacco cioè prende l’attuale Via della Scala e si avvia
verso il Prato: passa prima lungo l’ospedale di Santa Maria della
Scala (fondato nel 1316 da Cione Pollini; poi Monastero di San
Martino), quindi egli si avvia verso il convento delle monache di
San Jacopo di Ripoli in Via della Scala edificato nel 1300-301 (in
tale convento avrebbero proprio dipinto Bruno e Buffalmacco, secondo le notizie del Vasari e del Baldinucci). L’azione della novella è immaginata dunque verso l’anno 1320 (cfr. anche 81 n.).
188 «Conte di» e «conte a» erano modi usati promiscuamente
in quel tempo.
189 lordo, impiastricciato di bruttura: Inf., XVIII 107 sgg.
190 raddrizzarsi, rialzarsi: forma attiva invece che riflessiva: cfr.
F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 246.
191 Espressione del tipo latino hinc ... hinc, o di questo e questo:
cfr. anche Purg. XI, 127 «qua giù dimora e qua su non ascende».
192 misero, sventurato: cfr. 22 n.
193 La dramma era 1/8 di oncia (Purg., XXI 99, XXX 46), cioè
circa g 3 1/2.
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ingozzate, pur n’uscì fuori e lasciovvi il cappuccio; e,
spastandosi con le mani come poteva il meglio, non
sappiendo che altro consiglio pigliarsi, se ne tornò a
casa sua, e picchiò tanto che aperto gli fu.
Né prima, essendo egli entrato dentro così putente,
fu l’uscio riserrato, che Bruno e Buffalmacco furono ivi,
per udire come il maestro fosse dalla sua donna raccolto. Li qua li stando ad udir, sentirono alla194 donna dirgli la maggior villania195 che mai si dicesse a niun tristo,
dicendo: «Deh, come ben ti sta! Tu eri ito a qualche
altra femina, e volevi comparire molto orrevole con. la
roba dello scarlatto. Or non ti bastava io? Frate196, io
sarei sofficiente ad un popolo197, non che a te198. Deh,
or t’avessono essi affogato, come essi ti gittarono là
dove tu eri degno d’esser gittato. Ecco medico onorato,
aver moglie e andar la notte alle femine altrui199!» E
con quelle e con altre assai parole, faccendosi il medico
tutto lavare, infino alla mezza notte non rifinò200 la
donna di tormentarlo.
Poi la mattina vegnente Bruno e Buffalmacco, avendosi tutte le carni dipinte soppanno201 di lividori a guisa
che far sogliono le battiture, se ne vennero a casa del
medico, e trovaron lui già levato; ed entrati dentro a lui,
sentirono ogni cosa putirvi; ché ancora non s’era sì ogni
cosa potuta nettare, che non vi putisse. E sentendo il
medico costor venire a lui, si fece loro incontro, dicendo che Idio desse loro il buon dì. Al quale Bruno e Buf194
195
196
197
198
199
dalla: Intr., 20 n.
Espressione consueta in simili casi: 7,43; VIII 8,19 e 49 ecc.
Col solito senso sdegnosamente ironico: VIII 2,26 n.
a tutta parrocchia.
«Concedatur» (M.); e cfr. III 1,37 n.
Espressione di sdegno beffardo analoga a quella della III
3,30.
200
201
finì, smise: V 3,30 n.
sotto i panni, a modo di avverbio.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
falmacco, sì come proposto aveano, risposero con tur106 bato viso: «Questo non diciam noi a voi, anzi preghia-
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111
mo Iddio che vi dea tanti malanni che voi siate morto a
ghiado202, sì come il più disleale e il maggior traditor
che viva; per ciò che egli non è rimaso per voi203, ingegnandoci noi di farvi onore e piacere, che noi non
siamo stati morti come cani. E per la vostra dislealtà abbiamo stanotte avute tante busse, che di meno204 andrebbe uno asino a Roma; senza che noi siamo stati a
pericolo d’essere stati cacciati della compagnia nella
quale noi avavamo ordinato di farvi ricevere. E se voi
non ci credete, ponete mente205 le carni nostre come
elle stanno». E ad un cotal206 barlume apertisi i panni
dinanzi, gli mostrarono i petti loro tutti dipinti, e richiusongli senza indugio.
Il medico si volea scusare e dir delle sue sciagure, e
come e dove egli era stato gittato. Al quale Buffalmacco
disse: «Io vorrei che egli v’avesse gittato dal ponte in
Arno: perché ricordavate voi o Dio o’ santi? Non vi fu
egli detto dinanzi?»
Disse il medico: «In fè di Dio non ricordava».
«Come,» disse Buffalmacco «non ricordavate! Voi
ve ne ricordate molto207! ché ne disse il messo nostro
che voi tremavate come verga, e non sapavate208 dove
voi vi foste. Or voi ce l’avete ben fatta; ma mai più per-
202 ammazzato ucciso a coltellate o di spada; Sacchetti, CIC; G.
Villani, VIII 92: «e ’l Priore morto a ghiado».
203 perché per parte vostra nulla è stato trascurato ... affinché
noi: III 6,41 n.; III 7,46 n.
204 con meno busse.
205 guardate, osservate: VII 8,43 n.
206 a un certo e quindi a un tenue, incerto: VII 5,14 n.
207 Nel primo caso r i c o r d a r e vale menzionare (Dio e i
santi), nel secondo avere a mente.
208 Per queste forme dell’imperfetto cfr. II 5,23 n.
Letteratura italiana Einaudi
1183
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
sona non la ci farà, e a voi ne faremo ancora quello
onore che vi se ne conviene».
112
Il medico cominciò a chieder perdono, e a pregargli
per Dio che nol dovessero vituperare209; e con le miglior parole che egli potè, s’ingegnò di pacificargli. E
per paura che essi questo suo vitupero non palesassero,
se da indi a dietro onorati gli avea, molto più gli onorò
e careggiò210 con conviti e altre cose da indi innanzi.
Così adunque, come udito avete, senno s’insegna a chi
tanto non apparò a Bologna211. –
209
infamare, svergognare: III 6,39 n.
fece loro gentilezze: VIII 7,105 n.
Conclusione sentenziosa su due endecasillabi uniti da un
quinario.
210
211
Letteratura italiana Einaudi 1184
NOVELLA DECIMA
1
Una ciciliana maestrevolmente toglie ad un mercatante ciò che
in Palermo ha portato; il quale, sembiante faccendo d’esservi
tornato con molta più mercatantia che prima, da lei accattati
denari, le lascia acqua e capecchio1.
2
Quanto la novella della reina in diversi luoghi facesse le donne ridere, non è da domandare: niuna ve n’era
a cui per soperchio riso non fossero dodici2 volte le lagrime venute in su gli occhi. Ma poi che ella ebbe fine,
Dioneo, che sapeva che a lui toccava la volta3, disse:
– Graziose donne, manifesta cosa è tanto più l’arti
piacere, quanto più sottile artefice è per quelle artificio-
3
1
Cioè la parte più grossolana risultante dalla prima pettinatura della canapa e del lino. Molti antecedenti sono stati ricordati
a proposito dell’espediente di Salabaetto per ingannare l’ingannatrice e riavere il suo denaro: doveva essere un tema assai Popolare
(Thompson e Rotunda, K 1667 e anche 455.9, L 431-2) riflesso
pure dalla CXCVIII novella del Sacchetti. Dalle raccolte orientali
sono state citate l’Agiab Elmeasar (m. CARDONNE, Mélanges de
littérature orientale, ’s Gravenhage 1771, pp. 35 sgg.), Le mille e
una notte (CLOUSTON, Eastern Romances cit., p. 556); e più verosimilmente dalle occidentali una versione rimata dei Sette Savi
(P. RAJNA, in «Romania», x, 1881, pp. 9 sgg.), e soprattutto la
Disciplina clericalis di Pietro Alfonso (XVI) da cui discendono le
narrazioni simili nei Gesta Romanorum (118), in una novella aggiunta al Novellino dal Borghini (LXXIV), nel Chastiement d’un
père à son fils (XIII: in Fabliaux, ed. Barbazan-Meon cit., II. pp.
107 sgg.), nel Liber Kalitae et Dimnae di Raimondo di Béziers
(VIII: in HERVIEUX, Fabulistes latins cit., V), nel Volgarizzamento del giuoco degli scacchi di Jacopo di Cessole (Libro di novelle antiche a cura di F. Zambrini, Bologna 1868, VI). Ma a parte le linee
fondamentali dello stratagemma di Salabaetto, nulla in quei testi
anticipa la presente novella che riflette chiaramente soprattutto dirette esperienze d’ambiente mercantile. Cfr. oltre le opere solite L.
DI FRANCIA, Alcune novelle, 1904; C. TRASSELLI, II D. come
fonte storica, in «Rass. di cultura e vita scolastica», IX, 1955.
2
Uno dei soliti numeri indeterminati: VI 4,16 n.
3
il turno: cfr. II 3,3 n.
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4
5
samente beffato. E per ciò, quantunque bellissime cose
tutte raccontate abbiate, io intendo dl raccontarne una?
tanto più che alcuna altra dettane da dovervi aggradire,
quanto colei che beffata fu era maggior maestra di beffare altrui, che alcuno altro beffato fosse di quegli o di
quelle che avete contate4.
Soleva essere, e forse che ancora oggi è, una usanza
in tutte le terre marine5 che hanno porto, così fatta, che
tutti i mercatanti che in quelle con mercatantie capitano, faccendole scaricare, tutte in un fondaco il quale in
molti luoghi è chiamato dogana6, tenuta per lo comune
o per lo signor della terra, le portano7. E quivi, dando a
coloro che sopra ciò sono8 per iscritto tutta la mercatantia e il pregio9 di quella, è dato per li detti al mercatante un magazzino, nel quale esso la sua mercatantia ripone e serralo con la chiave; e li detti doganieri poi scrivono in sul libro della dogana a ragione10 del mercatante tutta la sua mercatantia, faccendosi poi del lor diritto
4
Cfr. II 9,6 n. C VIII 7,3 n.
città marinare.
6
il primo degli arabismi che espressivisticamente colorano,
con i frequenti sicilianismi, questa novella palermitana (cfr. G. B.
PFLLEGRINI, Gli arabismi nelle lingue neolatine, Brescia 1972,
pp. 104, 131 e 346: e per fondaco pp. 104 sgg., 131). E in generale
per l’espressivismo linguistico, meridionale e mercantile, in questa
novella cfr. Introduzione, pp. XXIII.
7
L’usanza descritta nelle righe seguenti è importante documento dell’esistenza in Italia, già ai tempi del B., degli equivalenti
dei moderni docks e warrants, (cfr. VIDAL BEY, B. et les docks et
warrants, in «Bull. de l’Institut Egyptien», serie II, III, 1883): ed è
certo testimonianza che risale agli anni giovanili delle esperienze
mercantesche del B. a Napoli. Per questi e altri termini tecnici si
ricorrenti nella novella si tenga presente F. EDLER, Glossary of
Mediaeval terms of business, Cambridge (Mass.) 1934.
8
che sono incaricati di quest’ufficio, che soprintendono a questo.
9
il prezzo, il valore: II 4, 29 n.
10 a conto: II 9, 10 n. e qui più avanti 44.
5
Letteratura italiana Einaudi 1186
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
6
7
8
pagare al mercatante, o per tutta o per parte della mercatantia che egli della dogana traesse. E da questo libro
della dogana assai volte s’informano i sensali11 e delle
qualità e delle quantità delle mercatantie che vi sono, e
ancora chi sieno i mercatanti che l’hanno, con li quali
poi essi, secondo che lor cade per mano12, ragionano di
cambi, di baratti e di vendite e d’altri spacci.
La quale usanza, sì come in molti altri luoghi, era in
Palermo in Cicilia, dove similmente erano e ancor sono
assai femine del corpo bellissime, ma nemiche della
onestà13; le quali, da chi non le conosce, sarebbono e
son tenute grandi e onestissime donne. E essendo, non
a radere, ma a scorticare14 uomini date del tutto15,
come un mercatante forestiere riveggono, così dal libro
della dogana s’informano di ciò che egli v’ha e di quanto può fare; e appresso con lor piacevoli e amorosi atti e
con parole dolcissime questi cotali mercatanti s’ingegnano d’adescare e di trarre nel loro amore; e già molti
ve n’hanno tratti, a’ quali buona parte della lor mercatantia hanno delle mani tratta, e a assai tutta 16; e di
11 Altro arabismo (63 e 65: PELLEGRINI, op. cit., pp. 100,
137, 433, 509).
12 capita l’occasione.
13 Cfr. per questo II 5,4 n. Il DI FRANCIA, art. cit., riferisce
che in Calabria si dice proverbialmente di una donna: «Bella come
le cortigiane di Palermo».
14 Il primo verbo indica il prendere i denari con abilità e destrezza e qualche pretesto, il secondo trarli senza riguardo né misericordia alcuna. Probabilmente questa come varie delle immagini seguenti, nacquero più facilmente dalla consuetudine allora diffusa delle donne barbiere: anche nel Fiore, CLXII: «Ciascuna de’
aver fermo intendimento | Di scorticargli, si seri falsi e rei»; e
Cecco Angiolieri: «- Chi t’ha rubato? | - Una che par che rada |
Come rasoi’, si m’ha netto lasciato» (son. 1). Ma il termine b a r b i e r a (cfr. più sotto e 10) divenne specifico e quasi tecnico: cfr.
Basile, Pentamerone cit., II, p. 98.
15 attendendo esclusivamente, per mestiere, a ...
16 e a molti mercanti hanno preso tutta la mercanzia.
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10
quelli vi sono stati che la mercatantia e ’navilio e le
polpe e l’ossa lasciate v’hanno, sì ha soavemente la barbiera saputo menare il rasoio17.
Ora, non è ancor molto tempo, avvenne che quivi,
da’ suoi maestri18 mandato, arrivò un giovane nostro
fiorentino detto Nicolò da Cignano19, come che Salabaetto fosse chiamato, con tanti pannilani che alla fiera
di Salerno gli erano avanzati, che potevan valere un cinquecento fiorin d’oro; e dato il legaggio20 di quegli a’
doganieri, gli mise in un magazzino, e senza mostrar
troppo gran fretta dello spaccio, s’incominciò ad andare
alcuna volta a sollazzo per la terra. E essendo egli bianco e biondo e leggiadro molto, e standogli ben la vita21,
avvenne che una di queste barbiere, che si faceva chiamare madonna Iancofiore22, avendo alcuna cosa sentita
17
«Secca ti sia ella se tu esci a cancello uguanno» (M.).
capi della casa commerciale: termine tecnico: cfr. 41.
Assai nota la famiglia da Cignano - mugenana d’origine del quartiere di San Giovanni, gonfalone Vaio, cui appartennero
vari priori (Archivio di Firenze, Priorista Mariani, VI, c. 1467). Di
un Niccolò di Cecco da Cignano si ha notizia proprio attorno alla
metà del Trecento (Archivio di Firenze, Carte Pucci, busta 4, n.
56; Carte Dei, busta 18, n. 19): forse era della Compagnia Scali,
dominatrice del commercio dei panni nel Regno e alla famosa
fiera di Salerno, dotata di privilegi già da Federico II e da Manfredi (L. S. PERUZZI, Storia del commercio ecc., Firenze 1868, pp.
272 sgg.; A. SAPORI, Studi di storia economica cit., pp. 445 sgg.).
Salabaetto secondo il Trasselli (art. cit.) significherebbe gaudente.
Per l’assidua presenza di mercanti fiorentini a Palermo cfr. R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze cit., VI, pp. 818 sgg.; C. TRASSELLI, Note per la storia dei banchi in Sicilia, Palermo 1958.
20 Tassa o diritto da pagarsi ai doganieri a titolo di legatura,
imballaggio ecc.: Statuto di Calimata cit.: «il legaggio e caticaggio
... che il re di Francia toglie»; e cfr. più avanti 44.
21 avendo un bel personale, essendo di bella apparenza: cfr. A.
SOZZINI, in «Archivio Storico Italiano» II, 1842, pp. 353: «un
gentiluomo spagnuolo, quale aveva una bella vita».
22 Forma siciliana per Biancofiore: nel 1305 esisteva a Palermo
una figlia di barbiere così chiamata (Trasselli).
18
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de’fatti suoi, gli pose l’occhio addosso. Di che egli accorgendosi, estimando che ella fosse una gran donna,
s’avvisò che per la sua bellezza le piacesse23, e pensossi
di volere molto cautamente menar questo amore; e
senza dirne cosa alcuna a persona, incominciò a far le
passate24 dinanzi alla casa di costei. La quale accortasene, poi che alquanti dì l’ebbe ben con gli occhi acceso,
mostrando ella di consumarsi per lui, segretamente gli
mandò una sua femina la quale ottimamente l’arte sapeva del ruffianesimo. La quale, quasi con le lagrime in su
gli occhi, dopo molte novelle, gli disse che egli con la
bellezza e con la piacevolezza sua aveva sì la sua donna
presa25, che ella non trovava luogo né dì né notte26; e
per ciò, quando a lui piacesse, ella disiderava più che
altra cosa di potersi con lui ad un bagno27 segretamente
trovare; e appresso questo, trattosi uno anello dì borsa,
da parte della sua donna gliele donò. Salabaetto, udendo questo, fu il più lieto uomo che mai fosse, e preso
l’anello e fregatoselo agli occhi 28 e poi baciatolo sel
mise in dito, e rispose alla buona femina che, se madonna Jancofiore l’amava, che ella n’era ben cambiata29,
per ciò che egli amava più lei che la sua propria vita30, e
che egli era disposto d’andare dovunque a lei fosse a
grado, e ad ogn’ora.
Tornata adunque la messaggiera alla sua donna con
23
Come Andreuccio: II 5,2 n.
a passare e ripassare: come altri innamorati nel D. (I 10,11;
III 3,25; 5,17 ecc.).
25 conquistata, soggiogata d’amore: espressione della tradizione
lirica: Inf., V 101: «prese costui»: e cfr. IX 1,5 n.
26 Consueta affermazione: VII concl., 12 n.
27 Solito luogo di appuntamenti amorosi: III 6,17 n.
28 In segno di affetto e di attaccamento straordinario: l’anello
gli era caro come gli occhi.
29 ricambiata.
30 Anche questa è affermazione topica: cfr. V 6,4 n., e qui 49.
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questa risposta, a Salabaetto fu a mano a man31 detto a
qual bagno il dì seguente passato vespro la dovesse
aspettare. Il quale, senza dirne cosa del mondo a persona, prestamente all’ora impostagli v’andò, e trovò il
bagno per la donna esser preso32. Dove egli non stette
guari che due schiave33 venner cariche: l’una aveva un
materasso di bambagia bello e grande in capo, e l’altra
un grandissimo paniere pien di cose; e steso questo materasso in una camera del bagno sopra una lettiera, vi
miser su un paio di lenzuola sottilissime listate di seta, e
poi una coltre di bucherame34 cipriana bianchissima
con due origlieri lavorati a maraviglie 35. E appresso
questo spogliatesi ed entrate nel bagno, quello tutto lavarono e spazzarono ottimamente. Né stette guari che
la donna con due sue altre schiave appresso al bagno
venne; dove ella, come prima ebbe agio, fece a Salabaetto grandissima festa; e dopo i maggiori sospiri del
mondo, poi che molto e abbracciato e baciato l’ebbe,
gli disse: «Non so chi mi s’avesse a questo potuto conducere, altro che tu; tu m’hai miso lo foco all’arma36,
toscano acanino37».
31
subito, poco dopo: VIII 9,87 n.
esser preso in affitto dalla donna. Si è ora preteso di identificarlo nel «bagno d’oro» di Vicolo Ragusi (cfr. «Il Gazzettino», 1°
ottobre 1998).
33 Per le condizioni di queste schiave, in genere orientali, cfr.
le opere citate a II 6,27 n.
34 Tessuto di lino candido e sottile, simile al bisso, di provenienza orientale: anche il termine è arabo (G. B. PELLEGRINI,
op. cit., pp. 173, 338): G. Villani, X 167: «l’altro [palio] di baracane bambagino»; Pucci, Centiloquio, LXXIX 10.
35 «Dicevasi una foggia di ricamo ben largo e di bizzarro disegno, simile a quelli che ora si dicono a fantasia» (Fanfani). Per origlieri cuscini cfr. IV 6,27 n.
36 tu m’hai messo il fuoco all’anima. Le forme meridionali
(mise, arma, lo dopo vocale) coloriscono il parlar della siciliana:
cfr. Annotazioni, CVIII; G. A. CESARFO, Studi e ricerche, Palermo 1930, pp. 195 sgg.: B. medievale, pp. 363 sg.
37 Parola del siciliano antico che deriva forse dall’arabo hanïn
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Appresso questo, come a lei piacque, ignudi amenduni se n’entrarono nel bagno, e con loro due delle
schiave. Quivi, senza lasciargli por mano addosso ad altrui,. ella medesima con sapone moscoleato38 e con garofanato maravigliosamente e bene tutto lavò Salabaetto; e appresso sé fece e lavare e strapicciare alle schiave.
E fatto questo, recaron le schiave de lenzuoli bianchissimi e sottili, de’quali veniva sì grande odor di rose che
ciò che v’era pareva rose39; e l’una inviluppò nell’uno
Salabaetto e l’altra nell’altro la donna, e in collo levatigli, amenduni nel letto fatto ne gli portarono. E quivi,
poi che di sudare furono restati40, dalle schiave fuor di
que’ lenzuoli tratti, rimasono ignudi negli altri. E tratti
del paniere oricanni41 d’ariento bellissimi e pieni qual
d’acqua rosa 42 , qual d’acqua di fior d’aranci, qual
d’acqua di fior di gelsomino e qual d’acqua nanfa43,
(caro, amato, dolce): «haninu», «cianinu» con tale valore è ancora
vivo nel Trapanese (cfr. G. B. PELLEGRINI, op. cit., pp. 75 sg.).
«Doveva avere un’intensità di tenerezza e di passione quale ha
beddu pur oggi nel linguaggio amoroso di Sicilia: non bello soltanto, ma caro, dolce, amato ... Fu adoperato come aggettivo, senza
escluder del tutto che potesse anche esser preso quale un’interiezione amorosa, né aggettivo né sostantivo, come sarebbero, nel
linguaggio amoroso de’ nostri giorni: amore, dolcezza e simili» (G.
A. CESAREO, op.cit.).
38 muschiato, profumato al muschio: la forma è siciliana (tosc.
moscato).
39 ogni cosa che era in quel luogo pareva fosse rose: VIII 6,29 n.
Tanto essere che parere, quando vi siano due sostantivi di numero
diverso, si possono accordare con uno qualsiasi di essi.
40 finirono di sudare.
41 vasetti per profumi, dall’imboccatura stretta. I Vocabolari
ne citano solo esempi tardi (per es. dal Magalotti).
42 Profumo già ricordato nella VIII 7,126 n.
43 acqualanfa, profumo distillato dai fior d’arancio: Pulci,
Morgante, XXV 216. Ma è evidentemente altra cosa - probabilmente per lavorazione diversa - dall’«acqua di fior d’aranci» già
nominata sopra: il nome è di origine araba (G. B. PELLEGRINI,
op. cit., p. 81).
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tutti costoro di queste acque spruzzano; e appresso tratte fuori scatole di confetti e preziosissimi vini, alquanto
si confortarono44. A Salabaetto pareva essere in paradiso, e mille volte aveva riguardata costei, la quale era per
certo bellissima, e cento anni gli pareva ciascuna ora
che queste schiave se n’andassero e che egli nelle braccia di costei si ritrovasse. Le quali poi che per comandamento della donna, lasciato un torchietto acceso nella
camera, andate se ne furono fuori, costei abbracciò Salabaetto ed egli lei, e con grandissimo piacer di Salabaetto, al quale pareva che costei tutta si struggesse per
suo amore, dimorarono una lunga ora45.
Ma poi che tempo parve di levarsi alla donna, fatte
venire le schiave, si vestirono, e un’altra volta bevendo e
confettando46 si riconfortarono alquanto, e il viso e le
mani di quelle acque odorifere lavatisi e volendosi partire, disse la donna a Salabaetto: «Quando a te fosse a
grado, a me sarebbe grandissima grazia che questa sera
te ne venissi a cenare e ad albergo meco47».
Salabaetto, il qual già e dalla bellezza e dalla artificiosa48 piacevolezza di costei era preso, credendosi fermamente da lei essere come il cuor del corpo amato49,
rispose: «Madonna, ogni vostro piacere m’è sommamente a grado, e per ciò e istasera e sempre intendo di
far quello che vi piacerà e che per voi mi fia comandato».
44 Una delle solite frasi fatte in queste situazioni, e che è ripetuta al 21: I 10,14 n.; IV 2,30 ecc.
45 In senso generico: lunga pezza, lungo tempo.
46 mangiando dolciumi: VIII 9,24 n.
47 La copula unisce qui due parti del discorso diverse dipendenti da venire: come per es. a X 6,13: «venute innanzi onestamente e vergognose». L’espressione era corrente (cfr. per es. qui
56; e Morelli, Ricordi, passim).
48 lusingatrice e piena di vezzi.
49 Solita tenera espressione popolaresca: II 10,30 n.; e qui 29.
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Tornatasene adunque la donna a casa, e fatta bene
di sue robe e di suoi arnesi ornar la camera sua, e fatto
splendidamente far da cena, aspettò Salabaetto. Il
quale, come alquanto fu fatto oscuro, là se n’andò, e lietamente ricevuto, con gran festa e ben servito cenò. Poi,
nella camera entratisene, sentì quivi maraviglioso odore
di legno aloè, e d’uccelletti cipriani50 vide il letto ricchissimo, e molte belle robe su per le stanghe51. Le
quali cose tutte insieme, e ciascuna per sé, gli fecero stimare costei dovere essere una grande e ricca donna52. E
quantunque in contrario avesse della vita di lei udito
bucinare53, per cosa del mondo nol voleva credere; e se
pure alquanto ne credeva lei già alcuno aver beffato,
per cosa del mondo non poteva credere questo dovere a
lui intervenire. Egli giacque con grandissimo suo piacere la notte con essolei, sempre più accendendosi.
Venuta la mattina, ella gli cinse una bella e leggiadra
cinturetta d’argento con una bella borsa54, e sì gli disse:
«Salabaetto mio dolce, io mi ti raccomando55; e così
come la mia persona è al piacer tuio, così è ciò che ci è56
e ciò che per me si può è allo comando tuio57». Sala50 Pezzi di pasta profumata, preparati variamente, che si ardevano: erano chiamati «useletti o vuoi pizzetti». L’aggettivo deve
indicare, come già per b u c h e r a m e (14), qualità sopraffina,
orientaleggiante. Per la discussa interpretazione del termine cfr.
m. PASTORE STOCCHI, Note e chiose interpretative, in «Studi
sul B.», II, 1964, con puntuale documentazione.
51 pertiche o traverse di legno secondo l’uso già descritto a II
5,17. Anzi tutta questa pagina ripete assai da vicino la descrizione
dell’ambiente in cui un’altra avida cortigiana, Madonna Fiordaliso, riceve l’ingenuo Andreuccio.
52 Proprio ancora come Andreuccio: II 5,17.
53 chiacchierare, mormorare: III 4,5 n.
54 Ornamenti in cui comunemente si sfoggiava l’eleganza e
che eran doni di prammatica fra amanti (III 3,26 n.).
55 Formula consueta di commiato cortese.
56 ogni cosa, tutto quanto è qui, è mio: VIII 6,29 n. e più sotto 30.
57 Cfr. IV 3,26: «gli significò sé essere a ogni suo comanda-
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baetto lieto abbracciatala e baciatala, s’uscì di casa costei58 e vennesene là dove usavano gli altri mercatanti. E
usando una volta e altra con costei senza costargli cosa
del mondo, e ogni ora più invescandosi59, avvenne che
egli vendé i panni suoi a contanti e guadagnonne bene.
Il che la buona donna non da lui, ma da altrui sentì incontanente; e essendo Salabaetto da lei andato una sera,
costei incominciò a cianciare e a ruzzare con lui, a baciarlo e abbracciarlo, mostrandosi sì forte di lui infiammata, che pareva che ella gli volesse d’amor morir nelle
braccia60; e volevagli pur donare due bellissimi nappi
d’argento che ella aveva, li quali Salabaetto non voleva
torre, sì come colui che da lei tra una volta e altra aveva
avuto quello che valeva ben trenta fiorin d’oro, senza
aver potuto fare che ella da lui prendesse tanto che valesse un grosso61. Alla fine, avendol costei bene acceso
col mostrar sé accesa e liberale, una delle sue schiave, sì
come ella aveva ordinato, la chiamò; per che ella, uscita
della camera e stata alquanto, tornò dentro
piagnendo62, e sopra il letto gittatasi boccone, cominciò
a fare il più doloroso lamento che mai facesse femina.
Salabaetto, maravigliandosi, la si recò in braccio, e
cominciò a piagner con lei e a dire: «Deh, cuor del
corpo mio, che avete voi così subitamente? Che è la cagione di questo dolore? Deh! ditemelo, anima mia63».
mento». Tu i o è un’altra delle forme meridionaleggianti di cui è
punteggiato il parlare di Madonna Iancofiore.
58 Con la solita soppressione della preposizione di (II 5,50 n.).
59 impaniandosi: linguaggio tradizionale: X 6,24 n.
60 Espressione tradizionale e ricorrente (cfr. qui a 56 in altro
senso).
61 Monetina d’argento: VIII 3,29 n.
62 «Muliebris lacryma condimentum malitiac est» (Publilio
Siro, Sententiae): e cfr. il già citato «Dum femina plorat | Decipere
laborat» (VIII 7,81 n.).
63 Discorso punteggiato dai soliti tenerissimi appellativi, per
cui cfr. per es. II 10,30 n.
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Poi che la donna s’ebbe assai fatta pregare, e64 ella
disse: «Ohimè, signor mio dolce, io non so né che mi
far né che mi dire: io ho testé ricevute lettere da Messina, e scrivemi mio fratello, che, se io dovessi vendere e
impegnare ciò che ci è65, che66 senza alcun fallo io gli
abbia fra qui e otto dì mandati67 mille fiorin d’oro, se
non che gli sarà tagliata la testa; e io non so quello che
io mi debba fare, che68 io gli possa così prestamente
avere; ché, se io avessi spazio pur quindici dì, io troverrei modo da civirne69 d’alcun luogo donde io ne debbo
avere molti più, o io venderei alcuna delle nostre possessioni; ma, non potendo, io vorrei esser morta prima
che quella mala novella mi venisse »; e detto questo,
forte mostrandosi tribolata, non restava70 di piagnere.
Salabaetto, al quale l’amorose fiamme avevan gran
parte del debito conoscimento tolto, credendo quelle
verissime lagrime e le parole ancor più vere, disse: «Madonna, io non vi potrei servire di mille, ma di cinquecento fiorin d’oro sì bene71, dove voi crediate potermegli rendere di qui a quindici dì; e questa è vostra ventura che pure ieri mi vennero venduti i panni miei, ché, se
così non fosse, io non vi potrei prestare un grosso».
64
In ripresa dopo temporale: ecco che: I 1,39 n.
anche se io dovessi vendere e impegnare tutto ciò che possiedo (cfr. 25 n.).
66 La solita ripetizione del che dopo frase parentetica condizionale.
67 Il trapassato remoto indica un’azione che deve compiersi, e
compiersi entro un termine perentorio: cfr. F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, pp. 309 sgg. E cfr. X 10,12 n. per «fra qui e
otto dì».
68 in modo che: cfr. I 4,6 n.
69 provvedermene, procacciarmene: cfr. Amorosa Visione, XVI
79; Fiore, LXIX 2.
70 non cessava. «Nota» (M.).
71 Solito rafforzativo dell’affermazione o della negazione: III
8,56 n.
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«Oimè! «disse la donna «dunque hai tu patito disagio di denari? O perché non me ne richiedevi tu? Perché72 io non n’abbia mille, io ne aveva ben cento e
anche dugento da darti; tu m’hai tolta tutta la
baldanza73 da dovere da te ricevere il servigio che tu mi
profferi».
Salabaetto, vie più che preso da queste parole, disse:
«Madonna, per questo non voglio io che voi lasciate74;
ché, se fosse così bisogno a me come egli fa a voi, io
v’avrei ben richiesta».
«Ohimè!» disse la donna «Salabaetto mio, ben conosco che il tuo è vero e perfetto amore75 verso di me,
quando, senza aspettar d’esser richiesto di così gran
quantità di moneta, in così fatto bisogno liberamente mi
sovieni76. E per certo io era tutta tua senza questo, e
con questo sarò molto maggior mente; né sarà mai che
io non riconosca da te77 la testa di mio fratello. Ma sallo
Iddio che io mal volentier gli prendo, considerando che
tu se’ mercatante, e i mercatanti fanno co’ denari tutti i
fatti loro; ma per ciò che il bisogno mi strigne e ho
ferma speranza di tosto rendergliti, io gli pur prenderò,
e per l’avanzo78, se più presta via non troverrò, impegnerò tutte queste mie cose«; e così detto lagrimando,
sopra il viso di Salabaetto si lasciò cadere. Salabaetto la
cominciò a confortare; e stato la notte con lei, per mo-
72
Concessivo: III 1,24 n.
ardire, coraggio: VII 3,13: «e cresciutagli baldanza, con più
instanzia ... la cominciò a sollicitare».
74 tralasciate: V 3,50 n.; e qui più avanti 61.
75 Espressione dell’uso cortese: cfr. per es. anche III 5,19; VI
7,13 n.
76 Par., XXXIII 16 sgg.: «La tua benignità non pur soccorre |
A chi domanda, ma molte fiate | Liberamente al dimandar precorre»; e anche Par., XVII 74 sgg.
77 di dovere a te, che mi venga da te: cfr. Par., XXXI 83.
78 e per il resto.
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strarsi bene liberalissimo suo servidore, senza alcuna richiesta di lei aspettare, le portò cinquecento be’ fiorin
d’oro, li quali ella, ridendo col cuore e piagnendo con
gli occhi, prese, attenendosene Salabaetto alla sua semplice promessione79.
Come la donna ebbe i denari, così s’incominciarono
le ’ndizioni80 a mutare; e dove prima era libera l’andata
alla donna ogni volta che a Salabaetto era in piacere,
così incominciaron poi a sopravvenire delle cagioni, per
le quali non gli veniva delle sette volte l’una fatto il potervi entrare, né quel viso né quelle carezze né quelle
feste più gli eran fatte che prima. E passato d’un mese e
di due il termine, non che venuto, al quale i suoi danari
riaver dovea, richiedendogli, gli eran date parole in pagamento. Laonde, avvedendosi Salabaetto dell’arte
della malvagia femina e del suo poco senno, e conoscendo che di lei niuna cosa più che le si piacesse di
questo poteva dire81, sì come colui che di ciò non aveva
né scritta né testimonio, e vergognandosi di ramarricarsene con alcuno, sì perché n’era stato fatto avveduto dinanzi, e sì per le beffe le quali meritamente della sua bestialità n’aspettava, dolente oltre modo, seco medesimo
la sua sciocchezza piagnea. E avendo da’ suoi maestri
79 fidandosi Salabaetto della sua promessa semplice, puramente
verbale.
80 Periodi di quindici anni, cominciati a calcolare dal 313. «II
motto è preso dall’uso del notai che forzati per legge antichissima
a metter ne’ loro contratti queste benedette indizioni, che né loro
né altri sa oggi mai più che si siano o che s’importino e perché le si
mutano là di settembre e a mezzo il mese ..., come s’accosta il
tempo, se lo vanno ricordando, e come bandendo fra loro: mutatur indicio» (Annotazioni, pp. 230 sgg.). Cfr. Vita Nuova, XXIX.
La metafora viene a significare che la donna mutò l’ordine e il
modo di riceverlo: come è spiegato nelle righe seguenti.
81 non poteva dir nulla di più di quel che piacesse a lei: cioè poteva dir quel che voleva ché, se non piaceva a lei, era inutile (Fanfani).
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più lettere avute che egli quegli denari cambiasse e
mandassegli loro; acciò che, non faccendolo egli, quivi
non fosse il suo difetto scoperto, diliberò di partirsi; e
in su un legnetto montato, non a Pisa, come dovea, ma
a Napoli se ne venne.
Era quivi in quei tempi nostro compar Pietro dello
Canigiano82, tresorier di madama la ’mperatrice di Costantinopoli83, uomo di grande intelletto e di sottile ingegno, grandissimo amico e di Salabaetto e de’ suoi; col
quale, sì come con discretissimo uomo, dopo alcuno
giorno Salabaetto dolendosi, raccontò ciò che fatto
aveva e il suo misero accidente, e domandogli aiuto e
consiglio in fare che esso quivi potesse sostentar la sua
vita84, affermando che mai a Firenze non intendeva di
ritornare.
82 È uno dei vari personaggi viventi introdotti nelle novelle
dal B., che con la stessa formula affettuosa già l’aveva ricordato
nella sua burlevole lettera napoletana («e raccomandace, se te
chiace, a nuostro compatre Pietro da lu Canajano, ca lo puozziamo bedere alla buoglia suoia»), e lo nominerà nel testamento tutore dei suoi credi. Dietro Dioneo si affaccia qui il B. ( ... nostro
compar ... ). Pietro Canigiani era coetaneo circa del B., e amico e
fedele dell’Acciaiuoli; ebbe varie e onorevoli cariche alla Corte angioina e nella Repubblica fiorentina, ma poi nel 1378 ebbe arse le
case in Firenze e vietati gli uffici; nel 1381 morì confinato a Sarzana. Fu padre di Ristoro, l’autore del Ristorato: TIRIBILLI-GIULIANI, Sommario storico delle famiglie celebri toscane, Firenze 51
1862, I, p. 2; C. FRATI, in «Studi di filologia romanza», VI, 1890,
p. 306; F. CORAZZINI, I Ciompi, Firenze 1888, pp. 12, 95, 103 e
133 sgg.; LÉONARD, Histoire de jeanne Ier, cit. III, p. 380.
83 Caterina di Valois-Courtenay (1301-46); come discendente
di Baldovino II aveva il titolo di imperatrice di Costantinopoli.
Aveva sposato a soli dodici anni Filippo, quartogenito di Carlo II
lo Zoppo, da cui ebbe Roberto e Luigi di Taranto e quattro figlie.
Secondo una voce, accreditata dal B. stesso (Buccolicum Carmen,
VIII), dai suoi favori ebbe inizio la fortuna di Niccolò Acciaiuoli
(G. Villani, XII 75). II B. la ricordò anche nel De casibus, IX 24 e
nello Zibaldone Magliabechiano, C. 205r. Cfr. in generale LÉONARD, op. cit., I, passim. Trasorier è gallicismo frequente anche
nei documenti del Regno angioino.
84 campare: cfr. IX 10,6: «per sostentar la vita sua».
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Il Canigiano, dolente di queste cose, disse: «Male
hai fatto; mal ti se’ portato; male hai i tuoi maestri ubbiditi; troppi denari ad un tratto hai spesi in
dolcitudine85; ma che? fatto è, vuolsi vedere altro86». E,
sì come avveduto uomo, prestamente ebbe pensato
quello che era da fare, e a Salabaetto il disse; al quale
piacendo il fatto, si mise in avventura di volerlo seguire87.
E avendo alcun denaio, e il Canigiano avendonegli
alquanti prestati, fece molte balle ben legate e ben magliate88, e comperate da89 venti botti da olio ed empiutele, e caricato ogni cosa, se ne tornò in Palermo; e il legaggio delle balle dato a doganieri e similmente il costo
delle botti, e fatto ogni cosa scrivere a sua ragione, quelle mise ne’ magazzini, dicendo che, infino che altra
mercatantia la quale egli aspettava non veniva, quelle
non voleva toccare. Iancofiore, avendo sentito questo e
udendo che ben duemilia fiorin d’oro valeva o più quello che al presente aveva recato, senza quello che egli
aspettava, che valeva più di tre milia, parendole aver tirato a pochi90, pensò di restituirgli i cinquecento, per
potere avere la maggior parte de’ cinquemilia, e mandò
per lui.
Salabaetto divenuto malizioso v’andò; al quale ella
85
lascivie, mollezze.
procurare altra cosa cioè trovare un rimedio. È una delle affermazioni solite alla sapienza bonaria e umanissima del B.: III
6,43 n. e Filocolo, III 7,9. Cfr. Plauto, Aul., 74 «Factum infectum
fieri nequit»; WALTHER, Proverbia cit., II, pp. 15 sg.; Inf., XXVIII 107.
87 affrontò il rischio (II 9,27 n.) di volerlo eseguire, mettere in
pratica: X 3,30 n.; Petrarca, LXXII 22.
88 ammagliate, legate strette: Ariosto, Cassaria, III 9: «corda
da magliare».
89 circa: II 7,7 n.
90 aver mirato a pochi denari oppure aver fatto un magro bottino.
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faccendo vista di niente sapere di ciò che recato s’avesse, fece maravigliosa festa e disse: «Ecco, se tu fossi
crucciato meco perché io non ti rende’ così al termine i
tuoi denari91...?»
Salabaetto cominciò a ridere e disse: «Madonna, nel
vero egli mi dispiacque bene un poco sì come a colui
che mi trarrei il cuor per darlovi, se io credessi piacervene; ma io voglio che voi udiate come io son crucciato
con voi. Egli è tanto e tale l’amor che io vi porto, che io
ho fatto vendere la maggior parte delle mie possessioni,
e ho al presente recata qui tanta mercatantia che vale
oltre a dumilia92 fiorini, e aspettone di Ponente tanta
che varrà oltre a tremilia, e intendo di fare in questa
terra un fondaco93 e di starmi qui, per esservi sempre
presso, parendomi meglio stare del94 vostro amore che
io creda che stia alcuno innamorato del suo».
A cui la donna disse: «Vedi, Salabaetto, ogni tuo acconcio95 mi piace forte, sì come di quello di colui il
quale io amo più che la vita mia96, e piacemi forte che
tu con intendimento di starci tornato ci sii, però che
spero d’avere ancora assai di buon tempo con teco 97;
ma io mi ti voglio un poco scusare ch’e, di quei tempi
che tu te n’andasti, alcune volte ci volesti venire e non
potesti, e alcune ci venisti e non fosti così lietamente ve91 «Credo che voglia dire: se’ ti tu forse crucciato ecc. per lo
punto interrogativo» (M.). E cfr. Annotazioni, CX.
92 In simili numerali composti - m i l i a si alterna con - m i l a
(II 5,43 n.).
93 Piuttosto che magazzino, come al 4, qui va inteso come
azienda mercantile (IV 5,5 n.; VII 7,5 n.).
94 essere più contento in quanto al.
95 comodo, vantaggio, bene: VIII 7,22; e IX 1,9: «il quale ella
avvisò dovere in parte essere grande acconcio del suo proponimento»; Fiammetta, VIII 1,3: «mi seguiranno due acconci».
96 Frase consueta in queste dichiarazioni: V 6,4 n.; e qui 12.
97 Anche questa è frase solita in situazioni simili: V 3,46 n.;
VIII 9,10 n.
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duto come solevi; e oltre a questo, di ciò98 che io al termine promesso non ti rende’ i tuoi denari. Tu dei sapere che io era allora in grandissimo dolore e in grandissima afflizione, e chi è in così fatta disposizione, quantunque egli ami molto altrui, non gli può far così buon viso
né attendere tuttavia a lui come colui vorrebbe; e appresso dei sapere ch’egli è molto malagevole ad una
donna il poter99 trovar mille fiorin d’oro, e sonci tutto il
dì dette delle bugie e non c’è attenuto quello che ci è
promesso, e per questo conviene che noi altressì mentiamo altrui; e di quinci venne, e non da altro difetto,
che io i tuoi denari non ti rendei; ma io gli ebbi poco
appresso la tua partita, e se io avessi saputo dove mandargliti, abbi per certo che io te gli avrei mandati; ma
perché saputo non l’ho, gli t’ho guardati100». E fattasi
venire una borsa dove erano quegli medesimi che esso
portati l’avea, gliele pose in mano e disse: «Annovera se
son cinquecento».
Salabaetto non fu mai sì lieto, e annoveratigli e trovatigli cinquecento e ripostigli, disse: «Madonna, io conosco che voi dite vero, ma voi n’avete fatto assai; e dicovi che per questo e per lo amore che io vi porto, voi
non ne vorreste da me per niun vostro bisogno quella
quantità che io potessi fare101, che io non ve ne servissi;
e come io ci sarò acconcio102, voi ne potrete essere alla
pruova». E in questa guisa reintegrato con lei l’amore in
parole, rincominciò Salabaetto vezzatamente103 a usar
98 [mi ti voglio scusare] di questo, cioè che, o semplicemente
perché (VIII 7,64 n.).
99 Pleonastico, come altra volta nel D. (per es. X 3,30; X
9,15): cfr. p. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 458 sg.
100 te li ho serbati, custoditi.
101 mettere insieme.
102 mi sarò stabilito, sistemato qui: corrente questo participio
accorciato o aggettivo verbale.
103 carezzevolmente, ma con affettazione: Volg. Lucano (T.):
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con lei, ed ella a fargli i maggiori piaceri e i maggiori
onori del mondo, e a mostrargli il maggiore amore.
Ma Salabaetto, volendo col suo inganno punire lo
’nganno di lei104, avendogli ella il dì mandato105 che egli
a cena e a albergo106 con lei andasse, v’andò tanto malinconoso e tanto tristo, che egli pareva che volesse morire. Iancofiore, abbracciandolo e baciandolo, lo ’ncominciò a domandare perché egli questa malinconia
avea. Egli, poi che una buona pezza107 s’ebbe fatto pregare, disse: «Io son diserto108 per ciò che il legno, sopra
il quale e la mercatantia che io aspettava, è stato preso
da’corsari di Monaco109 e riscattasi diecimilia fiorin110
d’oro, de’quali ne tocca a pagare a me mille, e io non ho
un denaio, per ciò che li cinquecento che mi rendesti
incontanente mandai a Napoli ad investire in tele per
far venir qui. E se io vorrò al presente vendere la mercatantia la quale ho qui, per ciò che non è tempo, appena
che io abbia delle due derrate un denaio111, e io non ci
sono sì ancora conosciuto che io ci trovassi chi di questo mi sovvenisse, e per ciò io non so che mi fare né che
mi dire; e se io non mando tosto i denari, la mercatantia
ne fia portata a Monaco; e non ne riavrò mai nulla».
La donna, forte crucciosa di questo, sì come colei
alla quale tutto il pareva perdere 112, avvisando che
«parlò ai messaggi molto vezzatamente».
104 Uno dei temi preferiti dal B. e spesso dichiarato esplicitamente: II 9, III 5, III 9, IV 2, VII 5, VIII 7, VIII 8, IX 8 ecc.
105 mandato a dire: cfr. V 6,41 n.
106 Cfr. 21 n.
107 un buon tratto di tempo, un bel pezzo: II 3,24 n.
108 rovinato: II 4,7 n.; VIII 6,27 n.
109 Nido di pirati famoso in quel secolo: cfr. II 10,16 n.
110 Senza preposizione di complemento, secondo l’uso corrente.
111 sarà molto se ricaverà un denaro dalla doppia quantità di
merce: cioè dovrò vendere a metà prezzo. Vendita rovinosa in condizioni analoghe a quella fatta da Landolfo Rufolo (II 4).
112 «Le pareva di perdere lui proprio, e per conseguenza anche
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modo ella dovesse tenere acciò che a Monaco non andasse, disse: «Dio il sa che ben me ne incresce per tuo
amore; ma che giova il tribolarsene tanto? Se io avessi
questi denari, sallo Idio che io gli ti presterrei incontanente; ma io non gli ho. È il vero che egli ci è alcuna
persona, il quale113 l’altrieri mi servì de’ cinquecento
che mi mancavano, ma grossa usura ne vuole; ché egli
non ne vuol meno che a ragion di trenta per centinaio114; se da questa cotal persona tu gli volessi, converrebbesi far sicuro di buon pegno115, e io per me sono
acconcia116 d’impegnar per te tutte queste robe e la persona per tanto quanto egli ci vorrà su prestare, per poterti servire, ma del rimanente come il sicurerai tu?»
Conobbe Salabaetto la cagione che moveva costei a
fargli questo servigio, e accorsesi che di lei dovevan essere i denari prestati; il che piacendogli, prima la ringraziò, e appresso disse che già per pregio117 ingordo non
lascerebbe, strignendolo il bisogno; e poi disse che egli
il sicurerebbe della mercatantia la quale aveva in dogana, faccendola scrivere in colui118 che i denar gli prestasse; ma che egli voleva guardar119 la chiave de’ magazzini, sì per poter mostrar la sua mercatantia, se richiesta gli fosse, e sì acciò che niuna cosa gli potesse
esser tocca o tramutata o scambiata. La donna disse che
il magazzino, nel quale esso per lei era personificato» (Fanfani):
oppure perdere tutto il guadagno, il denaro; e ricorre uno dei soliti
iperbati.
113 Concordanza a senso già altra volta notata: II 6,70 n.
114 all’interesse del trenta per cento.
115 dare garanzia con un buon perno; Velluti, Cronica, p. 65:
«demmene sicuro sopra certa parte della casa»; e più sotto sicurare garantire.
116 disposta: VIII 6,38 n.
117 prezzo e qui interesse.
118 registrare in nome, a conto di colui.
119 conservare, tener presso di sé.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
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66
questo era ben detto, ed era assai buona sicurtà120. E
per ciò, come il dì fu venuto, ella mandò per un sensale
di cui ella si confidava 121 molto, e ragionato con lui
questo fatto122, gli diè mille fiorin d’oro li quali il sensale prestò a Salabaetto, e fece in suo nome scrivere alla
dogana ciò che Salabaetto dentro v’avea; e fattesi loro
scritte123 e contrascritte insieme, e in concordia rimasi,
attesero a’ loro altri fatti.
Salabaetto, come più tosto potè, montato in su un
legnetto con mille cinquecento fiorin d’oro, a Pietro
dello Canigiano se ne tornò a Napoli, e di quindi buona
e intera ragione124 rimandò a Firenze a’suoi maestri che
co’panni l’avevan mandato; e pagato Pietro e ogni altro
a cui alcuna cosa doveva, più di col Canigiano si diè
buon tempo dello inganno fatto alla ciciliana. Poi di
quindi, non volendo più mercatante essere, se ne venne
a Ferrara125.
Iancofiore, non trovandosi Salabaetto in Palermo,
s’incominciò a maravigliare e divenne sospettosa; e poi
che ben due mesi aspettato l’ebbe, veggendo che non
veniva, fece che ’l sensale fece schiavare126 i magazzini.
E primieramente tastate le botti, che si credeva che
piene d’olio fossero, trovò quelle esser piene d’acqua
marina, avendo in ciascuna127 forse un barile d’olio di
120
121
122
garanzia: c me sopra (60) s i c u r o : IV 4,13 n.
si fidava: III 8,35 n.
Solita costruzione di r a g i o n a r e con l’accusativo: Intr.,
52.
123
contratti scritti: cfr. II 9,23 n.
regolare e pieno rendiconto: III 1,6 n.
Questo dislocamento di Salabaetto a Ferrara vuole confermare, probabilmente, il suo distacco dalla mercatura. Tuttavia
Ferrara era notevole centro commerciale dove operavano mercanti
fiorentini (cfr. II 2,4 n.).
126 forzare le porte, aprire a forza.
127 essendovi in ciascuna: Intr., 15 n.
124
125
Letteratura italiana Einaudi 1204
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
67
sopra vicino al cocchiume128. Poi, sciogliendo le balle,
tutte, fuor che due che panni erano, piene le trovò di
capecchio; e in brieve, tra ciò che v’era129, non valeva
oltre a dugento fiorini. Di che Iancofiore tenendosi
scornata, lungamente pianse i cinquecento renduti e
troppo più i mille prestati, spesse volte dicendo: «Chi
ha a far con tosco, non vuole esser losco130 «. E così, rimasasi col danno e colle beffe, trovò che tanto seppe
altri quanto altri131. –
128
Il foro donde si riempie la botte.
in tutto ciò che v’era, compreso e computato ciò che v’era.
130 Chi tratta con un toscano non deve, non può esser guercio,
cioè deve tener bene gli occhi aperti. Proverbio diffuso e ripetuto,
con visibile soddisfazione, dagli scrittori toscani: anche il Sacchetti
così conclude la sua CXLIV; il Poliziano riferisce il detto al n. 373
dei suoi motti (cfr. Tagebuch cit., p. 189); il Giusti lo registra nella
sua Raccolta di proverbi toscani (p. 219).
131 che tanto fu accorto l’uno quanto l’altro. «I due indefiniti
hanno entrambi il riferimento personale: l’uno a lancofiore, l’altro
a Salabaetto» (Marti).
129
Letteratura italiana Einaudi
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CONCLUSIONE
1
2
3
Come Dioneo ebbe la sua novella finita, così Lauretta, conoscendo il termine esser venuto oltre al quale
più regnar non dovea, commendato il consiglio di Pietro Canigiano che apparve dal suo effetto buono, e la
sagacità di Salabaetto che non fu minore a mandarlo ad
esecuzione, levatasi la laurea1 di capo, in testa ad Emilia
la pose, donnescamente2 dicendo: – Madonna, io non
so come3 piacevole reina noi avrem di voi, ma bella la
pure avrem noi4; fate adunque che alle vostre bellezze
l’opere sien rispondenti – ; e tornossi a sedere.
Emilia, non tanto dell’esser reina fatta, quanto
dell’udirsi così in pubblico commendare di ciò che5 le
donne sogliono essere più vaghe, un pochetto si vergognò6, e tal nel viso divenne qual in su l’aurora son le novelle rose. Ma pur, poi che avendo alquanto gli occhi
tenuti bassi ebbe il rossore dato luogo7, avendo col suo
siniscalco de’ fatti pertinenti alla brigata ordinato, così
cominciò a parlare: – Dilettose donne, assai manifestamente veggiamo che, poi che i buoi per alcuna parte del
giorno hanno faticato sotto il giogo ristretti, quegli esser
dal giogo alleviati e disciolti, e liberamente, dove lor più
piace, per li boschi lasciati sono andare alla pastura8; e
1
corona d’alloro: III concl., 1 n.
Frequente in simili momenti questo avverbio o l’aggettivo
corrispondente: I 10,2 n.; IV intr., 31 n. e 45; V 9,20 n.
3
quanto: cfr. V 3,23 n.
4
di certo noi l’avremo bella.
5
di quello di cui: II 7,26 n.
6
«Nota il fumo delle donne» (M.).
7
si fu dileguato, scomparve: VII concl., 16 n.
8
Cambiamento di costruzione frequente, come si è visto,
nelle oggettive (e s s e r e l a s c i a t i sono dipendenti da c h e ): cfr.
per es. Intr., 42 n.
2
Letteratura italiana Einaudi 1206
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
4
5
6
7
8
veggiamo ancora non esser men belli, ma molto più, i
giardini di varie piante fronzuti, che i boschi ne’quali
solamente querce veggiamo; per le quali cose io estimo,
avendo riguardo quanti giorni sotto certa9 legge ristretti
ragionato abbiamo, che, sì come a bisognosi, di vagare
alquanto, e vagando riprender forze a rientrar sotto il
giogo, non sola mente sia utile ma opportuno. E per ciò
quello che domane, seguendo10 il vostro dilettevole ragionare, sia da dire, non intendo di ristrigneni sotto alcuna spezialità11, ma voglio che ciascun secondo che gli
piace ragioni, fermamente tenendo12 che la varietà delle
cose che si diranno non meno graziosa ne fia che l’avrete pur d’una parlato; e così avendo fatto, chi appresso
di me nel reame verrà, sì come più forti13, con maggior
sicurtà ne potrà nelle usate leggi ristrignere. – E detto
questo, infino all’ora della cena libertà concedette a ciascuno.
Commendò ciascun la reina delle cose dette, sì
come savia; e in piè drizzatisi, chi ad un diletto e chi ad
un altro si diede: le donne a far ghirlande e a trastullarsi, i giovani a giucare e a cantare, e così infino all’ora
della cena passarono14; la quale venuta, intorno alla
bella fontana con festa e con piacer cenarono; e dopo la
cena al modo usato cantando e ballando un gran pezzo
si trastullarono. Alla fine la reina, per seguire de’ suoi
predecessori lo stilo, non obstanti quelle15 che volonta9
10
11
determinata, fissa.
proseguendo.
Cioè di costringervi a trattare alcun tema particolare, presta-
bilito,
12
13
tenendo per fermo, ritenendo sicuro.
Cioè: trovandoci più forti (dopo la libertà goduta un gior-
no).
14
15
passarono il tempo.
senza tener conto di quelle canzoni.
Letteratura italiana Einaudi
1207
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
riamente da più di loro erano state dette, comandò a
Panfilo che una ne dovesse cantare. Il quale così liberamente cominciò:
9
10
11
Tanto è, Amore, il bene
ch’io per te sento, e l’allegrezza e ’l gioco16,
ch’io son felice ardendo17 nel tuo foco.
L’abondante allegrezza ch’è nel core,
dell’18alta gioia e cara
nella qual m’hai recato,
non potendo capervi19 esce di fore,
e nella faccia chiara20
mostra ’l mio lieto stato;
ch’essendo innamorato
in così alto e raguardevol loco21
lieve mi fa lo star dov’io mi coco22.
Io non so col mio canto dimostrare,
né disegnar col dito23,
Amore, il ben ch’io sento;
e s’io sapessi, mel convien celare;
ché, s’el fosse sentito24,
16 gioia; II concl., 13; rime predilette dal B. sono, come già si
è detto, gioco, foco, loco, poco. Cfr. la popolarissima canzone Tanto
è il bene ch’io aspetto (Cantilene e Ballate, ed. Carducci cit.,
XVIII).
17 d’ardere o anche se ardo (gerundio per infinito con preposizione o concessivo). Cfr. Par., VII 17-18; Petrarca, CCCXXXVII
II «ardendo, assai felice fui», CCCLXIV 1-2.
18 a causa della. Per g i o i a c a r a cfr. Par., IX 37, XXIV 89.
19 essere contenuta, star dentro il cuore: I 10,12 n.
20 serena: V 6 2: «levato il chiaro viso».
21 di persona così nobile e importante: espressione tradizionale
nella lirica d’arte.
22 ardo: VII concl., 12 n.
23 designare, indicare col dito, additare (IV 5,13): è negazione
nella struttura e nel gusto degli impossibilia medievali.
24 saputo, conosciuto. Per el cfr. II 6,44 n.
Letteratura italiana Einaudi 1208
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
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13
torneria in tormento:
ma io son sì contento
ch’ogni parlar sarebbe corto e fioco25,
pria26 n’avessi mostrato pure un poco.
Chi potrebbe estimar che le mie braccia
aggiugnesser giammai
là dov’io l’ho tenute,
e ch’io dovessi giunger la mia faccia
là dov’io l’accostai
per grazia e per salute27?
Non mi sarien credute
le mie fortune28; ond’io tutto m’infoco,
quel nascondendo ond’io m’allegro e gioco29.
La canzone di Panfilo aveva fine, alla quale quantunque per tutti fosse compiutamente risposto30, niun
ve n’eb-be che, con più attenta sollecitudine che a lui
non apparteneva31, non notasse le parole di quella, in-
25 insufficiente e debole: cfr. II 6,6 n.: Par., XXXIII 121: «Oh
quanto è corto il dire e come fioco ...».
26 prima che.
27 per ottenere misericordia e salvezza. Espressione stilnovistica: e cfr. Purg., XXX 51.
28 Era usato correntemente anche il plurale: X 9,98 n.
29 mi rallegro e sono giocondo, gioioso (cfr. II concl., 13): uso
eccezionale del verbo «giocare», aria provenzale (joc è sinonimo di
joi, e così gioco di gioia: Cfr. V. 2). Ballata esultante, dell’amore
appagato; e tutta percorsa da motivi e soprattutto da linguaggio
della più alta tradizione lirica. Può ricordare del resto alcune Rime
del B. stesso (LIXI LXVI, LXX; e anche Amorosa Visione, XLII
62 sgg.). È una ballata costituita da una ripresa (yZZ) e tre stanze
(Abc, Abc; cZZ): le rime dei due versi finali della ripresa e delle
stanze sono identiche.
30 Cantando in coro la ripresa.
31 Cioè: di quanta fosse nei limiti della discrezione (a lui si riferisce a niun) (Marti).
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII
gegnandosi di quello volersi indovinare che32 egli di
convenirgli tener nascoso cantava. E quantunque vari
varie cose andassero imaginando, niun per ciò alla verità del fatto pervenne. Ma la reina, poi che vide la canzone di Panfilo finita, e le giovani donne e gli uomini
volentier riposarsi, comandò che ciascuno se n’andasse
a dormire.
32
d’indovinare quello che.
Letteratura italiana Einaudi 1210
GIORNATA NONA
1
Incomincia la nona giornata nella quale sotto il reggimento
d’Emilia, si ragiona ciascuno secondo che gli piace e di quello
che più gli aggrada
2
La luce, il cui splendore la notte fugge, aveva già
l’ottavo cielo1 d’azzurrino in color cilestro mutato tutto,
e cominciavansi i fioretti per li prati a levar suso2, quando Emilia, levatasi, fece le sue compagne e i giovani parimente chiamare. Li quali venuti, e appresso alli lenti
passi della reina avviatisi, infino ad un boschetto, non
guari al palagio lontano, se n’andarono; e per quello entrati, videro gli animali, sì come cavriuoli, cervi e altri3,
quasi sicuri da’ cacciatori per la sopra stante pistolenzia,
non altramente aspettargli che se senza te ma o dimestichi fossero divenuti. E ora a questo e ora a quell’altro
appressandosi, quasi giugnere gli dovessero, faccendogli
correre e saltare, per alcuno spazio sollazzo presero. Ma
già inalzando il sole, parve4 a tutti di ritornare.
Essi eran tutti di frondi5 di quercia inghirlandati, con
3
4
1
Il cielo stellato o delle stelle fisse (Par., XXII sgg.), secondo la
cosmologia tolemaica.
2
Inf., II 127 sgg.: «Quali fioretti dal notturno gelo | Chinati e
chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca, | Si drizzan tutti aperti in loro stelo»: versi già ripresi puntualmente dal B. nel Filostrato, II 80 e nel
Teseida, IX 28. E anche qui al centro della scena mattutina è
un’Emilia, come nel Teseida, III 5 sgg.
3
Descrizione boschereccia e venatoria prelusa nella Caccia, II 1
sgg.
4
parve bene, parve opportuno: VIII 3,28 n.
5
Desinenza comune e forse più popolaresca, come «porti»: II
2,16 n.
Letteratura italiana Einaudi
1211
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
5
6
7
le mani piene o d’erbe odorifere o di fiori; e chi scontrati gli avesse, niun’altra cosa avrebbe potuto dire se non:
«O costor non saranno dalla morte vinti, o ella gli ucciderà lieti». Così adunque, piede innanzi piè6 venendosene, cantando e cianciando e motteggiando7, pervennero
al palagio, do ve ogni cosa ordinatamente disposta e li
lor famigliari lieti e festeggianti trovarono. Quivi riposatisi alquanto, non prima a tavola andarono che sei canzonette, più lieta l’una che l’altra, da’ giovani e dalle
donne cantate furono; appresso alle quali, data l’acqua
alle mani, tutti secondo il piacer della reina gli mise il siniscalco a tavola, dove le vivande venute, allegri tutti
mangiarono; e da quello levati8, al carolare9 e al sonare si
dierono per alquanto spazio, e poi, co mandandolo la
reina, chi volle s’andò a riposare. Ma già l’ora usitata 10
venuta, ciascuno nel luogo usato s’adunò a ragionare;
dove la reina, a Filomena guardando, disse che principio
desse alle novelle del presente giorno, la qual sorridendo
cominciò in questa guisa.
6
lentamente, passo passo: V 8,13 n.
chiacchierando e dicendo motti di spirito, celiando: I 5,17 n. e II
9,5 n.
8
da quell’occupazione (neutro) o dal mangiare (sottinteso e compreso nel precedente m a n g i a r o n o: sillessi).
9
danzare in tondo, in cerchio: Intr., 106 n.
10
usata, consueta.
7
Letteratura italiana Einaudi 1212
NOVELLA PRIMA
1
Madonna Francesca, amata da un Rinuccio e da uno Alessandro, e niuno amandone, col fare entrare l’un per morto in una
sepoltura, e l’altro quello trarne per morto, non potendo essi
venire al fine imposto, cautamente se gli leva da dosso1.
2
– Madonna, assai m’aggrada, poi che vi piace, che2
per questo campo aperto e libero, nel quale la vostra
magnificenzia3 n’ha messi, del novellare, d’esser colei
che corra il primo aringo4, il quale se ben farò, non dubito che quegli che appresso verranno non facciano bene e meglio. Molte volte s’è, o vezzose donne, ne’ nostri
3
1
Gli stratagemmi di donne che per allontanare le insistenze di
amanti importuni impongono loro imprese difficili o addirittura
impossibili, costituiscono temi cari alla narrativa popolare di tutti i
tempi (Thompson, K 1218.4, 1517.1.1) e a quella letteraria del Medioevo. Il B. stesso racconta un altro caso analogo nella X 5; Bonaccorso Pitti delinea un episodio autobiografico simile nella sua
Cronica (Bologna 1905, p. 42). Non v’è bisogno quindi di ricorrere, come ha fatto il Landau (p. 333), a una storiella di Harut e Marut narrata dai commentatori del Corano (riferita anche nell’ebraico Midrasch Abchir) per indicare antecedenti vaghi e generici di
questa novella. Nulla di preciso e significativo è stato finora citato.
Piuttosto si possono richiamare i temi antropologici e novellistici
delle prove impossibili: Thompson e Rotunda, H 900; e quelli delle astuzie femminili contro gli amanti importuni: Thompson e Rotunda, K 1218 sgg. e 1218.4.
2
Pleonastico, poiché si muta costruzione e segue poi l’infinito
d’e s s e r .
3
Titolo conveniente alla dignità della «regina» e che accenna alla sua liberalità per aver concesso a ognuno di narrare su di un argomento a piacere; o si può anche intendere m a g n i f i c e n z i a
come liberalità.
4
giostra: facile linguaggio metaforico già usato alla II 8,3 n.
Letteratura italiana Einaudi
1213
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
4
5
6
ragionamenti mostrato quante e quali sieno le forze
d’amore; né però credo che pienamente se ne sia detto,
né sarebbe ancora, se di qui ad uno anno d’altro che di
ciò non parlassimo; e per ciò che esso non solamente a
vari dubbi5 di dover morire gli amanti conduce, ma quegli ancora ad entrare nelle case de’ morti per morti tira,
m’aggrada di ciò raccontarvi6, oltre a quelle che dette
sono, una novella, nella quale non solamente la potenzia
d’amore comprenderete, ma il senno da una valorosa
donna usato a torsi da dosso due che contro al suo piacere l’amavan, cognoscerete.
Dico adunque che nella città di Pistoia fu già una
bellissima donna vedova, la quale due nostri fiorentini,
che per aver bando7 di Firenze a Pistoia dimoravano 8,
chiamati l’uno Rinuccio Palermini9 e l’altro Alessandro
Chiarmontesi10, senza sapere l’un dell’altro, per caso di
costei presi11, sommamente amavano, operando cautamente ciascuno ciò che per lui si poteva, a dover l’amor
di costei acquistare. Ed essendo questa gentil donna, il
cui nome fu madonna Francesca de’ Lazzari12, assai so-
5
rischi, pericoli: I 3,3 n.
mi piace raccontarvi attorno a questo.
per essere stati banditi, esiliati: infinito presente con valore di
passato: cfr. II 10,24 n.
8
vivevano, conducevano la vita: anche con uso assoluto (Guittone, Rime, XVIII 33; Vita Nuova, VII 48): ma probabilmente qui si
sottintende l à , a P i s t o i a , con facile costruzione a senso.
9
Nota famiglia ghibellina del sesto di San Pancrazio, esiliata
con le altre della sua parte (G. Villani, IV 10, V 39): un Palermini
già era stato fatto dal B. protagonista di una novella (III 7,4 n.).
10
Altra famiglia fiorentina ghibellina e poi guelfa, abitante presso Orsanmichele, esiliata come i Palermini (G. Villani, IV II, V
39).
11
invaghiti: VIII 10,11 n.
12
Nota e potente famiglia pistoiese, fin dai primi del ’200 della
«pars militum» e guelfa; il Vanni Fucci dantesco (Inf., XXIV 122
6
7
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7
8
9
vente stimolata13 da ambasciate e da prieghi di ciascun
di costoro, e avendo ella ad esse men saviamente più
volte gli orecchi porti, e volendosi saviamente14 ritrarre e
non potendo, le venne, acciò che la lor seccaggine si levasse da dosso, un pensiero15; e quel fu di volergli richiedere d’un servigio il quale ella pensò niuno dovergliele
fare, quantunque egli fosse possibile, acciò che, non faccendolo essi, ella avesse onesta o colorata ragione16 di
più non volere le loro ambasciate udire; e ’l pensiero fu
questo.
Era, il giorno che questo pensier le venne, morto in
Pistoia uno, il quale, quantunque stati fossero i suoi passati17 gentili uomini, era reputato il piggiore uomo che,
non che in Pistoia, ma in tutto il mondo fosse18; e oltre a
sgg.) e il celebre giurista Filippo de’ Lazzari furono ambedue di
questa schiatta (cfr. per es. Storie Pistoresi cit., passim agli indici; e
anche G. GANUCCI CANCELLIERI, Pistoia nel XIII secolo, Firenze 1975, pp. 259 sgg.): ma di questa Francesca nessuna notizia.
E cfr. per questi possibili riferimenti Storici B. BRUNI, Rileggendo
il B. Le novelle pistoiesi del D., in «Pistoia», XI, 1965.
13
sollecitata insistentemente: con quella sfumatura di senso accennante a insistenze amorose, che già abbiamo visto altrove: II
8,41 n.; III 3,23 n.
14
poco saviamente, o addirittura imprudentemente (dando a meno il valore negativo di cui alla II 8,49 n.). «Minus pro non» (M.).
Cfr. X 5,14 n.
15
«La proposizione finale a c c i ò che è inserita in mezzo alla
principale l e v e n n e, quasi a mostrarci il lento formarsi di quel
disegno e il forte intendimento, ch’ella aveva, di trovar via a levarseli d’attorno» (Fornaciari).
16
motivo ragionevole, conveniente (Intr., 7 n.) o verisimile, apparentemente giusto: I 3,7 n.: «fargli una forza da alcuna ragion colorata».
17
trapassati, antenati: X 10,43 n.
18
Riecheggia in qualche modo la frase finale del ritratto di Ser
Ciappelletto: «egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse» (I
1,15).
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12
questo vivendo19 era sì contraffatto e di sì divisato20 viso,
che chi conosciuto non l’avesse, vedendol da prima,
n’avrebbe avuto paura; ed era stato sotterrato in uno
avello21 fuori della chiesa dei frati minori22; il quale ella
avvisò dovere in parte essere grande acconcio del suo
proponimento23.
Per la qual cosa ella disse a una sua fante: «Tu sai la
noia e l’angoscia la quale io tutto il dì ricevo dall’ambasciate di questi due fiorentini, da Rinuccio e da Alessandro; ora io non son disposta a dover loro del mio amore
compiacere; e per torglimi da dosso, m’ho posto in cuore, per le grandi profferte che fanno, di volergli in cosa
provare24, la quale io son certa che non faranno, e così
questa seccaggine torrò via: e odi come. Tu sai che stamane fu sotterrato al lugo25 de’frati minori lo Scannadio26» così era chiamato quel reo uomo di cui dl sopra
dicemmo27 del quale, non che morto, ma vivo, i più sicuri28 uomini di questa terra, vedendolo, avevan paura; e
però tu te n’andrai segretamente prima ad Alessandro, e
sì gli dirai: ‘Madonna Francesca ti manda dicendo29 che
19
mentre era in vita.
sfigurato, deforme: VIII 5,23 n.; Guido Cavalcanti, LI 2: «E
pon ben mente com’è divisata». C o n t r a f a t t o si riferisce in genere al corpo (IX 7,13); d i v i s a t o al viso.
21
arca: cfr. VIII 9,81 n.
22
Cioè la chiesa di San Francesco, una delle più famose di Pistoia, la cui costruzione cominciò nel 1295.
23
vantaggio, aiuto per effettuare il suo proposito: VIII 10,49 n.
24
mettere alla prova.
25
convento: I 1,75 n. E per la forma (ripetuta anche al 25) con
riduzione del dittongo cfr. III 1,11 n.
26
Nome facilmente allusivo, usato anche dal Firenzuola nel suo
Asino d’oro (VIII, passim).
27
«Nota hic esse parentesim» (M.).
28
coraggiosi: VIII 7,54 n.
29
ti manda a dire: IV 2,23 n.
20
Letteratura italiana Einaudi 1216
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
ora è venuto il tempo che tu puoi avere il suo amore, il
qual tu hai cotanto disiderato, ed esser con lei, dove tu
vogli, in questa forma. A lei dee, per alcuna cagione che
tu poi saprai, questa notte essere da un suo parente recato a casa il corpo di Scannadio che stamane fu sepellito, ed ella, sì come quel la che ha di lui, così morto come
14 egli è, paura, nol vi vorrebbe. Per che ella ti priega in
luogo di gran servigio30, che ti debbia piacere d’andare
stasera in su il primo sonno31 ed entrare in quella sepoltura dove Scannadio è sepellito, e metterti i suoi panni
in dosso, e stare come se tu desso fossi, infino a tanto
che per te sia venuto32, e senza alcuna cosa dire o motto
fare33, di quella trarre ti lasci e recare a casa sua, dove ella ti riceverà, e con lei poi ti starai, e a tua posta ti potrai
partire, lasciando del rimanente il pensiero a lei’. E, se
15 egli dice di volerlo fare, bene sta; dove dicesse di non
volerlo fare sì gli di’ a mia parte che più dove io sia non
16 apparisca, e come egli ha cara la vita, si guardi che più
né messo né ambasciata mi mandi. E appresso questo te
n’andrai a Rinuccio Palermini, e sì gli dirai: «Madonna
Francesca dice che è presta di volere ogni tuo piacer fare, dove tu a lei facci un gran servigio, cioè che tu stanotte in su la mezza notte te ne vadi allo avello dove fu
stamane sotterrato Scannadio, e lui, senza dire alcuna
parola di cosa che tu oda o senta34, tragghi di quello soa13
30
quale gran servizio, per gran servizio: II 1,5; V 7,52.
all’ora in cui la gente comincia a dormire (con valore generico):
V 3,43 n.; e qui più sotto, 19.
32
che alcuno venga a cercarti, a prenderti: costruzione alla latina
(s i a v e n u t o impersonale = ventum sit).
33
Cioè fare un rumore qualsiasi colla bocca: cfr. IV 5,6 n.
34
«O d a si riferisce a parole che gli potessero esser dette,
s e n t a si riferisce ad altre paure o noie che gli venisser fatte»
(Fornaciari).
31
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vemente35 e rechigliele a casa. Quivi perché ella il voglia36 vedrai, e di lei avrai il piacer tuo; e dove questo
non ti piaccia di fare ella infino ad ora37 t’impone che tu
mai più non le mandi né messo né ambasciata».
La fante n’andò ad amenduni, e ordinatamente a ciascuno, secondo che imposto le fu, disse. Alla quale risposto fu da ognuno, che non che in una sepoltura, ma
in inferno andrebber, quando le piacesse. La fante fe’ a
risposta alla donna, la quale aspettò di vedere se sì fosser
pazzi che essi il facessero.
Venuta adunque la notte, essendo già primo sonno38,
Alessandro Chiarmontesi spogliatosi in farsetto39, uscì di
casa sua per andare a stare in luogo di Scannadio nello
avello, e andando gli venne un pensier molto pauroso
nell’animo, e cominciò a dir seco: «Deh, che bestia sono
io? Dove vo io? che so io se i parenti di costei, forse avvedutisi che io l’amo, credendo essi quel che non è, le
fanno far questo per uccidermi in quello avello? Il che
se avvenisse, io m’avrei il danno, né mai cosa del mondo
se ne saprebbe che lor nocesse. che so io se forse alcun
mio nimico que sto m’ha procacciato, il quale ella forse
amando, di questo il vuol servire40?» E poi dicea: «Ma
35
pian piano, delicatamente: VI 2,28 n. Per la desinenza -i nella
II sing. del congiuntivo presente della II e III coniugazione cfr. Intr., 81 n.
36
lo voglia: la forma e l, per il pronome, è corrente.
37
sin da ora: cfr. III 5,22 n.
38
l’ora del primo sonno: cfr. 14 n.
39
Cioè tenendo solo il farsetto (II 4,15 n.) per esser più sciolto e
più comodo (II 5,37 n.).
40
di questo (cioè d’uccidermi) vuole compiacerlo, rendergli servizio: X 9,4 n.
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pognam che niuna di queste cose sia, e che pure i suoi
parenti a casa di lei portar mi debbano io debbo credere
che essi il corpo di Scannadio non vogliono per doverlosi tenere in braccio, o metterlo in braccio a lei; anzi si
dee credere che essi ne voglian far qualche strazio, sì come di colui che forse già d’alcuna cosa gli diservì41. Costei dice che di cosa che io senta io non faccia motto: o
se essi mi cacciasser gli occhi o mi traessero i denti o
mozzasermi le mani o facessermi alcuno altro così fatto
giuoco42, a che sare’ io? Come potre’ io star cheto? E se
io favello, e’ mi conosceranno e per avventura mi faranno male; ma come che essi non me ne facciano, io non
avrò fatto nulla, ché essi non mi lasceranno con la donna; e la donna dirà poi che io abbia rotto il suo comandamento e non farà mai cosa che mi piaccia43».
E così dicendo, fu tutto che tornato a casa44; ma pure
il grande amore il sospinse innanzi con argomenti contrari a questi e di tanta forza, che allo avello il condussero. Il quale egli aperse, ed entratovi dentro e spogliato
Scannadio e sé rivestito e l’avello sopra sé richiuso e nel
luogo di Scannadio postosi, gl’incominciò a tornare a
mente chi costui era stato, e le cose che già aveva udite45
41
li servì male, li offese, fece loro cosa sgradita: Fiammetta, VI
3,5: «credendomi servire diservita m’avete»; Tristano Riccardiano
cit., p. 70: «di che Tristano t’ae diservito?»; Morelli, Ricordi, p.
254.
42
Cioè un «mal giuoco», come dice altrove il B.: VII 8,26 n. e
VIII 8,25.
43
Finale sconsolato su due endecasillabi di seguito.
44
fu quasi per tornare a casa, fu sul punto di tornare a casa: come
più sotto, 27: «tutto che rattenuto fu»; e cfr. Sacchetti, CLXXVIII:
«percosse in una pietra per forma che tutto fu che caduto in terra».
45
Proposizione con attrazione e anticipazione: cfr. Mussafia, p.
451.
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dire che di notte erano intervenute, non che nelle sepolture de’ morti, ma ancora altrove; e tutti i peli gli s’incominciarono ad arricciare ad dosso46, e parevagli tratto
tratto47 che Scannadio si dovesse levar ritto e quivi scannar lui. Ma da fervente amore aiutato, questi e gli altri
paurosi pensier vincendo, stando come se egli il morto
fosse, cominciò ad aspettare che di lui dovesse intervenire48.
Rinuccio, appressandosi la mezza notte, uscì di casa
sua per far quello che dalla sua donna gli era stato mandato a dire; e andando, in molti e vari pensieri entrò delle cose possibili ad intervenirgli; sì come di poter col
corpo sopra le spalle di Scannadio venire alle mani della
signoria ed esser come malioso49 condennato al fuoco; o
di dovere, se egli si risapesse, venire in odio de’ suoi parenti; e d’altri simili50, da’ quali tutto che rattenuto fu51.
Ma poi, rivolto52, disse: «Deh! dirò io di no della prima
cosa che questa gentil donna, la quale io ho cotanto
amata e amo, m’ha richiesto, e spezialmente dovendone
la sua grazia acquistare? Non, ne dovess’io di certo morire, che io non me ne metta a fare ciò che promesso
l’ho53»; e andato avanti giunse alla sepoltura e quella leggermente54 aperse.
46
Come a maestro Simone (VIII 9,94).
di momento in momento, di quando in quando.
48
che cosa dovesse avvenirgli.
49
stregone, operatore di malie: Corbaccio, 236: «gli astrologhi, le
nigromanti, le femmine maliose».
50
e d’altri simili casi con facile sillesi e dipendendo sempre dal
precedente p e n s i e r i o s ì c o m e.
51
fu quasi trattenuto: cfr. 24. Ripetendosi la situazione sono ripetuti i modi lessicali e sintattici.
52
mutato pensiero o proposito: cfr. IV 2,40 n.
53
Non sia mai, anche se ne dovessi morire, che io non mi metta a
fare ciò che le ho promesso.
54
facilmente.
47
Letteratura italiana Einaudi 1220
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
Alessandro, sentendola aprire, ancora che gran paura avesse, stette pur cheto. Rinuccio, entrato dentro, credendosi il corpo di Scannadio prendere, prese Alessandro pe’ piedi e lui fuor ne tirò, e in su le spalle
levatoselo, verso la casa della gentil donna cominciò ad
andare; e così andando e non riguardandolo altramenti55, spesse volte il percoteva ora in un canto e ora in un
altro d’alcune panche che allato alla via erano; e la notte
era sì buia e sì oscura che egli non poteva discernere ove
30 s’andava. E essendo già Rinuccio a piè dell’uscio della
gentil donna, la quale alle finestre con la sua fante stava
per sentire se Rinuccio Alessandro recasse, già da sé armata in modo da56 mandargli amenduni via, avvenne che
la famiglia della signoria57, in quella contrada ripostasi58
e chetamente standosi aspettando di dover pigliare uno
sbandito59, sentendo lo scalpiccio che Rinuccio coi piè
faceva, subitamente tratto fuori un lume per veder che si
fare e dove andarsi, e mossi i pavesi60 e le lance, gridò:
31 «Chi è là?». La quale Rinuccio conoscendo, non avendo
tempo da troppa lunga diliberazione, lasciatosi cadere
Alessandro, quanto le gambe nel poteron portare andò
via. Alessandro, levatosi prestamente, con tutto che i
panni del morto avesse in dosso, li quali erano molto
lunghi, pure andò via altressì.
55
non usandogli riguardo alcuno: I 1,15 n.
già per proprio conto pronta, preparata a: Par., XXIV 46: «Sì
come il baccialier s’arma e non parla».
57
la polizia, le guardie: IV 6,31 e 32 n.
58
postasi in agguato: V 5,15 n.
59
un bandito, cacciato dalla città.
60
imbracciati gli scudi (erano di forma rettangolare). G. Villani,
XII 21; Sacchetti, LXIII.
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La donna, per lo lume tratto fuori dalla famiglia, ottimamente veduto aveva Rinuccio con Alessandro dietro
alle spalle, e similmente aveva scorto61 Alessandro esser
vestito dei panni di Scannadio, e maravigliossi molto del
grande ardire di ciascuno; ma con tutta la maraviglia62 rise assai del veder gittar giuso Alessandro, e del vedergli
poscia fuggire. Ed essendo di tale accidente molto lieta e
lodando Iddio che dallo ‘mpaccio di costoro tolta l’avea,
se ne tornò dentro e andossene in camera, affermando
con la fante senza alcun dubbio ciascun di costoro
amarla molto, poscia quello avevan fatto, sì come appariva, che63 ella loro aveva imposto.
Rinuccio, dolente e bestemmiando la sua sventura,
non se ne tornò a casa per tutto questo, ma, partita di
quella contrada la famiglia, colà tornò dove Alessandro
aveva gittato, e cominciò brancolone64 a cercare se egli il
ritrovasse, per fornire65 il suo servigio, ma non trovandolo, e avvisando la famiglia quindi averlo tolto, dolente a
casa se ne tornò. Alessandro, non sappiendo altro che
farsi66, senza aver conosciuto chi portato se l’avesse, dolente di tale sciagura, similmente a casa sua se n’andò.
La mattina, trovata aperta la sepoltura di Scannadio
né dentro vedendovisi67, perciò che nel fondo l’aveva
Alessandro voltato68, tutta Pistoia ne fu in vari ragiona-
61
«V e d u t o ... s c o r t o: gradazione di verbi che ha la sua ragione nella varia difficoltà delle due percezioni: l’una di cose più
palesi, l’altra di più oscure» (Fornaciari).
62
malgrado la grande meraviglia, benché molto meravigliata: cfr.
Intr., 22 n.
63
poscia, poi ... che avevan fatto quello ... che.
64
brancolando. Avverbio rifatto su «carpone, ginocchione, tastone» e altri simili in -one.
65
portare a compimento.
66
Per questa serie verbale fissa cfr. II 2,15 n.
67
Cioè: non vedendovi dentro lo Scannadio.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
36
menti, estimando gli sciocchi lui da’ diavoli essere stato
portato via. Nondimeno ciascun de’ due amanti, significato alla donna ciò che fatto avea e quello che era intervenuto, e con questo scusandosi se fornito non avean
pienamente il suo comandamento, la sua grazia e il suo
amore addimandava. La qual mostrando a niun ciò voler credere, con recisa risposta69 di mai per lor niente voler fare, poi che essi ciò che essa ad dimandato avea non
avean fatto, se gli tolse da dosso. -
68
69
spinto, facendolo girare, rotolare: Inf., VII 27; Purg., V 128.
con secca risposta, da tagliare ogni possibilità di replica.
Letteratura italiana Einaudi
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NOVELLA SECONDA
1
Levasi una badessa in fretta e al buio per trovare una sua monaca, a lei accusata, col suo amante nel letto; e essendo con lei
un prete, credendosi il saltero de’ veli1 aver posto in capo, le
brache del prete vi si pose; le quali vedendo l’accusata e fattalane accorgere, fu diliberata2, e ebbe agio di starsi col suo amante3.
2
Già si tacea Filomena, e il senno della donna a torsi
da dosso coloro li quali amar non volea da tutti era stato
commendato, e così in contrario non amor ma pazzia
era stata tenuta da tutti l’ardita presunzione degli amanti, quando la reina ad Elissa vezzosamente disse: - Elissa,
segui; la quale prestamente incominciò:
1
Termine tecnico (cfr. 9): indicava il complesso dei veli che, disposti sul capo, avevano la forma triangolare dello strumento musicale chiamato salterio. La Fontaine lo usò come titolo della sua
imitazione (Contes et Nouvelles, IV 7 «Le Psautier»).
2
liberata dall’accusa e dalla pena conseguente: cfr. 3; IX 3,26 n.
E per i passati remoti che sostituiscono nella seconda parte del
sommario i soliti presenti cfr. III 9,1 n.
3
Antecedenti interessanti di questa novella – riassunta dal Pulci
nel Morgante (XVI 59) – sono stati indicati nella letteratura di devozione dei secoli precedenti: per es. nella Legenda Aurea (146) e
più tardi nella Vita di San Girolamo del Cavalca. Poco prima che il
B. scrivesse il D., storie simili erano state narrate in Francia nel Dit
de la nonnete e nel Des braies au cordelier (Recueil général cit., VI,
app. III, III 88; BÉDIER, p. 466) e nel Renard le Contrefait (III b.;
Histoire Littéraire de la France cit., XXIII, p. 83; e cfr. Recueil de
farces, moralités ecc., Paris 1837, II, c. 14). Il tema dovette presto
divenir popolare se, come nota il Manni, è antico modo di dire
«Madonna annodatevi la cuffia»: ma va ricordata soprattutto la
popolarità del motivo delle «brache del prete» nella letteratura
medievale (CURTIUS, op. cit., pp. 152, 534 sgg.). E cfr. Thompson
e Rotunda, K 1273, 1526.
Letteratura italiana Einaudi 1224
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
3
4
5
– Carissime donne, saviamente si seppe madonna
Francesca, come detto è, liberar dalla noia sua; ma una
giovane monaca, aiutandola la fortuna, sé da un soprastante pericolo, leggiadramente parlando, diliberò. E,
come voi sapete, assai sono li quali, essendo stoltissimi,
maestri degli altri si fanno e gastigatori4, li quali, sì come
voi potrete com prendere per la mia novella, la fortuna
alcuna volta e meritamente vitupera5; e ciò addivenne alla badessa, sotto la cui obedienza6 era la monaca della
quale debbo dire.
Sapere adunque dovete in Lombardia essere un famosissimo monistero di santità e di religione7, nel quale,
tra l’altre donne monache8 che v’erano, v’era una giovane di sangue nobile e di maravigliosa bellezza dotata, la
quale, Isabetta chiamata, essendo un dì a un suo parente
alla grata venuta, d’un bel giovane che con lui era s’innamorò. Ed esso, lei veggendo bellissima, già il suo disidero avendo con gli occhi concetto9, similmente di lei s’accese; e non senza gran pena di ciascuno questo amore
un gran tempo senza frutto10 sostennero.
4
si mettono a far da maestri e riprensori degli altri: II 4,11 n.; I
1,45 n.
5
infama, svergogna: VIII 9,112 n. È il tema svolto anche da varie altre novelle del D., : per es. I 4 e 6, V 10, VI 3, VIII 4 ecc.
6
Termine proprio del linguaggio canonico a indicare l’autorità
del superiore ecclesiastico: Intr., 62 «rotte della obedienza le leggi».
7
Formula usata in questi casi con minime varianti (I 4,4; III 1,6
ecc.).
8
Il solito sostantivo di stato o di condizione con d o n n a: cfr.
IV intr., 12 n.
9
compreso: participio alla latina già usato in senso un po’ diverso ma con analoga sfumatura amorosa nel Proemio, 3 n.; e anche I
5,16.
10
Nel senso tecnico del linguaggio lirico e amoroso del tempo:
cfr. V. BRANCA, B. medievale, pp. 224 sgg.; e VII 7,25 n.
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6
7
8
Ultimamente, essendone ciascun sollicito, venne al
giovane veduta una via da potere alla sua monaca occultissimamente andare; di che ella contentandosi11, non
una volta ma molte, con gran piacer di ciascuno, la visitò12. Ma continuandosi questo, avvenne una notte che
egli da una delle donne13 di là entro fu veduto, senza avvedersene egli o ella, dall’Isabetta partirsi e andarsene. Il
che costei con alquante altre comunicò14. E prima ebber
consiglio d’accusarla alla badessa, la quale madonna
Usimbalda15 ebbe nome, buona e santa donna secondo
la oppinione delle donne monache e di chiunque la conoscea; poi pensarono, acciò che la negazione non avesse luogo16, di volerla far cogliere col giovane alla badessa; e così taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie
segretamente partirono17 per incoglier18 costei.
Or, non guardandosi l’Isabetta da questo, né alcuna
cosa sappiendone, avvenne che ella una notte vel19 fece
venire; il che tantosto20 sepper quelle che a ciò badava-
11
essendo contenta, felice.
Soggetto è il giovane.
13
Cioè: monache, cfr. VIII 3,27 n.
14
mise in comune (VIII 8,34 n.), cioè manifestò ad alquante altre.
15
«Nome di buona panichina» (M.): forse forgiato su u s u l i e r i
(14)? Ma c’era una famiglia Usimbardi (DAVIDSOHN, Storia di Firenze, II, p. 341).
16
non fosse possibile negare: I 5,16: «forza non v’avea luogo»: e
cfr. qui più avanti, 16.
17
divisero. Comincia quel linguaggio soldatesco col quale in tutta questa pagina il B. caricatureggia l’affaccendarsi di quelle zelanti.
18
cogliere di sorpresa, sorprendere sul fatto: Livio volg., 8,18 (C.):
«tantosto le potrebbono incogliere». «Ahi invidiose malvage»
(M.).
19
L’amante, facilmente sottinteso dopo tutto il periodo precedente.
20
subito, in tutta fretta: II 3,32 n.
12
Letteratura italiana Einaudi 1226
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
no. Le quali, quando a loro parve tempo, essendo già
buona pezza di notte21, in due si divisero, e una parte se
ne mise a guardia del l’uscio della cella dell’Isabetta, e
un’altra n’andò correndo alla camera della badessa; e
picchiando l’uscio, a lei che già rispondeva, dissero:
«Su, madonna, levatevi tosto, ché noi abbiam trovato
che l’Isabetta ha un giovane nella cella22»
Era quella notte la badessa accompagnata d’un pre9
te, il quale ella spesse volte in una cassa si faceva venire23. La quale, udendo questo, temendo non forse le monache per troppa fretta o troppo volonterose, tanto
l’uscio sospignessero che egli s’aprisse, spacciatamente24
si levò suso, e come il meglio seppe si vestì al buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in capo portano e
10 chiamanli il saltero, le venner tolte25 le brache del prete;
e tanta fu la fretta, che, senza avvedersene, in luogo del
saltero le si gittò in capo e uscì fuori, e prestamente
l’uscio si riserrò dietro, dicendo: «Dove è questa mala11 detta da Dio?» E con l’altre, che sì focose e sì attente
erano a dover far trovare in fallo l’Isabetta, che di cosa
che la badessa in capo avesse non s’avvedieno, giunse
all’uscio della cella, e quello, dall’altre aiutata, pinse in
terra: e entrate dentro, nel letto trovarono i due amanti
abbracciati. Li quali, da così subito sopraprendimento26
storditi, non sappiendo che farsi, stettero fermi. La gio-
21
essendo notte avanzata, essendo trascorso già un buon tratto
della notte: II 3,24 n.
22
«Scacco all’Isabetta» (M.).
23
Artificio classico e accennato anche in altre novelle del B. (per
es. II 9,25 sgg.).
24
in fretta e furia: Buti, comm. a Purg., XV 2: «fanno la cosa
spacciatamente»: cfr. II 5,65 n.
25
le capitò di prendere.
26
sorpresa: II 2,16 n.
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vane fu incontanente dall’altre monache presa, e per comandamento della badessa menata in capitolo. Il giovane s’era rimaso; e vestitosi, aspettava di veder che fine la
cosa avesse, con intenzione di fare un mal giuoco 27 a
quante giugner ne potesse, se alla sua giovane novità
niuna28 fosse fatta, e di lei menarne con seco.
La badessa, postasi a sedere in capitolo, in presenzia
di tutte le monache, le quali solamente alla colpevole riguardavano, incominciò a dirle la maggior villania che
mai a femina fosse detta29, sì come a colei la quale la santità, l’onestà e la buona fama del monistero con le sue
sconce e vituperevoli opere, se di fuor si sapesse, contaminate avea; e dietro alla villania aggiugneva gravissime
minacce.
La giovane, vergognosa e timida, sì come colpevole,
non sapeva che si rispondere, ma tacendo, di sé metteva
compassion nell’altre; e, multiplicando30 pur la badessa
in novelle31, venne alla giovane alzato il viso e veduto ciò
che la badessa aveva in capo, e gli usulieri32 che di qua e
di là pendevano.
Di che ella, avvisando33 ciò che era, tutta rassicurata
disse: «Madonna, se Iddio v’aiuti, annodatevi la cuffia, e
poscia mi dite ciò che voi volete».
La badessa, che non la intendeva, disse: «Che cuffia,
rea femina? ora hai tu viso34 di motteggiare? parti egli
aver fatta cosa che i motti ci abbian luogo35?»
27
Solita espressione minacciosa: VII 5,37 n.
Cioè: alcun male.
Anche questa è frase solita in situazioni simili: VII 7,43; VII
8,19 n.
30
diffondendosi o forse tempestando, imperversando (II 1,19 n.).
31
chiacchiere, ciance.
32
legacci coi quali si fermavano le brache alle calzature (uose).
33
pensando, avvedendosi, immaginando: VI concl., 47 n.
34
hai tu coraggio, si direbbe oggi, hai tu tanta faccia (Fanfani).
35
Cioè: che sia il caso di far dello spirito.
28
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Allora la giovane un’altra volta disse: «Madonna, io
vi priego che voi v’annodiate la cuffia, poi dite a me ciò
che vi piace»; laonde molte delle monache levarono il viso al capo della badessa, ed ella similmente ponendovisi
le mani, s’accorsero perché l’Isabetta così diceva.
18
Di che36 la badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo e vedendo che da tutte veduto era né aveva ricoperta37, mutò sermone, e in tutta altra guisa che fatto non
avea cominciò a parlare, e conchiudendo venne impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere; e
per ciò chetamente, come infino a quel dì fatto s’era,
disse che ciascuna si desse buon tempo quando potesse;
e liberata la giovane, col suo prete si tornò a dormire, e
19 l’Isabetta col suo amante38. Il qual poi molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fé venire;
l’altre che senza amante erano, come seppero il meglio,
segretamente procacciaron lor ventura39. 17
36
Per la qual cosa.
né v’era maniera di coprire, di nascondere la cosa: I 5,17: «il
presto partirsi ricoprisse la sua disonesta venuta»; IX 7,27 n.; Sacchetti, CCVII: «per ricoprire il difetto».
38
«Lima, lima, invidiose» (M.).
39
Solita espressione: II 9,6 n.; VIII 2,16 n.
37
Letteratura italiana Einaudi
1229
NOVELLA TERZA
1
Maestro Simone, a instanzia di Bruno e di Buffalmacco e di
Nello, fa credere a Calandrino che egli è pregno; il quale per
medicine dà a’ predetti capponi e denari, e guarisce senza partorire1.
2
Poi che Elissa ebbe la sua novella finita, essendo da
tutte rendute grazie a Dio che la giovane monaca aveva
con lieta uscita2 tratta dei morsi delle invidiose compa-
1
La burla - narrata naturalmente come storica dal Baldinucci
(Notizie cit., I, p. 154) e dal Manni - ha tutto il carattere municipale delle altre beffe ordite dagli stessi protagonisti (VIII 3, 6, 9; IX
5: e cfr. le note alle novelle citate per notizie su ciascuno di essi).
Ma il tema della gravidanza d’un uomo è antichissimo, risalendo
alle credenze più radicate fin dalle civiltà primitive (cfr. per es. TYLER, Primitive culture, London 1891, passim; ROHDE, Der griechische Roman cit., pp. 264 sgg.); che si riflettono poi in diffusissimi motivi popolari (Aarne, 1737; Thompson, J 2317, 2321, 2321.1,
T 578 sgg.; Rotunda, J 2321). Da queste fonti mitiche e culturali
discendono probabilmente nella letteratura classica e romanza racconti o scene che, in tono assolutamente diverso, anticipano in
qualche modo elementi di questa novella: per es. in Strabone (III
4) e in qualche autore greco (ROHDE, pp. 265 sgg.); in Aucassin et
Nicolette (ed. Roques, Paris 1936, XXIX), in un favolello attribuito
a Maria di Francia Du vilain et de l’escarbot (e cfr. anche Du mire
qui seina uns home: Poésies, ed. Roquefort, Paris 1820, II, pp. 203
e 195), in un racconto di Rabbi Beranchja (Landau, p. 153), nella
Legenda aurea (89, a proposito di Nerone), nel Libro di novelle antiche (ed. cit., n. 38), in alcuni dei più antichi racconti raccolti
dall’Hagen (Gesammtabenteuer, XXIV e II, pp. 491 sgg.), in exempla di predicatori (per es. Giordano da Pisa, Prediche, Firenze
1739, p. 200: cfr. C. DELCORNO, Giordano da Pisa, Firenze
1975, pp. 70 sg.). Ma la novella del B. è, come abbiamo accennato,
tutt’altra cosa.
2
con felice esito, successo: cfr. G. Villani (T.) «aver sì fatta uscita». «Felicemente sottraendonela» (Marti).
Letteratura italiana Einaudi 1230
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
3
4
5
gne, la reina a Filostrato comandò che seguitasse; il quale, senza più comandamento aspettare, incominciò:
– Bellissime donne, lo scostumato3 giudice marchigiano, di cui ieri vi novellai, mi trasse di bocca una novella di Calandrino, la quale io era per dirvi. E per ciò che
ciò che di lui si ragiona non può altro che multiplicare la
festa4, benché di lui e de’ suoi compagni assai ragionato
si sia, ancor pur quella che ieri aveva in animo vi dirò.
Mostrato è di sopra assai chiaro chi Calandrin fosse
e gli altri de’ quali in questa novella ragionar debbo; e
per ciò, senza più dirne, dico5 che egli avvenne che una
zia di Calandrin si morì e lasciogli dugento lire di piccioli contanti6: per la qual cosa Calandrino cominciò a dire
che egli voleva comperare un podere; e con quanti sensali aveva in Firenze, come se da spendere avesse avuti
diecimila fiorin d’oro7, teneva mercato8, il quale sempre
si guastava quando al prezzo del poder domandato si
perveniva. Bruno e Buffalmacco, che queste cose sapevano, gli avevan più volte detto che egli farebbe il meglio a goderglisi con loro insieme, che andar comperando terra, come se egli avesse avuto a far pallottole9; ma,
3
rozzo, maleducato: vedi la definizione riferita a V 1,4 n.; e cfr. I
8,10.
4
accrescere la giocondità, aumentare l’allegria: V 8,8 n.
5
Inizio di novella molto simile a quello della VIII 6.
6
L a l i r a d i p i c c i o l i valeva 240 danari o piccioli (cfr. II
5,60 n. e 1,55 n.): aveva assai minor valore della «lira di grossi» (il
grosso valeva cinque soldi: VIII 3,39 n.).
7
Una somma enorme: cfr. II 1,21 n.
8
si metteva a contrattare: cfr. II 5,3 n.
9
Probabile gioco ironico fra senso proprio e figurato: con duecento lire Calandrino poteva comprar tanta terra da farne al più
pallottole per balestra, non certo un podere da coltivare; non poteva cioè concluder nulla (secondo l’uso figurato della frase).
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
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9
non che a questo, essi non l’aveano mai potuto conducere10 che egli loro una volta desse mangiare.
Per che un dì dolendosene, ed essendo a ciò sopravenuto un lor compagno, che aveva nome Nello, dipintore11, di liberar tutti e tre di dover trovar modo da
ugnersi il grifo12 alle spese di Calandrino; e senza troppo
indugio darvi, avendo tra sé ordinato quello che a fare
avessero, la seguente mattina appostato quando Calandrino di casa uscisse, non essendo egli guari andato13, gli
si fece incontro Nello e disse: «Buon dì, Calandrino».
Calandrino gli rispose che Iddio gli desse il buon dì
e ’l buono anno14. Appresso questo Nello, rattenutosi un
poco15, lo n’cominciò a guardar nel viso: a cui Calandrino disse:«Che guati tu?»
E Nello disse a lui: «Haiti tu sentita sta notte cosa
niuna? Tu non mi par desso16».
Calandrino incontanente incominciò a dubitare 17 e
disse: «Ohimè, come! Che ti pare egli che io abbia?»
10
persuadere, indurre: IV 2,51 n.
Nello di Dino o Bandino, del popolo di San Cristofano, figurava sotto il 1306, a quanto scrive il Manni, nel Libro della Compagnia de’ Pittori posseduto dal Manni stesso e ora perduto. Appare
quale testimone in un contratto di vendita di un terreno sito in Legri, rogato il 14 settembre 1306 da Ser Uguccione di Ranieri Bondoni («presentibus testibus Michele Compagni et Nello Bandini
pictore»: Archivio di Firenze, B 2127, c. 27). Era parente della moglie di Calandrino (IX 5,19), compagno intimo e assiduo di Bruno
e Buffalmacco, e forse anch’egli discepolo del Tafi. Di lui narrò
diffusamente il Baldinucci (Notizie, I, pp. 195 sgg.).
12
fare una mangiata, fare baldoria: Sacchetti, CII: «n’abbiate il
danno, che voi non ve ne ugneste il grifo»; e cfr. IX 5,37: «tu te la
griferai: e’ mi par pur vederti morderle ...»
13
non avendo egli fatto ancora molta strada.
14
Modo consueto di saluto e di augurio: III 8,4; VIII 2,29 n.
15
trattenutosi, indugiatosi un po’ [con Calandrino].
16
Tu non mi sembri tu stesso, cioè sei diverso dal solito: con valore facilmente disceso da quello più consueto (II 5,10 n.).
17
temere: Intr., 55 n.
11
Letteratura italiana Einaudi 1232
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
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15
Disse Nello: «Deh! io nol dico per ciò; ma tu mi pari
tutto cambiato; fia forse altro18»; e lasciollo andare.
Calandrino tutto sospettoso, non sentendosi per
ciò19 cosa del mondo, andò avanti. Ma Buffalmacco, che
guari non era lontano, vedendol partito da Nello, gli si
fece incontro, salutatolo il domandò se egli si sentisse
niente. Calandrino rispose: «Io non so, pur testé mi diceva Nello che io gli pareva tutto cambiato; potrebbe
egli essere che io avessi nulla?»
Disse Buffalmacco: «Sì, potrestù aver cavelle20, non
che nulla: tu par mezzo morto».
A Calandrino pareva già aver la febbre. Ed ecco
Bruno sopravvenne, e prima che altro dicesse, disse:
«Calandrino, che viso è quello? E’ par che tu sia morto:
che ti senti tu?»
Calandrino, udendo ciascun di costor così dire, per
certissimo ebbe seco medesimo d’esser malato; e tutto
sgomentato gli domandò: «Che fo?»
Disse Bruno: «A me pare che tu te ne torni a casa a
vaditene in su ’l letto e facciti ben coprire, e che tu mandi il segnal21 tuo al maestro Simone, che è così nostra cosa22 come tu sai. Egli ti dirà incontanente ciò che tu avrai
18
sarà forse diversamente, non sarà nulla: cioè sarà solo una mia
impressione.
19
però, avversativo: Intr., 78 n.
20
qualcosa, un nonnulla o un nulla: tutta la frase ha quel tono
equivoco, fatto apposta per imbrogliar Calandrino, già usato altra
volta con lui da questi burloni (VIII 3,17 n.).
21
sintomo, cioè l’urina il cui esame costituiva uno dei mezzi diagnostici più usati: cfr. II 8,42 n.; VIII 9,34 n.
Letteratura italiana Einaudi
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a fare, e noi ne verrem teco, e se bisognerà far cosa niuna, noi la faremo».
E con loro aggiuntosi Nello, con Calandrino se ne
tornarono a casa sua, ed egli entratosene tutto affaticato
nella camera, disse alla moglie: «Vieni e cuoprimi bene,
ché io mi sento un gran male».
Essendo adunque a giacer posto, il suo segnale per
una fanticella mandò al maestro Simone, il quale allora a
bottega stava in Mercato Vecchio alla ’nsegna del mellone23; e Bruno disse a’ compagni: «Voi vi rimarrete qui
con lui, e io voglio andare a sapere che il medico dirà; e,
se bisogno sarà, a menarloci24».
Calandrino allora disse: «Deh! sì, compagno mio,
vavvi e sappimi ridire come il fatto sta, ché io mi sento
non so che25 dentro».
Bruno, andatosene al maestro Simone, vi fu prima
che la fanticella che il segno portava, ed ebbe informato
maestro Simone del fatto. Per che, venuta la fanticella
e26 il maestro veduto il segno, disse alla fanticella: «Vattene, e di’ a Calandrino che egli si tenga ben caldo, e io
verrò a lui incontanente e dirogli ciò che egli ha, e ciò
che egli avrà a fare».
La fanticella così rapportò: né stette guari che il
maestro e Brun vennero, e postoglisi il medico a sedere
22
nostro intimo amico: cfr. VIII 9; e per l’espressione IX 10,12 n.
Cfr. VIII 9,5 n. e per l’equivoco su m e l l o n e anche 64 n.
24
a condurlo qui.
25
È uno dei primi esempi dell’espressione: cfr. G. NATALI,
Ancora del «non so che», in «Lingua Nostra», XIX, 1958.
26
ecco che: la solita congiunzione in ripresa.
23
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
21
22
23
24
allato, gli n’cominciò a toccare il polso27, e dopo alquanto, essendo ivi presente la moglie, disse: «Vedi, Calandrino, a parlarti come ad amico, tu non hai altro male se
non che tu se’ pregno».
Come Calandrino udì questo, dolorosamente cominciò a gridare e a dire: «Ohimè! Tessa, questo m’hai fatto
tu, che non vuogli stare altro che di sopra28: io il ti diceva
bene!»
La donna, che assai onesta persona era, udendo così
dire al marito, tutta di vergogna arrossò29, e abbassata la
fronte, senza risponder parola s’uscì della camera.
Calandrino, continuando il suo ramarichio30, diceva:
«Ohimè, tristo me! Come farò io? Come partorirò io
questo figliuolo? Onde uscirà egli? Ben veggo che io son
morto per la rabbia31 di questa mia moglie, che tanto la
faccia Iddio trista quanto io voglio esser lieto; ma, così
foss’io sano come io non sono, ché io mi leverei e dare’
le tante busse, che io la romperei32 tutta, avvegna che
egli mi stea molto bene, ché io non la doveva mai lasciar
salir di sopra; ma per certo, se io scampo di questa, ella
se ne potrà ben prima morir di voglia».
27
Un altro dei mezzi diagnostici classici fin dall’antichità: II
8,44 sgg.
28
Un motivo ricorrente nelle narrazioni citate (per es. nelle
pubblicate dall’Hagen e nella 35 del Grand Parangon de nouvelles
nouvelles, Paris 1869) cui forse alludevano anche i precedenti
c o p r i r e (15,16): e cfr. IX 5,57 sgg.
29
Per la forma cfr. I 10,7 n. e II concl., 3 n.
30
lamento: «con alcunché di querulo e femminile nella parola»
(Petronio): III 6,42: «le parole furono assai e il ramarichio della
donna grande».
31
libidine disordinata, foia: Francesco da Barberino, Documenti
d’amore, Roma 1905-27, I 9: «nec dicendus est amor, sed in communem usum proborum devenit quod rabies appellatur» (e cfr.
Lucrezio, IV 1110): cfr. anche II 5,48 n.
32
pesterei: VIII 4,29 n.
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28
Bruno e Buffalmacco e Nello avevan sì gran voglia di
ridere che scoppiavano, udendo le parole di Calandrino,
ma pur se ne tenevano; ma il maestro Scimmione33 rideva sì squaccheratamente34, che tutti i denti gli si sarebber
potuti trarre. Ma pure al lungo andare, raccomandandosi Calandrino al medico e pregandolo che in questo gli
dovesse dar consiglio e aiuto, gli disse il maestro: «Calandrino, io non voglio che tu ti sgomenti, ché, lodato
sia Iddio, noi ci siamo sì tosto accorti del fatto, che con
poca fatica e in pochi dì ti dilibererò35; ma conviensi un
poco spendere».
Disse Calandrino: «Ohimè! maestro mio, sì per
l’amor di Dio. Io ho qui dugento lire di che io voleva
comperare un podere; se tutti bisognano36, tutti gli togliete, purché io non abbia a partorire, ché io non so come io mi facessi, ché io odo fare alle femine un sì gran
romore quando son per partorire, con tutto che elle abbian buon cotal grande37 donde farlo, che io credo, se io
avessi quel dolore, che io mi morrei prima che io partorissi».
Disse il medico: «Non aver pensiero. Io ti farò fare
una certa bevanda stillata molto buona e molto piacevole a bere, che in tre mattine risolverà ogni cosa, e rimarrai più sano che pesce; ma farai che tu sii poscia38 savio e
33
Storpiatura beffarda del nome del maestro: «ad essa contribuisce la pronuncia bolognese di -s- come -sc-» (Marti).
34
sgangheratamente, spruzzando saliva: ma con senso evidentemente più volgare ed equivoco: VIII 9,76 n. E per la frase seguente
cfr. VI intr., 11.
35
libererò dal male: III 7,19; IX 2,1 n.
36
Poiché le l i r e sono d a n a r i si usa il maschile; ed è del resto sillessi dell’uso, corrente in questi casi.
37
un tale coso, cioè un organo, assai ampio: espressione tradizionale nel gergo sessuale.
38
Cioè: ma starai attento d’ora in poi ad esser ...
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31
32
33
più non incappi in queste sciocchezze. Ora ci bisogna
per quella acqua tre paia di buon capponi e grossi, e per
altre cose che bisognano darai ad un di costoro cinque
lire di piccioli, che le comperi, e fara’ mi ogni cosa recare alla bottega39, e io al nome di Dio domattina ti manderò di quel beveraggio stillato, e comincera’ ne a bere
un buon bicchiere grande per volta.
Calandrino, udito questo, disse: «Maestro mio, ciò
siane in voi40»; e date cinque lire a Bruno e denari per tre
paia di capponi, il pregò che in suo servigio in queste
cose durasse fatica.
Il medico, partitosi, gli fece fare un poco di chiarea41
e mandogliele. Bruno, comperati i capponi e altre cose
necessarie al godere, insieme col medico e co’ compagni
suoi se li mangiò.
Calandrino bevve tre mattine della chiarea, e il medico venne a lui, e42 i suoi compagni, e toccatogli il polso
gli disse: «Calandrino, tu se’ guerito senza fallo; e però
sicuramente oggimai va a fare ogni tuo fatto, né per questo star più in casa».
Calandrino lieto levatosi s’andò a fare i fatti suoi, lodando molto, ovunque con persona a parlar s’avveniva,
la bella cura che di lui il maestro Simone aveva fatta,
39
Cfr. VIII 9,25 n.
a questo pensate voi, questo rimetto a voi, nelle vostre mani.
bevanda medicinale (Crusca); vino speziato che i moderni
chiamano ipocrasso (Ruscelli); bevanda ammolliente (Fanfani). Probabilmente dal fr. ant. clarée o claré cioè liquore. Non si ha precisa
notizia di cosa fosse, benché non manchino esempi antichi: per es.
Volg. Epistole di Seneca (T.): «Non le fa neente, s’ell’è acqua calda
o fredda o vino o chiarea».
42
insieme con, e così pure: cfr. VIII 6,49 n.
40
41
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d’averlo fatto in tre dì senza pena alcuna spregnare43; e
Bruno e Buffalmacco e Nello rimaser contenti d’aver
con ingegni44 saputa schernire l’avarizia di Calandrino,
quantunque monna Tessa, avvedendosene, molto col
marito ne brontolasse. -
43
abortire: cfr. V 7,17 n.; Cronichette antiche, Firenze 1733, Cronaca attr. a Amaretto Mannelli, p. 106: «poi volle ispregnare e convenne ch’ella le uscisse di corpo».
44
astuzie, inganni, espedienti: III 2,11 n. e Petrarca, CCLXX 73:
«Che giova, Amor, tuoi ingegni ritentare?»
Letteratura italiana Einaudi 1238
NOVELLA QUARTA
1
Cecco di messer Fortarrigo giuoca a Bonconvento ogni sua cosa e i denari di Cecco di messer Angiolieri, e in camiscia correndogli dietro e dicendo che rubato l’avea, il fa pigliare a’ villani; e i panni di lui si veste e monta sopra il pallafreno, e lui,
venendosene, lascia in camiscia1.
2
Con grandissime risa di tutta la brigata erano state
ascoltate le parole da Calandrino dette della sua moglie;
ma, tacendosi Filostrato, Neifile, sì come la reina volle,
incominciò:
– Valorose donne, se egli non fosse più malagevole
agli uomini il mostrare altrui il senno e la virtù loro, che
sia la sciocchezza e ’l vizio, invano si faticherebber molti
in porre freno alle lor parole; e questo v’ha assai manifestato la stoltizia di Calandrino, al quale di niuna necessità era, a voler guerire del male che la sua simplicità gli
faceva accredere2, che egli avesse i segreti diletti della
sua donna in pubblico a dimostrare. La qual cosa una a
sé contraria nella mente me n’ha recata, cioè come la
malizia d’uno il senno soperchiasse3 d’un altro, con grave danno e scorno del soperchiato; il che mi piace di
raccontarvi.
3
4
1
Nessun antecedente di questa novella: qualche motivo trova
però riscontro nella narrativa popolare (Thompson e Rotunda, K
484.3). I precisi riferimenti ai due personaggi storici, protagonisti
della novella, hanno troppo facilmente inclinato a riferire il fatto
come realmente avvenuto (Crescimbeni, Manni, Gigli, Bartoli
ecc.).
2
credere: cfr. VII 1,1 n.
3
sopraffacesse.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
5
6
Erano, non sono molti anni passati, in Siena due già
per età compiuti uomini4, ciascuno chiamato Cecco, ma
l’uno di messer Angiulieri5, e l’altro di messer Fortarrigo6. Li quali quantunque in molte altre cose male insieme di costumi si convenissero7, in uno8, cioè che amenduni li lor padri odiavano, tanto si convenivano, che
amici n’erano divenuti e spesso n’usavano insieme9. Ma
parendo all’Angiulieri, il quale e bello e costumato uomo era10, mal dimorare in Siena della provesione11 che
dal padre donata gli era, sentendo nella Marca d’Ancona esser per legato del papa venuto un cardinale che
4
uomini maturi, uomini fatti: Filocolo, IV 39,1: «un mio fratello,
bellissimo giovane e di compiuta età».
5
È Cecco Angiolieri (1258?-1313?), il bizzarro ed estroso poeta
senese, il maggiore dei burleschi e realisti di quel tempo.
6
Cecco di Fortarrigo Piccolomini; questo Cecco risulta condannato per omicidio nel 1293 (ma la sentenza non fu eseguita: cfr. Sonetti di Cecco Angiolieri a cura di A. F. Massera, Bologna 1906, pp.
141 sgg.). A lui l’Angiolieri indirizzò un sonetto (CVIII; il Massera
riferisce alla novella il LXVIII; cfr. anche A. LISINI LIBERATI,
in «Misc. Stor. Senese», V, 1898; E. SANTINI, Il B. novellatore
d’amore cit. e anche La fortuna del B. a Siena, in Raccolta ... a F.
Flamini, Pisa 1918; P. D’ANCONA, Studi di critica, Bologna 1912,
I, p. 196).
7
si accordassero, si assomigliassero: X 10,6: «chi co’ suoi costumi
ben si convenga».
8
in una sola cosa: neutro (cfr. II 10,5 n.).
9
per questo spesso si ritrovavano insieme. Dell’odio dell’Angiolieri per il padre parlano vari suoi sonetti: e proprio in quello già
citato (CVIII) l’Angiolieri, annunciando la morte del proprio padre, presagisce all’amico l’immortalità del suo altrettanto odiato
genitore, nonostante sia malandato.
10
Immagine contraria a quella della leggenda creata sui sonetti,
letti come documenti autobiografici.
11
vivere a disagio in Siena con l’assegno: III 9,28 n.
Letteratura italiana Einaudi 1240
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
7
8
molto suo signore era12, si dispose a volersene andare a
lui, credendone la sua condizion migliorare. E fatto questo al padre sentire, con lui ordinò d’avere ad un’ora13
ciò che in sei mesi gli dovesse dare, acciò che vestir si
potesse e fornir di cavalcatura e andare orrevole14.
E cercando d’alcuno, il qual seco menar potesse al
suo servigio, venne questa cosa sentita al Fortarrigo, il
qual di presente15 fu all’Angiulieri, e cominciò, come il
meglio seppe, a pregarlo che seco il dovesse menare, e
che egli voleva essere e fante e famiglio16 e ogni cosa, e
senza alcun salario sopra le spese17. Al quale l’Angiulieri
rispose che menar nol voleva, non perché egli nol conoscesse bene ad ogni servigio sufficiente18, ma per ciò che
egli giucava e oltre a ciò s’innebbriava alcuna volta. A
che il Fortarrigo rispose che dell’uno e dell’altro senza
dubbio si guarderebbe, e con molti saramenti gliele af-
12
era suo grande protettore, con cui aveva grande ‘servitù’. Il
Manni pensò al Card. Giovanni Gaetano Orsini, legato nella Marca nel 1326 (G. Villani, IX 346), ma a tale data Cecco era già morto; il Massera (op. cit., p. 179) suppone fosse Napoleone Orsini;
«di una dimora in Roma di Cecco presso il Cardinale Riccardo Petroni vi sono buone testimonianze e vi si riferisce un sonetto perduto di Dante al quale Cecco rispose col sonetto Dante Aligbier,
s’io son buon begolardo: e che ciò avvenisse nel 1303, nella prima
dimora dell’Alighieri in Verona, risulterebbe dal verso ‘S’io son
fatto romano e tu lombardo’» (Zingarelli). Sono notizie di dubbio
credito, però.
13
tutto in una volta, cioè in un unico anticipo.
14
con decoro, in abbigliamento decoroso: I 7,9 n.
15
subito: I 1,77 n.
16
servitore (in generale) e familiare, cioè addetto più specialmente al servizio della persona; ma qui, come chiarisce anche il seguente «e ogni cosa», l’enumerazione ha valore soprattutto enfatico.
17
oltre le spese, oltre il puro mantenimento: II 3,12 n.; e cfr. più
sotto, 16: «sopra ciò».
18
abile, capace: VIII 9,17 n.
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9
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11
fermò, tanti prieghi sopraggiugnendo19, che l’Angiulieri,
sì come vinto, disse che era contento.
E entrati una mattina in cammino20 amenduni, a desinar n’andarono a Buonconvento21. Dove avendo l’Angiulier desinato, ed essendo il caldo grande22, fatto acconciare un letto nello albergo e spogliatosi, dal
Fortarrigo aiutato s’andò a dormire, e dissegli che come
nona23 sonasse il chiamasse.
Il Fortarrigo, dormendo l’Angiulieri, se n’andò in su
la24 taverna, e quivi, alquanto avendo bevuto, cominciò
con alcuni a giucare25, li quali, in poca d’ora alcuni denari che egli avea avendogli vinti, similmente quanti panni
egli aveva in dosso gli vinsero; onde egli, disideroso di
riscuotersi26, così in camiscia27 come era, se n’andò là dove dormiva l’Angiulieri, e vedendol dormir forte, di borsa gli trasse quanti denari egli avea28, e al giuoco tornatosi, così gli perdè come gli altri.
L’Angiulieri, destatosi, si levò e vestissi e domandò
del Fortarrigo, il quale non trovandosi, avvisò29 l’Angiu19
aggiungendo: II 6,76 n. E per il seguente v i n t o cfr. X 9,25
n.
20
Cfr. II 8,4 n.; VII intr., 4 n. ecc.
Paese a circa quaranta chilometri a sud di Siena, dove la strada si biforcava e portava, a oriente, verso le Marche.
22
Per questa posizione dell’articolo in simili frasi stereotipate
cfr. II 10,11 n. (e cfr. al 12: «il romor fu grande»).
23
Cioè circa le tre pomeridiane.
24
nella, dentro la: cfr. VII 9,18: «in su la tua obstinazione»; VI
intr., 7.
25
Forma corrente (Proemio, 12 n.) caratteristica nel senese (cfr.
qui 8, 16, 22).
26
rifarsi, aver la rivincita, riacquistare quello che aveva perduto:
come figuratamente già nella V concl., 3 e nella VI intr., 1: «con alcun leggiadro motto , tentato, si riscotesse».
27
Cioè senza mantello, gonnella, farsetto, ma con le brache e il
resto: II 2,13 e 15; e qui 23 n.
28
Gesto risoluto e frettoloso che ricorda quello di Fiordaliso (II
5,40).
29
pensò, immaginò.
21
Letteratura italiana Einaudi 1242
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
lieri lui in alcuno luogo ebbro dormirsi, sì come altra
volta era usato di fare. Per che, diliberatosi di lasciarlo
stare, fatta mettere la sella e la valigia ad un suo pallafreno, avvisando di fornirsi d’altro famigliare a Corsigna12 no30, volendo, per andarsene, l’oste pagare, non si trovò
danaio31; di che il rumore fu grande e tutta la casa
dell’oste fu in turbazione, dicendo l’Angiulieri che egli
là entro era stato rubato e minacciando egli di farnegli
13 tutti presi32 andare a Siena. Ed ecco venire in camicia il
Fortarrigo, il quale per torre i panni, come fatto aveva i
denari, veniva. E veggendo l’Angiulieri in concio di cavalcar33, disse: «Che è questo, Angiulieri? Vogliancene
noi andare ancora34? Deh aspettati un poco: egli dee venire qui testeso35 uno che ha pegno36 il mio farsetto per
trentotto soldi; son certo, che egli cel renderà per trentacinque, pagandol testé».
14
E duranti37 ancora le parole, sopravvenne uno il quale fece certo l’Angiulieri il Fortarrigo essere stato colui
che i suoi denar gli aveva tolti, col mostrargli la quantità
di quegli che egli aveva perduti. Per la qual cosa l’Angiulier turbatissimo38 disse al Fortarrigo una grandissima
30
È la cittadina chiamata poi Pienza da Pio II, che vi nacque: è a
una ventina di chilometri da Buonconvento, sulla strada che va
verso l’Umbria.
31
La minima parte del fiorino: II 5,60 n.
32
arrestati, prigionieri: X 8,95 n.
33
pronto a cavalcare: Sacchetti, LXX: «Torello, recatosi in concio ...»
34
ce ne vogliamo già andare?: IV 8,17 n.
35
testé, subito: VII 9,39 n.
36
ha in pegno, tiene impegnato.
37
Costruzione assoluta: mentre duravano, durando: cfr. VI 7,5 n.
38
furibondo, con grandissima ira: VI 4,9 n.
Letteratura italiana Einaudi
1243
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
15
villania, e se più d’altrui che di Dio temuto non avesse,
gliele avrebbe fatta39; e, minacciandolo di farlo impiccar
per la gola o fargli dar bando delle forche40 di Siena,
montò a cavallo.
Il Fortarrigo, non come se l’Angiulieri a lui, ma ad
un altro dicesse, diceva: «Deh! Angiulieri, in buona ora
lasciamo stare ora costette41 parole che non montan cavelle42; intendiamo a questo43; noi il riavrem per trentacinque soldi, ricogliendol testé44, ché, indugiandosi pure
di qui45 a domane, non ne vorrà meno di trentotto come
egli me ne prestò; e fammene questo piacere, perché io
gli misi a suo senno46. Deh! perché non ci miglioriam
noi47 questi tre soldi?»
39
gli avrebbe fatto grandissima villania o gli avrebbe fatto la festa
se non avesse temuto più di lui (Fortarrigo) o delle leggi umane che
di Dio.
40
Cioè l’esilio, con la pena dell’impiccagione se avesse rotto il
bando.
41
«Così dice il testo originale, e però non radere tu che leggi»
(M.). Ma questa è forma già nel D. messa altra volta sulle labbra di
senesi (VII 10,22 n.). Cfr. anche MASSERA, op. cit., p. 189 per un
sonetto dell’Angiolieri punteggiato di senesismi. E per l’espressivismo seneseggiante di questa novella cfr. Introduzione, pp. XXI sgg.
42
nulla, dato che c a v e l l e è in frase negativa (Annotazioni, p.
239: e cfr. IX 3,12 n.); anche questa è voce assai usata in Siena e nel
contado.
43
occupiamoci di questo.
44
ricomprandolo, riscattandolo subito: VIII 2,28 n.
45
anche solo fino.
46
e mi fa questo favore perché mi rimisi a lui (per fissare il valore
del farsetto). Altri interpreta: perché puntai [al gioco] secondo il suo
consiglio.
47
non risparmiamo, non ci avvantaggiamo di, non guadagniamo:
cfr. più sotto 17; e F. da Barberino, Documenti d’amore cit., II 37:
«servire l’amico solo per migliorarsi» («ad proprium commodum»
nel testo latino).
Letteratura italiana Einaudi 1244
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
L’Angiulieri, udendol così parlare, si disperava, e
massimamente veggendosi guatare a quegli che v’eran
dintorno, li quali parea che credessono non che il Fortarrigo i denari dello Angiulieri avesse giucati, ma che
l’Angiulieri ancora avesse de’ suoi48, e dicevagli: «Che ho
io a fare di tuo farsetto49? Che appiccato sia tu per la gola, che non solamente m’hai rubato e giucato il mio, ma
sopra ciò50 hai impedita la mia andata, e anche ti fai beffe di me».
17
Il Fortarrigo stava pur fermo51 come se a lui non dicesse, e diceva: «Deh, perché non mi vuo’ tu migliorar
qui52 tre soldi? Non credi tu che io te li possa ancor servire53? Deh, fallo, se ti cal di me54: per che hai tu questa
fretta? Noi giugnerem bene ancora stasera a Torrenie18 ri55. Fa truova56 la borsa: sappi che io potrei cercar tutta
Siena, e non ve ne troverre’uno che così mi stesse ben
come questo; e a dire che io il lasciassi57 a costui per
16
48
Cioè avesse anche denari del Fortarrigo.
Che ho io a fare col tuo farsetto? L’Angiolieri doveva esser
pratico di simili forme di pegno, se si può dare fede al suo sonetto
I’ son venuto di schiatta di struzzo (LXXXVII).
50
oltre a ciò: cfr. 7 n.
51
impassibile, imperterrito: VIII 3,18 n.
52
Deve essere, come al 24 («a qui tempi»), riduzione per protonia di quei, perseguita per volgarismo ipersenese, proprio - come
con altre forme già citate - per dare colore locale alla narrazione,
anche con intenzione espressivistica. L’espressione riprende quella
precedente «perché non ci miglioriam noi questi tre soldi?» (15).
53
dare: ma il senso più corrente del verbo era prestare (I 3,7 n.),
e il Fortarrigo continua a giocar sull’equivoco.
54
se mi vuoi bene: solita forma di preghiera (VIII 5,8 n.).
55
Borgo a una diecina di chilometri da Buonconvento, sulla
strada di Corsignano, la Cassia.
56
Fa di trovare, doppio imperativo: II 5,45 n.
57
e dire che io lo dovrei lasciare: è modo ancor vivo.
49
Letteratura italiana Einaudi
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22
trentotto soldi! Egli vale ancor quaranta o più, sì che tu
mi piggiorresti58 in due modi».
L’Angiulier, di gravissimo dolor punto, veggendosi
rubare da costui e ora tenersi a parole59, senza più rispondergli, voltata la testa del pallafreno, prese il cammin verso Torrenieri. Al quale il Fortarrigo, in una sottil
malizia entrato60, così in camicia cominciò a trottar dietro; ed essendo già ben due miglia andato pur61 del farsetto pregando, andandone l’Angiulieri forte per levarsi
quella seccaggine dagli orecchi, venner veduti al Fortarrigo lavoratori in un campo vicino alla strada dinanzi
all’Angiulieri, ai quali il Fortarrigo, gridando forte, incominciò a dire: «Pigliatel, pigliatelo62».
Per che essi chi con vanga e chi con marra nella strada paratisi dinanzi all’Angiulieri, avvisandosi che rubato
avesse colui che in camincia dietro gli venia gridando, il
ritennero e presono. Al quale per dir63 loro chi egli fosse
e come il fatto stesse, poco giovava.
Ma il Fortarrigo, giunto là, con un mal viso64 disse:
«Io non so come io non t’uccido, ladro disleale, che ti
fuggivi col mio!»; e a’ villani rivolto disse: «Vedete, signori65, come egli m’aveva, nascostamente partendosi,
58
danneggeresti (sincopato da piggioreresti): contrario del
m i g l i o r a r e usato sopra.
59
vedendo che egli era stato derubato da costui ed ora era trattenuto in chiacchiere vane.
60
avendo pensato un’astuzia finissima: II 5,9 e I 4,9 n.
61
continuamente, ancora.
62
Il grido può ricordare l’inizio del sonetto Accorri accorri accorri, uom, a la strada! proprio di Cecco Angiolieri (I).
63
per quanto dicesse.
64
con viso irato: I 4,20.
65
Anche Frate Cipolla (VI 10,37) inizia così: S i g n o r i ..., quasi una captatio benevolentiae.
Letteratura italiana Einaudi 1246
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
avendo prima ogni sua cosa giucata, lasciato nello albergo in arnese66! Ben posso dire che per Dio e per voi io
abbia questo cotanto67 racquistato, di che io sempre vi
sarò tenuto».
L’Angiulieri diceva egli altressì, ma le sue parole non
23
erano ascoltate. Il Fortarrigo con l’aiuto de’villani il mise in terra del pallafreno, e spogliatolo, de’ suoi panni si
rivestì, e a caval montato, lasciato l’Angiulieri in camicia
e scalzo68, a Siena se ne tornò, per tutto dicendo sé il pal24 lafreno e’ panni aver vinti all’Angiulieri. L’Angiulieri,
che ricco si credeva andare al cardinal nella Marca, povero e in camicia si tornò a Buonconvento, né per vergogna a que’ tempi69 ardì di tornare a Siena, ma statigli
panni prestati, in sul ronzino70 che cavalcava il Fortarrigo se n’andò a’ suoi parenti a Corsignano, co’ quali si
stette tanto che da capo dal padre fu sovvenuto.
25
E così la malizia del Fortarrigo turbò il buono avviso71 dello Angiulieri, quantunque da lui non fosse a luogo e a tempo72 lasciata impunita. –
66
in quale [male] arnese mi aveva lasciato all’albergo: I 7,18 n.
tutto questo, almeno questo, poco o molto.
Come Rinaldo derubato (II 2,15); e cfr. qui 10 n.
69
per allora: per q u i cfr. 17 n.
70
Contrapposto al p a l l a f r e n o (23) rubatogli dal Fortarrigo.
71
guastò il buon proposito, il savio disegno: II 6,9 n.
72
Cfr. X 8,45: «a luogo e a tempo manifesteremo il fatto»; e anche IX 5,3.
67
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Letteratura italiana Einaudi
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NOVELLA QUINTA
1
Calandrino s’innamora d’una giovane, al quale Bruno fa un
brieve1, col quale come egli la tocca, ella va con lui, e dalla moglie trovato, ha gravissima e noiosa quistione2.
2
Finita la non lunga novella di Neifile, senza troppo
riderne o parlarne passatasene3 la brigata, la reina verso
la Fiammetta rivolta, che ella seguitasse le comandò, la
quale tutta lieta4 rispose che volentieri, e cominciò:
– Gentilissime donne, sì come io credo che voi sappiate, niuna cosa è di cui tanto si parli, che sempre più
non piaccia; dove il tempo e il luogo che quella cotal cosa richiede si sappi per colui, che parlar ne vuole, debitamente eleggere. E per ciò, se io riguardo quello per
che noi siam qui (ché per aver festa e buon tempo, e non
per altro, ci siamo) stimo che ogni cosa che festa e piacer
possa porgere qui abbia e luogo e tempo debito; e ben-
3
4
1
biglietto con formule magiche: cfr. 45; Passavanti Specchio, p.
387: «parole dette o portate addosso scritte per modo di brieve».
Per la popolarità, anche nella novellistica, di questo mezzo cfr. Rotunda, K I 15.1 I* sgg., 1963.2*.
2
La storiella, riferita naturalmente come storica dal Baldinucci
(Notizie cit.) e dal Manni, non ha antecedenti: probabilmente era
una di quelle che correvano nella Firenze del Trecento. Anche la
risoluta affermazione di Fiammetta nel prologo al racconto (5) può
avere un qualche significato (cfr. V. BRANCA, B. medievale, pp.
167 sgg.).
3
sbrigatasene: VI 8,4 n.: riflesso critico negativo quasi unico nel
D.
4
È un atteggiamento frequente in Fiammetta all’inizio del novellare (III 6, IV 1, V 9 ecc.).
Letteratura italiana Einaudi 1248
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
5
6
ché mille volte ragionato ne fosse, altro che dilettar non
debbia5 altrettanto parlandone. Per la qual cosa, posto
che6 assai volte de’ fatti di Calandrino detto si sia tra noi,
riguardando, sì come poco avanti disse Filostrato, che
essi son tutti piacevoli, ardirò, oltre alle dette, di dirvene
una novella, la quale, se io dalla verità del fatto mi fossi
scostare voluta o volessi, avrei ben saputo e saprei sotto
altri nomi comporla e raccontarla; ma per ciò che il partirsi dalla verità delle cose state nel novellare è gran diminuire di diletto negli ‘ntendenti, in propia forma7, dalla ragion di sopra detta aiutata, la vi dirò.
Niccolò Cornacchini fu nostro cittadino8 e ricco uomo, e tra l’altre sue possessioni una bella n’ebbe in Camerata9, sopra la quale fece fare uno orrevole e bello casamento, e con Bruno e con Buffalmacco che tutto gliele
dipignessero si convenne; li quali, per ciò che il lavorio
era molto, seco aggiunsero e Nello e Calandrino10, e cominciarono a lavorare. Dove, benché alcuna camera11
5
Solita forma del congiuntivo: cfr. I 1,23 n.
sebbene, nonostante.
7
così come fu veramente. E il Mannelli sottolinea l’importanza
dell’affermazione, notando a margine di questo periodo: «Nota aliquod generale documentum in libro isto». E cfr. II 6,4; Concl. 4 n.;
e in generale, V. BRANCA, B. medievale, pp. 167 sgg.
8
concittadino: III 7,3. I Cornacchini furono nota famiglia di
mercanti nella Firenze dei secoli XIII-XIV: formarono un’accreditata «compagnia», con sedi anche in Avignone e in Inghilterra, in
stretti rapporti coi Frescobaldi (SAPORI, Studi di storia economica
medievale, pp. 905 sgg.). Avevano le loro abitazioni proprio in Via
del Cocomero, presso cioè quelle dei pittori nominati nelle righe
seguenti e di Maestro Simone (VIII 9,5). Inizio di novella su di un
settenario e un endecasillabo.
9
La collina sotto Fiesole altre volte nominata nel D. come luogo
di ville suburbane (per es. VII 1) e dove Calandrino lavorò (cfr.
VIII 3,4 n.).
10
Tutti personaggi già noti per le novelle precedenti (VIII 3 e 6
e 9; IX 3: e cfr. nn. relative).
6
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7
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9
fornita di letto e dell’altre co se opportune fosse, e una
fante vecchia dimorasse sì come guardiana del luogo,
per ciò che altra famiglia non v’era, era usato un figliuolo del detto Niccolò, che avea nome Filippo, sì come
giovane e senza moglie, di menar talvolta alcuna femina
a suo diletto, e tenervela un dì o due e poscia mandarla
via.
Ora tra l’altre volte avvenne che egli ve ne menò
una, che aveva nome la Niccolosa12, la quale un tristo13,
che era chiamato il Mangione, a sua posta tenendola in
una casa a Camaldoli14, prestava a vettura15. Aveva costei
bella persona ed era ben vestita, e, secondo sua pari16,
assai costumata e ben parlante17. Ed essendo ella un dì
di meriggio della camera uscita in un guarnel18 bianco e
co’ capelli ravvolti al capo, e ad un pozzo che nella corte
era del casamento lavandosi le mani e l’ viso, avvenne
11
solo qualche camera.
Una Niccolosa Cornacchini risulta sepolta in Santa Maria Novella nel giugno 1341 (Sepoltuario Cirri, Biblioteca Nazionale di Firenze: probabilmente per errore il Manni la disse sepolta in San
Michele Visdomini). Il nome di Niccolosa era comune nella Firenze del tempo: anche il B. appare in relazione con una donna di tal
nome (TORDI, Gli inventari, cit., p. 71), e cfr. IX 6,3.
13
un tipo losco, un uomo di malaffare: con una sfumatura di depravazione, come nella V 10,1 n. o nella VII 8,43 n. o qui più avanti, 52. n.
14
Via di Firenze nel quartiere di San Pier Maggiore.
15
dava a nolo: con un tono di spregio, quasi fosse una giumenta:
IX 6,8 n.
16
per una sua pari.
17
pronta di parola: anche Oretta Spini (VI 1,5) è detta «costumata donna e ben parlante»: ma il ritratto qui richiama soprattutto
quello di Madonna Fiordaliso (II 5,15 e 25 n.).
18
in una sottoveste di guarnello (tessuto di canapa e cotone).
12
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15
che Calandrino quivi venne per acqua, e dimesticamente la salutò. Ella, rispostogli, il cominciò a guatare, più
perché Calandrino le pareva un nuovo uomo19 che per
altra vaghezza. Calandrino cominciò a guatar lei, e parendogli bella, cominciò a trovar sue cagioni 20, e non
tornava a’ compagni con l’acqua; ma, non conoscendola, niuna cosa ardiva di dirle. Ella, che avveduta s’era del
guatar di costui, per uccellarlo21 alcuna volta guatava lui,
alcun sospiretto gittando; per la qual cosa Calandrino
subitamente di lei s’imbardò22, né prima si partì della
corte che ella fu da Filippo nella camera richiamata.
Calandrino, tornato a lavorare, altro che soffiar23
non faceva; di che Bruno accortosi, per ciò che molto gli
poneva mente alle mani24, sì come quegli che gran diletto prendeva de’ fatti suoi, disse: «Che diavolo hai tu, sozio25 Calandrino? Tu non fai altro che soffiare».
A cui Calandrino disse: «Sozio, se io avessi chi
m’aiutasse, io starei bene».
«Come?» disse Bruno.
A cui Calandrino disse: «E’ non si vuol dire a persona: egli è una giovane quaggiù, che è più bella che una
19
un uomo strano, sempliciotto: II 5,17 n.; VI 4,6 n.
a trovar pretesti [trattenersi].
beffarlo.
22
si invaghì, si innamorò: Tesoretto, 1428 sg.: «una cosa che
’mbarda | La gente più che ’l grado»; Guittone, Rime, 66,3: «Che
vista fo che di ciascuna embardi»; Chiaro Davanzati, Rime, I 32.
23
sbuffare o sospirare: VI 8,3 n.
24
osservava quanto faceva.
25
compare, amico: VIII 6,52 n.
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lammia26, la quale è sì forte innamorata di me, che ti parrebbe un gran fatto; io me n’avvidi testé quando io andai per l’acqua».
«Ohimè!» disse Bruno «guarda che ella non sia la
moglie di Filippo».
Disse Calandrino: «Io il credo, per ciò che egli la
chiamò, ed ella se n’andò a lui nella camera; ma che vuol
per ciò dir questo? Io la fregherei a Cristo di così fatte
cose27, non che a Filippo. Io ti vo’dire il vero, sozio: ella
mi piace tanto, che io nol ti potrei dire».
Disse allora Bruno: «Sozio, io ti spierò chi ella è; e se
ella è la moglie di Filippo, io acconcierò i fatti tuoi in
due parole, per ciò che ella è molto mia domestica. Ma
come farem noi che Buffalmacco nol sappia? Io non le
posso mai favellare ch’e’non sia meco».
Disse Calandrino: «Di Buffalmacco non mi curo io,
ma guardianci di Nello, ché egli è parente della Tessa28 e
guasterebbeci ogni cosa».
Disse Bruno: «Ben di’».
Or sapeva Bruno chi costei era, sì come colui che veduta l’avea venire, e anche Filippo gliele aveva detto.
Per che, essendosi Calandrino un poco dal lavorio parti-
26
fata o ninfa: Comedia, IX 6: «marmoree colonne sostenenti
candida lammia»; Cavalcanti, XLIV 12 sg.: «un grande fiume I
Pieno di lammie»; L. Pulci, Driadeo, I 12: «il rozzo parlar de’ villan
vuole | Che queste Ninfe sien chiamate Lammie».
27
Cioè: io farei di questi scherzi, di queste ingiurie a Cristo stesso.
28
La moglie di Calandrino: VIII 3,51 n.
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to e andato per vederla, Bruno disse ogni cosa a Nello e
a Buffalmacco, e insieme tacitamente ordinarono quello
che fare gli dovessero di questo suo innamoramento.
E come egli ritornato fu, disse Bruno pianamente:
«Vedestila?»
Rispose Calandrino: «Ohimè! sì, ella m’ha morto».
Disse Bruno: «Io voglio andare a vedere se ella è
quella che io credo; e se così sarà, lascia poscia far me».
Sceso adunque Bruno giuso, e trovato Filippo e costei, ordinatamente disse loro chi era Calandrino, e
quello che egli aveva lor29 detto, e con loro ordinò quello
che ciascun di loro dovesse fare e dire, per avere festa e
piacere dello innamoramento di Calandrino. E a Calandrino tornatosene disse:« Bene è dessa; e per ciò si vuol
questa cosa molto saviamente fare, per ciò che, se Filippo se ne avvedesse, tutta l’acqua d’Arno non ci laverebbe30. Ma che vuo’tu che io le dica da tua parte, se egli avvien che io le favelli?»
Rispose Calandrino: «Gnaffe! tu sì le dirai in prima
in prima che io le voglio mille moggia di quel buon bene
da impregnare; e poscia, che io son suo servigiale31, e se
ella vuol nulla; ha’mi bene inteso?»
29
a loro, agli amici.
Espressione proverbiale assai diffusa in Toscana per dire che
nulla potrebbe scusare.
31
servitore (II 5,43 n.): «secondo i concetti dell’amore cortese.
Ma si diceva di solito ‘servidore’ o ‘servente’ e il B. probabilmente
usa s e r v i g i a l e a render ridicolo Calandrino» (Petronio); in
armonia del resto con tutta la goffa frase precedente.
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33
Disse Bruno: «Sì, lascia far me».
Venuta l’ora della cena, e32 costoro avendo lasciata
opera e giù nella corte discesi33, essendovi Filippo e la
Niccolosa, alquanto in servigio di Calandrino ivi si posero a stare. Dove Calandrino incominciò a guardare la
Niccolosa e a fare i più nuovi34 atti del mondo, tali e tanti che se ne sarebbe avveduto un cieco. Ella d’altra parte
ogni cosa faceva per la quale credesse bene accenderlo,
e secondo la informazione avuta da Bruno, il miglior
tempo del mondo prendendo de’ modi di Calandrino;
Filippo con Buffalmacco e con gli altri faceva vista di ragionare e di non avvedersi di questo fatto.
Ma pur dopo alquanto, con grandissima noia di Calandrino, si partirono; e venendosene verso Firenze, disse Bruno a Calandrino: «Ben ti dico che tu la fai struggere come ghiaccio a sole35; per lo corpo di Dio, se tu ci
rechi la ribeba36 tua e canti un poco con essa di quelle
tue canzoni innamorate, tu la farai gittare a terra delle finestre per venire a te».
Disse Calandrino: «Parti, sozio? Parti37 che io la rechi?»
«Sì,» rispose Bruno.
32
La solita congiunzione in ripresa dopo temporale
Un solo ausiliare (a v e n d o) per due verbi che lo vorrebbero
diverso: uso solito: II 8,95 n.
34
strani, da sempliciotto.
35
Immagine amorosa solita anche nel B. (per es. X 7,8 n.; Amorosa Visione, XXV 27); cfr. Petrarca, XXX 21; e per l’omissione
dell’articolo cfr. III 10,35 n.; V 10,54 n.
36
O ribeca: strumento a tre corde, ad arco, simile alla viola (è
parola di origine araba: rabab: cfr. G. B. PELLEGRINI, Gli arabismi cit., p. 98): Sacchetti, Rime, CXCVIII 12: «se sonasse Ughetto
la ribeca».
37
Ti pare?, Ti pare bene?
33
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A cui Calandrino disse: «Tu non mi credevi oggi,
quando io il ti diceva; per certo, sozio, io m’avveggio
che io so meglio che altro uomo far ciò che io voglio.
35 Chi avrebbe saputo, altri che io, farcosì tosto innamorare una così fatta donna come è costei? A buona otta
l’avrebber saputo far38 questi giovani di tromba marina39,
che tutto ‘l dì vanno in giù e in su, e in mille anni non sa36 prebbero accozzare tre man di noccioli40. Ora io vorrò
che tu mi vegghi un poco con la ribeba; vedrai bel giuoco! E intendi sanamente41 che io non son vecchio come
io ti paio, ella se n’è bene accorta ella; ma altramenti ne
la farò io accorgere se io le pongo la branca addosso; per
lo verace corpo di Cristo, che io le farò giuoco, che ella
mi verrà dietro come va la pazza al figliuolo42».
37
«Oh,» disse Bruno «tu te la griferai43: e’ mi par pur
34
38
Alla buon’ora, quando mai l’avrebbero saputo fare: ironico; e
cfr. VII 2,23 n. e VII 5,39 n.
39
giovani che portano le maniche a tromba (cfr. Esposizioni, V
litt. 147 sgg.; Sacchetti, Rime, CVII); giovani che strombazzano per
tutto i favori che ricevon dalle donne (Martinelli); giovani vuoti, pieni di vento come una tromba marina (Vidossich). Ma l’interpretazione non è del tutto sicura.
40
Cioè venire a capo del minimo negozio (Fanfani): espressione
tratta dal gioco fanciullesco coi noccioli in cui si chiama «una mano» il gruppo di noccioli giocato di volta in volta. O più semplicemente: non saprebbero raccogliere tre manciate di noccioli (Quaglio).
41
bene: III 4,15 n.
42
Espressione proverbiale usata per chi correva senza ritegno
dietro chi amava.
43
le metterai il grido addosso, come un maiale lo ficca nel pastone
per trangugiarlo: cfr. IX 3,6 n. Bruno continua il linguaggio immaginosamente bestiale di Calandrino in fregola (b r a n c a, g r i f o ,
d e n t i, m o r d e r e, m a n i c a r e, c u o i o, ecc.).
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vederti morderle con cotesti tuoi denti fatti a bischeri44
quella sua bocca vermigliuzza e quelle sue gote che
paion due rose, e poscia manicarlati tutta quanta».
Calandrino, udendo queste parole, gli pareva essere
a’ fatti, e andava cantando e saltando tanto lieto, che
non capeva nel cuoio45. Ma l’altro dì46 recata la ribeba,
con gran diletto di tutta la brigata cantò più canzoni con
essa47. E in brieve in tanta sosta48 entrò dello spesso veder costei, che egli non lavorava punto, ma mille volte il
dì ora alla finestra, ora alla porta e ora nella corte correa
per veder costei; la quale astutamente secondo l’ammaestramento di Bruno adoperando, molto bene ne gli dava
cagione. Bruno d’altra parte gli rispondeva alle sue ambasciate e da parte di lei ne gli faceva talvolte; quando
ella non v’era, che era il più del tempo, gli faceva venir
lettere da lei, nelle quali esso gli dava grande speranza
de’ desideri suoi, mostrando che ella fosse a casa di suoi
parenti là dove egli allora non la poteva vedere.
44
I pioli cui sono attaccate le corde di certi strumenti, quali il
liuto, la chitarra, ecc. e coi quali se ne regola la tensione (chiavi).
45
non stava nella pelle. È parola scelta apposta per Calandrino:
altrove (VIII 7) lo dice di serpe; Dante, Convivio, IV XXV 6, lo dice di leone; e di esseri umani si trova in scrittori di linguaggio violento quali Jacopone, XVI 44 e Cecco Angiolieri, CV 12» (Petronio).
46
il giorno seguente.
47
Caricatura che può ricordare quella di Maestro Simone (VIII
9,45 sgg.).
48
scioperio, volontà di non far nulla: cfr. la discussione e la documentazione nelle Annotazioni, CXV. A meno di pensare a una
forma per susta, cioè guaio, agitazione, come nell’Orlando del Berni
(XXIV 5; XXVII 5), e come accennano i vocabolari cinquecenteschi dell’Acariso e dell’Alunno sotto sosta stessa. Cfr. BARBI, La
Nuova Filologia, p. 45; D. OLIVIERI e B. MIGLIORINI, Sosta,
susta, sista, in «Lingua Nostra», V, 1943.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
E in questa guisa Bruno e Buffalmacco, che tenevano mano al fatto, traevano de’ fatti di Calandrino il maggior piacer del mondo, faccendosi talvolta dare, sì come
domandato dalla sua donna, quando un pettine d’avorio
e quando una borsa e quando un coltellino e cotali ciance49, allo ‘ncontro recandogli cotali anelletti contraffatti50
di niun valore, de’ quali Calandrino faceva maravigliosa
festa. E oltre a questo n’avevan da lui di buone merende
e d’altri onoretti51, acciò che solliciti fossero a’ fatti suoi.
42
Ora, avendol tenuti52 costoro ben due mesi in questa
forma senza più aver fatto, vedendo Calandrino che il
lavorio si veniva finendo, e avvisando che, se egli non recasse ad effetto il suo amore prima che finito fosse il lavorio, mai più fatto non gli potesse53 venire, cominciò
43 molto a strignere e a sollicitare Bruno. Per la qual cosa,
essendovi la giovane venuta54, avendo Bruno prima con
Filippo e con lei ordinato quello che fosse da fare, disse
a Calandrino: «Vedi, sozio, questa donna m’ha ben mille volte promesso di dover far ciò che tu vorrai, e poscia
non ne fa nulla, e parmi che ella ci meni per lo naso; e
per ciò, poscia che ella nol fa come ella promette, noi
gliele farem fare o voglia ella o no, se tu vorrai».
44
Rispose Calandrino: «Deh! sì, per l’amor di Dio, facciasi tosto».
41
49
cosucce, bazzecole: ed erano proprio i doni più comuni fra
amanti: cfr. III 3,26.
50
falsi, d’oro falso.
51
piccoli inviti, piccole gentilezze: cfr. VIII 9,73.
52
Una delle solite concordanze a senso del participio passato:
cfr. VIII 7,41 n.
53
potrebbe: cfr. I 1,51 n.
54
essendo la giovane venuta ivi, in quella casa a Camerata.
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Disse Bruno: «Dratti55 egli il cuore di toccarla con
un brieve56 che io ti darò?»
Disse Calandrino: «Sì bene57».
«Adunque,» disse Bruno «fa che tu mi rechi un poco di carta non nata58 e un vispistrello59 vivo e tre granella d’incenso e una candela benedetta, e lascia far me».
Calandrino stette tutta la sera vegnente con suoi artifici60 per pigliare un vispistrello, e alla fine presolo, con
l’altre cose il portò a Bruno. Il quale, tiratosi in una camera, scrisse in su quella carta certe sue frasche con alquante cateratte61, e portogliele e disse: «Calandrino,
sappi che se tu la toccherai con questa scritta, ella ti
verrà incontanente dietro e farà quello che tu vorrai. E
però, se Filippo va oggi in niun luogo, accostaleti in
qualche modo e toccala, e vattene nella casa della paglia62 ch’è qui dallato, che è il miglior luogo che ci sia,
55
Sincope insolita nel B., poiché è caratteristica del toscano occidentale, lucchese specialmente (S. PIERI, Appunti morfologici, in
«Arch. Glottologico Italiano», XII, 1890-93, p. 166).
56
Cfr. 1 n.
57
Sì certo, Sì davvero: III 8,56 n.
58
«Carta fatta di pelle d’animale tratto dal ventre della madre
innanzi ch’e’ nasca» (T.). Cfr. Statuto Arte della Lana di Siena (T.):
«... per cagione de’ brevi e di scritture che si fanno ne’ carte non
nate».
59
pipistrello: questo e i seguenti sono elementi soliti in queste
fatture: cfr. per es. Passavanti, Specchio, pp. 372 sgg. (Dell’altra
scienza diabolica).
60
trappole, congegni: II 9,25 n.
61
certe sue sciocchezze con alquanti caratteri magici: III 3,26 n.;
VIII 7,64 n.
62
capanna di paglia, pagliaio: per questa costruzione del complemento di materia cfr. I 1,87 n.
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per ciò che non vi bazzica mai persona; tu vedrai che ella vi verrà; quando ella v’è, tu sai ben ciò che tu t’hai a
fare63».
Calandrino fu il più lieto uomo del mondo, e presa
la scritta, disse: «Sozio, lascia far me».
Nello, da cui Calandrino si guardava, avea di questa
cosa quel diletto che gli altri, e con loro insieme teneva
mano a beffarlo; e per ciò, sì come Bruno gli aveva ordinato, se n’andò a Firenze alla moglie di Calandrino, e
dissele: «Tessa, tu sai quante busse Calandrino ti diè
senza ragione il dì che egli ci64 tornò con le pietre di Mugnone, e per ciò io intendo che tu te ne vendichi, e se tu
nol fai, non m’aver mai né per parente né per amico 65.
Egli si s’è innamorato d’una donna colassù, ed ella è tanto trista66 che ella si va rinchiudendo assai spesso con essolui: e poco fa si dieder la posta67 d’essere insieme via
via68, e per ciò io voglio che tu vi venga e vegghilo e gastighil bene».
Come la donna udì questo, non le parve giuoco69, ma
63
Per l’antica tradizione di simili incantesimi cfr. J. G. FRAZER, The golden bough, I 3.
64
a casa: cfr. VIII 3.
65
Espressione solita a indicare inimicizia feroce: cfr. III 7,72 n.;
V 3,6 n.
66
Cfr. 8 n.
67
s’accordarono, si diedero appuntamento: IX 7,10 n.
68
tra poco: Purg., VIII 39: «Per lo serpente che verrà vie via».
69
non le parve uno scherzo, cioè prese la cosa sul serio.
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57
levatasi in piè cominciò a dire: «Ohimè! ladro piuvico70,
fa’mi tu questo? Alla croce di Dio71, ella72 non andrà così, che io non te ne paghi».
E preso suo mantello e una feminetta in compagnia,
vie più che di passo73 insieme con Nello lassù n’andò. La
qual come Bruno vide venire di lontano, disse a Filippo:
«Ecco l’amico nostro».
Per la qual cosa Filippo andato colà dove Calandrino e gli altri lavoravano, disse: «Maestri, a me conviene
andare testé a Firenze: lavorate di forza»; e partitosi,
s’andò a nascondere in parte che egli poteva, senza esser
veduto, veder ciò che facesse Calandrino74.
Calandrino, come credette che Filippo alquanto dilungato75 fosse, così se ne scese nella corte, dove egli
trovò sola la Niccolosa, ed entrato con lei in novelle, ed
ella, che sapeva ben ciò che a fare aveva, accostataglisi,
un poco di più dimestichezza che usata non era gli fece,
donde76 Calandrino la toccò con la scritta; e come tocca
l’ebbe, senza dir nulla volse i passi ver so la casa della
paglia, dove la Niccolosa gli andò dietro; e, come dentro
fu, chiuso l’uscio, abbracciò Calandrino, e in su la paglia
che era ivi in terra il gittò, e saligli addosso a cavalcione,
e tenendogli le mani in su gli omeri, senza lasciarlosi ap-
70
notorio, pubblico (piubico): espressione e insulto dell’uso, indirizzato anche da Dante a Forese (Rime, LXXVII 8: «piuvico ladron»).
71
Deprecazione ricorsa sulle labbra di altre donne irate del D.:
VII 8,45 n.
72
La faccenda, la cosa.
73
Cioè di corsa: cfr. Amorosa Visione, XVIII 26.
74
Due endecasillabi di seguito segnano il momento culminante
dell’attesa.
75
allontanato: cfr. V 3,10 e 37.
76
onde, per la qual cosa.
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pressare al viso, quasi come un suo gran disidero il guardava dicendo: «O Calandrino mio dolce, cuor del corpo
mio, anima mia, ben mio, riposo mio77, quanto tempo ho
io desiderato d’averti e di poterti tenere a mio senno!
Tu m’hai con la piacevolezza tua tratto il filo della camiscia78; tu m’hai agratigliato79 il cuore colla tua ribeba;
può egli esser vero che io ti tenga?»
Calandrino, appena potendosi muover, diceva:
«Deh! anima mia dolce, lasciamiti baciare».
La Niccolosa diceva: «O tu hai la gran fretta! lasciamiti prima vedere a mio senno; lasciami saziar gli occhi
di questo tuo viso dolce!»
Bruno e Buffalmacco n’erano andati da Filippo, e
tutti e tre vedevano e udivano questo fatto. Ed essendo
già Calandrino per voler pur la Niccolosa baciare, e80 ecco giugner Nello con monna Tessa, il quale come giunse, disse: «Io fo boto a Dio81 che sono insieme»; e
all’uscio della casa pervenuti, la donna, che arrabbiava82,
datovi delle mani83, il mandò oltre, ed entrata dentro vide la Niccolosa addosso a Calandrino; la quale, come la
77
Sequenza di appellativi popolareschi tenerissimi, ritmati e rimati, il cui tono caricaturato ricorda particolarmente messer Ricciardo e le sue goffe insistenze amorose (II 10,30 n. e 35,36).
78
mi hai fatto piegare al tuo desiderio, puoi ottenere da me ciò che
vuoi: espressione immaginosamente popolaresca.
79
incatenato: altra voce popolaresca, armonica al tono enfatico e
caricaturale di tutte le parole della Niccolosa: cfr. Pataffio, I 33.
80
È usata, come altra volta, la congiunzione in ripresa, dopo gerundio, a indicare istantaneità nella successione delle azioni: Intr.,
78 n.
81
Il solito giuramento concitato: VII 6,16 n.
82
ardeva di rabbia, fremeva tutta di stizza.
83
spintolo colle mani.
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donna vide, subitamente levatasi, fuggì via e andossene
là dove era Filippo.
Monna Tessa corse con l’unghie nel84 viso a Calandrino, che ancora levato non era, e tutto gliele graffiò e
presolo per li capelli, e in qua e in là tirandolo, cominciò
a dire: «Sozzo can vituperato85, dunque mi fai tu questo?
Vecchio impazzato, che maladetto sia il ben che io t’ho
voluto; dunque non ti pare avere tanto a fare a casa tua,
che ti vai innamorando per l’altrui? Ecco bello innamorato! Or non ti conosci tu, tristo? Non ti conosci tu, dolente86? che premenloti tutto, non uscirebbe tanto sugo
che bastasse ad una salsa87? Alla fè di Dio, egli non era
ora la Tessa quella che t’impregnava88, che Dio la faccia
trista chiunque ella è, che ella dee ben sicuramente esser
cattiva cosa ad aver vaghezza di così bella gioia come tu
se’».
Calandrino, vedendo venir la moglie, non rimase né
morto né vivo89, né ebbe ardire di far contro di lei difesa
alcuna; ma pur così graffiato e tutto pelato e rabbuffato,
ricolto il cappuccio suo e levatosi, cominciò umilmente
a pregar la moglie che non gridasse, se ella non volesse
che egli fosse tagliato tutto a pezzi, per ciò che colei che
84
contro il: II 1,31 n. Tutta la scena ricorda il trattamento fatto
altra volta da Calandrino a monna Tessa (VIII 3,52 sgg.; e anche
VII 8,19), quasi contrappasso.
85
Espressione violenta, già usata in un caso simile da Catella: III
6,34.
86
tristo, malnato: V 10,9 n.
87
Simile espressione ingiuriosa ed equivoca aveva usato Bartolomea col vecchio e striminzito marito (II 10,40 n.).
88
Cfr. IX 3, particolarmente 21 n.
89
Cioè rimase così stordito, confuso, che non sapeva se era vivo o
morto: Inf., XXXIV 25: «Io non mori’ e non rimasi vivo».
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con lui era, era moglie del signor della casa. La donna
disse: «Sia, che Iddio le dea il malanno».
Bruno e Buffalmacco, che con Filippo e con la Nic66
colosa avevan di questa cosa riso a lor senno, quasi al romor venendo90, colà trassero, e dopo molte novelle rappacificata la donna, dieron per consiglio a Calandrino
che a Firenze se n’andasse e più non vi91 tornasse, acciò
che Filippo, se niente di questa cosa sentisse, non gli fa67 cesse male. Così adunque Calandrino tristo e cattivo92,
tutto pelato e tutto graffiato a Firenze tornatosene, più
colassù non avendo ardir d’andare, il dì e la notte molestato e afflitto dai rimbrotti della moglie, al suo fervente
amor pose fine, avendo molto dato da ridere a’suoi compagni e alla Niccolosa e a Filippo. –
90
come se accorressero per il chiasso (Quaglio).
colà, a Camerata.
92
afflitto e misero, sciagurato. Riprende, con ritmi e assonanze
caricaturali la sequenza di aggettivi già prima fatti giocare attorno a
Calandrino (e cfr. IX 7,13 n.). E del resto in quest’ultima novella
su Calandrino sono riprese in certo modo le altre tre che lo avevano avuto protagonista (la VIII 3 al 52, la VIII 6 al 53, la IX 3 al 64).
91
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NOVELLA SESTA
1
Due giovani albergano con uno1, de’quali l’uno si va a giacere
con la figliuola, e la moglie di lui disavvedutamente si giace con
l’altro. Quegli che era con la figliuola, si corica col padre di lei
e dicegli ogni cosa, credendosi dire al compagno. Fanno romore insieme. La donna, ravvedutasi, entra nel letto della figliuola, e quindi con certe parole ogni cosa pecefica2.
2
Calandrino, che altre volte la brigata aveva fatta ridere, similmente questa volta la fece; de’ fatti del quale
poscia che le donne si tacquero, la reina impose a Panfilo che dicesse, il quale disse:
– Laudevoli donne, il nome della Niccolosa amata
da Calandrino m’ha nella memoria tornata una novella3
d’un’altra Niccolosa, la quale di raccontarvi mi piace,
3
1
presso un tale.
Tra i fabliaux, uno di Jean de Boves, De Gombert et des deux
clers (o L’Hotel St. Martin) e specialmente uno anonimo Le meunier et les deux clers (Recueil général, I 22; V 119) possono apparire
chiaramente quali antecedenti della novella boccacciana, pur con
varie divergenze di trama e di particolari, e con tono del tutto diverso. Tale intrigo è anche narrato sotto il titolo D’Estula et de
l’anel de la paelle (Recueil cit., V 96); e un altro, assai più divergente, appare nella raccolta dell’Hagen (Gesammtabenteuer III, LV; e
anche III, pp. XIX sgg.). Si tratta evidentemente di tema assai popolare e diffuso, che poi sarà ripreso anche da Chaucer (Reeve’s
Tale) e dalla novellistica: cfr. BÉDIER, op. cit., p. 463; Aarne,
1363; Thompson e Rotunda, K 1345; DI FRANCIA, art. cit., 1907;
H. VARNHAGEN, Die Erzählung von der Wiege in «Englische
Studien», IX, 886; M. LANGE, Vom Fabliau zu B. und Chaucher,
Hamburg 1935.
3
Uno di quei legami meccanici tra novella e novella già altra
volta notati e che qui è introdotto con parole ricorse nella VII 3,3.
2
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5
6
per ciò che in essa vedrete un subito avvedimento4 d’una
buona donna avere un grande scandalo tolto via.
Nel pian di Mugnone5 fu, non ha guari, un buon uomo, il quale a’ viandanti dava pe’lor danari mangiare e
bere; e come che povera persona fosse e avesse piccola
casa, alcuna volta per un bisogno grande6, non ogni persona, ma alcun conoscente albergava. Ora aveva costui
una sua moglie assai bella femina, della quale aveva due
figliuoli; e l’uno7 era una giovanetta bella e leggiadra,
d’età di quindici o di sedici anni, che ancora marito non
avea8; l’altro era un fanciul piccolino, che ancora non
aveva uno anno, il quale la madre stessa allattava.
Alla giovane aveva posto gli occhi addosso un giovanetto leggiadro e piacevole e gentile uomo della nostra
città, il quale molto usava per la contrada, e focosamente l’amava9. Ed ella, che d’esser da un così fatto giovane
amata forte si gloriava10, mentre di ritenerlo con piacevoli sembianti nel suo amor si sforzava, di lui similmente
s’innamorò; e più volte per grado11 di ciascuna delle par-
4
improvviso, tempestivo accorgimento.
Il fiumicello già nominato alla VIII 3: la valle del Mugnone si
percorre uscendo da Firenze verso la Romagna.
6
Cioè: in caso di necessità estrema.
7
Accordato con f i g l i u o l i, come nella IV 4,4: «ebbe due figliuoli, l’uno maschio ... l’altro femina».
8
Solita età canonica per il matrimonio delle fanciulle e solito
rimprovero indiretto ai genitori che ne ritardano le nozze: II 6,35
n.; IV 5,4 n.; VI intr., 9 n.
9
«Nota de’ lacciuoli d’amore, che mentre ch’una donna ha vaghezza d’esser guatata, molte volte piacevolegiando si truova intinta» (M.).
10
Sentimento analogo a quello del palafreniere innamorato di
Teodolinda ed espresso con parole simili: III 2,7.
11
con piacere, con gradimento.
5
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8
9
ti avrebbe tale amore avuto effetto12, se Pinuccio (che
così aveva nome il giovane non avesse schifato13 il biasimo della giovane e ’l suo. Ma pur, di giorno in giorno
multiplicando14 l’ardore, venne disidero a Pinuccio di
doversi pur con costei ritrovare, e caddegli nel pensiero
di trovar modo di dover col padre albergare, avvisando,
sì come colui che la disposizion della casa della giovane
sapeva, che, se questo facesse, gli potrebbe venir fatto
d’esser con lei, senza avvedersene persona; e co me
nell’animo gli venne, così senza indugio mandò ad effetto.
Esso, insieme con un suo fidato compagno chiamato
Adriano15, il quale questo amor sapeva, tolti una sera al
tardi due ronzini a vettura16 e postevi su due valigie, forse piene di paglia, di Firenze uscirono, e presa una lor
volta17, sopra il pian di Mugnone cavalcando pervennero, essendo già notte; e di quindi, come se di Romagna
tornassero, data la volta18, verso le case se ne vennero, e
alla casa del buon uom picchiarono; il quale, sì come colui che molto era dimestico di ciascuno, aperse la porta
prestamente. Al quale Pinuccio disse: «Vedi, a te conviene stanotte albergarci: noi ci credemmo dover potere
12
Espressione canonica, quasi una formula: per es. II 6,36; e cfr.
VII 7,25 n.
13
non avesse voluto evitare, non avesse temuto.
14
accrescendosi: II 1,19 n.
15
Fra conoscenti del B. troviamo proprio un Adriano e una
Niccolosa: TORDI, Gli inventari ecc., p. 71, n. 5.
16
a nolo: VI 5,9 n.; IX 5,8 n.
17
e fatto un giro: VIII 8,18 n.: «data una sua volta» (come qui
più sotto, 9).
18
invertita la direzione.
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13
entrare in Firenze, e non ci siamo sì saputi studiare19,
che noi non siam qui pure a così fatta ora, come tu vedi,
giunti».
A cui l’oste rispose: «Pinuccio, tu sai bene come io
sono agiato di20 poter così fatti uomini come voi siete albergare; ma pur, poi che questa ora v’ha qui sopraggiunti, né tempo ci è da potere andare altrove, io v’albergherò volentieri com’io potrò».
Ismontati adunque i due giovani e nello alberghetto
entrati, primieramente i loro ronzini adagiarono21, e appresso, avendo ben seco portato da cena, insieme con
l’oste cenarono. Ora non avea l’oste che una cameretta
assai piccola, nella quale eran tre letticelli messi come il
meglio l’oste avea saputo, né v’era per tutto ciò tanto di
spazio rimaso, essendone due dall’una delle facce della
camera e ’l terzo di rincontro a quegli dall’altra, che altro che strettamente andar vi si potesse. Di questi tre letti fece l’oste il men cattivo acconciar per li due compagni, e fecegli coricare; poi dopo alquanto, non
dormendo alcun di loro, come che di dormir mostrassero, fece l’oste nell’un de’due che rimasi erano coricar la
figliuola, e nell’altro s’entrò egli e la donna sua; la quale
allato del letto dove dormiva pose la culla nella quale il
suo piccolo figlioletto teneva.
E essendo le cose in questa guisa disposte, e Pinuccio avendo ogni cosa veduta, dopo alquanto spazio, parendogli che ogn’uomo addormentato fosse, pianamente levatosi se n’andò al letticello dove la giovane amata
da lui si giaceva, e miselesi a giacere allato; dalla quale,
19
curare e qui affrettare: IX 8,26 n.
tu sai bene se io sono in buone condizioni, tali da ..., se io ho
buone possibilità da ...: cfr. I 1,18 n.; Novellino, XLVI: «io non sono sì agiato ch’io gli potessi nutricare».
21
sistemarono, misero a posto: IV 3,11 n.; X 9,15 n.
20
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ancora che paurosamente il facesse, fu lietamente raccolto, e con essolei di quel piacere che più disideravano
prendendo si stette. E standosi così Pinuccio con la giovane, avvenne che una gatta22 fece certe cose cadere, le
quali la donna destatasi sentì; per che levatasi23 temendo
non fosse altro, così al buio come era, se n’andò là dove
sentito avea il romore. Adriano, che a ciò non avea l’animo, per avventura per alcuna opportunità natural24 si
levò, alla quale espedire andando25, trovò la culla postavi
dalla donna, e non potendo senza levarla oltre passare,
presala la levò del luogo dove era, e posela allato al letto
dove esso dormiva; e fornito quello per che levato s’era
e tornandosene, senza della culla curarsi, nel letto se
n’entrò.
La donna, avendo cerco e trovato che quello che caduto era non era tal cosa26, non si curò d’altrimenti accender lume per vederlo, ma, garrito alla gatta27, nella
cameretta se ne tornò, e a tentone dirittamente al letto
dove il marito dormiva se n’andò. Ma, non trovandovi la
culla, disse seco stessa: «Ohimè, cattiva me28, vedi quel
che io faceva! In fè di Dio, che io me n’andava dirittamente nel letto degli osti29 miei»; e, fattasi un poco più
22
Usato il femminile, come di solito: V 10,20 n.
La ripetizione del participio sottolinea che la donna se ne va
nuda come si era alzata di balzo.
24
bisogno naturale, fisico.
25
andando a sbrigare (cioè soddisfare) la quale: I 4,2 n.; VI 2,18
n.
26
non era ciò che credeva, o non era cosa importante. «Dicit testus, male ut credo» (M.).
27
sgridata la gatta: participio assoluto.
28
povera me, misera me. È questo uno dei passi più strettamente
simile al fabliau citato.
29
ospiti: sostantivo che aveva (e lo ha ora ospite) senso passivo,
come qui, o attivo come al 18: V 9,22 n.
23
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avanti e trovando la culla, in quello letto al quale ella era
allato insieme con Adriano si coricò. credendosi col marito coricare. Adriano, che ancora raddormentato non
era, sentendo questo, la ricevette e bene e lietamente, e
senza fare altramenti motto, da una volta in su caricò
l’orza30 con gran piacer della donna.
E così stando, temendo Pinuccio non il sonno con la
sua giovane il soprapprendesse31, avendone quel piacer
preso che egli desiderava, per tornar nel suo letto a dormire le si levò dallato, e là venendone, trovando la culla,
credette quello essere quel dell’oste; per che, fattosi un
poco più avanti insieme con l’oste si coricò, il quale per
la venuta di Pinuccio si destò. Pinuccio, credendosi essere allato ad Adriano, disse: «Ben ti dico che mai sì dolce cosa non fu come è la Niccolosa32: al corpo di Dio, io
ho avuto con lei il maggior diletto che mai uomo avesse
con femina, e dicoti che io sono andato da sei volte in su
in villa33, poscia che io mi partì quinci».
L’oste, udendo queste novelle e non piacendogli
troppo, prima disse seco stesso: «Che diavol fa costui
qui?» Poi, più turbato che consigliato, disse: «Pinuccio,
la tua è stata una gran villania, e non so perché tu mi
t’abbi a far questo; ma, per lo corpo di Dio34, io te ne pagherò».
30
Espressione marinaresca (che vale tirare la corda che si lega
nel capo dell’antenna dalla parte dove soffia il vento, e figuratamente riempire soverchiamente) volta qui equivocamente a significato
sessuale.
31
sorprendesse: II 2,16 n.
32
Endecasillabo e decasillabo rimati.
33
Altra espressione equivoca: «par VII foiz l’ai anuit corbée»
dice il fabliau, anche in questo passo strettamente simile.
34
Solita imprecazione minacciosa: VII 6,18 n.: simile, ma con
valore esclamativo al 19.
Letteratura italiana Einaudi 1269
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25
26
Pinuccio, che non era il più savio giovane del mondo, avveggendosi del suo errore, non ricorse35 ad emendare come meglio avesse potuto, ma disse: «Di che mi
pagherai? Che mi potrestù fare tu36?»
La donna dell’oste, che col marito si credeva essere,
disse ad Adriano: «Ohimè! Odi gli osti nostri che hanno
non so che parole insieme».
Adriano ridendo disse: «Lasciali fare, che Iddio gli
metta in malanno37: essi bevver troppo iersera».
La donna, parendole avere udito il marito garrire e
udendo Adriano, incontanente conobbe là dove stata
era e con cui; per che, come savia, senza alcuna parola
dire, subitamente si levò, e presa la culla del suo figlioletto, come che punto lume nella camera non si vedesse,
per avviso38 la portò allato al letto dove dormiva la figliuola, e con lei si coricò; e quasi desta fosse per lo rumore del marito, il chiamò e domandollo che parole egli
avesse con Pinuccio. Il marito rispose: «Non odi tu ciò
ch’e’dice che ha fatto stanotte alla Niccolosa?»
La donna disse: «Egli mente bene per la gola39, ché
con la Niccolosa non è egli giaciuto, ché io mi ci coricai
io in quel punto, che io non ho mai poscia potuto dor-
35
si rivolse, corse.
Ripetizione del pronome non insolita nel discorso diretto eccezionalmente concitato: VI intr., 14 n.
37
li maledica.
38
secondo quanto poteva indovinare, immaginare; secondo la sua
opinione, congettura: Comedia, XXVI 8 sg.: «un suo giardino ... secondo l’avviso dell’occhio, corrente per tutte le parti presto, era
quadro, di bella grandezza».
39
Modo corrente di smentire energicamente: II 1,27 n.
36
Letteratura italiana Einaudi
1270
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28
29
mire40; e tu se’una bestia che egli credi. Voi bevete tanto
la sera, che poscia sognate la notte e andate in qua e in là
senza sentirvi41, e parvi far maraviglie: egli è gran peccato che voi non vi fiaccate il collo! Ma che fa egli costì Pinuccio? Perché non si sta egli nel letto suo?»
D’altra parte Adriano, veggendo che la donna saviamente la sua vergogna e quella della figliuola ricopriva42,
disse: «Pinuccio, io te l’ho detto cento volte che tu non
va da attorno, ché questo tuo vizio del levarti in sogno e
di dire le favole che tu sogni per vere ti daranno una volta la mala ventura: torna qua, che Dio ti dea la mala notte!»
L’oste, udendo quello che la donna diceva e quello
che diceva Adriano, cominciò a creder troppo bene che
Pinuccio sognasse; per che, presolo per la spalla, lo
’ncominciò a dimenare43 e a chiamar, dicendo: «Pinuccio, destati; tornati al letto tuo».
Pinuccio, avendo raccolto44 ciò che detto s’era, cominciò a guisa d’uom che sognasse ad entrare in altri
farnetichi45; di che l’oste faceva le maggior risa del mondo. Alla fine, pur sentendosi dimenare, fece sembiante
di destarsi, e chiamando Adrian, disse: «E’ egli ancora46
dì, che tu mi chiami?»
40
mi coricai qui, nel suo letto (c i), in un momento dopo il quale
io non ho mai potuto dormire. Nota l’affermazione che si presta
all’equivoco, e l’insistenza su i o quasi a dare maggiore forza
all’affermazione stessa.
41
senza risentirvi, senza svegliarvi: IV 10,1 n.
42
Saviezza simile a quella di Agilulfo (III 2,29 sgg.); e cfr. IX
2,18 n.
43
scuotere, scrollare: II 5,41 n.
44
compreso: I 5,16 n.
45
vaneggiamenti: cfr. VIII 3,43 n.
46
già: IV 8,17 n.
Letteratura italiana Einaudi 1271
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
Adriano disse: «Sì, vienne qua».
Costui, infignendosi47 e mostrandosi ben sonnocchioso, al fine si levò d’allato all’oste e tornossi al letto
con Adriano. E, venuto il giorno e levatisi, l’oste inco32 minciò a ridere e a farsi beffe di lui e de’ suoi sogni. E
così d’uno in altro motto acconci i due giovani i lor ronzini48 e messe le lor valigie e bevuto con l’oste, rimontati
a cavallo49 se ne vennero a Firenze, non meno contenti
del modo in che la cosa avvenuta era, che dello effetto
33 stesso della cosa. E poi appresso, trovati altri modi, Pinuccio con la Niccolosa si ritrovò, la quale alla madre affermava lui fermamente aver sognato. Per la qual cosa la
donna, ricordandosi dell’abbracciar d’Adriano, sola seco diceva d’aver vegghiato50. –
30
31
47
dissimulando, fingendo di ignorare tutto quanto era accaduto:
II 10,18 n.
48
avendo i due giovani approntati, sellati i loro ronzini: cfr. IX
4,13 n.: per il participio accorciato o aggettivo verbale cfr. VI 4,6 n.
49
«Alle consequenzie» (M.).
50
d’essere stata sveglia.
Letteratura italiana Einaudi
1272
NOVELLA SETTIMA
1
Talano d’Imole sogna che uno lupo squarcia tutta la gola e ’l
viso alla moglie; dicele che se ne guardi; ella nol fa, e avvienle1.
2
Essendo la novella di Panfilo finita e l’avvedimento
della donna commendato da tutti, la reina a Pampinea
disse che dicesse la sua, la quale allora cominciò:
– Altra volta, piacevoli donne, delle verità dimostrate da’ sogni, le quali molte scherniscono, s’è fra noi ragionato2; e però, come che detto ne sia, non lascerò io
che con una novelletta assai brieve io non vi narri quello
che ad una mia vicina, non è ancor guari, addivenne, per
non crederne uno di lei3 dal marito veduto.
Io non so se voi vi conosceste Talano d’Imolese4, uo-
3
4
1
Nessun precedente diretto e documentato: ma racconti di
donne ostinate e ritrose, che, malgrado gli avvertimenti, fanno
un’azione che torna loro fatale, sono assai comuni in tutte le letterature: dalla francese (Le pré tondu: BÉDIER, op. cit., pp. 45 sgg.,
125, 467) alla tedesca e alla russa (LANDAU, pp. 160 sgg.), e alle
più diverse forme popolaresche e narrative (Thompson, M 341.2.6;
T 251 sgg., 254.2; Rotunda, J 652, T 255.7*). E sono correnti anche nei repertori di exempla e nella predicazione (cfr. F. C. TUBACH, Index exemplorum, Helsinki 1969, s. v. wife). Il Manni (p.
533) riferisce un caso simile narrato a proposito della moglie di Pio
Enea degli Obizzi.
2
Cfr. per es. IV 5,12 sgg. n.; IV 6,3 sgg. n.
3
per non credere a un sogno che la riguardava.
4
Esisteva in quei secoli a Firenze una famiglia Imolese o da
Imola o Imole (cfr. per es. Archivio di Firenze, Spogli Ancisa; MONALDI, Diario, Firenze 1733, p. 322; O. BRATTÖ, Nuovi studi
cit., p. 137). Talano è accorciatura di Catalano, nome non raro nella Firenze del tempo.
Letteratura italiana Einaudi 1273
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
5
6
mo assai onorevole. Costui, avendo5 una giovane chiamata Margarita, bella tra tutte l’altre, per moglie presa,
ma sopra ogni altra bizzarra, spiacevole e ritrosa6, intanto che7 a senno di niuna persona voleva fare alcuna cosa,
né altri far la poteva a suo; il che8 quantunque gravissimo fosse a comportare9 a Talano, non potendo altro fare, sel sofferiva10.
Ora avvenne una notte, essendo Talano con questa
sua Margarita in contado ad una lor possessione, dormendo egli, gli parve11 in sogno vedere la donna sua andar per un bosco assai bello, il quale essi non guari lontano alla lor casa avevano; e mentre così andar la vedeva,
gli parve che d’una parte del bosco uscisse un grande e
fiero12 lupo, il quale prestamente s’avventava alla gola di
5
Un altro esempio di gerundio dove metteremmo un imperfetto, aveva (III 7,87 n.).
6
stizzosa, sgarbata e scontrosa. Anche della Cesca da Celatico il
B. aveva scritto «spiacevole, sazievole e stizzosa che alcuna altra,
che a sua guisa niuna cosa si potea fare» (VI 8,5): le due definizioni
simili si compongono anche in ritmi simili. E cfr. I 6,20 n.; V 4,23
n.; VII 6,6 n. E per b i z z a r r a cfr. I 6,20 n.
7
a tal punto che.
8
«Ripiglia sinteticamente, secondo un frequente modulo della
sintassi parlata (numerosi casi, per es., nel Cellini), le precedenti
proposizioni subordinate, considerate nel loro complesso come un
solo complemento oggetto: e questo fatto, queste condizioni’»
(Marti). Cfr. anche Mussafia, pp. 466 sgg.
9
sopportare: III 1,41 n.
10
Secondo la solita bonaria filosofia del B. di fronte all’inevitabile: II 8,67 n.; III 5,43 n.
11
Nota la soppressione del c h e (che dovrebbe dipendere da
avvenne e reggere g l i p a r v e ) «per cui si cambia, per effetto di
evidenza, un discorso indiretto e subordinato in diretto» (Zingarelli); e l’insistenza in tutto questo periodo su p a r v e, come in
un’altra descrizione di sogno assai simile a questo (IV 6,14 n.).
12
Come «grandi e fieri» erano i mastini della visione infernale
di Nastagio (V 8, 16).
Letteratura italiana Einaudi
1274
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
7
8
9
costei e tiravala in terra, e lei gridante13 aiuto si sforzava
di tirar via, e poi di bocca uscitagli, tutta la gola e ’l viso
pareva l’avesse guasto14. Il quale, la mattina appresso levatosi, disse alla moglie: «Donna, ancora che la tua ritrosia15 non abbia mai sofferto che io abbia potuto avere un
buon dì con teco, pur sarei dolente quando mal t’avvenisse; e per ciò, se tu crederrai al mio consiglio, tu non
uscirai16 oggi di casa»; e domandato da lei del perché,
ordinatamente le contò il sogno suo.
La donna, crollando il capo, disse: «Chi mal ti vuol,
mal ti sogna17; tu ti fai18 molto di me pietoso, ma tu sogni
di me quello che tu vorresti vedere; e per certo io me ne
guarderò e oggi e sempre di non farti né di questo né
d’altro mio male mai allegro».
Disse allora Talano: «Io sapeva bene che tu dovevi
dir così, per ciò che tal grado ha chi tigna pettina19; ma
credi che ti piace20; io per me il dico per bene, e ancora
13
Costruzione latineggiante, col participio in funzione d’attributo (X 7,45 n.), efficacissima.
14
rovinato, straziato: IV 10,9 n. e meglio Inf., XXXIII 3.
15
scontrosità, sgarberia: cfr. r i t r o s a al 4 e n.
16
È usato il futuro, invece dell’imperativo, certo per non irritare
quella donna scontrosissima.
17
Evidentemente detto popolare: cfr. K. LANDAUER, «Chi
mal ti vuol mal ti sogna». Ein Traum und Deutung in D., in «Psychoanalytische Bewegung», I, 1929; GIUSTI, Raccolta di proverbi
toscani, p. 167.
18
ti mostri: cfr. Inf., I 135.
19
per ciò che tale gratitudine si guadagna chi si mette a pettinare
un tignoso (perché procura a lui dolore, e a sé schifo): cfr. Inf.,
XXII 92 sg.: «i’ temo ch’ello | Non s’apparecchi a grattarmi la tigna».
20
credi pure qualunque cosa ti piace.
Letteratura italiana Einaudi 1275
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
da capo te ne consiglio, che tu oggi ti stea in casa o almeno ti guardi d’andare nel nostro bosco».
La donna disse: «Bene, io il farò»; e poi seco stessa
10
cominciò a dire: «Hai veduto come costui maliziosamente si crede avermi messa paura d’andare oggi al bosco nostro? là dove egli per certo dee aver data posta a
qualche cattiva21, e non vuol che io il vi truovi. Oh, egli
avrebbe buon manicar co’ ciechi22, e io sarei bene sciocca se io nol conoscessi e se io il credessi! Ma per certo e’
non gli verrà fatto: e’convien pur che io vegga, se io vi
dovessi star tutto dì, che mercatantia23 debba esser questa che egli oggi far vuole».
E come questo ebbe detto, uscito il marito da una
11
parte della casa, e24 ella uscì dall’altra, e come più nascosamente poté, senza alcuno indugio, se n’andò nel bosco, e in quello nella più folta parte che v’era si nascose,
stando attenta e guardando or qua or là, se alcuna per12 sona venir vedesse. E mentre in questa guisa stava senza
alcun sospetto di lupo25, ed ecco vicino a lei uscir d’una
21
dato appuntamento a qualche mala femmina: VII 8,42 n. e anche IX 3, 52 n. e 64.
22
Modo proverbiale: egli mangerebbe volentieri coi ciechi, cui
potrebbe toglier dal piatto quello che volesse; cioè egli farebbe bene le sue cose se io fossi cieca, se io gli credessi e lo lasciassi fare.
Cfr. I 1,42 n.
23
che affare, in senso ironico e volgare, com’è tutto il linguaggio
di questa stizzosa, sempre proverbiosamente grossolano.
24
ed ecco: la solita congiunzione in ripresa dopo proposizione
temporale, col solito senso di successione istantanea: Intr., 78 n.; e
qui più sotto, 12, e e c c o.
25
apprensione, timore (IV 6,12 n.) di verun lupo. «Nota questa
preposizione d i con questo significato generale e indeterminato»
(Fanfani).
Letteratura italiana Einaudi
1276
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
13
14
macchia folta un lupo grande e terribile26, né poté ella,
poi che veduto l’ebbe, appena dire «Domine, aiutami27»,
che il lupo le si fu avventato28 alla gola, e presala forte, la
cominciò a portar via come se stata fosse un piccolo
agnelletto. Essa non poteva gridare, sì aveva la gola
stretta, né in altra maniera aiutarsi; per che, portandosenela il lupo, senza fallo strangolata l’avrebbe, se in certi
pastori non si fosse scontrato, li quali sgridandolo29 a lasciarla il costrinsero; ed essa misera e cattiva30, da’ pastori riconosciuta e a casa portatane, dopo lungo studio 31
da’ medici fu guarita, ma non sì, che tutta la gola e una
parte del viso non avesse per sì fatta maniera guasta,
che, dove prima era bella, non paresse poi sempre sozzissima e contrafatta32. Laonde ella, vergognandosi d’apparire dove veduta fosse, assai volte miseramente pianse
la sua ritrosia e il non avere, in quello che niente le costava, al vero33 sogno del marito voluto dar fede.
26
Prima, nel sogno (6), «grande e fiero».
Invocazione ricorsa già alle labbra di un’altra donna: VIII
8,30 n. e cfr. anche X 9,91.
28
Il trapassato remoto invece del passato è usato a indicare la
subitaneità: II 5,58 n.
29
gridando contro di lui.
30
Dittologia sinonimica (ché a t t i v a vale misera, infelice)
amata dal B. e ripetuta con variazioni minime in circostanze simili:
per es. VIII 9,100 n.; IX 5,67 n.; IX 8,29 n.; Amorosa Visione,
XXIV 34-35; e cfr. Inf., XXX 16: «Ecuba trista, misera e cattiva».
31
lunga cura: IV 5,19 n.
32
bruttissima e deforme: VI 5,4: «viso piatto e ricagnato ... sozzo»; IX 1,9: «sì contrafatto e di sì divisato viso».
33
veritiero: Filostrato, VII 27: «amaro | E vero sogno!».
27
Letteratura italiana Einaudi 1277
NOVELLA OTTAVA
1
Biondello fa una beffa a Ciacco d’un desinare, della quale
Ciacco cautamente si vendica faccendo lui sconciamente battere1.
2
Universalmente ciascuno della lieta compagnia disse
quello che Talano veduto avea dormendo non essere
stato sogno ma visione2, sì appunto, senza alcuna cosa
mancarne, era avvenuto. Ma, tacendo ciascuno, impose
la reina alla Lauretta che seguitasse, la qual disse:
– Come costoro, soavissime donne, che oggi davanti
a me hanno parlato, quasi tutti da alcuna cosa già detta
mossi sono stati a ragionare, così me muove la rigida3
vendetta ieri raccontata da Pampinea, che fe’ lo scolare,
a dover dire d’una assai grave a colui che la sostenne,
3
1
Nessun antecedente di questa novella tipicamente municipale,
in cui appaiono vari personaggi del mondo dantesco (e in cui forse,
come nella V 91 si profila la presenza di ricordi diretti di Coppo
Domenichi: cfr. qui 13 n.). Benvenuto da Imola, illustrando l’episodio di Filippo Argenti (Inf., VIII 31 sgg.), traduce quasi letteralmente gran parte di questa novella affermando essere avvenuto il
fatto «paulo ante expulsionem autoris» (cioè di Dante 1301); e così lo introduce: «Sed ut appareat clare qualiter iste canis rabidus
non potuerit pati aliquam contumeliam verborum etiam iocosam,
volo te scire novum iocum, per quod evidenter appareat eius natura clara displicenter». Notevole anche un sonetto, forse del secolo
XIV, di argomento gargantuesco, attribuito a Biondello e indirizzato a Ciacco: V. ROSSI, Noterelle d’erudizione spicciola, in
AA.VV., Dai tempi antichi ai tempi moderni, Milano 1904. E per la
tradizione nella novellistica cfr. Rotunda, J 1561.8*.
2
Cioe un’apparizione veritiera come quella di Lorenzo alla sua
Lisabetta: IV 5,14: «dando fede alla visione».
3
severa, inflessibile: II 5,53 n. L’allusione è alla VIII 7.
Letteratura italiana Einaudi
1278
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
4
quantunque non fosse per ciò tanto fiera. E per ciò dico
che, essendo in Firenze uno da tutti chiamato Ciacco4,
uomo ghiottissimo quanto alcun altro fosse giammai, e
non possendo la sua possibilità5 sostenere le spese che la
sua ghiottornia6 richiedea, essendo per altro assai costumato e tutto pieno di belli e di piacevoli motti, si diede
ad essere, non del tutto uom di corte, ma morditore7, e
4
È con ogni probabilità, il celebre goloso presentato nell’Inf.,
VI 38 sgg. Ciacco è, secondo antichi commentatori danteschi, soprannome dispregiativo (maiale); ma più probabilmente è abbreviazione di Giacomo o Jacopo, forse dal francese Jacques. Potrebbe
quindi essere la stessa persona di quel Ciacco dell’Anguillaia del
quale ci restano alcune rime (cfr. M. SCHERILLO, Il Ciacco della
Divina Commedia, in «Nuova Antologia», agosto e settembre
1901; V. ROSSI, Noterelle d’erudizione spicciola: I «Biondello a
Ciacco», in AA.VV., Dai tempi antichi ai tempi moderni già citato, e
rec. a A. DISPENZA, Ciacco ecc., in «Bull. Soc. Dantesca», XI,
1904; G. BERTONI, Il Duecento cit., p. 151; E. PASQUINI, in La
letteratura italiana. Storia e Testi, Bari 1970, I 11, pp. 129 sgg.). Di
lui narrano, come di un ghiottone famoso, i commentatori danteschi: e così il B. ampliando il primo periodo di questa novella, ma
ripetendone alla lettera alcune espressioni: «Fu costui uomo non
del tutto di corte; ma, per ciò che poco avea da spendere ed erasi,
come egli stesso dice, dato del tutto al vizio della gola era morditore e le sue usanze erano sempre co’ gentili uomini e ricchi, e massimamente con quelli che splendidamente e dilicatamente mangiavano e beveano, da’ quali se chiamato era a mangiare, v’andava, e
similmente, se invitato non era, esso medesimo s’invitava; ed era
per questo vizio notissimo uomo a tutti i Fiorentini. Senza che,
fuor di questo, egli era costumato uomo, secondo la sua condizione, ed eloquente e affabile e di buon sentimento; per le quali cose
era assai volentieri da qualunque gentile uomo ricevuto» (Esposizioni, VI litt. 25).
5
le sue facoltà, il suo patrimonio: II 7,115 n.
6
ghiottoneria: idiotismo toscano.
7
motteggiatore: V concl., 3 n.; VI 3,4 (in altro senso nella IV intr., 42). Opposizioni ripetuta nelle Esposizioni e per cui cfr. I 8,7
n.; Novellino, IV: Paolino «era a guisa di morditore» nelle corti;
Sacchetti, CXLIV: «uomini assai sollazzevoli ed erano mezzi cortigiani».
Letteratura italiana Einaudi 1279
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
5
6
ad usare con coloro che ricchi erano e di mangiare delle
buone cose si dilettavano; e con questi a desinare e a cena, ancor che chiamato8 non fosse ogni volta, andava assai sovente. Era similmente in quei tempi in Firenze
uno, il quale era chiamato Biondello9, piccoletto della
persona, leggiadro10 molto e più pulito che una mosca11,
con sua cuffia12 in capo, con una zazzerina bionda13 e per
punto14 senza un capel torto avervi, il quale15 quel medesimo mestiere usava che Ciacco.
Il quale essendo una mattina di quaresima andato là
dove il pesce si vende, e comperando due grossissime
8
invitato: cfr. VI 7,14 n.; e per l’uso cfr. qui 9 n.
Personaggio del tutto ignoto. Lo Zingarelli pensa si tratti di un
soprannome «perché era piccolo e biondo ...; molti giullari che
avevano un soprannome»: e cfr. 1 n.
10
azzimato, ricercato: cfr. VII 2,8 n.
11
Perché la mosca sembra che si ripulisca e si lisci continuamente colle sue zampine. «Il paragone poi è più grazioso perché
cade fra un parassito e una mosca, col quale animaletto anche i latini significavano talora questa specie di gente: vedi Plauto, Poenul.,
III 3,77» (Fornaciari).
12
Gli uomini la portavano raramente, ed era per questo indizio
di raffinatezza eccezionale (Merkel, p. 68). Anche il Sacchetti attribuisce «zazzera ... in cuffia» a due suoi personaggi bizzarri e motteggiatori, come Mazzeo e Basso della Penna (II e VI).
13
«Le miniature, gli affreschi, quando vogliono rappresentare
un bel giovane gli danno lunga e bionda zazzera» (Merkel).
14
a puntino, a pennello.
15
Si riferisce a Biondello.
9
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
7
lamprede16 per messer Vieri de’ Cerchi17, fu veduto da
Ciacco; il quale, avvicinatosi a Biondello, disse: «Che
vuol dir questo?»
A cui Biondello rispose: «Iersera ne furono mandate
tre altre, troppo più belle che queste non sono e uno
storione a messer Corso Donati18, le quali non bastando-
16
Evidentemente lamprede di mare (Petromyzon marinus) rinomate sul mercato fiorentino nel Trecento: cfr. Sacchetti,
CLXXXIII: e in generale L. MESSEDAGLIA, Di una novella di
Franco Sacchetti, in «Atti Istituto Veneto», CXI, 1953.
17
Vieri de’ Cerchi portò all’apice la potenza mercantile e politica della famiglia - originaria di Val di Sieve e inurbatasi nel secolo
XIII (Par., XVI 65) - e della consorteria, capeggiando il partito dei
guelfi bianchi. Dopo la vittoria dei Neri, mori in esilio, ad Arezzo,
attorno al 1305. È presentato dal Compagni come valoroso e magnanimo (I 10,13 e passim); dal Villani come generoso (VII 131 e
VIII 41), ma bizzarro e altero (VIII 39 e 49). Il B. scrive nelle Esposizioni (VI litt. 34): «messer Vieri de’ Cerchi, il quale era, come
detto è, capo della parte Bianca, e’ suoi consorti erano tutti ricchi e
agiati uomini, e per questo erano non solamente superbi e altieri,
ma egli erano salvatichetti intorno a’ costumi cittadineschi, per ciò
che non erano acostanti all’usanze degli uomini, né gli careggiavano, come per avventura faceva la parte avversa, la quale era più povera».
18
Corso Donati, chiamato per la fierezza dei suoi modi «il barone», capo del partito dei guelfi neri, esiliato per i tumulti del 1300,
ritornò nel 1301 con Carlo di Valois; e mentre già chiaramente
aspirava alla Signoria, fu ucciso nel 1308 dai suoi avversari dell’oligarchia mercantesca (Purg., XXIV 82 sgg.). Ne lasciò un superbo e
grandioso ritratto, II 20, e cfr. passim; e G. Villani, VII 114 sgg.;
VIII 39 sgg.); e così ne parla il B.: «Messer Corso, ... a rispetto di
messer Vieri era vero cavaliere, ed era grande spenditore; per che,
veggendo sé povero e messer Vieri ricco, gli portava invidia, come
suole avvenire ... E, oltre a ciò, v’era la preeminenzia dello stato, al
quale generalmente tutti coloro, che in istato non si vedevano, portavano invidia» (Esposizioni, VI litt. 47). Sono dunque, in questa
novella, di fronte, in atteggiamento signorile e munifico, i capi delle due fazioni che si disputavano il potere in Firenze; e sono evocati proprio accanto a Ciacco, come nell’Inf., VI e nelle relative Esposizioni del B.
Letteratura italiana Einaudi 1281
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
gli per voler dar mangiare a certi gentili uomini, m’ha
fatte comperare quest’altre due: non vi verrai tu?»
8
Rispose Ciacco: «Ben sai che io vi verrò19».
E quando tempo gli parve, a casa messer Corso20 se
9
n’andò, e trovollo con alcuni suoi vicini che ancora non
era andato a desinare. A quale egli, essendo da lui domandato che andasse faccendo, rispose: «Messere, io
vengo a desinar con voi e con la vostra brigata21».
A cui messer Corso disse: «Tu sie ‘l ben venuto, e
10
per ciò che egli è tempo, andianne».
Postisi dunque a tavola, primieramente ebbero del
11
cece e della sorra22, e appresso del pesce d’Arno fritto,
senza più23 Ciacco, accortosi dello ’nganno di Biondello
e in sé non poco turbatosene, propose di dovernel pagare24; né passar molti dì che egli in lui si scontrò, il qual
12 già molti aveva fatti ridere di questa beffa. Biondello, vedutolo, il salutò, e ridendo il domandò chenti25 la fosser
state le lamprede di messer Corso; a cui Ciacco rispondendo disse: «Avanti che otto giorni passino tu il saprai
molto meglio dir di me».
19
Stai pur certo che io vi verrò: b e n s a i e b e n s a p e t e furono usati come affermazioni.
20
Che era nel sesto di Porta San Piero; e cfr. II 5,50 n.
21
Il presentarsi senza essere invitati era costume non insolito a
questi scrocconi di mondo: come narra anche il Sacchetti di Ser
Ciolo (LI).
22
ventresca di tonno.
23
senza null’altro: II 3,37 n.
24
ripagare, ricambiare: VIII 3,52: «in fé di Dio io te ne pagherò».
25
di che specie, di che sapore: Intr., 55 n.
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14
E senza mettere indugio al fatto, partitosi da Biondello, con un saccente barattiere26 si convenne del prezzo, e datogli un bottaccio27 di vetro, il menò vicino della
loggia de’ Cavicciuli28, e mostrogli in quella un cavaliere
chiamato messer Filippo Argenti29, uomo grande e nerboruto e forte, sdegnoso, iracundo e bizzarro30 più che
altro, e dissegli: «Tu te ne andrai a lui con questo fiasco
in mano, e dira’gli così: ‘Messere, a voi mi manda Biondello, e mandavi pregando che vi piaccia d’arubinargli31
questo fiasco del vostro buon vin vermiglio, ch’e’si vuo-
26
furbo vagabondo, faccendiere: X 2,7 n.; Tesoretto, 731; e I 7,23
n.
27
fiasco, bottiglione: VII 3,10 n.
Era su corso Adimari, oggi via Calzaiuoli, dove avevan le loro
case i Cavicciuli-Adimari (l’«oltracotata schiatta»: Par., XVI 115).
29
Di Filippo Argenti degli Adimari dei Cavicciuli, immortalato
da Dante nell’VIII dell’Inferno, così parla il B., su ricordi dell’amico Coppo (cfr. V 9,4 n.): «Fu questo Filippo Argenti, secondo che
ragionar solea Coppo di Borghese Domenichi, de’ Cavicciuli, cavaliere ricchissimo, tanto che esso alcuna volta fece il cavallo, il quale
usava di cavalcare, ferrare d’ariento e da questo trasse il sopranome. Fu uomo di persona grande, bruno e nerboruto e di maravigliosa forza e, più che alcuno altro, iracundo, eziandio per qualunque menoma cagione. Né di sue opere più si sanno che queste due,
assai ciascuna per sé biasimevole» (Esposizioni, VIII litt. 68). E cfr.
Sacchetti, CXIV.
30
Aggettivi che ripetono la caratterizzazione dantesca e che sono ripresi nelle Esposizioni: e per bizzarro (Inf., VIII 62), stizzoso,
cfr. IX 7,4 n.
31
fargli rosso, del color del rubino: cioè di riempire col «buon
vin vermiglio». «Parola del linguaggio furbesco, detta per ischerzo.
Anche l’Allegri, 318: “E con un garbo ch’ha del signorile | Un tratto m’arrubina il trasparente», cioè il bicchiere” (Fornaciari).
28
Letteratura italiana Einaudi 1283
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le alquanto sollazzar con suoi zanzeri32’; e sta bene accorto che egli non ti ponesse33 le mani addosso, per ciò
che egli ti darebbe il mal dì34, e avresti guasti i fatti
miei».
Disse il barattiere: «Ho io a dire altro?»
Disse Ciacco: «No; va pure; e come tu hai questo
detto, torna qui a me col fiasco, e io ti pagherò».
Mossosi adunque il barattiere, fece a messer Filippo
l’ambasciata. Messer Filippo, udito costui, come colui
che piccola levatura avea35, avvisando che Biondello, il
quale egli conosceva, si facesse beffe di lui, tutto tinto36
nel viso, dicendo: «Che ‘arrubinatemi’ e che ‘zanzeri’
son questi? Che nel mal anno metta Iddio te e lui!», si
levò in piè e distese il braccio per pigliar con la mano il
barattiere; ma il barattiere, come colui che attento stava,
fu presto e fuggì via, e per altra parte ritornò a Ciacco, il
quale ogni cosa veduta avea, e dissegli ciò che messer Filippo aveva detto.
32
compagnacci, compagni di stravizio: anche questa è parola furbesca, di cui non si hanno esempi («si potrebbe pensare a parola
non fiorentina, ma veneziana, zanza = ciancia, sicché z a n z e r i
burloni» Zingarelli). È una richiesta fatta in tono volgare, ingaglioffito: lontanissima da quella, simile solo materialmente, di Geri Spini a Cisti (VI 2), benché il rapporto sociale sia rovesciato.
33
Più efficace l’imperfetto potenziale del presente, che sarebbe
qui regolare: il fatto presentato solo come possibile è più pauroso:
Inf., IX 56: F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 383 sgg.
34
la mala giornata, il malanno: III 8,45 e 71n.; VIII 9,106; e anche qui sotto al 17.
35
era facile a irritarsi: cfr. IV 2,41 n.; VII 3,22 n.
36
rosso, infocato per la rabbia: Filostrato, V 13: «tutto tinto nel
viso»; Fiammetta, VI 20,10 : «con viso tinto»; Inf., III 29.
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24
Ciacco contento pagò il barattiere, e non riposò mai
ch’egli37 ebbe ritrovato Biondello, al quale egli disse:
«Fostù a questa pezza38 dalla loggia de’ Cavicciuli?»
Rispose Biondello: «Mai39 no; perché me ne domandi tu?»
Disse Ciacco: «Per ciò che io ti so dire che messer
Filippo ti fa cercare, non so quel ch’e’si vuole».
Disse allora Biondello: «Bene, io vo verso là, io gli
farò motto40».
Partitosi Biondello, Ciacco gli andò appresso per vedere come il fatto andasse. Messer Filippo, non avendo
potuto giugnere il barattiere, era rimaso fieramente turbato e tutto in sé medesimo si rodea41, non potendo dalle parole dette dal barattiere cosa del mondo trarre altro42, se non che Biondello, ad instanzia di cui che sia43,
si facesse beffe di lui. E in questo che egli così si rodeva,
e44 Biondel venne. Il quale come egli vide, fattoglisi incontro, gli diè nel viso un gran punzone45.
«Ohimè! messer,» disse Biondel «che è questo?»
37
non si dié pace fin che egli.
di questi tempi, da poco in qua: cioè è molto che tu non sei stato: II 3,28 n.
39
Solito rafforzativo: III 3,36 n.
40
gli farò cenno, lo saluterò: Inf., XIX 48; Purg., II 25; e anche
IX 1,14 n.
41
Proprio di Filippo, che non si poteva vendicare come avrebbe
voluto, Dante scrive: «In sé medesimo si volvea co’ denti» (Inf.,
VIII 63); e il B. chiosa: «vedendosi schernire, o assalire dagli altri
... per ira mordendosi» (Esposizioni, VIII litt. 69).
42
Cioè cavare nessun altro senso.
43
di chicchessia, di chissà chi.
44
ecco che: la solita ripresa, dopo temporale, a indicare istantaneità nel succedersi di due azioni: Intr., 55 n.
45
colpo, pugno: VII 8,32 n.
38
Letteratura italiana Einaudi 1285
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Messer Filippo, presolo per li capelli e stracciatagli
la cuffia in capo e gittato il cappuccio46 per terra e dandogli tuttavia forte, diceva: «Traditore, tu il vedrai bene
ciò che questo è. Che ‘arrubinatemi’ e che ‘zanzeri’ mi
mandi tu dicendo a me47? Paiot’io fanciullo da dovere
essere uccellato48?»
26
E così dicendo, con le pugna, le quali aveva che parevan di ferro, tutto il viso gli ruppe49, né gli lasciò in capo capello che ben gli volesse50, e convoltolo51 per lo fango, tutti i panni in dosso gli stracciò; e sì a questo fatto si
studiava52, che pure una volta53 dalla prima innanzi non
gli potè Biondello dire una parola, né domandar perché
27 questo gli facesse. Aveva egli bene inteso dello ‘arrubi28 natemi’ e de’ ‘zanzeri’, ma non sapeva che ciò si volesse
dire. Alla fine, avendol messer Filippo ben battuto, ed
essendogli molti dintorno, alla maggior fatica del mondo gliele trasser di mano così rabbuffato54 e malconcio
come era; e dissergli perché messer Filippo questo avea
25
46
Sopra la cuffia si metteva il cappuccio (Merkel).
Ripetizione del pronome solita in questi momenti di alta concitazione: VI intr., 14 n.
48
preso in giro, beffato: III 3,33 n. e 5,3 n.
49
pestò, ammaccò: VII 4,29 n.
50
che stesse bene, a posto, che non fosse malconcio. È detto per
ischerzo, quasi anche i capelli, stravolti com’erano, fossero arrabbiati col povero Biondello» (Fomaciari): personificazione efficace.
51
avvoltolatolo, fattolo rotolare: Inf., XXI 46: «e tornò su convolto»; Sacchetti, CLX: «convolta nel fango».
52
e tanto s’affannava, s’adoperava a far questo: IX 6,9; Fiammetta, VI 1715: «chi di consigliare s’affretta, si studia di pentere»; Sacchetti, XLVIII: «studia il fante che selli le bestie».
53
una sola volta.
54
scompigliato; come Calandrino uscito dalle mani di Monna
Tessa (IX 5,65; e cfr. II 8,22 n.).
47
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fatto, riprendendolo di ciò che mandato gli avea dicendo, e dicendogli ch’egli doveva bene oggimai55 cognoscer messer Filippo e che egli non era uomo da motteggiar con lui. Biondello piagnendo si scusava e diceva che
mai a messer Filippo non aveva mandato per vino. Ma
poi che un poco si fu rimesso in assetto, tristo e dolente56
se ne tornò a casa, avvisando questa essere stata opera di
Ciacco.
E poi che dopo molti dì, partiti i lividori del viso, cominciò di casa ad uscire, avvenne che Ciacco il trovò, e
ridendo il domandò: «Biondello, chente57 ti parve il vino
di messer Filippo?»
Rispose Biondello: «Tali fosser parute a te le lamprede di messer Corso!»
Allora disse Ciacco: «A te sta58 oramai: qualora tu mi
vuogli così ben dare da mangiar come facesti, io darò a
te così ben da bere come avesti».
Biondello, che conoscea che contro a Ciacco egli poteva più aver mala voglia che opera59, pregò Iddio della
pace sua60, e da indi innanzi si guardò di mai più non
beffarlo. -
55
ormai.
Accoppiamento di aggettivi amato dal B. in situazioni simili:
IX 7,13 n.
57
di che specie, di che sapore. La domanda ripete puntualmente e
in tono canzonatorio quella di Biondello (12 n.).
58
Sta in te, Dipende da te: V 4,10 n.
59
poteva più avere desiderio di fargli del male che farglielo veramente.
60
Solita forma di saluto (Inf. V 92; Purg., XXI 13): «ma dopo
quel che è successo, ci si vede il barlume di un sorriso» (Momigliano).
56
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NOVELLA NONA
1
Due giovani domandano consiglio a Salamone, l’uno come
possa essere amato, l’altro come gastigare debba la moglie ritrosa: all’un risponde che ami, all’altro che vada al Ponte
all’Oca1.
2
Niuno altro che la reina, volendo il privilegio servare
a Dioneo, restava a dover novellare, la qual, poi che le
donne ebbero assai riso dello sventurato Biondello, lieta
cominciò così a parlare:
– Amabili donne, se con sana mente sarà riguardato2
l’ordine delle cose, assai leggiermente si conoscerà tutta
la universal moltitudine delle femine dalla natura e da’
costumi e dalle leggi essere agli uomini sottomessa, e se-
3
1
Alcuni nomi e alcuni particolari topografici hanno fatto insistentemente parlare per questa novella di un’origine orientale. Nel
fatto poi soltanto il Clouston (Flowers from a Persian Garden, London 18942, p. 214) ha citato una leggenda rabbinica che tramanda
un consiglio di Salomone simile a quello dato in questa novella a
Giosefo: ma non ha fornito la minima indicazione del testo o della
fonte, e quindi della cronologia. Qualche vago riscontro si può trovare se mai in raccolte relativamente recenti: per es. nelle Mille e
una notte (Prologo: Storia del bue e dell’asino) o nei simili apologhi
indiani (cfr. J. JACOBS, in Barlaam and Josaphat cit., pp. CXXIX
sgg.). Ma il tema, almeno per i modi da adoperare con le mogli bisbetiche, doveva essere fin da quei secoli largamente diffuso - come già in qualche modo si è accennato a proposito della IX 7 (e
cfr. qui, 8 n.) - in Oriente e Occidente (Thompson e Rotunda, J
21.16, T 252.2; Sacchetti, LXXXV e LXXXVI; Pecorone, V 2
ecc.).
2
Purg., VI 36: «Se ben si guarda con la mente sana».
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4
5
condo la discrezion3 di quegli convenirsi reggere e governare; e per ciò ciascuna che quiete, consolazione e riposo vuole con quegli uomini avere a’ quali s’appartiene4, dee essere5 umile, paziente e ubidiente, oltre
all’essere onesta: il che è sommo e spezial tesoro di ciascuna savia. E quando a questo le leggi, le quali il ben
comune riguardano in tutte le cose, non ci ammaestrassono, e l’usanza o costume che vogliam dire, le cui forze
son grandissime e reverende, la natura assai apertamente cel mostra, la quale ci ha fatte ne’ corpi dilicate e morbide, negli animi timide e paurose6, nelle menti benigne
e pietose, e hacci date le corporali forze leggieri, le voci
piacevoli e i movimenti de’ membri soavi: cose tutte testificanti7 noi avere dell’altrui governo bisogno. E chi ha
bisogno d’essere aiutato e governato ogni ragion vuol lui
dovere essere ubidiente e subietto e reverente all’aiutatore e al governator suo8. E cui abbiam noi governatori e
aiutatori, se non gli uomini? Dunque agli uomini dob-
3
discernimento, giudizio, senno: cfr. Proemio, 3 n.; IX concl., 4;
Convivio, I XI 3. Tutto questo ragionamento di Emilia riprende e
sviluppa - fino a riprese verbali - quanto già Filomena e Elissa avevano affermato nell’Intr., 73 sgg. Il M. segna a margine tutta la pagina (A m a b i l i ... s p a v e n t i, 19) e chiosa «Nota bene».
4
é in rapporto di dipendenza.
5
conviene essere. Facile anacoluto dovuto probabilmente al fatto che il B. scrivendo a c i a s c u n a pensava di continuare con un
c o n v i e n e, si c o n v i e n e.
6
Intr., 75: «Noi siamo mobili, riottose, sospettose, pusillanime e
paurose»: e cfr. n. e IV 2,32 n. Cfr. anche per la frase seguente
Esposizioni, II litt. 79-80: «l’atto donnesco ... dee essere soave e riposato ... la voce piacevole».
7
attestanti, che testimoniano.
8
Periodo costruito sull’anticipazione di un dimostrativo superfluo (cfr. Mussafia, pp. 452 sgg.) e su studiati parallelismi.
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6
7
8
biamo, sommamente onorandogli, soggiacere; e qual da
questo si parte9, estimo che degnissima sia non solamente di riprension grave, ma d’aspro gastigamento10. E a
così fatta considerazione, come che altra volta avuta
l’abbia, pur poco fa mi ricondusse ciò che Pampinea
della ritrosa moglie di Talano raccontò11, alla quale Iddio quel gastigamento mandò che il marito dare non
aveva saputo; e però nel mio giudicio cape12 tutte quelle
esser degne, come già dissi, di rigido e aspro gastigamento, che dall’esser piacevoli, benivole e pieghevoli13,
come la natura, l’usanza e le leggi voglion, si partono.
Per che m’aggrada di raccontarvi un consiglio renduto14
da Salamone, sì come utile medicina a guerire quelle che
così son fatte da cotal male. Il quale niuna, che di tal medicina degna non sia, reputi ciò15 esser detto per lei, come che gli uomini un cotal proverbio usino: «Buon cavallo e mal cavallo vuole sprone, e buona femina e mala
femina vuol bastone16». Le quali parole chi volesse sol-
9
chi si allontana da questo, chi fa altrimenti: cfr. Amorosa Visione, XXXIII 20-21.
10
Nel solito senso aspro e violento: I 1,45 n.; VII 8,47 n.
11
Cfr. IX 7.
12
il mio giudizio è, io giudico: VI 6,5 n.
13
Due aggettivi rimasti come sopra (3 «paziente e ubidente»):
cfr. VI 10,17 n.
14
dato: Inf., XXIII 34: «tal consiglio rendere».
15
Nota il passaggio improvviso al neutro (c i ò) dal maschile ( i l
q u a l e c o n s i g l i o ) in questo periodo anch’esso costruito su di
una anticipazione (cfr. Mussafia, p. 453).
16
Proverbio assai diffuso e ripetuto anche nella letteratura del
tempo con minime varianti (cfr. per es. Sacchetti, LXXXVI; Paolo
da Certaldo, n. 209: «Buon cavallo e mal cavallo vuole sprone;
buona donna e mala donna vuol signore e tale bastone»; NOVATI, Serie alfabetiche proverbiali cit., II, p. 129; GIUSTI, Raccolta
cit., p. 339 ecc.). E nota la paratassi, i ritmi scanditi, le rime solite
in questi casi. «Sì, ma non di legno» (M.).
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9
10
lazzevolmente17 interpretare, di leggieri si concederebbe
da tutte così esser vero; ma pur vogliendole moralmente
intendere, dico che è da concedere.
Son naturalmente le femine tutte labili e inchinevoli18, e per ciò a correggere la iniquità di quelle che troppo fuori de’termini posti loro si lasciano andare, si conviene il bastone che le punisca; e a sostentar la virtù
dell’altre che trascorrere non si lascino, si conviene il bastone che le sostenga e che le spaventi19. Ma, lasciando
ora stare il predicare, a quel venendo che di dire ho nello animo, dico Che, essendo già quasi per tutto il mondo
l’altissima fama del miracoloso senno di Salamone20 discorsa per l’universo21, e il suo essere di quello liberalissimo mostratore22 a chiunque per esperienzia ne voleva
certezza, molti di diverse parti del mondo a lui per loro
strettissimi e ardui bisogni23 con correvano per consiglio; e tra gli altri che a ciò andavano, si partì un giova-
17
scherzosamente, giocosamente.
facili a errare e a lasciarsi trascinare dalla passione: Trattatello,
I 217: «li prelati ... nella cui custodia sono commesse l’anime labili»; e cfr. IV 2,41; VII 3,22. «Deh, nota qui» (M.).
19
Questo excursus, fondamentalmente antifemminile, prelude
in qualche modo alle grandi pagine che il B. scriverà sull’argomento: al Corbaccio, al Trattatello (I 46 sgg.), al De casibus (per es. VIII
23, IX 3 ecc.).
20
Le due forme S a l o m o n e e S a l a m o n e (assimilazione
progressiva, con paraetimologia) si alternano correntemente (cfr.
qui 7,14; e VI 8,10; VI 10,16).
21
sparsa, diffusa fra tutti, in tutto il mondo: Intr., 29 n. L’inizio
solenne ricorda quello della I 7,5: «Sì come chiarissima fama quasi
per tutto il mondo suona ...»
22
e come egli liberalmente faceva parte del ..., mostrava il suo senno.
23
problemi preoccupanti e ardui a risolversi.
18
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ne, il cui nome fu Melisso24, nobile e ricco molto, della
città di Laiazzo25, là onde egli era e dove egli abitava. E
verso Ierusalem cavalcando, avvenne che uscendo d’Antioccia26 con un altro giovane chiamato Giosefo27, il qual
quel medesimo cammin teneva che faceva esso, cavalcò
per alquanto spazio, e, come costume è de’ camminan12 ti28, con lui cominciò ad entrare in ragionamento. Avendo Melisso già da Giosefo di sua condizione29 e donde
fosse saputo, dove egli andasse e per che il domandò; al
quale Giosefo disse che a Salamone andava, per aver
consiglio da lui che via tener dovesse con una sua moglie
più che altra femina ritrosa e perversa30, la quale egli né
con prieghi né con lusinghe né in alcuna altra guisa dalle
sue ritrosie ritrar poteva. E appresso lui similmente,
donde fosse e dove andasse e per che, domandò. Al qua13 le Melisso rispose: «Io son di Laiazzo, e sì come tu hai
una disgrazia, così n’ho io un’altra: io sono ricco giovane
e spendo il mio in mettere tavola31 e onorare i miei cittadini, ed è nuova32 e strana cosa a pensare che per tutto
11
24
Nome di un filosofo greco già esaltato dal B.: cfr. Amorosa Visione, IV 47 sgg. e comm. Il nome ricorreva anche per il filosofo distratto rimproverato da una donna in un exemplum diffusissimo
(cfr. per es. Novellino, XXXVIII).
25
Città della Piccola Armenia, citata nella V 7,36 (cfr. n.).
26
Forma popolaresca per Antiochia.
27
Forma che si alterna con Giuseppe, Gioseppo, Giuseppo
(Corbaccio, 444).
28
viandanti: Intr., 4.
29
«Non vuol dire in questo luogo la nascita e il grado, ma abbraccia largamente l’essere e lo stato di una persona» (Fornaciari).
Cfr. II 6,21; Purg., V 30.
30
scontrosa e cattiva. Come la moglie di Talano: IX 7,4 n.
31
dar conviti: VI 9,5 n. E per o n o r a r e II 6,73 n. e II 7,113 n.
32
singolare.
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questo io non posso trovare uom che ben mi voglia; e
per ciò io vado dove tu vai, per aver consigli come addivenir possa che io amato sia.
Camminarono adunque i due compagni insieme, e
in Jerusalem pervenuti per introdotto d’uno de’ baroni33
di Salamone, davanti da34 lui furon messi, al qual brievemente Melisso disse la sua bisogna. A cui Salamone rispose: «Ama».
E detto questo prestamente Melisso fu messo fuori,
e Giosefo disse quello per che v’era. Al quale Salamone
null’altro rispose, se non: «Va al Ponte all’Oca»; il che
detto, similmente Giosefo fu senza indugio dalla presenza del re levato, e ritrovò Melisso il quale aspettava, e
dissegli ciò che per risposta avea avuto.
Li quali a queste parole pensando e non potendo
d’esse comprendere né intendimento né frutto35 alcuno
per la loro bisogna, quasi scornati, a ritornarsi indietro
entrarono in cammino36. E poi che alquante giornate
camminati furono37, pervennero ad un fiume sopra il
quale era un bel ponte; e per ciò che una gran carovana
di some sopra muli e sopra cavalli passavano, gli38 convenne lor sofferir di passar39 tanto che quelle passate fossero. Ed essendo già quasi che tutte passate, per ventura
33
su presentazione, per mediazione (III 7,77 n.) d’uno dei cortigiani: IV 4,26 n.
34
davanti a: I 7,10 n.
35
né significato, senso (Purg., XXVIII 60), né utilità.
36
Cfr. VII intr., 4 n.; IX 4,9 n.
37
Meno comune l’ausiliare essere con camminare, ma cfr., nel
D. stesso, V 3,10 n.
38
È com’è noto, nell’italiano antico forma corrente per il dativo
plurale (Rohlfs, 463): cfr. X 7,46 n.
39
attendere a passare: Purg., XXXI 10.
Letteratura italiana Einaudi 1293
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
v’ebbe40 un mulo il quale adombrò, sì come sovente gli
veggiam fare, né volea per alcuna maniera avanti passare; per la qual cosa un mulattiere presa una stecca41, prima assai temperata mente lo ‘ncominciò a battere perché passasse. Ma il mulo ora da questa parte della via e
ora da quella attraversandosi42, e talvolta indietro tor- 18
nando, per niun partito43 passar volea; per la qual cosa il
mulattiere oltre modo adirato gl’incominciò con la stecca a dare i maggiori colpi del mondo, ora nella testa e
ora nei fianchi e ora sopra la groppa; ma tutto era nulla44.
19
Per che Melisso e Giosefo, li quali questa cosa stavano a vedere, sovente dicevano al mulattiere: «Deh! cattivo, che farai? Vuoil tu uccidere? perché non t’ingegni tu
di menarlo bene e pianamente45? Egli verrà più tosto che
a bastonarlo come tu fai».
A’quali il mulattiere rispose: «Voi conoscete i vostri
20
cavalli e io conosco il mio mulo; lasciate far me con lui.E questo detto rincominciò a bastonarlo, e tante d’una
parte e d’altra ne gli diè, che il mulo passò avanti, sì che
il mulattiere vinse la pruova46».
21
Essendo adunque i due giovani per partirsi, domandò Giosefo un buono uomo, il quale a capo del
17
40
vi fu: Intr., 15 n.
bastone, legno.
ponendosi di traverso, piegando: Sacchetti, LXXIV: «questo
cavallo ... andava aizzato e intraversando».
43
in nessun modo: V 3,6 n.
44
ma tutti i tentativi non servivano a nulla: II 1,19 n.
45
con garbo, con le buone: I 4,17 n.
46
riuscì nell’intento, la vinse: Inf., VIII 122: «Non sbigottir,
ch’io vincerò la prova».
41
42
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25
ponte sedeva, come quivi47 si chiamasse. Al quale il buono uomo rispose: «Messere, qui si chiama il Ponte
all’oca».
Il che come Giosefo ebbe udito, così si ricordò delle
parole di Salamone, e disse verso Melisso: «Or ti dico io,
compagno, che il consiglio datomi da Salamone potrebbe esser buono e vero, per ciò che assai manifestamente
conosco che io non sapeva battere la donna mia, ma
questo mulattiere m’ha mostrato quello che io abbia a
fare».
Quindi, dopo alquanti dì divenuti48 a Antiocia, ritenne Giosefo Melisso seco a riposarsi alcun dì; ed essendo
assai ferialmente49 dalla donna ricevuto, le disse che così
facesse far da cena come Melisso divisasse50; il quale,
poi51 vide che a Giosefo piaceva, in poche parole se ne
dilivrò52. La donna, sì come per lo passato era usata, non
come Melisso divisato avea, ma quasi tutto il contrario
fece. Il che Giosefo vedendo, a turbato disse: «Non ti fu
egli detto in che maniera tu facessi questa cena fare?»
La donna, rivoltasi con orgoglio53, disse:
- Ora che vuol dir questo? deh! ché non ceni, se tu
vuoi cenare? Se mi fu detto altramenti, a me parve da far
così; se ti piace, sì ti piaccia; se non, sì te ne sta54».
47
questo luogo: e così subito dopo «qui si chiama»: cfr. II 3,27
n.; VI concl., 18. Vari esempi di quest’uso ha raccolto e discusso
G. VANDELLI, Di un antico uso sintattico ecc., in «Studi Danteschi», XIII, 1928, pp. 65 sgg.
48
pervenuti, giunti: V 9,9 n.
49
freddamente: è il contrario di «festosamente»: cfr. Fiammetta,
V 31,7 «di feriali vestimenti vestita», cioè non festivi.
50
disponesse, ordinasse: I 5,10 n.
51
poi che.
52
sbrigò: IV 7,2 n.
53
arroganza: Par. VI 49.
54
astienitene, fanne a meno: cioè non mangiare: VIII 9,95.
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Maravigliossi Melisso della risposta della donna, e
biasimolla assai. Giosefo, udendo questo, disse: «Donna, ancor se’ tu quel che tu suogli; ma credimi che io ti
farò mutar modo»; e a Melisso rivolto disse: «Amico, tosto vedremo chente sia stato il consiglio di Salamone;
ma io ti priego non ti sia grave lo stare a vedere, e di reputare per un giuco55 quello che io farò. E acciò che tu
non m’impedischi56, ricorditi della risposta che ci fece il
mulattiere quando del suo mulo c’increbbe57».
Al quale Melisso disse: «Io sono in casa tua, dove dal
tuo piacere io non intendo di mutarmi58».
Giosefo, trovato un baston tondo d’un querciuolo
giovane, se n’andò in camera, dove la donna, per istizza
da tavola levatasi, brontolando se n’era andata; e presala
per le treccie, la si gittò a’ piedi e cominciolla fieramente
a battere con questo bastone. La donna cominciò prima
a gridare e poi a minacciare; ma veggendo che per tutto
ciò Giosefo non ristava, già tutta rotta59 cominciò a chiedere mercé per Dio che egli non l’uccidesse, dicendo oltre a ciò mai dal suo piacer non partirsi60. Giosefo per
tutto questo non rifinava61, anzi con più furia l’una volta
che l’altra, or per lo costato, or per l’anche e ora su per
55
Per questa forma cfr. VIII 8,2 5 n. e anche Proemio, 12 n.
Per questa forma del congiuntivo presente cfr. II 7,100 n.
avemmo pietà: cfr. II 7,114 n.
58
io non voglio allontanarmi: III 7,10 n.; Purg., XXV 98.
59
pesta: VII 4,29 n.
60
che mai si sarebbe allontanata da ciò che a lui piacesse, che lo
avrebbe sempre accontentato. Riecheggia la frase di Melisso.
61
cessava: I 2,10 n.; V 3,30 n. «Dalle a questa troia, dalle» (M.).
56
57
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33
le spalle, battendola forte, l’andava le costure ritrovando62, né prima ristette che egli fu stanco63; e in brieve
niuno osso né alcuna parte rimase nel dosso della buona
donna, che macerata64 non fosse. E questo fatto, ne venne a Melisso e dissegli: «Doman vedrem che pruova avrà
fatto il consiglio del ‘Va al Ponte all’Oca’; e riposatosi
alquanto e poi lavatesi le mani, con Melisso cenò, e
quando fu tempo, s’andarono a diposare65.
La donna cattivella66 a gran fatica si levò di terra, e in
sul letto si gittò, dove, come potè il meglio, riposatasi, la
mattina vegnente per tempissimo levatasi, fe’domandar
Giosefo quello che voleva si facesse da desinare. Egli, di
ciò insieme ridendosi con Melisso, il divisò67, e poi,
quando fu ora, tornati, ottimamente ogni cosa e secondo
62
Cioè la picchiava di santa ragione. «Tolta la metafora dai sarti
che, dopo cucito la costura, la picchiano col ferro caldo per ispianare il rilevato di essa» (C.): Rime, CXX 3: «A dover ritrovarti le
costure»; Pulci, Morgante, XIX 53: «Per modo le costure m’ha trovate | Ch’e’ non sarebbe cattivo sartore; | E m’ha tutte le reni fracassate».
63
«Dalle, dalle» (M.).
64
pesta, rotta: come la povera Tessa (VIII 3,52 n.). Cfr. NOVATI, Serie alfabetiche cit., II, p. 129.
65
riposare, sostare: cfr. Sabadino degli Arienti, Porretane, Bari
1914, p. 112: «Quivi dunque disposato a l’ospizio» (e anche p.
322). Secondo il GDLI, il vocabolo sarebbe da di intensivo e posare
costruito su riposare, con scambio di prefisso. Non si può escludere contaminazione fra diportare, diporre e riposare, o assimilazione
adriposare addiposare, favorita dal precedente a n d a r o n o, o
scambio di prefisso come per esempio in dibassamento per ribassamento.
66
miserella: I 1,53 n.
67
lo ordinò: cfr. 23 n.
Letteratura italiana Einaudi 1297
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l’ordine dato trovaron fatta; per la qual cosa il consiglio
prima da loro male inteso sommamente lodarono.
E dopo alquanti dì partitosi Melisso da Giosefo e
34
tornato a casa sua, ad alcun, che savio uomo era, disse
ciò che da Salamone avuto avea; il quale gli disse: «Niuno più vero consiglio né migliore ti potea dare. Tu sai
che tu non ami persona, e gli onori e’servigi li quali tu
fai, gli fai, non per amore che tu ad altrui porti, ma per
pompa68. Ama adunque, come Salamon ti disse, e sarai
amato69».
35
Così adunque fu gastigata la ritrosa, e il giovane
amando fu amato.–
68
per vanagloria, per ostentazione: II 3,11; G. Villani, XII 3: «Il
duca ne montò in grande pompa».
69
Sentenza diffusissima e nei classici e nei moralisti medievali:
Ovidio, Ars Am., II 107; Seneca, Ep. ad Luc., IX 4: «Si vis amari,
ama»; Marziale, VII 2; Albertano da Brescia, Trattati morali volg.,
Bologna 1873, p. 256; NOVAN, Serie al alfabetiche cit., II, p. 125;
Fr. da Barberino, Documenti cit., II, p. 209: «Chi vuol essere amato convien che ami»; Paolo da Certaldo, n. 75: «Se tu vuoli essere
amato, sì ama»; Alberti, Rime, XVII 202 sg.; Poliziano, Rime,
CXIII 18. E cfr. Speculum Historiale, VI 106; Burley, XC.
Letteratura italiana Einaudi
1298
NOVELLA DECIMA
1
Donno Gianni ad istanzia di compar Pietro fa lo ’ncantesimo
per far diventar la moglie una cavalla; e quando viene ad appiccar la coda, compar Pietro, dicendo che non vi voleva coda,
guasta tutto lo ’ncantamento1.
2
Questa novella dalla reina detta diede un poco da
mormorare alle donne e da ridere a’ giovani; ma poi che
ristate2 furono, Dioneo così cominciò a parlare.
Leggiadre donne, infra molte bianche colombe aggiugne più di bellezza uno nero corvo, che non farebbe
un candido cigno; e così tra molti savi alcuna volta un
3
1
È citato come antecedente diretto di questa novella un fabliau,
De la pulcelle qui vouloit voler (Recueil général cit., IV, 108; già attribuito a Rutebeuf), che però si svolge attraverso una successione
di circostanze diverse. Trasformazioni simili, e proprio di un uomo
in asino, avevano del resto offerto ampio soggetto anche a uno
scrittore amato dal B., Apuleio, e ai Mitografi vaticani da lui largamente utilizzati (III, IV n. 7); e il Gröber (p. 77) osserva che la novella «s’appoggia sulla credenza della trasformazione dell’uomo in
animale di cui si parla nel Talmud e nell’Evangelo apocrifo dell’infanzia di Gesù». Racconti del genere ripetevano anche gli scrittori
religiosi a vario fine: proprio di metamorfosi di una fanciulla in cavalla narrano variamente per es. le Vitae Patrum (Patrologia lat.,
XXI 451 sgg., LXXIII 1110 sgg., LXXIV 354 sgg.), Vincenzo di
Beauvais (Speculum bistoriale, XVIII 70), Jacques de Vitry (Exempla, n. 262), Etienne de Bourbon (IV 1) ecc., e in fine il Passavanti
(Specchio, pp. 370 sgg.). Potrebbe questo essere un altro esempio
di ironizzazione novellistica licenziosa di un racconto devoto (e per
la popolarità del tema cfr. Thompson e Rotunda, D 130 sgg., 620
sgg.; Rotunda, K 1315-3.2*).
2
Accordato a senso a m o r m o r a z i o n i e r i s a t e sottintese nel periodo precedente: o alle sole d o n n e.
Letteratura italiana Einaudi 1299
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4
5
6
men savio è non solamente un accrescere splendore e
bellezza alla lor maturità, ma ancora diletto e sollazzo.
Per la qual cosa, essendo voi tutte discretissime e moderate, io, il qual sento anzi dello scemo che no3, faccendo
la vostra virtù più lucente col mio difetto, più vi debbo
esser caro che se con più valore quella facessi divenir
più oscura; e per conseguente più largo arbitrio debbo
avere in dimostrarmi tal qual io sono, e più pazientemente dee da voi esser sostenuto4 che non dovrebbe se
io più savio fossi, quel dicendo che io dirò5. Dirovvi
adunque una novella non troppo lunga, nella quale
comprenderete quanto diligentemente si convengano
osservare le cose imposte da coloro che alcuna cosa per
forza d’incantamento fanno, e quanto piccol fallo 6 in
quelle commesso ogni cosa guasti dallo incantator fatta.
L’altr’anno fu a Barletta7 un prete, chiamato donno
Gianni di Barolo8, il qual, per ciò che povera chiesa
avea, per sostentar la vita sua9, con una cavalla cominciò
3
ho piuttosto poco senno, poco giudizio: IV 2,14 n.
essere tollerato: I 1,26 n.
quello che io parlando dirò.
6
Purg., III 9: «Come t’è picciol fallo».
7
È questa l’unica novella pugliese del D. (oltre i cenni alla stessa
regione e alla stessa zona nella II 4,28 sgg.). A Barletta proprio la
compagnia dei Bardi aveva una delle succursali (e così quella del
Peruzzi: cfr. A. SAPORI, Studi cit., pp. 459 sgg., 479 sgg., 692): era
città molto attiva commercialmente e frequentata dai mercanti fiorentini (cfr. R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze cit., VI, pp. 810
sgg.). Di Barletta e delle sue fazioni il B. mostra di aver buone conoscenze in una lettera a un amico che in quella città aveva preso
moglie (Epistole, IV; e cfr. Comedia, XXVI 70, dove si parla di usi
pugliesi; e qui II 6,18 per i santuari pugliesi).
8
D o n n o è forma meridionale per don (Inf., XXII 88); Barolo
è forma latina di Barletta (Epistole, IV).
9
Quasi una formula: per es. VIII 10,42 n.
4
5
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
7
8
9
10
a portar mercatantia in qua e in là per le fiere di Puglia e
a comperare e a vendere. E così andando, prese stretta
dimestichezza con uno che si chiamava Pietro da Tresanti10, che quello medesimo mestiere con uno suo asino
faceva, e in segno d’amorevolezza e d’amistà, alla guisa
pugliese11, nol chiamava se non compar Pietro; e quante
volte in Barletta arrivava, sempre alla chiesa sua nel menava, e quivi il teneva seco ad albergo, e come poteva
l’onorava.
Compar Pietro d’altra parte, essendo poverissimo e
avendo una piccola casetta in Tresanti, appena bastevole12 a lui e ad una sua giovane e bella moglie e all’asino
suo, quante volte donno Gianni in Tresanti capitava
tante sel menava a casa, e come poteva, in riconoscimento dell’onor che da lui13 in Barletta riceveva, l’onorava14.
Ma pure, al fatto dello albergo15, non avendo compar
Pietro se non un piccol letticello, nel quale con la sua
bella moglie dormiva, onorar nol poteva come voleva,
ma conveniva che, essendo in una sua stalletta allato
all’asino suo allogata la cavalla di donno Gianni, che egli
allato a lei sopra alquanto di paglia si giacesse. La donna, sappiendo l’onor che il prete al marito faceva a Barletta, era più volte, quando il prete vi veniva, volutasene
andare a dormire con una sua vicina, che avea nome Zi-
10
A nord di Barletta (lat. Trium Sanctorum).
secondo l’uso pugliese.
12
sufficiente, che bastava, con complemento di comodo: cfr. p.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 279.
13
in riconoscimento di ciò che da lui, brachilogico.
14
trattava, ospitava onorevolmente: II 6,73 n.
15
quanto al dargli alloggio.
11
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
ta Carapresa di Giudice Leo16, acciò che il prete col marito dormisse nel letto, e avevalo molte volte al prete
11 detto, ma egli non aveva mai voluto. E tra l’altre volte,
una le disse: «Comar Gemmata17, non ti tribolar di me,
ché io sto, bene, per ciò che quando mi piace io fo questa mia cavalla diventare una bella zitella18 e stommi con
essa, e poi quando voglio la fo diventar cavalla, e per ciò
non mi partirei da lei».
12
La giovane si maravigliò e credettelo, e al marito il
disse, aggiugnendo: «Se egli è così tuo19 come tu di’, ché
non ti fai tu insegnare quello incantesimo, ché tu possa
far cavalla di me e fare i fatti tuoi con l’asino e con la cavalla, e guadagneremo due cotanti20, e quando a casa
fossimo tornati, mi potresti rifar femina come io sono».
Compar Pietro, che era anzi grossetto21 uom che no,
13
credette questo fatto e accordossi al consiglio, e come
meglio seppe, cominciò a sollicitar donno Gianni, che
questa cosa gli dovesse insegnare. Donno Gianni s’ingegnò assai di trarre costui di questa sciocchezza, ma pur
non potendo, disse: «Ecco, poi che voi pur volete, do-
16
Anche Zita, contro l’interpretazione data finora (giovane sposa) deve essere nome proprio: ricorre con gli altri nel Codice diplomatico barese (TORRACCA, art. cit., p. 158) e nell’epistola napoletana (Zita Cubitosa, Zita Burnacchia). Carapresa e Giudice Leo di
Bitonto figurano anche nel D. (V 2,21 n.) e nei Registri di Cancelleria (III, p. 185).
17
Il Torraca nel Codice diplomatico barese ha trovato anche,
umoristica coincidenza: «tra le molte Gemme o Gemmate ... una
Gemma de coda de asino».
18
ragazza, fanciulla.
19
Se è così tuo amico, Se ti vuol tanto bene: cfr. IX 3,15 n.
20
due volte tanto, il doppio.
21
sempliciotto: III 8,5 n.; VIII 9,71 n.
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17
mattina ci leveremo, come noi sogliamo, anzi dì, e io vi
mosterrò come si fa. E’ il vero che quello che più è malagevole in questa cosa si è l’appiccar la coda, come tu vedrai».
Compar Pietro e comar Gemmata, a pena avendo la
notte dormito (con tanto desidero questo fatto aspettavano), come vicino a dì fu, si levarono e chiamarono
donno Gianni, il quale, in camicia levatosi, venne nella
cameretta di compar Pietro e disse: «Io non so al mondo
persona a cui io questo facessi, se non a voi, e per ciò,
poi che vi pur piace, io il farò; vero è che far vi conviene
quello che io vi dirò, se voi volete che venga fatto».
Costor dissero di far ciò che egli dicesse. Per che
donno Gianni, preso un lume, il pose in mano a compar
Pietro e dissegli: «Guata ben come io farò, e che tu tenghi22 bene a men te come io dirò, e guardati, quanto tu
hai caro di non guastare ogni cosa, che per cosa che tu
oda o veggia, tu non dica una parola sola23; e priega Iddio che la coda s’appicchi bene».
Compar Pietro, preso il lume, disse che ben lo farebbe.
Appresso donno Gianni fece spogliare ignudanata24
comar Gemmata, e fecela stare con le mani e co’ piedi in
terra, a guisa che stanno le cavalle, ammaestrandola similmente che di cosa che avvenisse motto non facesse; e
con le mani cominciandole a toccare il viso e la testa, co-
22
Per queste forme del congiuntivo cfr. II 7,100 n.
È uno dei precetti più correnti nella prassi degli incantesimi:
così anche Bruno a Maestro Simone (VIII 9,83).
24
nuda, tutta nuda, nuda come natura la fece: Amorosa Visione,
XXIV 58; Fioretti di San Francesco, cap. XXX, passim. Su questo
tipo di forma rafforzata: L. SPITZER, Stilstudien, München 1928,
I 15.
23
Letteratura italiana Einaudi 1303
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
minciò a dire: «Questa sia bella testa di cavalla25»; e toccandole i capelli, disse: «Questi sieno belli crini di cavalla»; e poi toccandole le braccia, disse: «E queste sieno
18 belle gambe e belli piedi di cavalla»; poi toccandole il
petto e trovandolo sodo e tondo, risvegliandosi tale che
non era chiamato e su levandosi26, disse: «E questo sia
bel petto di cavalla»; e così fece alla schiena e al ventre e
alle groppe e alle coscie e alle gambe. E ultimamente,
niuna cosa restandogli a fare se non la coda, levata la camicia e preso il piuolo col quale egli piantava gli uomini27 e prestamente nel solco per ciò fatto messolo, disse:
«E questa sia bella coda28 di cavalla».
19
Compar Pietro, che attentamente infino allora aveva
ogni cosa guardata, veggendo questa ultima e non parendonegli bene, disse: «O donno Gianni, io non vi voglio coda, io non vi voglio coda».
Era già l’umido radicale29, per lo quale tutte le piante
20
s’appiccano30, venuto, quando donno Gianni tiratolo in-
25
Come altre volte nel D. (11 2,7-8 nn.; VII 2,27 n.), queste formule sono composte nei ritmi dell’endecasillabo o di altri versi,
marcati dall’anafora e dall’omeoteleuto (e cfr. T. CASINI, Scongiuro e poesia cit.).
26
Cfr. VIII 7,67 n.
27
Espressione allusiva che può ricordare la risposta «Io pianto
l’uomo» di Cratete (attribuita da altri a Diogene), mentre usava
con la sposa, a chi gli chiedeva che stesse facendo (L. GUICCIARDINI, L’hore di ricreatione, Venezia 1592, p. 20: cfr. Apuleio, Florida, XIV; Diogene Laerzio, VI 97; e anche Agostino, De civitate
Dei, XIV 20; Burley, L). Termine equivoco corrente era p i v u o l o
o p i u o l o (cfr. Canti carnascialeschi cit., glossario).
28
Tradizionale termine equivoco: III 1,20 n.
29
«Il B. torce a significato scherzoso un’espressione della lingua
scientifica del tempo (per es. cfr. Convivio, IV XXIII 7; Sacchetti,
Sposizioni vangeli, p. 213)» (Petronio). Cfr. specie Alberto Magno,
De morte et vita, tr. 2 c. 7, De nutrimento, tr. 1 c. 5.
30
attecchiscono: Inf., XXIX 129.
Letteratura italiana Einaudi
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24
dietro, disse: «Ohimè, compar Pietro, che hai tu fatto?
non ti diss’io, che tu non facessi motto di cosa che tu vedessi? La cavalla era per esser fatta, ma tu favellando hai
guasta ogni cosa, né più ci ha modo di poterla rifare oggimai».
Compar Pietro disse: «Bene sta, io non vi voleva
quella coda io; perché non diciavate voi a me Falla tu? e
anche l’appiccavate troppo bassa».
Disse donno Gianni: «Perché tu non l’avresti per la
prima volta saputa appiccar sì com’io».
La giovane, queste parole udendo, levatasi in piè, di
buona fè31 disse al marito: «Bestia che tu se’, perché hai
tu guasti li tuoi fatti e’ miei? qual cavalla vedestù mai
senza coda? Se32 m’aiuti Dio, tu se’ povero, ma egli sarebbe mercè33 che tu fossi molto più».
Non avendo adunque più modo a dover fare della
giovane cavalla34, per le parole che dette avea compar
Pietro, ella dolente e malinconosa si rivestì, e compar
Pietro con uno asino, come usato era, attese a fare il suo
mestiere antico, e con donno Gianni insieme n’andò alla
fiera di Bitonto35, né mai più di tal servigio il richiese. -
31
ingenuamente, senza malizia.
Il solito s e deprecativo in locuzione augurale.
sarebbe giusto o sarebbe una grazia. Parole di rimprovero che
possono ricordare quelle di Peronella al marito (VII 2,14 sgg.).
34
a dover far diventare cavalla la giovane.
35
Famosa fiera, istituita nel 1316, che si svolgeva a Ognissanti,
subito prima di quella di Barletta (12 novembre: cfr. G. YVER, Le
commerce et les marchands dans l’Italie méridionale au XIIIe et XIVe
siècle, Paris 1902, pp. 71 sgg.). Nuove larghe documentazioni
dell’onomastica pugliese riflessa da «Zita Carapresa di Giudice
Leo» (10) offre ora S. GENTILE, ‘Panaile’, un incompreso pugliesismo di Masuccio (con un’appendice di onomastico boccaccesca e
masucciana), Bari 1978 (Scritti di Storia Patria per la Puglia. Studi
e ricerche, I). Largamente diffuso era l’equivoco cavallo-donna:
cfr. N. PASERO, Donne e cavalli, in Miscellanea... a A. Roncaglia,
Modena 1989.
32
33
Letteratura italiana Einaudi 1305
CONCLUSIONE
1
2
3
4
Quanto di questa novella si ridesse, meglio dalle
donne intesa che Dioneo non voleva, colei sel pensi che
ancora ne riderà1. Ma, essendo le novelle finite e il sole
già cominciando ad intiepidire, e2 la reina, conoscendo il
fine della sua signoria esser venuto, in piè levatasi e trattasi la corona, quella in capo mise a Panfilo, il quale solo
di così fatto onore restava ad onorare; e sorridendo disse: – Signor mio, gran carico ti resta, sì come è l’avere il
mio difetto e degli altri che il luogo hanno tenuto che tu
tieni, essendo tu l’ultimo, ad emendare3, di che Iddio ti
presti grazia4, come a me l’ha prestato5 di farti re. –
Panfilo, lietamente l’onor ricevuto, rispose: – La vostra virtù e degli altri miei sudditi farà sì che io, come gli
altri sono stati, sarò da lodare -; e secondo il costume de’
suoi predecessori col siniscalco delle cose opportune
avendo disposto, alle donne aspettanti si rivolse e disse:
– Innamorate donne, la discrezion6 d’Emilia, nostra reina stata questo giorno, per dare alcun riposo alle vostre
forze, arbitrio vi diè di ragionare quel che più vi piacesse. Per che, già riposati essendo, giudico che sia da ritornare alla legge usata; e per ciò voglio che domane cia-
1
Simile il commento alla VIII 2: cfr. VIII 3,2.
Cfr. V. concl., 1: la solita congiunzione in ripresa dopo i gerundi narrativi.
3
Cioè: l’avere ad emendare il difetto di me e degli altri: Purg.,
VI 41.
4
Cfr. I 1,3 (proprio parole di Panfilo).
5
Il solito participio passato invariato: cfr. Intr., 35 n.
6
saggezza, senno: IX 9,3 n.
2
Letteratura italiana Einaudi
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5
6
7
scuna di voi pensi di ragionare sopra questo, cioè: d i
chi liberalmente o vero magnificamente
alcuna cosa operasse intorno a’ fatti
d ’ a m o r e o d ’ a l t r a c o s a . Queste cose e dicendo e
faccendo7, senza dubbio niuno gli animi vostri ben disposti a valorosamente adoperare accenderà; ché la vita
nostra, che altro che brieve esser non puote nel mortal
corpo, si perpetuerà nella laudevole fama8; il che ciascuno che al ventre solamente, a guisa che le bestie fanno,
non serve9, dee, non solamente desiderare, ma con ogni
studio cercare e operare10. –
La tema11 piacque alla lieta brigata, la quale con licenzia del nuovo re tutta levatasi da sedere, agli usati di
letti si diede, ciascuno secondo quello a che più dal desidero era tirato; e così fecero insino all’ora della cena. Alla quale con festa venuti, e serviti diligentemente e con
ordine, dopo la fine di quella si levarono a’ balli costumati12, e forse mille canzonette più sollazzevoli di parole
che di canto maestrevoli13, avendo cantate, comandò il
re a Neifile che una ne cantasse a suo nome14. La quale,
7
Il dire e il fare queste cose. «Nota belle parole» (M. segnando a
margine tutto il periodo). «Si noti il particolare uso del gerundio a
modo d’infinito sostantivato» (Marti).
8
Cfr. Epistole, XVIII: «in spem venio ... Deum ... effundere animas ... avidas ... non ambizione vel decipulis sibi honores exquirere
sed laudabili exercitio ... nomen pretendere in evum longinquum»;
e Petrarca, CXXVIII 97 sgg.
9
Cfr. I 2,20 n.: «più al ventre serventi a guisa d’animali bruti».
10
Pensieri ed espressioni comuni alla letteratura classica, e che
il B. aveva insistentemente riaffermato nell’Amorosa Visione (particolarmente VI, XXXII ecc.).
11
Il tema; Fazio degli Uberti, Dittamondo, I 15: «e seguir oltre
alla mia lunga tema».
12
consueti, abituali.
13
eccellenti, da maestro, per la melodia: cfr. F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, p. 285.
14
proprio in suo nome.
Letteratura italiana Einaudi 1307
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
con voce chiara e lieta, così piacevolmente e senza indugio incominciò:
8
9
10
11
Io mi son giovinetta15, e volentieri
m’allegro e canto en la stagion novella,
merzé d’amore16 e de’ dolci pensieri.
Io vo pe’ verdi prati riguardando
i bianchi fiori e’ gialli e i vermigli
le rose in su le spini17 e i bianchi gigli
e tutti quanti gli vo somigliando18
al viso di colui che me amando,
ha presa e terrà sempre, come quella
ch’altro non ha in disio che’ suoi piaceri19.
De’quali quand’io ne truovo alcun che sia,
al mio parer, ben simile di lui,
il colgo e bascio e parlomi con lui:
e com’io so, così l’anima mia
tututta20 gli apro, e ciò che ’l cor disia:
quindi con altri il metto in ghirlandella21
legato co’miei crin biondi e leggieri.
E quel piacer, che di natura il fiore
agli occhi porge, quel simil mel dona
che s’io vedessi la propia persona22
15
Dante, Rime, LXXXVII: «I’ mi son pargoletta».
grazie ad amore: II concl., 15 n.
17
Forma corrente per il plurale: cfr. VII 5,47 n.
18
paragonando, assomigliando. Motivo già guinizzelliano (I’ vo’
del ver ecc.) e cavalcantiano (Fresca rosa, Beltà di donna), seppure il
rapporto è capovolto: e cfr. anche Cino, Io guardo per li prati;
Purg., XXVIII 44 sgg., 53 «in su i vermigli e in su i gialli».
19
Cioè ciò che egli desidera.
20
tutta intera: cfr. III concl., 14 n.
21
Rime, XCI 8; Purg., XXVII 102: «Le belle mani a farmi una
ghirlanda».
22
mi dà un piacere simile a quello che proverei se vedessi la persona stessa: cfr. VIII 7,54 n.
16
Letteratura italiana Einaudi
1308
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX
12
10
che m’ha accesa del suo dolce amore23:
quel che mi faccia più il suo odore
esprimer nol potrei con la favella,
ma i sospir ne son testimon veri.
Li quai non escon già mai del mio petto,
come dell’altre donne, aspri né gravi,
ma se ne vengon fuor caldi e soavi,
e al mio amor sen vanno nel cospetto:
il qual come gli sente, a dar diletto
di sé a me si muove e viene in quella24
ch’i’son per dir: «Deh vien, ch’i’ non disperi25».
Assai fu e dal re e da tutte le donne comendata la
canzonetta di Neifile; appresso alla quale, per ciò che
già molta notte andata n’era26, comandò il re che ciascuno per infino al giorno s’andasse a riposare.
23
Sintagma e stilema frequente nel B. (per es. Filostrato, II 74;
Teseida, II 3) di sapore ciniano (Una gentil piacevol, v. 10).
24
in quel momento, in quel punto: VII 3,30 n.
25
Anche la conclusione della gentilissima ballata è cavalcantiana (Perch’i’ no spero ...): come dantesche – oltre alcuni particolari
già rilevati - sono varie note (21 e Par., XIII 36; 23-24 e Vita Nuova, XXI 4, XXVI 3 e 7; 31 e Vita Nuova, XXVI 7) e la struttura
stessa: soli endecasillabi, ripresa di tre versi (ZYZ), quattro stanze
di sette versi ciascuna (AB, AB; BYZ) legate dalle due rime finali
comuni alla ripresa e alle stanze. Fu musicata da Domenico Ferabosco.
26
gran parte della notte era trascorsa.
Letteratura italiana Einaudi 1309
DECIMA GIORNATA
1
Finisce la Nona giornata del Decameron: incomincia la Decima e ultima nella quale, sotto il reggimento di Panfilo, si ragiona di chi liberalmente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse1 intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa.
2
Ancora eran vermigli certi nuvoletti2 nell’occidente,
essendo già quegli dello oriente nelle loro estremità simili ad oro lucentissimi divenuti, per li solari raggi che
molto loro avvicinandosi li ferieno3, quando Panfilo levatosi, le donne e’suoi compagni fece chiamare. E venuti tutti, con loro insieme diliberato del dove andar potessero al lor diletto, con lento passo si mise innanzi,
accompagnato da Filomena e da Fiammetta, tutti gli altri appresso seguendogli; e molte cose della loro futura
vita insieme parlando e dicendo e rispondendo, per lungo spazio s’andaron diportando; e data una volta assai
3
1
È il grande tema della magnificenza e della magnanimità, come le più alte virtù, che domina, in continua ascesa, questa giornata (cfr. anche l’insistenza linguistica: X 1,4, 2,27; 3,5, e 31; 6,29;
7,15; 8,26; 9,20 e 39; 10,48). La quale conclude l’opera, la commedia dell’uomo, con questo trionfo, quasi una proiezione utopica,
della virtù e della magnanimità su tutto e su tutti.
2
Vita Nuova, XXIII 25: «una nuvoletta avean davanti»; Petrarca, CXV 12 sg.: «A lui la faccia lagrimosa e trista | Un nuviletto intorno ricoverse».
3
li colpivano.
Letteratura italiana Einaudi
1310
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
4
lunga4, cominciando il sole già troppo a riscaldare, al palagio si ritornarono. E quivi dintorno alla chiara fonte
fatti risciacquare i bicchieri, chi volle alquanto bevve, e
poi fra le piacevoli ombre del giardino infino ad ora di
mangiare s’andarono sollazzando. E poi ch’ebber mangiato e dormito, come far soleano, dove al re piacque si
ragunarono, e quivi il primo ragionamento5 comandò il
re a Neifile, la quale lietamente così cominciò.
4
5
fatto un giro assai ampio: VIII 8,18 n.
novella, novellare: VI concl., 17 n.; VII 5,2 n.; VII 5,2 n.
Letteratura italiana Einaudi 1311
NOVELLA PRIMA
1
Un cavaliere serve al re di Spagna; pargli male esser guiderdonato, per che il re con esperienzia certissima gli mostra non esser colpa di lui, ma della sua malvagia fortuna, altamente donandogli poi1.
1
ricompensandolo poi con doni magnifici, generosi. L’episodio
decisivo della novella - cioè la scelta avventurosa fra due oggetti
apparentemente identici - è uno dei temi già cari alla letteratura
classica (per es. Esiodo, Teogonia, vv. 528 sgg.; Igino, Poeticon
Astronomicon II 15 ecc.), alla narrativa orientale (per es. Vikramacarita, Tamil, Cukasaptati, Lalitavistara: cfr. «Journal Asiatic Society», VI, 1845, pp. 289 sgg.; BENFEY, op. cit., p. 408; E.
BRAUNHOLZ, Die erste nichtchristliche Parabel des Barlaam und
Josapbat, Halle 1883, pp. 7 sgg.; e anche CLOUSTON, Eastern romances cit., pp. 489 sgg.), alla letteratura popolare di tutti i secoli
(Thompson, L 211, J 1675.3 e Aggiunte, p. 475). Ma per parlare di
antecedenti del B. bisogna riferirsi a testi medievali in cui l’episodio si precisa nella scelta fra due forzieri dal contenuto assai diverso; dalla Storia di Barlaam e Giosafat (VI: già nella red. greca del secolo IX: BRAUNHOLZ, op. cit.) tale episodio sembra poi essere
ripetuto più o meno precisamente nel Ruodlieb (I. GRIMM - A.
SCHMELLER, Lateinische Gedichte, Göttingen 1838, p. 127), negli Exempla di Jacques de Vitry (XLVII e anche XLII), nello Speculum bistoriale di Vincenzo di Beauvais (XV 10), nella Legenda
Aurea di Jacopo da Varazze (180), nella Summa praedicantium del
Bromyard (Honor., 4), nei Gesta Romanorum e nelle varie versioni
(ed. Oesterley, Berlin 1872, pp. 259 e 655 e cfr. BRAUNHOLZ,
op. cit.), nell’antico romanzo francese Girart de Rossilon (ed. Mignard, Paris 1858), nel poemetto di Jean de Condé, Dis dou roi et
des hermites (ed. A. Scheler, Berlin 1884), nei Contes moralisés de
Nicole Bozon (ed. L. Toulmin Smith - P. Meyer, Paris 1889) ecc.
Più lungo discorso e più ampia enumerazione richiederebbero tutti i racconti medievali che hanno per terna la scelta tra cose apparentemente identiche, l’una delle quali cela un tesoro: basti ricordare - come più prossimi alla cultura del B. - ancora i Gesta
Romanorum (CIX), il De diversis materiis praedicabilibus di Etienne de Bourbon (ed. cit., p. 361), alcune delle Latin Stories pubblicate dal Wright (ed. cit., nn. 25, 104), il poemetto antico francese
Renart le contrefait (BRAUNHOLZ, op. cit., p. 75) e soprattutto il
Novellino (LXXIX: e quelle dell’ed. Biagi, CXLVII e CVXII, ed.
Borghini, LXV). Simile, anche per il paragone del re con la mula,
Letteratura italiana Einaudi
1312
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
2
3
4
– Grandissima grazia, onorabili donne, reputar mi
debbo, che il nostro re me a tanta cosa, come è a raccontar della magnificenzia, m’abbia preposta2, la quale, come il sole è di tutto il cielo bellezza e ornamento, è chiarezza e lume di ciascuna altra virtù3. Dironne adunque
una novelletta, assai leggiadra al mio parere, la quale
rammemorarsi4 per certo non potrà esser se non utile.
Dovete adunque sapere che, tra gli altri valorosi cavalieri che da gran tempo in qua sono stati nella nostra
città, fu un di quegli e forse il più da bene, messer Ruggieri de Figiovanni5; il quale essendo e ricco e di grande
una narrazione dell’Avventuroso Ciciliano (II 17; e non si dimentichino le novelle in qualche modo di analoga ispirazione già narrate
dal B.: I 3 e I 7). Ma sull’enorme fortuna del tema, che s’amplia fino
a Shakespeare e La Fontaine, vedi, oltre le solite opere,
BRAUNHOLZ, op. cit.; SIMROK, Die Quellen des Shakespeare cit.;
L. DI FRANCIA, Alcune novelle cit., 1907. Per la popolarità anche
nella novellistica cfr. Thompson e Rotunda, J 260, 1675.3 e L 211.
2
mi abbia incaricata di parlar prima di tutti gli altri di una cosa
così grande ...: X 5,26 n. E nota il solito plenasmo ( m e ... m’).
3
Paragone luminoso che può ricordare quello usato per «i leggiadri motti» da Pampinea (I 10,3) e da Filmena (VI 1,2). «La magnificenza è una delle virtù considerate dall’etica di Aristotile, precisamente quella che presiede all’uso munifico e ragionato delle
grandi ricchezze (cfr. Dante, Convivio, IV XVII ); è dunque essenzialmente la virtù dei principi e dei potenti; essa, quando coopera
con le altre virtù, le colorisce di grandezza e le illumina di splendore» (Sapegno).
4
il ricordarsi la quale, il ricordo della quale.
5
Nobile famiglia fiorentina, che aveva case e possedimenti anche a Certaldo. Un Carlo de’ Figiovanni, cui fu attribuito un volgarizzamento delle Eroidi ovidiane, scrive anzi in fronte alla sua opera: «Sovente ne’ giovanili anni essendo consueto di andare a una
mia possessione a Certaldo, vicina a quella del nostro Messer Giovanni Boccaccio, più volte l’andai a visitare, il quale allora quasi
negli ultimi suoi giorni quivi pacificamente si dimorava. E da lui
più cose e bellissimi detti appresi ... e col suo aiuto più cose composi e tradussi ... fra le quali furono le Epistole di Ovidio» (ma per
queste notizie assai dubbie cfr. E. BELLORINI, Note sulle traduzioni italiane delle Eroidi, Torino 1900, e Nota sulla traduzione delle Eroidi attribuita a Carlo Figiovanni, in Miscellanea ... D’Ancona,
Firenze 1901),
Letteratura italiana Einaudi 1313
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
5
6
7
animo, e veggendo che, considerata la qualità del vivere
e de’ costumi di Toscana, egli, in quella dimorando, poco o niente potrebbe del suo valor dimostrare, prese per
partito di volere un tempo essere appresso6 ad Anfonso
re d’Ispagna7, la fama del valore del quale quella di ciascun altro signor trapassava a que’tempi8. E assai onorevolmente in arme e in cavalli e in compagnia9 a lui se
n’andò in Ispagna, e graziosamente fu dal re ricevuto.
Quivi adunque dimorando messer Ruggieri, e splendidamente vivendo, e in fatti d’arme maravigliose cose
faccendo, assai tosto si fece per valoroso cognoscere. E
essendovi già buon tempo dimorato, e molto alle maniere del re riguardando, gli parve che esso ora ad uno e
ora ad un altro donasse castella e città e baronie assai
poco discretamente, sì come dandole a chi nol valea10; e
per ciò che a lui, che da quello che egli era si teneva,
niente era donato, estimò che molto ne diminuisse la fama sua; per che di partirsi diliberò, e al re domandò
commiato. Il re gliele concedette, e donogli una delle
miglior mule che mai si cavalcasse e la più bella, la quale
6
decise (II 7,81 n.) di volere per qualche tempo vivere presso.
Alfonso VIII di Castiglia (I:155-1214) fu celebratissimo da
poeti e storici per le sue guerre contro i Mussulmani e per la sua liberalità; Dante lo esaltò «per li suoi reali benefici» accanto ad
Alessandro e al Saladino (Convivio, IV XI 14). Questa alta fama
diffusa proprio a Firenze e l’accenno della novellatrice a tempi assai remoti, rende più che improbabile l’ipotesi del Manni e di altri
che non Alfonso VIII ma Alfonso XI (1311-50) sia presentato in
questa novella. Piuttosto se mai si potrebbe pensare anche ad
Alfonso X, il Savio (1221-84) che Brunetto Latini - già ambasciatore di Firenze alla sua corte nel 1260 - magnificò altamente nel Tesoretto (II). La forma del nome riflette quella provenzale (n’Amfos)
e catalana (n’Anfos): anche nel Tesoretto, II 134 «Re Nanfosse»; e
cfr. IV 3,8 n.
8
Ricorda la lode a Cangrande che apre la I 7.
9
e fornito assai riccamente di armi e di cavalli e di servitù.
10
con assai poco discernimento, dandole a chi non ne era degno o
a chi non valeva lui, non era valente come lui. «Lamenti tradizionali
nella poesia occitanica» (Petronio),
7
Letteratura italiana Einaudi
1314
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
per lo lungo cammino che a fare avea, fu cara a messer
Ruggieri. Appresso questo, commise il re ad un suo discreto famigliare che, per quella maniera che miglior gli
paresse, s’ingegnasse di cavalcare la prima giornata con
messer Ruggieri, in guisa che egli non paresse dal re
mandato, e ogni cosa che egli dicesse di lui raccogliesse11, sì che ridire gliele sapesse, e l’altra mattina appres12
gli comandasse che egli indietro al re tornasse. Il faso
9
migliare, stato attento, come messer Ruggieri uscì della
terra, così assai acconciamente13 con lui si fu accompagnato14, dandogli a vedere che egli veniva verso Italia.
Cavalcando adunque messer Ruggieri sopra la mula
10
dal re datagli, e con costui d’una cosa e d’altra parlando,
essendo vicino ad ora di terza, disse: «Io credo che sia
11 ben fatto che noi diamo stalla a queste bestie». Ed entrati in una stalla, tutte l’altre, fuor che la mula, stallarono15. Per che cavalcando avanti, stando sempre il famiglio attento alle parole del cavaliere, vennero ad un
fiume, e quivi abbeverando le lor bestie, la mula stallò
nel fiume. Il che veggendo messer Ruggieri, disse:
«Deh! dolente ti faccia Dio, bestia, ché tu se’ fatta come
il signore che a me ti donò».
Il famigliare questa parola ricolse16, e come che mol12
te ne ricogliesse camminando tutto il dì seco, niun’altra,
8
11
ascoltasse attentamente e ricordasse.
la mattina seguente: IX 5,39.
accortamente, opportunamente: I 7,27 n.
14
Nota il solito trapassato remoto (II 5,58 n.)
15
stabbiarono, defecarono, si sgravarono il ventre.
16
A sottolineare l’ubbidienza agli ordini del re è usata la stessa
parola (cfr. 8 «raccogliesse»): e cfr. I 9,3 n.
12
13
Letteratura italiana Einaudi 1315
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
13
14
15
16
se non in somma lode del re, dirne gli udì; per che la mattina seguente, montati a cavallo e volendo cavalcare verso
Toscana, il famigliare gli fece il comandamento del re, per
lo quale messer Ruggieri incontanente tornò addietro. E
avendo già il re saputo quello che egli della mula aveva
detto, fattolsi chiamar con lieto viso il ricevette, e domandollo perché lui alla sua mula avesse assomigliato,
ovvero la mula a lui.
Messer Ruggieri con aperto viso17 gli disse: «Signor
mio, per ciò ve l’assomigliai, perché, come voi donate
dove non si conviene, e dove si converrebbe non date,
così ella dove si conveniva non stallò, e dove non si convenia sì».
Allora disse il re: «Messer Ruggieri, il non avervi donato, come fatto ho a molti, li quali a comparazion di voi
da niente sono18, non è avvenuto perché io non abbia
voi valorosissimo cavalier conosciuto e degno d’ogni
gran dono, ma la vostra fortuna, che lasciato non m’ha19,
in ciò ha peccato e non io; e che io dica vero, io il vi mosterrò manifestamente».
A cui messer Ruggieri rispose: «Signor mio, io non
mi turbo di non aver dono ricevuto da voi, per ciò che io
nol desiderava per esser più ricco, ma del non aver voi
in alcuna cosa testimonianza renduta alla mia virtù20;
nondimeno io ho la vostra per buona scusa e per onesta,
e son presto di veder ciò che vi piacerà, quantunque io
vi creda senza testimonio21».
17
Cioè con franchezza e senza soggezione: IV 1,31 «con asciutto viso e aperto»; Inf., X 93.
18
a vostro paragone non valgono nulla: Proemio, 3 n.
19
che non me lo ha permesso, che non mi ba dato occasione: cfr.
V 3,19 n. «Scusa sciocchissima» (M.). Affermazione analoga nella
IV 1,38: «non il mio peccato ma quello della fortuna riprendi».
20
valore.
21
testimonianza: Inf., XVIII 62; Par., XVII 54.
Letteratura italiana Einaudi
1316
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
Menollo adunque il re in una sua gran sala, dove, sì
come egli davanti aveva ordinato, erano due gran forzieri serrati, e in presenzia di molti gli disse: «Messer Ruggieri, nell’uno di questi forzieri è la mia corona, la verga
reale22 e ’l pomo23, e molte mie belle cinture, fermagli,
anella e ogn’altra cara gioia che io ho; l’altro è pieno di
terra: prendete adunque l’uno, e quello che preso avrete
sì sia vostro, e potrete vedere chi è stato verso il vostro
valore ingrato, o io o la vostra fortuna».
Messer Ruggieri, poscia che vide così piacere al re,
18
prese l’uno, il quale il re comandò che fosse aperto, e
trovossi esser quello che era pien di terra. Laonde il re
ridendo disse: «Ben potete vedere, messer Ruggieri, che
quello è vero che io vi dico della fortuna; ma certo il vo19 stro valor merita che io m’opponga alle sue forze24. Io so
che voi non avete animo25 di divenire spagnuolo, e per
ciò non vi voglio qua donare né castel né città, ma quel
forziere che la fortuna vi tolse, quello in dispetto di lei
voglio che sia vostro, acciò che nelle vostre contrade nel
possiate portare, e della vostra virtù con la testimonianza de’miei doni meritamente gloriar vi possiate co’ vostri
vicini26».
Messer Ruggieri presolo, e quelle grazie rendute al
20
re che a tanto dono si confaceano, con esso lieto se ne ritornò in Toscana. –
17
22
lo scettro: Amorosa Visione, IV 29; Dante, Rime, CVXII 10;
Petrarca, LIII 4.
23
«Quella palla che ha sopra una crocetta, portata in mano dagli imperatori e da’ re» (C.). Erano i segni che il B. già aveva altrove citati come caratteristici della regalità (Filocolo, IV 74,7; Teseida, XI 36; Amorosa Visione, I 34 sgg.).
24
È il grande tema della virtù che deve vincere la fortuna. «O
s’egli avesse preso l’altro, che aresti tu detto, beccone?» (M.).
25
intenzione, desiderio.
26
concittadini: III 4,3 n.; Inf., XVII 68; Purg., XI 140.
Letteratura italiana Einaudi 1317
NOVELLA SECONDA
1
Ghino di Tacco piglia l’abate di Clignì e medicalo del male
dello stomaco e poi il lascia; il quale, tornato in corte di Roma,
lui riconcilia con Bonifazio papa e fallo friere dello Spedale1.
2
Lodata era già stata da tutti la magnificenzia del re
Anfonso nel2 fiorentin cavaliere usata, quando il re, al
quale molto era piaciuta, ad Elissa impose che seguitasse, la quale prestamente incominciò:
– Dilicate3 donne, l’essere stato un re magnifico, e
l’avere la sua magnificenzia usata verso colui che servito
3
1
frate spedaliere, cioè dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, poi di Malta ( f r i e r e per frère è iperfrancesismo corrente in espressioni simili). Nessun vero antecedente per questa novella, che è rinarrata come storica da vari commentatori danteschi a
proposito di Purg., VI 13 sg. (per es. da Benvenuto da Imola, dal
Buti, dal Landino ecc.), e anche da alcuni cronisti, per es. negli Annali Senesi (RR. II. SS., XIX 420). Ma già il Muratori, preludendo a
questo testo (p. 385), osservava che la narrazione deriva chiaramente dal B., come è evidente anche per i citati commenti danteschi. L’episodio, riferendosi forse anche a tradizioni popolari
(Thompson e Rotunda, J 1606) ebbe ampia fortuna e fu attribuito
a personaggi diversi (Grand Parangon cit., 125; KÖHLER, Kleinere Schriften cit., I, p. 137 ecc.). Un’avventura simile si narra però
proprio di un abate di Cluny nel secolo XII; il quale mentre attraversava la Lunigiana, improvvisamente accerchiato da armigeri dei
Malaspina, fu brigantescamente spogliato (F. L. MANNUCCI, I
Marchesi Malaspina e i poeti provenzali, in Dante e la Lunigiana,
Milano 1909, p. 42).
2
verso il: III 6,14 n.
3
Uno degli aggettivi che il B. ama usare per le sue donne (V 2,4
n.).
Letteratura italiana Einaudi
1318
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
4
l’avea, non si può dire che laudevole e gran cosa non sia;
ma che direm noi se si racconterà un cherico4 aver mirabil magnificenzia usata verso persona che, se inimicato
l’avesse5, non ne sarebbe stato biasimato da persona6?
Certo non altro se non che quella del re fosse virtù, e
quella del cherico miracolo, con ciò sia cosa che essi tutti avarissimi troppo più che le femine sieno, e d’ogni liberalità nimici a spada tratta7. E quantunque ogn’uomo
naturalmente appetisca vendetta delle ricevute offese, i
cherici, come si vede, quantunque la pazienzia predichino e sommamente la remission delle offese commendino,
più focosamente che gli altri uomini a quella discorrono8.
La qual cosa, cioè come un cherico magnifico fosse, nella
mia seguente novella potrete conoscere aperto.
4
un ecclesiastico.
tale che se l’avesse osteggiato, trattato da nemico: X 8,86:
«quanto lo sdegno de’ romani animi possa, sempre nimicandovi, vi
farò per esperienza conoscere».
6
Si imposta fin dalla seconda novella il ritmo ascensionale, quasi di gara nel presentare esempi sempre più straordinari, che caratterizza la X giornata.
7
«Nota un peduccio pe’ cherici e per le femine» (M.). Dell’avarizia degli ecclesiastici già più volte il B. aveva toccato pungentemente (per es. I 2 e 6; III 3 e 7; VIII 2,24 sgg.; e Amorosa Visione,
XIV); e anche altrove accenna a quella quasi naturale delle donne
(per es. VIII I; X 9,30: «le donne secondo il lor picciol cuore piccole cose danno»).
8
trascorrono, si lasciano andare: Intr., 57 n.
5
Letteratura italiana Einaudi 1319
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
5
Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso9, essendo di Siena cacciato e nimico de’conti di Santa Fiore, ribellò10 Radicofani alla
9
Gentiluomo senese della famiglia dei signori della Fratta, divenuto di bandito (1276?) masnadiero, ebbe gran nome in quel secolo per le sue ruberie e la sua audacia e per le lotte con Bonifacio
VIII. Morì probabilmente presso Sinalunga verso il 1303 o il 1313.
Dante ne ricorda la feroce vendetta su Benincasa da Laterina - che
aveva condannato due suoi parenti - ucciso a Roma nel tribunale
stesso (Purg., VI 13 sg.: «Quiv’era l’Aretin che da le braccia |
F i e r e di Ghin di Tacco ebbe la morte»): ma i commentatori e i
cronisti nel narrare il fatto circondano sempre Ghino di un alone
di generosità e di simpatia in cui, come abbiamo detto, incastonano anche questa novella. «Dicono che Ghino fu grande di statura,
membruto e robustissimo e molto liberale, ed esercitava il latrocinio non per avarizia, ma per potere usare liberalità, e volea che chi
gli venia nelle mani si ponesse per se medesimo la taglia e dipoi
gnene rendeva buona parte, e se avesse trovato uomini studiosi gli
donava danari e confortavagli agli studi. Conoscendo Bonifazio
che lui solamente per liberalità predava, lo chiamò a Roma e fecelo
Cavaliere friere ...» Così il Landino riassumendo Benvenuto da
Imola, e consacrando una fama popolaresca riecheggiata anche da
san Bernardino da Siena (Le prediche volgari, Milano 1936, XXII,
pp. 470 sg.; e anche altrove: cfr. C. DELCORNO, L’«exemplum»
nella predicazione di Bernardino da Siena, in AA.VV., Bernardino
predicatore nella società del suo tempo, Todi 1976). Cfr. E. SANTINI, Il B. novellatore d’amore cit.; E. HUTTON, In unknown Tuscany, London 1909, pp. 101 sgg.; G. CECCHINI, Ghino di Tacco,
in «Arch. Stor. It.», CXV, 1957.
10
fece ribellare. «[Ghino] cacciato per opera dei Conti di Santa
Fiora, occupò il castello di Radicofani e lo rivolse contro il Papa»
(Benvenuto da Imola: l’episodio accadde verso il 1295). «Radicofani, in posizione eminente sulla via Cassia, dominava la regione di
frontiera tra il territorio senese e lo Stato della Chiesa» (Contini).
Santafiora era un castello nella Maremma senese appartenente alla
casa Aldobrandesca (Purg., VI 111; «questi conti di Santafiora furono un tempo potentissimi nella Maremma senese: ma i Senesi li
prostrarono»: così Benvenuto da Imola): e il Buti narra che Ghino
e i suoi parenti «aveano tolto al comune di Siena un castello che
era in Maremma».
Letteratura italiana Einaudi
1320
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
6
7
8
Chiesa di Roma, e in quel dimorando, chiunque per le
circustanti parti passava rubar faceva a’suoi masnadieri11.
Ora, essendo Bonifazio papa ottavo12 in Roma, venne a
corte l’abate di Clignì, il quale si crede essere un de’più
ricchi prelati del mondo13, e quivi guastatoglisi lo stomaco, fu da’medici consigliato che egli andasse a’bagni di
Siena14, e guerirebbe senza fallo. Per la qual cosa, concedutogliele il papa, senza curar della fama di Ghino, con
grandissima pompa d’arnesi e di some e di cavalli e di
famiglia entrò in cammino.
Ghino di Tacco, sentendo la sua venuta, tese le reti15, e, senza perderne un sol ragazzetto16, l’abate con
tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo
racchiuse. E questo fatto, un de’suoi, il più saccente17,
bene accompagnato mandò allo abate; il qual da parte
di lui assai amorevolmente18 gli disse, che gli dovesse
piacere d’andare a smontare19 con esso Ghino al castel-
11
Per lo svolgimento del senso di questo termine, da soldato di
ventura a ladro, assassino cfr. II 2,4 n. e III 7,99 n.
12
Alla latina («Bonifacius papa octavus»). Già altre volte era
stato nominato nel D. (I 1, VI 2); ma qui il grande antagonista di
Dante è ritratto direttamente.
13
Anche nella I 7,12 n., presentando questo personaggio tradizionale e favoloso nella novellistica medievale (cfr. per es. Recueil
général cit., V 123,136; VI 150), il B. scriveva: «il più ricco prelato
di sue entrate che abbia la Chiesa di Dio, dal Papa in fuori». I benedettini riformati cluniacensi erano notevolmente presenti anche
nel Senese.
14
Erano famosi in quel periodo, nelle terre di Siena, i bagni di
San Casciano e di Rapolano (non lontani da Radicofani), di Petriuolo (nominati da Folgore da San Gimignano), di Macereto ecc.
15
Cfr. Inf., XXX 7 sgg.
16
senza che gli sfuggisse neppure un servitorello, un mozzo di stalla (cfr. II 4,15 n. e II 8,1 n.).
17
accorto, furbo, colto (sicilianismo): IX 8,13 n.
18
con bel garbo, cortesemente (IV 8,10): come più sotto, 9,
u m i l m e n t e (V 9,21).
19
Espressione di cortesia per cui cfr. VI 2,8.
Letteratura italiana Einaudi 1321
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
lo. Il che l’abate udendo, tutto furioso rispose che egli
non ne voleva far niente, sì come quegli che con Ghino
niente aveva a fare; ma che egli andrebbe avanti, e vorrebbe veder chi l’andar gli vietasse.
9
Al quale l’ambasciadore umilmente parlando disse:
«Messere, voi siete in parte20 venuto dove, dalla forza di
Dio in fuori, di niente ci si teme per noi21, e dove le scomunicazioni e gl’interdetti sono scomunicati22 tutti; e
per ciò piacciavi per lo migliore23 di compiacere a Ghino di questo».
Era già, mentre queste parole erano24, tutto il luogo
10
di masnadieri circundato; per che l’abate, co’suoi preso
veggendosi, disdegnoso forte, con l’ambasciadore prese
la via verso il castello, e tutta la sua brigata e li suoi arnesi25 con lui; e smontato, come Ghino volle, tutto solo fu
messo in una cameretta d’un palagio assai oscura e disagiata, e ogn’altro uomo secondo la sua qualità per lo castello fu assai bene adagiato26, e i cavalli e tutto l’arnese
messo in salvo, senza alcuna cosa toccarne.
11
E questo fatto, se n’andò Ghino all’abate e dissegli:
«Messere, Ghino, di cui voi siete oste27, vi manda pre-
20
in parte tale, in luogo tale, o semplicemente dove: II 4,15 n.
eccetto la forza di Dio (I 7,12), niente è qui temuto da noi (Intr., 55 n.), nulla qui noi temiamo. «Rovesciato in passivo per minor
iattanza: c i è l’avverbio attualizzante» (Contini).
22
Cioè: non hanno né forza né valore. L’interdetto è sentenza
che vieta l’esercizio del culto.
23
per il vostro meglio: II 5,5 4 n.
24
si tenevano, si dicevano. Intr., 78: «Mentre tralle donne erano
così fatti ragionamenti».
25
equipaggiamenti: cfr. II 8,98.
26
alloggiato, sistemato comodamente: IX 6,11 n.
27
ospite (IX 6,16): «con ciò Ghino si mette senz’altro alla pari
coll’abate» (Bosco).
21
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
gando28 che vi piaccia di significarli dove voi andavate, e
per qual cagione».
L’abate, che, come savio, aveva l’altierezza giù
12
posta29, gli significò dove andasse e perché. Ghino, udito questo, si partì, e pensossi di volerlo guerire senza bagno; e faccendo nella cameretta sempre ardere un gran
fuoco e ben guardarla, non tornò a lui infino alla seguente mattina; e allora in una tovagliuola bianchissima
gli portò due fette di pane arrostito e un gran bicchiere
di vernaccia da Corniglia30, di quella dello abate medesi13 mo, e sì disse all’abate: «Messer, quando Ghino era più
giovane, egli studiò in medicina, e dice che apparò niuna medicina al mal dello stomaco esser miglior che quella che egli vi farà, della quale queste cose che io vi reco
sono il cominciamento; e per ciò prendetele e confortatevi31».
L’abate, che maggior fame aveva che voglia di mot14
teggiare, ancora che con isdegno il facesse, sì32 mangiò il
pane e bevve la vernaccia, e poi molte cose altiere disse e
28
Uso del gerundio con m a n d a r e solito nel D.: IV 2,23 n.
deposta: cfr. III 9,60 n.
30
Vino bianco secco assai pregiato e così chiamato da Vernazza
e Corniglia, paesi delle Cinque Terre nella provincia di La Spezia
(cfr. O. BACCI, La vernaccia dell’abate di Cligní, in «Fanfulla della
Domenica», XXIX, 1907). Altri pensa a Cornille o Corneuil in
Francia: ma cfr. Purg., XXIV 24; Sacchetti, CLXXVII: «pensò trovare modo di far venire magliuoli da Portovenere della vernaccia
di Corniglia»; Corbaccio, 312: «investigatrice e bevitrice del buon
vino cotto, della vernaccia da Corniglio, del greco o di qualunque
altro buon vino»; e anche II 10,7; VIII 3,9 n.; VIII 6 passim.
31
e state di buon animo: V 9,16 n.
32
pure.
29
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
di molte domandò e molte ne consigliò, e in ispezieltà33
chiese di poter veder Ghino. Ghino, udendo quelle,
15 parte ne lasciò andar sì come vane34, e ad alcuna assai
cortesemente rispose, affermando che come Ghino più
tosto potesse il visiterebbe; e questo detto, da lui si
partì, né prima vi tornò che il seguente dì con altrettanto
pane arrostito e con altrettanta vernaccia; e così il tenne
più giorni, tanto che egli s’accorse l’abate aver mangiate
fave secche, le quali egli studiosamente35 e di nascoso
portate v’aveva e lasciate.
16
Per la qual cosa egli il domandò da parte di Ghino
come star gli pareva dello stomaco; al quale l’abate rispose: «A me parrebbe star bene, se io fossi fuori delle
sue mani; e appresso questo, niun altro talento36 ho
maggiore che di mangiare, sì ben m’hanno le sue medicine guerito».
17
Ghino adunque avendogli de’ suoi arnesi medesimi
e alla sua famiglia fatta acconciare una bella camera, e
fatto apparecchiare un gran convito, al quale con molti
uomini del castello fu tutta la famiglia dello abate, a lui
se n’andò la mattina seguente e dissegli: «Messere, poi
che voi ben vi sentite, tempo è d’uscire d’infermeria»; e
per la man presolo37, nella camera apparecchiatagli nel
menò, e in quella co’suoi medesimi lasciatolo, a far che il
convito fosse magnifico attese.
33
specialmente, in particolare: Morelli, Ricordi, p. 372: «appresso uccidere ciascuno di loro certi loro nemici in ispezieltà».
34
«Eco del verso dantesco (nella canzone Donne ch’avete) ‘E se
non vuoli andar sì come vana’. Si riferisce alle cose altiere ancora
dette dall’abate benché avesse l’ a l t i e r e z z a g i ú p o s t a », 12
(Contini).
35
a bella posta, a bello studio: IV I,17 n.
36
voglia, desiderio: Inf. II 8I.
37
In atto di rispetto e di onore: X 4,41; X 7,33; X 9,96; X 10,19
ecc.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
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21
22
L’abate co’suoi alquanto si ricreò38, e qual fosse la
sua vita stata narrò loro, dove essi in contrario tutti dissero sé essere stati maravigliosamente onorati da Ghino.
Ma l’ora del mangiar venuta, l’abate e tutti gli altri ordinatamente e di buone vivande e di buoni vini serviti furono, senza lasciarsi Ghino ancora all’abate conoscere.
Ma poi che l’abate alquanti dì in questa maniera fu dimorato, avendo Ghino in una sala tutti li suoi arnesi fatti venire, e in una corte, che di sotto a quella era, tutti i
suoi cavalli in fino al più misero ronzino allo abate se
n’andò e domandollo come star gli pareva e se forte si
credeva essere da cavalcare. A cui l’abate rispose che
forte era egli assai e dello stomaco ben guerito, e che starebbe bene qualora fosse fuori delle mani di Ghino.
Menò allora Ghino l’abate nella sala dove erano i
suoi arnesi e la sua famiglia tutta, e fattolo ad una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere, disse: «Messer l’abate, voi dovete sapere che l’esser
gentile uomo e cacciato di casa sua e povero, e avere
molti e possenti nimici, hanno, per potere la sua vita e la
sua nobiltà difendere, e non malvagità d’animo, condotto39 Ghino di Tacco, il quale io sono, ad essere rubatore
delle strade e nimico della corte di Roma40. Ma per ciò
38
si svagò, o si confortò: X 8,109 n.; Par., XXXI 43.
«Nota con quanta espressione e forza l’ausiliare è separato dal
suo participio a mostrare la ripugnanza con la quale Ghino si era
condotto al vil mestiere che esercitava» (Fanfani).
40
«Non deve parere strano che a giustificazione delle sue ‘ruberie’ Ghino di Tacco ricordi, oltre l’esilio e la povertà e la persecuzione di potenti nemici, anche ‘l’essere gentile uomo’: il Sacchetti,
CCXIV, dopo aver narrato della ruberia di ‘un gentiluomo il cui
nome tacerò per onestà’, osserva: ‘Li gentili d’oggi tengono essere
gentilezza vivere di ratto’» (Rua).
39
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23
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25
26
che voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco guerito, come io ho, non intendo di trattarvi come
un altro farei, a cui41, quando nelle mie mani fosse come
voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse; ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre cose facciate che voi
medesimo volete. Elle sono interamente qui dinanzi da
voi tutte, e i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra
nella corte vedere; e per ciò e la parte e il tutto come vi
piace prendete, a da questa ora innanzi sia e l’andare e
lo stare nel piacer vostro42.
Maravigliossi l’abate che in un rubator di strada fosser parole sì libere43, e piacendogli molto, subitamente la
sua ira e lo sdegno caduti44, anzi in benivolenzia mutatisi, col cuore amico di Ghino divenuto, il corse ad abbracciar dicendo: «Io giuro a Dio che, per dover guadagnar l’amistà d’uno uomo fatto come omai io giudico
che tu45 sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui paruta46 m’è che tu
m’abbi fatta. Maladetta sia la fortuna, la quale a sì dannevole47 mestier ti costrigne! E appresso questo, fatto
delle sue molte cose pochissime e opportune48 prendere,
41
rispetto al quale, nei cui confronti.
Formula signorile di commiato: I 7,26 n.
43
liberali, generose, nobili.
44
Più energico che cessati: X 3,27: «gli cadde il furore»; Inf.,
XXI 85.
45
Nota il tu dell’abate, consapevole della propria superiorità
anche nello slancio di ammirazione: e cfr. S. ZINI, Il tu e il voi nel
D., in «Lingua Nostra», III, 1941.
46
il soggetto di è p a r u t a è la proposizione c h e t u m’ a b
b i f a t t o e quindi il participio dovrebbe essere maschile. Ma la
costruzione è naturale e corrente: cfr. Mussafia, p. 444. Per la forma p a r u t o cfr. I 1,41; X concl., 5.
47
biasimevole, da condannarsi.
48
necessarie: cfr. IV intr., 16 n.
42
Letteratura italiana Einaudi
1326
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
e de’cavalli similmente, e l’altre lasciategli tutte, a Roma
se ne tornò.
Aveva il Papa saputa la presura49 dello abate e, come
27
che molto gravata gli fosse50, veggendolo il domandò come i bagni fatto gli avesser pro. Al quale l’abate sorridendo rispose: «Santo Padre, io trovai più vicino che i
bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito
m’ha»; e contogli il modo; di che il Papa rise: al quale
l’abate, seguitando il suo parlare, da magnifico51 animo
mosso, domandò una grazia.
Il Papa, credendo lui dover domandare altro, libera28
mente52 offerse di far ciò che domandasse. Allora l’abate
disse: «Santo Padre, quello che io intendo di domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di Tacco
mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da
molto che io accontai53 mai, egli è per certo un de’più; e
quel male il quale egli fa, io il reputo molto maggior peccato della fortuna54 che suo; la qual se voi con alcuna co29 sa dandogli55, donde egli possa secondo lo stato suo vivere, mutate, io non dubito punto che in poco di tempo
non ne paia a voi quello che a me ne pare».
49
cattura: il 1,24 n.
e benché gli fosse motto dispiaciuta: il 5,31 n.
51
magnanimo, generoso: cfr. V 9,39 n.
52
Cioè senza condizione alcuna: il 8,35 n.
53
conobbi, avvicinai: il 3,1 n.
54
Cfr. Proemio, 13: «in parte per me s’amendi il peccato della
fortuna»: tema insistente in tutta questa giornata (per es. 1,18;
7,35; 8,19 e 22; 9,55; 10,48).
55
col dargli alcuna cosa. Frequente era l’uso del gerundio con
preposizione, quasi un infinito declinato: cfr. Testi fiorentini, p. 37:
«con avendo», p. 170: «con sappiendo»; äKERLJ, Syntaxe cit., 210
e 782 sgg., 7,90; Rohlfs, 721.
50
Letteratura italiana Einaudi 1327
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
Il Papa, udendo questo, sì come colui che di grande
animo fu e vago56 de’valenti uomini, disse di farlo volentieri, se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse
31 sicuramente57 venire. Venne adunque Ghino fidato58,
come allo abate piacque, a corte; né guari appresso del
Papa fu, che egli il reputò valoroso, e riconciliatoselo gli
donò una gran prioria di quelle dello Spedale59, di quello avendol fatto far cavaliere. La quale egli, amico e servidore di santa Chiesa e dello abate di Clignì, tenne
mentre visse60. 30
56
amante, che si compiaceva: I 1,14.
Cioè con un salvacondotto.
58
assicurato, garantito sulla fede del Papa: Tristano Riccardíano,
p. 93: «fidatemi voi la persona?»
59
Cioè dell’ordine degli Spedalieri di San Giovanni di Gerusalemme (Villani VIII 104): con allusione scherzosa alla scienza medica di Ghino?
60
Morì, com’è stato detto, circa il 1303 o 1313. «Se poi veramente Bonifacio VIII lo abbia perdonato e colmato di favori è una
questione piuttosto dubbia, anche se i tempi e i costumi possono
dare qualche verosimiglianza alla cosa» (Cecchini).
57
Letteratura italiana Einaudi
1328
NOVELLA TERZA
1
Mitridanes, invidioso della cortesia di Natan, andando per ucciderlo, senza conoscerlo capita a lui, e da lui stesso informato
del modo, il truova in un boschetto, come ordinato1 avea, il
quale riconoscendolo si vergogna, e suo amico diviene2.
2
Simil cosa a miracolo per certo pareva a tutti avere
udito, cioè che un cherico alcuna cosa magnificamente
avesse operata; ma riposandosene3 già il ragionare delle
donne, comandò il re a Filostrato che procedesse, il quale prestamente incominciò:
– Nobili donne, grande fu la magnificenzia del re di
Spagna, e forse cosa più non udita giammai quella
dell’abate di Clignì; ma forse non meno maravigliosa cosa vi parrà l’udire che uno, per liberalità usare ad un al-
3
1
disposto, preordinato.
Qualche antecedente della novella sembra si possa trovare come forse indica il B. stesso (cfr. 4) - nelle letterature d’oriente, e
particolarmente nella persiana: nel poema Bostân di Saadi e nella
raccolta di novelle Mahbúb ub Kalúb e soprattutto nella leggenda
araba fiorita attorno a Hatim Taï (cfr. oltre le solite opere: T. F.
CRANE, The sources ol B.’s Novella of Mithridanes and Natan, in
«Romanic Review», Xil, 1921; G. THOUVENIN, La Légende
d’Hatim Taï, in «Romania», LIX, 1933). Un episodio simile a quello della femminella (9-10) è narrato anche nelle Vitae Patrum, già
citate (Patrologia latina, LXXIII), a proposito di Giovanni Elemosiniere (II IV 9 e Acta Sanctorum, gennaio III, 23) e nella Legenda
Aurea (27): derivazioni probabili da una narrazione araba, Anis al
arifin, attorno a Hatim Taï (G. THOUVENIN, art. cit.). E per la
diffusione del tema nella novellistica cfr. Rotunda, W 18*; e cfr. S.
Bernardino, Novellette, Bologna 1868, XIII.
3
cessando, ristando: II 6,82 n.
2
Letteratura italiana Einaudi 1329
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
4
5
6
tro che il suo sangue, anzi il suo spirito4, disiderava, cautamente5 a dargliele si disponesse; e fatto l’avrebbe, se
colui prender l’avesse voluto, sì come io in una mia novelletta intendo di dimostrarvi.
Certissima cosa è (se fede si può dare alle parole
d’alcuni genovesi e d’altri uomini che in quelle contrade
stati sono) che nelle parti del Cattaio6 fu già uno uomo
di legnaggio nobile e ricco senza comparazione, per nome chiamato Natan; il quale, avendo un suo ricetto7 vicino ad una strada per la qual quasi di necessità passava
ciascuno che di Ponente verso Levante andar voleva o di
Levante venire in Ponente, e avendo l’animo grande e liberale e disideroso che fosse per opera8 conosciuto, quivi, avendo molti maestri9, fece in piccolo spazio di tempo fare un de’più belli e de’ maggiori e de’ più ricchi
palagi che mai fosse stato veduto, e quello di tutte quelle
cose che opportune erano a dovere gentili uomini rice-
4
respiro e quindi vita: cfr. più innanzi, 28; Il Boezio e l’Arrighetto volg. a cura di S. Battaglia, Torino 1929, p. 56: «per te solo lo
spirito serba»; e cfr. VIII 3,56 n.
5
Cioè: con abilità e prudenza: cfr. 28 n.
6
Così era chiamata la Cina settentrionale, da Can-zi, nome impostole dalla dinastia ciurcia del Chim. Ed era la terra classica delle ricchezze e delle meraviglie, specialmente dopo le descrizioni di
Marco Polo, certo presenti in questa novella: Natan e il suo palazzo ricordano direttamente Kublai Kan e le sue grandiose dimore
(LXXV e LXXXIV). Ma, forse per il solito spirito antiveneziano,
fonte dichiarata dal B. sono qui «genovesi» che già erano in Cina.
Natan in ebraico vale «colui che ha donato» (Re II 12) (cfr. M. PASTORE STOCCHI, Dioneo ecc., in «Studi sul B.», X, 1977-78).
7
dimora, casa: II 2,15 n.
8
coi fatti, nei fatti: II 8,27 n.
9
artefici in generale (I 3,14 n.), quali muratori, fabbri, falegnami; o forse qui, specificamente, architetti, capi muratori: Nuovi testi
fiorentini, p. 389: «maestri e uno manovale»; Velluti, Cronica, p.
67: «maestro in coprire tetti».
Letteratura italiana Einaudi
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7
8
9
vere e onorare10, fece ottimamente fornire; e avendo
grande e bella famiglia, con piacevolezza e con festa
chiunque andava e veniva faceva ricevere e onorare. E in
tanto perseverò in questo laudevol costume, che già,
non solamente il Levante, ma quasi tutto il Ponente per
fama il conoscea.
Ed essendo egli già d’anni pieno11, né però del corteseggiar12 divenuto stanco, avvenne che la sua fama agli
orecchi pervenne d’un giovane chiamato Mitridanes, di
paese non guari al suo lontano; il quale, sentendosi non
meno ricco che Natan fosse, divenuto della sua fama e
della sua virtù invidioso, seco propose con maggior liberalità quella13 o annullare o offuscare. E fatto fare un palagio simile a quello di Natan, cominciò a fare le più
smisurate cortesie che mai facesse alcuno altro, a chi andava o veniva per quindi14, e senza dubbio in piccol
tempo assai divenne famoso.
Ora avvenne un giorno che dimorando il giovane
tutto solo nella corte del suo palagio, una feminella, entrata dentro per una delle porti 15 del palagio, gli domandò limosina ed ebbela; e ritornata per la seconda
porta pure a lui, ancora l’ebbe, e così successivamente
insino alla duodecima; e la tredecima16 volta tornata,
10
Cfr. II 6,73 n. e II 7,48 n.
Come Coppo Domenichi (V 9,4): «essendo già d’anni pieno».
12
Spendere in cortesia, far cortesie: Latini, Tesoretto, 1500 sgg.:
«se tu ti senti | Lo poder di donare | Ben dei corteseggiare»; Fiore,
XXIV 7: «perch’egli ha corteseggiato; Velluti, Cronica, p. 34: «la
giovanezza col corteseggiare e stare troppo in brigata lo sconcia».
13
«Si riferisce alla fama che sola si può offuscare, non alla virtù»
(Fornaciari).
14
per di là, per quei luoghi: il 3,36 n. e qui più avanti al 18.
15
Desinenza corrente: cfr. il 2,16 n. (e qui 10).
16
Per analogia a duodecima e undecima.
11
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disse Mitridanes: «- Buona femina, tu se’assai sollicita17
a questo tuo dimandare»; e nondimeno le fece limosina.
La vecchierella, udita questa parola18, disse: «O libe10
ralità di Natan, quanto se’ tu maravigliosa! ché per trentadue porti che ha il suo palagio, sì come questo, entrata, e domandatagli limosina, mai da lui, che egli
mostrasse19, riconosciuta non fui, e sempre l’ebbi; e qui
non venuta ancora se non per tredici, e riconosciuta e
proverbiata20 sono stata». E così dicendo, senza più ritornarvi si dipartì.
11
Mitridanes, udite le parole della vecchia, come colui
che ciò che della fama di Natan udiva diminuimento21
della sua estimava, in rabbiosa ira acceso, cominciò a dire: «Ahi lasso a me! Quando aggiugnerò io alla liberalità
delle gran cose22 di Natan, non che io il trapassi, come io
cerco, quando nelle piccolissime io non gli mi posso avvicinare23? Veramente io mi fatico invano, se io di terra
nol tolgo; la qual cosa, poscia che la vecchiezza nol porta via, convien senza alcuno indugio che io faccia con le
mie mani».
12
E con questo impeto levatosi, senza comunicare il
suo consiglio ad alcuno, con poca compagnia montato a
cavallo, dopo il terzo dì dove Natan dimorava pervenne;
e a’compagni imposto che sembianti facessero di non
17
premurosa e quindi importuna, molesta: cfr. VIII 4,3 n.
frase, sentenza: I 6,16 n.
19
per quello che egli mostrasse, desse a vedere (alla latina: quod
sciam, quod intelligam).
20
rimproverata, o canzonata: VIII 3,1 n.
21
scapito, diminuzione: cfr. 43: «diminuimento della fama di
Natan»; Intr. 50: «diminuire in niuno atto l’onestà delle valorose
donne».
22
giungerò, arriverò (VIII 5,7) a tale liberalità da fare le gran cose
... alla generosità dei grandi atti ...
23
posso stare o andare vicino, presso.
18
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esser con lui né di conoscerlo, e che distanzia si procacciassero infino che da lui altro avessero24, quivi adunque
in sul fare della sera pervenuto e solo rimaso, non guari
lontano al bel palagio trovò Natan tutto solo, il quale
senza alcuno abito pomposo andava a suo diporto; cui
egli, non conoscendolo, domandò se insegnar gli sapesse
dove Natan dimorasse.
Natan lietamente rispose: «Figliuol mio, niuno è in
questa contrada che meglio di me cotesto ti sappia mostrare, e per ciò, quando ti piaccia, io vi ti menerò».
Il giovane disse che questo gli sarebbe a grado assai;
ma che, dove esser potesse, egli non voleva da Natan esser veduto né conosciuto: al quale Natan disse: «E cotesto ancora farò, poi che ti piace».
Ismontato adunque Mitridanes con Natan, che in
piacevolissimi ragionamenti assai tosto il mise, infino al
suo bel palagio n’andò. Quivi Natan fece ad un de’suoi
famigliari prendere il caval del giovane, e accostatoglisi
agli orecchi gl’impose che egli prestamente con tutti
quegli della casa facesse che niuno al giovane dicesse lui
esser Natan; e così fu fatto. Ma poi che nel palagio furono, mise Mitridanes in una bellissima camera dove alcuno nol vedeva, se non quegli che egli al suo servigio diputati avea, e sommamente faccendolo onorare, esso
stesso gli tenea compagnia.
Col quale dimorando Mitridanes, ancora che in reverenzia come padre l’avesse25, pur lo domandò chi el
24
si provvedessero di alloggio finché non ricevessero da lui altro
ordine.
25
Purg., I 32 sg.: «Degno di tanta reverenza in vista, | Che più
non dee padre alcun figliuolo».
Letteratura italiana Einaudi 1333
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
fosse. Al quale Natan rispose: «Io sono un picciol26 servidor di Natan, il quale dalla mia fanciullezza con lui mi
sono invecchiato, né mai ad altro che tu mi vegghi mi
trasse27, per che, come che ogni altro uomo molto di lui
si lodi, io me ne posso poco lodare io.
18
Queste parole porsero alcuna speranza a Mitridanes
di potere con più consiglio e con più salvezza28 dare effetto al suo perverso intendimento. Il qual29 Natan assai
cortesemente domandò chi egli fosse, e qual bisogno per
quindi il portasse30, offerendo il suo consiglio e il suo
19 aiuto in ciò che per lui si potesse. Mitridanes soprastette
alquanto al rispondere, e ultimamente diliberando di fidarsi di lui, con una lunga circuizion di parole31 la sua
fede richiese, e appresso il consiglio e l’aiuto, e chi egli
era e per che venuto e da che mosso, interamente gli discoperse.
20
Natan, udendo il ragionare e il fiero proponimento
di Mitridanes, in sé tutto si cambiò32, ma senza troppo
stare, con forte animo e con fermo33 viso gli rispose:
«Mitridanes, nobile uomo fu il tuo padre, dal quale tu
non vuogli degenerare, sì alta impresa avendo fatta come hai, cioè d’essere liberale a tutti, e molto la invidia
26
umile, di bassa condizione.
non mi sollevò mai a grado diverso da quello in cui tu mi vedi.
28
con maggiore prudenza e sicurezza, cioè possibilità di salvezza,
di scampo.
29
Si riferisce a Mitridanes.
30
lo conducesse da quelle parti.
31
giro di parole, circonlocuzione: Ipermestra volg. (T.) «con bella
circuizione di parole accennò ... il nuovo amore di Ipermestra».
32
si turbò, fu scosso: Purg. XXXIII 6: «a la croce si cambiò Maria»; Sacchetti, CCXII: «l’abate udendo costui, si cominciò tutto a
cambiare».
33
imperturbato: II 9,50 n.
27
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25
che alla virtù di Natan porti commendo, per ciò che, se
di così fatte fossero assai34, il mondo, che è miserissimo,
tosto buon diverrebbe. Il tuo proponimento mostratomi
senza dubbio sarà occulto, al quale io più tosto util consiglio che grande aiuto posso donare, il quale è questo.
Tu puoi di quinci vedere forse un mezzo miglio vicin di
qui un boschetto, nel quale Natan quasi ogni mattina va
tutto solo, prendendo diporto per ben lungo spazio; quivi leggier cosa ti fia il trovarlo e farne il tuo piacere. Il
quale se tu uccidi, acciò che tu possa senza impedimento
a casa tua ritornare, non per quella via donde tu qui venisti, ma per quella che tu vedi a sinistra uscir fuor del bosco n’andrai, per ciò che, ancora che un poco più salvatica35 sia, ella è più vicina a casa tua e per te più sicura».
Mitridanes, ricevuta la informazione, e Natan da lui
essendo partito, cautamente a’ suoi compagni, che similmente là entro erano, fece sentire dove aspettare il dovessero il dì seguente. Ma, poi che il nuovo dì fu venuto,
Natan, non avendo animo vario al consiglio36 dato a Mitridanes, né quello in parte alcuna mutato, solo se
n’andò al boschetto a dover morire.
Mitridanes, levatosi e preso il suo arco37 e la sua spada, ché altra arme non avea, e montato a cavallo, n’andò
al boschetto, e di lontano vide Natan tutto soletto andar
passeggiando per quello, e diliberato, avanti che l’assa-
34
se vi fossero molle di queste [invidie], se fossero frequenti queste [invidie].
35
selvaggia: X 8,93: «un luogo molto selvatico della città».
36
alieno, diverso dal consiglio: Esposizioni, IV litt. 286: «una oppinione strana e varia a tutte quelle degli altri filosofi».
37
Arma qui citata evidentemente, come più sotto il turbante
(25), per colorire la scena all’orientale (e cfr. V 2,30 n.); ma come
arma regale e cavalleresca era anche simbolo della sublimazione
dei desideri e delle passioni (cfr. Dictionnaire des Symboles cit., pp.
61 sgg.).
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lisse, di volerlo vedere e d’udirlo parlare, corse verso lui,
e presolo per la benda la quale in capo avea38, disse:
«Vegliardo, tu se’ morto39».
Al quale niuna altra cosa rispose Natan, se non:
«Dunque, l’ho io meritato».
Mitridanes, udita la voce e nel viso guardatolo, subitamente riconobbe lui esser colui che benignamente
l’avea ricevuto e familiarmente accompagnato e fedelmente consigliato; per che di presente40 gli cadde il furore e la sua ira si convertì in vergogna. Laonde egli, gittata via la spada, la qual già per ferirlo aveva tirata fuori,
da caval dismontato, piagnendo corse a’ piè di Natan e
disse: «Manifestamente conosco, carissimo padre, la vostra liberalità, riguardando con quanta cautela41 venuto
siate per darmi il vostro spirito, del quale io, niuna ragione avendo, a voi medesimo disideroso mostra’mi; ma
Iddio, più al mio dover sollicito42 che io stesso, a quel
punto che maggior bisogno è stato gli occhi m’ha aperto
dello ’ntelletto, li quali misera invidia m’avea serrati. E
per ciò quanto voi più pronto stato siete a compiacermi,
tanto più mi cognosco debito43 alla penitenzia del mio
errore; prendete adunque di me quella vendetta44 che
convenevole estimate al mio peccato».
38
Cioè il turbante: X 9,77 n.
Cfr. IV 9,11 n.
40
subito: I 1,77 n.
41
accortezza, prudenza: I 4,3 n. «Riprende il c a u t a m e n t e di
par. 3 per sottolineare la stranezza e magnanimità di questa astuzia
adoperata a danno di se stesso» (Sapegno).
42
che ha più cura di farmi osservare il mio dovere.
43
obbligato: cioè riconosco di dover lar penitenza: Fra’ Giordano, Prediche, Firenze 1831, I, p. 48: «noi siamo sì debiti al padre e
alla madre ...»; M. Villani, VII 101.
44
Nel senso forse più di punizione, che di vendetta propriamente detta, che sarebbe indegna della generosità di Natan (e cfr. I 9,6
n.).
39
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Natan fece levar Mitridanes in piede, e teneramente
l’abbracciò e baciò, e gli disse: «Figliuol mio, alla tua
impresa, chente che tu la vogli chiamare o malvagia o altrimenti, non bisogna di domandar né di dar perdono,
per ciò che non per odio la seguivi45, ma per potere esse31 re tenuto migliore. Vivi adunque di me sicuro, e abbi di
certo46 che niuno altro uom vive, il quale te quant’io
ami, avendo riguardo all’altezza dello animo tuo, il quale non ad ammassar denari, come i miseri47 fanno, ma ad
ispender gli ammassati se’dato. Né ti vergognare d’aver32 mi voluto uccidere per divenir famoso, né credere che io
me ne maravigli. I sommi imperadori e i grandissimi re
non hanno quasi con altra arte che d’uccidere, non uno
uomo come tu volevi fare, ma infiniti, e ardere paesi e
abbattere le città, li loro regni ampliati48, e per conseguente la fama loro49; per che, se tu per più farti famoso
me solo uccider volevi, non maravigliosa cosa né nuova
facevi, ma molto usata».
Mitridanes, non iscusando il suo disidero perverso,
33 ma commendando l’onesta scusa da Natan trovata ad
esso, ragionando pervenne a dire sé oltre modo maravigliarsi come a ciò si fosse Natan potuto disporre50 e a ciò
dargli modo e consiglio. Al quale Natan disse: «Mitrida30
45
eseguivi, perseguivi: VIII 0,43 n.
tieni per certo: cfr. VII 9,25.
47
avari, gretti: I 8,5 n. e 10 n. Lo sdegno contro la sordidezza
dei grandi sembra riecheggiare motivi della I giornata, già presentati nell’Amorosa Visione (per es., XIV, XXXII).
48
Va unito a n o n h a n n o di tre righe prima.
49
Sdegnosa e amara concezione già accennata nell’Amorosa Visione (XXXII sgg.) e poi sviluppata nel De casibus (cfr. per es. dedica, II 5 ecc. fino al IX 27): con posizioni dissacranti degli eroi e
degli imperi più acclamati non insolite nel B.
50
a ciò Natan fosse disposto, potesse esser disposto: cfr. F.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 314 sgg., 457 sgg.
46
Letteratura italiana Einaudi 1337
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
nes, io non voglio che tu del mio consiglio e della mia disposizione ti maravigli, per ciò che, poi che io nel mio
albitrio fui51, e disposto a fare quello medesimo che tu
hai a fare impreso, niun fu che mai a casa mia capitasse,
che io nol contentasse52 a mio potere di ciò che da lui mi
35 fu domandato. Venistivi tu vago della mia vita, per che,
sentendolati domandare, acciò che tu non fossi solo colui che senza la sua dimanda53 di qui si partisse, prestamente diliberai di donarlati, e acciò che tu l’avessi, quel
consiglio ti diedi che io credetti che buon ti fosse ad
aver la mia e non perder la tua; e per ciò ancora ti dico e
priego che, s’ella ti piace, che tu la prenda e te medesimo ne sodisfaccia: io non so come io la mi possa meglio
36 spendere. Io l’ho adoperata già ottanta anni, e ne’miei
diletti e nelle mie consolazioni usata; e so che, seguendo
il corso della natura, come gli altri uomini fanno e generalmente tutte le cose, ella mi può omai piccol tempo esser lasciata; per che io giudico molto meglio esser quella
donare, come io ho sempre i miei tesori donati e spesi,
che tanto volerla guardare54, che ella mi sia contro a mia
37 voglia tolta dalla natura. Piccol dono è donare cento anni; quanto adunque è minor donarne sei o otto che io a
star ci abbia55? Prendila adunque, se ella t’aggrada, io te
ne priego; per ciò che, mentre vivuto ci sono, niuno ho
34
51
lui padrone, arbitro di me stesso: VII 3,5 n.
Per la desinenza foneticamente regolare -e cfr. VIII .9,53 n.
Poco più innanzi (35) al contrario b u o n t i f o s s i (Rohlfs,
560).
53
senza aver ottenuto quello che domandava, desiderava: Purg.,
IV 18 «Gridaro a noi: ‘Qui è vostro dimando’».
54
serbare, custodire: VIII 10,52 n.
55
abbia a stare su questa terra, abbia a vivere: IV 2,19 n. Forse in
queste parole e in questi sentimenti è un’eco di quelli dell’Ulisse
dantesco (Inf., XXVI 112 sgg.).
52
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43
ancor trovato che disiderata l’abbia, né so quando trovar me ne possa veruno, se tu non la prendi che la dimandi. E se pure avvenisse che io ne dovessi alcun trovare, conosco che, quanto più la guarderò, di minor
pregio sarà; e però, anzi che ella divenga più vile56, prendila, io te ne priego.
Mitridanes, vergognandosi forte, disse: «Tolga Iddio57 che così cara cosa come la vostra vita è, non che io,
da voi dividendola, la prenda, ma pur la disideri58, come
poco avanti faceva; alla quale non che io diminuissi gli
anni suoi, ma io l’agiugnerei volentier de’ miei, se io potessi».
A cui prestamente Natan disse: «E, se tu puoi,
vuo’nele59 tu aggiugnere? È farai a me fare verso di te
quello che mai verso alcuno altro non feci, cioè delle tue
cose pigliare, che60 mai dell’altrui non pigliai?»
«Sì,» disse subitamente Mitridanes.
«Adunque,» disse Natan «farai tu come io ti dirò.
Tu ti rimarrai, giovane come tu se’, qui nella mia casa, e
avrai nome Natan, e io me n’andrò nella tua e farommi
sempre chiamar Mitridanes».
Allora Mitridanes rispose: «Se io sapessi così bene
operare come voi sapete e avete saputo, io prenderei
senza troppa diliberazione61 quello che m’offerete; ma
56
57
di minor valore.
Deprecazione simile ad altre già annotate (II 8,21 n.; IV 9,23
n.).
58
nonché prenderla ma neanche soltanto che io la desideri, togliendola a voi: Purg., VI 19.
59
gliene vuoi.
60
io che. Si potrebbe forse anche interpretare c h é .
61
senza molta (Intr., 82 n.) riflessione, senza stare a pensarci troppo: IV 9,24 n.
Letteratura italiana Einaudi 1339
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
per ciò che egli mi pare esser molto certo che le mie
opere sarebbon diminuimento della62 fama di Natan, e
io non intendo di guastare in altrui quello che in me io
non acconciare63 nol prenderò».
44
Questi e molti altri piacevoli ragionamenti stati64 tra
Natan e Mitridanes, come a Natan piacque, insieme verso il palagio se ne tornarono, dove Natan più giorni
sommamente onorò Mitridanes, e lui con ogni ingegno e
saper confortò nel suo alto e grande proponimento. E
volendosi Mitridanes con la sua compagnia ritornare a
casa, avendogli Natan assai ben fatto conoscere che mai
di liberalità nol potrebbe avanzare, il licenziò65. -
62
di scapito, di detrimento per la ...: cfr. 11 n.
compiere bene: I 1,29; VIII 1,17 n.
64
essendo stati, avvenuti: costruzione participiale assoluta.
65
non lo potrebbe superare, lo lasciò andare.
63
Letteratura italiana Einaudi
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NOVELLA QUARTA
1
Messer Gentil de’ Carisendi, venuto da Modona, trae della sepoltura una donna amata da lui, sepellita per morta; la quale riconfortata partorisce un figliuol maschio, e Messer Gentile lei
e ’l figliuolo restituisce a Niccoluccio Caccianimico, marito di
lei1.
2
Maravigliosa cosa parve a tutti che alcuno del propio
sangue fosse liberale; e veramente affermaron Natan
1
Questa novella - i cui riflessi si allargarono enormemente anche per le celeberrime simili narrazioni di Ginevra degli Almieri e
di Romeo e Giulietta - sembra rivelare nel testo stesso un’origine
orientale (cfr. 24). Difatti un antecedente diretto si può trovare nel
Tûti-nâmeh) di Nachshebi (ed. Rosen, Leipzig 1858, XX; P. RAJNA, L’episodio delle questioni d’amore ecc., in «Romania», XXXI,
1902); e spunti simili sono in raccolte narrative cinesi e indiane che
forse riflettono motivi antichi (G. PUINI, Novelle cinesi, Piacenza
1871, p. 71) e nella novellistica popolare e tradizionale dei Ciuvasci
(W. ANDERSON, La storia di Messer Gentile de’ Carisendi ecc., in
«Lares», III, 1914). Ma anche nella letteratura d’occidente non
mancano motivi propri a questa novella: da una narrazione di Apuleio (Metamorfosi, X 2 sgg.) e da motivi e cenni nei romanzi greci
(cfr. Le avventure di Cherea e Calliroe a cura di A. Calderini cit.,
pp. 72 sgg., e 78 sgg.) all’Apollonio di Tiro, a un momento del Lai
d’Eliduc (cfr. specie Landau, p. 327), a tradizioni popolaresche
(Thompson e Rotunda, T 37). Ma naturalmente l’antecedente più
diretto e più interessante è la simile narrazione che il B. aveva già
inserita nella XIII «questione d’amore» del Filocolo (IV 67): eccezionale ripresa, questa, nel D. di un testo giovanile che sottolinea
un’eccezionale adesione fantastica. Oltre le solite opere, soprattutto per il confronto fra le due versioni boccacciane, cfr. RAJNA,
art. cit.; C. TRABALZA, Studi sul B., Città di Castello 1906, pp.
189 sgg.; R. FORNACIARI, Dal Filocolo al D., in «Miscellanea
Storica della Valdelsa», XXI, 1913; F. MAZZONI, Una presunta
fonte del B., in «Studi Danteschi», XXIX, 1950 (che insiste
sull’Apollonio); Filocolo, ed. Quaglio cit., commento a IV 67-70.
Letteratura italiana Einaudi 1341
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3
4
5
aver quella2 del re di Spagna e dello abate di Clignì trapassata. Ma poi che assai e una cosa e altra detta ne fu, il
re, verso Lauretta riguardando, le dimostrò che egli desiderava che ella dicesse; per la qual cosa Lauretta prestamente incominciò:
– Giovani donne, magnifice3 cose e belle sono state
le raccontate, né mi pare che alcuna parte restata sia a
noi che abbiamo a dire, per la qual novellando vagar
possiamo4, sì son tutte dall’altezza delle magnificenzie
raccontate occupate5, se noi ne’fatti d’amore già non
mettessimo mano6, li quali ad ogni materia prestano abbondantissima copia di ragionare; e per ciò, sì per questo e sì per quello a che la nostra età7 principalmente ci
dee inducere, una magnificenzia da uno innamorato fatta mi piace di raccontarvi, la quale, ogni cosa considerata, non vi parrà per avventura minore che alcune delle
mostrate, se quello è vero che i tesori si donino, le inimicizie si dimentichino, e pongasi la propia vita, l’onore e
la fama, ch’è molto più, in mille pericoli, per potere la
cosa amata possedere.
Fu adunque in Bologna8, nobilissima città di Lom-
2
Cioè la liberalità da sottintendersi dal l i b e r a l e preceden-
te.
3
Com’è noto nell’italiano antico si oscillava in questi casi al plurale tra forme non palatalizzate e palatalizzate (cfr. Rohlfs, 374):
nel B. si alternano «magnifici» e «magnifichi», «poetici» e «poetichi»; anche in Dante ricor. rono «biece» (Inf., XXV 31), «piage»
(Purg., XXV 30). E cfr. anche VII 3,2 n.; X 6,22 n.
4
Modo figurato che ricorre con una certa frequenza nel D.: per
es. IV intr., 43; IX concl., 4.
5
dell’altezza ... piene, ricche (Marti).
6
VI 1,12: «il cavaliere ... mise mano in altre novelle».
7
Cioè: trattandosi di un tema verso il quale la nostra giovinezza ...
8
Una delle città più presenti nel D. (I 10, II 2, III 8, VII 7; VIII
9, X 10).
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6
bardia9, un cavaliere per virtù e per nobiltà di sangue
ragguardevole assai, il qual fu chiamato messer Gentil
Carisendi10, il qual giovane d’una gentil donna chiamata
madonna Catalina11, moglie d’un Niccoluccio Caccianimico12, s’innamorò; e perché male dello amor della donna era13, quasi disperatosene, podestà chiamato di Modona14, v’andò.
In questo tempo, non essendo Niccoluccio a Bologna, e la donna ad una sua possessione, forse tre miglia
alla terra vicina, essendosi, per ciò che gravida era, andata a stare, avvenne che subitamente un fiero accidente
la soprapprese15, il quale fu tale e di tanta forza, che in
9
Così si usava chiamare genericamente l’Italia settentrionale:
Benvenuto da Imola commentando Inf., XXVIII 74-75 ne fissa i
confini: «civitas Vercellarum est in extremo Lombardiae et Marchabò quasi in fine fluminis Padi». Cfr. anche I 1,26 n.; Amorosa
Visione, XL 40 sgg. e commento.
10
Nobile e notissima famiglia bolognese, da cui ebbe nome la
famosa torre pendente: Inf., XXXI 136: «Qual pare a riguardar la
Carisenda». Cfr. in gen. GOZZADINI, Delle torri gentilizie di Bologna cit., pp. 271 sgg.
11
Cioè Caterina, secondo una forma assai diffusa in Bologna.
12
Altra notissima e nobile famiglia bolognese di parte guelfa e
geremea. Cfr. in gen. GOZZADINI, op. cit., p. 212; G. ZACCAGNINI, in «Giorn. Stor. Lett. It.», LXIV-V, 1914-15, e in «Atti ...
Dep. Storia Patria ... Romagna», serie IV, XXIV, 1933-34 anche
per le varie notizie riferite dai commentatori danteschi a proposito
di Inf., XVIII 50 e di Venedico Caccianemico. I Caccianemico ebbero cariche e influenza a Modena: cfr. n. 2 p. sg.
13
Cioè: non era corrisposto dalla donna, non era in grazia della
donna: cfr. II 7,32 n.; VIII 10,48 n. E vedi anche l’interessante Annotazione, CXIX.
14
Un Alberto Caccianemico fu podestà di Modena nel 1254 e
1255 (P. E. VICINI, I podestà di Modena, Roma 1913, I, pp. 106
sgg.); e Venedico Caccianemico fu ivi Capitano del popolo nel
1272 (ZACCAGNINI, art. cit.). Strana coincidenza e più strano
rovesciamento.
15
la colse di sorpresa una violenta malattia, o un subitaneo terribile collasso: cfr. Intr., 13 n. e II 2,16 n.
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7
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9
lei spense ogni segno di vita, e per ciò eziandio da alcun
medico morta giudicata fu; e per ciò che le sue più congiunte parenti dicevan sé avere avuto da lei16 non essere
ancora di tanto tempo gravida, che perfetta potesse essere la creatura, senza altro impaccio darsi, quale ella
era17, in uno avello d’una chiesa ivi vicina dopo molto
pianto la sepellirono.
La qual cosa subitamente da un suo amico fu significata a messer Gentile, il qual di ciò, ancora che della sua
grazia fosse poverissimo18, si dolfe19 molto, ultimamente
seco dicendo: «Ecco, madonna Catalina, tu se’morta; io,
mentre che vivesti, mai un solo sguardo da te aver non
potei; per che, ora che difender non ti potrai, convien
per certo che, così morta come tu se’io alcun bacio li tolga20».
E questo detto, essendo già notte, dato ordine come
la sua andata occulta fosse, con un suo famigliare montato a cavallo, senza ristare21 colà pervenne dove sepellita era la donna, e aperta la sepoltura, in quella diligentemente22 entrò, e postolesi a giacere allato, il suo viso a
quello della donna accostò, e più volte con molte lagri-
16
aver saputo da lei: IV 9,15 n.
senza darsi altro pensiero, senza preoccuparsi altrimenti, come
si trovava, nelle condizioni in cui era ... : il 2,14 n.
18
Variazione della espressione al par. 5.
19
dolse: II 7,37 n.
20
Senza cioè il consenso della donna: come già nella V 1,46:
«Cimone perdé la sua Efigenia ... senza altro averle tolto che alcun
bascio». Per questo desiderio e per tutta la scena seguente cfr.
l’Elegia di Costanza (V. Branca, Tradizione delle opere cit., pp. 21617); e un passo dell’Historia Apollonii (XXV) esaminato dal Mazzoni (art. cit.).
21
senza mai fermarsi.
22
Con cura e cautela: cfr. I 2,2.
17
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me piagnendo il basciò23. Ma, sì come noi veggiamo
l’appetito degli uomini a niun termine24 star contento,
ma sempre più avanti desiderare, e spezialmente quello
degli amanti, avendo costui seco diliberato di più non
starvi, disse: «Deh! perché non le tocco io, poi che io
son qui, un poco il petto? Io non la debbo mai più toccare, né mai più la toccai».
Vinto adunque da questo appetito, le mise la mano
11
in seno, e per alquanto spazio tenutalavi, gli parve senti12 re alcuna cosa25 battere il cuore a costei. Il quale, poi che
ogni paura ebbe cacciata da sé, con più sentimento cercando26, trovò costei per certo non esser morta, quantunque poca e debole estimasse la vita; per che soavemente27 quanto più potè, dal suo famigliare aiutato, del
monimento28 la trasse, e davanti al caval messalasi, segretamente in casa sua la condusse in Bologna.
13
Era quivi la madre di lui, valorosa e savia donna, la
qual, poscia che dal figliuolo ebbe distesamente ogni cosa udita, da pietà mossa, chetamente con grandissimi
fuochi e con alcun bagno in costei rivocò la smarrita vi10
23
Purg., XXIII 55: «La faccia tua, ch’io lagrimai già morta»
(verso riflesso più puntualmente nel Filocolo, IV 67,5).
24
limite. «Nota bene» (M.): e cfr. Esposizioni, V all. 82.
25
alcun poco, un poco: è detto avverbialmente, alla latina (aliquid): X 10,54 n.; Concl., 4 e 29; Guittone, Lettere, XIV, p. 177:
«mitigando alcuna cosa suoie periglioze piaghe».
26
con più attenzione, con più diligenza tastando: II 8,44 n. «Uso
singolare, ma non strano, della voce s e n t i m e n t o : anzi espressivo, perché la molta attenzione rende più forte la sensazione»
(Fornaciari). E cfr. VI 5,4 n.
27
delicatamente, con cautela: VI 2,28 n.
28
sepolcro: III 8,68 n.
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ta; la quale come rivenne29, così la donna gittò un gran
sospiro e disse: «Ohimè! ora ove sono io?»
A cui la valente donna rispose: «Confortati, tu se’in
buon luogo».
Costei, in sé tornata e dintorno guardandosi, non
bene conoscendo dove ella fosse e veggendosi davanti
messer Gentile, piena di maraviglia la madre di lui
pregò che le dicesse in che guisa ella quivi venuta fosse;
alla quale messer Gentile ordinatamente contò ogni cosa. Di che ella, dolendosi, dopo alquanto quelle grazie
gli rendè che ella potè e appresso il pregò per quello
amore il quale egli l’aveva già portato30, e per cortesia di
lui, che in casa sua ella da lui non ricevesse cosa che fosse meno che onor di lei e del suo marito, e come il dì venuto fosse, alla sua propria casa la lasciasse tornare.
Alla quale messer Gentile rispose: «Madonna, chente che31 il mio disiderio si sia stato ne’ tempi passati, io
non intendo al presente né mai per innanzi32 (poi che
Idio m’ha questa grazia conceduta che da morte a vita
mi v’ha renduta, essendone cagione l’amore che io v’ho
per addietro portato) di trattarvi né qui né altrove, se
non come cara sorella33; ma questo mio beneficio, operato in voi34 questa notte, merita alcun guiderdone35; e
29
Più comune rinvenne: ma cfr. per es. San Bernardo, Opere penitenziali volg., Venezia 1842, p. 31: «Essendo la Vergine rivenuta
alquanto»; Pulci, Morgante, VII 23. Oppure: come ritornò, essendo
ritornata la quale [vita].
30
Inf., V 77-78: «li priega | Per quello amor che i mena»: e cfr.
IV 8,22; V 9,32 ecc.
31
qualunque, quale che: Intr., 55 n.
32
d’ora innanzi.
33
Cfr. X 5,22.
34
verso di voi, alla latina: III 6,14 n.
35
premio, ricompensa: con la sfumatura di tono cortese che ha
generalmente nel D. (per es. II 8,95 e 96 e 99; III 5,15 e 21; III 9,23
ecc.) e che qui conviene all’atmosfera gentilesca della novella.
Letteratura italiana Einaudi
1346
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21
22
per ciò io voglio che voi non mi neghiate una grazia la
quale io vi domanderò».
Al quale la donna benignamente rispose sé essere
apparecchiata, solo che ella potesse, e onesta fosse 36.
Messer Gentile allora disse: «Madonna, ciascun vostro
parente e ogni bolognese credono e hanno per certo voi
esser morta, per che niuna persona è la quale più a casa
v’aspetti; e per ciò io voglio di grazia da voi, che vi debbia piacere di dimorarvi tacitamente37 qui con mia madre infino a tanto che io da Modona torni, che sarà tosto. E la cagione per che io questo vi cheggio è per ciò
che io intendo di voi, in presenzia de’migliori cittadini
di questa terra, fare un caro e uno solenne dono al vostro marito».
La donna, conoscendosi al cavaliere obbligata, e che
la domanda era onesta, quantunque molto disiderasse di
rallegrare della sua vita i suoi parenti, si dispose a far
quello che messer Gentile domandava; e così sopra la
sua fede38 gli promise. E appena erano le parole della
sua risposta finite, che ella sentì il tempo del partorire
esser venuto; per che, teneramente dalla madre di messer Gentile aiutata, non molto stante39 partorì un bel fi-
36
Riserva donnesca solita in casi simili: cfr. I 10,19 n.
segretamente, nascostamente: II 2,20: «in casa di lei medesima
tacitamente aveva fatto fare un bagno».
38
sulla sua parola d’onore, con giuramento.
39
di lì a poco, poco appresso: cfr. III 4,30: «poco stante».
37
Letteratura italiana Einaudi 1347
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
gliuol maschio; la qual cosa in molti doppi40 moltiplicò
la letizia di messer Gentile e di lei. Messer Gentile ordinò che le cose opportune tutte vi fossero, e che così
fosse servita costei come se sua propia moglie fosse, e a
Modona segretamente se ne tornò.
Quivi fornito41 il tempo del suo uficio e a Bologna
23
dovendosene tornare, ordinò, quella mattina che in Bologna entrar doveva, di molti e gentili uomini di Bologna, tra’quali fu Niccoluccio Caccianimico, un grande e
bel convito42 in casa sua; e tornato e ismontato e con lor
trovatosi, avendo similmente la donna ritrovata più bella
e più sana che mai, e il suo figlioletto star bene, con allegrezza incomparabile i suoi forestieri43 mise a tavola, e
quegli fece di più vivande magnificamente servire.
24
Ed essendo già vicino alla sua fine il mangiare, avendo egli prima alla donna detto quello che di fare intendeva e con lei ordinato il modo che dovesse tenere, così
cominciò a parlare: «Signori, io mi ricordo avere alcuna
volta inteso in Persia essere, secondo il mio giudicio,
una piacevole usanza, la quale è che, quando alcuno
vuole sommamente onorare il suo amico, egli lo ‘nvita a
casa sua e quivi gli mostra quella cosa, o moglie o amica
o figliuola o che che si sia, la quale egli ha più cara, affermando che, se egli potesse, così come questo gli mostra,
40
sommamente, grandissimamente (cioè raddoppiando continuamente il raddoppiato): cfr. III 7,30: «in ben mille doppi faceste
l’amor raddoppiare».
41
finito, compiuto.
42
Cioè: un grande e bel convito con l’intervento di molti ecc. La
costruzione c o l d i corrisponde a quella latina ex con l’ablativo.
43
convitati, ospiti: VI 4,10 n.
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molto più volentieri gli mosterria il cuor suo; la quale44
io intendo di volere osservare in Bologna. Voi, la vostra
mercé45, avete onorato il mio convito, e io intendo onorar voi alla persesca46, mostrandovi la più cara cosa che
io abbia nel mondo o che io debbia aver mai. Ma prima
che io faccia questo, vi priego mi diciate quello che sentite47 d’un dubbio il quale io vi moverò. Egli è alcuna
persona48 la quale ha in casa un suo buono e fedelissimo
servidore, il quale inferma gravemente; questo cotale,
senza attendere il fine49 del servo infermo, il fa portare
nel mezzo della strada, né più ha cura di lui; viene uno
strano50, è mosso a compassione dello ‘nfermo, e sel reca
a casa, e con gran sollicitudine e con ispesa il torna nella
prima sanità. Vorrei io ora sapere se, tenendolsi e usando i suoi servigi, il primo signore si può a buona equità51
dolere o ramaricare del secondo, se egli, raddomandandolo52, rendere nol volesse».
I gentili uomini, fra sé avuti vari ragionamenti, e tut-
44
Si riferisce a u s a n z a di sei righe innanzi: e cfr. X 9,27 sgg.
per vostra grazia: V 9,35 n. Oggi: gentilmente.
secondo l’usanza persiana: cfr. X 9,77: «alla guisa saracinesca»
e 96: «in abito arabesco» (il suffisso -esco era usitatissimo negli aggettivi etnici).
47
pensate, giudicate. Rimane anche in questa narrazione del D.
un riflesso di quell’elegante questionare, che nel Filocolo aveva offerta l’occasione alla prima versione di questa novella. Ma l’esempio del servo malato abbandonato dal suo signore e curato invece
da un estraneo (che arieggia alla parabola del buon samaritano) è
una novità rispetto alla narrazione del Filocolo.
48
Cioè: c’è un tale.
49
la fine cioè la morte. È più usata in questo senso la forma femminile: ma cfr. Petrarca, CXL 14; CCXLVI 8, CCCXII 13: «I’
chiamo il fine, per lo gran desire» ecc.; e cfr. anche qui II 5,80.
50
estraneo, cioè che non ha alcun legame con lui: Intr., 77 n.
51
a buon diritto.
52
qualora egli lo richiedesse, lo rivolesse.
45
46
Letteratura italiana Einaudi 1349
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
ti in una sentenzia concorrendo53, a Niccoluccio Caccianimico, per ciò che bello e ornato favellatore54 era, com29 misero la risposta. Costui, commendata primieramente
l’usanza di Persia, disse sé con gli altri insieme essere in
questa oppinione, che il primo signore niuna ragione
avesse più nel55 suo servidore, poi che in sì fatto caso
non solamente abbandonato, ma gittato l’avea; e che,
per li benefici del secondo usati, giustamente parea di
lui il servidore divenuto, per che, tenendolo, niuna noia,
niuna forza, niuna ingiuria faceva al primiero. Gli altri
tutti che alle tavole56 erano, ché v’avea di valenti57 uomini, tutti insieme dissono sé tener58 quello che da Niccoluccio era stato risposto.
Il cavaliere, contento di tal risposta e che Niccoluc30
cio l’avesse fatta, affermò sé essere in quella oppinione
altressì, e appresso disse: «Tempo è omai che io secondo
la promessa v’onori.- E chiamati due de’suoi famigliari,
gli mandò alla donna, la quale egli egregiamente avea
fatta vestire e ornare, e mandolla pregando59 che le dovesse piacere di venire a far lieti i gentili uomini della
31 sua presenzia. La qual, preso in braccio il figliolin suo
bellissimo, da’ due famigliari accompagnata, nella sala
53
essendo concordi in uno stesso parere: cfr. II 9,7: «Il terzo quasi in questa medesima sentenza parlando pervenne».
54
Come Bergamino: I 7,7: e cfr. VI 1,5 n.; X concl., 11.
55
diritto avesse più verso il, sul ...: Passavanti, Specchio, p. 32:
«se noi abbiamo alcuna ragione in lui»: e cfr. III 6,14 n.
56
Per l’uso di disporsi a più tavole cfr. Intr., 106 n.
57
v’erano parecchi valenti ... (cfr. III 8,27 n.).
58
che pensavano, che giudicavano giusto (III 7,67 n.): sottinteso
facilmente prima un d i s s e r o dal precedente d i s s e all’inizio
del periodo.
59
La solita costruzione di m a n d a r e col gerundio (IV 2,23
n.).
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
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33
34
35
venne, e come al cavalier piacque, appresso ad un valente uomo si pose a sedere; e egli disse: «Signori, questa è
quella cosa che io ho più cara e intendo d’avere, che alcun’altra; guardate se egli vi pare che io abbia ragione».
I gentili uomini, onoratola60 e commendatola molto,
e al cavaliere affermato che cara la doveva avere, la cominciarono a riguardare; e assai ve n’eran che lei avrebbon detto colei chi ella era, se lei per morta non avessero
avuta61. Ma sopra tutti la riguardava Niccoluccio, il quale, essendosi alquanto partito62 il cavaliere, sì come colui
che ardeva di sapere chi ella fosse, non potendosene tenere, la domandò se bolognese fosse o forestiera. La
donna, sentendosi al63 suo marito domandare, con fatica
di risponder si tenne64; ma pur, per servare l’ordine postole, tacque. Alcun altro la domandò se suo era quel figlioletto, e alcuno se moglie fosse di messer Gentile, o in
altra maniera sua parente; a’quali niuna risposta fece.
Ma, sopravvegnendo messer Gentile, disse alcun de’
suoi forestieri: «Messere, bella cosa è questa vostra, ma
ella ne par mutola; è ella così?»
«Signori,» disse messer Gentile «il non avere ella al
presente parlato è non piccolo argomento65 della sua
virtù».
60
Una delle solite forme invariate del participio (cfr. Intr., 35
n.), qui posta eccezionalmente accanto alla femminile, come a X
10,31.
61
se non avessero stimato che lei fosse morta.
62
allontanato, scostato: II 8,82 n.
63
dal: Intr., 20 n.
64
si trattenne, si astenne dal rispondere: il 5,53 n. e qui due righe
sopra.
65
prova, indizio.
Letteratura italiana Einaudi 1351
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
«Diteci adunque voi,» seguitò colui «chi ella è».
Disse il cavaliere: «Questo farò io volentieri, sol che
voi mi promettiate, per cosa che io dica, niuno doversi
muovere del luogo suo fino a tanto che io non ho la mia
novella66 finita».
38
Al quale avendol promesso ciascuno, ed essendo già
levate le tavole, messer Gentile allato alla donna sedendo, disse: «Signori, questa donna è quel leale e fedel servo, del quale io poco avanti vi fe’ la dimanda; la quale
da’suoi poco avuta cara, e così come vile e più non utile
nel mezzo della strada gittata, da me fu ricolta67, e con la
mia sollicitudine e opera delle mani la68 trassi alla morte,
e Iddio, alla mia buona affezion riguardando, di corpo
39 spaventevole69 così bella divenir me l’ha fatta. Ma acciò
che voi più apertamente intendiate come questo avvenu40 to mi sia, brievemente vel farò chiaro70». E cominciatosi
dal suo innamorarsi di lei, ciò che avvenuto era infino allora distintamente narrò con gran maraviglia degli ascoltanti, e poi soggiunse: «Per le quali cose, se mutata non
avete sentenzia da poco in qua, e Niccoluccio spezialmente, questa donna meritamente è mia, né alcuno con
giusto titolo71 me la può raddomandare».
36
37
66
racconto, narrazione.
Il verbo ha forse anche qui quella sfumatura affettuosa che
abbiamo visto altrove: IV 6,28 n.
68
Una delle solite riprese pleonastiche: la strappai dalle mani
della morte.
69
dallo stato di cadavere spaventoso.
70
ve lo manifesterò, ve lo chiarirò: III 1,5: «mi piace ... di farvene
più chiare con una piccola novelletta»; Par., VIII 91.
71
a buon diritto, legittimamente: e la frase è ripresa più sotto (48
«giusto titolo parendogli avere»): e cfr. II I,22 e IV 3,17 n.
67
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
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45
A questo niun rispose, anzi tutti attendevan quello
che egli più avanti dovesse dire. Niccoluccio e degli altri
che v’erano e la donna, di compassion lagrimavano72;
ma messer Gentile, levatosi in piè e preso nelle sue braccia il picciol fanciullino e la donna per la mano73, e andato verso Niccoluccio, disse: «Leva sù74, compare, io non
ti rendo tua mogliere, la quale i tuoi parenti e suoi gittarono via; ma io ti voglio donare questa donna mia comare con questo suo figlioletto, il quale io son certo che fu
da te generato, e il quale io a battesimo tenni e
nomina’lo75 Gentile; e priegoti che, perch76’ella sia nella
mia casa vicin di tre mesi77 stata, che ella non ti sia men
cara; ché io ti giuro per quello Iddio, che forse già di lei
innamorar mi fece acciò che il mio amore fosse, sì come
stato è, cagion della sua salute, che ella mai o col padre o
con la madre o con teco più onestamente non visse, che
ella appresso di mia madre ha fatto nella mia casa». E
questo detto, si rivolse alla donna e disse: «Madonna,
omai da ogni promessa fatami io v’assolvo, e libera vi lascio di Niccoluccio -; e rimessa la donna e ’l fanciul nelle
braccia di Niccoluccio, si tornò a sedere».
Niccoluccio disiderosamente78 ricevette la sua don-
72
Scena di agnizione che ricorda da vicino II 8,98; III 7,90: e
nota la stessa espressione ripetuta al 45.
73
In segno di reverenza: X 2,17 n.
74
Orsù: cfr. III 7,93 n.; IV 10,14; V 10,52; Inf., XXIV 52: «E
però leva sù; vinci l’ambascia».
75
e gli diedi il nome di ... Perché padrino del figlio, Gentile aveva prima chiamato i genitori compare e comare.
76
«Può avere valore semplicemente dichiarativo (per il fatto che
ella); o potrebbe essere concessivo (per quanto ella)» (Marti).
77
da circa tre mesi: Guittone, Lettere, XXX, p. 353: «vicin fu
che neiente…»
78
con gran piacere, con grande impeto di affetti: cfr. II 2,39; III
2,16.
Letteratura italiana Einaudi 1353
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
na e ‘l figliuolo, tanto più lieto quanto più n’era di speranza lontano, e, come meglio potè e seppe, ringraziò il
cavaliere; e gli altri che tutti di compassion lagrimavano,
di questo il commendaron molto, e commendato fu da
46 chiunque l’udì. La donna con maravigliosa festa fu in
casa sua ricevuta, e quasi risuscitata con ammirazione fu
più tempo guatata da’ bolognesi79; e messer Gentile
sempre amico visse di Niccoluccio e de’suoi parenti e di
quei della donna.
Che adunque qui, benigne donne, direte? Estimere47
te l’aver donato un re lo scettro e la corona, e uno abate
senza suo costo80 aver riconciliato un malfattore al papa,
o un vecchio porgere la sua gola al coltello del nimico,
48 essere stato da agguagliare al fatto di messer Gentile? Il
quale giovane e ardente, e giusto titolo parendogli avere
in ciò che la traccutaggine81 altrui aveva gittato via ed
egli per la sua buona fortuna aveva ricolto, non solo
temperò onestamente il suo fuoco, ma liberalmente
quello che egli soleva con tutto il pensier disiderare e
cercar di rubare, avendolo, restituì. Per certo niuna delle già dette a questa mi par simigliante. -
79
Conclusione che può ricordare quella della III 7,96 a proposito di Tedaldo redivivo: «Li fiorentini più giorni quasi come uno
uomo risuscitato e maravigliosa cosa riguardaron Tedaldo» (e cfr.
anche III 8,73 sgg.).
80
senza rimetterci nulla di suo: VIII 1,18.
81
trascuratezza: Intr., 65 n.
Letteratura italiana Einaudi
1354
NOVELLA QUINTA
1
Madonna Dianora domanda a messer Ansaldo un giardino di
gennaio bello come di maggio; messer Ansaldo con l’obligarsi
a uno nigromante gliele dà; il marito le concede che ella faccia
il piacere di messer Ansaldo, il quale, udita la liberalità del marito, l’assolve della promessa, e il nigromante, senza volere alcuna cosa del suo, assolve messer Ansaldo1.
1
La novella - anch’essa, come la precedente, già narrata nel Filocolo (IV questione d’amore: IV 31; per il confronto fra i due testi
vedi in generale gli studi citati alla X 4,1 n.) - ha dei chiari antecedenti nelle letterature orientali. Notevoli i rapporti col Tûti-nâmeb
di Nachshebi (ed. cit., I, pp. 248 sgg.), e con un’antica versione cinese di testi buddistici (S. DEBENEDETTI, Un’antica parente di
Madonna Dianora, in «Italia», III, 1913): sono stati citati anche
episodi simili del Dschami (Rosenöl, ed. Hammer, Leipzig 1813, II,
p. 277), del Katbàsaritságara (ed. cit., II, p. 278), del Baitál Pachísi
(ed. Oesterley, Leipzig 1873, p. 87), del Babár-i-Dánisch (ed. Ramchamdraji, Bombay 1870, p. 280), di vari racconti pali, persiani,
turchi, ecc. (CLOUSTON, Chaucer Originals and Analogues, London 1887, pp. 291, 297, 305, 310, 315, 325 sgg.). Ma anche alla letteratura del Medioevo occidentale il tema non era ignoto: basti
pensare a Le chevalier à la mance di Jean de Condé, alle possibili
fonti comuni al B. e a Chaucer per il suo Franklin’s Tale (cfr. W.
H. SCHOFIELD, Chaucer’s Franklin’s Tale, in «PMLA», XVI,
1901; e P. RAJNA, L’episodio delle questioni d’amore cit. e Le origini della novella narrata dal Frankeleyn, in «Romania», XXXI e
XXXII, 1902 e 1903; R. H. LUMIANSKI, The character and
performance of Chaucer’s Franklin, in «Toronto University Quarterly», XX, 1951), e alla estrema popolarità del motivo così prossimo a quello della IX 1 (cfr. ivi 1 n.; e Aarne, 976; Thompson D
961, 1664; F 971.5; H 1023.3; K 1231; M 261; Rotunda, D 961.1; F
971.5; H 352*; H 1552.1.1*; M 261.1*; M. P. GIARDINI, op. cit.,
p. 63). Si aggiunga anche, per quel che può valere, l’affermazione
del Bottari (Lezioni sopra il D., II, pp. 100 sgg.) che questa novella
«si legge antica altrove» (ma non dà altra indicazione); e si tengano
presenti gli episodi analoghi narrati come storici (per es. RRII.SS.,
XIX, p. 398; Manni, p. 555). Cfr. anche E. LEVI, Il libro dei cinquanta miracoli della Vergine, Bologna 1917, p. XII.
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2
3
4
Per ciascuno della lieta brigata era già stato messer
Gentile con somme lode tolto2 infino al cielo, quando il
re impose ad Emilia che seguisse, la qual baldanzosamente3, quasi di dire disiderosa, così cominciò4:.
– Morbide5 donne, niun con ragione dirà messer
Gentile non aver magnificamente operato, ma il voler
dire che più non si possa, il più potersi non fia forse malagevole a mostrarsi6; il che io avviso in una mia novelletta di raccontarvi.
In Frioli7, paese quantunque freddo8 lieto di belle
2
innalzato, levato (lat. tollere).
lietamente, con nobile disinvoltura: proprio come Emilia stessa
alla I 5,15 dice della Marchesana del Monferrato.
4
Cfr. V 3,2 n.; VIII 8,2 n.
5
Un aggettivo prediletto dal B. per le sue donne: IV 2,32 n.
6
ma se altri volesse dire che non si possa operar più magnificamente, non sarebbe malagevole a mostrarsi che si può (Fanfani).
7
Friuli. Notizie indirette o forse anche dirette di questa regione
il B. poté avere o dai concittadini - e forse parenti - Lapo e Lodaringo da Certaldo che esercitavano la mercatura a Cividale, o durante il suo viaggio del 1351 nel Tirolo quale ambasciatore della
Repubblica fiorentina a Ludovico di Baviera, marchese di Brandeburgo. Cfr. A. HORTIS, G. B. ambasciatore, Trieste 1875, e Studi
sulle opere latine cit., pp. 237 e 948 (dove cita interessanti ricordi
inediti di Marcantonio Nicoletti); G. GEROLA, Petrarca e B. nel
Trentino, in «Tridentum», VI, 1903; V. BRANCA, Per il testo del
D., I, pp. 108 e 114 sgg. anche per la fortuna del D. nel Friuli, e
Profilo cit., pp. 86 sg. E per i mercanti toscani, anzi certaldesi, nel
Friuli nel Due-Trecento: A. BATTISTELLA, I Toscani in Friuli,
Udine 1903: G. BINI, in «Atti Soc. Colombaria», 1908-909; P. A.
MEDIN, in «Atti R. Ist. Veneto», LXXXIII 1922-23; F. DAMIANI NERI, I commercianti fiorentini in Alto Adige, in «Arch. per
l’Alto Adige», XLII e XLIII, 1948 e 1949; R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, VI, pp. 870 sgg.
8
«Se ne derivava il nome, Frigoli, da frigus» (Scherillo), ma indebitamente (Forum Julii, da cui deriva, è il nome latino di Cividale).
3
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6
montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è una terra
chiamata Udine, nella quale fu già una bella e nobile
donna, chiamata madonna Dianora, e moglie d’un gran
ricco uomo nominato Gilberto, assai piacevole e di buona aria9. E meritò questa donna per lo suo valore d’essere amata sommamente da un nobile e gran barone10, il
quale aveva nome messer Ansaldo Gradense 11, uomo
d’alto affare, e per arme e per cortesia conosciuto per
tutto. Il quale, ferventemente amandola e ogni cosa faccendo che per lui si poteva per essere amato da lei, e a
ciò spesso per sue ambasciate sollicitandola, invano si
faticava. Ed essendo alla donna gravi le sollicitazioni del
cavaliere, e veggendo che, per negare12 ella ogni cosa da
lui domandatole13, esso per ciò d’amarla né14 di sollicitarla si rimaneva, con una nuova e al suo giudicio impossibil domanda si pensò di volerlosi torre da dosso15.
E a una femina che a lei da parte di lui spesse volte
9
di natura gaia, buona: III 4,27 n.
signore, genericamente: IV 3,19 n. (al 5 e al 9 è detto c a v a
l i e r e).
11
Anche questo, come i precedenti, è nome sconosciuto: ma è
evidente nella sua formazione un riflesso della fama di Grado (in
cui i mercatanti fiorentini avevano interessi: R. DAVIDSOHN,
Storia di Firenze, VI, p. 586), come in quello di Dianora forse un ricordo angioino (Registri di Cancelleria, III, p. 54). Da notare
l’oscillazione fra Gilberto e Giliberto.
12
per quanto, benché negasse: IV 6,2: e cfr. Mussafia, p. 503.
13
Uno dei soliti participi invariati (cfr. Intr., 35 n.).
14
Corrente l’omissione di un primo n é dove oggi si richiederebbe («né d’amarla ...»): cfr. II concl., 14; X 10,5 (e anche qui, più
avanti, par. 14).
15
Situazione identica a quella iniziale della IX 1 (5 sgg.), fino a
riprese quasi verbali («... operando cautamente ciascuno ciò che
per lui si poteva a dovere l’amor di costei acquistare ... le venne, acciò che la loro seccaggine si levasse da dosso, un pensiero: e quel fu
di volergli richiedere d’un servigio il quale ella pensò niuno dovergliele fare»).
10
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7
8
veniva, disse indi16 così: «Buona femina, tu m’hai molte
volte affermato che messer Ansaldo sopra tutte le cose
m’ama e maravigliosi doni m’hai da sua parte proferti, li
quali voglio che si rimangano a lui, per ciò che per quegli mai ad amar lui né a compiacergli mi recherei17; e se
io potessi esser certa che egli cotanto m’amasse quanto
tu di’, senza fallo io mi recherei ad amar lui e a far quello che egli volesse; e per ciò, dove di ciò mi volesse far
fede18 con quello che io domanderò, io sarei a’suoi comandamenti presta».
Disse la buona femina: «Che è quello, madonna, che
voi disiderate che el faccia?»
Rispose la donna: «Quello che io disidero è questo.
Io voglio del mese di gennaio che viene, appresso di
questa terra19 un giardino pieno di verdi erbe, di fiori e
di fronzuti albori20, non altrimenti fatto che se di maggio
fosse; il quale21 dove egli non faccia, né te né altri mi
mandi mai più; per ciò che, se più mi stimolasse22, come
io infino a qui del tutto al mio marito e a’miei parenti tenuto ho nascoso23, così dolendomene loro, di levarlomi
da dosso m’ingegnerei».
16
poi, appresso.
mi indurrei: VII 9,27 n.
18
dare prova certa: Par., VIII 14.
19
vicino a questa città.
20
alberi: espressione quasi canonica in simili casi: Intr., 90; III
intr., 2.
21
Si riferisce a g i a r d i n o .
22
Nel solito senso amoroso: II 8,41 n. e III 3,23 n.
23
La frase va intesa o sottintendendo assai facilmente la cosa,
l’affare; o interpretando: come ... ho tenuto silenzio di ogni cosa al
mio marito ecc. Anche questa affermazione ha precedenti puntuali
nella III 3,28 e IX 1,5.
17
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
Il cavaliere, udita la domanda e la proferta della sua
donna, quantunque grave cosa e quasi impossibile a dover fare gli paresse e conoscesse per niun’altra cosa ciò
essere dalla donna addomandato, se non per torlo dalla
sua speranza, pur seco propose di voler tentare quantunque fare se ne potesse24; e in più parti per lo mondo
mandò cercando se in ciò alcun si trovasse che aiuto o
consiglio gli desse; e vennegli uno alle mani il quale, dove ben salariato fosse, per arte nigromantica profereva
10 di farlo25. Col quale messer Ansaldo per grandissima
quantità di moneta convenutosi, lieto aspettò il tempo
postogli. Il qual venuto, essendo i freddi grandissimi e
ogni cosa piena di neve e di ghiaccio, il valente uomo in
un bellissimo prato vicino alla città con sue arti26 fece sì,
la notte alla quale il calendi gennaio27 seguitava, che la
mattina apparve, secondo che color che ‘l vedevan testimoniavano, un de’più be’giardini che mai per alcun fosse stato veduto, con erbe e con alberi e con frutti d’ogni
11 maniera. Il quale come messere Ansaldo lietissimo ebbe
veduto, fatto cogliere de’più be’frutti e de più be’fior
che v’erano, quegli occultamente fe’presentare alla sua
donna, e lei invitare a vedere il giardino da lei addomandato, acciò che per quel potesse lui amarla conoscere, e
9
24
quanto mai, tutto quello che si potesse fare in questa materia:
cfr. Intr., 2 n.
25
Per le posizioni del B. verso la negromanzia cfr. VIII 7,47 n. e
X 9,70 n.
26
Speditivo accenno al posto delle intere pagine dedicate nel Filocolo (IV 31, 22-37) agli incantesimi, secondo il modello delle Metamorfosi ovidiane (VII 179 sgg.: cfr. N. ZINGARELLI, La fonte
classica d’un episodio del Filocolo, in «Romania», XIV, 1885; V.
USSANI, Alcune imitazioni ovidiane del B., in «Maia», I, 1948).
27
primo di gennaio: c a l e n è troncamento corrente di c a l e n
d i (ilI 8,70 n.) specialmente in posizioni simili.
Letteratura italiana Einaudi 1359
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
ricordarsi della promission fattagli e con saramento28
fermata, e come leal donna poi procurar d’attenergliele.
12
La donna, veduti i fiori e’ frutti, e già da molti del
maraviglioso giardino avendo udito dire, s’incominciò a
pentere della sua promessa. Ma, con tutto il
pentimento29, sì come vaga di veder cose nuove30, con
molte altre donne della città andò il giardino a vedere, e
non senza maraviglia commendatolo assai, più che altra
femina dolente a casa se ne tornò, a quel pensando a che
13 per quello era obbligata. E fu il dolore tale, che non potendol ben dentro nascondere, convenne che, di fuori
apparendo, il marito di lei se n’accorgesse, e volle del
tutto da lei di quello saper la cagione. La donna per vergogna il tacque molto31; ultimamente, costretta, ordinatamente gli aperse ogni cosa32».
Gilberto primieramente, ciò udendo, si turbò forte;
14
poi, considerata la pura33 intenzion della donna, con miglior consiglio, cacciata via l’ira, disse: «Dianora, egli
non è atto di savia né d’onesta donna d’ascoltare alcuna
ambasciata delle così fatte né di pattovire34 sotto alcuna
condizione con alcuno la sua castità35. Le parole per gli
orecchi dal cuore ricevute hanno maggior forza che
molti non stimano, e quasi ogni cosa diviene agli amanti
28
giuramento: I 1,11 n.
nonostante il pentimento: Intr., 22 n.
straordinarie, inconsuete.
31
per lungo tempo.
32
Cfr. Inf., X 44.
33
buona, non maliziosa.
34
pattuire, mettere a prezzo, a patto: cfr. V 1,25 n,
35
«Nota bene» (M. che segna a margine i due primi periodi del
discorso). Anche nella IX 1,6: «avendo ella a esse [ambasciate]
men saviamente più volte gli orecchi porti».
29
30
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
possibile36. Male adunque facesti prima ad ascoltare e
poscia a pattovire; ma per ciò che io conosco la purità
dello animo tuo, per solverti dal legame della promessa,
quello ti concederò che forse alcuno altro non farebbe;
inducendomi ancora la paura del nigromante, al qual
forse messer Ansaldo, se tu il beffassi, far ci farebbe do16 lenti37. Voglio io che tu a lui vada38, e, se per modo alcun
puoi, t’ingegni di far che, servata la tua onestà, tu sii da
questa promessa disciolta; dove altramenti non si potesse, per questa volta il corpo, ma non l’animo, gli concedi39».
17
La donna, udendo il marito, piagneva e negava sé
cotal grazia voler da lui. A Gilberto, quantunque la donna il negasse molto40, piacque che così fosse. Per che, venuta la seguente mattina, in su l’aurora, senza troppo ornarsi41, con due suoi famigliari innanzi e con una
cameriera appresso, n’andò la donna a casa messere Ansaldo.
Il quale, udendo la sua donna a lui esser venuta, si
18
maravigliò forte, e levatosi e fatto il nigromante chiamare, gli disse: «Io voglio che tu vegghi42 quanto di bene la
15
36
Sentenza classica: «Nil difficile amanti» (Cicerone, Orat., 10);
«Qui non zelat amare non potest» (A. Cappellano, De Amore, p.
310). Ed è programmaticamente ripresa o accennata di frequente
nelle premesse alle novelle (cfr. per es. V 6,3; VI 4,3; VII 6,3 ecc.).
37
dal quale forse messer Ansaldo ... ci farebbe far cosa che ci renderebbe dolenti. Accenno umanissimo che mancava nel Filocolo.
38
«Ahi, bestion folle!» (M.).
39
Parole che forse riecheggiano quelle di Lucrezia riferite da Livio (I 58 «corpus est tantum violatum, animus insons ...»).
40
dicesse di no ostinatamente, vi si rifiutasse energicamente: IV
4,21.
41
Invece nel Filocolo (IV 31,47): «ornatasi e fattasi bella».
42
Per questa forma al congiuntivo cfr. V 6,38 n.; IX 5,36 e 52.
Letteratura italiana Einaudi 1361
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19
20
21
22
tua arte m’ha fatto acquistare»: e incontro andatile, senza alcun disordinato appetito43 seguire, con reverenza
onestamente la ricevette44, e in una bella camera ad un
gran fuoco se n’entrar tutti; e fatto lei porre a seder, disse: «Madonna, io vi priego, se il lungo amore il quale io
v’ho portato merita alcun guiderdone, che non vi sia
noia d’aprirmi la vera cagione che qui a così fatta ora
v’ha fatta venire e con cotal compagnia».
La donna, vergognosa e quasi con le lagrime sopra
gli occhi, rispose: «Messere, né amor che io vi porti né
promessa fede mi menan qui, ma il comandamento del
mio marito; il quale, avuto più rispetto alle fatiche45 del
vostro disordinato amore che al suo e mio onore, mi ci
ha fatta venire; e per comandamento di lui disposta sono per questa volta ad ogni vostro piacere».
Messer Ansaldo, se prima si maravigliava, udendo la
donna molto più s’incominciò a maravigliare; e dalla liberalità di Gilberto commosso, il suo fervore46 in compassione cominciò a cambiare, e disse: «Madonna, unque a Dio non piaccia47, poscia che così è come voi dite,
che io sia guastatore dello onore di chi ha compassione
al mio amore; e per ciò l’esser qui sarà, quanto vi piacerà, non altramenti che se mia sorella foste48, e quando
a grado vi sarà liberamente vi potrete partire, sì vera-
43
sregolato impeto passionale: II 10,36 e cfr. II 3,8 n.
Può ricordare l’atteggiamento di Federigo degli Alberighi (V
9,20).
45
ai travagli e all’opere (Scherillo).
46
Cioè: il suo amore fervente.
47
Solita energica deprecazione (II 8,21 n.; IV 9,23 n. ecc.) ripresa poi dal negromante (24).
48
Cfr. X 4,17 n.
44
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
mente49 che voi al vostro marito di tanta cortesia, quanta
la sua è stata, quelle grazie renderete che convenevoli
crederete, me sempre per lo tempo avvenire avendo per
fratello e per servidore.
La donna, queste parole udendo, più lieta che mai,
23
disse: «Niuna cosa mi potè mai far credere, avendo riguardo a’vostri costumi, che altro mi dovesse seguir della mia venuta che quello che io veggio che voi ne fate, di
che io vi sarò sempre obbligata». E preso commiato,
onorevolmente accompagnata si tornò a Gilberto e raccontogli ciò che avvenuto era; di che50 strettissima e leale amistà lui e messer Ansaldo congiunse.
24
Il nigromante, al quale messer Ansaldo di dare il
promesso premio s’apparecchiava, veduta la liberalità di
Gilberto verso messer Ansaldo e quella di messer Ansaldo verso la donna, disse: «Già51 Dio non voglia, poi che
io ho veduto Gilberto liberale del suo onore e voi del
vostro amore, che io similmente non sia liberale del mio
guiderdone; e per ciò, conoscendo quello a voi star bene52, intendo che vostro sia».
25
Il cavaliere si vergognò e ingegnossi a suo potere di
fargli o tutto o parte prendere; ma poi che in vano si faticava, avendo il nigromante dopo il terzo dì53 tolto via il
49
a questo patto: I 2,10 n. ecc.
per la qual cosa.
51
Riempitivo, come in latino quidem, sane.
52
conoscendo che quel premio è giusto che rimanga a voi.
53
Dopo un periodo, cioè, commisurato sulle regole negromantiche più canoniche e caro alla novellistica (X 7,16 n.).
50
Letteratura italiana Einaudi 1363
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
suo giardino, e piacendogli di partirsi, il comandò a
Dio54; e spento del cuore il concupiscibile amore verso
la donna, acceso d’onesta carità55 si rimase.
26
Che direm qui, amorevoli donne? preporremo la
quasi morta donna e il già rattiepidito amore per la spossata speranza56, a questa liberalità di messer Ansaldo,
più ferventemente che mai amando ancora e quasi da
più speranza acceso e nelle sue mani tenente la preda
tanto seguita57? Sciocca cosa mi parrebbe a dover creder
che quella liberalità a questa comparar si potesse. –
54
lo raccomandò a Dio, cioè l’accomiatò: X 9,37 n.: cfr. Annotazioni, XV.
55
affetto, alla latina, contrapposto all’espressione precedente solita a indicare la più prepotente sensualità (II 2,35 n.). Cfr. per analoga distinzione Petrarca, CCLXVI 9 sg.: «Carità di signore, amor
di donna | Son le catene ecc.».
56
per la speranza quasi perduta: II 10,42 n. Allude all’amore di
Gentile ormai in via di spegnersi per la creduta morte di Catalina.
57
desiderata e perseguita.
Letteratura italiana Einaudi
1364
NOVELLA SESTA
1
Il re Carlo vecchio, vittorioso, d’una giovinetta innamoratosi,
vergognandosi del suo folle pensiero, lei e una sua sorella onorevolmente marita1.
2
Chi potrebbe pienamente raccontare i vari ragionamenti tra le donne stati, qual maggior liberalità usasse o
Gilberto o messer Ansaldo o il nigromante2, intorno
a’fatti di madonna Dianora? troppo sarebbe lungo. Ma
poi che il re alquanto disputare ebbe conceduto, alla
Fiammetta guardando, comandò che novellando traesse
lor di quistione3; la quale, niuno indugio preso, incominciò:
– Splendide4 donne, io fui sempre in oppinione che
nelle brigate, come la nostra è, si dovesse sì largamente
3
1
Nessun antecedente per questa novella, che, come accenneremo anche nelle note seguenti, appartiene alla aneddotica storica,
fonte sempre fecondissima per la novellistica (cfr. in particolare G.
DE BLASIIS, La dimora di G. B. a Napoli, in «Arch. Stor. Province
Napoletane», VII, 1882, pp. 79 sgg.; F. TORRACA, art. cit., pp.
158 sgg.; F. NERI, La novella di Re Carlo il Vecchio, in «Fanfulla
della Domenica», XXXIV, 27, 1912). Se mai qualche suggestione
poté venire al B. dai numerosi esempi letterari di passioni illecite
vinte, per i consigli di amici autorevoli, da grandi personaggi storici: da quello di David e Betsabea (Re, II 12) a quello di Massinissa
e Sofonisba (Livio, XXX 12 sgg.) che commosse e ispirò il Petrarca
dell’Africa.
2
È proprio la «questione» che si sviluppa nel Filocolo, fra IV
31,54 e IV 4,16.
3
ponesse fine alla loro disputa.
4
Aggettivo non usato di solito per le novellatrici, ma ben adatto
all’atmosfera encomiastica e sfolgorante dell’ultima giornata: cfr.
del resto III 6,4.
Letteratura italiana Einaudi
1365
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
4
5
ragionare che la troppa strettezza della intenzion5 delle
cose dette non fosse altrui materia di disputare. Il che
molto più si conviene nelle scuole tra gli studianti6 che
tra noi, le quali appena alla rocca e al fuso bastiamo7. E
per ciò io, che in animo alcuna cosa dubbiosa forse8
avea, veggendovi per le già dette alla mischia9, quella lascerò stare, e una ne dirò, non mica d’uomo di poco affare, ma d’un valoroso re, quello che egli cavallerescamente operasse, in nulla mancando il suo onore10.
Ciascuna di voi molte volte può avere udito ricordare il re Carlo vecchio, ovver primo11, per la cui magnifica
5
la troppa oscurità o sottigliezza del senso: Corbaccio, 176: «mostrando d’avere assai bene le mie parole raccolte e la intenzione di
quelle»: e cfr. I concl., 20 n.
6
studiosi: forma analoga a «filsofanti» ecc.; Concl., 21 n.; Corbaccio, 250: «i miseri studianti».
7
Cfr. qui Proemio, 13; e Par., XV 124 sgg.; Petrarca, Tr. Fame,
II 79.
8
Cioè un argomento, una novella che avrebbe forse potuto suscitare nuove discussioni.
9
in gara, in contesa.
10
non partendosi in nulla dall’onore, non alterandolo minimamente (Fanfani): cfr. Annotazioni, CXXI. Oppure non venendo
meno per nulla il suo onore: cfr. Par., VII 68.
11
Fra tutti i principi angioini, la simpatia del B. si indirizzò massima al primo della dinastia regale: lo celebra già nel Filocolo come
un eroe e un inviato di Dio (I 1,6 sgg.). Se nell’Amorosa Visione
(XII 7 sgg.) l’esaltazione si compone in toni più misurati e non
esenti da atteggiamenti critici (la prepotente fierezza XII 25; l’accusa per la morte di san Tommaso XLIII 54), ancora nel De casibus il B. magnificherà la grandezza di Carlo nella fortuna e nella
sventura (IX 19). Anche il ritratto delineato in questa novella ha
del resto un preciso valore morale e storico (NERI, art. cit.; e anche X 7,3 n.) nonostante le evidenti inesattezze e incongruenze
(per es. Carlo non poteva esser vecchio se l’episodio si immagina
subito dopo la conquista del Regno: cfr. 28; la sua magnanimità
verso i nemici fu relativa: cfr. n. 7).
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6
impresa e poi per la gloriosa vittoria avuta del re Manfredi furon di Firenze i ghibellin cacciati e ritornaronvi i
guelfi12. Per la qual cosa un cavalier, chiamato messer
Neri degli Uberti13, con tutta la sua famiglia e con molti
denari uscendone, non si volle altrove che sotto le braccia14 del re Carlo riducere; e per essere in solitario luogo
e quivi finire in riposo la vita sua, a Castello a mare di
Stabia15 se n’andò; e ivi forse una balestrata rimosso16
dall’altre abitazioni della terra, tra ulivi e nocciuoli e castagni, de’quali la contrada è abondevole, comperò una
possessione, sopra la quale un bel casamento e agiato fece, e allato a quello un dilettevole giardino, nel mezzo
12
Allude alla battaglia di Benevento (1266): cfr. in generale G.
Villani, VII 15.
13
Non è identificabile con alcun personaggio storico: ma il Villani (VII 14-15) parla ampiamente dell’esilio degli Uberti, e fra i
cacciati enumerati nel Libro detto del Chiodo, di Parte Guelfa
(Archivio di Firenze), figurano vari Neri degli Uberti del Sestiere
di San Piero Scheraggio: Neri Boccalata degli Uberti ebbe nel 1273
salvacondotto per recarsi a Firenze da Gregorio X e re Carlo: ma
re Carlo fece imprigionare e uccidere crudelmente i figli di Farinata, e diede precise disposizioni per catturare i ghibellini toscani che
fossero nel Regno (cfr. Registri di Cancelleria cit., I, pp. 18 e 305;
De Blasiis, p. 79). «Gli Uberti più di quarant’anni erano stati ribelli di loro patria, né mai merzè né mai misericordia trovarono stando sempre fuori in grande stato e mai abbassarono il loro onore»
(Compagni, II 29).
14
sotto la protezione: Purg., XXIV 22: «Ebbe la Santa Chiesa in
le sue braccia». Non ha «alcuna verisimiglianza la venuta e la tranquilla residenza nel Regno di un ghibellino (dell’odiatissima e perseguitatissima stirpe di Farinata» (Torraca: e cfr. 36 n.).
15
Castellammare di Stabia presso Napoli. Il B. doveva aver visto
la Domus sana, costruita da Carlo II e Roberto: la Corte usava passarvi l’estate.
16
lontano un tiro di balestra: VIII 9,85 n.; Inf., XV 13.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
7
8
9
del quale, a nostro modo17, avendo d’acqua viva copia,
fece un bel vivaio e chiaro, e quello di molto pesce riempiè leggiermente18.
E a niun’altra cosa attendendo che a fare ogni dì più
bello il suo giardino, avvenne che il re Carlo, nel tempo
caldo, per riposarsi alquanto, a Castello a mar se n’andò;
dove udita la bellezza del giardino di messer Neri, disiderò di vederlo. E avendo udito di cui era, pensò che,
per ciò che di parte avversa alla sua era il cavaliere, più
familiarmente con lui si volesse fare19, e mandogli a dire
che con quattro compagni chetamente20 la seguente sera
con lui voleva cenare nel suo giardino. Il che a messer
Neri fu molto caro, e magnificamente avendo apparecchiato e con la sua famiglia avendo ordinato ciò che far
si dovesse, come più lietamente potè e seppe, il re nel
suo bel giardino ricevette. Il qual, poi che il giardin tutto
e la casa di messer Neri ebbe veduta e commendata, essendo le tavole messe allato al vivaio, ad una di quelle,
lavato21, si mise a sedere, e al conte Guido di Monforte22, che l’un de’compagni era, comandò che dall’un de’
17
secondo l’usanza nostra, cioè fiorentina: e cfr. difatti III intr., 8
sgg.; VI concl., 20 sgg
18
facilmente: I 1,78 n.
19
si dovesse trattare, cioè dare alla visita tono amichevole: I 1,26
n.
20
Cioè semplicemente e senza pompa, in incognito: II 6,57 n.
21
lavatosi le mani (alla latina).
22
Uno dei più fedeli e onorati signori della Corte di Carlo I e
suo vicario proprio in Toscana nel 1270 (cfr. G. Villani, VII passim). Dante lo pone tra i vieolenti quale uccisore di Arrigo, nipote
di Arrigo III d’Inghilterra (Inf., XII 118 sg.; G. Villani, VII 39; e
cfr. F. TORRACA, in Nel VI centenario della visione dantesca, Palermo 1900, p. 160); il B. lo ricorda nel De casibus (IX 19) come
massimo collaboratore di Carlo nella conquista del Regno. E cfr. S.
ASPERTI, Carlo I d’Angiò e i trovatori, Ravenna 1995, pp. 181 sgg.
e 206.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X
lati di lui sedesse, e messer Neri dall’altro, e ad altri tre,
che con lui eran venuti, comandò che servissero secondo l’ordine posto da messer Neri. Le vivande vi vennero
10 dilicate, e i vini vi furono ottimi e preziosi, e l’ordine
bello e laudevole molto senza alcun sentore23 e senza
noia; il che il re commendò molto.
E mangiando egli lietamente, e del luogo solitario
11
giovandogli24, e25 nel giardino entrarono due giovinette
d’età forse di quattordici anni26 l’una, bionde come fila
d’oro, e co’ capelli tutti inanellati e sopr’essi sciolti una
leggiera ghirlandetta di provinca27, e nelli lor visi più tosto agnoli parevan che altra cosa, tanto gli avevan dilicati e belli28; ed eran vestite d’un vestimento di lino sottilissimo e bianco come neve in su le carni, il quale dalla
cintura in su era strettissimo e da ’indi giù largo a guisa
12 d’un padiglione e lungo infino a’ piedi29. E quella che
dinanzi veniva recava in su le spalle un paio di vangaiole30, le quali con la sinistra man tenea, e nella destra aveva un baston lungo. L’altra che veniva appresso aveva
sopra la spalla sinistra una padella, e sotto quel braccio
23
rumore, strepito: Pucci, Centiloquio, XLVII 2: «raunò di piano
| Domila cavalier senza sentore». Sapegno invece: «senza scalpore,
senza che nulla trapelasse fuori di lì. Risponde al c h e t a m e n t e
del par. 7».
24
avendo piacere, conforto: II 7,83; V 5,3 n.; e cfr. VII 5,52 n.
25
ed ecco, ecco che, come più sotto al 13 n.: Intr., 78 n.
26
La solita età canonica: Intr., 49 n.
27
pervinca: anche nella Comedia, XV 24: «La testa sua, con leggiadretta ghirlanda di provinca coperta ...»
28
Due endecasillabi sognanti al centro di questo quadro fiabesco.
29
Vesti a campana, cioè alla foggia del ciprese, usate largamente
al tempo del B. (Epistola napoletana; C. MINIERI RlCCIO, Notizie storiche cit., pp. 145 sgg.).
30
Una varietà di reti da pesca.
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15
16
medesimo un fascetto di legne, e nella mano un treppiede, e nell’altra mano uno utel31 d’olio e una facellina accesa. Le quali il re vedendo si maravigliò, e32 sospeso attese quello che questo volesse dire.
Le giovinette, venute innanzi onestamente e vergognose, fecero la reverenzia al re; e appresso là andatesene onde nel vivaio s’entrava, quella che la padella aveva,
postala giù e l’altre cose appresso, prese il baston che
l’altra portava e amendune nel vivaio, l’acqua del quale
loro infino al petto aggiugnea, se n’entrarono. Uno
de’famigliari di messer Neri prestamente quivi accese il
fuoco, e posta la padella sopra il treppiè e dell’olio messovi, cominciò ad aspettare che le giovani gli gittasser
del pesce. Delle quali, l’una frugando in quelle parti dove sapeva che i pesci si nascondevano e l’altra le vangaiole parando, con grandissimo piacere del re, che ciò
attentamente guardava, in piccolo spazio di tempo presero pesce assai33; e al famigliar gittatine che quasi vivi34
nella padella gli metteva, sì come ammaestrate erano state, cominciarono a prendere de’più belli e a gittare su
per la tavola davanti al re e al conte Guido e al padre.
Questi pesci su per la mensa guizzavano, di che il re aveva maraviglioso piacere35, e similmente egli prendendo
di questi, alle giovani cortesemente gli gittava indietro; e
31
Vasetto di terracotta invetriato (dall’arabo utàl, volg. utél).
La solita congiunzione in ripresa dopo temporali narrative,
come all’ 11 n.
33
Vaga scena di pesca già anticipata insistentemente altrove dal
B. (VI concl., 31 n.; e Caccia, VIII 43 sgg.).
34
«Costruzione di pensiero, dacché il p e s c e a s s a i è frase
collettiva, e quindi il relativo g i t t a t i e v i v i» (Colombo).
35
Il B. leggeva nel De officiis una scena simile (III 14).
32
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così per alquanto spazio cianciarono36, tanto che37 il famigliare quello ebbe cotto che dato gli era stato, il qual
più per uno intramettere38, che per molto cara o dilettevol vivanda, avendol messer Neri ordinato, fu messo davanti al re.
Le fanciulle, veggendo il pesce cotto e avendo assai
17
pescato, essendosi tutto il bianco vestimento e sottile loro appiccato alle carni, né quasi cosa alcuna del dilicato
lor corpo celando39, usciron del vivaio, e ciascuna le cose recate avendo riprese, davanti al re vergognosamente
18 passando, in casa se ne tornarono. Il re e ’l conte e gli altri che servivano, avevano molto queste giovinette considerate, e molto in sé medesimo l’avea lodate ciascuno
per belle e per ben fatte40, e oltre a ciò per piacevoli e
per costumate41, ma sopra ad ogn’altro erano al re piaciute. Il quale sì attentamente ogni parte del corpo loro
aveva considerata, uscendo esse dell’acqua, che chi allo19 ra l’avesse punto non si sarebbe sentito42. E più a loro ri-
36
scherzarono, si sollazzarono: non allude soltanto, come oggi, a
parole: cfr. IV 5,8; VII 9,38 n. ecc.
37
fin che.
38
Intramessi (fr. entremets) erano quei piatti che si servivano fra
vivanda e vivanda per stuzzicare l’appetito: Esposizioni, VI all. 24: