Decameron II
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Decameron II
Decameron II di Giovanni Boccaccio Letteratura italiana Einaudi Edizione di riferimento: Einaudi, Torino 1980, 1987 e 1992 Introduzione, note bibliografiche, indici e commento a cura di Vittore Branca Letteratura italiana Einaudi ii Sommario Sesta giornata Novella prima Novella seconda Novella terza Novella quarta Novella quinta Novella sesta Novella settima Novella ottava Novella nona Novella decima Conclusione 835 839 842 850 855 862 868 873 879 883 890 910 Settima giornata Novella prima Novella seconda Novella terza Novella quarta Novella quinta Novella sesta Novella settima Novella ottava Novella nona Novella decima Conclusione 921 924 935 944 954 962 976 983 995 1009 1027 1034 Ottava giornata Novella prima Novella seconda Novella terza Novella quarta Novella quinta 1040 1041 1047 1060 1078 1088 Novella sesta Novella settima Novella ottava Novella nona Novella decima Conclusione 1095 1107 1146 1154 1185 1206 Nona giornata Novella prima Novella seconda Novella terza Novella quarta Novella quinta Novella sesta Novella settima Novella ottava Novella nona Novella decima Conclusione 1211 1213 1224 1230 1239 1248 1264 1273 1278 1288 1299 1306 Decima giornata Novella prima Novella seconda Novella terza Novella quarta Novella quinta Novella sesta Novella settima Novella ottava Novella nona Novella decima Conclusione 1310 1312 1318 1329 1341 1355 1365 1380 1397 1429 1464 1486 Letteratura italiana Einaudi iii SESTA GIORNATA 1 Finisce la quinta giornata del Decameron: incomincia la sesta, nella quale, sotto il reggimento d’Elissa, si ragiona di chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno. 2 Aveva la luna, essendo nel mezzo del cielo, perduti1 i raggi suoi, e già per la nuova luce vegnente ogni parte del nostro mondo2 era chiara, quando la reina levatasi, fatta la sua compagnia chiamare, alquanto con lento passo dal bel palagio, su per la rugiada spaziandosi 3, s’allontanarono, d’una e d’altra cosa varii ragionamenti tegnendo e della più bellezza e della meno4 delle raccontate novelle disputando e ancora de’ varii casi recitati in quelle rinnovando le risa, infino a tanto che, già più alzandosi il sole e cominciandosi a riscaldare, a tutti parve di dover verso casa tornare: per che, voltati i passi, là se ne vennero. E quivi, essendo già le tavole messe, e ogni cosa d’erbucce odorose e di be’ fiori seminata5, avanti che il caldo surgesse più6, per comandamento della reina si misero a mangiare. E questo con festa fornito, avanti che altro facessero, alquante canzonette belle e leggiadre cantate, chi andò a dormire e chi a giucare a scacchi e chi a tavole7; e Dioneo insieme con 3 1 Il participio passato accordato col relativo oggetto era dell’uso: cfr. Rohlfs, 725. 2 emisfero: Par., XXX 2. 3 movendosi, vagando qua e là: V 5,3 n. e Par., XX 73. 4 della maggior o minor bellezza. «È anche dell’uso l’adoperare gli avverbi comparativi per gli aggettivi» (Fanfani). 5 cosparsa, come altrove «giuncata» (Intr., 91 n.). 6 crescesse, aumentasse. 7 Sempre gli stessi gesti e le stesse occupazioni (per es. Intr., 110 n.; III intr., 15 n.). Letteratura italiana Einaudi 835 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 4 5 6 7 Lauretta di Troilo e di Criseida8 cominciarono a cantare. E già l’ora venuta del dovere a concistoro9 tornare, fatti tutti dalla reina chiamare, come usati erano dintorno alla fonte si posero a sedere; e volendo già la reina comandare la prima novella, avvenne cosa che ancora adivenuta non v’era, cioè che per la reina e per tutti fu un gran romore udito10, che per le fanti e’ famigliari si faceva in cucina. Laonde, fatto chiamare il siniscalco e domandato qual gridasse11 e qual fosse del romore la cagione, rispose che il romore era tra Licisca e Tindaro12; ma la cagione egli non sapea, sì come colui che pure allora giugnea per fargli star cheti, quando per parte di lei era stato chiamato. Al quale la reina comandò che incontanente quivi facesse venire la Licisca e Tindaro; li quali venuti, domandò la reina qual fosse la cagione del loro romore. Alla quale volendo Tindaro rispondere, la Licisca, che attempatetta era e anzi superba che no, e in sul gridar riscaldata, voltatasi verso lui con un mal viso disse: 8 «Qui si comprende Messer Giovanni avea prima composto il Filostrato che questo libro del Decameron» (M.). Il ricordo del suo poemetto giovanile va avvicinato idealmente alla citazione simile del Teseida nella VII concl., 6, e anche a quella dei cantari (nella III concl., 8: e cfr. ivi n.), così presenti in ambedue i poemi. 9 riunione, adunanza: Purg., IX 24: «Quando fu ratto al sommo consistoro» e il Da Buti commenta: «consistono si dice del luogo dove si sta insieme». 10 Inf., IV 79: «Intanto voce fu per me udita»: e per r o m o r e vociare cfr. 8, 38 n. 11 chi gridasse. 12 Cioè la «fante» di Filomena e il «famigliare» di Filostrato (Intr., 99-100). «Episodio eccezionale non solo perché è la sola volta (a parte quando Tindaro suona la cornamusa) che i servi sono chiamati per nome dopo l’Introduzione; ma anche a causa del tono comico e plebeo che essi portano all’atmosfera normalmente pacata e idillica della cornice» (B. Richardson, Onomastica boccacciana, in “Lingua Nostra”, XXXIV, 1973). Letteratura italiana Einaudi 836 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI – Vedi bestia d’uom che ardisce, dove io sia, a13 parlare prima di me! Lascia dir me –; e alla reina rivolta disse: – 8 Madonna, costui mi vuol far conoscere14 la moglie di Sicofante15; e né più né meno, come se io con lei usata non fossi, mi vuol dare a vedere che la notte prima che Sicofante16 giacque con lei, messer Mazza entrasse in Monte Nero per forza e con ispargimento di sangue; e io dico che non è vero, anzi v’entrò paceficamente e con 9 gran piacere di quei d’entro17. Ed è ben sì bestia costui, che egli si crede troppo bene che le giovani sieno così sciocche, che elle stieno a perdere il tempo loro, stando alla bada del padre e dei fratelli, che delle sette volte le sei soprastanno tre o quattro anni più che non debbono 10 a maritarle18. Frate, bene starebbono, se elle s’indugiasser19 tanto! Alla fè di Cristo (ché debbo sapere quello che io mi dico quando io giuro) io non ho vicina che pulcella ne sia andata a marito; e anche delle maritate, so io ben quante e quali beffe elle fanno à mariti; e questo pecorone20 mi vuol far conoscere le femine, come se io fossi nata ieri. 11 Mentre la Licisca parlava, facevan le donne sì gran 13 Per questa costruzione di ardire cfr. II 1,20 n. mi vuol spiegare, insegnare come sia: cfr. più sotto al 10. 15 Nome evidentemente preso dalle stesse fonti comiche classiche da cui derivano quelli di Licisca e Tindaro: il B. probabilmente confuse un nome comune (sicofante, delatore) con uno proprio; o interpretandolo come «mangiatore di fichi» lo senti nella serie «pappafico», «pappalefave» coi valore di balordo (cfr. B. Richardson, art. cit.; e Intr., 98 n.). 16 la prima notte in cui. 17 Simile linguaggio e simili metafore allusive sessualmente il B. già aveva usato nel Ninfale, 245, e poi userà nel Corbaccio, 411 sgg.: e cfr. anche VI 10,46 n. e Masuccio Salernitano, Novellino cit., p. 15. 18 Per questo motivo cfr. V 7,6 n. E per il seguente f r a t e, ironico, VIII 9,I02. 19 Uno dei soliti riflessivi per attivo: F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 138 sgg. 20 Cfr. V I,23 n. 14 Letteratura italiana Einaudi 837 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 12 13 14 15 16 risa, che tutti i denti si sarebbero loro potuti trarre21. E la reina l’aveva ben sei volte imposto silenzio; ma niente valea: ella non ristette mai infino a tanto che ella ebbe detto ciò che ella volle. Ma poi che fatto ebbe alle parole fine, la reina ridendo, volta a Dioneo, disse: – Dioneo, questa è quistion da te22; e per ciò farai, quando finite fieno le nostre novelle che tu sopr’essa dei23 sentenzia finale. – Alla qual Dioneo prestamente rispose: – Madonna, la sentenzia è data senza udirne altro; e dico che la Licisca ha ragione, e credo che così sia com’ella dice; e Tindaro è una bestia. – La qual cosa la Licisca udendo, cominciò a ridere, e a Tindaro rivolta, disse: – Ben lo diceva io; vatti con Dio; credi tu saper più di me tu24, che non hai ancora rasciutti gli occhi25? Gran mercé26, non ci son vivuta invano io, no. – E, se non fosse che la reina con un mal viso le ‘mpose silenzio e comandolle che più parola né romor facesse se esser non volesse scopata 27, e lei e Tindaro mandò via, niuna altra cosa avrebbero avuta a fare in tutto quel giorno che attendere28 a lei. Li quali poi che partiti furono, la reina impose a Filomena che alle novelle desse principio; la quale lietamente così cominciò. 21 cavare: e per espressioni simili cfr. II concl., 1 n.; IX 3,25: e in generale F. AGENO, Alcune antiche frasi proverbiali, in “Lingua Nostra”, XV, 1954. 22 Cfr. V 9,36 n. 23 dia: «f a r a i ... c h e t u ... d e i darai, con forma attenuata dell’imperativo» (Petronio). 24 Pleonasmi frequenti nel parlar concitato: VII 1,21; VII 4,26 ecc. 25 Cioè: che sei un fanciullo: cfr. Davanzati, Volg. degli Annali di Tacito, III 59. 26 «E’ qui posto come confermativo di cosa detta di sopra, come dire sicuro che è vero quel che io affermo; e nel senso medesimo diciamo tuttavia Grazie! anche adesso» (Fanfani). 27 frustata: III 4,5 n.: Novellino, XCV. 28 badare, stare attenti: V 3,6 n. Letteratura italiana Einaudi 838 NOVELLA PRIMA 1 Un cavaliere dice a madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo, e malcompostamente dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga1. 2 – Giovani donne, come né lucidi sereni2 sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de’verdi prati, e de’colli i rivestiti albuscelli, così de’laudevoli costumi e de’ragionamenti belli sono i leggiadri motti, li quali, per ciò che brievi sono, tanto stanno meglio alle donne che agli uomini, quanto più alle donne che agli uomini il molto parlar si disdice. È il vero che, qual si sia la cagione, o la malvagità del nostro ingegno o inimicizia singulare che à nostri secoli sia portata dà cieli, oggi poche o non niuna donna rimasa ci è, la qual ne sappi né tempi3 opportuni dire alcuno, o, se detto l’è, intenderlo come si conviene: general vergogna di tutte noi. Ma per ciò che già sopra questa materia assai da Pampinea fu detto4, più oltre non intendo di dirne. 3 4 1 L’unico vaghissimo antecedente citato per questa novella – prontamente imitata dal Sercambi (CXXI) – è quello della LXXXIX del Novellino («Qui conta d’uno uomo di corte che cominciò una novella che non venia meno»). Ma il racconto durante il viaggio, per alleviarne la fatica, aveva una lunga tradizione nella narrativa medievale: dai romanzi cavallereschi a Chaucer e Sercambi. E diffuso era nelle narrazioni di enigmi o indovinelli quello dell’“enigma del cavallo”: da versioni orientali, fra le quali è notevole per affinità alla novella boccacciana la III 7 del Sefer Saasiùm del medico ebreo Zabara (secolo XII), a racconti o exempla latini, come uno contenuto nella Compilatio singularis exemplorum (cfr. A. FREEDMAN, Il cavallo del B. ecc., in “Studi sul B.”, IX, 1975). 2 nelle notti limpide: «Nota che questo medesimo prolago usa l’autore di sopra nella decima novella detta da Pampinea, il che pare vizioso molto» (M.): cfr. I 10, 3-4 nn.; e qui n. 4. 3 momenti, occasioni. 4 Dunque, la ripresa non è casuale, ma voluta da Filomena, devota satellite di Pampinea. Letteratura italiana Einaudi 839 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 5 6 7 8 9 Ma per farvi avvedere quanto abbiano in sé di bellezza à tempi detti5, un cortese impor di silenzio fatto da una gentil donna ad un cavaliere mi piace di raccontarvi. Sì come molte di voi o possono per veduta sapere o possono avere udito, egli non è ancora guari che nella nostra città fu una gentile e costumata donna e ben parlante6, il cui valore non meritò che il suo nome si taccia. Fu adunque chiamata madonna Oretta, e fu moglie di messer Geri Spina7; la quale per avventura essendo in contado, come noi siamo, e da un luogo ad un altro andando per via di8 diporto insieme con donne e con cavalieri, li quali a casa sua il dì avuti avea a desinare, ed essendo forse la via lunghetta di là onde si partivano a colà dove tutti a piè d’andare intendevano disse uno de’cavalieri della brigata: « Madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi porterò, gran parte della via che ad andare abbiamo, a cavallo9, con una delle belle novelle del mondo». Al quale la donna rispose: « Messere, anzi ve ne priego io molto, e sarammi carissimo». Messer lo cavaliere, al quale forse non stava meglio la spada allato che ’l novellar nella lingua, udito questo, 5 detti a momento opportuno: IX 4,25. Lode ripetuta altre volte: I 8,7; VI 3,9; VI 9,8; IX 5,9. È la figlia del marchese Obizzo Malaspina e di Tobia Spinola, e moglie di Geri degli Spini (su cui VI 2,8 n.), del quale già nel 1332 figura vedova (vari documenti pubblica il Manni, pp. 379 sgg.): è presentata come leggiadra motteggiatrice anche nelle Facezie di Ludovico Domenichi. Oretta o Orietta (da Laura, Lauretta) è diminutivo frequente in quel-l’età, anche fra i Malaspina, come abbiamo visto (II 6,18 n.). 8 a causa, a motivo di: VIII 7,6: «un giorno per via di diporto ... »: e cfr. V 9,3I n. 9 Cioè: andrete senza fatica alcuna, come se foste a cavallo. «Una frase, questa, esemplata sul motto latino: ‘Facundus in itinere comes pro vehiculo est’» (Scherillo). E per l’abitudine di novellare camminando è naturale il ricordo dei Racconti di Canterbury di Chaucer e della “cornice” del Sercambi, ecc. 6 7 Letteratura italiana Einaudi 840 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé10 era bellissima; ma egli or tre e quattro e sei volte replicando una medesima parola, e ora indietro tornando, e talvolta dicendo: « Io non dissi bene » ; e spesso né nomi errando, un per un altro ponendone, fieramente la guastava; senza che11 egli pessimamente, secondo le12 qualità delle persone e gli atti che accadevano, profereva13. 10 Di che a madonna Oretta, udendolo, spesse volte veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come se inferma fosse stata per terminare14; la qual cosa poi che più sofferir non potè, conoscendo che il cavaliere era entrato nel pecoreccio15, né era per riuscirne, piacevol11 mente disse: « Messere, questo vostro cavallo ha troppo duro trotto; per che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè». 12 Il cavaliere, il qual per avventura era molto migliore intenditore che novellatore, inteso il motto, e quello in festa e in gabbo16 preso, mise mano in altre novelle17, e quella che cominciata avea e mai seguita, senza finita18 lasciò stare. – 10 per se stessa, in se stessa. senza dire che. in relazione alle. 13 pronunziava (Fanfani) o forse meglio esponeva (Scherillo): Par., XXVIII 136: «E se tanto secreto ver proferse». 14 finire, morire. 15 s’era cacciato nell’intrigo, nei pasticci (propriamente quel letamaio fangoso che fanno le pecore dove dormono la notte): Davanzati, Volg. Annali di Tacito, XVI 3: «alla fine uscito del pecoreccio ... ». 16 scherzo. 17 cominciò a raccontare altre novelle: cfr. X 4,3 n. 18 fine: sostantivo come andata, partita, redita di cui ampiamente trattarono i Deputati (pp. 194 sgg.): e cfr. Dante, Rime, XC 68: «Che possan guari star sanza finita»; Guinizzelli, Pura pensar: «come regnasse qui senza finita». La novella posta proprio al centro del D. (è la 51a) ha certo valore emblematico, allusivo alla necessaria tecnica e all’arte stessa del narrare. 11 12 Letteratura italiana Einaudi 841 NOVELLA SECONDA 1 Cisti fornaio con una sola parola1 fa raveder messer Geri Spina d’una sua trascutata domanda2. 2 Molto fu da ciascuna delle donne e degli uomini il parlar di madonna Oretta lodato, il qual comandò la reina a Pampinea che seguitasse; per che ella così cominciò: – Belle donne, io non so da me medesima vedere che più in questo si pecchi3, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato d’anima nobile vil mestiero4, sì come in Cisti nostro cittadino5 e in molti ancora ab- 3 1 frase: I 6,16 n. Nessun antecedente per questa novella, che, come le tre seguenti, trae probabilmente spunto da nostalgiche e compiaciute rievocazione della cronaca municipale fiorentina del buon tempo antico. Riscontri di qualche interesse sono quelli col Novellino (XXI, XLIII) e con una novelletta antica - la XII del Panciatichiano - narrata di Maso Leonardi (Il Novellino e altre novelle antiche, ed. Sicardi, Livorno 1919, pp. 149 sgg.). Sui possibili elementi di tradizione narrativa popolare cfr. Rotunda, J 1319.7.1*. Per trascutata non meditata, azzardata, male accorta, cfr. Intr., 65 n. 3 che cosa sia maggiormente da giudicare un vero peccato in questo (prolettico di ciò che è detto subito dopo). E cfr. Luca 17.3: «si quid peccaverit in te frater tuus». 4 Concetto spesso ripetuto: cfr. per es. V 7,43 n. 5 Cisti (da Bencivenisti) era nome non raro nella Firenze di quei secoli; e proprio un “Cisto fornaio” appare nel 1300 fra i Confratelli e Commessi della Chiesa di Santa Maria Ughi presso cui Cisti, secondo il B., aveva il suo forno (MANNI, op. cit., p. 392); e un Guido di Cisti, popolano di Santa Maria Ughi, figura testimone in un atto del 12 gennaio 1316 (cod. Magliabechiano XXV 394, c. I52). Naturalmente una salda tradizione – dalla descrizione delle case possedute nel 1427 dalla Chiesa di Santa Maria Ughi, agli eruditi del Settecento (cfr. nn. sgg.) – volle confermare e l’identità di Cisti e l’ubicazione del forno. 2 Letteratura italiana Einaudi 842 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 4 5 6 7 biamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d’altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio. E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi la natura esser discretissima e la fortuna aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca figurino6. Le quali io avviso che, sì come molto avvedute, fanno quello che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de’futuri casi, per le loro oportunità le loro più care cose né più vili luoghi delle lor case, sì come meno sospetti sepelliscono, e quindi né maggiori bisogni le traggono, avendole il vil luogo più sicuramente servate che la bella camera non avrebbe7. E così le due ministre del mondo8 spesso le lor cose più care nascondono sotto l’ombra dell’arti reputate più vili, acciò che di quelle alle necessità traendole9 più chiaro appaia il loro splendore. Il che quanto in poca cosa10 Cisti fornaio il dichiarasse, gli occhi dello ‘ntelletto rimettendo a messer Geri Spina11, il quale la novella di madonna Oretta con6 Cfr. Amorosa Visione, B, XXXI 19 sgg.; e ed. Cit., pp. LXXXV e 596 sgg. 7 Amorosa Visione, B, XXXI 55 sgg.: “Or quinci segue al pover che sicuro | Vive di non cader, né spera mai | Che caso fortunal li paia duro ... | E d’altra parte dignitate i rei | Fa manifesti, ed ogni lor mancanza | È, conosciuta ... ”. 8 Dante chiama la Fortuna “general ministra e duce” (Inf., VII 78). 9 al bisogno, all’occorrenza portandole alla luce. 10 in occasione di scarso rilievo, modesta. 11 facendo rimettere messer Geri Spina (“occhi dello ’ntelletto” anche qui al 26 e a VIII 7,85: cfr. Par., X 121: “l’occhio della mente”). Geri (accorciativo di Ruggeri) di Mannetto Spina, di famiglia guelfa nera, fu attorno al 1300 uno dei capi della sua fazione (Compagni, I 21 e 23; II 26; III 4I); “egli e la sua compagnia erano mercatanti di papa Bonifazio, e del tutto guidatori” (G. Villani, VIII 43 e anche 72). Viveva ancora nel 132I; nel I332 era invece già morto (VI I,6 n.). Doveva esser uomo non solo di spirito ma di una certa sensibilità culturale, se Bartolomeo da San Concordio gli dedicò i suoi Ammaestramenti degli Antichi, scritti proprio a istanza di un agente di Geri, Nero Cambi (Compagni, I 21; e cfr. relative note del Del Lungo). Letteratura italiana Einaudi 843 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 8 tata, che sua moglie fu, m’ha tornata12 nella memoria, mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi13. Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato14, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne15, essendo essi in casa di messer Geri16 smontati, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che17 se ne fosse cagione, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi18 passavano, dove 12 Attrazione molto naturale, per cui Mussafia, p. 442. E nota uno dei soliti artifici esterni, qui onomastico o di parentado, per legare una novella all’altra (cfr. per es. VI 6,3 n.). 13 “Nota” (M., che segna tutto il tratto, dall’inizio delle parole di Pampinea). È forse questo il più aristocratico e umano cenno al problema della Fortuna, così sentito nel Medioevo e dal B. stesso (cfr. II 3,4 n.; V 7,43 n.): e ben si addice a questa giornata in cui, come nella II, ha gran parte la Fortuna e i suoi casi (cfr. specie VI 4,3). E vedi BRANCA, B. medievale, pp. 16 sgg., 20 sgg. 14 fu tenuto in somma considerazione. L’avvio della narrazione così altamente esemplare, in cui appaiono personaggi e avvenimenti di grande rilievo storico – quasi a contrasto con l’umiltà del protagonista e dell’episodio – continua il tono nobile e solenne della meditativa introduzione: dal Dico iniziale (cfr. Intr., 8 n.) alle scelte lessicali, alla sequenza dei tre endecasillabi di apertura: e per il letterario a p p o presso cfr. VIII 3,19 n. 15 Precisamente per tentar di metter pace fra Bianchi e Neri, nel 1300, durante il priorato di Dante. «Il quale [Nero Cambi] tanto aoperò coi Papa ... che mandò a Firenze messer frate Matteo d’Acquasparta, cardinale Portuense, per pacificare i Fiorentini. Ma niente fece perché dalle parti non ebbe la concessione che volea; e però sdegnato si partì» (Compagni, I 21). 16 Le case degli Spini erano presso Santa Trinita. 17 qualunque: Tr. Mortis, II I75: «Or, che si sia, diss’ella, i’ n’ebbi onore». A meno di anticipare la virgola dopo a v v e n n e (e cfr. IV 5,4). 18 Chiesina fatta costruire dagli Ughi (Par., XVI 88) tra Palazzo Strozzi e l’odierna via Portarossa: G. RICHA, Notizie istoriche delle Chiese fiorentine, Firenze 1754-59, III, pp. 182 sgg. dà varie notizie su questa chiesina e conclude che Cisti «stava dall’altra banda della chiesa, ov’è un Palazzo della famiglia degli Strozzi»; e il Manni (p. 392) mostra che gli ambasciatori movendo dalle case Letteratura italiana Einaudi 844 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserceva19. Al quale quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli n’era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra abbandonare splendidissimamente vivea, avendo tra l’altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado. 10 Il quale, veggendo ogni mattina davanti all’uscio suo passar messer Geri e gli ambasciadori del Papa, e essendo il caldo grande20, s’avisò che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua condizione e a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere21 d’invitarlo ma pensossi di tener modo il quale inducesse mes11 ser Geri medesimo a invitarsi. E avendo un farsetto22 bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali più tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l’ora che egli avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover23 passare si faceva davanti all’uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d’acqua fresca e un picciolo orcioletto bolognese24 nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri 12 che parevano d’ariento, sì eran chiari25: e a seder postosi, come essi passavano, e26 egli, poi che una volta o due 9 degli Spini passavano naturalmente di fronte al forno di Cisti sia che si recassero dai Cerchi, capi dei Bianchi, che dai Donati, capi dei Neri. 19 Dalla forma latineggiante essercere. 20 Era giugno, come sappiamo dai cronisti citati. 21 avere la presunzione, l’ardire. 22 Cfr. II 4,15 n. 23 Col solito cambio di costruzione (cfr. I 4,3 n.). 24 Vaso di terra cotta o boccale fabbricato a Bologna. 25 La scena ricorda Intr., 104 (e cfr. ivi nota). 26 Una delle solite congiunzioni in ripresa, dopo una proposizione temporale, per indicare istantaneità: Intr., 78 n. Letteratura italiana Einaudi 845 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 13 14 15 16 17 spurgato s’era27, cominciava a ber sì saporitamente questo suo vino, che egli n’avrebbe fatta venir voglia a’morti. La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza: «Chente è28, Cisti? è buono?» Cisti, levato prestamente in piè, rispose: «Messer sì, ma quanto non vi potre’io dare a intendere, se voi non assaggiaste». Messer Geri, al quale o la qualità 29 o affanno più che l’usato avuto o forse il saporito bere, che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli ambasciadori sorridendo disse: « Signori, egli è buono30 che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo: forse che è egli tale, che noi non ce ne penteremo31 »; e con loro insieme se n’andò verso Cisti. Il quale, fatta di presente32 una bella panca venire di fuori dal forno, gli pregò che sedessero; e alli lor famigliari, che già per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse: «Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste 33 voi d’assaggiarne gocciola!» E così detto, esso stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo orcioletto 27 aveva sputato, si era liberato la gola dal catarro, per richiamar l’attenzione e secondo l’uso plebeo prima di gustare cosa prelibata. 28 Qual è? Com’è?: cfr. Intr., 55 n. 29 Si riferisce al vino o probabilmente al tempo e quindi alla calura della stagione riflettendo un precetto diffuso (per es. ANONIMO GENOVESE, Poesie, Roma 1970, CXXI) – «Credo che voglia dire o la qualità del tempo» (M). 30 è opportuno, è bene: Inf., XII 27: e cfr. anche Intr., 75 n. 31 Dalla solita forma pentere: IV 1,62 n. 32 subito: I 1, 77 n. 33 non vi venga in mente ... «È una specie di congiuntivo potenziale, usato per l’imperativo, ma con maggiore forza, perché esclude anche la possibilità del caso» (Fornaciari): alla latina. Letteratura italiana Einaudi 846 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 18 19 20 21 22 del suo buon vino diligentemente diede bere a messer Geri e a’compagni34, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti35 bevuto; per che, commendatol molto, mentre gli ambasciador vi stettero36, quasi ogni mattina con loro insieme n’andò a ber messer Geri. A’ quali, essendo espediti37 e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito al quale invitò una parte de’più orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale per niuna condizione38 andar vi volle. Impose adunque messer Geri a uno de’suoi famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense39. Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco. Il quale come Cisti vide, disse: « Figliuolo, messer Geri non ti manda a me». Il che raffermando40 più volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a messer Geri e sì gliele disse; a cui messer Geri disse: «Tornavi e digli che sì fo41: e se egli più42 così sponde, domandalo a cui io ti mando». Il famigliare tornato disse: «Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a te». 34 Tre endecasillabi di seguito sottolineano la letizia premurosa di Cisti. 35 da molto tempo: IV 1,10: “di grandissimi tempi davanti usata non s’era”. 36 finché gli ambasciatori stettero a Firenze. 37 essendosi sbrigati dei loro affari: I 4,2 n. 38 in nessun modo, a nessun patto: Teseida, I 86: “non potrà ... | Dimorar qui, per nulla condizione”. 39 per uno desse alla prima portata: cioè quando lo potevano gustare meglio (cfr. Joan. 2. 10). 40 confermando, riaffermando. 41 che sì ti mando, che si lo fo: altro esempio - come al 23 - di “fare” in sostituzione di altro verbo (Intr., 14 n.), e dell’omissione del pronome in casi Simili (III 6,29 n.). 42 ancora. Letteratura italiana Einaudi 847 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI Al quale Cisti rispose: «Per certo, figliuol, non fa43». «Adunque», disse il famigliare «a cui mi manda?» Rispose Cisti: «Ad Arno». Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s’apersero dello ‘ntelletto44 e disse al famigliare: «Lasciami vedere che fiasco tu vi porti »; e vedutol disse: «Cisti dice vero45»; e dettagli villania gli fece torre un fiasco convenevole. 27 Il quale Cisti vedendo disse: «Ora so io bene che egli ti manda a me», e lietamente46 glielo impiè. E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere 28 d’un simil vino e fattolo soavemente47 portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse: «Messere, io non vorrei che voi credeste48 che il gran fiasco stamane m’avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì49 co’miei piccoli orcioletti v’ho dimostrato, ciò questo non sia vin da 29 famiglia50, vel volli staman raccordare51. Ora, per ciò che io non intendo d’esservene più guardiano52 tutto ve 23 24 25 26 43 non ti manda, col solito uso di “fare”: oppure formula di negazione analoga a quelle dell’antico francese «non fait!», «si fait!» (Pézard). 44 Cfr. 7 n. 45 Quasi avverbio: parla con verità: Petrarca, LIII 94. 46 volentieri, con piacere: III 1,7. 47 pianamente, delicatamente, cioè senza urti: V intr., 2 n., VI 10,34 n.; VII 8,14 n.; Inf., XIX 130: «Quivi soavemente spuose il carco». 48 Altri due endecasillabi di seguito. 49 nei giorni passati. 50 vino leggero, da darsi alla servitú: e per l’origine e il valore dell’espressione: G. PASQUALI, Lingua Nuova e Antica, Firenze 1964, pp. 230 sgg. 51 ricordare: forma non rara (cfr. per es. Novellino, ed. Borghini, XCIX; Buti comm. a Inf., XXXII 1). 52 di più conservarlo per voi. «Con queste parole Cisti fa intendere a messer Geri che il vino non era più cosa sua, da quel giorno che esso piacque a colui cui egli riguardava come padrone delle sue cose e di sé» (Fornaciari). Letteratura italiana Einaudi 848 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 30 l’ho fatto venire: fatene per innanzi53 come vi piace». Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l’ebbero54 e per amico. 53 54 di qui avanti. per uomo di molto valore lo stimò. Letteratura italiana Einaudi 849 NOVELLA TERZA 1 Monna Nonna de’Pulci con una presta1 risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone2. 2 Quando Pampinea la sua novella ebbe finita, poi che da tutte la risposta e la liberalità di Cisti molto fu commendata, piacque alla reina che Lauretta dicesse appresso, la quale lietamente così a dire cominciò. – Piacevoli donne, prima Pampinea e ora Filomena assai del vero toccarono3 della nostra poca virtù e della bellezza de’motti; alla quale per ciò che tornar non bisogna, oltre a quello che de’motti è stato detto, vi voglio ricordare essere la natura de’motti cotale, che essi come la pecora morde deono così mordere l’uditore, e non come ‘1 cane; per ciò che, se come il cane mordesse il 4 motto, non sarebbe motto ma villania4. 3 1 pronta: di fatti il tema generale della giornata dice: «... o con pronta risposta ...»: e cfr. I 5,17: «il presto partirsi»; I 7,7: «presto parlatore»; VI 4,I: «con una presta parola»; VI 6,2: «bella e presta risposta»; X 9,II3: «il guiderdone delle lor liete e preste cortesie». 2 Nessun antecedente di questa novella, prontamente ripresa dal Sercambi (CXLVI): il rapporto che il Landau istituisce con il racconto La donna e il merciaio del Libro dei Sette Savi non ha senso alcuno. L’Ammirato e il Campanile (opp. citt.), il Borghini (Trattato della moneta, Firenze I578) e il Manni, e vari altri eruditi napoletani e fiorentini ne affermarono il fondamento storico, ma senza alcuna documentazione. A Diego e agli episodi ricordati in questa novella si è voluto riferire anche un sonetto dell’Angiolieri Lassar vo’ lo trovare: dove del «mariscalco» si dice «ch’ e’ par fiorin d’or ed è di ricalco», e si ammoniscono le «donne e donzelle» di Firenze «che ’l su’ fatto è solo di parvenza» (cfr. ed. Massera, Bologna 1906, p. 163; ZINGARELLI, Dante cit., pp. 1198 e 1208). Per il motivo tradizionale nella novellistica cfr. Rotunda, K 1228*. 3 dissero cose assai vere e a proposito. 4 «Nota buona dottrina ne’ motti» (M.): e questo passo altamente è lodato anche dal Casa nel suo Galateo (XX). Per tutto Letteratura italiana Einaudi 850 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 5 6 La qual cosa ottimamente fecero e le parole di madonna Oretta e la risposta di Cisti. È il vero che, se per risposta si dice, e il risponditore morda come cane, essendo come da cane prima stato morso, non par da riprendere, come, se ciò avvenuto non fosse, sarebbe; e per ciò è da guardare e come e quando e con cui e similmente dove si motteggia. Alle quali cose poco guardando già un nostro prelato, non minor morso ricevette che ‘l desse; il che in una piccola novella vi voglio mostrare. Essendo vescovo di Firenze messer Antonio d’Orso5, valoroso e savio prelato, venne in Firenze un gentile uom catalano, chiamato messer Dego della Ratta, maliscalco per lo re Ruberto6. Il quale, essendo questo linguaggio «canino» cfr. IV intr., passim e nn.; I 6,3 n.; V concl., 3 n. 5 Antonio degli Orsi di Biliotto degli Orsi, già dal 1301 vescovo di Fiesole, successe nel 1309 a Lottieri della Tosa nel vescovato fiorentino, che tenne fino alla morte (1322). Il Compagni lo dice simoniaco, «di vile nazione, animoso in parte guelfa e molto nel vulgo del popolo [cioè molto popolare], ma non di santa vita» (cfr. III 22). Probabilmente proprio dalla diffusa fama della sua avidità trassero una qualche origine le novelle del B. e del Sacchetti (CXXVIII), che pur lo presentarono come «valoroso e savio prelato» e «uomo molto venerabile e dabbene». Armò e capitanò egli stesso il clero durante l’assedio posto da Arrigo VII a Firenze (G. Villani, IX 47); nel 1310 fu nominato consigliere privato della corona inglese (A. SAPORI, Studi cit., p. 604); fu uomo di cultura preumanistica possessore di una ricca libreria e amico di Francesco da Barberino. Per queste e altre notizie vedi DEL LUNGO, in RR. II.SS2, IX, p. 217; I. DA SAN LUIGI, Delizie degli eruditi toscani (agli indici); I. LAMI, Sanctae Ecclesiae Florentinae Monumenta, Firenze 1758, III, pp. 1675 sgg.; R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, IV, pp. 506 sgg., 702 sgg., 845 sgg.; R. WEISS, in “Rivista Storica Italiana», LX, 1948, pp. 355 sgg. Cfr. VIII 4,29 n. 6 Diego de la Rath o Dego della Ratta (come scrivono le cronache e i documenti fiorentini), di nobile famiglia barcellonese, era entrato al servizio di Re Roberto venendo a Napoli al seguito di Violante d’Aragona, prima moglie del Re. Ebbe numerosi onori e alti incarichi alla corte angioina (conte di Caserta, gran Camerlengo del Regno, Vicario Generale in Provenza ecc.): aveva sposato Odalina Chiaromonte, sorella di quel Giovanni conte di Modi- Letteratura italiana Einaudi 851 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 7 8 del corpo bellissimo e vie più che grande vagheggiatore7, avvenne che fra l’altre donne fiorentine una ne gli piacque, la quale era assai bella donna ed era nepote d’un fratello del detto vescovo. E avendo sentito che il marito di lei, quantunque di buona famiglia fosse, era avarissimo e cattivo8, con lui compose9 di dovergli dare cinquecento fiorin d’oro, ed10 egli una notte con la moglie il lasciasse giacere; per che, fatti dorare popolini d’ariento11, che allora si spendevano, giaciuto con la moglie, come che contro al piacer di lei fosse, gliele diede. Il che poi sappiendosi per tutto, rimasero al cattivo uomo il danno e le beffe; e il vescovo, come savio, s’infinse di queste cose niente sentire. Per che, usando molto insieme il vescovo e ’l maliscalco, avvenne che il dì di San Giovanni, cavalcando l’uno allato all’altro, veggendo le donne per la via onde il palio si corre12, il vescovo vide una giovane, la quale ca che è presentato nell’Amorosa Visione, XLIII 22 sgg. (e cfr. commento). Fu capitano d’armi e Vicario del Re Roberto in Firenze nel 1305, 1310, 1317-18: l’episodio, poiché Antonio d’Orso è presentato come vescovo di Firenze, sarebbe dunque avvenuto nel 1310 o più verosimilmente nel 1317-18. Morì nel 1328. Per queste e altre notizie: G. Villani, VIII 82; CAMPANILE, Insegne cit., p. 69; Bartolomeo da Ferrara, Polistoria, in RR II.SS., XXIV, a. 1307; M. CAMERA, Annali cit., Il, pp. 189, 228, 320, 342 sgg.; C. MINIERI- RICCIO, in “Arch. Stor. Prov. Napoletane”, VII, 1183, p. 236; R. A. RICCIARDI, Storia e successione feudale e quadro dei feudatari di Caserta, in “Arch. Stor. Campano”, 1, 1889; I. DEL LUNGO, in RR. II.SS. 2, IX, p. 208, n. 25; F. SARTINI, Statuti dell’arte dei rigattieri e linaioli, Firenze 1940, pp. 83 e 178; R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, IV, pp. 409 sgg., 627 sgg., 682 sgg. 7 eccezionale donnaiolo, vagheggino. 8 vizioso: cfr. I 8,7 n.; V 10,51 n. e 62 n. 9 s’accordò, fissò: III 8,36 n. 10 Uso quasi condizionale: se, a patto che: VIII 9,43 n. 11 Moneta del valore di due soldi, di conio molto simile al fiorino: si cominciò a battere nel 1305. 12 Si correva da fuori Porta al Prato a Porta alla Croce, passando per Borgo degli Albizi e Porta San Pier Maggiore, dove ap- Letteratura italiana Einaudi 852 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 9 10 11 questa pestilenzia presente ci ha tolta donna13, il cui nome fu monna Nonna de’Pulci, cugina di messere Alesso Rinucci14, e cui voi tutte doveste conoscere; la quale, essendo allora una fresca e bella giovane e parlante e di gran cuore15, di poco tempo avanti in Porta San Piero a marito venutane, la mostrò al maliscalco; e poi essendole presso, posta la mano sopra la spalla del maliscalco, disse: «Nonna, che ti par di costui? Crederrestil vincere?» Alla Nonna parve che quelle parole alquanto mordessero la sua onestà, o la dovesser contaminar16 negli animi di coloro, che molti v’erano, che l’udirono. Per che, non intendendo17 a purgar questa contaminazione, ma a render colpo per colpo, prestamente rispose: «Messere, è forse non vincerebbe me, ma vorrei buona moneta18». La qual parola udita il maliscalco e ‘l vescovo, sentendosi parimente trafitti, l’uno siccome facitore della disonesta cosa nella nepote del fratel del vescovo, e punto abitava Nonna de’ Pulci (9: N o n n a era accorciatura di Madonna). 13 una che allora era giovane e che la pestilenza ha portato via già divenuta anziana (Barbi): tra il fatto e il racconto sono trascorsi almeno trent’anni. 14 Una «Domina Lapa vocata Domina Nonna filia quondam Uberti de Pulcis uxor quondam Passe Passavantis et postea uxor Domini Manni de Donatis» figura in un atto notarile del 1340 (cod. Magliabechiano XXXVII 299, c. 33). Passa Passavanti fu socio dei Pazzi fin dal 1307 (cod. Magliabechiano XXV 591, c. 404). Ai Pulci e ai Rinucci (che figurano in quegli stessi atti notarili) Antonio d’Orso era effettivamente legato di parentela. 15 ben parlante, di lingua pronta e di grande animo: per p a r I a n t e cfr. VI 9,8 e anche VI I,5 n.; Filostrato, II 22 e VI 33. 16 La dovessero macchiare, far ritenere meno onesta. 17 mirando: VI 3,10 n. 18 moneta autentica, non falsata. Con la risposta sdegnosa, e con tutta la novella, il B. volle probabilmente pungere l’«avara povertà di Catalogna» (Par., VIII 77) e indirettamente la proverbiale grettezza di Re Roberto, già colpita in altri suoi scritti (per es. Amorosa Visione, XIV 22 sgg. e comm.; Epistole, XII). Letteratura italiana Einaudi 853 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI l’altro sì come ricevitore nella nepote del proprio fratello, senza guardar l’un l’altro, vergognosi e taciti se n’an12 darono, senza più quel giorno dirle alcuna cosa. Così adunque, essendo la giovane stata morsa, non le si disdisse il mordere altrui motteggiando. – Letteratura italiana Einaudi 854 NOVELLA QUARTA 1 Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute1 l’ira di Currado volge in riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado2. 2 Tacevasi già la Lauretta, e da tutti era stata sommamente commendata la Nonna, quando la reina a Neifile impose che seguitasse; la qual disse: – Quantunque il pronto ingegno, amorose donne, spesso parole presti e utili e belle, secondo gli accidenti, à dicitori3, la fortuna ancora, alcuna volta aiutatrice de’paurosi, sopra la lor lingua subitamente 4 di quelle pone, che mai ad animo riposato per lo dicitor si sarebber sapute trovare; il che io per la mia novella intendo 4 di dimostrarvi. Currado Gianfigliazzi5, sì come ciascuna di voi e 3 1 detta per salvarsi: e cfr. VI 3,1. Nessun preciso antecedente per questa novella: perché un episodio tratto dal Kandjur (secolo XIII) ha scarsi punti di contatto (S. PRATO, La leggenda del tesoro di Rampsinite, Corno 1882, p. 22), e un simile racconto turco è posteriore (Plaisanteries’de Nasr-Eddin Hodja traduites du turc par J. A. Decourdemanche, Paris 1876, n. 75). Si potrebbe allora più verisimilmente citare l’espediente suggerito, per la coscia di cervo sparita, al cuoco dalla moglie nelle Metamorfosi apuleiane (VIII 31). Alla cronaca municipale fiorentina lo ricondurrebbe - oltre i riferimenti storici che vedremo e il ricordo del Piccolomini nella Chrisis (369 sgg.) - la citazione del Casa nel suo Galateo (VIII); ma non si può escludere nella prima parte (il furto e la scusa per celarlo) anche la presenza di materia tradizionale e ripresa continuamente nella novellistica (cfr. per es. D’ANCONA, Studi di critica e storia letteraria cit., II, pp. 132 sgg.; Bolte-Polivka, II, pp. 149 sgg.; Aarne, 785; Thompson e Rotunda, K 402. 1). 3 a chi parla, a chi si trova a dover dire, come più sotto. 4 Tutte parole che sottolineano l’intervento della Fortuna, così presente in questa giornata (cfr. VI 2,3 sgg. nn.). 5 Currado di Vanni di Cafaggio Gianfigliazzi, vissuto tra la 2 Letteratura italiana Einaudi 855 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 5 udito e veduto puote avere, sempre della nostra città è stato nobile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani e in uccelli6 s’è dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare7. Il quale con un suo falcone avendo un dì presso a Peretola8 una gru ammazata, trovandola9 grassa e giovane, quella mandò ad un suo buon cuoco, il quale era fine del secolo XIII e la prima metà del XIV, fu, proprio come dice il B., splendido signore, secondo rivelano anche i libri di commercio dei Peruzzi. Appartenne alla celebre famiglia di banchieri bollata da Dante (Inf., XVII 58 sgg.) e citata quale guelfa e nera dal Villani (V 29, VI 33 e 79, VIII 29): come del resto vi appartennero Geri ricordato dal Petrarca per «l’amore per le lettere» e Curradino, fatto dal Sacchetti (CCX) protagonista di una novella di miseria e di spilorceria, quasi a contrasto con questo Currado del «buon tempo antico». Con vari Gianfigliazzi, della generazione successiva a quella di Currado, il B. ebbe del resto viva familiarità: Alianora, figlia di Niccolò e sposa a Pacino Peruzzi, compare nella Comedia sotto le vesti di Adiona, e nell’Amorosa Visione tra le più famose bellezze (XLIV 7 sgg.); e il giurista Luigi è ricordato affettuosamente nel carme a Zanobi da Strada («semper clarissimus ille | Affuit orator michi legum doctor amicus | Loisius ...»: V 62 sgg.). Per notizie su Currado cfr. non le pagine fantasiose del Manni (ripetute da tutti i commentatori) ma: A. SAPORI, I libri della ragione bancaria dei Gianfigliazzi, Milano 1945 (agli indici), e Studi cit., pp. 534 sgg., 555 sgg., 576. 6 Cfr V 9,8 n. per contrasto. 7 per non parlare ora dei suoi atti di maggior importanza: alludendo evidentemente alla parte che ebbe nella potente Compagnia e nella vita pubblica della sua città. 8 Proprio in questa parte del contado di Firenze avevano vari possedimenti i Gianfigliazzi e particolarmente Corrado (SAPORI, opp. citt.); e proprio verso Prato era anche il “Pantano”, il podere della CCX del Sacchetti. 9 Cfr. V 9,25 n. Le gru figurano nei ricettari medievali di cucina: nidifìcavano con una certa frequenza nelle zone paludose d’Italia (Bestiario toscano, in “Studi romanzi”, VIII, 1912, pp. 42 sgg.; e anche Inf., V 46 sg.; e Esposizioni, V litt. 49); e nella Caccia (VIII) già il B. ne aveva descritto la caccia. Per i vari modi di cattura delle gru, per le abitudini e la frequenza nell’Italia trecentesca di questi grandi uccelli viaggiatori, vedi L. MESSEDAGLIA, Chichibío cuoco e le gru, in “Rivista italiana di ornitologia”, 1953 e anche Chiose al D., in “Atti Ist. Veneto”, CXII, 1953-54. Letteratura italiana Einaudi 856 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 6 8 chiamato Chichibio10, ed era viniziano, e sì gli mandò dicendo che a cena l’arrostisse e governassela11 bene. Chichibio, il quale come nuovo bergolo12 era così pareva, acconcia13 la gru, la mise a fuoco e con sollicitudine 7 a cuocerla cominciò. La quale essendo già presso che cotta grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la qual Brunetta14 era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina; e sentendo l’odor della gru e veggendola, pregò caramente15 Chichibio che ne le desse una coscia. Chichibio le rispose cantando16 e disse: «“Voi non 10 Nome derivato, secondo il Lovarini (Chichibio e cicisbeo, in “Atti R. Ist. Veneto”, XCVIII, 1939, p. II, pp. 449 sgg. e Per due nomi della “Fringilla coelebs”, in “Convivium”, XIV, 1942, pp. 225 sgg.) dal verso e dal nome del fringuello, cicibío, voce onomatopeica diffusa nel Veneto. Se la derivazione e la pronunzia con la palatale sono da respingere (anche per le indicazioni dell’autografo) l’accentazione sembra garantita da vari esempi che mostrano il nome diffuso nei secoli seguenti anche in funzione allusiva, come «buono a nulla, minchione» o «cervello di fringuello» (cfr. specie C. VIDOSSICH, Rassegna bibliografica, in “Giorn. Stor. Lett. It.”, CXV, 1940; A PRATI, Chichibío, in “Lingua Nostra”, XVIII, 1957). 11 l’acconciasse, la preparasse: Sacchetti, CCIV: «e’ due contadini ... governorno il porco». 12 vano, leggerone, chiacchierone, fatuo. È con tutta probabilità un “blasone” per i veneziani, per i quali è sempre e soltanto usato dal B.: cfr. IV 2,12 n. e gli articoli ivi citati, confermati anche da un esempio non ricordato di Bernardo Tasso, Lettere, Padova 1731, II, p. 283: «io non sono, er dirlo con un termine veneziano, si bergolo nelle mie amicizie ...». N u o v o vale strano, curioso, e quindi anche ridicolo. I 7,1 n.; II 1,6 n. 13 Una delle solite forme tronche o abbreviate di participi passati o aggettivi verbali: cfr. II 8,36; VII 7, II; VIII 9,82. 14 E il nome della servente premurosa e affezionata del B., ricordata in una epistola del 1372 (XX), nel testamento con un lascito e cui forse già allude il Buccolicum carmen (XIV 51). Cfr. V. BRANCA, Tenerezza affettiva cit. 15 con amorosa insistenza: V 2,22 n. 16 «Parlando nel suo dialetto, che per l’abbondanza delle pa- Letteratura italiana Einaudi 857 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI l’avrì da mi, donna Brunetta, voi non l’avrì17 da mi”». Di che donna Brunetta essendo un poco turbata18, gli disse: «In fè di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia»; e in brieve le parole19 furon molte. Alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna20, spiccata l’una delle cosce alla gru, gliele diede. 10 Essendo poi davanti a Currado e a alcun suo forestiere21 messa la gru senza coscia, e22 Currado maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che fosse divenuta l’altra coscia23 della gru. Al quale il vinizian bugiardo24 subitamente rispose: «Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba». 9 role tronche e per la varietà delle intonazioni può parere, ai non Veneziani, un canto» (Massera). Qui il B. si riferisce probabilmente anche a quelle tronche rimate e a quelle riprese di parole che danno all’intervento di Chichibio un tono proverbioso, da cantilena, da celia familiare. 17 avrete: è antica forma veronese, non veneziana (G. VIDOSSICH, L’elemento veneziano e friulano ecc., in “Boll. Soc. Filol. Friulana”, XI, 1935; e non veneziani i raddoppiamenti d o n n a e B r u n e t t a ). E per l’uso del “lenguazo” veneziano nel D. cfr. IV 2,43 nn. e V. BRANCA, Consacrazioni cit. a IV 2,58. 18 adirata, stizzita: II 9, I 2 n. 19 e per farla breve (V 1,53 n.) le questioni, le liti (come più sotto, 13 e 14: e cfr. V 10, 8 n.). 20 «Scherzosamente, come dire la dama da lui cantata» (Zingarelli). E nota, nello stesso tono caricaturalmente cortese, il voi e il donna dato da Chichibio a questa «feminetta della contrada» (7 e V 2,15 n.); come alla fine della giornata (concl., 4) Dioneo dirà ostentatamente «donna Licisca» parlando della saccente e prepotente fante di Filomena. 21 ospite (senza allusione a provenienza da altra città): X 4,23 n. 22 In ripresa, come al solito, dopo gerundiale temporale. 23 che cosa fosse avvenuto dell’altra coscia: IV 2,35 n. 24 «Il B. antiveneziano ... calca troppo acerbamente ... sulla bugia ... accennando senza necessità a un blasone dei veneziani” (Chiurlo); come fa del resto, a proposito di un altro veneziano, lo storico Paolino, in un suo Zibaldone (cfr. V. BRANCA, B. e i veneziani bergoli, in “Lingua Nostra”, III, 1941). Letteratura italiana Einaudi 858 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI Currado allora turbato disse: «Come diavol25 non hanno che una coscia e una gamba? Non vid’io mai più gru che questa26?» 12 Chichibio seguitò: «Egli è, messer, com’io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder né vivi27». Currado, per amor dei forestieri che seco aveva, non 13 volle dietro alle parole andare28, ma disse: «Poi che tu di’ di farmelo vedere ne’ vivi, cosa che io mai più non vidi né udii dir che fosse, e29 io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo, che, se altramenti sarà, che30 io ti farò conciare in maniera che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci31 viverai, del nome mio». Finite adunque per quella sera le parole, la mattina 14 seguente come il giorno apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l’ira cessata, tutto ancor gonfiato32 si levò e comandò che i cavalli gli fosser menati; e fatto montar Chichibio sopra un ronzino, verso una fiumana33, alla riva della quale sempre soleva in sul far del dì vedersi delle gru34, nel menò dicendo: «Tosto vedremo chi avrà iersera mentito, o tu o io». 11 25 «Modo usato di parlare e dello autore» (M.). non ho mai visto altre gru che questa? Si riferisce o a un plurale maschile i gru, dell’uso (Inf. V 46); o meglio poiché il B. usa sempre il femminile - alla specie, agli uccelli agli animali in generale. 28 continuare le questioni, la discussione. 29 Paraipotattico ebbene (II 8,61 n.); lo Zingarelli anche (I 1,44 n.). 30 La solita ripetizione di che dopo parentetica. 31 Qui, in questo mondo: IV 2,19 n. 32 Per l’ira non sfogata ancora. Aen., VI 407: «tumida ex ira ... corda»; Inf., VII 7: «quella ’nfiata labbia». 33 Equivale al semplice fiume, ma anche a allagagione di molte acque, come spiega il Da Buti commentando Inf., II 108. 34 si soleva all’alba veder delle gru; con uso di solere non come verbo modale, ma indipendente impersonale (Mussafia, p. 450). 26 27 Letteratura italiana Einaudi 859 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI Chichibio, veggendo che ancora durava l’ira di Currado e che far gli convenia pruova della sua bugia35, non sappiendo come poterlasi fare, cavalcava appresso a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito; ma non potendo, ora innanzi e ora addietro e da lato si riguardava, e ciò che vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piedi. 16 Ma già vicini al fiume pervenuti, gli venner36 prima che ad alcun vedute sopra la riva di quello ben dodici37 gru, le quali tutte in un piè dimoravano38, si come quando dormono soglion fare. Per che egli prestamente mostratele a Currado, disse: «Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno». Currado vedendole disse: «Aspettati39, che io ti mo17 sterrò che elle n’hanno due»; e fattosi alquanto più a quelle vicino gridò: «Ho ho» ; per lo qual grido le gru, mandato l’altro piè giù, tutte dopo alquanti passi40 cominciarono a fuggire. Laonde Currado rivolto a Chichi15 35 Cioè doveva provare quanto affermato con la sua bugia. Per quest’uso di venire come ausiliare, ad esprimere subitaneità fortuita, cfr. II 5,70 n. 37 Uno dei soliti numeri indeterminati: III intr., 3 n.; III 3,25 n. E nota i tre endecasillabi di seguito che salutano l’apparizione desiderata. 38 stavano ritte su un piè: Purg., XIII 71-72: «sparvier selvaggio | ... che queto non dimora». Questo uso delle gru è ripetuto, con frange fantasiose, dai bestiari del tempo (per es. Bestiario toscano cit., p. 43; B. Latini, Tesoro volg., V 27). 39 Aspetta, Attendi: VIII 3,34; VIII 7,37; IX 4,13; esempi tutti che mostrano corrente questa forma media contro l’interpretazione pur suggestiva dello Zingarelli («un ti riflessivo che è una minaccia»). È una forma di attivo: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 138. 40 Perché, anche secondo i bestiari, prima di volare avevano bisogno di sgranchirsi e prender lo slancio con qualche passo. 36 Letteratura italiana Einaudi 860 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI bio disse: «Che ti par, ghiottone41? Parti che elle n’abbian due?» Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stes18 so donde si venisse42, rispose: «Messer sì, ma voi non gridaste ‘ ho ho ’ a quella di iersera; ché se così gridato aveste, ella avrebbe così l’altra coscia e l’altro piè fuor mandata43, come hanno fatto queste». A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta 19 la sua ira si convertì44 in festa e riso, e disse: «Chichibio, tu hai ragione, ben lo dovea fare». Così adunque con la sua pronta e sollazzevol45 ri20 sposta Chichibio cessò46 la mala ventura e paceficossi col suo signore. 41 canaglia, furfante: IV 2,56 n. non sapendo egli stesso da che parte [del cervello, della mente] gli venisse [quella risposta, quella idea]. 43 Attrazione naturale, poiché il pensiero della coscia era quello che più occupava la mente di Chichibio (Dal Rio): V 6,27 n. 44 si mutò: Inf., XIII 92. 45 della quale gli uditori si divertono: con senso attivo, modificazione o estensione di un originario senso strumentale (cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 265). 46 sfuggi, schivò: I 3,1 n. 42 Letteratura italiana Einaudi 861 NOVELLA QUINTA 1 Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l’uno la sparuta apparenza dell’altro motteggiando morde1. 2 Come Neifile tacque, avendo molto le donne preso di piacere della risposta di Chichibio, così Panfilo per voler della reina disse: – Carissime donne, egli avviene spesso che, sì come la Fortuna sotto vili arti2 alcuna volta grandissimi tesori di virtù nasconde, come poco avanti per Pampinea fu mostrato, così ancora sotto turpissime forme d’uomini3 si truovano maravigliosi ingegni dalla Natura essere stati riposti. La qual cosa assai apparve in due nostri cittadini, de’quali io intendo brievemente di ragionarvi. Per ciò che l’uno, il quale messer Forese da Rabatta4 fu 3 4 1 Nessun antecedente diretto neppure di questa novella, che da Benvenuto da lmola (comm. a Purg,, XI 95) al Casa, (XIX) al Vasari al Baldinucci all’Ammiraro (op. cit., p. 112) ecc., è riferita o citata come storica. Non bisogna però dimenticare che una lunga tradizione attribuiva ad artisti, non prestanti fisicamente, motti e facezie sul loro aspetto: basti ricordare per es. quanto un autore veneratissimo dal B. narra del pittore L. Mallio (Saturnalia, II II,10), o quanto scrive il Petrarca a questo proposito, riferendosi anche a Giotto nelle Familiares (V 17). E cfr. V. BRANCA, B. visualizzato, I pp. 4 sgg., 143 sgg. 2 in uomini che esercitano mestieri umili: come Cisti, subito dopo ricordato indirettamente nella citazione del preludio di Pampinea alla VI 2. 3 Cioè in uomini bruttissimi. 4 Celebre giureconsulto vissuto nella prima metà del secolo XIV, professore a Pisa nel 1338-39 (cod. Magliabechiano XXV 591, c. 8), varie volte priore tra il 1320 e il 1335, Gonfaloniere nel 1339-40, nel 1343 ambasciatore fiorentino a San Miniato per trattative con Pisa (D. NIARZI, Cancelleria della Repubblica Fiorentina, San Casciano 1910, p. 639). Sembra apparire ancora in atti fra il 1354 e il 1359 (codd. Marucelliano A 161; Magliabechiano XXVI I32, c. 144; XXV 591, 1. 38i), benché si fissi di solito la sua Letteratura italiana Einaudi 862 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 5 chiamato, essendo di persona piccolo e sformato, con viso piatto e ricagnato5, che a qualunque de’ Baronci più trasformato6 l’ebbe sarebbe stato sozzo, fu di tanto sentimento7 nelle leggi, che da molti valenti uomini uno armario di ragione civile8 fu reputato; e l’altro, il cui nome fu Giotto9, ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, morte al 1348. La famiglia, originaria del Mugello (Rabatta è presso Borgo San Lorenzo), ebbe case in Via de’ Calderai e cappella nella Chiesa dell’Annunziata (RICHA, Notizie istoricbe cit., VIII, pp. 34 sgg.). Per notizie su Forese e la famiglia: codd. Riccardiani 2023, cc. 480 sgg.: 2024, cc. 435 sgg.; codd. Passerini della Bibl., Nazionale di Firenze 8 e 191; Magliabechiano IX 66, cc. 265 sgg.; M. POCCIANTI, Catalogus Scriptorum fiorentinorum, Firenze 1589, p. 73; G. NEGRI, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, p. 179; E. GAMURRINI, Istoria genealogica delle famiglie nobili toscane, Firenze 1685, III, pp. 416 sgg., e v, pp. 347 sgg.; Delizie degli eruditi toscani, X, p. 340; STEFANI, Cronaca cit., passim, agli indici. 5 schiacciato, rincagnato. 6 Deforme, contraffatto: cioè con un viso che sarebbe apparso turpe anche rispetto a chi della famiglia dei Baronci l’ebbe più deforme. Per la proverbiale bruttezza dei Baronci vedi VI, 6. 7 Sapienza, perizia, discernimento: cfr. VI 9,3 n.; I 3, 8 n.: «nelle cose di Dio senti molto avanti»; SACCHETTI, Rime, LXXXIII 5: «... un dottor... di legge ha tanto sentimento ...» 8 un’arca, una libreria di diritto civile: il Rua ricorda il proverbio toscano: “dotto come uno scaffale” e il Petronio l’espressione: “è una biblioteca ambulante”; e cfr. Ninfale, 472. 9 L’esaltazione di Giotto - comune ai nostri maggiori trecentisti (Purg., XI 94 sgg.; Petrarca., Familiares cit., Itinerarium, testamento; Sacchetti, LXIII, LXXV, CXXXVI) - è assidua nell’opera del B.: dall’Amorosa Visione (IV 16 sgg.) allo Zibaldone Magliabechiano (c. 232) e alla Genealogia (XIV 6). All’ammirazione per l’artista si sposa quella per l’uomo: e circa quell’atteggiarnento fatto insieme di entusiasmo per l’altrui grandezza ed umile considerazione delle proprie capacità - in cui il B. ricorda sempre Giotto, come Dante: gli unici due contemporanei che nel Trionfo della Fama (Amorosa Visione, IV-VI) aveva evocato accanto ai saggi e ai classici antichi. E Giotto e Forese, accanto a Dante e Petrarca e Giovanni Pisano (il primo scultore mai ricordato fra i viri illustres) il B. cita nel suo Zibaldone Magliabechiano (c. 232v). Il B. aveva visto e forse conosciuto personalmente Giotto già a Napoli, quando l’artista vi dimorò e dipinse dal 1329 al 1333. Letteratura italiana Einaudi 863 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI che niuna cosa dà la Natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de’cieli10, che egli con lo stile11 e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto12. 6 E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni, che più a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo ‘ntelletto de’savi dipignendo13 intendeano, era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote; e tanto più, quanto con maggiore umiltà, maestro degli altri in ciò vivendo, quella14 acquistò, sempre 10 «La Natura generatrice e alimentatrice di tutte le cose per mezzo dei movimenti dei cieli, secondo la dottrina aristotelica e scolastica» (Sapegno). Identico il senso se si volesse leggere: «ch’è niuna cosa dalla natura ...» 11 Stilo: cioè quella verghetta di piombo usata per disegnare prima che si adoperasse il lapis: Purg., XII 64; Petrarca, LXXVIII 5. 12 Il pensiero era già, in forma più contorta, nei versi dell’Amorosa Visione: «Humana man non credo che sospinta | mai fosse a tanto ingegno quanto in ella | Mostrava ogni figura lì distinta, | Eccetto se da Giotto, al qual la bella | Natura parte di sé somigliante | Non occultò nell’atto in che suggella» IV 13 sgg.; e prelude all’alta affermazione del Poliziano nell’epigramma in Santa Maria del Fiore, e a quella più teorizzante del Vasari («Quell’obligo stesso che hanno gl’artefici pittori alla natura ... avere per mi, credere si deve a Giotto ...»). L’accenno finale risponde a una lunga tradizione aneddotica già viva per i pittori greci. Su questa digressione di estetica visuale, «perfetta collimazione tra i concetti che sull’arte s’andavano diffondendo e l’innovatore della pittura», Cfr. A. PRANDI, Il B. e la critica d’arte, in “Colloqui del Sodalizio”, II , 1956, B. visualizzato cit. 13 «Non t’intendo» (M.), forse per il gerundio causale ad sensum, usato invece dell’indicativo imperfetto (III 7,87 n.). L’allusione è evidentemente diretta contro la pittura bizantineggiante. 14 Da riferirsi a gloria. Anche per questo periodo si pensa alle parole del Poliziano: «Ille ego sum per quem pictura extincta re- Letteratura italiana Einaudi 864 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI rifiutando d’esser chiamato maestro. Il quale titolo rifiutato da lui tanto più in lui risplendeva, quanto con maggior disidero da quegli che men sapevano di lui o dà suoi discepoli era cupidamente usurpato. Ma, quan8 tunque la sua arte fosse grandissima, non era egli per ciò né di persona né d’aspetto in niuna cosa più bello che fosse messer Forese. Ma, alla novella venendo, dico che avevano in Mu9 gello15 messer Forese e Giotto lor possessioni; ed essendo messer Forese le sue andate a vedere, in quegli tempi di state che le ferie si celebran per le corti16, e per avventura in su un cattivo ronzino da vettura17 venendosene, trovò il già detto Giotto, il qual similmente avendo le sue vedute 18, se ne tornava a Firenze. Il quale, né in cavallo né in arnese19 essendo in cosa alcuna meglio di lui, sì come vecchi, a pian passo venendo10 sene, insieme s’accompagnarono. Avvenne, come spesso di state veggiamo avvenire, che una subita piova20 gli soprapprese21; la quale essi, come più tosto poterono, fuggirono in casa d’un lavoratore22 amico e conoscente 11 di ciascuno di loro. Ma dopo alquanto, non faccendo l’acqua alcuna vista di dover ristare23, e costoro volendo 7 vixit | Cui quam rectamanus tam fuit et facilis. | Naturae deerat nostrae quod defuit arti: | Plus licuit nulli pingere nec melius». 15 Forese e Giotto erano originari di questa regione, a nordest di Firenze, che comprende la Val di Sieve. 16 Si prendono le vacanze nei tribunali: II 10,9 e 16 nn. 17 da nolo: IX 5,8: «prestava a vettura»; IX 6,8: «due ronzini a vettura». 18 Attrazione naturalissima, come quattro righe sopra andate. 19 vesti, equipaggiamento: I 7,18 n. 20 Usate indifferentemente le due forme piova e pioggia. 21 sorprese: II 2, 16 n.: e cfr. V 7,11. 22 contadino: V 7,12 n. 23 non dando la pioggia alcun segno, indizio di dover cessare: per simile senso e costruzione di f a r v i s t a (e non col valore di fingere, simulare) cfr. III intr., 6: «... pergolati di viti, le quali facevano gran vista di dovere ...assai uve fare»; VII 8,31 n. Letteratura italiana Einaudi 865 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 12 13 14 15 essere il dì24 a Firenze, presi dal lavoratore in prestanza due mantellacci vecchi di romagnuolo25 e due cappelli tutti rosi dalla vecchiezza, per ciò che migliori non v’erano, cominciarono a camminare. Ora, essendo essi alquanto andati, e tutti molli veggendosi, e per gli schizzi che i ronzini fanno co’piedi in quantità zaccherosi (le quali cose non sogliono altrui accrescer punto d’orrevolezza26), rischiarandosi alquanto il tempo, essi, che lungamente erano venuti taciti, cominciarono a ragionare. E messer Forese, cavalcando e ascoltando Giotto, il quale bellissimo favellatore era27, cominciò a considerarlo e da lato e da capo e per tutto, e veggendo ogni cosa così disorrevole e così disparuto28, senza avere a sé niuna considerazione29, cominciò a ridere, e disse: «Giotto, a che ora30 venendo di qua allo ’ncontro di noi un forestiere che mai veduto non t’avesse, credi tu che egli credesse che tu fossi il miglior dipintor del mondo, come tu se’?» A cui Giotto prestamente rispose: «Messere, credo, 24 di giorno, prima di notte: cfr. II 7,74 n. Panno grossolano, tessuto con la lana greggia, chiamato così dalla Romagna o da Roma (Merkel, p. 105): VII 8,46: «vestiti di romagnuolo»; X 10,52 n. 26 dignità, decoro: II 3,10 n.: il contrario del disorrevole seguente. 27 Vedi simile presentazione di Giotto nel Sacchetti (LXIII) e nel Vasari. 28 sparuta. La solita concordanza fra aggettivo maschile e ogni cosa considerata un neutro (II 3,25 n.). 29 senza guardare a se stesso, senza riflettere sulla sua condizione, sul suo aspetto. 30 quando, quando mai: «In questa domanda di Forese a Giotto, così stentata e artificiosa, si sente ... un certo tono di scherzo, che continua anche nella risposta di Giotto: e a ciò contribuisce pure il giuocare sulla parola credere che rammenta quel di Dante (Inf., XIII 25) ‘Cred’io ch’ei credette ch’io credesse’» (Fornaciari): gioco già imitato altrove (I 1,51 n.; III 6,20 n.; III 8,12 n.). 25 Letteratura italiana Einaudi 866 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 16 che egli il crederebbe allora31 che, guardando voi, egli crederebbe che voi sapeste l’abicì32». Il che messer Forese udendo, il suo error riconobbe, e videsi di tal moneta pagato, quali erano state le derrate vendute33. – 31 È in correlazione con l’a c h e o r a di Forese. «Sono molti idioti che non saprebbero l’a.b.c. ...» (Convivio, IV XV 16). Nota il voi di rispetto, da inferiore, col quale Giotto risponde al tu familiare di Forese: il pittore parla ancora come un artigiano di fronte al messere, al dotto in leggi (e cfr. in generale anche per questo dialogo S. ZINI, Il tu e il voi nel D., in “Lingua Nostra”, III, 1941. 33 si vide pagato con a moneta che meritavano le merci (derrate) vendute, cioè si vide ripagato come meritava: IV 10,3 n . 32 Letteratura italiana Einaudi 867 NOVELLA SESTA 1 Pruova Michele Scalza a certi giovani come i Baronci sono i più gentili uomini del mondo o di aremma1, e vince una cena2. 2 Ridevano ancora le donne della bella e presta3 risposta di Giotto, quando la reina impose il seguitare alla Fiammetta, la qual così ’ncominciò a parlare: – Giovani donne, l’essere stati ricordati i Baronci 4 da Panfilo, li quali per avventura voi non conoscete come fa5 egli, m’ha nella memoria tornata una novella, nella quale quanta sia la lor nobiltà si dimostra, senza dal nostro proposito deviare; e per ciò mi piace di rac- 4 contarla. Egli non è ancora guari di tempo passato che nella nostra città era un giovane chiamato Michele Scalza6, il quale era il più piacevole e il più sollazzevole uom del mondo, e le più nuove novelle aveva per le mani7; per la 3 1 Aggiunta burlesca, di tipico carattere boccacciano (IV 2,41 n.), che avverte subito della giocosità municipale della arguzia. 2 Nessun antecedente della novella che, e per l’ambiente e per i riferimenti cittadini, appare tipicamente fiorentina. 3 pronta: VI 3,1 n. 4 Cfr. VI 5,4. Famiglia fiorentina della borghesia, abitante presso Santa Maria Maggiore: al tempo del B. doveva essere assai noto Tommaso Baronci, priore nel 1346, 1354, 1361 (due volte) e morto poco dopo, di cui il Sacchetti novellò giocosamente (LXXXIII). Per le loro proverbiali goffaggine e bruttezza vedi, oltre il Sacchetti, anche VI 10,21. E cfr. Delizie degli eruditi toscani, XIII, p. 9; STEFANI, op. cit., pp. 228, 246, 259. Per questi consueti legami onomastici fra novella e novella cfr. VI 2,7 n. 5 conosce: Intr., I 4 n. 6 Non si sono trovate notizie su questo arguto motteggiatore: poiché quelle accennate nel cod. Riccardiano 3107, e. 491 appaiono derivate dal testo del B. 7 aveva pronte da raccontare le più strane invenzioni, le più bizzarre storie: I 7,1 n. Letteratura italiana Einaudi 868 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 5 6 7 qual cosa i giovani fiorentini avevan molto caro, quando in brigata si trovavano, di poter aver lui. Ora avvenne un giorno che, essendo egli con alquanti a Montughi8, si ‘ncominciò tra loro una quistion così fatta: quali fossero li più gentili9 uomini di Firenze e i più antichi; de’quali alcuni dicevano gli Uberti, e altri i Lamberti10, e chi uno e chi un altro, secondo che nell’animo gli capea11. Li quali udendo lo Scalza cominciò a ghignare, e disse: « Andate via, andate, goccioloni12 che voi siete, voi non sapete ciò che voi vi dite; i più gentili uomini e i più antichi13, non che di Firenze, ma di tutto il mondo o di maremma, sono i Baronci; e a questo s’accordano tutti i fisofoli14 e ogn’uom che gli conosce, come fo io; e acciò che voi non intendeste d’altri, io dico de’Baronci vostri vicini da Santa Maria Maggiore15». Quando i giovani, che aspettavano che egli dovesse dire altro, udiron questo, tutti si fecero beffe di lui, e dissero: « Tu ci uccelli16, quasi come se noi non cognoscessimo i Baronci come facci tu». 8 Amena collina fuori della Porta San Gallo, sulla valle del torrente Terzolle, fin da quei secoli popolata di ville delle più cospicue famiglie fiorentine. Derivò il nome da Mons Ugonis, che alludeva probabilmente ai beni dei Marchesi di Toscana, da Ugo il Grande in poi (Par., XVI 127 sgg.). 9 nobili: cfr. II 1,12 n. 10 Due nobilissime e antichissime famiglie fiorentine (cfr. II 3,6 n.; X 6,5 4n.). 11 pensava, reputava: espressione cara al B.: I 1,44 n. 12 sciocconi: Corbaccio, 458: «te ora gocciolone e ora mellone e ora ser Mestola e talora cenato chiamando»; Sacchetti, LXXX. 13 Le parole di Michele si svolgono sui ritmi burleschi e trionfanti, ricchi di assonanze interne, di un settenario e di tre endecasillabi di seguito (e disse ... antichi). 14 sapienti. Per questa forma popolaresca cfr. II 9,18 n. 15 Varie famiglie del popolo di Santa Maria Maggiore appaiono fra i Possessori di ville a Montughi (per es. i Boni che avevano quella che sarà la villa della Macine o Pollaio): evidentemente gli interlocutori di Michele appartenevano ad esse. 16 ci beffi: III 3,33 n. Letteratura italiana Einaudi 869 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI Disse lo Scalza: «Alle guagnele17 non fo18, anzi mi dico il vero: e se egli ce n’è niuno che voglia metter su una cena19 a doverla dare a chi vince con sei compagni quali più gli piaceranno, io la metterò volentieri; e ancora vi farò più, che io ne starò alla sentenzia di chiunque voi vorrete». Tra’ quali disse uno, che si chiamava Neri Manni9 ni20: « Io sono acconcio21 a voler vincer questa cena »; e accordatisi insieme d’aver per giudice Piero di Fiorentino22, in casa cui23 erano, e andatisene a lui, e tutti gli altri appresso, per vedere perdere lo Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli raccontarono. 10 Piero, che discreto24 giovane era, udita primieramente la ragione25 di Neri, poi allo Scalza rivolto, disse: «E tu come potrai mostrare questo che tu affermi?» 11 Disse lo Scalza: « Che26? Il mosterrò per sì fatta ra8 17 Per il vangelo; giuramento scherzoso corrente : VIII 9,70; Sacchetti, XXXI, LXXVI, XCVIII, CVII, CLI ecc. Guagnele è alterazione popolaresca per evangelia (e poi eguangelie). 18 non vi uccello: col solito uso di f a re e omissione del pronome per cui VI 2,21 n.: identico uso vicario nella riga precedente (f a c c i: per la forma cfr. Inf., X 16; Rohlfs, 546). 19 scommettere una cena: II 9,54 n. e qui più sotto 16. 20 Nota famiglia fiorentina, dal cognome derivato dal santo Protettore di Firenze, san Giovanni, Neri è abbreviatura di Rinieri. 21 Io son pronto. 22 Il Manni (pp. 420 sgg.) volle identificarlo con Piero di Fiorenzino Dini ma senza sicura documentazione (anzi la cronologia tenderebbe a farlo adulto solo nella seconda metà del Trecento); e un Piero di Fiorentino, abitante in Borgo San Michele Bertelde (non lontano da Sant Maria Maggiore), figurerebbe nei Protocolli di Ser Bellondo Rossi da Colonnata, al 1316 (ma di tali Protocolli non v’è traccia nell’Archivio fiorentino). Alcuni Fiorentini furono agenti dei Bardi in Francia (SAPORI, Studi cit., p. 479). 23 di cui, con la solita soppressione della preposizione. 24 pieno di discernimento, di saviezza: Proemio, 3 n.; V 3,3 n. 25 argomentazione: cfr. Inf., XI 33: “udirai con aperta ragione”. 26 Come? Che dici? Letteratura italiana Einaudi 870 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 12 13 14 15 16 gione, che non che tu27, ma costui che il nega, dirà che io dica il vero. Voi sapete che, quanto gli uomini sono più antichi, più son gentili, e così si diceva pur testé tra costoro; e i Baronci son più antichi che niuno altro uomo, sì che son più gentili; e come essi sien più antichi mostrandovi28, senza dubbio io avrò vinta la quistione. Voi dovete sapere che i Baronci furon fatti da Domenedio al tempo che egli avea cominciato d’apparare29 a dipignere; ma gli altri uomini furon fatti poscia che Domenedio seppe dipignere. E che io dica di questo il vero, ponete mente a’ 30 Baronci e agli altri uomini: dove31 voi tutti gli altri vedrete co’ visi ben composti e debitamente proporzionati, potrete vedere i Baronci qual col viso molto lungo e stretto, e quale averlo oltre ad ogni convenevolezza largo, e tal v’è col naso molto lungo, e tale l’ha corto, e alcuno col mento in fuori e in su rivolto, e con mascelloni che paiono d’asino; ed evvi tale che ha l’uno occhio più grosso che l’altro, e ancora chi l’un più giù che l’altro, sì come sogliono esser i visi che fanno da prima i fanciulli che apparano a disegnare. Per che, come già dissi, assai bene appare che Domenedio gli fece quando apparava a dipignere; sì che essi sono più antichi che gli altri, e così32 più gentili». Della qual cosa, e Piero che era il giudice, e Neri che aveva messa la cena, e ciascun altro ricordandosi, e avendo il piacevole argomento dello Scalza udito, tutti cominciarono a ridere e affermare che lo Scalza aveva la ragione, e che egli aveva vinta la cena, e che per certo i Baronci erano i più gentili uomini e i più antichi33 che 28 e col dimostrarvi che, e se vi dimostrerò che. imparare: I 4,21 n. E per convincervi che io dico la verità attorno a questa questione, osservate bene i...: II 5,11 n. 31 con valore avversativo. 32 e per questo, e di conseguenza. 33 Altra serie di quattro endecasillabi (ma interrotta da vinta), quasi a riecheggiare i ritmi burleschi dell’affermazione iniziale di Michele (6), ripresa anche nelle ultime parole di questo periodo. 29 30 Letteratura italiana Einaudi 871 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI fossero, non che in Firenze, ma nel mondo o in maremma. 17 E perciò meritamente Panfilo, volendo la turpitudine del viso di messer Forese mostrare, disse che stato sarebbe sozzo ad un de’Baronci. Letteratura italiana Einaudi 872 NOVELLA SETTIMA 1 Madonna Filippa dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta sé libera e fa lo statuto1 modificare2. 2 Già si tacea la Fiammetta, e ciascun rideva ancora del nuovo argomento dallo Scalza usato a nobilitare sopra ogn’altro i Baronci, quando la reina ingiunse a Filostrato che novellasse; ed egli a dir cominciò: – Valorose donne, bella cosa è in ogni parte3 saper ben parlare, ma io la reputo bellissima quivi saperlo fare dove4 la necessità il richiede. Il che sì ben seppe fare una gentil donna, della quale intendo di ragionarvi, che non solamente festa e riso porse agli uditori, ma sé de’lacci di vituperosa morte disviluppò, come voi udirete. Nella terra5 di Prato fu già uno statuto, nel vero non men biasimevole che aspro, il quale, senza niuna distinzion fare, comandava che così fosse arsa quella donna che dal marito fosse con alcuno suo amante trovata in adulterio, come quella che per denari con qualunque altro uomo stata trovata fosse. E durante questo statuto6 avvenne che una gentil donna e bella e oltre ad 3 4 5 1 la legge. Nessun antecedente neppure per questa novella: a meno che si volesse credere in qualche modo anteriore «l’aspra legge di Scozia» narrata dall’Ariosto (Orlando Furioso, IV 59: e cfr. P. RAJNA, Le fonti dell’Orlando Furioso, Firenze 19002, pp. 154 sgg.), ben consona alla fantastica vicenda dal B. ambientata a Prato e dal Casa citata come storica (XIX). Ma per precedenti di alcune massime e situazioni giuridiche Cfr. K. PENNINGTON, A note to D. 6-7, in “Speculum”, LII, 1977. 3 in ogni luogo e quindi in ogni circostanza, in ogni occasione. 4 particolarmente saperlo fare quando o se. 5 città, paese: II 2,22 n. 6 mentre era in vigore questa legge: costruzione alla latina: IX 4,14 n. 2 Letteratura italiana Einaudi 873 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 6 7 8 ogn’altra innamorata, il cui nome fu madonna Filippa, fu trovata nella sua propria camera una notte da Rinaldo de’ Pugliesi7 suo marito nelle braccia di Lazzarino de’Guazzagliotri8, nobile giovane e bello di quella terra, il quale ella quanto sé medesima amava9, ed era da lui amata. La qual cosa Rinaldo vedendo, turbato forte, appena del correr loro addosso e di uccidergli si ritenne10; e se non fosse che di sé medesimo dubitava11, seguitando l’impeto della sua ira, l’avrebbe fatto. Rattemperatosi12 adunque da questo, non si potè temperar da voler quello dello statuto pratese, che a lui non era licito di fare13, cioè la morte della sua donna. E per ciò avendo al fallo della donna provare14 assai 7 La famiglia Pugliesi fu una delle più note nella Prato di quei secoli (ebbe vari gonfalonieri): ma non v’è traccia in essa né di un Rinaldo né di una Filippa. Per varie notizie e per l’albero genealogico cfr. D. M. MANNI, Sigilli antichi, Firenze 1749, II VI; [C. Guasti], Bibliografia pratese, Prato 1844, pp. 58, 118, 159, 292; R. NUTI, Inventario dell’Archivio antico [del comune di Prato], Prato 1939, pp. 22, 4,, 43; e anche G. Villani, XI 122 e XII 2. 8 Potentissima fu pure in Prato la famiglia Guazzagliotri (o Guazzalotri, Guazzalotti, Guizzaliotri), di cui ancora resta il grandioso Palazzo (cfr. G. Villani, XI 122 e XII 2; C. Guasti, pp. 90 e 153; R. Nuti, pp. 22, 110, 205; molte notizie nella Miscellanea 8 dell’Archivio Comunale di Prato). Il nome Lazzarino o Zarino appare assai usato nella famiglia: si ha notizia nella prima metà del Trecento di un Zarino di Jacopo, e di vari altri Zarini o Lazzarini più tardi (Delizie degli eruditi toscani, XVI pp. 208 e 212; cod. Magliabechiano XXVI 146, c. 242). Tradizionale e famosa era l’inimicizia fra Pugliesi e Guazzalotri: questi ebbero parte principale nella cacciata dei Pugliesi nel 1342 (G. Villani, loc. cit.; R. Noti, pp. 22 e 41 sgg.). 9 “Messer Giovanni mio, tu hai tagliato lo scilinguagnolo” (M.). Espressioni non peregrine nel D.: IV 6,22 n.; e cfr. anche qui 17. 10 si trattenne appena dal ... 11 temeva (Intr., 55 n.) per se stesso, probabilmente le conseguenze giudiziarie. 12 Trattenutosi, Moderatosi: III 3,26: «io avrei fatto il diavolo; ma pure mi seri rattemperata». 13 Iperbato da ordinarsi: dal volere dello statuto quello che non era lecito di fare a lui (Fanfani). Letteratura italiana Einaudi 874 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI convenevole testimonianza, come il dì fu venuto, senza altro consiglio prendere15, accusata la donna, la fece ri9 chiedere16. La donna, che di gran cuore era, sì come generalmente esser soglion quelle che innamorate son da dovero17, ancora che sconsigliata da molti suoi amici e parenti ne fosse, del tutto dispose18 di comparire e di voler più tosto, la verità confessando, con forte animo morire, che, vilmente fuggendo, per contumacia in essilio vivere e negarsi degna19 di così fatto amante come 10 colui era nelle cui braccia era stata la notte passata. E assai bene accompagnata di donne e d’uomini, da tutti confortata al negare, davanti al podestà venuta, domandò con fermo20 viso e con salda voce quello che egli 11 a lei domandasse. Il podestà, riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli molto, e, secondo che le sue parole testimoniavano, di grande animo, cominciò di lei ad aver compassione, dubitando non ella confessasse cosa per la quale a lui convenisse21, volendo il suo onor22 servare, farla morire. 12 Ma pur, non potendo cessare23 di domandarla di 14 Altro iperbato, alla latina: a provare il fallo della donna. senza pensarvi oltre: quasi una formula: II 8,23 n. 16 citare, chiamare in tribunale: VIII 2,14: «m’ha fatto richiedere per una comparigione»; Sacchetti, LXIII: «fa richiedere Giotto». 17 «Nota» (M.): l’espressione è ripresa a par. II («di grande animo»). 18 deliberò, decise: non riflessivo, come alla II 7,12 n. 19 dichiararsi, mostrarsi non degna, alla latina: vedi usi simili alla I 1,13: «Invitato a uno omicidio ..., senza negarlo mai, v’andava» e alla IV 4,21 n. 20 impassibile: II 9,50 n. 21 egli fosse costretto. 22 la sua dignità, il suo dovere di magistrato: come nella X 8,99 di un altro magistrato si dice: «non potendo con suo onore ritrarsi da far quello che comandavan le leggi...». 23 evitare (I 3,1 n.); o ritrarsi, come è detto in un caso molto simile, nella citazione della n. precedente; e cfr. VI concl., 13: «voi vi cessaste da queste ciance ragionare». 15 Letteratura italiana Einaudi 875 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI quello che apposto l’era24, le disse: « Madonna, come voi vedete, qui è Rinaldo vostro marito, e duolsi25 di voi, la quale egli dice che ha con altro uomo trovata in adulterio; e per ciò domanda che io, secondo che uno statuto che ci26 è vuole, faccendovi morire di ciò vi punisca; ma ciò far non posso, se voi nol confessate, e per ciò guardate bene quello che voi rispondete, e ditemi se vero è quello di che vostro marito v’accusa». 13 La donna, senza sbigottire punto, con voce assai piacevole rispose: «Messere, egli è vero che Rinaldo è mio marito, e che egli questa notte passata mi trovò nelle braccia di Lazzarino, nelle quali io sono, per buono e per perfetto amore27 che io gli porto, molte volte stata; né questo negherei mai; ma come io son certa che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte 14 con consentimento di coloro a cui toccano28. Le quali cose di questa29 non avvengono, ché essa solamente le donne tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a molti sodisfare30; e oltre a questo, non che alcuna donna, quando fatta fu, ci prestasse consentimento, ma niuna ce ne fu mai chiamata31; per 24 di quello che le era rinfacciato, di cui era accusata: III 7,26 n. si querela: II 2,17 n., ma qui con più specifico valore giuridico, come per es. nella XXXIV del Sacchetti. 26 qui, a Prato: come c’era in altre città (PENNINGTON, art. cit.). 27 Espressione della tradizione lirica e cavalleresca già ricorsa nel D. (III 5,21 n.): e cui danno rilievo i quattro endecasillabi di seguito che avviano l’inizio baldanzoso della parlata di Madonna Filippa (L a d o n n a ... n o t t e ). 28 le leggi debbono essere uguali per tutti e fatte col consentimento di quella data classe di persone cui esse riguardano: per modo che questa legge riguardante le donne doveva esser fatta col consentimento di esse (Fanfani). La massima era corrente: cfr. PENNINGTON, art. cit. 29 per questa, a proposito di questa. 30 Concetto più volte affermato dal B. (III I,37 n.) e che qui è al centro dello scioglimento felice della novella. 31 ma nessuna fu mai invitata a dare il suo consentimento, la sua approvazione a tale legge (Ageno). 25 Letteratura italiana Einaudi 876 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI le quali cose meritamente malvagia si può chiamare. E se voi volete, in pregiudicio32 del mio corpo e della vostra anima, esser di quella essecutore, a voi sta; ma, avanti che ad alcuna cosa giudicar procediate, vi prego che una piccola grazia mi facciate, cioè che voi il mio marito domandiate se io ogni volta e quante volte a lui piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera copia o no». 16 A che Rinaldo, senza aspettare che il podestà il domandasse, prestamente rispose che senza alcun dubbio la donna ad ogni sua richiesta gli aveva di sé ogni suo piacer conceduto. 17 «Adunque,» seguì prestamente la donna «domando io voi, messer podestà, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza33? Debbolo io gittare ai cani 34? Non è egli molto meglio servirne un gentile uomo che più che sé m’ama35, che lasciarlo perdere o guastare36?» 18 Eran quivi a così fatta essaminazione37, e di tanta38 e sì famosa donna, quasi tutti i pratesi concorsi, li quali, udendo così piacevol risposta, subitamente, dopo molte risa, quasi ad una voce tutti gridarono la donna aver ra15 32 con danno. rimane d’avanzo, sovrabbonda: intransitivamente e con dativo di interesse: cfr. II 3,11 n. 34 Cfr. Matteo 7.6: «Nolíte dare sanctum canibus»: e del resto con «sanctum» e «sacrum» si alludeva correntemente al corpo femminile: cfr. PENNINGTON, art. cit. 35 Una formula assai usata, con diverse varianti, dal B.: cfr. qui 5 n. 36 «Monna Filippa, tu hai ragione, che tristo faccia Dio chi vi puose la vergogna, però che il danno è molto piccolo» (M.). 37 interrogatorio: termine tecnico: cfr. Ottimo Commento a Inf., XVI 126: «quando il giudice per la legge costrigne a giurare sopra alcuna essaminazione». 38 «L’indeterminato ne accresce il valore semantico» (Marti). 33 Letteratura italiana Einaudi 877 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI gione e dir bene; e prima che di quivi si partissono, a ciò confortandogli il podestà, modificarono il crudele statuto e lasciarono che egli39 s’intendesse solamente per quelle donne le quali per denari a’lor mariti facesser 19 fallo. Per la qual cosa Rinaldo, rimaso di così matta impresa confuso, si partì dal giudicio; e la donna lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne tornò gloriosa. – 39 Cioè questo statuto. Letteratura italiana Einaudi 878 NOVELLA OTTAVA 1 Fresco conforta la nepote che non si specchi, se gli spiacevoli, come diceva, l’erano a veder noiosi1. 2 La novella da Filostrato2 raccontata prima con un poco di vergogna punse li cuori delle donne ascoltanti, e con onesto rossore né lor visi apparito ne dieder segno; e poi, l’una l’altra guardando, appena del ridere potendosi astenere, sogghignando3 quella ascoltarono. Ma poi che esso alla fine ne fu venuto, la reina, ad Emilia voltatasi, che ella seguitasse le ‘mpose. La quale, non altrimenti che se da dormir si levasse, soffiando4 incominciò: – Vaghe giovani, per ciò che un lungo pensiero molto di qui m’ha tenuta gran pezza lontana5, per ubbi- 3 4 1 Neppure di questa novella è stato trovato antecedente alcuno. È opportuno soltanto ricordare l’arguta insistenza del B. contro le donne «cascanti di vezzi». Era già stata accennata nelle opere giovanili (per es. Filostrato, VIII 30-31: «Giovane donna ... sua bellezza | Estima più ch’allo specchio, e pomposa | Ha vanagloria di sua giovinezza ... | E molte ancor perché d’alto lignaggio | Discese sono, e sanno annoverare | Gli avoli lor, si credon che vantaggio | Deggiano aver dall’altre nell’amare | E pensan che costume sia oltraggio, | Torcere il naso, e dispettose andare» ecc.); troverà poi il più ampio sfogo nel Corbaccio (vedi nelle note seguenti alcuni rimandi particolari). Si ricordi che lo specchio nella simbologia medievale era l’emblema della verità (cfr. H. BAYLEY, The lost language, London 1951): e cfr. 10 n. 2 Tutto questo primo periodo ripete quasi alla lettera l’impressione e l’imbarazzo creato da un’altra novella maliziosa raccontata da Dioneo: I 5,2 e n. 3 sorridendo, ridendo mezzo di nascosto: I 5,2 n. 4 sospirando: IX 5,12: «altro che soffiar non facea»; Amorosa Visione, XXVI 14; e più sotto, 7. 5 «Particolare insolito: Emilia è assorta in un pensiero lontano e, la novella settima ce lo dice, ardente» (Momigliano). Per gran pezza lungo tempo cfr. II 5,28 n. Letteratura italiana Einaudi 879 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 5 6 dire alla nostra reina, forse con molto minor novella6, che fatto non avrei se qui l’animo avessi avuto, mi passerò7, lo sciocco error d’una giovane raccontandovi, con un piacevol motto corretto da un suo zio, se8 ella da tanto stata fosse che inteso l’avesse. Uno adunque, che si chiamò Fresco da Celatico, aveva una sua nepote chiamata per vezzi9 Cesca10, la quale, ancora che bella persona avesse e viso (non però di quegli angelici che già molte volte vedemo), sé da tanto e sì nobile reputava, che per costume aveva preso di biasimare e uomini e donne e ciascuna cosa che ella vedeva, senza avere alcun riguardo a sé medesima, la quale era tanto più spiacevole, sazievole11 e stizzosa che alcuna altra, che a sua guisa12 niuna cosa si poteva fare; e tanto, oltre a tutto questo, era altiera, che se stata fosse de’reali di Francia sarebbe stato soperchio13. E 6 Di fatti è questa, dopo la I 9, la più breve novella del D. mi sbrigherò: cfr. per esempi simili Intr., 41 n.; IV 5,7 n. 8 Dipende da corretto. 9 Cioè con vezzeggiativo. 10 Il Manni (p. 669) specialmente su appunti comunicatigli da Francesco di Gherardo Frescobaldi, volle identificare i due protagonisti della novella in Francesco di Lamberto (che sarebbe qui detto da Celatico per alcuni possedimenti in un luogo del Valdarno fiorentino così chiamato), e nella figlia di suo fratello Guido, Francesca, poi moglie di Diedo dei Maineri, vissuta tra la seconda metà del Duecento e i primi del Trecento. Ma a parte che per noi è impossibile verificare i documenti citati dal Manni, resta assai problematico il valore da lui dato a quel da Celatico. Da Celatico sono chiamati per es. anche i Ciampoli (cod. Magliabechiano XXV 591, c. 95; vendita nel 1252 a Ponte a Signa da «Rainerius et Davitius Ciampoli de Celatico»). 11 stucchevole, fastidiosa: frequente è l’accoppiamento dei due aggettivi: VII 6,6: «spiacevole uomo e sazievole»; VIII 4,7. E per queste rime e assonanze in simili serie di aggettivi qualificativi cfr. VI 10,17 n. 12 a suo modo, in modo che fosse contenta. 13 Corbaccio, 376: «ed è tanta la sua vanagloria e la pompa ... che in verità a quelli di Baviera o a’ Reali di Francia o a qualunque 7 Letteratura italiana Einaudi 880 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI quando ella andava per via sì forte le veniva del cencio14, che altro che torcere il muso non faceva, quasi puzzo le venisse di chiunque vedesse o scontrasse Ora, lasciando stare molti altri suoi modi spiacevoli 7 e rincrescevoli15, avvenne un giorno che, essendosi ella in casa tornata là dove Fresco era, e tutta piena di smancerie postaglisi presso a sedere, altro non faceva che soffiare; laonde Fresco domandando le disse: «Cesca, che vuol dir questo che, essendo oggi festa, tu te ne sé così tosto tornata in casa?» Al quale ella tutta cascante di vezzi rispose: «Egli è 8 il vero che io me ne sono venuta tosto, per ciò che io non credo che mai in questa terra16 fossero e uomini e femine tanto spiacevoli e rincrescevoli quanto sono oggi, e non ne passa per via uno che non mi spiaccia come la mala ventura; e io non credo che sia al mondo femina a cui più sia noioso il vedere gli spiacevoli che è a me, e per non vedergli così tosto me ne son venuta». 9 Alla qual Fresco, a cui li modi fecciosi17 della nepote dispiacevan fieramente, disse: «Figliuola, se così ti dispiaccion gli spiacevoli, come tu dì, se tu vuoi viver lieta, non ti specchiare giammai». 10 Ma ella, più che una canna vana18 e a cui di senno altri… sarebbe soperchio». L’espressione era quasi proverbiale: cfr. F. AGENO, Reali di Francia, duchi di Baviera, paladini nella fraseologia proverbiale, in “Lingua Nostra”, XX, 1959. Soperchio è usato avverbialmente. 14 Mostrava sì forte disgusto come sentisse odore di cencio bruciaticcio. L’espressione non comune è costruita dall’uso particolare di venire di cui alla V 10,36 n. e sull’abitudine di andar a prendere il fuoco con un cencio (cfr. V 10,17 n.) 15 Cfr. VIII 4,7 n.: a stessa coppia di aggettivi più sotto, 8. 16 città, paese: II 2,22 n. 17 fastidiosi, disgustosi, ma con particolare veemenza: Sacchetti, LXXXVI: «i modi fecciosi della moglie d’Ugolino». 18 vuota. Forse la frase riecheggia Matteo 11.7; ma a parte quanto il B. dice di Madonna Lisetta, quasi la stessa frase usò il Sacchetti per le fiorentine in genere («più vane d’una zucca»: Letteratura italiana Einaudi 881 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI pareva pareggiar Salamone, non altramenti che un montone19 avrebbe fatto, intese il vero motto di Fresco; anzi disse che ella si voleva specchiar come l’altre. E così nella sua grossezza20 si rimase e ancor vi si sta. – CXCVI: e cfr. qui IV 2,20 n.). Per il proverbiale accenno seguente a Salomone cfr. Amorosa Visione, VIII 3 e comm., anche per la forma con assimilazione, corrente allora. 19 Cioè un animale stupido: II 3,37 n.; V 1,23 n. 20 scempiaggine, stupidità. La novella potrebbe in qualche modo essere l’ironizzazione del grande mito medievale di Eros allo specchio e della stessa favola di Narciso (cfr. BAYLEY, op. cit.; G. AGAMBEN, Stanze, Torino 1977, pp. 84 sgg.). Letteratura italiana Einaudi 882 NOVELLA NONA 1 Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprapreso l’aveano1. 2 Sentendo la reina che Emilia della sua novella s’era diliberata2 e che ad altri non restava a dir che a lei, se non a colui che per privilegio aveva il dir da sezzo3, così a dir cominciò: – Quantunque, leggiadre donne, oggi mi sieno da voi state tolte da due in su4 delle novelle delle quali io m’avea pensato di doverne una dire, nondimeno me n’è 3 1 l’avevano sorpreso (II 2,16). Il motto che sta al centro di questa novella è attribuito dal Petrarca a Dino da Firenze (il grande medico Dino del Garbo?) nei Rerum memorandarum (II 60), anteriori al D. (1343-45). Il Parodi (La miscredenza di Guido Cavalcanti ecc., in “Bull. Soc. Dantesca”, n. s., XXII, 1915, pp. 37 sgg.) ne ha sottilmente collegato l’origine a un passo dei notissimi Dialogi di san Gregorio (IV 3) in cui il diacono Pietro presenta obiezioni all’immortalità dell’anima: passo ripreso probabilmente da Salimbene per aneddoti sull’incredulità di Federico II, che hanno qualche punto di contatto con la narrazione del B. (Cronica ed. cit., p. 512: «Erat enim Epycurus, et ideo quicquid poterat ínvenire in divina Scriptura per se et per sapientes suos, quod faccret ad ostendendum quod non esset alia vita post mortem, totum inveniebat ut ... illud Sepulchra eorum domus illorum in eternum» [Ps. XLVIII 121]). Il motto, derivato probabilmente da questa singolare interpretazione della frase del salmo XLVIII, doveva correre fra quelli più popolari del tempo («... que apud nos vulgo etiam nota sunt ...» scrive il Petrarca). E fu attribuito, rielaborato, a Guido Cavalcanti dal B., forse per l’immagine sdegnosa e stizzosa che egli si era fatta dell’“amico primo” di Dante e per la presenza nella sua fantasia del X dell’Inferno (cfr. più sotto 9 nn.; evidentemente, ripetendo questa novella, l’aneddoto è narrato da Benvenuto da Imola commentando Purg., XI 97); mentre – forse derivando dalle stesse fonti – è assegnato a Jacopone nella Vita anonima pubblicata in “Zeitschr. f. Rom. Philol.”, II, 1878, p. 29. 2 sbrigata, disimpegnata: IV 7,2. 3 da ultimo: cfr. I 1,19 n. 4 più che due novelle: IX 6,19. Letteratura italiana Einaudi 883 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 4 5 6 pure una rimasa da raccontare, nella conclusione della quale si contiene un sì fatto motto, che forse non ci se n’è alcuno di tanto sentimento5 contato. Dovete adunque sapere che né tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n’è rimasa, mercé6 dell’avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l’ha discacciate7. Tra le quali n’era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportar potessono acconciamente8 le spese, e oggi l’uno, doman l’altro, e così per ordine tutti mettevan tavola9, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata; e in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de’cittadini; e similmente si vestivano insieme10 5 di tanta sapienza, di tanto senno, cioè così profondo: cfr. VI 5,4 n. e Esposizioni, IV litt. 264: «Furono le sue risposte di mirabile sentimento». 6 grazie ironico, o a cagione, per colpa, come in Dante, Rime, LXXIII 8: cfr. BARBI, Problemi di critica dantesca, Il, p. 91. Per questo nostalgico rimpianto del “buon tempo antico” vedi I 8,7 sgg.; I 9,3 sgg.; VI 1,3 sgg. ecc. Il motivo della decadenza di Firenze qui additato era già stato proclamato da Dante (Inf., VI 74 sg., XVI 73 sgg.; Par., XV). 7 L’avarizia e la sfrenata cupidigia sono costantemente indicate nel D. come le cause della decadenza e della rovina della società contemporanea (cfr. per es. Intr., 8 e 25; I 8; III 5; VI 3; VIII 1; X 8, 112: e cfr. Esposizioni, VII all. 58; Consolatoria passim; e V. BRANCA, B. medievale, pp. 160 sgg.). 8 potessero sopportare (III I,41 n.) comodamente, senza disagio. 9 offrivano convito: IX 9,13: «spendo il mio in metter tavola e onorare i miei cittadini»; G. Villani, VII 89. 10 l’uno in compagnia dell’altro cioè nello stesso modo: uso simile a quello di c o n a indicare non compagnia ma somiglianza (VII 7,38 n.), come alla X 9,31: «io ho delle robe il mio signore vestito con voi»: cfr. G. Villani, X 191: «pedoni toscani ... vestiti insieme» e qui IV 9,5 per uso simile. Letteratura italiana Einaudi 884 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 7 almeno una volta l’anno, e insieme i dì più notabili11cavalcavano per la città, e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d’altro fosse venuta nella città12. Tra le quali brigate n’era una di messer Betto Brunelleschi13, nella quale messer Betto è compagni s’eran molto ingegnati14 di tirare Guido di messer Cavalcante 11 Cioè i giorni di festa, le festività, come quelle di calendimaggio e di San Giovanni. 12 Di queste usanze signorili parlano anche Boncompagno da Signa (Cedrus), Dante (Inf., XXIX I 30 sgg.; e forse Vita Nuova, III), Dino Compagni (I 20), il Sacchetti (CCX), Folgore nei suoi sonetti, il Morelli ecc. Scrive il Villani: «si fece nella contrada di Santa Felicita oltrarno [nel 1283] ... una compagnia e brigate di mille uomini o più, tutti vestiti di robe bianche con uno signore detto dell’Amore. Per la qual brigata non s’intendea se non in giuochi e in sollazzi e in balli di donne e di cavalieri e d’altri popolani, andando per la terra con trombe e diversi stormenti in gioia e allegrezza, e stando in conviti insieme ... alla quale vennero di diverse parti e paesi molti gentili uomini ...»; e più avanti scrive che dopo la vittoria a Campaldino: «si faceano le brigate e compagnie di gentili giovani vestiti di nuovo ... con gli strumenti e colle ghirlande di fiori in capo, stando in giuochi e in allegrezze, e in desinari e cene» (VII 89 e 132; e anche X 126 ecc.). E il B. altrove: «Nel tempo nel quale la dolcezza del cielo riveste de’ suoi ornamenti la terra ... era usanza della nostra città, e degli uomini e delle donne, nelle loro contrade ciascuno in distinte compagnie festeggiare» (Trattatello, I 30). 13 Di famiglia già ghibellina, per un breve periodo guelfo bianco e amico del Cavalcanti e di Dante che gli indirizzò un sonetto (XCIX), divenne, dopo gli avvenimenti del 1301, uno dei capi dei guelfi neri. Geloso di Corso Donati, contribuì alla sua fine; nel 1311 fu ucciso a tradimento da due giovani dei Donati. «Fu ricco di molte possessioni e d’avere; fu in grande infamia del popolo ... molto era aoperato in ambascerie, perché era buono oratore ...» Così il Compagni tracciandone un fosco ritratto (III 39, e 7, 19, 37 sgg. e anche II 23,26; G. Villani, VIII 120, IX 12: e cfr. per molte notizie le note del Del Lungo nell’ed. cit. del Compagni ai luoghi indicati). B e t t o è ipocoristico di Brunetto. 14 Un altro caso di forma invariata del participio nei verbi composti. Letteratura italiana Einaudi 885 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 8 9 de’Cavalcanti15, e non senza cagione: per ciò che, oltre a quello che egli fu un de’migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale 16 (delle quali cose poco la brigata curava), sì fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto17, e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente, seppe meglio che altro uom fare; e con questo18 era ricchissimo, e a chiedere a lingua19 sapeva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse20. Ma a messer Betto non era mai potuto venir 15 Del «primo amico» di Dante, già ricordato esemplarmente accanto a lui e a Cino (IV intr., 33 n.), il B. nelle Esposizioni delinea un profilo molto simile a questo: «uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio che alcun altro nostro cittadino: e, oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo» (X 62 e cfr. anche X 92). La fama popolana di gentilezza e bizzarria – consolidata dal sonetto di Guido Orlandi (Amico io saccio), dal Compagni (I 20: «cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e intento allo studio») e dal Villani (VIII 42: «filosofo, virtudioso uomo in più cose, se non ch’era troppo tenero e stizzoso») – è elevata da questa novella del B. in una nuova atmosfera di ammirazione e di simpatia. Di qui discenderanno subito dopo le presentazioni del Sacchetti (LXVIII), di vari commentatori danteschi e specialmente di Benvenuto (a proposito di Inf., X 52 sgg.) e di Filippo Villani nel Liber de origine civitatis Florentie ecc. (vedile raccolte con varie altre da G. MANETTI, Operette istoricbe, Firenze 1887): e di qui probabilmente si allargò anche la fama della miscredenza o irreligiosità del Cavalcanti (E. G. PARODI, art. cit.; M. BARBI, Dante, Firenze 1952, pp. 221 sgg.). 16 uno dei migliori filosofi speculativi ... e ottimo studioso di scienze. Anche di Dante il B. scrive che fu: «meraviglioso loico» e che «prese altissimi principi nella filosofia naturale» (Esposizioni, accessus 30-32). 17 uomo molto facondo: VI 3,9 n. 18 e oltre a questo. 19 quanto si può desiderare. «Vuol dire: chiedere non solo ciò che è convenevole o sperabile d’ottenere, ma tutto ciò che la lingua può pronunciare, ossia tutto ciò che viene alla bocca». Così il Fornaciari che porta esempi del Lasca e del Caro. 20 gli sembrava che lo meritasse: e per la frase stereotipata cfr. I 1,44 n. Letteratura italiana Einaudi 886 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI fatto21 d’averlo, e credeva egli co’ suoi compagni che ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva; e per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri22, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse. 10 Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d’Orto San Michele e venutosene per lo Corso degli Adimari infino a San Giovanni23, il quale spesse volte era suo cammino24, essendo arche25 grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata26, e molte altre dintorno a San Giovanni, ed egli essendo tra le colonne del porfido27 che vi sono e quelle arche e la porta di San 21 non era mai riuscito. Cioè di quelli «che l’anima col corpo morta fanno» (Inf., X 15), e che erano genericamente detti seguaci d’Epicuro, come chiarisce il B. stesso nelle Esposizioni (X 9 sgg.; e cfr. G. Villani, IV 30). Cfr. anche PARODI e BARBI, opp. citt.; e A. FAGGI, Democrito che il mondo a caso pone, in “Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino”, LXXIV, 1938 soprattutto per l’equivalenza allora di epicureismo e ateismo. 23 I Cavalcanti avevano le loro case fra Por Santa Maria e Orsanrnichele (così chiamato dalla Chiesa di San Michele in Orto, già distrutta ai primi del Trecento). Quindi Guido, movendo dal celebre edificio (in origine granaio e poi anche chiesa) per la parte alta della odierna via Calzaiuoli (corso Adimari) sarebbe giunto al Battistero. 24 Cioè era il suo percorso abituale. 25 sarcofaghi, sepolture (I 1,87): questa scenografia e questa presentazione risalgono forse al paesaggio infernale delle “arche” in cui Dante pone gli “epicurei” e Cavalcante (Inf., IX 125). 26 La chiesa che stava dove Arnolfo di Cambio fece sorgere Santa Maria del Fiore. Quelle “arche”, secondo la tradizione popolare, sarebbero appartenute alle famiglie dei primi abitatori di Firenze. Rimosse nel 1296, sono ora in piccola parte nel cortile di Palazzo Medici-Riccardi e attorno al Battistero e nel Museo dell’Opera del Duomo. 27 Le colonne ancor oggi fiancheggianti le «porte del Paradi22 Letteratura italiana Einaudi 887 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI Giovanni28, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, 11 veggendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: «Andiamo a dargli briga 29 »; e spronati i cavalli a guisa d’uno assalto sollazzevole30 gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra, e cominciarongli a dire: «Guido tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu arai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto?» 12 A’quali Guido, da lor veggendosi chiuso31, prestamente disse: «Signori32, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace » ; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo33 era, prese un salto e fussi gittato34 dall’altra parte, e sviluppatosi35 da loro se n’andò. 13 Costoro rimaser tutti guatando l’un l’altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato36 e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò so» (poste allora fra Battistero e Duomo); erano state donate nel 1117 ai Fiorentini, in ringraziamento dell’aiuto avuto contro i Lucchesi, dai Pisani (che a lor volta le avevano prese a Maiorca: Testi fiorentini, p. 95; G. Villani, IV 31 Esposizioni, XV 48 sgg.). Per l’uso dell’articolo cfr. I 1,87 n. 28 Firenze era ancora chiusa dal “secondo cerchio”, essendosi iniziati appena nel 1284 i lavori per il terzo. 29 dargli noia, in senso scherzoso («a guisa d’uno assalto sollazzevole»): III 3,30. 30 scherzoso: e cfr. VI 4,20 n. e V 5,9 n. 31 circondato: cfr. X 2,7. 32 «S i g n o r i dice, non messeri, perché questo è titolo generico, e quello invece indica effettiva autorità e dominio, come di padroni di casa, in quel luogo» (Zingarelli). 33 agilissimo. 34 Per questo particolare uso del trapassato remoto a indicare effetto istantaneo cfr. II 5,58 n.; e anche F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 300. E per f u s i cfr. IV 10,13 n. 35 liberatosi, districatosi. 36 balordo, stordito: II 10,31; VII 6,3 n. Letteratura italiana Einaudi 888 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a far più che tutti gli altri cittadini, né Guido meno che alcun di loro. 14 Alli quali messer Betto rivolto disse: «Gli smemorati siete voi, se voi non l’avete inteso. Egli ci ha detta onestamente 37 in poche parole la maggior villania del mondo; per ciò che, se voi riguardate bene, queste arche sono le case de’ morti38, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che sono nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti39 e non litterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra». 15 Allora ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi né mai più gli diedero briga, e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente40 cavaliere. – 37 con bel garbo, elegantemente, convenientemente: Intr.,7 n. incolti, ignoranti: I 2,9 n .: si appone al seguente altri uomini scienziati. 39 Proprio sulle guardie di un suo autografo, il Riccardiano 1232 contenente suo Buccolicum carmen, il B. noterà, nel suo greco approssimativo e in caratteri latini, la sentenza Antropos agramatos fyton acarpon cioè l’uomo illetterato [è] pianta senza frutto: affermazione, simile a questa, di una convinzione fatta ragion di vita. Riecheggia qui probabilmente anche il dantesco: «Questi sciaurati, che mai non fur vivi» (Inf., III 64); e forse dalla «Vita di Alberto Magno il suo motto in difesa del morto discepolo san Tommaso, con cui qualificò per morti, di fronte alla luce dell’Aquinate, suoi avversari» (Fornaciari). 40 acuto, intelligente: I 7,27 n. Per tutto lo svolgimento, la topografia e l’interpretazione della novella, cfr. P. WATSON, On seeing Guido Cavalcanti and the houses of the dead, in “Studi sul B.”, XVIII, 1989. 38 Letteratura italiana Einaudi 889 NOVELLA DECIMA 1 Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell’agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo1. 2 Essendo ciascuno della brigata della sua novella riuscito2, conobbe Dioneo che a lui toccava il dover dire; per la qual cosa, senza troppo solenne comandamento 1 Nessun vero antecedente di questa novella. Si sono citate tuttavia varie redazioni e variazioni di un racconto orientale in cui degli ambasciatori, portando in dono a un re cassette di gioielli e trovandole piene o di cenere o di capelli o di terra, sanno prontamente far credere che si tratti di oggetti o di materia miracolosa (cfr. Pantschatantra ... aus dem Sanscrit übersetzt ... von Th. Benfey, Leipzig 1859, 1, pp. 408 sgg.; Cukasaptati aus dem Sanscrit übersetzt von R. Schmidt, Stuttgart 1899, LII; Talmud, Synedrion 109a: cfr. Landau, p. 92). Ma certo antecedenti più diretti e interessanti, e seppure non precisi, può offrire l’ampia letteratura medievale sugli abusi delle reliquie: famoso è quello che, a proposito del braccio di santa Reparata, fu perpetrato proprio a Firenze nel 1352 (M. Villani, III 15 sgg.; Sacchetti, LX): e cfr. Salimbene, Cronica, I, pp. 108 sg., II, pp. 761 e specialmente 733 sgg.; Chaucer, Canterbury Tales, A 668 sgg., C 329 sgg.; Etienne de Bourbon, op. cit.; Fra Giordano da Pisa, Prediche, Firenze 1831, I, pp. 216 sgg.; Sacchetti, LX e Lettere, XI; Erasmo, Ecclesiaste ecc.; e le ampie documentazioni offerte su questo argomento da L. A. MURATORI, Dissertazioni sopra le antichità italiane Milano 1752, III, pp. 251 sgg.; da G. BOTTARI, Lezioni sopra il D., Firenze 1818, I, pp. 50 sgg. ecc.; da L. LALANNE, Curiosités des traditions des moeurs et des légendes, Paris 1847, pp. 117 sgg.; da P. SAINTYVES, Les reliques et les images légendaires, Paris 1912, che a p. 306 cita un episodio simile a questa novella che sarebbe avvenuto in Germania. Per varie implicazioni popolari cfr. M. P. GIARDINI, Tradizioni popolari nel D., Firenze 1965, pp. 12 sgg. Per suggestioni possibili dalla letteratura degli itinerari d’oltremare e dei mirabilia cfr. M. PASTORE STOCCHI, Dioneo e l’orazione di Frate Cipolla, in “Studi sul B.”, X, 1977-78. 2 sbrigato, come altrove s p e d i t o , d i l i b e r a t o . Letteratura italiana Einaudi 890 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 4 5 aspettare, imposto silenzio a quegli che il sentito3 motto 3 di Guido lodavano, incominciò: – Vezzose donne, quantunque io abbia per privilegio di poter di quel che più mi piace parlare, oggi io non intendo di volere da quella materia separarmi della qual voi tutte avete assai acconciamente parlato; ma, seguitando le vostre pedate4, intendo di mostrarvi quanto cautamente con subito riparo5 uno de’ frati di santo Antonio fuggisse uno scorno che da due giovani apparecchiato gli era. Né vi dovrà esser grave perché6 io, per ben dir la novella compiuta, alquanto in parlar mi distenda, se al sol guarderete7 il qual è ancora a mezzo il cielo. Certaldo8, come voi forse avete potuto udire, è un 3 accorto, giudizioso: VII 9,74; «tu m’hai per sì poco sentita»; e VI 9,3 n.; Fiore, CLXII II, CLXXX I. 4 orme, cioè il vostro esempio: cfr. VII 9,4 n. 5 con subitaneo rimedio. 6 Con valore concessivo data la proposizione Principale negativa (I 8,3 n.): Inf., XIII 56-57: «e voi non gravi i | Perch’io un poco a ragionar m’inveschi». 7 Perché era ancor presto, data la brevità delle novelle narrate. 8 Il paese, com’è noto, della famiglia del B. Dopo averlo raffigurato nel Filocolo (III 33,11 sgg. e V 32 sgg.) e in questa novella col distacco ironico e canzonatorio del cittadino raffinato, già nel 1352-53 il B. ricorda il borgo paterno con trepida commozione, come un rifugio caro e desiderato (Epistole, VIII: «iam carius Certaldi cognomen est quam Florentie»: e cfr. H. COCHIN, Un amico di F. Petrarca, Firenze 1901, pp. 7 sgg. e 59); e poi nel ’61, ritiratosi a Certaldo: «qui ho cominciato ... a confortare la mia vita ... Vi dico che io mi crederrei qui, mortale come io sono, gustare e sentire della etterna felicità» (Consolatoria, 80-81). E la tarda, ampia menzione nel De fluminibus sembra coronare l’affetto– che affiora in tutte le epistole di quegli anni – per quel tranquillo rifugio offerto alla sua vecchiaia: sono parole in cui si può forse scorgere un’eco di queste righe («Elsa fluvius est Tusciac ... a dextro modico clatum tumulo Certaldum, vetus castellum linquit ... cuius ego libens rnemoriam celebro, sedes quippe ci natale solum maiorum meorum fuit ...») Letteratura italiana Einaudi 891 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 6 7 castel9 di Valdelsa posto nel nostro contado, il quale, quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d’agiati fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi trovava, usò un lungo tempo d’andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi un de’ frati di santo Antonio10, il cui nome era frate Cipolla11, forse non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi volontieri, con ciò sia cosa che quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana12. Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior brigante13 del mondo: e oltre a questo, niuna 9 borgo (Intr., 43): invece a par. 14 si riferisce alla parte alta del borgo dove si elevava il castello. 10 «Nota» (M.). Anche Dante si scaglia particolarmente contro i frati di sant’Antonio come ciurmatori senza scrupoli (Par., XXIX 124 sgg.: «Di questo ingrassa il porco sant’Antonio ...»). Il Bottari (pp. 63 sgg.) parla a lungo delle imprese di questi questuanti che profittavano indegnamente della credulità dei più semplici, tanto che nel 1240 Gregorio IX inflisse pene gravi proprio ai monaci antoniani di Vienne – casa principale dell’Ordine – e bollò le loro imposture scrivendo ai vescovi lionesi. Gli antoniani fornirono così a poco a poco alla nostra novellistica il, tipo del frate più avido e ingannatore (cfr. per es. Sacchetti, CX; Masuccio Salernitano, XVIII). 11 Nome probabilmente analogico suggerito da quanto è detto nelle righe seguenti: ma è, ad ogni modo, nome toscano (il MANNI, Veglie piacevoli, I, p. 19 cita Uberto di Cipolla ricordato in documenti del 1321). È la prima nota di quegli elementi di linguaggio allusivo o equivoco o espressionistico o antifrastico e di quei riferimenti bilicati fra storia e fantasia sui quali sarà tessuta tutta la novella. 12 Nel Plinio del Petrarca (cod. Parigino lat. 6802, C. 153v) il B. annotò le notizie sulle varie qualità di cipolle con la chiesa scherzosa: «Nondum certaldenses erant» (P. DE NOLHAC, Pétrarque et l’humanisme, Paris 1907, 11, p. 81), e nel Corbaccio si fa beffare come certaldese dalla malvagia vedova con le parole: «Torni a sarchiar le cipolle e lasci star le gentildonne!» (459). Anzi lo stemma di Certaldo portava e porta una cipolla. 13 compagnone: cioè a chi faceva parte di una brigata, di una compagnia: Sacchetti, LXIV; Morelli, Ricordi, p. 288; e cfr. qui 13 e 16, brigata. Letteratura italiana Einaudi 892 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI scienzia avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran rettorico14 l’avrebbe stimato, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano15: e quasi di tutti quegli della contrada era compare16 o amico o benivogliente17. 8 Il quale, secondo la sua usanza, del mese d’agosto tra l’altre v’andò una volta, e una domenica mattina, essendo tutti i buoni uomini e le femine delle ville da torno venuti alla messa nella calonica18, quando tempo 9 gli parve, fattosi innanzi disse: «Signori e donne19, come voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno à poveri del baron20 messer santo Antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua, acciò ché il beato santo Antonio vi sia guardia de’ buoi e degli asini e de’ porci e delle 10 pecore vostre21; e oltre a ciò solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra compagnia22 scritti sono, 14 oratore, maestro d’eloquenza: G. Villani, IX 136: «rettorico perfetto». 15 Cicerone stesso o forse Quintiliano: anche per il B. rappresentavano modelli insuperabili di oratoria e retorica. Ma Quintiliano, benché appaia nella libreria di Lapo da Castiglionchio, è citato dal B. solo dopo il 1351 (BILLANOVICH, Petrarca letterato cit., pp. 94 e I56 sgg.; A. MAZZA, L’inventario della “parva libraria”, in “Italia Medioevale e Umanistica”, IX, 1966, pp. 50 sgg.). 16 Propriamente chi è legato da un vincolo spirituale, essendo stato padrino di battesimo o di cresima o testimone a nozze: ma si usava anche a indicare parentela non stretta o grande familiarità. 17 benevolo riferendosi agli inferiori: Tesoro volg., II 24. E sotto: del mese, «arcaico nelle forme articolate» (Contini). 18 canonica, cioè la chiesa parrocchiale. 19 Appellativo di rispetto, invece di signore usato solo in seguito (V 7,10 n.): e cfr. 37. 20 Titolo d’onore che si usava premettere anche ai nomi di santi: Par., XXIV 115 e XXV 17: e cfr. IV 3,19, e qui II e 44. 21 Sant’Antonio, fondatore del monachesimo nel secolo III, era ed è venerato come preservatone del bestiame dai morbi, e per questo è rappresentato con un porco ai piedi (che alcuni dicono simbolo di un’incarnazione del diavolo tentatore). 22 confraternita cui si pagava una quota (debito). Letteratura italiana Einaudi 893 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 11 12 13 14 quel poco debito che ogni anno si paga una volta. Alle quali cose ricogliere23 io sono dal mio maggiore24, cioè da messer l’abate, stato mandato, e per ciò, con la benedizion di Dio, dopo nona25, quando udirete sonare le campanelle, verrete qui di fuori della chiesa là dove io al modo usato vi farò la predicazione, e bacerete la croce; e oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del barone messer santo Antonio, di spezial grazia26 vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la quale io medesimo già recai dalle sante terre d’oltremare: e questa è una delle penne dell’agnol Gabriello, la quale nella camera della Vergine Maria rimase quando egli la venne ad annunziare27 in Nazarette». E questo detto, si tacque e ritornossi alla messa. Erano, quando frate Cipolla queste cose diceva, tra gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto, chiamato l’uno Giovanni del Bragoniera e l’altro Biagio Pizzini28 li quali, poi che alquanto tra sé ebbero riso della reliquia di frate Cipolla, ancora che molto fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di29 questa penna alcuna beffa. E avendo saputo che frate Cipolla la mattina desinava nel castello30 con un suo 23 riscuotere, ritirare: VII 2,28 n. superiore, come più innanzi al 48: e cfr. V 3,34 n. Dopo le tre pomeridiane, circa, a vespro: e per la frase seguente cfr. 31 n. 26 per grazia, per concessione speciale. 27 «E così ella è l’Annunziata, passandosi dall’idea originaria di dare a lei l’annunzio a quello di onorarla e santificarla con l’annunzio» (Zingarelli). 28 Sono nomi di famiglie allora esistenti a Certaldo: anzi i Pizzini possedevano proprio case e terreni confinanti coi Boccaccio, e Biagio Pizzini era buon amico del padre del B., se fu suo mallevadore in un affare nel 1336. Per tutte queste e altre notizie: D. TORDI, Attorno a G. B. ecc., Orvieto 1923, pp., 9 sgg. 29 a cagione di, a proposito di: Il 7,64 n.; V 3,16 n. 30 Cioè nella parte alta del paese, sul colle, dov’era ed è ancora il Palazzo comunale e dove erano le case dei Boccaccio. 24 25 Letteratura italiana Einaudi 894 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI amico, come a tavola il sentirono così se ne scesero alla strada31 e all’albergo dove il frate era smontato se n’andarono con questo proponimento: che Biagio dovesse tenere a parole32 il fante di frate Cipolla e Giovanni dovesse tralle cose del frate cercare di questa penna, chente33 che ella si fosse, e torgliele, per vedere come egli di questo fatto poi dovesse al popol dire. 15 Aveva frate Cipolla un suo fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco34: il quale era tanto cattivo35, che egli non è vero che mai Lippo Topo36 ne fa31 Scesero cioè dalla parte alta del paese (dov’era la calonica e dove avevano ascoltato la messa e le parole di Frate Cipolla) sulla strada maestra, dove evidentemente era l’albergo. 32 intrattenere, tenere occupato con discorsi: V 7,27. 33 quale, quale mai: Intr., 55 n. 34 Su questo tipo bizzarro – già ricordato nella IV 7,24 n. – il Manni raccolse molte notizie più o meno sicure (Veglie piacevoli, I, pp. 11 sgg.). Guccio Aghinetti o Guccio Porcellana o frate Porcellana o Porcelloni figura in vari documenti, tra il 1318 e il 1335, abitante proprio nel quartiere stesso dei Boccaccio: poiché era custode dello Spedale di San Filippo (nella parrocchia di San Paolo), ebbe, benché ammogliato, il titolo di “frate” tradizionale per chi faceva servizio negli ospedali. Il Manni lo identifica anche – su elementi molto incerti – con un Guccio Imbratta di cui trovò notizie verso il 1305. Così avrebbe documentato due dei tre appellativi registrati dal B. (Porco per similitudine di voce da Porcellana o Porcellone rientra negli usi più correnti del tempo: BARBI, Problemi cit., II, p. 92); mentre il terzo, Balena, deriverebbe dalla corporatura enorme descritta in seguito. 35 inetto, dappoco: I 9,1 n. e II 2,14 n. 36 Proverbiale personaggio, probabilmente di fantasia (ma Lippo era comune per Filippo), cui si attribuivano varie stranezze e facezie, fra cui un testamento con enormi lasciti; richiesto chi avrebbe potuto esserne l’esecutore egli avrebbe risposto: “Qui sta il punto”, Vedi per esempio L. DOMENICHI, Facezie e motti, Venezia 1584, p. 273; e cfr. F. AGENO, Nomignoli e personaggi immaginari, in “Lingua Nostra”, XIX, 1958; G. HERCZEG, I Cosiddetti ‘nomi parlanti’ nel D., in “Atti e Memorie del VII Congresso Internazionale di Scienze onomastiche”, Firenze 1963. Secondo L. Lazzerini (Lippo Topo, in “Lingua Nostra”, XXXII, Letteratura italiana Einaudi 895 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI cesse alcun cotanto37. Di cui spesse volte frate Cipolla era usato di motteggiare con la sua brigata e di dire: «Il fante mio ha in sé nove cose tali che, se qualunque è l’una di quelle fosse in Salamone o in Aristotile o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù, ogni lor senno, ogni lor santità38. Pensate adunque che uom dee essere egli, nel quale né vertù né senno né santità alcuna 17 è, avendone nove!»: e essendo alcuna volta domandato quali fossero queste nove cose 39, ed egli, avendole in rima messe, rispondeva: «Dirolvi: egli è tardo, sugliardo40 e bugiardo; negligente, disubidente e maldicente; trascutato41, smemorato e scostumato42; senza che egli ha alcune altre taccherelle43 con queste, che si 18 taccion per lo migliore. E quel che sommamente è da 16 1971), sarebbe un “nome fantasma” e l’espressione del B. deriverebbe da quanto anche san Bernardino scriveva di lui: «habebat enim pro solatio facere suos familiares desides et ita tristes ...» (Opera, Venezia 1591, IV, pp. 168 sgg.). 37 altrettanto “cattivo”: cfr. n. 7. 38 I tre sostantivi erano quasi emblema di saggezza (vertú), di acutezza di pensiero (senno), di sensibilità morale (santità): e come tali li aveva consacrati il B. stesso nell’Amorosa Visione (VIII 3, IV 42, IV 77 e comm.). Insistenti i ritmi e le formule ternarie in tutto il discorso di frate Cipolla. 39 Come altre volte in ripresa dopo la frase gerundiale: ecco che. 40 sudicio, sporco (fr. souillard, Prov. Solhart: da solium: REW 8074). 41 negligente, che non pensa a nulla (provenzale trascujat: cfr. Intr., 65 n., VI 2,1 n. 42 È questa la più famosa delle sequenze di aggettivi rimati o assonanzati - spesso, come qui, sulla regola del tre e del nove - care alla prosa del B. Basti vedere per es. qui 21 e 35; e III 8,65 n.; IV intr., 4; IV 2,10; VI 8,5 n.; VIII 3,53; Corbaccio, 185: «... quanto questa perversa moltitudine sia golosa, ritrosa, ambiziosa, invidiosa, accidiosa e delira, né quanto ella nel farsi servire sia imperiosa, noiosa, vezzosa, stomacosa e importuna». 43 macchioline e quindi difettucci (da “tecca”: cfr. per es. Avventuroso Ciciliano, III 13: «e quattro generali tecche non dee avere il cavaliere»). Letteratura italiana Einaudi 896 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI rider de’ fatti suoi è che egli in ogni luogo vuol pigliar moglie44 e tor casa a pigione; e avendo la barba grande e nera e unta45, gli par sì forte46 esser bello e piacevole, che egli s’avisa che quante femine il veggano tutte di lui s’innamorino, ed essendo lasciato, a tutte andrebbe die19 tro perdendo la coreggia47. È il vero che egli m’è d’un grande aiuto, per ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che egli non voglia la sua parte udire; e se avviene che io d’alcuna cosa sia domandato, ha sì gran paura che io non sappia rispondere, che prestamente risponde egli e sì e no, come giudica si convenga». 20 A costui, lasciandolo all’albergo, aveva frate Cipolla comandato che ben guardasse che alcuna persona non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce, per 21 ciò che in quelle erano le cose sacre. Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di stare in cucina che sopra i verdi rami l’usignolo48, e massimamente se fante vi sentiva niuna49, avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso che parea de’ Baronci50, tutta sudata, unta e affumicata, 44 Secondo i documenti citati, Guccio risulta già ammogliato nel 1331 e quindi l’episodio sarebbe anteriore. 45 «Come il Cerbero dantesco, che ha ‘la barba unta ed atra’: Inf., VI 16» (Scherillo); e come il ruffiano di Madonna Fiordaliso (II 5,52). 46 tanto (francese fort). 47 se lo si lasciasse fare andrebbe dietro a tutte, farebbe il cascamorto con tutte, tanto che non si accorgerebbe di perdere la cintura: cioè non smetterebbe neppure se gli cascassero i pantaloni. 48 Il tono idillicamente canzonatorio è sottolineato dai due endecasillabi di seguito. 49 se si accorgeva che ci fosse qualche serva. 50 Cfr. VI 6,3 n.: e VI 5,4 n. Ritratto di Nuta canzonatorio nelle due sedi aggettivi e nell’intrecciarsi di endecasillabi e settenari. L’allusione avicolo-erotica proposta dal Marucci su testi del ’500 (Guccio Imbratta e l’usignolo, in “Filologia e Critica”, II, 1977) non è convincente. Letteratura italiana Einaudi 897 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI non altramenti che si gitti l’avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in 22 abbandono, là si calò; e ancora che d’agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere, cominciò con costei, che Nuta51 aveva nome, a entrare in parole e dirle che egli era gentile uomo per procuratore52 e che egli aveva de’fiorini più di millantanove53, senza quegli che egli aveva a dare altrui, che erano anzi più che meno, e che egli sapeva tante cose fare e dire, che domine pure un23 quanche 54 . E senza riguardare a un suo cappuccio sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il calderon d’Altopascio55, e a un suo farsetto rotto e ripezzato56 e intorno al collo e sotto le ditella57 smaltato di sucidume, con più macchie e di più colori che mai drappi fossero tartereschi o indiani58, e alle sue scarpet- 51 Ipocoristico di Benvenuta. come procuratore «Espressione furbesca, per dire e non dire: chi agisce con un mandato di procura, fruisce di un titolo legale che non appartiene alla sua persona» (Massera). Così anche il Sacchetti, LXIII, chiama «gentiluomo per procuratore» «un grossolano artefice». 53 M i l l a n t a è formazione giocosa, indeterminata (VIII 3,15), cui l’aggiunta del nove vorrebbe dare il senso di una scrupolosa precisione: secondo il linguaggio che Guccio ha imparato da Frate Cipolla, e che insiste pure nella frase seguente che cancella in realtà questa millantata ricchezza. 54 che mai saprebbe fare e dire altrettanto il suo padrone (altri: il Signore). Per u n q u a n c h e mai: Purg., IV 76. 55 «Era spropositato perché i monaci di quella badia [la Magione degli Ospitalieri] vi facevano minestra per le limosine universali due volte la settimana: e passò in proverbio» (Fanfani). 56 rattoppato. 57 ascelle: Intr., 10 n. 58 Inf., XVII 16 sg.: «Con più color, sommesse e sovraposte | Non fer mai drappi tartari né turchi»: e il B., nelle ultime righe delle sue Esposizioni: tartari e turchi «di ciò sono ottimi maestri, sì come noi possiamo manifestamente vedere ne’ drappi tartareschi, li quali veramente sono sì artificiosamente tessuti, che non è alcun dipintore che col pennello gli sapesse fare simiglianti» (XVII 8). 52 Letteratura italiana Einaudi 898 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 24 25 26 27 te tutte rotte e alle calze sdrucite, le disse, quasi stato fosse il siri di Castiglione59, che rivestir la voleva e rimetterla in arnese60, e trarla di quella cattività61 di star con altrui e senza gran possession d’avere62 ridurla in isperanza di miglior fortuna e altre cose assai: le quali quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte in vento convertite, come le più delle sue imprese facevano, tornarono in niente. Trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intorno alla Nuta occupato; della qual cosa contenti, per ciò che mezza la lor fatica era cessata63, non contradicendolo alcuno64 nella camera di frate Cipolla, la quale aperta trovarono, entrati, la prima cosa che venne65 lor presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la penna; la quale aperta, trovarono in un gran viluppo di zendado66 fasciata una piccola cassettina; la quale aperta, trovarono67 in essa una penna di quelle della coda d’un pappagallo, la quale avvisarono dovere esser quella che egli promessa avea di mostrare a’ certaldesi. E certo egli il poteva a quei tempi leggiermente far credere, per ciò che ancora non erano le morbidezze68 d’Egitto, se non 59 «Il titolo di s i r i ci fa pensare ai Châtillons della Francia, perché anche il Villani quando parla di feudatari francesi scrive siri» (Zingarelli). La frase vale cioè: come se fosse un gran signore, ed è usata anche dal Casa (Galateo, XIII). 60 rimetterla in sesto: cfr. I 7,18; II 9,43 n. 61 schiavitù, prigionia, miseria: II 6,33 n. e I 8,7 n. 62 grandi ricchezze, grandi beni. «Sintagma dantesco, tanto più comico perché ‘l’antica possession d’avere’ entra nella definizione federiciana della nobiltà (canzone Le dolci rime)» (Contini). 63 scansata, evitata: I 3,1 n. 64 non impedendolo, non opponendovisi alcuno: II 7,12 n.; IV 3,24 n. 65 Cfr. II 5,70 n. 66 un gran involto di drappo di seta: III 7,89 n. 67 È la terza volta che in poche righe si ripete questa locuzione: e del resto tutto il periodo è espressionisticamente caratterizzato da riprese e ripetizioni continue (trovarono… la quale ecc.). 68 mollezze, raffinatezze (III 10,3 n.): e con E g i t t o ci si riferi- Letteratura italiana Einaudi 899 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI in piccola quantità, trapassate in Toscana, come poi in grandissima copia con disfacimento69 di tutta Italia son trapassate: e dove che elle poco conosciute fossero70, in 28 quella contrada quasi in niente erano da gli abitanti sapute; anzi, durandovi ancora la rozza onestà degli antichi, non che veduti avessero pappagalli ma di gran lunga la maggior parte71 mai uditi non gli avean ricor29 dare. Contenti adunque i giovani d’aver la penna trovata, quella tolsero e, per non lasciare la cassetta vota, vedendo carboni in un canto della camera, di quegli la cassetta empierono; e richiusala e ogni cosa racconcia72 come trovata avevano, senza essere stati veduti, lieti se ne vennero con la penna e cominciarono a aspettare quello che frate Cipolla, in luogo della penna trovando carboni, dovesse dire. 30 Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa erano, udendo che veder dovevano la penna dell’agnol Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono a casa; e dettolo l’un vicino all’altro e l’una comare all’altra, come desinato ebbero ogni uomo73, tanti uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capeano, con desiderio aspettando di veder questa sce in generale all’Oriente. Queste parole ricordano quelle di Cacciaguida: «Non v’era giunto ancor Sardanapalo …» (Par., XV 107 sgg.), quantunque, riferendosi a età diverse e distanti, siano contraddittorie. 69 rovina. 70 se mai altrove erano poco conosciute. D o v e che ha non solo il valore di in qualunque luogo ma anche, come qui, di se in alcun luogo: cfr. per es. Filocolo, II 28,7: «la gran festa della vostra natività s’oppressa; e dove ch’ella si faccia grandissima, sì si fa ella qui in Marmorina». Forse qui il B. esagera: basti pensare alla precisa descrizione che dei pappagalli fa Brunetto Latini (Trésor, I 168). 71 la parte di gran lunga maggiore, la massima parte. 72 risistemata: con la solita forma abbreviata del participio forte: cfr. VI 4,6 n. 73 ognuno: e poiché vale tutti, era corrente accordarlo col plurale. Letteratura italiana Einaudi 900 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 31 32 33 34 35 penna. Frate Cipolla, avendo ben desinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la moltitudine grande esser venuta di contadini per dovere la penna vedere, mandò74 a Guccio Imbratta che lassù con le campanelle75 venisse e recasse le sua bisacce. Il quale, poi che con fatica dalla cucina e dalla Nuta si fu divelto, con le cose addimandate con fatica lassù n’andò: dove ansando giunto, per ciò che il ber dell’acqua gli avea molto fatto crescere il corpo, per comandamento di frate Cipolla andatone in su la porta della chiesa, forte incominciò le campanelle a sonare. Dove, poi che tutto il popolo fu ragunato, frate Cipolla, senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse stata mossa, cominciò la sua predica, e in acconcio de’ fatti suoi76 disse molte parole; e dovendo venire al mostrar della penna dell’agnol Gabriello, fatta prima con grande solennità la confessione77, fece accender due torchi78, e soavemente79 sviluppando il zendado, avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la cassetta ne trasse. E dette primieramente alcune parolette a laude e a commendazione dell’agnolo Gabriello e della sua reliquia, la cassetta aperse. La quale come piena di carboni vide, non sospicò80 che ciò che Guccio Balena gli avesse fatto, per ciò che nol conosceva da tanto81, né il maladisse del male aver guardato che altri ciò non facesse, ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la guardia delle sue cose aveva commessa, conoscendol, come faceva, 74 mandò a dire, comandò: V 6,4 I. Si suonavano all’esposizione delle reliquie, secondo le abitudini degli indulgenzieri fissate anche nel già citato passo di Chaucer. 76 secondo richiedeva il caso, traendo profitto per il suo caso: I 7,11 n. 77 recitato ... il confiteor: cfr. VII 5,36 n. 78 Erano grossi ceri: cfr. I concl., 22 n.; II concl., 16. 79 delicatamente, adagio adagio: VI 2,28 n. 80 sospettò: IV 3,29 n. 75 Letteratura italiana Einaudi 901 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI negligente, disubidente, trascurato e smemorato82. Ma non per tanto, senza mutar colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì che da tutti fu udito: «O Idio, lodata sia sempre la tua potenzia!» Poi richiusa la cassetta e al popolo rivolto disse: «Si37 gnori e donne, voi dovete sapere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole83, e fummi commesso con espresso comandamento che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana84, li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto più utili sono a al38 trui che a noi. Per la qual cosa messom’io cammino, di Vinegia partendomi e andandomene per lo Borgo de’ Greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e 36 81 capace di tanto: Proemio, 3 n. Ripresa voluta dal par. 17. dove si vede il sole, cioè allude a un luogo qualsiasi: ma il tono enfatico della frase fa cadere facilmente, come vuole Frate Cipolla, nell’equivoco di intendere dove sorge il sole, cioè in Oriente. È il primo tocco o meglio, l’apertura del grande discorso tutto appuntato e modulato su un linguaggio prestigioso e funambolesco, caricaturale e grottesco, anfibologico e antifrastico; e in questa pazza girandola semantica e oratoria le cose più semplici suonano meravigliose e straordinarie. Così per es. le determinazioni geografiche che si riferiscono in gran parte a Firenze attraversata da est a ovest: P o r c e l l a n a era via e spedale presso il già ricordato San Paolino, V i n e g i a e B o r g o d e i G r e c i sono contrade fra Piazza della Signoria e Santa Croce, G a r b o era l’attuale via Condotta, B a l d a c c a una strada presso Orsanmichele (i due nomi fanno pensare a luoghi lontani ma reali: il reame del Garbo della II 7, e la città di Baldack in Arabia, o quella di Bagdad), P a r i o n e è la via da Santa Trinita alla Carraia, S a r d i g n a una piaggia deserta fuori San Frediano, S a n G i o r g i o contrada presso la Dogana e anche località Oltrarno (oltre che il Bosforo, come si soleva indicare con b r a c c i o d i S a n G i o r g i o ). Cfr. anche in generale G. HERCZEG, I cosiddetti ‘nomi parlanti’ cit.; PASTORE STOCCHI, art. cit. 84 A parte la determinazione topografica di cui sopra, la frase può alludere furbescamente a Guccio forse chiamato anche, come abbiamo detto, Porcellana. 82 83 Letteratura italiana Einaudi 902 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto per venni in Sardigna. Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi85 da me divisando86? Io capitai, passato il Braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli87; e di quindi pervenni in terra di Menzogna88, dove molti de’ nostri frati e d’altre religioni89 trovai assai, li quali tutti il disagio andavan per l’amor di Dio schifando, poco dell’altrui fatiche curandosi, dove la loro utilità vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo che senza conio90 per 40 quei paesi: e quindi passai in terra d’Abruzzi91, dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli su pe’ monti92, rive39 85 cercati, visitati: uno dei frequenti participi accorciati o aggettivi verbali per cui cfr. II 7,89 n. (e qui a par. 52 tocco). 86 indicando, descrivendo: I 7,27 n. E per la struttura della interrogazione retorica cfr. I 1,15 n. 87 Cioè nei paesi dei truffatori e dei beffatori o dei buffoni: il Petronio ricorda espressioni simili del Dittamondo, II 20 e specie del Sacchetti, Rime, CCLXVI. 88 Il senso ironico e satirico di questo paese è reso evidente dalle righe seguenti: «pare una regione per la somiglianza con Borgogna e la medievale Sansogna» (Zingarelli). 89 ordini religiosi. 90 Proprio parlando dei frati di sant’Antonio e delle loro grossolane mistificazioni Dante aveva scritto nel già citato Par., XXIX 124 sgg.: «Di questo ingrassa il porco sant’Antonio, | E altri assai che sono ancor più porci, | Pagando di moneta sanza conio», cioè di false indulgenze, mentre qui si allude probabilmente, in senso più generico, a chiacchiere; e cfr. Concl., 22 ecc. 91 Regione nominata anche nella VIII 3,9 sgg. a indicare lontananza favolosa e proprio, come in questo passo, accanto alla “terra dei baschi”, qui equivocamente ridotti a b a c h i (41: non sembra possibile pensare a Baschi, il borgo medievale in provincia di Terni): e cfr. anche Guinizzelli, Chi vedesse a Lucia, v. 3. 92 Probabilmente la frase ha valore equivoco sodomitico (cfr. V 10,9 n.); come la seguente i l p a n n e l l e m a z z e : cfr. G. A. LEVI, Sconcezze quattrocentesche nel Trecento, in “La Nuova Italia”, IV, 1933: e per l’uso di questi viaggi e di questa topografico equivoca, testimoniata ancora nel Machiavelli, cfr. D. GUERRI, Da «gagno» d’Alighiero a Fra Timoteo, ivi, II, 1931. Letteratura italiana Einaudi 903 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI stendo i porci delle lor busecchie medesime93; e poco 42 più là trovai gente che portano il pan nelle mazze e ‘l vin nelle sacca94: da’ quali alle montagne de’ bachi pervenni, dove tutte le acque corrono alla ’ngiù. E in brieve tanto andai adentro, che io pervenni mei95 infino in India Pastinaca96, là dove io vi giuro, per l’abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati97, cosa incredibile a chi non gli avesse veduti; ma di ciò non mi lasci mentire Maso del Saggio98, il quale gran mercatante io trovai là, che schiacciava noci e vendeva gusci a rita43 glio99. Ma non potendo quello che io andava cercando trovare, perciò che da indi in là si va per acqua, indietro tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove l’anno 41 93 Cioè facendo i salami e le salsicce. Cioè le ciambelle infilate su bastoni e il vino negli otri: ma forse anche qui è allusione sessuale come vuole il Levi: e cfr. D. GUERRI, La corrente popolare nel Rinascimento, Firenze 931, pp. 37 e 130. 95 meglio, quasi a rafforzare i n f i n o e a dire addirittura, proprio fino o anche oltre che fino .. Per la frequenza di questa forma accorciata (da cui poi me’) cfr. VII 10,20 n.; Cino, S’io ismagato sono, V. 32; Buonagiunta, Avegna che partenza; Testi fiorentini, p. 68 e Bembo, Prose, pp. 166 sgg. 96 Pastinaca è, com’è noto, una radice dolciastra: forse è usata qui, come apposizione di India, per alludere alle spezie e ai dolciumi d’Oriente (Segre) o più probabilmente quasi a dire sciocchezza, fandonia, proprio come si usa con tale senso “carota” (la stessa burlesca designazione geografica è nel Pataffio, III 11). Questa frase e la seguente (42-43) possono forse, con allusività caricaturale, avvicinare Fra Cipolla e il suo favoloso viaggio a Alessandro Magno e alla sua vittoriosa marcia arrestatasi proprio in India di fronte all’“acqua” (nello Zibaldone Laurenziano appare proprio l’apocrifa Epistola Alexandri de situ et mirabilibus Indie: Cfr. PASTORE STOCCHI, art. cit.). 97 Equivoco tra p e n n a t i coltellacci per potare e p e n n a t i o pennuti, cioè gli uccelli. 98 Famoso burlone per cui cfr. VIII 3 e 4 e nn. 99 al minuto: cfr. Statuto Arte Calimala (T.): «vendita o compera di panni a ritaglio». 94 Letteratura italiana Einaudi 904 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI di state vi vale il pan freddo quattro denari, e il caldo100 v’è per niente. E quivi trovai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace101, degnissimo patriarca di 44 Ierusalem. Il quale, per reverenzia dell’abito che io ho sempre portato del baron messer santo Antonio, volle che io vedessi tutte le sante reliquie le quali egli appresso di sé aveva; e furon tante che, se io ve le volessi tutte contare, io non ne verrei a capo in parecchie miglia, ma pure, per non lasciarvi sconsolate102, ve ne dirò alquan45 te103. Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito Santo così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto del serafino che apparve a san Francesco, e una dell’unghie de’ gherubini, e una delle coste del Verbum-caro-fattialle-finestre 104 e de’ vestimenti della santa Fé catolica105, e alquanti de’ raggi della stella che apparve a’ tre Magi in oriente e una ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavole106, e la mascella 100 Altra anfibologia: tion, corre sembra, il pari caldo, ma il caldo che l’estate non costa nulla. 101 Letteralmente non mi biasimate per favore. «Pare riduzione del fr. Nemeblasmez Sevosplait (in forma antica), perché blasmete è francese e fa pensare alla rima; e se voi piace è francese: detto in questa lingua meno avrebbe dato sospetto agli uditori» (Zingarelli). Il nome è formato su quelli dei personaggi allegorici per es. nel Roman de la Rose, nel Fiore, nel Tesoretto ecc. 102 scontente, deluse: è usato il femminile di cortesia, come spesso quando ci si rivolge a un pubblico di uomini e di donne (cfr. III intr., 4 n.). 103 Sulla serie di reliquie – tutte di esseri incorporei – buffonescamente ricordate in seguito, si possono vedere le citate pagine del Bottari e del Manni: e sulla robusta e corposa fede e sete di reliquie nel Medioevo, l’op. cit. del Saintyves e J. HUIZINGA, Autunno del Medioevo, Firenze 1944, pp. 226 sgg.; P. DELEHAYE, Les légendes bagiograpbiques, Bruxelles 19554. 104 Storpiatura buffonesca dalla frase “«Verbum caro factum est» (Giov. I,14), ripetuta anche nell’Angelus, e cui è aggiunto quel alle finestre per confondere e stordire gli ascoltatori. 105 Personificata corposamente in donna che veste panni. 106 Forma corrente (Rohlfs, 352). Letteratura italiana Einaudi 905 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 46 della Morte di san Lazzero107 e altre. E per ciò che io liberamente gli feci copia delle piagge di Monte Morello in volgare e d’alquanti capitoli del Caprezio108, li quali egli lungamente era andati cercando, mi fece egli parte47 fice109 delle sue sante reliquie: e donommi uno de’ denti della santa Croce110 e in una ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone e la penna dell’agnol Gabriello, della quale già detto v’ho, e l’un de’ zoccoli di san Gherardo da Villamagna111 (il quale io, non ha molto, a Firenze donai a Gherardo di Bonsi112, il quale in lui ha grandissima divozione) e die107 È forse la più fantastica e surreale di queste reliquie: cioè la mascella della Morte (immaginata, secondo le figurazioni correnti, come uno scheletro femminile) che colpì Lazzaro, poi resuscitato da Gesù. Ma cfr. DELEHAYF, op. cit., pp. 40 sgg. 108 Monte Morello è montagna a nord di Firenze e Caprezio è nome inventato che allude anch’esso alla sodomia: si tratta di linguaggio e metafore gergali sessuali (così Monte Nero: VI intr., 8 n.; G. A. LEVI, art. cit.; G. Bruno, Candelaio, Bari 1927, p. 142 e glossario; M. Franco, Sonetti, s. I., 1759, p. 17: «lascia i capretti e piglia delle lepri»; Pistoia, Sonetti, Napoli 1908, p. 357: «questi asini vestiti | Che disprezzali la carne della vacca | Per tor alle caprette i lor mariti»). Naturalmente g l i f e c i c o p i a lascia a bella posta equivoca l’interpretazione fra donare e copiare (come sarebbe necessario intendere accettando le allusioni di Frate Cipolla a Monte Morello e Caprezio come a libri; «far copia di sé» vale anche, suggerisce il Segre, darsi a godere carnalmente): per p i a g g e pendii cfr. VI concl., 21 n.; Inf., I 29, II 62 ecc. 109 partecipe: III 1,33 n. 110 Frequenti erano reliquie di denti, ma ovviamente grottesco riferirli alla Croce, con evidente equivoco forse sulle “braccia” della croce. 111 San Gherardo di Villamagna (1174-1267) fu dei più antichi francescani, forse accolto direttamente da san Francesco nell’Ordine: era rappresentato, per es. in Santa Croce, con gli zoccoli. Anche il Sacchetti, CI: «magrissimo e pallido e andava onesto, che parea San Gherardo da Villamagna» (cfr. anche Lettere, p. 101). 112 Gherardo di Bonsi era uno dei più autorevoli membri dell’Arte della Lana, in rapporto d’affari coi Sassetti (Statuto dell’Arte della Lana, Firenze 1940, pp. 199 sgg.: qui e nelle Matricole dell’Arte è nominato tra il 1317 e il 1332). Fu priore nel 1317 Letteratura italiana Einaudi 906 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI demi de’ carboni, co’ quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le quali cose io tutte di qua113 con 48 meco divotamente le recai, e holle tutte. È il vero che il mio maggiore non ha mai sofferto che io l’abbia mostrate114 infino a tanto che certificato non s’è se desse sono o no115; ma ora che per certi miracoli fatti da esse e per lettere ricevute dal Patriarca fatto n’è certo, m’ha conceduta licenzia che io le mostri; ma io, temendo di fi49 darle altrui, sempre le porto meco. Vera cosa è che io porto la penna dell’agnol Gabriello, acciò che non si guasti, in una cassetta e i carboni co’ quali fu arrostito san Lorenzo in un’altra; le quali son sì simiglianti l’una all’altra, che spesse volte mi vien presa l’una per l’altra, e al presente m’è avvenuto; per ciò che, credendomi io qui avere arrecata la cassetta dove era la penna, io ho 50 arrecata quella dove sono i carboni. Il quale116 io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo che volontà sia stata di Dio e che Egli stesso la cassetta de’carboni ponesse nelle mie mani, ricordandom’io pur testé117 che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì118. (cod. Marucelliano C 45, c. I25); un suo figlio, Bianco, ebbe numerose e importanti cariche pubbliche (per es. più volte priore e nel 1359 Gonfaloniere di giustizia). Egli era devoto a san Gherardo, di cui portava il nome, tanto che fondò l’ospedale di San Gherardo in via San Gallo (Manni, p. 671); alla famiglia – che abitava lo stesso quartiere del B., Santo Spirito – appartenne il Beato Angelo Bonsi francescano (cod. Marucelliano cit.). 113 Cioè di qua dal mare, qui nei nostri paesi: cfr. X 9,76 n. 114 tollerato, permesso che le mostrassi, II 5,34 n.: «Si noti il perfettivo: analogamente gli attuali dialetti meridionali sostituiscono il piuccheperfetto all’imperfetto congiuntivo» (Contini). 115 se sono proprio esse (II 5,10 n.) o no, cioè se sono autentiche o no, oppure se esse esistono davvero; con nuova e voluta ambiguità. 116 pronome riferito a errore, o neutro col valore di il che, la qual cosa. 117 solo in questo momento, solo poco fa. 118 Si immagina dunque che l’episodio avvenga l’8 agosto. A proposito della nuova reliquia inventata da frate Cipolla va ricor- Letteratura italiana Einaudi 907 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI E per ciò, volendo Idio che io, col mostrarvi i carboni co’ quali esso fu arrostito, raccenda nelle vostre anime la divozione che in lui aver dovete, non la penna che io voleva, ma i benedetti carboni spenti dall’omor119 di 52 quel santissimo corpo mi fe’ pigliare. E per ciò, figliuoli benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente v’appresserete a vedergli. Ma prima voglio che voi sappiate che chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non si senta120». 53 E poi che così detto ebbe, cantando una laude di san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni; li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione reverentemente guardati, con grandissima calca tutti s’appressarono a frate Cipolla e, migliori offerte dando che usati non erano, che con essi gli doves54 se toccare il pregava ciascuno. Per la qual cosa frate Ci51 data l’enorme Popolarità che - nel Medioevo e anche nelle età seguenti, specialmente nelle province meridionali - godette la credenza nel potere taumaturgico di carboni trovati sotterra il 10 agosto: sarebbero quelli bruciati sotto la graticola del martire. Per questo vedi G. PANSA, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, Sulmona I924, I, pp. 277 sgg e anche J. G. FRAZER, The golden bough, XI 58. 119 umore, cioè grasso liquefatto o sangue. 120 Un’ultima frase dal suono equivocamente meraviglioso (cioè: senza che egli non lo senta, non se ne accorga). Lo Zingarelli e altri immaginano che Frate Cipolla mormori questa, e altre frasi del suo discorso, a bassa voce, come divertendosi egli stesso a smentirsi innanzi ai suoi uditori: ma è ipotesi non necessaria e forse contraria alla prestigiosa costruzione del discorso affidata tutta al suono meraviglioso, e non al senso logico, delle parole. Le parodie di prediche, basate su allusioni e cenni equivoci, hanno un’ampia e ricca tradizione nella letteratura popolare medievale e moderna (Bolte-Polivka, III, pp. 116 sgg.; Thompson e Rotunda, K 1961.1.2.1; F. LEHR, Die Parodisliscbe Predigt, Marburg 1907; P. LEHMANN, Die Parodie in Mittelalter, München 1922). E qui sono forse prese di mira anche le relazioni di viaggi devoti, così amate in quel periodo, colle quali sono possibili precisi riscontri (cfr. PASTORE STOCCHI, art. cit.). Letteratura italiana Einaudi 908 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI polla, recatisi questi carboni in mano, sopra li lor camisciotti bianchi e sopra i farsetti121 e sopra li veli delle donne cominciò a fare le maggior croci che vi capevano, affermando che tanto quanto essi scemavano a far quelle croci, poi ricrescevano nella cassetta, sì come egli molte volte aveva provato. 55 E in cotal guisa, non senza sua grandissima utilità avendo tutti crociati i certaldesi, per presto accorgimento fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli la penna, avevan creduto schernire. Li quali stati alla sua predica e avendo udito il nuovo riparo122 preso da lui e quanto da lungi fatto si fosse123 e con che parole, ave56 van tanto riso che eran creduti smascellare124. E poi che partito si fu il vulgo, a lui andatisene, con la maggior festa del mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono, e appresso gli renderono la sua penna; la quale l’anno seguente gli valse non meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni. – 121 I c a m i s c i o n i «corrispondono alla blouse ancora tanto usata dai contadini e dagli operai francesi» (Merkel); per f a r s e t t i cfr. II 4,15 n. 122 rimedio: Amorosa Visione, XXXII 52. 123 come l’avesse presa alla lontana: «che è proprio l’accorgimento fondamentale del discorso» (Momigliano). 124 Cfr. II concl., 1 n. Letteratura italiana Einaudi 909 CONCLUSIONE 1 2 3 4 5 Questa novella porse igualmente a tutta la brigata grandissimo piacere e sollazzo, e molto per tutti fu riso di fra Cipolla e massimamente del suo pellegrinaggio e delle reliquie così da lui vedute come recate. La quale la reina sentendo esser finita, e similmente la sua signoria, levata in piè, la corona si trasse e ridendo la mise in capo a Dioneo, e disse: – Tempo è, Dioneo, che tu alquanto pruovi che carico sia l’aver donne a reggere e a guidare; sii adunque re, e sì fattamente ne reggi, che del tuo reggimento nella fine ci abbiamo a lodare. Dioneo, presa la corona, ridendo rispose: – Assai volte già ne potete aver veduti, io dico delli re da scacchi, troppo più cari1 che io non sono; e per certo, se voi m’ubbidiste come vero re si dee ubbidire, io vi farei goder di quello senza il che per certo niuna festa compiutamente è lieta. Ma lasciamo star queste parole: io reggerò come io saprò. – E fattosi, secondo il costume usato, venire il siniscalco, ciò che a fare avesse quanto durasse la sua signoria ordinatamente gl’impose, e appresso disse: – Valorose donne, in diverse maniere ci s’è della umana industria e de’ casi varii ragionato, tanto che, se donna2 Licisca non fosse poco avanti qui venuta, la quale con le sue parole m’ha trovata materia a’ futuri ragionamenti di domane, io dubito che io non avessi gran pezza penato a trovar tema da ragionare3. Ella, come voi udiste, disse che vicina non avea che pulcella4 1 molto più preziosi: detto scherzosamente, poiché gli scacchi potevano esser di materia preziosa, come l’avorio, e assai finemente lavorati. 2 Con rispetto caricaturato come nella VI 4,9 n. 3 dubito che avrei stentato, indugiato Molto tempo (II 5,28 n.) a trovare il tema intorno a cui novellare. 4 vergine: VI intr., 10; II 7,1 n. Letteratura italiana Einaudi 910 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI ne fosse andata a marito; e soggiunse che ben sapeva quante e quali beffe le maritate ancora facessero à mariti. Ma, lasciando stare la prima parte, che è opera fan6 ciullesca, reputo che la seconda debbia essere piacevole a ragionarne; e per ciò voglio che domane si dica, poi che donna Licisca data ce n’ha cagione, delle beffe le quali o per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatte a’ lor mariti, senza essersene essi o avveduti o no5. 7 Il ragionare di sì fatta materia pareva ad alcuna delle donne che male a loro si convenisse, e pregavanlo che mutasse la proposta6 già detta; alle quali il re rispose: – Donne, io conosco7 ciò che io ho imposto non meno 8 che facciate voi; e da imporlo non mi potè istorre8 quello che voi mi volete mostrare, pensando che il tempo è tale che, guardandosi9 e gli uomini e le donne d’operar 9 disonestamente, ogni ragionare è conceduto. Or non sapete voi che, per la perversità di questa stagione10, gli giudici hanno lasciati i tribunali; le leggi, così le divine come le umane, tacciono; e ampia licenzia per conser10 var la vita è conceduta a ciascuno11? Per che, se alquanto s’allarga12 la vostra onestà nel favellare, non per dovere con le opere mai alcuna cosa sconcia seguire, ma per dare diletto a voi e ad altrui, non veggo con che ar5 Cioè essendosene avveduti: VII intr., 1. Ma qui la prima o è spostata, con posticipazione tuttavia corrente (l’ordine più regolare sarebbe «o senza essersene essi avveduti o ...»); e probabilmente la negazione finale sommandosi colla precedente produce una doppia negativa, cioè una affermativa (o non senza che essi se ne avvedessero cioè essendosene essi avveduti). 6 il tema proposto: I concl., 10 n. 7 valuto, mi rendo conto di. 8 distogliere, allontanare. 9 quando, se, sempre che evitino. 10 di questo tempo, di questo periodo di peste: cfr. Intr., 49 n. 11 Vedi per questi fatti Intr., 19 sgg., nn. e specie 23 n. 12 si rilassa, allenta i freni: cfr. Intr., 24: tutta la frase accenna cioè al parlar largo di cui alla II 9,14 n. Letteratura italiana Einaudi 911 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 11 12 13 14 15 16 17 gomento da concedere13 vi possa nello avvenire riprendere alcuno. Oltre a questo la nostra brigata, dal primo dì infino a questa ora stata onestissima, per cosa che detta ci si sia, non mi pare che in atto alcuno si sia maculata, né si maculerà collo aiuto di Dio. Appresso, chi è colui che non conosca la vostra onestà? La quale non che i ragionamenti sollazzevoli, ma il terrore della morte non credo che potesse smagare14. E a dirvi il vero, chi sapesse che voi vi cessaste15 da queste ciance ragionare alcuna volta, forse suspicherebbe16 che voi in ciò non foste colpevoli, e per ciò ragionare non ne voleste. Senza che voi mi fareste un bello onore, essendo io stato ubbidente a tutti, e ora avendomi vostro re fatto, mi voleste17 la legge porre in mano, e di quello non dire che io avessi imposto. Lasciate adunque questa suspizione18 più atta à cattivi animi che a’ vostri19, e con la buona ventura pensi ciascuna di dirla bella. – Quando le donne ebbero udito questo, dissero che così fosse come gli piacesse; per che il re per infino all’ora della cena di fare il suo piacere diede licenzia a ciascuno. Era ancora il sol molto alto, per ciò che il ragionamento20 era stato brieve; per che, essendosi Dioneo con 13 da accogliere, plausibile. potrebbe sgomentare, disanimare (provenzalismo): Purg., X 106, XXVII 104; Par., III 36. E nota il congiuntivo imperfetto dove noi useremmo un condizionale: I I,51 n.; VII 9,24 n.; VIII 7,55 n.; Amorosa Visione, XXXVII 37. 15 vi asteneste: VI 7,12 n.: uno dei soliti riflessivi con valore attivo: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 140. 16 sospetterebbe. 17 «La protasi del periodo ipotetico, invece di essere introdotta con la subordinante se, è coordinata all’apodosi (mi fareste) con la congiunzione e» (Petronio). 18 questo sospetto, questo falso scrupolo. 19 La signorile esortazione finale si compone nei ritmi di due endecasillabi di seguito. 20 il novellare: la VI, difatti, è la giornata più breve. 14 Letteratura italiana Einaudi 912 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI gli altri giovani messo a giucare a tavole21, Elissa, chiamate l’altre donne da una parte, disse: – Poi che22 noi fummo qui, ho io disiderato di menarvi in parte assai vicina di questo luogo, dove io non credo che mai fosse alcuna di voi, e chiamavisi23 la Valle delle Donne24, né ancora vidi tempo da potervi quivi menare, se non oggi, sì è alto ancora il sole; e per ciò, se di venirvi vi piace, io non dubito punto che, quando vi sarete, non siate contentissime d’esservi state. – 19 Le donne risposono che erano apparecchiate; e chiamata una delle lor fanti, senza farne alcuna cosa sentire a’ giovani, si misero in via: né guari più d’un miglio furono andate, che alla Valle delle Donne pervennero. Dentro alla quale per una via assai stretta, dall’una delle parti della quale correva un chiarissimo fiumicello, entrarono, e viderla tanto bella e tanto dilettevole, e spezialmente in quel tempo che era il caldo 20 grande, quanto più si potesse divisare25. E secondo che alcuna di loro poi mi ridisse, il piano che nella valle era, 18 21 Cfr. III intr., 15 n. Dacché, Dal giorno che. 23 e quel luogo si chiama: col solito uso di un avverbio di luogo per un sostantivo: III intr., 9 n.; e IX 9,21 n.: «qui si chiama il Ponte all’Oca». 24 Secondo il Baldelli (Vita del B., Firenze I806, pp. LI sgg.) sarebbe la valletta presso la Villa Schifanoia (III intr., 2 n.), in cui si immaginava situato il laghetto in cui sarebbe stata sorpresa Mensola (Ninfale, 234 sgg.): valletta, circondata non di sei, ma di cinque montagnette sormontate ciascuna da un castello o villa (Claustro della Doccia, villa Minerbetti-Orlandini, villa Rassinesi, villa Micheli Gilles, Casa Nera delle Monache di Sant’Anna). Ma per queste ipotetiche identificazioni cfr. Intr., 90 n. e più avanti, 20 n. E per le filigrane tutte letterarie risalenti alla letteratura classica e medievale e per il topos del “locus amoenus” Cfr. E. G. KERN, The Gardens in the D., in “PMLA”, XLVI, I 95 I; e in generale M. BROWN, In the Valley of the Ladies, in “ItalIian Quarterly”, LXXII, 1975. 25 immaginare: I 7,27 n. 22 Letteratura italiana Einaudi 913 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI così era ritondo come se a sesta26 fosse stato fatto, quantunque artificio della natura e non manual27 paresse; ed era di giro poco più che un mezzo miglio, intorniato di sei montagnette28 di non troppa altezza, e in su la sommità di ciascuna si vedeva un palagio quasi in forma fatto d’un bel castelletto29. 21 Le piaggie30 delle quali montagnette così digradando giù verso ’l piano discendevano, come né teatri31 veggiamo dalla lor sommità i gradi infino all’infimo venire successivamente ordinati, sempre ristrignendo il 22 cerchio loro. Ed erano queste piaggie, quante alla plaga 26 se col compasso: Teseida, VII 109: “Nel mezzo aveva un pian ritondo a sesta”; Amorosa Visione, VI 67. Nota il settenario e l’endecasillabo di seguito (così ... fatto). 27 fatto dalla mano dell’uomo. 28 Altri due endecasillabi di seguito. 29 Contro le suggestioni realistiche sta l’anticipazione precisa di questo paesaggio (e anche della seguente scena del bagno) nella Caccia: «In una valle non molto spaziosa, | Di quattro montagnette circuita, | Di verdi erbette e di fiori copiosa, | Nel mezzo della qual così fiorita, | Una fontana chiara, bella e grande, | Abbondevole d’acqua, v’era sita, | E l’acqua che superflua si spande | Un rivo fa che tutte l’erbe bagna, | Poi n’esce fuor da una delle bande: | D’albori è piena ciascuna montagna, | Di frondi folti si ch’a pena il sole | Tra essi può passar nella campagna ... | Quivi Diana, che ’1 tiepido foco | Ne casti petti tien, ricolse quelle Che invitate furono al suo gioco. | Poi comandò che esse entrasser nelle Chiarissime onde e de’ freschi liquori | Lavando sé si rifacesser belle» (II 1 sgg.: e cfr. per il rapporto fra le due descrizioni: BRANCA, Tradizione delle opere di G. B., pp. 130 sgg.). E per paesaggi simili cfr. anche Comedia, XXVI 9 sgg.; Amorosa Visione, XL, XLIX; Ninfale, 234 sgg.; oltre quelli del D. stesso. 30 pendii, pendici: VI 10,46 n. 31 anfiteatri: Teseída, VII 108 sgg.: «... Il teatro ritondo, che girava | Un miglio, che non era meno un dito ... | Nel mezzo aveva un pian ritondo a sesta ... | Dal quale scale in cerchio si moveno |E cre’ che in più di cinquecento giri | Infino all’alto del muro salieno, | Con gradi larghi, per petrina miri». Dopo quello iniziale (L e p i a g g e . . . m o n t a g n e t t e ) due endecasillabi di seguito (d i s c e n d e v a n o . . . g r a d i ). Letteratura italiana Einaudi 914 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 23 24 25 26 27 del mezzogiorno ne riguardavano32, tutte di vigne, d’ulivi, di mandorli, di ciriegi, di fichi e d’altre maniere assai d’alberi fruttiferi piene, senza spanna perdersene33. Quelle le quali il carro di tramontana34 guardava, tutte eran boschetti di querciuoli, di frassini e d’altri alberi verdissimi e ritti quanto più esser poteano. Il piano appresso35, senza aver più entrate che quella donde le donne venute v’erano, era pieno d’abeti, di cipressi, d’allori e d’alcuni pini sì ben composti e sì bene ordinati, come se qualunque è di ciò il migliore artefice gli avesse piantati; e fra essi poco sole o niente, allora che egli era alto, entrava infino al suolo, il quale era tutto un prato d’erba minutissima e piena di fiori porporini e d’altri. E oltre a questo, quel che non meno che altro di diletto porgeva, era un fiumicello, il qual d’una delle valli, che due di quelle montagnette dividea, cadeva giù per balzi di pietra viva36, e cadendo faceva un romore ad udire assai dilettevole, e sprizzando pareva da lungi ariento vivo37 che d’alcuna cosa premuta38 minutamente sprizzasse; e come giù al piccol pian pervenia così quivi in un bel canaletto raccolta39 infino al mezzo del piano velocissima discorreva, e ivi faceva un picciol laghetto quale talvolta per modo di vivaio fanno né lor giardini i cittadini che di ciò hanno destro40. E era que32 tutte quelle che erano esposte in direzione del, verso il mezzogiorno. Piaga è propriamente regione celeste, come nella Divina Commedia (per es. Par., XIII 4, XXXI 31, e specie XXIII 11 sg.: «rivolta inver’ la plaga | Sotto la quale il sol mostra men fretta»). 33 senza che ne restasse incolta una spanna, un palmo. 34 Cioè l’Orsa minore, e quindi il nord. 35 che seguiva. 36 Cfr. I concl., 15 n. 37 mercurio. 38 Par., XII 99: «Quasi torrente ch’alta vena prema». 39 Esempio chiaro di sillessi, in cui raccolta si accorda a acqua sottintesa in fiumicello e in tutta la frase precedente: Intr., 26 n. 40 comodità, opportunità: IV 5,8 n. E per queste abitudini signorili cfr. X 6. Letteratura italiana Einaudi 915 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 28 29 30 31 sto laghetto non più profondo che sia una statura d’uomo infino al petto lunga; e senza avere in sé mistura alcuna41, chiarissimo il suo fondo mostrava esser duna minutissima ghiaia, la qual tutta, chi altro non avesse avuto a fare, avrebbe, volendo, potuta annoverare42; né solamente nell’acqua riguardando vi si vedeva il fondo, ma tanto pesce in qua e in là andar discorrendo43, che oltre al diletto era una maraviglia; né da altra ripa era chiuso che dal suolo del prato, tanto d’intorno a quel più bello, quanto più dello umido sentiva di quello. L’acqua, la quale alla sua capacità soprabbondava44, un altro canaletto riceveva, per lo qual fuori del valloncello uscendo alle parti più basse sen correva. In questo adunque venute le giovani donne, poi che per tutto riguardato ebbero e molto commendato il luogo, essendo il caldo grande e vedendosi il pelaghetto chiaro davanti e senza alcun sospetto d’esser vedute, diliberaron di volersi bagnare. E comandato alla lor fante che sopra la via per la quale quivi s’entrava dimorasse, e guardasse se alcun venisse, e loro il facesse sentire tutte e sette si spogliarono ed entrarono in esso, il quale non altrimenti li lor corpi candidi nascondeva, che farebbe una vermiglia rosa un sottil vetro45. Le quali essendo in 41 Purg., XXVIII 28 sgg.: «Tutte l’acque che son di qua più monde, | Parrieno avere in sé mistura alcuna | Verso di quella che nulla nasconde ...» E nota i due endecasillabi di seguito (e s e n z a . . . m o s t r a v a ): Cfr. Comedia, XXXLI 45 e all’origine Ovidio, Met., III 407 sgg. 42 numerare, contare: I 1,55 n. 43 scorrazzando: Intr., 57 n.: e per l’uso di a n d a r col gerundio: V 3,9 e 12 n. 44 l’acqua che traboccava: è complemento oggetto del seguente ricevea. 45 La fascinosa rappresentazione di queste figure femminili al bagno (conclusa con due endecasillabi, gli ultimi di quelli che ingemmano questa descrizione) sembra il punto di arrivo di figurazioni che, sollecitate da una lunga tradizione classica, avevano insistito nella fantasia del giovane B. (Caccia, II; Rime, I; Comedia, III Letteratura italiana Einaudi 916 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 32 33 34 35 36 quello, né per ciò niuna turbazion d’acqua nascendone, cominciarono come potevano ad andare in qua in là di dietro à pesci, i quali male avevan dove nascondersi, e a volerne con esso le mani pigliare 46. E poi che in così fatta festa, avendone presi alcuni, dimorate furono alquanto, uscite di quello, si rivestirono, e senza poter più commendare il luogo che commendato l’avessero, parendo lor tempo da dover tornar verso casa, con soave47 passo, molto della bellezza del luogo parlando, in cammino si misero. E al palagio giunte ad assai buona ora, ancora quivi trovarono i giovani giucando48 dove lasciati gli aveano. Alli quali Pampinea ridendo disse: – Oggi vi pure abbiam49 noi ingannati. – – E come? – disse Dioneo – cominciate voi prima a far de’ fatti che a dir delle parole50? – Disse Pampinea: – Signor nostro, sì –, e distesamente gli narrò donde venivano, e come era fatto il luogo, e quanto di quivi distante, e ciò che fatto avevano. Il re, udendo contare la bellezza del luogo, disidero13 sgg., IV, XXVI; Ninfale, 234 sgg.) e si erano già stilizzate in quella di Efigenia (V I,7 sgg.). Evidenti le suggestioni classiche: cfr. per es. Ovidio, Met., IV 354 sgg. (e, benché non conosciuto direttamente al tempo del D., Marziale, IV 2.2 e VIII 68). Ed è quasi inutile ricordare che l’armonia fra bella natura e bella creatura è uno dei motivi canonici nella letteratura medievale: anzi una devise secondo Chrétien (Perceval, 1805). Cfr. V. BRANCA, B. medievale, pp. 117 sgg. 46 proprio con le mani: e per esso usato invariato cfr. II 5,1.; VII 1,30 n. Anche questa leggiadra scena di donne pescatrici aveva un diretto antecedente nella Caccia (VIII, XIV, XV); sarà idealmente ripresa anche nella scena centrale della X 6. 47 lento: V intr. 2 n. 48 che giocavano: gerundio participiale; e per la forma cfr. Intr., III n. 49 vi abbiamo pure: iperbato assai comune nella sintassi di quel tempo. 50 Dioneo allude al tema proposto per la giornata seguente, che riguardava gli inganni delle donne. Letteratura italiana Einaudi 917 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 37 38 39 40 41 42 so di vederlo, prestamente fece comandar la cena; la qual poi che con assai piacer di tutti fu fornita51, li tre giovani colli lor famigliari, lasciate le donne, se n’andarono a questa valle, e ogni cosa considerata, non essendovene alcuno di loro stato mai più52, quella per una delle belle cose del mondo lodarono. E poi che bagnati si furono e rivestiti, per ciò che troppo tardi si faceva, se ne tornarono a casa, dove trovarono le donne che facevano una carola ad un verso53 che facea la Fiammetta, e con loro, fornita la carola, entrati in ragionamenti della Valle delle Donne, assai di bene e di lode ne dissero. Per la qual cosa il re, fattosi venire il siniscalco, gli comandò che la seguente mattina là facesse che fosse apparecchiato, e portatovi alcun letto54, se alcun volesse o dormire o giacersi di meriggiana55. Appresso questo, fatto venire de’ lumi e vino e confetti, e alquanto riconfortatisi, comandò che ogn’uomo fosse in sul ballare56; e avendo per suo volere Panfilo una danza presa57, il re rivoltatosi verso Elissa le disse piacevolmente: – Bella giovane, tu mi facesti oggi onore della corona, e io il voglio questa sera a te fare della canzone; e per ciò una fa che ne dichi58 qual più ti piace. – A cui Elissa sorridendo rispose che volentieri, e con soave voce cominciò in cotal guisa: Amor, s’io posso uscir de’tuoi artigli, appena creder posso che alcun altro uncin più mai mi pigli59. 51 compiuta, finita: III 9,19 n. mai prima d’allora: cfr. I 7,27. 53 intrecciavano una danza su un motivo, su un’aria. 54 lettuccio, divano: II 8,10 n. 55 nell’ora del meriggio, meridiana: i Vocabolari ne ignorano altri esempi. 56 attendesse a ballare; VII concl., 8: «furono in sul danzare». 58 Per queste forme del congiuntivo cfr. Intr., 81 n. 59 Dante, Rime, CXIV 6: «Che pigliar vi lasciate a ogni uncino»”; Inf., XXI 73; «Innanzi che l’uncin vostro mi pigli». 52 Letteratura italiana Einaudi 918 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 43 44 45 Io entrai giovinetta en la60 tua guerra, quella credendo somma e dolce pace, e ciascuna mia arme posi in terra, come sicuro chi si fida face61 tu, disleal tiranno, aspro e rapace, tosto mi fosti addosso con le tue armi e co’ crude’ roncigli62. Poi, circundata delle tue catene, a quel, che nacque per la morte mia63, piena d’amare lagrime e di pene presa mi desti, e hammi in sua balia; ed è sì cruda la sua signoria, che giammai non l’ha mosso sospir né pianto alcun che m’assottigli64. Li prieghi miei tutti glien porta il vento65, nullo n’ascolta né ne vuole udire; per che ogn’ora cresce ’l mio tormento, onde ‘l viver m’è noia66, né so morire. Deh dolgati, signor, del mio languire, 60 nella. Per guerra cfr. Dante, Rime, L 62, C 62; Petrarca, passim. 61 come la chi assicurato, ricevuta una garanzia, si fida. Cfr. (Ovidio, Am., I II 2I-22; Petrarca, III 5-7. Face nel B. è quasi sempre espediente in rima (Teseida, p. CXXXIX). 62 uncini e quindi qui artigli: Inf., XXI 71, XXII 7I 63 a colui che nacque per condurmi a morte: Dante, Rime, CXVI 82. 64 mi consumi, mi faccia dimagrire: Fiammetta, V 23,18: “E quale infermità mai alcuno assottiglia, come fa il troppo fervente amore?” 65 Virgilio, Aen, IX 312-13; Ovidio, Am, I VI 41-42; Petrarca, CCLXVII 14: “Ma ‘l vento ne portava le parole”. 66 Ha valore monosillabico, secondo l’uso della lirica siciliana, ancora nel B. (Teseida, p. CLVI). Il verso – che ha lo stesso tono di un sospiro petrarchesco (CCCXXII 12: «Noia m’è ’l viver») – ripete la ballata LXXVI: «Non - so qual i’ mi voglia | O viver o morir, per minor doglia» (e cfr. son. XXXV). Letteratura italiana Einaudi 919 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VI 46 fa tu quel ch’io non posso; dalmi legato dentro à tuoi vincigli67. Se questo far non vuogli, almeno sciogli, i legami annodati da speranza68. Deh! io ti priego, signor, che tu vogli; ché, se tu ‘l fai, ancor porto fidanza di tornar bella qual fu mia usanza69, e il dolor rimosso, di bianchi fiori ornarmi e di vermigli70. Poi che con un sospiro assai pietoso Elissa ebbe alla sua canzon fatta fine, ancor che tutti si maravigliasser di 47 tali parole, niuno per ciò ve n’ebbe che potesse avvisare71 chi di così cantar le fosse stato cagione. Ma il re, che in buona tempera72 era, fatto chiamar Tindaro, 48 gli comandò che fuor traesse la sua cornamusa, al suono della quale esso fece fare molte danze 73. Ma, essendo già buona parte di notte passata, a ciascun disse ch’andasse a dormire. 67 vincoli, catene (da vincio). Cioè: toglimi almeno ogni speranza nel suo amore. Ho fiducia (IV 6,40 n.) di ritornare bella (Purg., XVI 32) come solevo essere. 70 Cioè forse di fiori d’arancio, di gigli e di rose, cioè di fiori nuziali. La ballata dolorosa ben si addice al profilo di Elissa e alla sua filigrana letteraria (Intr., 51 n.); e ripete situazioni e lamenti che risuonano – seppure in rapporto inverso – assidui nelle Rime del B. (per es. XXXI, LXX, LXXIV, LXXXIII). È, come la 1, costituita da una ripresa (ZyZ) che introduce quattro stanze (AB, AB; ByZ) colla stessa coppia di versi e di rime (yZ). 71 immaginare, indovinare, come più sopra divisare (19). 72 in buona disposizione, di buon umore: Purg., XV 103: «Risponder lei con viso temperato»; Sacchetti, VI: «... la disposizione de’ signori quando possono in buona tempera». 73 Cfr. VII concl., 8. 68 69 Letteratura italiana Einaudi 920 SETTIMA GIORNATA 1 Finisce la sesta giornata del Decameron: incomincia la Settima, nella quale, sotto il reggimento di Dioneo, si ragiona delle beffe, le quali o per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatte a’ suoi mariti, senza essersene avveduti o sì1. 2 Ogni stella era già delle parti d’oriente fuggita, se non quella sola, la qual noi chiamiamo Lucifero, che ancor luceva nella biancheggiante aurora, quando il siniscalco levatosi, con una gran salmeria2 n’andò nella Valle delle donne, per quivi disporre ogni cosa secondo l’ordine e il comandamento avuto dal suo signore. Appresso alla quale andata non stette guari a levarsi il re, il quale lo strepito de’ caricanti e delle bestie aveva desto, e levatosi fece le donne e’ giovani tutti parimente levare. Né ancora spuntavano li raggi del sole bene bene, quando tutti entrarono in cammino3; né era ancora lor paruto alcuna volta tanto gaiamente cantar gli usignuoli e gli altri uccelli quanto quella mattina pareva; da’ canti de’ quali accompagnati infino nella Valle delle donne n’andarono, dove da molti più4 ricevuti, parve loro che essi della lor venuta si rallegrassero. Quivi intorniando quella e riproveggendo tutta5 da 3 4 5 1 o essendosene avveduti: ma cfr. VI concl., 6 n. con molti bagagli: frase identica in circostanze simili nella III intr., 2. 3 Inf., II 142: «Intrai per lo cammino alto e silvestro»; e cfr. II 8,4 n.; IX 4,9 n. ecc. 4 Molti più uccelli. 5 percorrendo intorno intorno e riesaminando tutta quella [valle] minutamente. Per l’uso di i n t o r n i a r e cfr. la Bibbia volgare ecc., Bologna 1882, Gen., XLI 46: «ricercando e intorniando ogni regione» (= circuivit omnes regiones): di r i p r o v e g g i a r e o r i p r o v e d e r e è questo l’unico esempio citato del tempo. 2 Letteratura italiana Einaudi 921 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII capo, tanto parve loro più bella che il dì passato, quanto l’ora del dì era più alla bellezza di quella conforme. E poi che col buon vino e con confetti6 ebbero il digiun rotto acciò che di canto non fossero dagli uccelli avanzati7, cominciarono a cantare, e la valle insieme con essoloro8, sempre quelle medesime canzoni dicendo che essi dicevano; alle quali tutti gli uccelli, quasi non volessero 7 esser vinti, dolci e nuove note aggiugnevano. Ma poi che l’ora del mangiar fu venuta, messe le tavole sotto i vivaci albori9 e agli altri belli arbori vicine al10 bel laghetto, come al re piacque, così andarono a sedere, e mangiando, i pesci notar vedean per lo lago a 8 grandissime schiere; il che, come di riguardare, così talvolta dava cagione di ragionare. Ma poi che venuta fu la fine del desinare, e le vivande e le tavole furon rimosse, ancora più lieti che prima, cominciarono a cantare e do9 po questo a sonare e a carolare. Quindi, essendo in più luoghi per la piccola valle fatti letti, e tutti dal discreto siniscalco di sarge francesche11 e di capoletti12 intorniati13 e chiusi, con licenzia del re, a cui piacque, si potè andare a dormire; e chi dor10 mir non volle, degli altri lor diletti usati pigliar poteva a suo piacere. Ma, venuta già l’ora che tutti levati erano e 6 6 Cfr. I 10,14 n. vinti, superati. 8 Cioè la valle ripercoteva l’eco del canto dei giovani. 9 Dato l’aggettivo tradizionale e caratterizzante (cfr. Purg., XXIV 103) il B. deve indicare qui specificamente gli allori, contrapposti ai generici a l t r i b e l l i a r b o r i. 10 accanto al, lungo il: cfr. Amorosa Visione, XVIII 74 e XXVIII 53 B. 11 stoffe leggere dipinte di modello francese ( f r a n c e s c h e ) : cfr. V 4,26. 12 cortinaggi, drappi che si ponevano a capo del letto o alle pareti: X 10,52: «far porre capoletti e pancali per le sale». 13 circondati: e cfr. 5 n. 14 raccogliersi, recarsi: X 6,5 n. 7 Letteratura italiana Einaudi 922 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII tempo era da riducersi14 a novellare, come il re volle, non guari lontano al luogo dove mangiato aveano, fatti in su l’erba tappeti distendere e vicini al lago a seder postisi, comandò il re ad Emilia che cominciasse. La qual lietamente così cominciò a dir sorridendo. Letteratura italiana Einaudi 923 NOVELLA PRIMA 1 Gianni Lotteringhi ode di notte toccar l’uscio suo; desta la moglie, ed ella gli fa accredere1 che egli è la fantasima2; vanno a incantare3 con una orazione, e il picchiare si rimane4. 2 - Signor mio, a me sarebbe stato carissimo, quando stato fosse piacere a voi, che altra persona che io avesse a così bella materia, come è quella di che parlar dobbiamo, dato cominciamento; ma, poi che egli v’aggrada che io tutte l’altre assicuri5, e6 io il farò volentieri. E ingegnerommi, carissime donne, di dir cosa che vi possa essere utile nell’avvenire, per ciò che, se così son l’altre come io, tutte siamo paurose, e massimamente della fantasima 3 1 gli dà a intendere: a c c r e d e r e è forma composta del tipo di assapere, addomandare non rara negli scritti del tempo quasi sempre nella frase «fare accredere» (cfr. per es. IX 4,3 n.; Buti, comm. a Inf., XIII 1: «il fenno accredere all’imperatore»). 2 «... è uno animale a modo d’uno satiro, o come un gatto mammone che va la notte e fa quella molestia alle genti; e chi lo chiama fantasima ...» (Passavanti, Specchio, p. 399): cfr. per le varie immaginazioni M. P.GIARDINI, Tradizioni popolari nel «D.», Firenze 1965, pp. 22 sgg. Il termine in questa accezione era di genere femminile. 3 In senso assoluto: a fare incantesimi, esorcismi (cfr. Pulci, Morgante, XXIV 90). 4cessa: III 3, 19 n. Nessun vero antecedente di questa novella: Le revenant (Recueil général cit., VI, p. 138), fabliau citato dal Landau, è affatto diverso nello svolgimento e nello scioglimento; e ancor più lontano è un antico canto svedese, anch’esso citato dal Landau (A. A. AFZELIUS, Volkssagen und Volkslieder aus Schweden, Leipzig 1842, II, p. 279). Anzi, tutta la novella sembra appartenere - come varie della giornata precedente - all’aneddotica municipale fiorentina (cfr. 31 sgg. e nn.) contaminata con note della letteratura più popolare (Thompson, K 1546, 1961, V 66.1, X 441): Cfr. M. P. GIARDINI, op. cit., pp. 21 sgg. 5 incoraggi, rassicuri: Petrarca, CXXVIII 121. ebbene, ecco che: Il 8,6 i n. 6 ebbene, ecco che: II 8,61 n. Letteratura italiana Einaudi 924 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 4 (la quale sallo Iddio che io non so che cosa si sia né ancora alcuna trovai che ’l sapesse, come che tutte ne temiamo igualmente), a quella cacciar via, quando da voi venisse, notando bene7 la mia novella, potrete una santa e buona orazione e molto a ciò valevole apparare8. Egli fu già in Firenze9 nella contrada di San Brancazio10 uno stamaiuolo11, il qual fu chiamato Gianni Lotteringhi12, uomo più avventurato nella sua arte che savio in altre cose, per ciò che, tenendo egli del semplice 13, era molto spesso fatto capitano de’ laudesi14 di Santa Maria Novella, e aveva a ritenere la scuola loro15, e altri così fatti uficetti aveva assai sovente, di che egli da molto più si teneva: e ciò gli avveniva per ciò che egli molto 7 istando bene attente a .... se la terrete bene a mente (gerundio ipotetico): Inf., XV 99; Purg., XXIV 53. 8 valida, efficace (cfr. Filocolo, V 36,5) imparare (I 4,21 n.). 9 Uno dei modi più frequenti di dare inizio al racconto (I 2, 4, 6, 8, 10; II, 3, 5, 10 e così via). 10 Quartiere che prendeva nome dal convento francescano di San Pancrazio, sull’attuale via della Spada: proprio quello di un altro devoto e sempliciotto ingannato dalla moglie (III 4). 11 lavoratore o venditore di stame, cioè della parte più fine e resistente della lana (VIII 2,25 n.). 12 Vari Lotteringhi furono nel secolo XIV fattori per l’appunto dei Bardi (SAPORI, op. cit., pp. 448, 474, 487, 490, 499, 503); e furono in rapporti di affari, per compere e fitti, proprio colla Società delle Laudi di Santa Maria Novella. Ma non v’è ricordo di un Gianni, neppure nei libri della Compagnia della Vergine diretta dai Domenicani di Santa Maria Novella, di cui Gianni sarebbe stato «capitano» (sono andati distrutti però i volumi per gli anni 1340-70: cfr. per tutto R. TAUCCI, La compagnia maggiore di Santa Maria, in «Studi storici sull’ordine dei Servi di Maria», III, 1937; G. BILLANOVICH, Restauri cit., p. 117; e anche Delizie degli eruditi toscani, XVII, 18). Un Vanni di Ugo però figura alla fine del Duecento nella genealogia dei Lotteringhi della Stufa (cod. Passerini 8 della Bibl. Nazionale di Firenze, c. 50). 13 essendo egli di carattere bonario, credulone, sempliciotto: cfr. IV 2, 14 n. 14 superiore, priore degli iscritti alla Compagnia di cui sopra. 15 Cioè doveva badare che i loro esercizi procedessero bene, con disciplina. E cfr. per indicazioni su queste confraternita 33 n. Letteratura italiana Einaudi 925 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 5 6 spesso, sì come agiato uomo, dava di buone pietanze a’ frati16. Li quali, per ciò che qual calze e qual cappa e quale scapolare17 ne traevano spesso, gli insegnavano di buone orazioni e davangli il paternostro in volgare e la canzone di santo Alesso18 e il lamento di san Bernardo19 e la lauda di donna Matelda20 e cotali altri ciancioni21, li quali egli aveva molto cari, e tutti per la salute dell’anima sua se gli serbava molto diligentemente22. Ora aveva costui una bellissima donna e vaga per 16 «Un risciaquadenti pe’ frati» (M.). Cioè il cappuccio e la sua base di stoffa che ricade sul petto e sulle spalle: cfr. VII 3,26 n. 18 Poiché qui si accenna a testi volgari, si potrebbe pensare al ritmo di Sant’Alessio (cfr. Poeti del Duecento a cura di G. Contini, Milano 1960, I, pp. 15 sgg.): ma leggende e preghiere simili, specie sulle orme della Legenia Aurea (94) e delle Vite dei Santi Padri (Firenze 1735, p. 261 sgg.), erano assai diffuse (e cfr. anche Ubbie, ciancioni e ciarpe del secolo XIV a cura di G. Amati, Bologna 1866; V. DE BARTHOLOMAEIS Origini della poesia drammatica italiana, Bologna 1924, pp. 41 sgg., 216 sgg.; Prosatori minori del Trecento a cura di G. De Luca, Milano 1954, I, pp. 1141 sgg. 19 Con tutta probabilità si allude a qualcuna delle popolarissime Lamentationes attribuite a San Bernardo; più verosimilmente che alle laudi o ai sermoni, alla lamentazione «O bona gente» o al Pianto di san Bernardo «Salve Vergine preziosa». Cfr. per tutti questi testi F. MANCINI, Scritti filologici, Pisa, 1985, pp. 402 sg. 20 Evidentemente una lauda in onore di Mechtilde di Magdeburg, i cui rapimenti mistici e le cui rivelazioni proprio i Domenicani, cui apparteneva il convento di Santa Maria Novella, diffusero in Italia (J. ANCELET-HUSTACHE, Mecbtilde de Magdebourg, Paris, 1926). 21 Accrescitivo di ciance: e quindi cose da poco e sciocche, ciance grossolane. Non se ne citano altri esempi, ma era termine proprio per indicare certe filastrocche o canzoni o laudi popolari: cfr. Ubbie, ciancioni e ciarpe del secolo XIV cit. 22 Per i tratti fondamentali del borghese devoto, caricaturati dal B. in Gianni come già in Puccio (III 4), si può tener presente quanto ne dice realisticamente Fra Giordano da Pisa (cfr. C. DELCORNO, Giordano da Pisa e l’antica predicazione volgare, Firenze 1975, pp. 66 sgg. 17 Letteratura italiana Einaudi 926 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 7 moglie, la quale ebbe nome monna Tessa e fu figliuola di Mannuccio dalla Cuculia23, savia e avveduta molto24. La quale, conoscendo la semplicità del marito, essendo innamorata di Federigo di Neri Pegolotti25, il quale bello e fresco giovane era, ed egli di lei, ordinò con una sua fante che Federigo le venisse a parlare ad un luogo26 molto bello che il detto Gianni aveva in Camerata27, al quale ella si stava tutta la state28; e Gianni alcuna volta vi veniva la sera a cenare e ad albergo, e la mattina se ne tornava a bottega e talora a’ laudesi suoi. 23 Il Manni, da ricordi manoscritti – ora irreperibili – della nota famiglia Mannucci di San Frediano, riferisce notizie su una «Monna Tessa … figliuola di Mannuccio ... maritata a Neri Pegolotti nata l’anno 1307»; Guerri invece pensa che Tessa (diminutivo di Contessa, e nome assai comune in Toscana dopo Matilde di Canossa) sia eponimo di cattiva moglie, o più probabilmente nome equivoco, come potrebbe indicare la postilla del Mannelli (cfr. n. sg.) e la letteratura recenziore (D. GUERRI, Per la storia di Monna Tessa, in «La Nuova Italia», III, 1933; La corrente popolare cit., p. 142; ma contro tale ipotesi era l’attribuzione del nome alla brava moglie di Calandrino: VIII 3 e 6; IX 3). Cuculia era un canto proprio in San Frediano, così chiamato da un tabernacolo della Madonna con una cucula, Mannuccio è ipocoristico di Alamanno, Neri abbreviatura di Rinieri. 24 «Or così mi fa, Messer Giovanni, dimmi la prima lettera di capo» (M.). 25 Abbiamo già visto che, caso strano, un Neri Pegolotti figurerebbe marito proprio di una Tessa; e un Ser Riccho Pegolotti è tra gli ufficiali della Compagnia della Vergine nel 1324, e un Lotto di Ser Lippo Pegolotti pare nell’obituario di Santa Maria Novella nel 1340. (Delizie degli eruditi toscani, IX, p. 190; E. TREVES, L’opera di Nanni Pegolotti, Città di Castello, 1913, pp. 6 sgg.; G. BILLANOVICH, Restauri cit., p. 118). Può essere interessante ricordare che vari Pegolotti furono agenti e fattori proprio dei Bardi (il più autorevole e noto fu Francesco di Balduccio Pegolotti, autore della famosa Pratica di mercatura: A. EVANS, Francesco di Balduccio Pegolotti, Cambridge 1936): ebbero sepolture nei chiostri della chiesa del Carmine. 26 podere, casa di campagna: II 7,I7 n.; II 10,11 n. 27 Borgata sulle pendici meridionali del poggio di Fiesole (cfr. IX 5). 28 Secondo l’uso già notato altrove (V 9,10 n.). Letteratura italiana Einaudi 927 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII Federigo, che ciò senza modo disiderava, preso tempo29, un dì che imposto30 gli fu, in sul vespro se n’andò lassù, e non venendovi la sera Gianni, a grande agio e con molto piacere cenò e albergò con la donna; ed ella, standogli in braccio, la notte gl’insegnò da sei31 delle laude del suo marito. 9 Ma, non intendendo essa che questa fosse così l’ultima volta come stata era la prima, né Federigo altressì, acciò che ogni volta non convenisse che la fante avesse 10 ad andar per lui, ordinarono insieme a questo modo: che egli ognindì32, quando andasse o tornasse da un suo luogo che alquanto più su era, tenesse mente33 in una vigna la quale allato alla casa di lei era, ed egli vedrebbe un teschio d’asino in su un palo di quelli della vigna34, il quale quando col muso volto vedesse verso Firenze, sicuramente e senza alcun fallo la sera di notte35 se ne venisse a lei, e se non trovasse l’uscio aperto, pianamente picchiasse tre volte, ed ella gli aprirebbe; e quando vedesse il muso del teschio volto verso Fiesole, non vi ve8 29 scelta un’occasione, un momento favorevole: II 5,78 n. stabilito, fissato. 31 circa sei: II 7,7 n. E per l’accenno equivoco cfr. VII 3,40 n. 32 ogni dì: forma non rara specialmente nel parlato e in testi non dotti (forse incrocio di «ogni dì» con «di dì in dì»: cfr. A. SCHIAFFINI, Glossario a Testi fiorentini cit.): cfr. Testi fiorentini cit., p. 181; B. GIAMBONI, Trattato di virtù e vizi, Torino 1968, XIX 3; Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino cit., passim «ognendì» (cfr. Glossario). 33 fissasse l’attenzione, come «porre mente» (II 5,11 n.). 34 Questo strano espediente di Tessa riflette probabilmente l’uso antico, e particolarmente etrusco, di porre teschi d’asino nei campi a protezione e a propiziazione: anzi il cenno del B. si riferisce forse a usanze ancora vive localmente (cfr. M. MOSETTI, Una novella del B., in «Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane», XIII, 1938; G. VIDOSSI, Saggi e scritti minori di folklore, Torino 1960, pp. 290 sgg.; e anche S. DE BENEDETTI, L’orbo che ci vede, in Miscellanea Crescini, Cividale 1927; Thompson, F 874). 35 la sera quand’era buio. 30 Letteratura italiana Einaudi 928 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 11 12 13 14 15 16 nisse, per ciò che Gianni vi sarebbe. E in questa maniera faccendo, molte volte insieme si ritrovarono. Ma tra l’altre volte una avvenne che, dovendo Federigo cenar con monna Tessa, avendo ella fatti cuocere due grossi capponi, avvenne36 che Gianni, che venir non vi doveva, molto tardi vi venne; di che la donna fu molto dolente, ed egli ed ella cenarono37 un poco di carne salata che da parte aveva fatta lessare; e alla fante fece portare in una tovagliuola bianca i due capponi lessi e molte uova fresche e un fiasco di buon vino in un suo giardino, nel quale andar si potea senza andar per la casa, e dov’ella era usa di cenare con Federigo alcuna volta, e dissele che a piè d’un pesco, che era allato a un pratello, quelle cose ponesse. E tanto fu il cruccio che ella ebbe, che ella non si ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse che Federigo venisse, e dicessegli che Gianni v’era e che egli quelle cose dell’orto prendesse. Per che, andatisi ella e Gianni al letto, e similmente la fante, non stette guari che Federigo venne e toccò38 una volta pianamente la porta, la quale sì vicina alla camera era che Gianni incontanente il sentì, e la donna altressì; ma, acciò che Gianni nulla suspicar39 potesse di lei, di dormire fece sembiante. E stando un poco40, Federigo picchiò la seconda volta; di che Gianni maravigliandosi punzecchiò41 un poco la donna, e disse: «Tessa, odi tu quel ch’io? E’ pare che l’uscio nostro sia tocco». 36 Una delle riprese solite dopo vari incisi. Transitivo, alla latina, col valore di mangiarono per cena: come nel Velluti, Cronica, p. 203: «cenare una crostata d’anguille» (e p. 85); Pecorone, I 2: «cenarono un grosso e grasso cappone»: e Cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 39 sg. 38 picchiò, bussò. 39 sospettare: IV 3,29 n. 40 passato un po’ di tempo. 41 La chiamò toccandola colle dita quasi per destarla (Gigli). 37 Letteratura italiana Einaudi 929 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 18 19 20 21 22 23 La donna, che molto meglio di lui udito l’avea, fece 17 vista di svegliarsi, e disse: «Come di’? Eh?» «Dico,» disse Gianni «ch’e’ pare che l’uscio nostro sia tocco». Disse la donna: «Tocco? Ohimè, Gianni mio, or non sai tu quello ch’egli è? Egli è la fantasima42, della quale io ho avuta a queste notti la maggior paura che mai s’avesse, tale che, come io sentita l’ho, ho messo il capo sotto né mai ho avuto ardir di trarlo fuori sì43 è stato dì chiaro». Disse allora Gianni: «Va, donna, non aver paura, se ciò è, ché io dissi dianzi il Te lucis e la ’Ntemerata44 e tante altre buone45 orazioni, quando al letto ci andammo, e anche segnai il letto di canto in canto al nome del Patre, del Filio e dello Spirito Sancto, che temere non ci bisogna, ché ella non ci può, per potere ch’ella abbia, nuocere46». La donna, acciò che Federigo per avventura altro sospetto non prendesse e con lei si turbasse, diliberò del tutto di doversi levare e di fargli sentire che Gianni v’era, e disse al marito: «Bene sta, tu di’ tue parole tu47; io per me non mi terrò mai salva né sicura, se noi non la ’ncantiamo, poscia che tu ci se’». Disse Gianni: «O come s’incanta ella?» Disse la donna: «Ben la so io incantare; ché l’altrie- 42 Cfr. I n. fin che: II 2,14 n. L’inno di compieta (citato anche da Dante, Purg., VIII 13) in cui campeggia l’invocazione «procul recedant ... noctium phantasmata», e la popolare antifona O intemerata Virgo ( II 2,12 n.). 45 efficaci, come più sotto al 23. 46 Inf., VII 4 sgg.: «... non ti noccia | La tua paura: ché, poder ch’elli abbia, | Non ci torrà lo scender questa roccia». 47 Cfr. VI intr., 14 n. 43 44 Letteratura italiana Einaudi 930 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 24 25 26 27 ri48, quando io andai a Fiesole alla perdonanza49, una di quelle romite, che è, Gianni mio, pur la più santa cosa che Iddio tel dica per me, vedendomene così paurosa, m’insegnò una santa e buona orazione, e disse che provata l’avea più volte avanti che romita fosse, e sempre l’era giovato. Ma sallo Iddio che io non avrei mai avuto ardire d’andare sola a provarla; ma ora che tu ci se’, io voi50 che noi andiamo a incantarla». Gianni disse che molto gli piacea; e levatisi, se ne vennero amenduni pianamente all’uscio, al quale ancor di fuori Federigo, già sospettando, aspettava. E giunti quivi, disse la donna a Gianni: «Ora sputerai51, quando io il ti dirò». Disse Gianni: «Bene». E la donna cominciò l’orazione, e disse: «Fantasima, fantasima che di notte vai, a coda ritta ci venisti, a coda ritta te n’andrai; va nell’orto a piè del pesco grosso, troverai unto bisunto e cento cacherelli della gallina mia52; pon bocca al fiasco e vatti via, e non far male né a me né a Gianni mio53»; e così detto, disse al marito: «Sputa, Gianni»; e Gianni sputò. 48 l’altro giorno, giorni or sono: III 3,23 n. a guadagnarmi l’indulgenza, in occasione di una qualche festa: IV 7, 11 n. 50 Corrente forma ridotta toscana di voglio: cfr. per es. Dante, Rime, LI 7; Vita Nuova, XII 10. 51 Per la frequenza e il valore di tali atti negli scongiuri e negli incantesimi cfr. PITRÈ, BUSK, CROMBIE, PAJELLO ecc., Lo sputo e la saliva ecc., in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», IV, 1885 e VI, 1887; G. BONOMO, Scongiuri del popolo siciliano, Palermo 1953, pp. 80 sgg. 52 Tutto questo «incantesimo» gioca, com’è naturale, su di un linguaggio equivoco: dall’allusione fallica dell’inizio ( a c o d a r i t t a : Cfr. III 1,20 n.; X 10,2 n.) a queste parole che accennano ai capponi e alle ova. 53 Questa parodia di orazione – come la seguente (32) – Si svol49 Letteratura italiana Einaudi 931 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 28 29 30 31 32 E Federigo, che di fuori era e questo udiva, già di gelosia uscito, con tutta54 la malinconia, aveva sì gran voglia di ridere che scoppiava; e pianamente, quando Gianni sputava, diceva: «I denti». La donna, poi che in questa guisa ebbe tre volte la fantasima incantata, al letto se ne tornò col marito. Federigo, che con lei di cenar s’aspettava, non avendo cenato e avendo bene le parole della orazione intese, se n’andò nell’orto e a piè del pesco grosso trovati i due capponi e ’l vino e l’uova, a casa se ne gli portò e cenò a grande agio. E poi dell’altre volte, ritrovandosi con la donna, molto di questa incantazione rise con esso lei55. Vera cosa è56 che alcuni dicono che la donna aveva ben volto il teschio dello asino verso Fiesole, ma un lavoratore, per la vigna passando, v’aveva entro dato d’un bastone e fattol girare intorno intorno, ed era rimaso volto verso Firenze, e per ciò Federigo, credendo esser chiamato, v’era venuto; e che la donna aveva fatta l’orage sui ritmi rime e assonanze facili e popolaresche: come del resto accade altre volte in casi simili nel D. (II 2,7-8 n.; IX 10,17-18 n.): «ha dei comuni scongiuri non solo la mossa iniziale ma anche il generale andamento, il tono esortativo e il ritmo» (Giardini). Per scongiuri di questo genere cfr. Ubbie, ciancioni e ciarpe cit.; T. CASINI, Scongiuro e poesia, in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», V, 1886; A. D’ANCONA, La poesia popolare, Livorno 1906, pp. 108 sgg.; L. Fumi, Usi e costumi lucchesi, Lucca 1907, 1, pp. 100 sgg.; e la notevole raccolta nel cod. Riccardiano 2067. 54 nonostante: cfr. Intr., 22 n. 55 Per l’uso di esso rafforzativo e invariato cfr. II 5,31 n.; VI concl., 31 n.; VII 2,8 ecc. 56 La discussione, che si sviluppa di qui alla fine della novella, è l’esempio più cospicuo di quegli espedienti, che, trasportando il racconto nel cerchio piccante e attraente della cronaca, mirano a ravvivare l’attenzione e a sottolineare la comicità delle situazioni (per es. I 10,10; II 3,6-7; V 10,63-64 ecc.). E risponde anche, nell’atmosfera paesana e popolaresca di tutta la novella, al piglio di certi narratori acclamati nel pubblico semicolto (cfr. per es. Andrea da Barberino, Aspromonte, I 44; Reali di Francia, II 6). Letteratura italiana Einaudi 932 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII zione in questa guisa: «Fantasima, fantasima, fatti con Dio57, ché la testa dell’asino non vols’io, ma altri fu, che tristo il faccia Iddio, e io son qui con Gianni mio58»; per che, andatosene, senza albergo e senza cena era la notte rimaso. 33 Ma una mia vicina, la quale è una donna molto vecchia, mi dice che l’una e l’altra fu vera, secondo che ella aveva, essendo fanciulla, saputo; ma che l’ultimo non a Gianni Lotteringhi era avvenuto, ma a uno che si chiamò Gianni di Nello59, che stava in porta San Piero, non meno sofficiente lavaceci60 che fosse Gianni Lotteringhi. 57 La solita espressione di deprecazione e congedo, con la variante f a t t i o v a t t i (su cui cfr. Annotazioni, pp. 197 sgg.): II 5,54; VI intr., 14; VII 2,22; VII 10,29. 58 «Quell’altra è migliore orazione e più unta» (M.). 59 Un Giovanni di Nello, speziale, era nel 1342 consigliere del Comune, nel 1345 console della propria arte; il 15 agosto 1347 fu sepolto proprio in Santa Maria Novella dove a sue spese si era fatto costruire una cappella; ai Domenicani di quel convento aveva destinato alcuni lasciti. Abitava però nel popolo di San Donato de’ Vecchietti e non in quello di San Pier Maggiore, cui appartenne la famiglia del B. (Delizie degli eruditi toscani, IX 176, XIII 190; V. FINESCHI, Memorie sopra il cimitero antico della Chiesa di Santa Maria Novella, Firenze 1787, pp. 90 sgg., e Il Forestiero istruito in Santa Maria Novella, Firenze 1790, p. 29). È nominato anche nel ternario (Rime, LXIX 35-36) come marito di una Emiliana o Emilia; e Giovanni si chiama nella Comedia (XXI 10) il tedioso e male avventurato marito di quell’Emilia, la quale apparirebbe anche nell’Amorosa Visione (XLIV 25 sgg.) – secondo il Torraca e il Billanovich – come il grande amore fiorentino del B. (cfr. per questa e altre notizie TORRACA, Per la biografia, pp. 112 sgg.; V. BRANCA, Amorosa Visione, comm. cit., p. 633 e B. medievale, pp. 197 e 244; G. BILLANOVICH, Restauri, pp. 110 sgg.). Per le «scuole» e le compagnie di disciplinati (III 4) cfr. in gen. G. M. MONTI, Le confraternite medievali Venezia 1927; I. HIJMANS-TROMP, Agnolo Torini, Leiden 1957, pp. 20 sgg. 60 insigne sciocco, dappoco (cioè non buono se non a lavare i ceci); cfr. VIII 9,17: «ci lasciò due suoi sufficienti discepoli»; e VIII 9,52: «udendo costui e parendogli... un lavaceci»; Sacchetti, LXXII: «questo Vescovo lavaceci». Letteratura italiana Einaudi 933 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII E per ciò, donne mie care, nella vostra elezione61 sta 34 di torre qual più vi piace delle due, o volete amendune. Elle hanno grandissima virtù a così fatte cose, come per esperienzia avete udito; apparatele, e potravvi ancor giovare. - 61 scelta. Letteratura italiana Einaudi 934 NOVELLA SECONDA 1 Peronella mette un suo amante in un doglio1 tornando2 il marito a casa; il quale avendo il marito venduto, ella dice che venduto l’ha ad uno che dentro v’è a vedere se saldo gli pare: il quale saltatone fuori, il fa radere3 al marito, e poi portarsenelo a casa sua4. 2 Con grandissime risa fu la novella d’Emilia ascoltata e l’orazione per buona e per santa commendata da tutti; la quale al suo fine venuta essendo, comandò il re a Filostrato che seguitasse, il quale incominciò: - Carissime donne mie, elle son tante le beffe che gli uomini vi fanno, e spezialmente i mariti, che, quando alcuna volta avviene che donna niuna5 alcuna al marito ne faccia, voi non dovreste solamente esser contente che ciò fosse avvenuto o di risaperlo o d’udirlo dire ad alcuno, ma il dovreste voi medesime andare dicendo per tutto, acciò che per6 gli uomini si conosca che, se essi sanno, e7 le donne d’altra parte anche sanno: il che altro 3 4 1 botte, tino, cui si riferisce il quale seguente. quando, mentre torna. raschiare, ripulire: cfr. 31. 4 La novella, come la V 10, deriva direttamente e chiaramente – anzi qualche volta letteralmente - da uno degli autori prediletti dal B., Apuleio (Metamorlosi, IX 5; e cfr. V 10,1 n.: vedi un raffronto minuto dei due testi in: L. DI FRANCIA, Alcune novelle cit., 1904). Per questo è vano richiamarsi a un fabliau, Le Cuvier (Recueil général cit., I, p. 126; e cfr. anche II, p. 24), che di comune ha poco più che il titolo (BÚDIER, op. cit., p. 458) o a elementi popolari (Thompson, K 1517.3). La novella fu prontamente ripresa dal Sercambi (CXXXVIII). Cfr. H. G. DICK, The lover in a cask, in «Italica», XVIII, 1941. Originale e caratterizzante la napoletanizzazione operata dal B. 5 qualche donna. 6 da: Intr., 55 n. 7 anche: la congiunzione è come spesso in ripresa dopo proposizione ipotetica, ma qui quasi anche prolettica dell’ a n c h e che segue (Marti). 2 3 Letteratura italiana Einaudi 935 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 5 6 7 8 9 che utile essere non vi può; per ciò che, quando alcun sa che altri sappia, egli non si mette troppo leggiermente a volerlo ingannare8. Chi dubita dunque che ciò che oggi intorno a questa materia diremo, essendo risaputo dagli uomini, non fosse lor grandissima cagione di raffrenamento al beffarvi, conoscendo che voi similmente, volendo, ne sapreste fare? È adunque mia intenzion di dirvi ciò che una giovinetta, quantunque di bassa condizione fosse9, quasi in un momento di tempo10, per salvezza di sé11 al marito facesse. Egli non è ancora guari che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta chiamata Peronella12, ed esso con l’arte sua, che era muratore, ed ella filando, guadagnando13 assai sottilmente, la lor vita reggevano come potevano il meglio. Avvenne che un giovane de’ leggiadri14, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto, s’innamorò di lei, e tanto in un modo e in uno altro la sollicitò, che con essolei15 si dimesticò. E a potere essere insieme presero tra sé questo ordine: che, con ciò fosse cosa che il marito di lei si levasse ogni mattina per tempo per andare a lavorare o a trovar lavorio, che16 il giovane fosse in parte che uscir lo 8 Si ripete la spregiudicata posizione proclamata nella II 9,5. sarebbe: I 1,51 n. 10 in un attimo. 11 per salvarsi 12 Nome non infrequente nella Napoli del tempo (dal fr. Peronnelle): fra le bellezze napoletane nella Caccia Peronella d’Arco (IX 45 XI 16). 13 miseramente, scarsamente: II 3,11: «faccendo sottilissime spese»; VII 3,12: «la sottil vita»; Sacchetti, CXLIX: «mangiava sottilmente». 14 galanti, bellimbusti: uso sostantivato non raro: cfr. più avanti 18; Dante, Rime, LXXXIII 52: «Per donneare a guisa di leggiadro». 15 Cfr. VII 1,30 n. 16 Solita ripetizione di c h e dopo inciso causale o temporale. 9 Letteratura italiana Einaudi 936 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII vedesse fuori; ed essendo la contrada, che Avorio si chiama17, molto solitaria, dove stava, uscito lui, egli in casa di lei se n’entrasse; e così molte volte fecero. 10 Ma pur trall’altre avvenne una mattina che, essendo il buono uomo fuori uscito18, e Giannello Scrignario19, ché così aveva nome il giovane, entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in tutto il dì tornar non soleva, a casa se ne tornò, e trovato l’uscio serrato dentro, picchiò, e dopo il picchiare cominciò se11 co a dire: «O Iddio, lodato sia tu sempre; ché, benché tu m’abbi fatto povero, almeno m’hai tu consolato di buona e onesta giovane di moglie20! Vedi come ella tosto serrò l’uscio dentro, come io ci21 uscii, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che noia le desse». Peronella, sentito il marito, ché al modo del picchia12 re il conobbe, disse: «Ohimè, Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio22, che 17 È la via o piazza Aborii iuxta plateam Portenove, non lontano dalla Loggia di Genova (cfr. B. CAPASSO, Sulla circoscrizione civile ... della città di Napoli ecc., Napoli 1883; TORRACA, G. B. a Napoli, p. 157). 18 Il racconto, dopo le necessarie premesse, s’avvia vivacemente sui ritmi di due endecasillabi seguiti da un settenario. 19 Proprio nella piazza Portanova, o nelle vicinanze, appaiono nel 1324 i fratelli Giovanni e Niccolò Scrignari (C. MINIERI RICCIO, Notizie storiche da 62 registri, p. 153; CAMERA, op. cit., II, p. 211; TORRACA, art. cit., p. 157): cioè due membri di quella famiglia feudale che, giunta all’apogeo della sua potenza sotto Giovanna e Luigi di Taranto, è celebrata anche nella Caccia (I 24, Il 34, VI 13 e 34); Cfr. V. BRANCA, Tradizione cit., pp. 173 sgg. 20 «Per proprietà di lingua usarono gli antichi di porre in secondo caso il nome di una persona o animale quando innanzi gli vada un aggettivo indicante qualità dell’animo o del corpo» (Fanfani): come per es. alla II 5,58: «ebber veduto il cattivel d’Andreuccio»; VIII 7,2: «avevan le donne riso del cattivello di Calandrino». 21 di qui: IV 2,50 n. 22 Sequenza deprecatoria su settenario, endecasillabo, settenario rimati. Letteratura italiana Einaudi 937 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 13 14 15 16 17 ci tornò: e non so che questo si voglia dire, ché egli non ci tornò mai più a questa otta23; forse che ti vide egli quando tu c’entrasti. Ma, per l’amore di Dio, come che il fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io gli andrò ad aprire, e veggiamo quello che questo vuol dire di tornare stamane così tosto a casa». Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella andata all’uscio aprì al marito, e con un mal viso disse: «Ora questa che novella è24, che tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu non vuogli oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co’ferri tuoi in mano; e, se tu fai così, di che viverem noi? Onde avrem noi del pane? Credi tu che io sofferi che tu m’impegni la gonnelluccia25 e gli altri miei pannicelli? che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s’è spiccata dall’unghia, per potere almeno aver tanto olio che n’arda la nostra lucerna. Marito, marito, egli non ci ha vicina che non se ne maravigli e che non facci beffe di me di tanta fatica quanta è quella che io duro; e tu mi torni a casa con le mani spenzolate26, quando tu dovresti esser a lavorare». E così detto, incominciò a piagnere27 e a dir da capo: «Ohimè, lassa me, dolente me, in che mal’ora nacqui, in che mal punto ci venni28! ché avrei potuto avere un giovane così da bene e nol volli, per venire a costui che non pensa cui egli s’ha recata a casa. L’altre si danno buon 23 ora: VII 4,24; IX 5,35. che novità è questa? 25 Doveva essere uno dei pegni più soliti, se anche la Belcolore aveva dato all’usuraio «la gonnella ... del perso» (VIII 2,28): e per le varie fogge di questo comunissimo indumento maschile e femminile cfr. Merkel, pp. 37 sgg. 26 penzoloni, ciondoloni: Sacchetti, LXXIV: «s’andava colle gambucce spenzolate a mezzo le barde». 27 «Lacrime mulierum condimentum sunt malitie» (M.). 28 sotto quale cattiva stella venni al mondo: p u n t o è inteso astrologicamente come posizione degli astri (II 10,9 n.; X 7,13 n.) 24 Letteratura italiana Einaudi 938 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII tempo con gli amanti loro, e non ce n’ha niuna che non n’abbia chi due e chi tre, e godono e mostrano a’ mariti la luna per lo sole; e io, misera me!, perché son buona e non attendo a così fatte novelle29, ho male e mala ventura; io non so perché io non mi pigli di questi amanti come fanno l’altre. Intendi sanamente30, marito mio, che 18 se io volessi far male, io troverrei ben con cui, ché egli ci son de’ ben leggiadri che m’amano e voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglio io robe31 o gioie, né mai mel sofferse il cuore, per ciò che io non fui figliuola di donna da ciò32; e tu mi torni a casa quando tu dei essere a lavorare». Disse il marito: «Deh donna, non ti dar malinconia, 19 per Dio; tu dei credere che io conosco chi tu se’, e pure stamane me ne sono in parte avveduto. Egli è il vero ch’io andai per lavorare, ma egli mostra33 che tu nol sappi, come io medesimo nol sapeva: egli è oggi la festa di santo Galeone34, e non si lavora, e per ciò mi sono tor- 20 nato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno proveduto e trovato modo che noi avremo del pane per più d’un mese, ché io ho venduto a costui che tu vedi qui con me 29 Solita espressione: II 9,10 n. bene: III 4,15 n. oppure, o se preferisco. 32 Cioè capace di questa disonestà. 33 è evidente, si vede: cfr. I 7,21 n. 34 A Napoli, non lontano dal quartiere di Peronella e degli Scrignari, esisteva effettivamente una veneratissima cappella di Sant’Eucalione o San Galione (Caleon è il nome dell’innamorato di Fiammetta nel Filocolo, IV 16 sg. e Caleone nella Comedia, XXXV 118 e XXXVII 4 sgg.). Anche questo è un particolare tipicamente napoletano che ambienta la novella in modo nuovo rispetto alla fonte apuleiana (per l’inattesa vacanza diceva solo: «licet forensi negotio officinator noster attentus ferias nobis fecerit»). Cfr. S. D’ALOE, Catalogo di tutti gli edifizii sacri della città di Napoli ecc., in «Archivio Storico per le Province Napoletane», VIII, 1884, p. 295. 30 31 Letteratura italiana Einaudi 939 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 21 22 23 24 25 co il doglio, il quale tu sai che, già è cotanto, ha tenuta la casa impacciata, e dammene cinque gigliati35». Disse allora Peronella: «E36 tutto questo è del dolor mio37: tu che se’uomo e vai attorno, e dovresti sapere delle cose del mondo, hai venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non fu’mai appena fuor dell’uscio, veggendo lo ‘mpaccio che in casa ci dava, l’ho venduto sette ad un buono uomo, il quale, come tu qui tornasti, v’entrò dentro per vedere se saldo era». Quando il marito udì questo, fu più che contento, e disse a colui che venuto era per esso: «Buon uomo, vatti con Dio38; ché tu odi che mia mogliere l’ha venduto sette, dove tu non me ne davi altro che cinque». Il buono uomo disse: «In buona ora sia39» ; e andossene. E Peronella disse al marito: «Vien su tu, poscia che tu ci se’, e vedi con lui insieme i fatti nostri». Giannello, il quale stava con gli orecchi levati per vedere40 se di nulla gli bisognasse temere o provvedersi41, 35 Moneta napoletana fatta coniare da Carlo d’Angiò attorno al 1300, di circa 4 grammi d’argento, così chiamata per la croce ornata dei gigli di Francia. 36 Anche (I 1,44 n.); o Appunto (Fanfani). 37 è causa del mio dolore, è cosa che merita il mio dolore: alla latina, con uso analogo a II 2,17 n. 38 Solita formula per congedare: cfr. II 5,54 n.; e anche VII 1,32 n. 39 Come dire sta bene; cioè ciò sia, avvenga in buon’ora, con buona ventura: VII 5,39 n. 40 L’attribuire a un sentimento o a una facoltà l’azione di un’altra (sinestesia) è uso frequente nel B. e negli scrittori di tutti i tempi: VII 7,21: «mai sazia non se ne vedrebbe la voce mia»; Inf., XVIII 129. 41 prendere qualche provvedimento. X 9,5: «per meglio poter provedersi». Letteratura italiana Einaudi 940 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 26 27 28 29 30 31 32 udite le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del doglio, e quasi niente sentito avesse della tornata42 del marito, cominciò a dire: «Dove se’, buona donna?» Al quale il marito, che già veniva, disse: «Eccomi, che domandi tu?» Disse Giannello: «Qual se’ tu43? Io vorrei la donna con la quale io feci il mercato di questo doglio». Disse il buono uomo: «Fate sicuramente meco, ché io son suo marito». Disse allora Giannello: «Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto impiastricciato44 di non so che cosa sì secca, che io non ne posso levar con l’unghie, e però nol torrei se io nol vedessi prima netto». Disse allora Peronella: «No, per quello non rimarrà il mercato45; mio marito il netterà tutto». E il marito disse: «Sì bene» ; e posti giù i ferri suoi, e ispogliatosi in camicione46, si fece accendere un lume e dare una radimadia47, e fuvvi entrato48 dentro e cominciò a radere. E Peronella, quasi veder volesse ciò che facesse, messo il capo per49 la bocca del doglio, che molto grande non 42 ritorno: e cfr. IV 2,46 n. Chi sei tu? 44 Storpiamento popolaresco per impiastricciato. 45 non andrà a monte, non fallirà l’affare: II 1,8 n. 46 Cioè senza il farsetto; come oggi: in maniche di camicia: VI 10,54 n. 47 Una specie di raschiatoio: ma non sono citati altri esempi del tempo. 48 La solita successione di passato e trapassato remoto a indicare istantaneità: II5,58 n.; VI 9,12 n. 49 dentro, attraverso. 43 Letteratura italiana Einaudi 941 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII era, e oltre a questo l’un de’bracci con tutta la spalla, cominciò a dire: «Radi quivi, e quivi, e anche colà» ; e: «Vedine qui rimaso un micolino50». 33 E mentre che così stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella mattina il suo disidero ancor fornito51 quando il marito venne, veggendo che come volea non potea, s’argomentò di 34 fornirlo come potesse; e a lei accostatosi, che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d’amor caldi le cavalle di Partia assaliscono52, ad effetto recò il giovinil desiderio53, il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione e fu raso il doglio, ed egli scostatosi, e la Peronella tratto il capo del doglio, e il marito uscitone fuori54. 50 un briciolo, un pocolino: Volg. Seneca Epistole (T): «I veraci beni non si partono in tal maniera, che ciascuno non abbia un micolino»; Pataffio, III 47. 51 soddisfatto: II 5,9 n. 52 I «D i P a r t i a disse con bel modo, per mostrar di parlar coperto: perché, già così il Ruscelli, in Partia le cavalle e i cavalli fanno ogni cosa naturale, come fanno anco negli altri paesi» (Colombo). Ma come ha dimostrato M. Pastore Stocchi (Note e Chiose interpretative, in «Studi sul B.», II, 1964) l’espressione metaforizzata è derivata, non senza fraintendimento; da una contaminatio fra due autori emblematici della cultura e del gusto del B., Apuleio e Ovidio (Ars Am., I 209 sg III 785 sg.); e forse fu presente anche il famoso passo delle Georgiche (III 266 sgg.) sulle cavalle infoiate. Più confusamente equivoca e immaginosa risuona la frase nell’eccezionale sequenza di cinque endecasillabi di seguito. 53 «Qui si chiava a parte post ex natura transitionis priapi» (M). 54 Nel polisindeto rapido ed efficace l’ausiliare è sottinteso (dal fu precedente) coi tre ultimi participi, benché essi lo richiedano diverso: II 8,95 n. Per l’espressivismo linguistico napoletano cfr. Introduzione a questa edizione, pp. XXXIII sg. Letteratura italiana Einaudi 942 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 35 36 Per che Peronella disse a Giannello: «Te’55 questo lume, buono uomo, e guata se egli è netto a tuo modo». Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene, e che egli era contento; e datigli sette gigliati, a casa sel fece portare. 55 tieni familiare: cfr. X 10,32 n. Letteratura italiana Einaudi 943 NOVELLA TERZA 1 Frate Rinaldo si giace colla comare1; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli incantava vermini al figlioccio2. 2 Non seppe sì Filostrato parlare oscuro delle cavalle partice3, che l’avvedute donne non lo intendessono e alquanto non ne ridessono, sembiante faccendo di rider d’altro. Ma poi che il re conobbe la sua novella finita, ad Elissa impose che ragionasse; la quale, disposta ad ubbidire, incominciò. Piacevoli donne, lo ’ncantar della fantasima d’Emilia m’ha fatto tornare alla memoria una novella d’un’altra incantagione, la quale4, quantunque così bella non sia come fu quella, per ciò che altra alla nostra materia non me ne occorre5 al presente, la racconterò. Voi dovete sapere che in Siena fu già6 un giovane as- 3 4 1 Cioè con la donna di cui ha tenuto a battesimo, come padrino, il figlio. 2 Nessun antecedente, se non quelli vaghissimi di novelle - frequenti in varie raccolte d’Oriente e d’Occidente - in cui mogli sorprese coll’amante dal marito riescono a scampare con le astuzie più diverse. Qualche punto di contatto può esser notato col Livre de Matheolus, poème français du XIVe siècle par J. J. Lefèvre (Bruxelles 1846, II, pp. 143 sgg.), che deriverebbe da un’operetta latina della fine del Duecento, di cui tuttavia non è conosciuto il testo; o con alcune tradizioni popolari la cui cronologia però non è sicura (Thompson e Rotunda, K 1517.2; M. P. GIARDINI, Tradizioni popolari nel D. cit., pp. 40 sgg.). Il Sacchetti riprese in parte questa novella nella CCVII, e il Sercambi nella CLI. 3 partiche, della Partia: e per la forma cfr. E. G. PARODI, in «Bull. Soc. Dantesca», n. s., III, 1895, p. 121; e anche X 4,3 n. 4 la quale novella. 5 viene in mente: cfr. I 4,10 n. 6 È questa un’altra formula, o quasi, preferita per dare inizio al racconto (per es. II 6, IV 9 e 10, V 2 e 9, VI 9, VII 7 e 8, VIII 8, IX 2, X 1) spesso sui ritmi di uno o più endecasillabi. Questa prima novella senese già scopre quell’animosità verso la città rivale Letteratura italiana Einaudi 944 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 5 6 7 sai leggiadro e d’orrevole famiglia, il quale ebbe nome Rinaldo7; e amando sommamente una sua vicina e assai bella donna e moglie d’un ricco uomo, e sperando, se modo potesse avere di parlarle senza sospetto8, dovere aver da lei ogni cosa che egli disiderasse, non vedendone alcuno9 ed essendo la donna gravida, pensossi di volere suo compar divenire; e accontatosi10 col marito di lei, per quel modo che più onesto gli parve gliele di se, e fu fatto. Essendo adunque Rinaldo di madonna Agnesa11 divenuto compare e avendo alquanto d’albitrio più colorato12 di poterle parlare, assicuratosi, quello della sua intenzione con parole le fece conoscere che ella molto davanti negli atti degli occhi suoi avea conosciuto; ma poco per ciò gli valse, quantunque d’averlo udito non dispiacesse alla donna. Addivenne non guari poi, che che si fosse la cagione, che Rinaldo si fece frate, e chente che13 egli trovasse la pastura, egli perseverò in quello. E avvegna che egli aldi Firenze, che insisterà in varie altre pagine del D., rappresentando spesso i senesi come sciocchi, creduloni, malfidi (vedi specie VII 10, IX 4 e anche VIII 8 e X 2: cfr. IV 2,43 n.). 7 Vanamente il Manni volle identificarlo col rimatore Bernardo da Siena. 8 «Alle consequenzie» (M.). 9 non vedendo alcun modo. 10 familiarizzatosi: II 3,1 n. Riflesso di un precetto già di Ovidio (Ars Am., I 579 sgg.) e delle artes amandi medievali (per es. A. Cappellano, De Amore, p. 136) che ritorna nel D. (III 4 e 5 e 8; IV 9; VII 7; VIII 8: e cfr. Fiammetta, I 23,3). 11 Anche qui il nome della protagonista non è al principio (IV I,17 n.). 12 pretesto alquanto migliore, ragioni e occasioni più plausibili. La forma a l b i t r i o (arbitrio) era comune: per es. X 3,34; Comedia, XVII 8, XXXVIII 68; Amorosa Visione, XLI 80; ma non conosco altri esempi della forma albritrio, dovuta probabilmente a assimilazione popolaresca. 13 qualunque. La frase ricorda Frate Cipolla: «per ciò che buona pastura vi trovava» (VI 10,6): p a s t u r a , pascolo, cioè modo di vivere. Letteratura italiana Einaudi 945 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII quanto, di que tempi che frate si fece, avesse dall’un de’ lati posto l’amore che alla sua comar portava e certe altre sue vanità, pure in processo di tempo, senza lasciar l’abito, se le riprese, e cominciò a dilettarsi d’apparere14 e di vestir di buon panni e d’essere in tutte le sue cose leggiadretto15 e ornato, e a fare delle canzoni e de’ sonetti e delle ballate, e a cantare, e tutto pieno16 d’altre cose a queste simili. Ma che dico io di frate Rinaldo nostro, di cui parlia8 mo17? Quali son quegli che così non facciano? Ahi vitupero del guasto mondo! Essi non si vergognano d’appa9 rir grassi, d’apparir coloriti nel viso, d’apparir morbidi18 ne’ vestimenti e in tutte le cose loro; e non come colombi, ma come galli tronfi, con la cresta levata, pettoruti 10 procedono; e, che è peggio (lasciamo stare d’aver le lor celle piene d’alberelli di lattovari19 e d’unguenti colmi, di scatole di vari confetti20 piene, d’ampolle e di guastadette con acque lavorate21 e con olii, di bottacci di malvagìa e di greco22 e d’altri vini preziosissimi traboccanti, 14 far bella figura: così al 12: «a cacciare il freddo e non a apparere si vestissero» (Par., XXIX 94). 15 galante ed elegante: VII 2,8 n. (il diminutivo sottolinea la riprovazione canzonatoria); IX 8,5. 16 e ad esser tutto pieno: elegante ellissi: cfr. Intr., 37 n. 17 «Leggi qui per amor de’ frati» (M.). E difatti il passo seguente è uno dei più caratteristici sfoghi del B. contro il malcostume del clero; ricorda specialmente quello nella III 7,30-43 (e cfr. ivi note). 18 molli, delicati, raffinati: III 10,3 n. 19 vasetti d’unguenti a base di miele. Anche nel Corbaccio, in una pagina simile, si lamenta che «la casa mia era piena ... di lembicchi e di pentolini e d’ampolle e d’alberelli e di bossoli» (318); e per l a t t o v a r o (lat. electuarium) cfr. Fioretti di San Francesco, XLVII: «tre bossoli di lattovaro». E cfr. E. BIANCHI, in «Lingua Nostra», I, 1939, p. 77. 20 dolci, pasticcini: I 10,14 n. 21 piccole caraffe con essenze: IV 10,13 n. e 32. 22 fiaschi di malvasia e di vin greco: IX 8,13: «datogli un bottaccio di vetro»; e cfr. anche II 5,30 n. Erano vini particolarmente pregiati. Letteratura italiana Einaudi 946 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII in tanto che non celle di frati, ma botteghe di speziali o d’unguentari23 appaiono più tosto a’ riguardanti), essi non si vergognano che altri sappia loro esser gottosi, e credonsi che altri non conosca e sappia che i digiuni assai, le vivande grosse e poche24 e il viver sobriamente 11 faccia gli uomini magri e sottili e il più25 sani; e se pure infermi ne fanno, non almeno di gotte gl’ infermano26, alle quali si suole per medicina dare la castità e ogni altra 12 cosa a vita di modesto frate appartenente. E credonsi che altri non conosca, oltra la sottil vita27, le vigilie lunghe, l’orare e il disciplinarsi dover gli uomini pallidi e afflitti rendere; e che né san Domenico né san Francesco28, senza aver quatro cappe per uno, non di tintillani29 né d’altri panni gentili, ma di lana grossa fatti e di natural colore, a cacciare il freddo e non ad apparere si vestissero. Alle quali cose Iddio provegga, come all’anime de’semplici che gli nutricano fa bisogno30. 13 Così adunque ritornato frate Rinaldo ne’ primi appetiti, cominciò a visitare molto spesso la comare; e cresciutagli baldanza, con più instanzia che prima non faceva la cominciò a sollicitare a quello che egli di lei disiderava. 23 profumieri. grossolane, ordinarie e scarse: Trattatello, I 115: «il più si pasceva di grossi [cibi]». 25 per lo più, generalmente. 26 fanno ammalare. Raro l’uso di informare transitivo: ma cfr. Volg. Epistole di San Gerolamo (T.). «Nessuna cosa così inferma i corpi ... come il cibo indigesto». 27 oltre la vita parca, povera: VII 2,7 n. E per la forma o l t r a, non peregrina nel B., cfr. Teseida, p. CXX; Amorosa Visione, XVI 76. 28 I Francescani e i Domenicani sono i religiosi presi più di mira dal B., mentre, per esempio, non sono mai attaccati i prediletti Agostiniani. 29 La si dà questa denominazione ai panni fini perché se ne suol tignere la lana prima di farli, affinché ne riesca più vivo e più durevole il colore» (Colombo): Velluti, Cronica, p. 43. Nello Zibaldone Magliabechiano (c. 259r) per un «amictus cilicio» il B. annota «non s’usano ancora gli scarlatti». 30 «Amen» (M., che segna a margine i periodi 8-13). 24 Letteratura italiana Einaudi 947 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 14 15 16 17 18 19 20 La buona donna, veggendosi molto sollicitare, e parendole frate Rinaldo forse più bello che non soleva, essendo un dì molto da lui infestata31, a quello ricorse che fanno tutte quelle che voglia hanno di concedere quello che è addimandato32, e disse: «Come, frate Rinaldo, o33 fanno così fatte cose i frati?» A cui frate Rinaldo rispose: «Madonna, qualora io avrò questa cappa fuor di dosso, che me la traggo molto agevolmente, io vi parrò uno uomo fatto come gli altri, e non frate34». La donna fece bocca da ridere, e disse: «Oimè trista, voi siete mio compare35; come si farebbe questo? Egli sarebbe troppo gran male; e io ho molte volte udito che egli è troppo gran peccato; e per certo, se ciò non fosse, io farei ciò che voi voleste». A cui frate Rinaldo disse: «Voi siete una sciocca, se per questo lasciate. Io non dico che non sia peccato, ma de’ maggiori perdona Iddio a chi si pente. Ma ditemi, chi è più parente del vostro figliuolo, o io che il tenni a battesimo, o vostro marito che il generò?» La donna rispose: «È più suo parente mio marito». «E voi dite il vero,» disse il frate «e vostro marito non si giace con voi?» «Mai sì36» rispose la donna. 31 tormentata, sollecitata insistentemente: V 9,39 n. «Nota» (M.). 33 Dialettale e parlato per forse che: cfr. I 1,51 n. 34 «Sì, se non ne venisse del caprino» (M.). 35 Il comparatico stabiliva, secondo le consuetudini e le credenze del Medioevo, un legame molto stretto, quasi un vincolo di sangue: sposare o avere rapporti con una comare era stimato quasi un incesto (cfr. VII 10; e, per es., un fabliau, L’Oue au chapelain, in Recueil général VI, p. 46; Chansons et dits arlésiens du XIIIe siècle ..., Bordeaux 1898, VIII; G. PARIS, in «Romania», XXVII, 1898, pp. 494 sgg.; M. P. GIARDINI, op. cit., p. 46). 36 Sì davvero: III 3,36 n., e VII 5,50 n. 32 Letteratura italiana Einaudi 948 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII «Adunque,» disse il frate «e37 io che son men parente di vostro figliuolo che non è vostro marito, così mi debbo poter giacere con voi come vostro marito». 22 La donna, che loica38 non sapeva e di piccola levatura aveva bisogno39, o credette o fece vista di credere che il frate dicesse vero, e rispose: «Chi saprebbe rispondere alle vostre savie parole?»; e appresso, non obstante il comparatico, si recò a dovere fare i suoi piaceri; né incominciarono pure una volta, ma sotto la coverta del comparatico40 avendo più agio, perché la sospezione era minore, più e più volte si ritrovarono insieme. Ma tra l’altre una n’avvenne che, essendo frate Ri23 naldo venuto a casa la donna41, e vedendo quivi niuna persona essere, altri che una fanticella della donna, assai bella e piacevoletta, mandato il compagno suo con essolei nel palco di sopra42 ad insegnarle il paternostro, egli colla donna, che il fanciullin suo avea per mano, se n’entrarono nella camera, e dentro serratisi, sopra un lettuccio da sedere43, che in quella era, s’incominciarono a trastullare. 24 E in questa guisa dimorando, avvenne che il compar tornò, e senza esser sentito da alcuno, fu all’uscio della camera, e picchiò e chiamò la donna. 21 37 anche: I 1,44 n. logica e anche, più in generale, filosofia e teologia. E tutto il ragionare del frate è caricatura del sillogizzare scolastico (e cfr. VII 10,30 n.). 39 ci voleva poca fatica a levarla, a smuoverla da ciò che prima s’era proposta, per condurla a ciò che voleva il compare. «Metafora presa da arche o pietre o simili, le quali sono murate o fissate così leggermente che poco ci vuole a smuoverle» (Fanfani). E cfr. IV 2,41 n. e anche III 8,68 n. 40 col pretesto, collo schermo dell’esser compari: Sacchetti, CXLIX: «Sotto coverta d’ipocrisia». 41 Cfr. II 5,50 n. 42 soffitta dove stanno i colombi, colombaia: VIII 2,17; Velluti, Cronica, p. 55. 43 divano: e cfr. II 8,10 n. e VII intr., 9. 38 Letteratura italiana Einaudi 949 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII Ma donna Agnesa, questo sentendo, disse: «Io son morta, ché ecco il marito mio; ora si pure avvedrà44 egli qual sia la cagione della nostra dimestichezza». 26 Era frate Rinaldo spogliato, cioè senza cappa e senza scapolare45, in tonicella, il quale questo udendo disse: «Voi dite vero: se io fossi pur vestito, qualche modo ci avrebbe; ma, se voi gli aprite ed egli mi truovi così, niuna scusa ci potrà essere». 27 La donna, da subito consiglio aiutata, disse: «Or vi vestite; e vestito che voi siete, recatevi in braccio vostro figlioccio, e ascolterete bene ciò che io gli dirò, sì che le vostre parole poi s’accordino con le mie, e lasciate fare a me». 28 Il buono uomo non era ristato appena di picchiare, che la moglie rispose: «Io vengo a te;» e levatasi, con un buon viso se n’andò all’uscio della camera e aperselo, e disse: «Marito mio, ben ti dico che frate Rinaldo nostro compare ci si venne46, e Iddio il ci mandò; ché per certo, se venuto non ci fosse, noi avremmo oggi perduto il fanciul nostro». 25 44 pur si avvedrà, certo si accorgerà: iperbato corrente. Cfr. VII 1,5 n.; e anche MERKEL, art. cit., per l’esatta definizione di questi capi di vestiario. 46 si venne qui. 45 Letteratura italiana Einaudi 950 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII Quando il bescio sanctio47 udì questo, tutto svenne48 e disse: «Come?» «O marido mio,» disse la donna «e’ gli venne dianzi 30 di subito uno sfinimento, che io mi credetti ch’e’ fosse morto e non sapeva né che mi far né che mi dire; se non che frate Rinaldo nostro compare ci venne in quella49, e recatoselo in collo disse: ‘Comare, questi son vermini che egli ha in corpo, gli quali gli s’appressano al cuore e ucciderebbolo troppo bene50; ma non abbiate paura, ché io gl’incanterò51 e farògli morir tutti, e innanzi che io mi parta di qui voi vedrete il fanciul sano come voi ve31 deste mai’. E per ciò che tu ci bisognavi per dir certe orazioni, e non ti seppe trovar la fante, sì52 le fece dire al compagno suo nel più alto luogo della nostra casa, ed 32 egli e io qua entro ce n’entrammo. E per ciò che altri che 29 47 sciocco bigotto: due parole storpiate a caricaturare, come altrove qui e nella IX 4, i senesi «gente vana» (Inf., XXIX 121 sg .; Purg., XIII 151 sgg.). Anche nella VII 10,7 si parla della «bessaggne de ’ sanesi», un blasone assai diffuso (cfr. F. AGENO, Riboboli trecenteschi, in «Studi di filologia italiana», X, 1952). Secondo il DEI bescio (o besso) proviene forse dal tardo latino «béstius» cioè bestiale: va tenuto presente l’umbro e cortonese «bíscio» cioè bastardo che presuppone una forma parallela «bistius». S a n c t i o in vari manoscritti è trascritto in santoccio: è forse «una volgare storpiatura della voce sanctus postavi per non profanare la voce ‘santo’» (Dal Rio): si conosce solo un esempio nella Storia di Barlaam e Giosafatte, ed. cit., p. 41. Cfr. per ambedue i termini G. HERCZEG, I cosiddetti ‘nomi parlanti’ cit.; e per il secondo Nuovi testi fiorentini, I, p. 45. 48 si smarrì, si spaventò: cfr. III 9,59 n. 49 in quell’ora, in quel momento: IX concl., 12 n. 50 certamente, senza fallo. 51 Preghiere e scongiuri contro i vermi sono frequenti nelle raccolte di tali formule dei secoli XIV-XV, per es. nel Riccardiano 2067: cfr. Ubbie, ciancioni e ciarpe cit.; L. T. BELGRANO, in «Atti Soc. Ligure di Storia Patria», XLX, 1887; T. CASINI, in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», V, 1886; F. NOVATI, Antichi scongiuri, in Miscellanea Ceriani, Milano 1910; M. P. GIARDINI, op. cit., pp. 41 sgg. 52 In ripresa dopo proposizione causale (Marti). Letteratura italiana Einaudi 951 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 33 34 35 36 37 la madre del fanciullo non può essere a così fatto servigio, perché altri non c’impacciasse, qui ci serrammo, e ancora l’ha egli in braccio, e credom’io che egli non aspetti se non che il compagno suo abbia compiuto di dire l’orazioni, e sarebbe fatto, per ciò che il fanciullo è già tutto tornato in sé». Il santoccio53 credendo queste cose, tanto l’affezion del figliuol lo strinse, che egli non pose l’animo allo ’nganno fattogli dalla moglie, ma, gittato un gran sospiro, disse: «Io il voglio andare a vedere». Disse la donna: «Non andare, ché tu guasteresti ciò che s’è fatto; aspettati, io voglio vedere se tu vi puoi andare, e chiamerotti». Frate Rinaldo, che ogni cosa udito avea, ed erasi rivestito a bello agio e avevasi recato il fanciullo in braccio, come ebbe disposte le cose a suo modo, chiamò: «O comare, non sento io costà il compare?» Rispose il santoccio: «Messer sì». «Adunque,» disse frate Rinaldo «venite qua». Il santoccio andò là. Al quale frate Rinaldo disse: «Tenete il vostro figliuolo per la grazia di Dio sano, dove io credetti, ora fu54, che voi nol vedeste vivo a vespro; e farete di far porre una statua di cera55 della sua grandezza a laude di Dio dinanzi alla figura di messer santo Ambruogio56, per li meriti del quale Iddio ve n’ha fatta grazia». 53 santocchio, e quindi sempliciotto. Altri (Martinelli, Fanfani ecc.) pensa che sia un equivalente o una storpiatura di santolo, cioè «colui al quale è stato tenuto un figliolo al battesimo rispetto a quello che glielo ha tenuto». 54 mentre ci fu un momento che io credetti: VIII 9,94: «e fu ora che egli vorrebbe essere stato innanzi a casa sua». 55 Cfr. I 1,87 n. 56 Non il grande e famoso sant’Ambrogio, come si preciserà al par. 41, ma il domenicano beato Ambrogio Sansedoni da Siena (1220-86), cui nel 1288 fu dedicata dal Comune di Siena una cappella. E forse c’è, attraverso Ambrogio, un’allusione alla forma Letteratura italiana Einaudi 952 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII Il fanciullo, veggendo il padre, corse a lui e fecegli festa come i fanciulli piccoli fanno; il quale recatoselo in braccio, lagrimando non altramenti che se della fossa il traesse, il cominciò a baciare e a render grazie al suo compare che guerito gliele avea. 39 Il compagno di frate Rinaldo, che non un paternostro, ma forse più di quattro n’aveva insegnati alla fanticella, e donatale una borsetta di refe bianco, la quale a lui aveva donata una monaca, e fattala sua divota, avendo udito il santoccio alla camera della moglie chiamare, pianamente era venuto in parte della quale e vedere e udire ciò che vi si facesse poteva; veggendo la cosa in buoni termini, se ne venne giuso, ed entrato nella camera disse: «Frate Rinaldo, quelle quattro orazioni che m’imponeste, io l’ho dette tutte». 40 A cui frate Rinaldo disse: «Fratel mio, tu hai buona lena e hai fatto bene. Io per me, quando mio compar venne, non n’aveva dette che due57; ma Domenedio tra per la tua fatica e per la mia ci ha fatta grazia che il fanciullo è guerito». 41 Il santoccio fece venire di buoni vini e di confetti, e fece onore al suo compare e al compagno di ciò che essi avevano maggior bisogno che d’altro58. Poi, con loro insieme uscito di casa, gli accomandò a Dio; e senza alcuno indugio fatta fare la imagine di cera, la mandò ad appiccare con l’altre dinanzi alla figura di santo Ambruogio, ma non a quel di Melano59. 38 volgare «brogio» cioè sciocco, balordo (cfr. B. MIGLIORINI, Dal nome proprio al nome comune, Firenze 19682, p. 267). Potrebbe essere l’ultima nota di quell’espressivismo linguistico, prevalentemente in senso senese, che avviva questa novella. 57 «Nota che l’autore usa questo modo di parlare di sopra ove è questo segno * nella novella» (M.). Dai margini restaurati è scomparso il segno di richiamo: doveva probabilmente riferirsi alle precedenti simili espressioni equivoche (23,31), per cui cfr. anche VII X,8 n. 58 Solita situazione e solite espressioni: II 10,7; IV 2,30 ecc. 59 Costante questa forma nel D.: III 5,4 n. Letteratura italiana Einaudi 953 NOVELLA QUARTA 1 Tofano chiude una notte fuor di casa la moglie, la quale, non potendo per prieghi rientrare, fa vista di gittarsi in un pozzo e gittavi una gran pietra. Tofano esce di casa e corre là, ed ella in casa le n’entra e serra lui di fuori, e sgridandolo il vitupera1. 2 Il re, come la novella d’Elissa sentì aver fine, così senza indugio verso la Lauretta rivolto le dimostrò che gli piacea che ella dicesse; per che essa, senza stare2, così cominciò. 1 Questa novella sembra derivi direttamente dall’exemplum XIV della Disciplina clericalis di Pietro Alfonso, un’opera utilizzata e prediletta dal B. Ma l’episodio, «esemplare» delle ingannevoli arti femminili, ebbe larghissima fortuna nella narrativa antica e medievale, orientale e occidentale: per es. nel Cukasaptati (trad. Schmidt cit., XXV; e cfr. E. TEZA, La tradizione dei Sette Savi, Bologna 1864, pp. 36 ssg.) nella Historia septem sapientium del monaco Giovanni d’Altaselva (ed. Goedeke, Göttingen 1866; IV), nel Dolopathos (ed. Brunet-Montaiglon, Paris 1856, p.144) ecc. Quasi sempre ripetendo le prime versioni, l’episodio ritorna in altre raccolte diffusissime: per es. nei racconti medievali pubblicati dal Wright (Selection of latin Stories, London 1842, CI; e VI di quelli in versi), nelle tradizioni della Disciplina (Discipline de clergie e Chastiement d’un père son fils), nel Directorium di Giovanni di Capua e nella versione latina del Kalila e Dimna di Raimondo di Béziers (HERVIEUX, op. cit., V, pp. 766 sgg.), nell’Alphabetum narrationum (ed. cit., p. 362), in varie versioni e compilazioni dal Libro dei Sette Savi (A. D’ANCONA, Il libro dei Sette Savi, Pisa 1864, pp. 33 sgg. e 112 sgg.) nei Gesta Romanorum (ed. Grässe, Leipzig 19052, II, pp. 170 sgg. e anche p. 133) e così via. Per gli elementi popolari cfr. Aarne, 1377; Thompson e Rotunda, K 1511: e per possibili riscontri con romanzi greci: B. LAVAGNINI, Studi sul romanzo greco, Firenze 1950, p. 41. Fu subito ripresa dal Sercambi, CXLIII, e dalla Letteratura popolare (cfr. per es. ALVISI, Canzonette antiche cit., pp. 35; Fabliaux et Contes du XIIe et XIIIe siècle, ed. Barbazan e Meon, Paris 1808, II p. 99). Oltre le solite opere cfr. L. DI FRANCIA, Alcune novelle cit. (1904). Va notato anche, per questa e le seguenti novelle, che la satira del geloso è tema letterario tradizionale. 2 senza indugiare, senza metter tempo mezzo. Letteratura italiana Einaudi 954 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 3 4 5 - O Amore, chenti e quali3 sono le tue forze! Chenti i consigli e chenti gli avvedimenti! Qual filosofo, quale artista mai avrebbe potuto o potrebbe mostrare quegli argomenti, quegli avvedimenti, quegli dimostramenti che fai tu subitamente a chi seguita le tue orme4? Certo la dottrina di qualunque altro è tarda a rispetto della tua, sì come assai bene com prender si può nelle cose davanti mostrate. Alle quali, amorose donne, io una n’aggiugnerò da una semplicetta donna adoperata, tale che io non so chi altri se l’avesse potuta mostrare che Amore. Fu adunque già in Arezzo un ricco uomo, il quale fu Tofano5 nominato. A costui fu data per moglie una bellissima donna, il cui nome fu6 monna Ghita, della quale egli, senza saper perché, prestamente divenne geloso. Di che la donna avvedendosi prese sdegno, e più volte 3 quali e di che natura: Intr., 55 I. I due periodi sono costruiti con artifici cari alle artes dictandi (dicoli e tricoli, inculcatio e omeoteleuto) che sembrano anticipare l’alto finale della X 8,113 sgg. Alla sentenza e all’esordio teoricizzante (e cfr. VII 6,3 n.) corrisponde la conclusione su un proverbio, su una breve e incisiva dichiarazione morale (cfr. 31 n.). Si tenga presente anche VII 9,19 sgg. nn. 5 È abbreviazione di Cristofano (Cristoforo), nome corrente nell’Arezzo del tempo (come del resto Ghita, da Margherita): difficile quindi ogni ricerca di possibili suggestioni storiche. Ma ad Arezzo, in Via dell’Orto, di fronte alla così detta casa del Petrarca, vi è un pozzo chiamato, per tradizione secolare, il «pozzo di Tofano» (cfr. per es. A. DEL VITA, Guida d’Arezzo, Arezzo 1923, p. 57; U. TAVANTI, Arezzo in una giornata, Arezzo 1928, p. 106); e un «Tofanus notarius filius Federigi de Cortona» figura a metà del Trecento abitante proprio «in borgo Orti» (A. CHIARI, Una novella aretina del D., in «Atti e Memorie della R. Accademia Petrarca», n. s., XX, 1936). Coincidenza singolare: anche se, naturalmente, la determinazione di «Pozzo di Tofano» ha probabilmente origine letteraria, di gloria, di orgoglio municipale per l’unica novella ambientata in Arezzo dal B. (nella X 7 Arezzo sarà nominata solo come patria di Minuccio). Ricorre il solito endecasillabo per aprire la narrazione. 6 «Nota che in tre versi c’è quattro volte la voce fu» (Fanfani). 4 Letteratura italiana Einaudi 955 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII avendolo della cagione della sua gelosia addomandato, né egli alcuna avendone saputa assegnare, se non cotali generali e cattive7, cadde nell’animo8 alla donna di farlo morire9 del male del quale senza cagione aveva paura. 6 Ed essendosi avveduta che un giovane, secondo il suo giudicio molto da bene, la vagheggiava, discretamente con lui s’incominciò ad intendere. Ed essendo già tra lui e lei tanto le cose innanzi, che altro che dare effetto con opera alle parole non vi mancava, pensò la donna 7 di trovare similmente modo a questo. E avendo già tra’costumi cattivi del suo marito conosciuto lui dilettarsi di bere, non solamente gliele cominciò a commenda8 re, ma artatamente10 a sollicitarlo a ciò molto spesso. E tanto ciò prese per uso, che, quasi ogni volta che a grado l’era, infino allo inebriarsi bevendo il conducea; e quando bene ebbro il vedea, messolo a dormire, primieramente col suo amante si ritrovò, e poi sicuramente più volte di ritrovarsi con lui continuò11. E tanto di fidanza nella costui ebbrezza prese, che non solamente avea preso ardire di menarsi il suo amante in casa, ma ella talvolta gran parte della notte s’andava con lui a dimorare alla sua, la qual di quivi non era guari lontana. 9 E in questa maniera la innamorata donna continuando, avvenne che il doloroso12 marito si venne accorgendo che ella, nel confortare lui a bere, non beveva però essa mai; di che egli prese sospetto non così fosse come era, cioè che la donna lui inebriasse13 per poter poi fare 10 il piacer suo mentre egli addormentato fosse. E volendo di questo, se così fosse, far pruova, senza avere il dì be7 generiche e non buone, ingiustificate. venne in mente: II 6,48: «e caddegli nell’animo»; IV 1,19 n. «In senso psicologico: crepare, schiattare» (Marti). 10 ad arte, con astuzia: II 9,56 n. 11 C o n t i n u a r e si può costruire col d i (III 3,21 n.) come cominciare (VI 6,13). 12 sciagurato: VII 8,48: «ubriaco doloroso che non si vergogna». 13 Causativo: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 105. 8 9 Letteratura italiana Einaudi 956 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII vuto, una sera tornò a casa mostrandosi 14 il più ebbro uomo, e nel parlare e ne’ modi, che fosse mai; il che la donna credendo né estimando che più bere gli bisognasse a ben dormire, il mise prestamente15 a letto. E fatto ciò, secondo che alcuna volta era usata di fare, uscita di casa, alla casa del suo amante se n’andò, e quivi infino alla mezza notte dimorò. Tofano, come la donna non vi sentì16, così si levò, e 11 andatosene alla sua porta, quella serrò dentro17 e posesi alle finestre, acciò che tornare vedesse la donna e le facesse manifesto che egli si fosse accorto delle maniere sue; e tanto stette che la donna tornò. La quale, tornando a casa e trovandosi serrata di fuori, fu oltre modo dolente, e cominciò a tentare se per forza potesse l’uscio aprire. 12 Il che poi che Tofano alquanto ebbe sofferto18, disse: «Donna, tu ti fatichi invano, per ciò che qua entro non potrai tu entrare. Va, tornati19 là dove infino ad ora se’ stata, e abbi per certo che tu non ci20 tornerai mai, infino a tanto che io di questa cosa, in presenza de’ parenti tuoi e de’ vicini, te n’avrò fatto quello onore che ti si conviene». 13 La donna lo ’ncominciò a pregar per l’amor di Dio 14 «Direbbe meglio si mostrò». Così M., non comprendendo di essere di fronte a uno dei non insoliti gerundi al posto di un passato remoto (mostrò), come già rilevò il Mussafia (p. 467: e cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 491 sgg.); il quale illustrò anche il valore del seguente relativo ( i l c h e ) come dimostrativo colla congiunzione (e la donna credendolo e stimando che non gli bisognasse bere di più per dormire bene, profondamente). 15 Sottinteso: «a dormire»; oppure «dove potesse fare questo». Per la costruzione di questa frase cfr. M. BARDI, Chiose e Note, in «Studi Danteschi», X, I925. In generale invece si pone virgola dopo b i s o g n a s s e . 16 non sentì in casa. 17 Cioè dalla parte interna. 18 sopportato. 19 I soliti imperativi coordinati di tipo parlato: cfr. II 5,45 n. 20 qui. Letteratura italiana Einaudi 957 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 14 15 16 17 18 che piacer gli dovesse d’aprirle. per ciò che ella non veniva donde s’avvisava21, ma da vegghiare22 con una sua vicina, per ciò che le notti eran grandi23 ed ella non le poteva dormir tutte24, né sola in casa vegghiare. Li prieghi non giovavano nulla, per ciò che quella bestia era pur disposto25 a volere che tutti gli aretin sapessero la loro vergogna, laddove niun la sapeva. La donna, veggendo che il pregar non le valeva, ricorse al minacciare e disse: «Se tu non m’apri, io ti farò il più tristo uom che viva». A cui Tofano rispose: «E che mi potresti tu fare?» La donna, alla quale Amore aveva già aguzzato co’suoi consigli lo ‘ngegno, rispose: «Innanzi che io voglia sofferire la vergogna che tu mi vuoi fare ricevere a torto, io mi gitterò in questo pozzo che qui è vicino, nel quale poi essendo trovata morta, niuna persona sarà che creda che altri che tu, per ebrezza26, mi v’abbia gittata; e così o ti converrà fuggire e perdere ciò che tu hai ed essere in bando, o converrà che ti sia tagliata la testa, sì come a micidial27 di me che tu veramente sarai stato». Per queste parole niente si mosse Tofano dalla sua sciocca oppinione. Per la qual cosa la donna disse: «Or ecco, io non posso più sofferire questo tuo fastidio28; Dio il ti perdoni; farai riporre questa mia rocca che io lascio qui29». E questo detto, essendo la notte tanto oscura che ap21 di là donde egli credeva. Cfr. IV 8,17 n. 23 lunghe: Beato Giordano, Prediche, ed. Manni, Firenze 1739, p. 205: «sempre di state sono i di grandi, e il verno piccioli». 24 per intero. Raro quest’uso di dormire transitivo: ma cfr. Petrarca, CCCXXVII 9: «Dormit’hai, bella donna, un breve sonno». 25 Maschile perché la b e s t i a è un uomo: e cfr. VI intr., 9. 26 a causa della tua ubriachezza. 27 uccisore: II 6,39 n. 28 questo dolore che tu mi provochi. 29 «Deh ridi un poco, tu che leggi» (M.). R o c c a è arnese per filare la lana. 22 Letteratura italiana Einaudi 958 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 19 20 21 22 23 24 pena si sarebbe potuto veder l’un l’altro per la via, se n’andò la donna verso il pozzo, e presa una grandissima pietra che a piè del pozzo era, gridando: «Iddio, perdonami», la lasciò cadere entro nel pozzo. La pietra giugnendo nell’acqua fece un grandissimo romore; il quale come Tofano udì, credette fermamente che essa gittata vi si fosse; per che, presa la secchia con la fune, subitamente si gittò di casa30 per aiutarla, e corse al pozzo. La donna, che presso all’uscio della sua casa nascosa s’era, come il vide correre al pozzo, così ricoverò31 in casa e serrossi dentro e andossene alle finestre e cominciò a dire: «Egli si vuole inacquare quando altri il bee, non poscia la notte32». Tofano, udendo costei, si tenne scornato e tornossi all’uscio; e non potendovi entrare, le cominciò a dire che gli aprisse. Ella, lasciato stare il parlar piano come infino allora aveva fatto, quasi gridando cominciò a dire: «Alla croce di Dio33, ubriaco fastidioso, tu non c’enterrai stanotte; io non posso più sofferire questi tuoi modi; egli convien che io faccia vedere ad ogn’uomo chi tu se’ e a che ora tu torni la notte a casa». Tofano d’altra parte crucciato le ’ncominciò a dir villania e a gridare; di che i vicini, sentendo il romore, si levarono, e uomini e donne, e fecersi alle finestre e domandarono che ciò fosse. La donna cominciò piagnendo a dire: «Egli è questo 30 si precipitò fuori di casa: cfr. II 5,83 e 7,12; III 6,43; IV 2,1; VII 6,5. 31 si rifugiò. 32 Il vino bisogna annacquarlo quando si ( a l t r i uno) beve, e non più tardi di notte. La sentenza è decontestualizzata col classico mezzo dell’ironia (cfr. Boncompagno da Signa, Rhetorica, ed. cit., p. 290). 33 Giuramento allora corrente (Giuro per la croce di Dio), usato da un’altra donna e proprio con un altro uomo accusato falsamente di ubriachezza (VII 8,45; e anche 37). E cfr. V 10,55; IX 5,53. Letteratura italiana Einaudi 959 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 25 26 27 28 29 30 reo uomo, il quale mi torna ebbro la sera a casa, o s’addormenta per le taverne e poscia torna a questa otta34; di che35 io avendo lungamente sofferto e dettogli molto male e non giovandomi36, non potendo più sofferire, ne gli ho voluta fare questa vergogna di serrarlo fuor di casa, per vedere se egli se ne ammenderà». Tofano bestia, d’altra parte, diceva come il fatto era stato, e minacciava forte. La donna co’ suoi vicini diceva: «Or vedete che uomo egli è! Che direste voi se io fossi nella via come è egli, ed egli fosse in casa come sono io? In fè di Dio che io dubito che voi non credeste che egli dicesse il vero. Ben potete a questo conoscere il senno suo. Egli dice appunto che io ho fatto ciò che io credo che egli abbia fatto egli. Egli mi credette spaventare col gittare non so che nel pozzo; ma or volesse Iddio che egli vi si fosse gittato da dovero e affogato, sì che il vino, il quale egli di soperchio ha bevuto, si fosse molto bene inacquato». I vicini, e gli uomini e le donne, cominciaro a riprender tututti37 Tofano, e a dar la colpa a lui e a dirgli villania di ciò che contro alla donna diceva; e in brieve tanto andò il romore38 di vicino in vicino, che egli pervenne infino a’parenti della donna. Li quali venuti là, e udendo la cosa e da un vicino e da altro, presero Tofano e diedergli tante busse che tutto il ruppono39. Poi, andati in casa, presero le cose della donna e con lei si ritornarono a casa loro, minacciando Tofano di peggio. Tofano, veggendosi mal parato40, e che la sua gelosia 34 a quest’ora: VII 2,12 n. per la qual cosa. e non ottenendo alcun risultato. 37 tutti quanti: cfr. III concl., 14 n. 38 la notizia, la fama: V 6,11 n. 39 lo ammaccarono, lo pestarono: II 1,22: «tutto pesto e tutto rotto il trassero»; VII 7,43. 40 ridotto a mal partito. 35 36 Letteratura italiana Einaudi 960 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII l’aveva mal condotto, sì come quegli che tutto ’l suo ben voleva alla donna, ebbe alcuni amici mezzani41, e tanto procacciò che egli con buona pace riebbe la donna a casa sua alla quale promise di mai più non esser geloso; e oltre a ciò le diè licenza che ogni suo piacer facesse, ma 31 sì saviamente, che egli non se ne avvedesse42. E così, a modo del villan matto, dopo danno fe’ patto43. E viva amore, e muoia soldo44 e tutta la brigata. - 41 ricorse ad alcuni amici come intercessori, mediatori di pace: I 6,9 n. 42 Tutto il finale di questa novella è simile per molti aspetti a quello della VII 8. 43 Per il motto sul «villan matto» cfr. D. MERLINI, Saggio di ricerche sulla satira contro il villano, Torino 1894, p. 127; Thompsonn, J 1705.I, P 411; Novati, Serie proverbiali cit., III, P, 56 e IV, passim. 44 Oggi diremmo: e crepi l’avarizia: naturalmente anche a tutta la brigata si riferisce l’iniziale viva. Finale su proverbi, non insolito nel D. (per es. II 7 e 9, V 10, VIII 10): e cfr. 3 n. Letteratura italiana Einaudi 961 NOVELLA QUINTA 1 Un geloso in forma di prete1 confessa la moglie, al quale ella dà a vedere che ama un prete che viene a lei ogni notte; di che mentre che il geloso nascostamente prende guardia all’uscio, la donna per lo tetto si fa venire un suo amante, e con lui si dimora2. 2 Posto avea fine la Lauretta al suo ragionamento3, e avendo già ciascun commendata la donna che ella bene avesse fatto e come a quel cattivo si conveniva, il re, per non perder tempo, verso la Fiammetta voltatosi, piacevolmente il carico le ’mpose del novellare; per la qual cosa ella così cominciò. - Nobilissime donne, la precedente novella mi tira a dovere io similmente ragionar 4d’un geloso, estimando che ciò che si fa loro dalle loro donne, e massimamente 3 1 travestito da prete. Il tema di questa novella appare assai diffuso nella letteratura medievale, senza che tuttavia si possano con sicurezza fissare i rapporti tra le varie versioni né stabilire la «fonte» del B. Si citano un fabliau, Du chevalier qui est sa fame confesse (Recueil général cit., I 16; BÉDIER, op. cit., pp. 290 sgg., 453), il romanzo provenzale Flamenca (ed. p. Meyer, Paris 19012: vaghissimi i riscontri), la Scala Celi di Giovanni Junior e gli Exempla di Jacques de Vitry (ed. Crane, London 1890, f. 49 e p. LXXXVIII), antichi racconti tedeschi piuttosto aberranti (Gesammtabenteuer, XLlV e Erzählungen ... gesammelt durch A. von Keller, Stuttgart 1891, p. 383); e in fine un testo tratto da un codice magliabechiano del Trecento (G. PAPANTI, Catalogo dei novellieri italiani, Livorno 1871, n. 28), un monologo drammatico bergamasco (V. DE BARTHOLOMAEIS, Un frammento bergamasco e una novella del D., in Scritti vari di Filologia ... per E. Monaci, Roma 1901 e Rime giullarescbe cit., pp. 22 sgg.) e alcune versioni popolaresche e novellistiche (Thompson e Rotunda, K 1528, J 1545.2, T 381.1*). 3 Purg., XVIII 1: «Posto avea fine al suo ragionamento»; e cfr. VIII 5,2 n. 4 Esordio non insolito, per es. IV 7,3: «la novella detta da Panfilo mi tira a doverne dire una ... simile» e cfr. anche I 8,3. 2 Letteratura italiana Einaudi 962 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 4 5 quando senza cagione ingelosiscono, esser ben fatto5. E se ogni cosa avessero i componitori delle leggi6 guardata, giudico che in questo essi dovessero alle donne non altra pena avere constituta7 che essi constituirono a colui che alcuno offende sé difendendo8; per ciò che i gelosi sono insidiatori della vita delle giovani donne e diligentissimi cercatori della lor morte. Esse stanno tutta la settimana rinchiuse e attendono alle bisogne familiari e domestiche9, disiderando, come ciascun fa, d’aver poi il dì delle feste alcuna consolazione, alcuna quiete, e di potere alcun diporto10 pigliare, sì come prendono i lavoratori dei campi, gli artefici delle città e i reggitori delle corti11; come fece Iddio, che il dì settimo da tutte le sue fatiche si riposò; e come vogliono le leggi sante e le civili12, le quali, allo onor di Dio e al ben comune di ciascun riguardando, hanno i dì delle fatiche distinti da quegli del riposo. Alla qual cosa fare niente i gelosi consentono, anzi quegli dì che a tutte l’altre son lieti, fanno ad esse, più serrate e più rinchiuse13 tenendole, esser più miseri e più dolenti; il che quanto e 5 Cambiamento di costruzione non raro nel D., specialmente quando dopo la che s’inserisce un lungo inciso. 6 legislatori. «Componere leges» e «compositor iuris» sono espressioni latine correnti, specie nei testi giuridici, per es. di Giustino e Giustiniano. 7 Stabilita. Due endecasillabi di seguito danno solennità a questa dichiarazione, quasi una sentenza. 8 Cioè per legittima difesa. 9 Naturale, per tutto questo periodo, il ricordo del quadro centrale del Proemio, io sgg.: e cfr. più avanti 5 e 8. 10 sollazzo, svago: IV concl., 16 n. 11 i magistrati. 12 Cfr. II 10,9 e 16 nn. 13 Dittologia sullo stesso concetto che può ricordare Petrarca, CCC 5 sgg.: «che chiude e serra ... Lo spirto»: «se pure il s e r r a t e non vuol intendersi della casa in generale e il rinchiuse di una stanza; tanto che significhi non solo serrate in casa ma anche rinchiuse nelle loro stanze» (Fanfani). Letteratura italiana Einaudi 963 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 6 7 8 9 qual consumamento sia delle cattivelle14 quelle sole il sanno che l’hanno provato15. Perché, conchiudendo, ciò che una donna fa ad un marito geloso a torto, per certo non condennare ma commendare16 si dovrebbe. Fu adunque in Arimino17 un mercatante, ricco e di possessioni e di denari assai, il quale avendo una bellissima donna per moglie, di lei divenne oltre misura geloso: né altra cagione a questo avea se non che, come egli molto l’amava e molto bella la teneva18 e conosceva che ella con tutto il suo studio s’ingegnava di piacergli, così estimava che ogn’uomo l’amasse, e che ella a tutti paresse bella e ancora che ella s’ingegnasse così di piacere altrui come a lui (argomento di cattivo uomo e di poco sentimento era19). E così ingelosito tanta guardia ne prendeva e sì stretta20 la tenea, che forse assai son di quegli che a capital pena son dannati, che non sono da’ pregionieri21 con tanta guardia servati22. La donna, lasciamo stare che a nozze o a festa o a chiesa andar potesse23, o il piè della casa trarre in alcun 14 poverelle, miserelle: II,53 n. Il ritmo e la struttura del periodo e il pensiero stesso ricordano quelli dell’inizio del Proemio: e cfr. prima n. 4. 16 lodare. 17 Rimini: forma latineggiante (Ariminum). Nelle Esposizioni, V litt. 147 sgg. «Rimino». 18 stimava, reputava: III 7,67 n. 19 Già il Salviati osservò che questo è un giudizio che la novellatrice interpone di suo. Interventi simili non mancano del resto anche altrove nel D. (per es. I 6,9; III 2,18 ecc.; e anche qui 46). 20 così severamente sorvegliata, costretta in casa: come nel Proemio, 10: «ristrette da’ voleri ... de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano»; III 1,23 n. 21 carcerieri: II 6,43 n. 22 custoditi. 23 non parliamo di potere andare a nozze ecc. La locuzione lasciamo stare può esser costruita con negativa o no, con una differenza non grammaticale ma logica: cfr. Intr., 27 n.; III 3,10; III 5,14 ecc., e la sottile trattazione del Mussafia, pp. 511 sgg. 15 Letteratura italiana Einaudi 964 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 10 11 12 13 modo, ma ella non osava farsi ad alcuna finestra né fuor della casa guardare per alcuna cagione; per la qual cosa la vita sua era pessima, ed essa tanto più impaziente sosteneva questa noia, quanto meno si sentiva nocente24. Per che, veggendosi a torto fare ingiuria al25 marito, s avvisò, a consolazion di sé medesima, di trovar modo (se alcuno ne potesse trovare) di far sì che a ragione le fosse fatto26. E per ciò che a finestra far non si potea, e così modo non avea di potersi mostrare contenta dello amore d’alcuno che atteso l’avesse27 per la sua contrada passando, sappiendo che nella casa la quale era allato alla sua aveva28 alcun giovane e bello e piacevole, si pensò, se pertugio alcun fosse nel muro che la sua casa divideva da quella, di dovere per quello tante volte guatare, che ella vedrebbe il giovane in atto da potergli parlare, e di donargli il suo amore, se egli il volesse ricevere; e se modo vi si potesse vedere, di ritrovarsi con lui alcuna volta, e in questa maniera trapassare la sua malvagia29 vita infino a tanto che il fistolo30 uscisse da dosso al suo marito. E venendo ora in una parte e ora in una altra, quando il marito non v’era, il muro della casa guardando, vide per avventura in una parte assai segreta di quella il muro alquanto da una fessura esser aperto; per che, riguardando per quella, ancora che assai male discerner potesse dall’altra parte, pur s’avvide che quivi era una camera dove capitava la fessura, e seco disse: «Se questa fosse la camera di Filippo» (cioè del giovane suo vicino) 24 colpevole: II 6,39 n. dal: Intr., 20 n. a senso con tutto quanto è detto sopra. 27 l’avesse vagheggiata: come intendere (III 3,17 n.): cfr. anche III 4,12 n. E per il participio maschile cfr. Intr., 35 n. 28 v’era: II 5,77 n. 29 triste, infelice. 30 quel demone, quello spirito maligno (della gelosia): VIII 2,24. È termine usato specie in senso metaforico. 25 26 Concordanza Letteratura italiana Einaudi 965 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 14 15 16 17 18 «io sarei mezza fornita31». E cautamente da una sua fante, a cui di lei incresceva, ne fece spiare, e trovò che veramente il giovane in quella dormiva tutto solo; per che, visitando la fessura spesso, e, quando il giovane vi sentiva, faccendo cader pietruzze e cotali32 fuscellini, tanto fece che, per veder che ciò fosse, il giovane venne quivi. Il quale ella pianamente33 chiamò; ed egli che la sua voce conobbe, le rispose; ed ella, avendo spazio, in brieve tutto l’animo suo gli aprì. Di che il giovane contento assai, sì fece che dal suo lato il pertugio si fece maggiore, tuttavia in guisa faccendo che alcuno avvedere non se ne potesse; e quivi spesse volte insieme si favellavano e toccavansi la mano, ma più avanti per la solenne34 guardia del geloso non si poteva35. Ora, appressandosi la festa del Natale, la donna disse al marito che, se gli piacesse, ella voleva andar la mattina della pasqua36 alla chiesa e confessarsi e comunicarsi come fanno gli altri cristiani. Alla quale il geloso disse: «E che peccati ha’ tu fatti, che tu ti vuoi confessare?» Disse la donna: «Come! Credi tu che io sia santa, 31 sarei a metà dell’opra, avrei compiuto a mezzo l’impresa, sarei quasi a posto. 32 certi. L’espediente del buco nel muro è uno dei più popolari in queste novelle di amore e di gelosia (Thompson e Rotunda, T 41.1); ed appariva anche nella mitica e pietosa storia di Piramo e Tisbe, come era riferita dal B., chiosa al Teseida, VII 50; cfr. S. Bernardino, Novellette, Bologna 1868, XIV. 33 sottovoce. 34 accurata, severa: II 7,3 2 n.: «la solenne guardia che faceva di lei». 35 «Di be’ tratti si può lor torre, ma guardarle non mai» (M.). 36 Così erano chiamate in generale le principali feste religiose: Testi fiorentini, p. 39: «per tutte le pasque del’anno, cioè per lo Natale, per Befanie, per Resurrexio, per l’Assensione, per le Pentecoste, per Ogni Sancti, e per kalende gennaio e per tutte e quattro le festivita di di Sancta Maria e per Sancto Gilio»; Sacchetti, CXLII: «per una pasqua di Natale». Letteratura italiana Einaudi 966 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII perché tu mi tenghi37 rinchiusa? Ben sai che io fo de’ peccati come l’altre persone che ci38 vivono, ma io non gli vo’ dire a te, ché tu non se’prete». 19 Il geloso prese di queste parole sospetto e pensossi di voler saper che peccati costei avesse fatti e avvisossi del modo nel quale ciò gli verrebbe fatto; e rispose che era contento, ma che non volea che ella andasse ad altra chiesa che alla cappella loro; e quivi andasse la mattina per tempo e confessassesi o dal cappellan loro o da quel prete che il cappellan le desse e non da altrui, e tornasse di presente39 a casa. Alla donna pareva mezzo avere inteso; ma, senza altro dire, rispose che sì farebbe. 20 Venuta la mattina della pasqua, la donna si levò in su l’aurora e acconciossi e andossene alla chiesa impostale dal marito. Il geloso d’altra parte levatosi se n’andò a quella medesima chiesa e fuvvi prima di lei; e avendo già col prete di là entro composto40 ciò che far voleva, messasi prestamente una delle robe del prete indosso con un cappuccio grande a gote41, come noi veggiamo che i preti portano, avendosel tirato un poco innanzi, si mise a stare in coro. 21 La donna venuta alla chiesa fece domandare il prete42. Il prete venne, e udendo dalla donna che confessar si volea, disse che non potea udirla, ma che le manderebbe un suo compagno; e andatosene, mandò il geloso 37 Per queste forme del congiuntivo presente (che ricorrono anche a par. 40) cfr. II 7,100 n. 38 qui, in questo mondo: IV 2,19 n. 39 subito: I 177 n. 40 fissato, combinato: V 5,13 n. 41 Cioè che copriva le gote, e non «a foggia», cioè stretto e ricadente, come ormai si usava correntemente specie dai laici (Sacchetti, CV e CLXV); e in generale per tali distinzioni e per l’uso dei preti di portare il cappuccio cfr. Merkel, pp. 73 sgg. 42 Per questa costruzione di domandare invece della più comune domandare del cfr. II 6,72 n.: «il garzon che tu dimandi»; e nota il solito f a r e fraseologico. Letteratura italiana Einaudi 967 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII nella sua malora43. Il quale molto contegnoso vegnendo, ancora che egli44 non fosse molto chiaro il dì ed egli s’avesse molto messo il cappuccio innanzi agli occhi, non si seppe sì occultare che egli non fosse prestamente conosciuto dalla donna; la quale, questo vedendo, disse seco medesimo45: «Lodato sia Iddio, che costui di geloso è divenuto prete; ma pure lascia fare, ché io gli darò 23 quello che egli va cercando». Fatto adunque sembiante di non conoscerlo, gli si pose a sedere a’ piedi46. Messer lo geloso s’avea messe alcune petruzze in bocca47, acciò che esse alquanto la favella gli ’mpedissero, sì che egli a quella48 dalla moglie riconosciuto non fosse, parendogli in ogn’altra cosa sì del tutto esser divisato 49 che esser da lei riconosciuto a niun partito50 credeva. 24 Or venendo alla confessione, tra l’altre cose che la donna gli disse, avendogli prima detto come maritata era, si fu che ella era innamorata d’un prete, il quale ogni notte con lei s’andava a giacere. Quando il geloso udì questo, e’gli parve che gli fosse 25 dato d’un coltello nel cuore51; e se non fosse che volontà lo strinse di saper più innanzi, egli avrebbe la confessio22 43 Cioè alla sua rovina, alla sua condanna. Due e g li di valore diverso: il primo è il solito soggetto grammaticale di un impersonale (Intr., 6o n.); il secondo si riferisce al geloso. 45 È un caso di medesimo indeclinabile, non raro nei testi del Due-Trecento e nel B. stesso (cfr. IV 2,6 n.; Comedia, XXXII 5; Corbaccio, 462): cfr. A. E. QUAGLIO, Parole del B., LXVI. 46 Era il classico atteggiamento della penitente: cfr. III 3,22 n. 47 Stratagemma che può ricordare l’espediente di Demostene, di cui il B. leggeva per es. nel De oratore, I 61 e in Valerio Massimo, VIII 7. 48 Cioè alla favella. 49 trasfigurato, travisato: cfr. IX 1,9: «era si contrafatto e di si divisato viso». 50 in nessun modo. 51 Così anche in situazione analoga nella II 9,33 n. 44 Letteratura italiana Einaudi 968 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 26 27 28 29 30 31 32 33 ne abbandonata andatosene52. Stando adunque fermo domandò la donna: «E come? Non giace vostro marito con voi?» La donna rispose: «Messer sì». «Adunque,» disse ’l geloso «come vi puote anche il prete giacere?» «Messere,» disse la donna «il prete con che arte il si faccia non so, ma egli non è in casa uscio sì serrato che, come egli il tocca, non s’apra; e dicemi egli che, quando egli è venuto a quello della camera mia, anzi che egli l’apra, egli dice certe parole per le quali il mio marito incontanente s’addormenta, e come addormentato il sente, così apre l’uscio e viensene dentro e stassi con meco, e questo non falla mai53». Disse allora il geloso: «Madonna, questo è mal fatto, e del tutto egli ve ne conviene rimanere54». A cui la donna disse: «Messere, questo non crederrei io mai poter fare, per ciò che io l’amo troppo». «Dunque,» disse il geloso «non vi potrò io assolvere». A cui la donna disse: «Io ne son dolente: io non venni qui per dirvi le bugie; se io il credessi poter fare, io il vi direi». Disse allora il geloso: «In verità, madonna, di voi m’incresce, ché io vi veggio a questo partito perder l’anima; ma io, in servigio di voi, ci voglio durar fatica in far mie orazioni speziali a Dio in vostro nome, le quali forse vi gioveranno; e sì vi manderò alcuna volta un mio cherichetto, a cui voi direte se elle vi saranno giovate o no; e se elle vi gioveranno, sì procederemo innanzi». 52 se ne sarebbe andato: anche qui un solo ausiliare è fatto servire a due verbi che lo vorrebbero diverso (II 8,95 n.). 53 e questo riesce sempre. L’atteggiamento del B. di fronte alla magia e negromanzia, salvo nelle fiabesche X 5 e 9, è di scetticismo e di canzonatura (cfr. III 8; VII 1 e 3 e 9: VIII 3 e 6 e 7 e 9; IX 1 e 5). 54 astenere, cessare: III 3,19 n. Letteratura italiana Einaudi 969 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 34 35 36 37 38 A cui la donna disse: «Messer, cotesto non fate voi che voi mi mandiate persona a casa, ché, se il mio marito il risapesse, egli è sì forte geloso che non gli trarrebbe del capo tutto il mondo che per altro che per male vi si venisse, e non avrei ben con lui di questo anno55». A cui il geloso disse: «Madonna, non dubitate di questo, ché per certo io terrò sì fatto modo, che voi non ne sentirete mai parola da lui». Disse allora la donna: «Se questo vi dà il cuore di fare, io son contenta» ; e fatta la confessione56 e presa la penitenzia, e da’ piè levataglisi, se n’andò a udire la messa. Il geloso soffiando57 con la sua mala ventura s’andò a spogliare i panni del prete, e tornossi a casa, disideroso di trovar modo da dovere il prete e la moglie trovare insieme, per fare un mal giuoco e all’uno e all’altro58. La donna tornò dalla chiesa, e vide bene nel viso al marito che ella gli aveva data la mala pasqua; ma egli, quanto poteva, s’ingegnava di nasconder ciò che fatto avea e che saper gli parea. E avendo seco stesso diliberato di dover la notte vegnente star presso all’uscio della via ad aspettare se il prete venisse, disse alla donna: «A me conviene questa sera essere a cena e ad albergo altrove, e per ciò serrerai ben l’uscio da via e quello da59 mezza scala e quello della camera, e quando ti parrà t’andrai a letto». 55 in tutto quest’anno: secondo l’uso temporale di di (di questi giorni, di quaresima, ecc.): cfr. III 5,30 n.; e anche, con valore più generale, mai più. 56 detto il «confiteor» o un generale atto di contrizione (VI 10,34). 57 sospirando o sbuffando: VI 8,3 n. 58 giocare un brutto tiro e all’uno e all’altra: ma il B. usa il maschile considerando non il sesso ma la persona in se stessa, l’individuo: cfr. II 6,34 n.; e per l’espressione VII 8,26 n. 59 Uso particolare di d a per indicare il luogo dove o verso cui è qualcosa: cfr. Sacchetti, CX: «entravano dalla porta da via». Letteratura italiana Einaudi 970 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 39 40 41 42 43 44 La donna rispose: «In buon’ora60». E quando tempo ebbe se n’andò alla buca e fece il cenno usato, il quale come Filippo sentì, così di presente61 a quel venne. Al quale la donna disse ciò che fatto avea la mattina, e quello che il marito appresso mangiare l’aveva detto, e poi disse: «Io son certa che egli non uscirà di casa, ma si metterà a guardia dell’uscio; e per ciò truova modo che su per lo tetto tu venghi stanotte di qua62, sì che noi siamo insieme». Il giovane, contento molto di questo fatto, disse: «Madonna, lasciate far me». Venuta la notte, il geloso con sue armi tacitamente si nascose in una camera terrena, e la donna avendo fatti serrar tutti gli usci, e massimamente quello da mezza scala, acciò che il geloso su non potesse venire, quando tempo le parve e63 il giovane per via assai cauta dal suo lato se ne venne, e andaronsi a letto, dandosi l’un dell’altro piacere e buon tempo; e venuto il dì, il giovane se ne tornò in casa sua. Il geloso, dolente e senza cena, morendo di freddo, quasi tutta la notte stette con le sue armi allato all’uscio ad aspettare se il prete venisse; e appressandosi il giorno, non potendo più vegghiare, nella camera terrena si mise a dormire. Quindi vicin di terza64 levatosi, essendo già l’uscio della casa aperto faccendo sembiante di venire altron- 60 Cioè sta bene: VII 2,23 n. subito, immediatamente. «Questo modo avverbiale, e il suo fratello di là, suole usarsi, così senza riscontro, parlando di una stanza della casa rispetto all’altra ... E qui ancora può considerarsi come una medesima casa, perché c’era un’apertura nel muro» (Fanfani). Per la solita forma della II sing. del congiuntivo cfr. qui 18 n. 63 ecco che: I 1,39 n. 64 Cioè verso le nove di mattina. 61 62 Letteratura italiana Einaudi 971 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 45 46 47 48 de65, se ne salì in casa sua e desinò. E poco appresso mandato un garzonetto, a guisa che stato fosse il cherico del prete che confessata l’avea, la mandò dimandando66 se colui cui ella sapeva più venuto vi fosse. La donna, che molto bene conobbe il messo, rispose che venuto non v’era quella notte, e che, se così facesse, che67 egli le potrebbe uscir di mente, quantunque ella non volesse che di mente l’uscisse. Ora che vi debbo dire? Il geloso stette molte notti per volere giugnere68 il prete all’entrata, e la donna continuamente col suo amante dandosi69 buon tempo. Alla fine il geloso, che più sofferir non poteva, con turbato viso domandò la moglie ciò70 che ella avesse al prete detto la mattina che confessata s’era. La donna rispose che non gliele voleva dire, per ciò che ella non era onesta cosa né convenevole. A cui il geloso disse: «Malvagia femina, a dispetto di te io so ciò che tu gli dicesti; e convien del tutto che io sappia chi è il prete di cui tu tanto se’innamorata e che teco per suoi incantesimi ogni notte si giace, o io ti segherò le veni71». La donna disse che non era vero che ella fosse innamorata d’alcun prete. 65 da altrove, cioè da fuori di casa: III 5,13 n.; e così altrove nella VII 6,8 66 Il solito m a n d a r e col gerundio per cui cfr. IV 2,23 n. 67 Consueta ripetizione della c h e dopo incidentale condizionale (I 3,11 n.). 68 cogliere, sorprendere. 69 Dipende sempre da s t e t te , cioè: continuò a darsi. 70 Per d o m a n d a r e con due accusativi cfr. II 7,87 n. 71 Come per es. p o r t a (II 2,16 n.), s p i n a (IX concl., 9), v e n a ha due desinenze al plurale (vene e veni): VIII 3,62 n. (cfr. Rohlfs, 362). Letteratura italiana Einaudi 972 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 49 50 51 52 53 54 «Come!» disse il geloso «non dicestù così e così72 al prete che ti confessò?» La donna disse: «Non che egli te l’abbia ridetto, ma egli basterebbe, se tu fossi stato presente73, mai sì74, che io gliele dissi». «Dunque,» disse il geloso «dimmi chi è questo prete, e tosto». La donna cominciò a sorridere, e disse: «Egli mi giova molto75 quando un savio uomo è da una donna semplice menato come si mena un montone76per le corna in beccheria; benché tu non se’ savio, né fosti da quella ora in qua che tu ti lasciasti nel petto entrare il maligno spirito della gelosia, senza saper perché; e tanto77 quanto tu se’ più sciocco e più bestiale, cotanto ne diviene la gloria mia minore. Credi tu, marito mio, che io sia cieca degli occhi della testa, come tu se’ cieco di quegli della mente? Certo no; e vedendo conobbi chi fu il prete che mi confessò, e so che tu fosti desso tu78; ma io mi puosi in cuore di darti quello che tu andavi cercando, e dieditelo. Ma, se tu 72 «È modo tuttor dell’uso per accennare cose già dette, senza riferirle, a chi già le sa» (Fanfani). 73 Non solamente se egli te lo avesse riferito, ma non potresti saperlo meglio se tu fossi stato presente (quello che sai sarebbe sufficiente anche se tu fossi stato presente). Per costruzioni simili cfr. I 2,12 n. 74 certo sì: col solito mai rafforzativo (cfr. per es. III 3,36 n.). 75 Mi piace molto, ho molto caro: alla latina (juvat impersonale): Petrarca, XXXVII 69: «E io son un di quei che ’l pianger giova». 76 Solito simbolo di sciocchezza (III 3,37 n.: V 1,23 n.), che ben campeggia in questo discorso sulla «bestialità» del geloso e cornuto. 77 «Troppo ci è quello ‘tanto’» (M.). Ma l’annotazione non è esatta: perché era dell’uso porre nella prima parte del confronto due particelle, di cui si ripeteva la prima all’inizio della seconda parte: IV 1,46: «li quali, così come loro era stato comandato, così operarono» e III concl., 10: «tale quale tu l’hai, cotale la dì». Cfr. ampia trattazione in Annotazioni, pp. 203 sgg. 78 fosti tu, proprio tu: II 5,10 n. Letteratura italiana Einaudi 973 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 55 56 57 58 fussi stato savio come esser ti pare, non avresti per quel modo tentato di sapere i segreti della tua buona79 donna, e, senza prender vana sospezion, ti saresti avveduto di ciò che ella ti confessava così essere il vero, senza avere ella in cosa alcuna peccato. Io ti dissi che io amava un prete: e non eri tu, il quale io a gran torto amo, fatto prete? Dissiti che niuno uscio della mia casa gli si poteva tener serrato quando meco giacer volea: e quale uscio ti fu mai in casa tua tenuto80 quando tu colà dove io fossi se’voluto venire? Dissiti che il prete si giaceva ogni notte con meco: e quando fu che tu meco non giacessi? E quante volte il tuo cherico a me mandasti, tante sai quante tu meco non fosti, ti mandai a dire che il prete meco stato non era. Quale smemorato altri che tu, che alla81 gelosia tua t’hai lasciato accecare, non avrebbe queste cose intese? E se’ ti stato in casa a far la notte la guardia all’uscio, e a me credi aver dato a vedere che tu altrove andato sii a cena e ad albergo. Ravvediti oggimai, e torna uomo come tu esser solevi, e non far far beffe di te a chi conosce i modi tuoi come fo io, e lascia star questo solenne82 guardar che tu fai; ché io giuro a Dio, se voglia me ne venisse di porti le corna, se83 tu avessi cento occhi come tu n’hai due, e’mi darebbe il cuore di fare i piacer miei in guisa che tu non te ne avvedresti». 79 onesta, valente: aggettivo sottolineato con forza e non senza ironia. 80 tenuto chiuso. T e n e r u s c i o o p o r t a vale tener chiuso uscio o porta, vietare l’entrata: Sacchetti, II: «comandando ... giammai porta non gli fosse tenuta». 81 dalla. 82 accurato, severo: come al 16 83 anche se. Tutta questa iperbolica dichiarazione riecheggia non solo il mito di Argo, carissimo al B., ma la visualizzazione amorosa che egli in qualche modo ne fece nella sua lirica (Rime, LVI). Letteratura italiana Einaudi 974 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 59 Il geloso cattivo, a cui molto avvedutamente84 pareva avere il segreto della donna sentito, udendo questo, si tenne scornato; e senza altro rispondere, ebbe la donna per buona e per savia; e quando la gelosia gli bisognava del tutto se la spogliò, così come, quando bisogno non gli era, se l’aveva vestita. Per che la savia donna, quasi licenziata ai suoi piaceri85, senza far venire il suo amante su per lo tetto, come vanno le gatte86, ma pur per l’uscio, discretamente operando, poi più volte con lui buon tempo e lieta vita si diede. - 84 con grande furbizia. quasi avendo avuto licenza, permesso di fare i suoi piaceri, quello che voleva: conclusione analoga a quella della VII 4,30 e VII 8,50. 86 Per questa forma femminile cfr. V 10,20 n. 85 Letteratura italiana Einaudi 975 NOVELLA SESTA 1 Madonna Isabella con Leonetto standosi, amata da un messer Lambertuccio, è da lui visitata; e tornando il marito di lei, messer Lambertuccio con un coltello in mano fuor di casa ne manda, e il marito di lei poi Leonetto accompagna1. 2 Maravigliosamente era piaciuta a tutti la novella della Fiammetta, affermando ciascuno ottimamente la donna aver fatto, e quel che si convenia al bestiale uomo; ma poi che finita fu, il re a Pampinea impose che seguitasse. La quale incominciò a dire: - Molti sono, li quali, semplicemente2 parlando, dicono che Amore trae altrui del senno e quasi chi ama fa 3 1 Anche il tema di questa novella aveva già prima del B. una lunga e ricca tradizione. Dalle principali e più diffuse raccolte orientali (Hitopadesa, Il 9; Cukasaptati, 26; Tûtî-nâmeh, VII; Cfr. E. TEZA, in Il libro dei Sette Savi, Pisa 1864, pp. XLI sgg.; e poi Mille e una notte, 581), e più probabilmente dalla versione un po’ diversa del Sindibad (tradotto in spagnolo nel Libro de los Engannos, 6; e in greco nel Syntipas), la novella passò alla letteratura medievale: per es. nella Disciplina clericalis (XI: imitata nella IV delle favole in versi dei Latin Stories del Wright cit.) nei Gesta Romanorum (n. 21 o 58), nei Lai de l’Espervier (ed. G. Paris in «Romania», VII, 1878; e cfr. BÉDIER, op. cit., pp. 228 sgg.), in una novella senese forse della fine del Duecento (L. GENTILE e A. STRACCALI, Tre novelline antiche, Firenze 1887). Di più è difficile dire sui rapporti fra questi testi (BÉDIER, loc. cit.; DI FRANCIA, Alcune novelle cit., 1904; DECOURDEMANCHE in «Revue des traditions populaires», XVII, 1902; e cfr. Aarne, 1419 d; Thompson, K 1218.1, 15I7.1; Rotunda, K 1517-I-2*). La novella del B. avrebbe contatti con la novellina senese nella prima parte, e con le versioni spagnole e latine nella seconda: ma neppure parzialmente è possibile stabilire una dipendenza diretta. Il Manni cita anche come antecedente una delle Epistole di Aristeneto (II 22): ma i contatti sono scarsissimi. Nel sommario, come nella novella, v’è oscillazione fra L e o n e t t o e L i o n e t t o . 2 da semplicioni: I 6,5 n. Letteratura italiana Einaudi 976 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 4 5 6 divenire smemorato3. Sciocca opinione mi pare; e assai le già dette cose l’hanno mostrato; e io ancora intendo di dimostrarlo4. Nella nostra città, copiosa di tutti i beni5, fu già una giovane donna e gentile e assai bella, la qual fu moglie d’un cavaliere assai valoroso e da bene. E come spesso avviene che s sempre non può l’uomo usare un cibo, ma talvolta disidera di variare; non soddisfaccendo a questa donna molto il suo marito, s’innamorò d’un giovane, il quale Leonetto era chiamato, assai piacevole e costumato, come che di gran nazion non fosse6, ed egli similmente s’innamorò di lei; e come voi sapete che rade volte è senza effetto quello che vuole ciascuna delle parti7, a dare al loro amor compimento molto tempo non si interpose. Ora avvenne che, essendo costei bella donna e avvenevole8, di lei un cavalier chiamato messer Lambertuccio9 s’innamorò forte, il quale ella, per ciò che spiacevo- 3 balordo, stordito: VI 9,13 n. Era sentenza diffusa: «Amans quid cupiat scit; quid sapiat non videt», «Amare et sapere vix Deo conceditur» (L. A. Senecae et P. Syri ... Singulares sententiae, Leiden 1727, p. 2). 4 «Ogni cosa diviene agli amanti possibile» affermerà riprendendo questo atteggiamento polemico il B. nella X 5,14 ( e rifacendosi del resto a Cicerone («Nihil difficile amanti»: Orat., 10) e Andrea Cappellano («Qui non zelat amare non potest»: De Amore, p. 310). E cfr. IV 1, 23 n. 5 Così iniziando la III 6,3 «...la nostra città, la quale come d’ogni altra cosa è copiosa, così è d’essempli ...» 6 benché non fosse di nascita, di famiglia illustre, nobile: IV 1,6 n. 7 «Nota» (M.). 8 aggettivo costruito su avvenente, secondo il modello «piacente – piacevol»; cfr. VIII 3,5; X 10,24; e F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 282. 9 II Manni vorrebbe identificarlo con Lambertuccio di Ghinò Frescobaldi, cioè col padre dello stilnovista Dino, di cui il B. parlò come di ritrovatore dei primi canti dell’Inferno (Trattatello, I 180): ma l’identificazione non ha fondamento alcuno. Letteratura italiana Einaudi 977 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII le uomo e sazievole10 le parea, per cosa del mondo ad amar lui11 disporre non si potea. Ma costui con ambasciate sollicitandola molto, e non valendogli, essendo possente uomo, la mandò minacciando12 di vituperarla se non facesse il piacer suo. Per la qual cosa la donna, temendo e conoscendo come fatto era, si condusse a fare 7 il voler suo. Ed essendosene la donna, che madonna Isabella avea nome, andata, come nostro costume è di state13, a stare ad una sua bellissima possessione in contado, avvenne, essendo una mattina il marito di lei cavalcato14 in alcun luogo per dovere stare alcun giorno, che ella mandò per Leonetto che si venisse a star con lei, il quale lietissimo incontanente v’andò. 8 Messer Lambertuccio, sentendo il marito della donna essere andato altrove15, tutto solo montato a cavallo, a lei se n’andò e picchiò alla porta. 9 La fante della donna, vedutolo, n’andò incontanente a lei, che in camera era con Leonetto, e chiamatala le disse: «Madonna, messer Lambertuccio è qua giù tutto solo». La donna, udendo questo, fu la più dolente femina 10 del mondo; ma, temendol forte, pregò Leonetto che grave non gli fosse il nascondersi alquanto dietro alla corti- 10 Solita endiadi (VI 8,5 n.), in contrasto con le precedenti («piacevole e costumato», «bella e avvenevole»): che conferma la predilezione del B. per questi aggettivi in -evole (F. BRAMBILI.A AGENO, Il verbo, pp. 259 sgg.). E cfr. VI 8,5. 11 Pleonasmo non raro nel D.: ripiglia il precedente quale. 12 Gerundio invece di infinito (preceduto eventualmente da a) corrente dopo mandare (IV 2,23 n.). Vituperarla svergognarla: III 6,39 n. 13 Cfr. V 9,10 n. 14 Per queste oscillazioni dell’ausiliare tra essere e avere con alcuni intransitivi e particolarmente cavalcare cfr. V 3,10 n. 15 fuori, lontano da casa, come al par. 16, come altronde nella novella precedente (44 n.). Letteratura italiana Einaudi 978 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 11 12 13 14 15 na16 del letto, in fino a tanto che messer Lambertuccio se n’andasse. Leonetto, che non minor paura di lui avea che avesse la donna, vi si nascose; ed ella comandò alla fante che andasse ad aprire a messer Lambertuccio: la quale apertogli, ed egli nella corte smontato d’un suo pallafreno e quello appiccato ivi ad uno arpione17, se ne salì suso. La donna, fatto buon viso e venuta infino in capo della scala, quanto più potè in parole lietamente il ricevette e domandollo quello18 che egli andasse faccendo. Il cavaliere, abbracciatala e baciatala, disse: «Anima mia, io intesi che vostro marito non c’era, sì ch’io mi son venuto a stare alquanto con essolei19». E dopo queste parole, entratisene in camera e serratisi dentro, cominciò messer Lambertuccio a prender diletto di lei. E così con lei standosi, tutto fuori della credenza della donna20, avvenne che il marito di lei tornò; il quale21 quando la fante alquanto vicino al palagio vide, così subitamente corse alla camera della donna e disse: «Madonna, ecco messer22 che torna: io credo che egli sia già giù nella corte». La donna, udendo questo e sentendosi aver due uomini in casa, (e conosceva23 che il cavaliere non si pote16 Cfr. II 3,26 n. legato ... ad un gancio. 18 Anche qui d o m a n d a r e con due accusativi (II 7,87 n.). 19 Si riferisce ad a n i m a , «e può ben credersi che il B. abbia fatto dir così a quello spiacevole di Lambertuccio per leziosaggine» (Fanfani): cfr. le Annotazioni, pp. 207 sgg. Esso rafforzativo è invariabile: cfr. VIII 8,6 n. 20 del tutto contro quanto credeva la donna, senza che per nulla la donna se l’aspettasse, Per t u t t o avverbiale cfr. II 4,24 n.; e per c r e d e n z a Amorosa Visione, XXXII 15; Purg., XXVII 29; Par., XXIV 73; e qui III 6,42 n. 21 Complemento oggetto. 22 il signore, il padrone. 23 Altro esempio di imperfetto coordinato a gerundio per dar rilievo all’idea dominante: II 2,20 n. 17 Letteratura italiana Einaudi 979 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 16 17 18 19 20 va nascondere per lo suo pallafreno che nella corte era), si tenne morta. Nondimeno, subitamente gittatasi del letto in terra, prese partito24, e disse a messer Lambertuccio: «Messere, se voi mi volete punto di bene e voletemi da morte campare, farete quello che io vi dirò. Voi vi recherete in mano il vostro coltello ignudo, e con un mal viso e tutto turbato ve n’andrete giù per le scale, e andrete dicendo: ‘Io fo boto25 a Dio che io il coglierò altrove ’; e se mio marito vi volesse ritenere o di niente vi domandasse, non dite altro che quello che detto v’ho, e montato a cavallo, per niuna cagione seco ristate26». Messer Lambertuccio disse che volentieri; e tirato fuori i coltello, tutto infocato nel viso tra per la fatica durata e27 per l’ira avuta della tornata del cavaliere, come la donna gl’impose così fece. Il marito della donna, già nella corte smontato, maravigliandosi del pallafreno e volendo su salire, vide messer Lambertuccio scendere, e maravigliossi e delle parole e del viso di lui, e disse: «Che è questo messere?» Messer Lambertuccio, messo il piè nella staffa e montato su, non disse altro, se non: «Al corpo di Dio28, io il giugnerò29 altrove» ; e andò via. Il gentile uomo montato su trovò la donna sua in capo della scala tutta sgomentata e piena di paura, alla quale egli disse: «Che cosa è questa? Cui va messer Lambertuccio così adirato minacciando?» La donna, tiratasi verso la camera, acciò che Leonetto l’udisse, rispose: «Messere, io non ebbi mai simil pau- 24 prese le sue decisioni, deliberò: IV 3,12 e 14. Modo corrente di giurare: VIII 2,43; VIII 9,62; IX 5,61; e per l’idiotismo cfr. anche I 1,87 n. 26 indugiate con lui. 27 Per questa costruzione consueta nel D. cfr. II 3,48 n. 28 Altra forma di giuramento: VIII 6,21 n. 29 lo raggiungerò. 25 Letteratura italiana Einaudi 980 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 21 22 23 24 25 26 27 ra a questa30. Qua entro si fuggì un giovane, il quale io non conosco e che esser Lambertuccio col coltello in man seguitava, e trovò per ventura questa camera aperta, e tutto tremante disse: ‘ Madonna, per Dio aiutatemi, ché io non sia nelle braccia vostre morto31’. Io mi levai diritta, e come32 il voleva domandare chi fosse e che avesse, ed ecco messer Lambertuccio venir su dicendo: ‘ Dove se’, traditore? ’ Io mi parai in su l’uscio33 della camera, e volendo egli entrar dentro, il ritenni, ed egli in tanto fu cortese che, come vide che non mi piaceva che egli qua entro entrasse, dette molte parole, se ne venne giù come voi vedeste». Disse allora il marito: «Donna, ben facesti: troppo ne sarebbe stato gran biasimo, se persona fosse stata qua entro uccisa; e messer Lambertuccio fece gran villania a seguitar persona che qua entro fuggita fosse». Poi domandò dove fosse quel giovane. La donna rispose: «Messere, io non so dove egli si sia nascoso». Il cavaliere allora disse: «Ove se’ tu? Esci fuori sicuramente». Leonetto che ogni cosa udita avea, tutto pauroso, come colui che paura aveva avuta da dovero, uscì fuori del luogo dove nascoso s’era. Disse allora il cavaliere: «Che hai tu a fare con messer Lambertuccio?» Il giovane rispose: «Messer, niuna cosa che sia in questo mondo34; e per ciò io credo fermamente che egli 30 paura simile a questa: inversione non insolita nel D.: per es. X 3,2: «Simil cosa a miracolo per certo pareva a tutti». 31 ucciso: II 7,79 n. 32 In ripresa dopo proposizione temporale. Polisindeto che sottolinea la rapidità concitata delle azioni susseguentisi: cfr. Intr., 78 n.; IX 7,12. 33 mi posi davanti all’uscio per impedir che entrasse: IV 9,3 n. 34 proprio nulla, niente affatto, nulla al mondo. Letteratura italiana Einaudi 981 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII non sia in buon senno, o che egli m’abbia colto in iscambio35; per ciò che, come poco lontano da questo palagio nella strada mi vide, così mise mano al coltello, e disse: ‘Traditor, tu se’ morto36’! Io non mi posi a domandare per che cagione, ma quanto potei cominciai a fuggire e qui me ne venni dove, mercé di Dio e di questa gentil 28 donna, scampato sono». Disse allora il cavaliere: «Or via, non aver paura alcuna; io ti porrò a casa tua sano e salvo, e tu poi sappi far cercar37 quello che con lui hai a fare». 29 E, come cenato ebbero, fattol montare a cavallo, a Firenze il ne menò38, e lasciollo a casa sua. Il quale, secondo l’ammaestramento della donna39 avuto, quella sera medesima parlò con messer Lambertuccio occultamente, e sì con lui ordinò, che quantunque poi molte parole ne fossero, mai per ciò il cavalier non s’accorse della beffa fattagli dalla moglie. - 35 mi abbia scambiato per qualcun altro: Cfr. II 10,25 n. Proprio come il Rossiglione al Guardastagno (IV 9,11), e forse con connotazione ironico-caricaturale in questa novella in cui sono chiaramente parodizzate situazioni della IV 1 e 9. 37 cerca di sapere. 38 di lì lo condusse. 39 dalla donna. Un altro chiaro esempio di specificazione soggettiva: I 6,2 n. 36 Letteratura italiana Einaudi 982 NOVELLA SETTIMA 1 Lodovico discuopre a madonna Beatrice l’amore il quale egli le porta; la qual manda Egano suo marito in un giardino in forma di sé, e con Lodovico si giace; il quale poi levatosi, va e bastona Egano nel giardino1. 2 Questo avvedimento di madonna Isabella da Pampinea raccontato fu da ciascun della brigata tenuto maraviglioso. Ma Filomena, alla quale il re imposto aveva che secondasse2, disse: 1 La seconda e principale parte della novella (il marito ingannato e fatto battere) sembra discendere da un diffusissimo nucleo di fabliaux che presentano tutti questo racconto, pur con diverse varianti: La Borgoise d’Orliens e Le chevalier, sa dame et le clerc (Recueil général, I 8 e II 50: IV 100 una ripetizione, De la dame qui fist barre son mari), Le Castia Gilos (F. RAYNOUARD, Choix de poesies ... des troubadours, Paris 1821, III, p. 398: cfr. Vrouwen staetikeit, in Gesammtabenteuer, XXVII). Al di fuori dei fabliaux (da cui con tutta probabilità discese anche l’antica farsa francese pubblicata nell’Ancient théâtre françois cit., I, p. 128) l’episodio appare in testi dei secoli XIII-XIV: sia – riferito a Enrico IV o Enrico III – in narrazioni storiche, come nel De bello Saxonico e negli Annales Palidenses, e in varie cronache posteriori (Mon, Gertn. Hist., V 331 e XVI 71); sia nella letteratura romanzesca, come nel Romans de Bauduin de Sebourc (Valenciennes 1841) e nella novella francese pubblicata dal Singer (Shakespeare’s jest-book, Chiswick 1883, pp. XV sgg). Per tutti questi antecedenti vedi W. H. SCHOFIELD, The source and history of the seventh novel of the seventh day in the D., in «Harvard Studies and Notes in Philology and Literature», II, 1893 (e anche Thompson e Rotunda, K 1524.4.1). La prima parte della novella – l’innamoramento per fama, il servizio, la partita a scacchi – non ha invece veri antecedenti: ché il riferimento dello Scherillo a un episodio del già citato Huon de Bordeaux (vv. 7381 sgg.) è quanto mai generico, e certo non più valido e significativo di quelli che potrebbero esser fatti a opere del B. stesso (per es. Filocolo, IV 96; Teseida, IV 49 sgg.). La novella, di tessuto romanzescocortese-tristaniano, fu ripresa nel Pecorone (III 2). 2 seguitasse col parlare, col narrare: Par., XXV 64. Letteratura italiana Einaudi 983 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 3 4 5 6 - Amorose donne, se io non ne sono ingannata, io ve ne credo uno non men bello raccontare3, e prestamente. Voi dovete sapere che in Parigi4 fu già un gentile5 uomo fiorentino, il quale per povertà divenuto era mercatante, ed eragli sì bene avvenuto della mercatantia 6, che egli ne era fatto ricchissimo, e avea della sua donna un figliuol senza più7, il quale egli aveva nominato Lodovico. E perché egli alla nobiltà del padre e non alla mercatantia si traesse8, non l’aveva il padre voluto mettere ad alcun fondaco9, ma l’avea messo ad essere con altri gentili uomini al servigio del re di Francia, là dove egli assai di be’ costumi e di buone cose aveva apprese10. E quivi dimorando, avvenne che certi cavalieri, li quali tornati erano dal Sepolcro, sopravvenendo ad un ragionamento di giovani 11, nel quale Lodovico era, e udendogli fra sé ragionare delle belle donne di Francia e d’Inghilterra e d’altre parti del mondo, cominciò l’un di loro a dir che per certo di quanto mondo egli aveva cerco12 e di quante donne vedute aveva mai, una simiglian- 3 credo raccontarvene uno [avvenimento] non meno bello. Solito sfondo per questi ambienti mercanteschi (I 1,2; II 9,4 sgg.; IV 8,11 sgg.); e non insolita anche, per novelle d’amore sognante, come la prima parte di questa, l’apertura su una serie di endecasillabi ( V o i ... d i v e n u t o ) : cfr. particolarmente VII 3,4 n. 5 Indica qui nobiltà di sangue e non leggiadria di modi e costumi: proprio come a II 1,12 n.; III 9,36 n.; IV1,6 n.; IV 3, 10; VI 6,5 e 12 n. e non come a I 8,9; II 7, 113; III 6,40; VI, 18 ecc. 6 aveva fatto tanta fortuna colla mercatura: per la forma cfr. Intr., 42 n. 7 soltanto un figlio: II 8,7 n. 8 inclinasse, si indirizzasse alla o ritraesse dalla: V 7,5 n. 9 magazzino, azienda mercantile: IV 5,5 n. 10 Cfr. VII 9,42. 11 conversazione. 12 ricercato, visitato: IV 8,29 n. 4 Letteratura italiana Einaudi 984 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 7 8 te alla moglie d’Egano de’ Galluzzi di Bologna13, madonna Beatrice chiamata, veduta non avea di bellezza14; a che tutti i compagni suoi, che con lui insieme in Bologna l’avean veduta, s’accordarono. Le quali cose ascoltando Lodovico, che d’alcuna ancora innamorato non s’era, s’accese in tanto disidero di doverla vedere, che ad altro non poteva tenere il suo pensiere15; e del tutto disposto d’andare infino a Bologna a vederla, e quivi ancora dimorare, se ella gli piacesse, fece veduta16 al padre che al Sepolcro voleva andare; il che con grandissima malagevolezza17 ottenne. Postosi adunque nome Anichino, a Bologna pervenne, e, come la fortuna volle, il dì seguente vide questa donna ad una festa18, e troppo più bella gli parve assai che stimato non avea; per che, innamoratosi ardentissimamente di lei, propose di mai di Bologna non partirsi 13 Assai nota e cospicua la famiglia Galluzzi a Bologna: ma non vi appare in quel secolo alcun Egano, benché il nome non fosse insolito nella città. Cfr. F. GALLUZZI, Narrazione Storico Genealogica della Famiglia Galluzzi, Bologna 1740; G. GOZZADINI, Le Torri gentilizie in Bologna, Bologna 1875, pp.254 sgg. 14 non ne aveva veduta una somigliante di bellezza (in bellezza) alla moglie di Egano. II nome della donna è evidentemente scelto a ragion veduta e con sonora eco dantesca (cfr. 8 n.): conclude una pagina tutta intessuta di termini positivi e quasi beatificanti (gentile, nobile, bene, bello, buono). 15 Uno degli innamoramenti per fama, non raro nel tessuto medievale del D. e in genere attribuito letterariamente alle classi elevate (I 5; IV 4,3 n.: e cfr. Andrea Cappellano, De Amore, pp. 124 sgg.). 16 mostrò, diede a vedere, fece credere: Morelli, Ricordi, p. 381 «e’ ci veduta ...che voleva essere insieme con noi». 17 difficoltà: cfr. IV 3,15. 18 L’apparire dell’amata, spesso per la prima volta, nella leggiadra e sontuosa cornice di una festa, vincendo con la sua bellezza ogni più alta immaginazione, è topos ripetuto anche altra volta dal B. (per es. VIII 7,6; Filocolo, I 1; Comedia, XXXV). Qui si colora di luci dantesche, dalla Vita Nuova specialmente (cfr. in particolare cap. XIV): V. BRANCA, Poetica del rinnovamento ecc., in Studi in onore di I. Siciliano, Firenze 1966. Letteratura italiana Einaudi 985 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII se egli il suo amore non acquistasse. E seco divisando19 che via dovesse a ciò tenere, ogn’altro modo lasciando stare, avvisò che, se divenir potesse famigliar del marito di lei, il qual molti ne teneva, per avventura gli potrebbe venir fatto quel che egli disiderava. 10 Venduti adunque i suoi cavalli, e la sua famiglia acconcia20 in guisa che stava bene, avendo lor comandato che sembiante facessero di non conoscerlo, essendosi accontato21 con l’oste suo, gli disse che volentier per servidore d’un signore da bene, se alcun ne potesse trovare, starebbe. Al quale l’oste disse: «Tu se’ dirittamente22 famiglio da dovere esser caro ad un gentile uomo di questa terra che ha nome Egano, il quale molti ne23 tiene, e tutti li vuole appariscenti24come tu se’: io ne gli parlerò». 11 E come disse così fece; e avanti che da Egano si partisse, ebbe con lui acconcio Anichino; il che quanto più 12 poté esser gli25 fu caro. E con Egano dimorando e avendo copia26di vedere assai spesso la sua donna, tanto bene e sì a grado cominciò a servire Egano, che egli gli pose tanto amore, che senza lui niuna cosa sapeva fare; e 9 19 pensando: III 1,12 n. Tutto questo pensiero già era stato quello di Arcita, che, cambiato nome, si era posto, per amore di Emilia, al servizio di Teseo (Teseida, IV 49 sgg.); ed è espediente comune in questi casi nella letteratura popolare (Thompson, K 1816 sgg.). 20 e avendo il suo seguito accomodato, sistemato: e così più sotto, II: per la forma cfr. VI 4,6 n. 21 familiarizzatosi: II 3,1 n. 22 proprio, per l’appunto: I 2,28 n. 23 familiari, servitori: implicito nel famiglio e nel servidore delle righe precedenti. 24 di bell’aspetto: III I,12: «temette di non dovervi [nel convento] essere ricevuto per ciò che troppo era giovane e appariscente». 25 A Anichino. 26 frequente occasione, opportunità, possibilità. Letteratura italiana Einaudi 986 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 13 14 15 16 17 18 non solamente di sé, ma di tutte le sue cose gli aveva commesso il governo27. Avvenne un giorno che, essendo andato Egano ad uccellare e Anichino rimaso a casa, madonna Beatrice, che dello amor di lui accorta non s’era ancora quantunque seco28, lui e’ suoi costumi guardando, più volte molto commendato l’avesse e piacessele, con lui si mise a giucare a’ scacchi29; e Anichino, che di piacerle disiderava, assai acconciamente30 faccendolo, si lasciava vincere31, di che la donna faceva maravigliosa festa. Ed essendosi da vedergli giucare tutte le femine della donna partite, e soli giucando32 lasciatigli, Anichino gittò un grandissimo sospiro. La donna guardatolo disse: «Che avesti, Anichino? Duolti così che io ti vinco?» «Madonna,» rispose Anichino «troppo maggior cosa che questa non è fu cagion del mio sospiro». Disse allora la donna: «Deh dilmi33 per quanto ben tu mi vuogli». Quando Anichino si sentì scongiurare ‘per quanto ben tu mi vuogli’ a34 colei la quale egli sopra ogn’altra 27 gli aveva affidato l’amministrazione, la cura: come Amerigo a Pietro nella V 7, come Teseo Arcita («in tutto suo segreto il feo, | Amando lui più ch’altro servidore»: Teseida, IV 59). 28 tra sé e sé, in cuor suo. 29 La partita a scacchi come situazione in cui si svela l’amore era un topos nei romanzi cavallereschi: cfr. E. LÖSETH, Le roman en prose de Tristan, Paris 1890, p. 39; Tristano Riccardiano, pp. 99 sgg.; Tavola Ritonda, pp. 119 sgg. E cfr. anche Filocolo, IV 96. Per la forma g i u c a r e , insistente in questi paragrafi, cfr. Intr., III n. 30 abilmente, cioè in modo che Beatrice non se ne avvedesse. 31 Riflesso di un precetto dell’ammiratissimo Ovidio (Ars Am., II 203 sgg.), non insolito del resto nella letteratura medievale (cfr. A. Cappellano, De Amore, pp. 124 sgg.; Huon de Bordeaux cit., 7470 sgg.; Filocolo, IV 96,3 sgg.; La donna del Vergiú, 17 sg.). 32 Gerundio participiale: che giocavano, nell’atto di giocare. 33 dimmelo: il maschile si riferisce a cosa come già in altri casi (II 3,25 n.). 34 da: Intr., 20 n. Letteratura italiana Einaudi 987 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII cosa amava35, egli ne36 mandò fuori un troppo maggiore che non era stato il primo; per che la donna ancor da capo il ripregò che gli piacesse di dirle qual fosse la cagione de’ suoi sospiri. Alla quale Anichino disse: «Madonna, io temo forte che egli non vi sia noia37, se io il vi dico; e appresso dubito che voi ad altra persona nol ridiciate». 19 A cui la donna disse: «Per certo egli non mi sarà grave, e renditi sicuro di questo, che cosa che tu mi dica, se non quanto ti piaccia, io non dirò mai ad altrui». Allora disse Anichino: «Poi che voi mi promettete 20 così, e38 io il vi dirò» ; e quasi colle lagrime in sugli occhi le disse chi egli era, quel che di lei aveva udito e dove e come di lei s’era innamorato e come venuto e perché per servidor del marito di lei postosi39; e appresso umilemente, se esser potesse, la pregò che le dovesse piacere d’aver pietà di lui, e in questo suo segreto e sì fervente disidero di compiacergli; e che, dove questo far non volesse, che ella, lasciandolo star nella forma nella qual si stava, fosse contenta che egli l’amasse40. O singular dolcezza del sangue bolognese41! Quanto 21 se’ tu stata sempre da commendare in così fatti casi! Mai né di lagrime né di sospir fosti vaga, e continuamente a’ 35 Solita affermazione, quasi una formula (IV 6,22 n.). Di sospiri, 37 non vi dispiaccia. 38 ecco che: I 1,39 n.: «Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io il vi dirò». 39 si era posto: è sottinteso l’ausiliare con quest’ultimo participio. 40 Linguaggio di tono stilnovistico e dantesco: cfr. Cavalcanti, XXXV 46: «Anima e tu l’adora sempre nel suo valore»; Vita Nuova, XVIII 4: «Amore ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venir meno». 41 «Nota un cortese peduccio per le Bolognesi» (M.). Sempre le bolognesi sono rappresentate nel D. cortesi e amorose: I 10, X 4. E cfr. Benvenuto da Imola, Comentum ecc., Firenze 1887, II, p. 16: «bononienses sunt carnales dulcis sanguinis et suavis naturae». 36 Letteratura italiana Einaudi 988 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 22 23 24 25 prieghi pieghevole e agli amorosi disideri arrendevol fosti. Se io avessi degne lode da commendarti, mai sazia42 non se ne vedrebbe la voce mia43! La gentil donna, parlando Anichino, il riguardava, e dando piena fede alle sue parole, con sì fatta forza ricevette per li prieghi di lui il suo amore nella mente44, che essa altressì cominciò a sospirare, e dopo alcun sospiro rispose: «Anichino mio dolce, sta di buon cuore; né doni né promesse né vagheggiare di gentile uomo né di signore né d’alcuno altro (ché sono stata e sono ancor vagheggiata da molti) mai potè muovere l’animo mio tanto che io alcuno n’amassi; ma tu m’hai fatta in così poco spazio, come45 le tue parole durate sono, troppo più tua divenir che io non son mia. Io giudico che tu ottimamente abbi il mio amor guadagnato, e per ciò io il ti dono, e sì ti prometto che io te ne farò godente avanti che questa notte che viene tutta trapassi. E acciò che questo abbia effetto, farai che in su la mezza notte tu venghi46 alla camera mia; io lascerò l’uscio aperto; tu sai da qual parte del letto io dormo; verrai là, e, se io dormissi, tanto mi tocca che io mi svegli, e io ti consolerò di così lungo disio come avuto hai; e acciò che tu questo creda, io 42 Cfr. Rime, VI 13 sg. «con amor di commendarla | Sazio non vedea mai il ben ch’io provo»; Vita Nuova, XVIII 9; Petrarca, CXC 13, Tr. Cupidinis, II 1. 43 Per l’uso di attribuire a una facoltà l’operazione propria di un’altra (sinestesia) cfr. VII 2,25 n. 44 Espressione canonica in queste situazioni: cfr. per es. IV 1,6; IV 7,6 ecc.: e per la struttura dell’espressione VII 2,25 n. 45 quanto, qual è quello in cui. 46 La solita forma del congiuntivo presente: II 7,100 n. Letteratura italiana Einaudi 989 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 26 27 28 29 30 ti voglio dare un bacio per arra47» ; e gittatogli il braccio in collo, amorosamente il baciò, e Anichin lei. Queste cose dette, Anichin, lasciata la donna, andò a fare alcune sue bisogne, aspettando con la maggior letizia del mondo che la notte sopravvenisse. Egano tornò da uccellare, e come cenato ebbe, essendo stanco, s’andò a dormire, e la donna appresso, e, come promesso avea, lasciò l’uscio della camera aperto. Al quale, all’ora che detta gli era stata, Anichin venne, e pianamente entrato nella camera e l’uscio riserrato dentro, dal canto donde la donna dormiva se n’andò, e postale la mano in sul petto48, lei non dormente trovò; la quale come sentì Anichino esser venuto, presa la sua mano con amendune le sue e tenendol forte, volgendosi per lo letto tanto fece che Egano che dormiva destò, al quale ella disse: «Io non ti volli iersera dir cosa niuna, per ciò che tu mi parevi stanco; ma dimmi, se Dio ti sal47 caparra, pegno. È l’ultima nota, l’ultimo vocabolo del linguaggio cortese e amoroso che caratterizza la prima parte della novella, la sua atmosfera nobile e cavalleresca: dall’educazione di Lodovico alla Corte di Francia alle conversazioni cortigiane e galanti, dall’innamoramento per fama all’umile silenzioso servire di Anichino, dallo splendido vivere di Egano alle cacce col falcone, dalla signorile partita a scacchi a questo scambio di dichiarazioni amorose ingemmate di alta retorica. Arra infatti, come già nell’Amorosa Visione (XLVI 87: «l’arra che finirà ’l fieto»), indica, con la precisione della terminologia erotico-cortese, il secondo e terzo «grado» amoroso di Andrea Cappellano (p. 32), il fiore della nostra lirica delle origini: cioè il bacio e l’abbraccio che venivano dopo il primo «grado» o «cominzo» (il vagheggiamento). All’ a r r a succedeva il quarto grado di Andrea, il «compimento» o «effetto» della nostra lirica: il mutuo completo possesso degli amanti, cioè l’ e f f e t t o cui sopra ha accennato Beatrice. Anche qui cioè, come altrove nel D. (III 6,3 e 5,II; IX 2,5; X 6,36; X 7,47), si riflettono gli alti e rigidi schemi della trattatistica e della lirica amorosa del tempo. Per documentazione più precisa cfr. V. BRANCA, B. medievale, pp. 224 sgg., e commento all’Amorosa Visione, pp. 640 e 645. 48 Proprio come, in situazione analoga, Girolamo alla Salvestra (IV 8,17). Letteratura italiana Einaudi 990 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 31 32 33 34 35 vi, Egano, quale hai tu per lo migliore famigliare e per lo più leale e per colui che più t’ami, di quegli che tu in casa hai?» Rispose Egano: «Che è ciò, donna, di che tu mi domandi? Nol conosci tu? Io non ho, né ebbi mai alcuno, di cui io tanto mi fidassi o fidi o ami, quant’io mi fido e amo Anichino49; ma perché me ne domandi tu?» Anichino, sentendo desto Egano e udendo di sé ragionare, aveva più volte a sé tirata la mano per andarsene, temendo forte non la donna il volesse ingannare; ma ella l’aveva sì tenuto e teneva, che egli non s’era potuto partire50 né poteva. La donna rispose ad Egano e disse: «Io il ti dirò. Io mi credeva che fosse ciò che tu di’e che egli più fede che alcuno altro ti portasse; ma me ha egli sgannata 51, per ciò che, quando tu andasti oggi ad uccellare, egli rimase qui, e quando tempo gli parve, non si vergognò di richiedermi52 che io dovessi, a’suoi piaceri acconsentirmi; e io, acciò che questa cosa non mi bisognasse con troppe pruove mostrarti e per farlati toccare e vedere, risposi che io era contenta e che stanotte, passata mezzanotte, io andrei nel giardino nostro e a piè del pino l’aspetterei. Ora io per me non intendo d’andarvi; ma, se tu vuogli la fedeltà del tuo famiglio cognoscere, tu puoi leggiermente, mettendoti indosso una delle guarnacche53 mie e in 49 F i d a r e e a m a r e reggono prima ambedue un genitivo ( d i c u i ) e poi un accusativo ( A n i c h i n o ), a seconda cioè che il complemento è vicino all’uno o all’altro dei due verbi che richiedono diversa costruzione: uso corrente nell’antica lingua e nel D. (per es. I 1,3; Petrarca, XXVI 12 sg.: «Ché più gloria è nel regno degli eletti | D’un spirito converso, e più s’estima ...»). 50 Costruzione col verbo «essere» anche se il pronome riflessivo riguarda un infinito seguente: cfr. Rohlfs, 731. 51 disingannata: III 10,28 n. 52 Anche questo è un verbo tipico della terminologia amorosa (IV 9,7 n. e VII 8,2): e così il seguente acconsentirmi (Amorosa Visione, XLVI 54). 53 Sopravvesti lunghe: II 9,28 n. Letteratura italiana Einaudi 991 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 36 37 38 39 capo un velo, e andare54 laggiuso ad aspettare se egli vi verrà, ché son certa del sì». Egano udendo questo disse: «Per certo io il convengo vedere55» ; e levatosi, come meglio seppe al buio, si mise una guarnacca della donna e un velo in capo, e andossen nel giardino e a piè d’un pino cominciò ad attendere Anichino56. La donna, come sentì lui levato e uscito della camera, così si levò e l’uscio di quella dentro serrò. Anichino, il quale la maggior paura che avesse mai avuta avea, e che quanto potuto avea s’era sforzato d’uscire delle mani della donna e centomila volte lei e il suo amore e sé che fidato se n’era avea maladetto, sentendo ciò che alla fine aveva fatto, fu il più contento uomo che fosse mai; ed essendo la donna tornata nel letto, come ella volle, con lei si spogliò57, e insieme presero piacere e gioia per un buono spazio di tempo. Poi, non parendo alla donna che Anichino dovesse più stare, il fece levar suso e rivestire, e sì gli disse: «Bocca mia dolce, tu prenderai un buon bastone e andra’tene 54 Questa congiunzione pleonastica fu spiegata sia facendo dipendere andare da puoi (cioè: tu puoi leggermente conoscerla ... e andare: così il Colombo); sia dando all’infinito valore di gerundio (cioè: puoi leggermente conoscerla mettendoti ... e andando: così il Fanfani). Ma sono spiegazioni che non soddisfano. Meglio pensare a un infinito coordinato, come altre volte, al precedente gerundio mettendoti. 55 conviene che io lo veda: la solita costruzione personale alla latina: II 7,80 n.; II 10,7; V 4,18 n.: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 148. 56 L’attesa è caricaturata dai tre versi di diversa misura, tutti di seguito e con identica rima. Anche questa scena romanzesca avrà un riflesso più teorico nel Corbaccio (224 e 229: «La loro lussuria è focosa ... : il fante, il lavoratore ... ciascuno è buono ... Quante nel letto medesimo co’ mariti [presumettero] farli tacitamente entrare?») 57 si spogliò come lei: c o n ha qui valore di somiglianza, e non di compagnia: V 8,21 n. Letteratura italiana Einaudi 992 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 40 41 42 43 al giardino, e faccendo sembianti d’avermi richiesta per tentarmi, come se io fossi dessa58, dirai villania ad Egano e sonera’ mel59 bene col bastone, per ciò che di questo ne seguirà maraviglioso diletto e piacere». Anichino levatosi e nel giardino andatosene con un pezzo di saligastro60 in mano, come fu presso al pino e Egano il vide venire, così levatosi come con grandissima festa riceverlo volesse, gli si faceva incontro. Al quale Anichin disse: «Ahi malvagia femina61, dunque ci se’ venuta, e hai creduto che io volessi o voglia al mio signor far questo fallo? Tu sii la mal venuta per le mille volte!»; e alzato il bastone, lo incominciò a sonare. Egano, udendo questo e veggendo il bastone, senza dir parola cominciò a fuggire, e Anichino appresso sempre dicendo: «Via, che Dio vi metta in malanno, rea femina, ché io il dirò domatina ad Egano per certo». Egano avendone avute parecchi62 delle buone, come più tosto poté, se ne tornò alla camera; il quale la donna domandò se Anichin fosse al giardin venuto. Egano disse: «Così non fosse63 egli, per ciò che, credendo esso che io fossi te, m’ha con un bastone tutto rotto64, e dettami la maggior villania che mai si dicesse a niuna cattiva femina; e per certo io mi maravigliava forte di lui che egli con animo di far cosa che mi fosse vergogna t’avesse 58 come se fossi proprio io. me lo suonerai, me io bastonerai. «La parola e il dativo etico fanno sentire la voluttà con cui la donna pregusta la cosa» (Petronio). 60 salice selvatico (è bolognesismo: MIGLIORINI, Storia, p. 209). E, come il pino precedente, albero caratteristico per lo stile comico e mediocre: E. FARAL, Les Arts poetiques cit., pp. 86 sgg.; J. E. CIRLOT, A Dictionary of Symbols cit., pp. 328 sgg. E il salice selvatico era anche simbolo di purezza e purificazione. 61 Cfr. VII 8,21 n. 62 Forma invariata del plurale: cfr. II 10,12 n. 63 È sottinteso il participio precedente v e n u t o. 64 pestato, ammaccato: VII 4,29 n. 59 Letteratura italiana Einaudi 993 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII quelle parole dette; ma, per ciò che così lieta e festante65 ti vede, ti volle provare». Allora disse la donna: «Lodato sia Iddio, che egli ha 44 me provata con parole e te con fatti, e credo che egli possa dire che io comporti66 con più pazienzia le parole che tu i fatti non fai. Ma poi che tanta fede ti porta, si vuole aver caro e fargli onore. 45 Egano disse: «Per certo tu di’ il vero». E, da questo prendendo argomento, era in oppinio46 ne d’avere la più leal donna e il più fedel servidore che mai avesse alcun gentile uomo. Per la qual cosa, come che poi più volte con Anichino ed egli e la donna ridesser di questo fatto, Anichino e la donna ebbero assai più agio67, di quello per avventura che avuto non avrebbeno68, a far di quello che loro era diletto e piacere, mentre69 ad Anichin piacque di dimorar con Egano in Bologna. – 65 festevole, gaia. sopporti. 67 assai più agio (Colombo). 68 È forma pistoiese-lucchese-pisana, ma sporadicamente usata anche da scrittori fiorentini (Nuovi testi fiorentini, I, p. 49). 69 finché: cfr. II 9,74 n.; III 5,33 ecc. 66 Letteratura italiana Einaudi 994 NOVELLA OTTAVA 1 Un diviene geloso della moglie, ed ella, legandosi uno spago al dito la notte, sente il suo amante venire a lei. Il marito se n’accorge, e mentre seguita l’amante, la donna mette in luogo di sé nel letto un’altra femina, la quale il marito batte e tagliale le trecce, e poi va per li fratelli di lei, li quali, trovando ciò non esser vero, gli dicono villania1. 2 Stranamente2 pareva a tutti madonna Beatrice essere stata maliziosa3 in beffare il suo marito, e ciascuno affermava dovere essere stata la paura d’Anichino grandissi1 Il tema centrale di questa novella (l’inganno teso al marito dalla moglie infedele con la sostituzione di persona) era già diffusissimo nella narrativa orientale: nel Pantschatantra (I 4) e nell’Hitopadesa (II 6), nel Kalila e Dimna e quindi nella lunga serie di rimaneggiamenti e versioni di queste raccolte, tra cui il Directorium di Giovanni da Capua (ed. Derenbourg, Paris 1887, pp. 54 sgg.) e poi le Mille e una notte (554-55). Ma prima della traduzione di Giovanni da Capua il tema con alcune varianti già appare in Occidente nei fabliaux (Des tresces e De la dame qui fist entendant son mari qu’il sonjoit: Recueil général, IV 94 e V 124: e I 15) e in racconti medievali tedeschi (per es. Gesammtabenteuer, specialmente XXXl e XLIII; e KELLER, Erzählungen cit., p. 310). Il Bédier (Les Fabliaux, pp. 164 sgg.) ha mostrato - contro il Benfey (op. cit., II, pp. 38 sgg.) - che con tutta probabilità le narrazioni occidentali non dipendono da quelle orientali, ma discendono per via orale da una fonte comune, cui hanno aggiunto particolari caratteristici (per es. il marito non taglia più il naso ma le trecce, secondo un uso germanico di cui già Tacito, Germania, 19). Il B. ispirandovisi liberamente contaminò, rielaborò, innovò (per es. tutto lo stratagemma del filo; e soprattutto la cornice municipale vivacissima). Cfr. per tutto anche Aarne, 1417; Thompson e Rotunda, K 1228 e 1512: e per la sostituzione di persona cfr. VIII 4,1 n. 2 In maniera assai singolare. Non è un giudizio di carattere formale o di pietà come altri espressi dai giovani dell’aristocratica brigata (per es. VII 10,2; VIII 7,2). La sorpresa è provocata qui dall’improvviso capovolgimento che caratterizza la novella precedente nella vicenda, nei toni, nei caratteri stessi dei protagonisti (cfr. V. BRANCA, B. medievale, pp. 132 sg.). 3 scaltra: cfr. III 2,28 n. Letteratura italiana Einaudi 995 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 3 4 5 6 ma, quando, tenuto forte dalla donna, l’udì dire che egli d’amore l’aveva richesta4; ma poi che il re vide Filomena tacersi, verso Neifile voltosi, disse: «Dite voi». La qual, sorridendo prima un poco, cominciò. – Belle donne, gran peso mi resta se io vorrò con una bella novella contentarvi, come quelle che davanti hanno detto contentate v’hanno; del quale con l’aiuto di Dio io spero assai bene scaricarmi5. Dovete dunque sapere che nella nostra città fu già un ricchissimo mercatante chiamato Arriguccio Berlinghieri6, il quale scioccamente, sì come ancora oggi fanno tutto ’l dì i mercatanti pensò di volere ingentilire per moglie7, e prese una giovane gentil donna8 male a lui convenientesi, il cui nome fu monna Sismonda. La quale, per ciò che egli, sì come i mercatanti fanno, andava molto dattorno e poco con lei dimorava, s’innamorò d’un giovane chiamato Ruberto, il quale lungamente vagheggiata l’avea. E avendo presa sua dimestichezza9 e quella forse men10 discretamente usando, per ciò che sommamente le dilettava, avvenne o che Arriguccio alcuna cosa ne 4 Cfr. IV 9,7 n.; e anche VII 7,33. Continua l’immagine del «gran peso» usato per il compito grave di narrare una novella non indegna delle precedenti; immagine non nuova del resto (per es. I 4,2; IV 7,2; VI 9,2 ecc.). 6 Famiglia di mercanti assurti a una certa notorietà soltanto dopo la metà del Trecento (ebbero vari priori e tre gonfalonieri): non trovo però notizia di nessun Arrigo o Arriguccio in tale famiglia. Cfr. codd. Passerini 186 e 214 della Bibl. Nazionale di Firenze; cod. Marucelliano C 3, c. 223. 7 nobilitarsi sposando una donna dell’aristocrazia; come il mercante della III 3. Anche il Cavalca, Trattato della mondizia del cuore di San Girolamo, Roma 1846, p. 66: «per uno nobile parentado tutta la schiatta ne ingentilisce». 8 «Qui nota artificello» (M.). 9 In senso disonesto: II 7,80 n. 10 «Nota minus pro non» (M.); cioè contenendosi nel suo amore con minore accortezza del necessario. Quasi una formula in situazioni simili: IV 9,8 n. 5 Letteratura italiana Einaudi 996 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 7 8 sentisse, o come che s’andasse, egli11 ne diventò il più geloso uom del mondo, e lascionne stare l’andar dattorno e ogni altro suo fatto, e quasi tutta la suo12 sollicitudine aveva posta in guardar ben costei; né mai addormentato si sarebbe, se lei primieramente non avesse sentita entrar nel letto13; per la qual cosa la donna sentiva gravissimo dolore, per ciò che in guisa niuna col suo Ruberto esser poteva. Or pure, avendo molti pensieri avuti a dover trovare alcun modo d’esser con essolui, e molto ancora da lui essendone sollicitata, le venne pensato14 di tenere questa maniera: che, con ciò fosse cosa che la sua camera fosse lungo la via, ed ella si fosse molte volte accorta che Arriguccio assai ad addormentarsi penasse, ma poi dormiva saldissimo, avvisò di dover far venire Ruberto in su la mezza notte all’uscio della casa sua e d’andargli ad aprire e a starsi alquanto con essolui mentre il marito dormiva forte. E a fare che ella il sentisse quando venuto fosse, in guisa che persona non se ne accorgesse, divisò15 di mandare uno spaghetto fuori della finestra della camera, il quale con l’un de’ capi vicino alla terra16 aggiugnesse, e l’altro capo mandatol basso infin sopra ’l palco17 e conducendolo18 al letto suo, quello sotto i panni mette- 11 Colla corrente omissione di c h e in frase dipendente da avvenne o simili. 12 Forma ridotta non ignota al D.: IV 2,26 n.; X 8,48 n.; Rime, passim. 13 Il grande tema della novella, la bestialità della gelosia, è enunciato qui nei ritmi di una serie eccezionale di versi (quattro endecasillabi e un settenario: q u a s i t u t t a ... n e l l e t t o ). 14 Cfr. III 4,11 n.; e qui 11 n. 15 pensò, escogitò: questo verbo regge prima l’infinito preceduto da di e poi l’infinito semplice (m e t t e r e ... l e g a l l o s i ). 16 Cioè al terreno fuori, sotto la finestra. 17 pavimento: cfr. III 4,24 n. Letteratura italiana Einaudi 997 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 9 10 11 12 13 14 re, e quando essa nel letto fosse, legallosi19 al dito grosso del piede. E appresso, mandato questo a dire a Ruberto, gl’impose che, quando venisse, dovesse lo spago tirare, ed ella, se il marito dormisse, il lascerebbe andare e andrebbegli ad aprire; e s’egli non dormisse, ella il terrebbe fermo e tirerebbelo a sé, acciò che egli non aspettasse: la qual cosa piacque a Ruberto, e assai volte andatovi, alcuna gli venne fatto d’esser con lei, e alcuna no. Ultimamente, continuando costoro questo artificio così fatto, avvenne una notte che, dormendo la donna e Arriguccio stendendo il piè per lo letto, gli venne20 questo spago trovato; per che, postavi la mano e trovatolo al dito della donna legato, disse seco stesso: – Per certo questo dee essere qualche inganno –. E avvedutosi poi che lo spago usciva fuori per la finestra, l’ebbe per fermo21; per che, pianamente tagliatolo dal dito della donna, al suo il legò, e stette attento per vedere quel che questo volesse dire. Né stette guari che Ruberto venne, e tirato lo spago, come usato era, Arriguccio si sentì22, e non avendoselo ben saputo legare, e23 Ruberto avendo tirato forte ed essendogli lo spago in man venuto, intese di doversi aspettare, e così fece. Arriguccio, levatosi prestamente e prese sue armi, 18 Questo gerundio coordinato a un participio passato dà eccezionale vivezza all’azione rappresentata. 19 legarlosi: con un’assimilazione corrente (e cfr. 31). 20 Il solito uso di venire come ausiliare a esprimere fortuita subitaneità: II 5,70 n. 21 ne fu certo: una successione dal sospetto alla certezza espressa come nella IV 3,22 (e cfr. anche I 4,19). 22 se ne accorse, avvertì la cosa: e non, come di solito è interpretato, si risentí, si svegliò, ché evidentemente Arriguccio già era sveglio. 23 ecco che: col solito uso di e in ripresa come del resto al 14. Letteratura italiana Einaudi 998 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 15 16 17 18 corse all’uscio, per dover vedere chi fosse costui, e per fargli male. Ora era Arriguccio, con tutto che fosse mercatante, un fiero e un forte uomo; e giunto all’uscio e non aprendolo soavemente24 come soleva far la donna, e Ruberto che aspettava sentendolo, s’avvisò esser quello che era, cioè che colui che l’uscio apriva fosse Arriguccio; per che prestamente cominciò a fuggire, e Arriguccio a seguitarlo. Ultimamente, avendo Ruberto un gran pezzo fuggito25 e colui non cessando di seguitarlo, essendo altressì Ruberto armato, tirò fuori la spada e rivolsesi, e incominciarono l’uno a volere offendere e l’altro a difendersi. La donna, come Arriguccio aprì la camera, svegliatasi e trovatosi tagliato lo spago dal dito, incontanente s’accorse che ‘l suo inganno era scoperto; e sentendo Arriguccio esser corso dietro a Ruberto, prestamente levatasi, avvisandosi ciò che doveva potere avvenire, chiamò la fante sua, la quale ogni cosa sapeva, e tanto la predicò26, che ella in persona di sé27 nel suo letto la mise, pregandola che, senza farsi conoscere, quel le busse pazientemente ricevesse che Arriguccio le desse, per ciò che ella ne le renderebbe sì fatto merito28, che ella non avrebbe cagione donde29 dolersi. E spento il lume che nella camera ardeva, di quella s’uscì, e nascosa in una parte della casa cominciò ad aspettare quello che dovesse avvenire. Essendo tra Arriguccio e Ruberto la zuffa, i vicini 24 pian piano, dolcemente: VI 2,28 n. Non frequente avere ausiliare di fuggire intransitivo: ma cfr. V 3,10 n. 26 la scongiurò, la pregò: II 8,65 n.; Fiore, CCXI 5: «E poi la comincio a predicare | E disse ...»; Velluti, Cronica, p. 42: «il priore ... il cominciò a pregare e predicare». 27 in vece sua, al suo posto: III 2,11 n.; III 9,1. 28 ricompensa: cfr. III 9,14 n. 29 della quale: Par., XVI 150: «Che non avea cagione onde piangesse». Per questa relativa all’infinito cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 403. 25 Letteratura italiana Einaudi 999 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII della contrada, sentendola e levatisi, cominciarono loro a dir male30; e Arriguccio, per tema di non esser conosciuto, senza aver potuto sapere chi il giovane si fosse o d’alcuna cosa31 offenderlo, adirato e di mal talento32, lasciatolo stare, se ne tornò verso la casa sua; e pervenuto nella camera adiratamente cominciò a dire: «Ove se’ tu, rea femina? Tu hai spento il lume perché io non ti truovi, ma tu l’hai fallita33». E andatosene al letto, credendosi la moglie pigliare, 19 prese la fante, e quanto egli potè menare le mani e’ piedi, tante pugna e tanti calci le diede, tanto34 che tutto il viso l’ammaccò; e ultimamente le tagliò i capegli, sempre dicendole la maggior villania che mai a cattiva femina si dicesse35. 20 La fante piagneva forte, come colei che aveva di che36; e ancora che ella alcuna volta dicesse: «Ohimè, mercé per Dio; oh, non più» ; era sì la voce dal pianto rotta37, e Arriguccio impedito38 dal suo furore, che discerner non poteva più quella esser d’un’altra femina che della moglie. Battutala adunque di santa ragione e tagliatile i cape21 gli, come dicemmo, disse: «Malvagia femina39, io non 30 ingiuriarli, maltrattarli a parole: IV 8,7 n. in qualche cosa, in nulla. sdegnato: frase consueta: III 2,23 n.; IV 9,11 n. 33 l’hai sbagliata: II 2,11: «ché, se fallito non ci viene, per mio avviso tu albergherai pur male». 34 Cfr. VII 5,52 n. 35 Così anche nella VII 7,43: «dettami la maggior villania che mai si dicesse a niuna cattiva femina»: e cfr. qui più avanti 49. 36 che ne aveva ben il motivo. 37 Vita Nuova, XXIII 13: «la mia voce era sì rotta dal singulto del piangere, che queste donne non mi pottero intendere» e poi nella canzone (19): «Era la voce mia sì dolorosa | E rotta sì da l’angoscia del pianto»: e cfr. II 5,15. 38 sconvolto, reso cieco, oppresso: Inf., XXIX 28 sg.: «Tu eri allor sì del tutto impedito | Sovra colui»: e cfr. anche IV 9,17 n. 39 Anche Anichino nella VII 7,40: «Ahi malvagia femina ...». 31 32 Letteratura italiana Einaudi 1000 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 22 23 24 25 intendo di toccarti altramenti, ma io andrò per li tuoi fratelli e dirò loro le tue buone opere; e appresso che essi vengan per te e faccianne quello che essi credono che loro onor sia, e menintene40; ché per certo in questa casa non starai tu mai più». E così detto, uscito della camera, la serrò di fuori e andò tutto sol via. Come monna Sismonda, che ogni cosa udita aveva, sentì il marito essere andato via, così, aperta la camera e racceso il lume, trovò la fante sua tutta pesta che piagneva forte; la quale, come poté il meglio, racconsolò, e nella camera di lei la rimise, dove poi chetamente41 fattala servire e governare42 sì di quello d’Arriguccio medesimo la sovvenne43 che ella si chiamò per contenta. E come la fante nella sua camera rimessa ebbe, così prestamente il letto della sua rifece, e quella tutta racconciò e rimise in ordine, come se quella notte niuna persona giaciuta vi fosse, e raccese la lampana e sé rivestì e racconciò, come se ancora al letto non si fosse andata; e accesa una lucerna e presi suoi panni, in capo della scala si pose a sedere, e cominciò a cucire e ad aspettare quello a che il fatto dovesse riuscire. Arriguccio, uscito di casa sua, quanto più tosto potè n’andò alla casa de’ fratelli della moglie, e quivi tanto picchiò che fu sentito e fugli aperto. Li fratelli della donna, che eran tre, e la madre di lei, sentendo che Arriguccio era, tutti si levarono, e fatto accendere de’ lumi vennero a lui e domandaronlo quello che egli a quella ora e così solo andasse cercando. A’ quali Arriguccio, cominciandosi dallo spago che trovato aveva legato al dito del piè di monna Sismonda, 40 41 42 43 ti menino via di qui, di casa mia. Cfr. VII 4,12. segretamente, di nascosto. curare, medicare, la soccorse, la compensò con denari di Arriguccio stesso: I 1,82 n. Letteratura italiana Einaudi 1001 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 26 27 28 29 30 infino all’ultimo di ciò che trovato e fatto avea, narrò loro; e per fare loro intera testimonianza di ciò che fatto avesse, i capelli che alla moglie tagliati aver credeva lor pose in mano, aggiugnendo che per lei venissero e quel ne facessero che essi credessero che al loro onore appartenesse, per ciò che egli non intendeva di mai più in casa tenerla. I fratelli della donna, crucciati forte di ciò che udito avevano e per fermo tenendolo44, contro a lei innanimati45, fatti accender de’ torchi, con intenzione di farle un mal giuoco46, con Arriguccio si misero in via e andaronne a casa sua. Il che veggendo la madre di loro, piagnendo gl’incominciò a seguitare, or l’uno e or l’altro pregando che non dovessero queste cose così subitamente credere, senza vederne altro o saperne; per ciò che il marito poteva per altra cagione esser crucciato con lei e averle fatto male, e ora apporle47 questo per iscusa di sé; dicendo ancora che ella si maravigliava forte come ciò potesse essere avvenuto, per ciò che ella conosceva ben la sua figliuola, sì come colei che infino da piccolina l’aveva allevata; e molte altre parole simiglianti. Pervenuti adunque a casa d’Arriguccio ed entrati dentro, cominciarono a salir le scale. Li quali monna Sismonda sentendo venire, disse: «Chi è là?» Alla quale l’un de’ fratelli rispose: «Tu il saprai bene, rea femina, chi è». Disse allora monna Sismonda: «Ora che vorrà dir questo? Domine, aiutaci48». E levatasi in piè disse: «Fra- 44 e considerando questo certissimo. sdegnati, irati: G. Villani, VIII 62: «il Papa maggiormente s’inanimò contro al Re [di Francia]». 46 giocarle un brutto tiro, trattarla male: VII 5,37 n. 47 attribuirle, imputarle: III 7,26 n. 48 Esclamazione consueta in casi simili: IX 7,12; X 9,91. 45 Letteratura italiana Einaudi 1002 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 31 32 33 34 telli miei, voi siate i benvenuti; che andate voi cercando a questa ora quincentro tutti e tre49?» Costoro, avendola veduta a sedere e cucire e senza alcuna vista50 nel viso d’essere stata battuta, dove Arriguccio aveva detto che tutta l’aveva pesta, alquanto nella prima giunta51 si maravigliarono e rifrenarono l’impeto della loro ira, e domandarolla52 come stato fosse quello di che Arriguccio di lei si doleva, minacciandola forte se ogni cosa non dicesse loro. La donna disse: «Io non so ciò che io mi vi debba dire, né di che Arriguccio di me vi si debba esser doluto». Arriguccio, vedendola, la guatava come smemorato53, ricordandosi che egli l’aveva dati forse mille punzoni54 per lo viso e graffiatogliele e fattole tutti i mali del mondo, e ora la vedeva come se di ciò niente fosse stato. In brieve i fratelli le dissero ciò che Arriguccio loro aveva detto, e dello spago e delle battiture e di tutto. La donna, rivolta ad Arriguccio, disse: «Ohimè, marito mio, che è quel ch’io odo55? Perché fai tu tener me rea femina con tua gran vergogna, dove io non sono56, e te malvagio uomo e crudele57 di quello che tu non se’? E quando fostù58 questa notte più in 49 Purg., XXIV 133: «Che andate pensando si voi sol tre?» indizio, segno: VI 5,11 n. sulle prime: Intr., 92 n. 52 e la richiesero, con un’altra assimilazione corrente come quella a par. 8. 53 fuor di senno, trasognato, instupidito: cfr. 50; e VI 9,13; VII 9,66. 54 colpi, pugni: IX 8,23; Sacchetti, Rime, CLII 44. 55 Inf., III 32: «che è quel ch’i’ odo?» 56 mentre io non lo sono: con la solita omissione del pronome (III 6,29 n.). 57 L’intervento della donna suona più incalzante per la sequenza di cinque endecasillabi ( L a d o n n a ... c r u d e l e ). 58 fosti tu. Simili sincopi sono abbastanza frequenti nei discorsi diretti e particolarmente concitati nel D. (vedi in questa stessa novella, 37: b a t t e s t ù ). 50 51 Letteratura italiana Einaudi 1003 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 35 36 37 38 39 40 41 questa casa, non che con meco? O quando mi battesti tu? Io per me non me ne ricordo». Arriguccio cominciò a dire: «Come, rea femina59, non ci andammo noi iersera al letto insieme? Non ci tornai io, avendo corso dietro all’amante tuo? Non ti diedi io di molte busse, e taglia’ti60 i capegli?» La donna rispose: «In questa casa non ti coricasti tu iersera. Ma lasciamo stare di questo, ché non ne posso altra testimonianza fare che le mie vere parole, e veniamo a quello che tu di’, che mi battesti e tagliasti i capegli. Me non battestù mai, e quanti n’ha qui61 e tu altressì mi ponete mente62 se io ho segno alcuno per tutta la persona di battitura; né ti consiglierei che tu fossi tanto ardito che tu mano addosso mi ponessi, ché, alla croce di Dio63, io ti sviserei64. Né i capegli altressì mi tagliasti, che io sentissi o vedessi; ma forse il facesti che io non me n’avvidi: lasciami vedere se io gli ho tagliati o no». E, levatisi suoi veli di testa, mostrò che tagliati non gli avea, ma interi. Le quali cose e vedendo e udendo i fratelli e la madre, cominciarono verso d’Arriguccio a dire: «Che vuoi tu dire, Arriguccio? Questo non è già quello che tu ne venisti a dire che avevi fatto; e non sappiam noi come tu ti proverrai il rimanente». Arriguccio stava come trasognato e voleva pur dire; ma, veggendo che quello ch’egli credea poter mostrare non era così, non s’attentava di dir nulla. La donna, rivolta verso i fratelli, disse: «Fratei miei, 59 Nota l’insistenza su questa qualificazione ignominiosa (18, 21, 29, 34, 35: e cfr. VII 9,69). 60 ti tagliai. 61 Cioè: tutti voi qui presenti. 62 osservatemi: II 5,11 n. 63 Cfr. VII 4,22 n. e qui più sotto 45. 64 guasterei il viso, romperei la laccia, sfregerei: X concl., 14 n. Letteratura italiana Einaudi 1004 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII io veggio che egli è andato cercando che io faccia quello che io non volli mai fare, cioè ch’io vi racconti le miserie e le cattività65 sue, e io il farò. Io credo fermamente che ciò che egli v’ha detto gli sia intervenuto e abbial fatto; e udite come». Questo valente uomo, al qual voi nella mia mala 42 ora66 per moglie mi deste, che si chiama mercatante e che vuole esser creduto67 e che dovrebbe esser più temperato che uno religioso e più onesto che una donzella, son poche sere che68 egli non si vada inebbriando per le taverne, e or con questa cattiva femina e or con quella rimescolando69; e a me si fa infino a mezza notte e talora infino a matutino aspettare, nella maniera che mi trova43 ste. Son certa che, essendo bene ebbro, si mise a giacere con alcuna sua trista70, e a lei destandosi trovò lo spago al piede e poi fece tutte quelle sue gagliardie71 che egli dice, e ultimamente tornò a lei e battella e tagliolle i capegli; e non essendo ancora ben tornato in sé, si credette, e son certa che egli crede ancora, queste cose aver fatte a me; e se voi il porrete ben mente72 nel viso, egli è 44 ancora mezzo ebbro. Ma tuttavia, che che egli s’abbia di me detto, io non voglio che voi il vi rechiate se non co- 65 le dappocaggini e le ribalderie: I 8,5 n. e 7 n. per mia sventura: VII 2,16. 67 avere, riscuotere credito: II 3,12 n. 68 sono poche quelle sere che. 69 vada bazzicando, frequentando ora questa donnaccia e ora quell’altra: IX 7,10 n. 70 Come sopra cattiva femina: VIII 9,85 n. 71 prodezze, bravate. 72 se voi l’osserverete. Non rara questa costruzione con l’accusativo: VIII 9, 108 n.; Comedia, XXVIII 3; Passavanti, Specchio, II 4; «Io, dice Iddio, vi chiamai e non mi rispondeste: stesi inverso di voi la mano mia e non fu chi por la mente» (lat. «non fuit qui aspiceret»). Cfr. M. MARTELLI, Porre (tenere) mente col complemento diretto, in «Lingua Nostra», XXXII, 1971. 66 Letteratura italiana Einaudi 1005 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII me da73 uno ubriaco; e poscia che io gli perdono io, gli perdonate74 voi altressì». La madre di lei, udendo queste cose, cominciò a fare 45 romore e a dire: «Alla croce di Dio, figliuola mia, cotesto non si votrebbe75 fare; anzi si vorrebbe uccidere questo can fastidioso e sconoscente, ché egli non ne fu degno d’avere una figliuola fatta come se’tu. Frate, bene 46 sta76!; Basterebbe se egli t’avesse ricolta del fango77. Col malanno possa egli essere oggimai, se tu dei stare al fracidume delle parole di un mercantuzzo di feccia d’asino, che78 venutici di contado e usciti delle troiate79, vestiti di romagnuolo80, con le calze a campanile81 e con la penna in culo82, come egli hanno tre soldi, vogliono le figliuole de’ gentili uomini e delle buone donne per mo73 voi lo accogliate, lo consideriate se non come proveniente, come detto da. 74 perdonategli: imperativo: cfr. VII 9,17 n. 75 dovrebbe: I 1,26 n. 76 guarda un po’!, non c’è male!: III 3,28 n. e VIII 2,26 n. 77 neanche t’avesse raccolta dal fango: cioè: anche se ti avesse raccolta dal fango ti tratterebbe troppo duramente. 78 «Questo relativo che non ha antecedente espresso a cui riferiscasi: ma ci s’intende di questi: cioè d’un mercantuzzo di feccia d’asino, di questi che venutici ecc.» (Colombo). 79 masnade, canagliume. Era propriamente il seguito di masnadieri che accompagnavano i signori di contado; negli Statuti Fiorentini v’è tutto un capitolo De schimis et troiatis. Il disprezzo di questa vecchia e nobile fiorentina per la gente di contado può ricordare quello di Dante, specie nel XVI del Paradiso. 80 Panno grossolano: VI 5,11n. 81 «Calze sgambate che ricadevano a campana ed a bracaloni; più modeste che la calza intera, esse, come prova l’esempio del B. e lascia intendere anche l’espressione del Sacchetti (LXXVI), eran portate piuttosto da persone di condizione umile» (Merkel). 82 I mercanti e i notai usavano portare, spesso nella tasca posteriore dei pantaloni, il pennaiuolo (astuccio con penna e calamaio): VIII 5,7; Sacchetti, CLIII e CLXIII. Qui invece della consueta espressione la penna a cintola è usata per i s t r a z i o l’espressione volgare e equivocamente oscena, corrente in Firenze. «Nota de’ villani orgogliosi arricchiti» (M.). Letteratura italiana Einaudi 1006 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII glie, e fanno arme83 e dicono: ‘I’ son de’cotali ’ e ‘ quei 47 di casa mia fecer così’. Ben vorrei che’ miei figliuoli n’avesser seguito il mio consiglio, ché ti potevano così orrevolmente acconciare in casa i conti Guidi con un pezzo di pane84, ed essi vollon pur darti a questa bella gioia, che, dove tu se’ la miglior figliuola di Firenze e la più onesta, egli non s’è vergognato di mezza notte di dir che tu sii puttana, quasi noi non ti conoscessimo; ma, alla fè di Dio, se me ne fosse creduto85, se ne gli darebbe sì fatta gastigatoia86 che gli putirebbe87». 48 E, rivolta a’ figliuoli, disse: «Figliuoli miei, io il vi dicea bene che questo non doveva potere essere. Avete voi udito come il buono vostro cognato tratta la sirocchia vostra? Mercatantuolo di quattro denari che egli è! Ché, se io fossi come voi, avendo detto quello che egli ha di lei e faccendo quello che egli fa, io non mi terrei mai né contenta né appagata, se io nollo levassi di terra88; e se io fossi uomo come io son femina, io non vorrei che altri ch’io se ne ‘mpacciasse. Domine, fallo tristo89: ubriaco doloroso90 che non si vergogna!» 83 si fanno uno stemma, un’arme gentilizia: così narra anche il Sacchetti, LXIII. 84 con piccolissima dote ti potevano onorevolmente maritare a uno dei conti Guidi. Doveva esser modo di dire quasi proverbiale, se Dante lo mette in bocca alla madre di Nella Donati: Rime, LXXIII 13-14: «... Lassa, che per fichi secchi | Messa l’avre’ ’n casa del conte Guido». Per la fama leggendaria dei conti Guidi cfr. Par., XVI; Compagni, I 20; Villani, V 38; e per la costruzione i n c a s a i c o n t i : II 5,50 n. 85 se mi si desse retta. 86 castigo: Sacchetti, CLXXXIV. L’espressione volgare è ripetuta nella VIII 9,83. 87 puzzerebbe, spiacerebbe: cioè se ne ricorderebbe per un pezzo (Sapegno). 88 non lo facessi fuori, non lo ammazzassi: II 8,21 n. 89 Imprecazione già ricorsa nel D.: II 1,14 n. 90 sciagurato: VII 4,9 n. Letteratura italiana Einaudi 1007 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII I giovani, vedute e udite queste cose, rivoltisi ad Arriguccio, gli dissero la maggior villania che mai a niun cattivo uom si dicesse; e ultimamente dissero: «Noi ti perdoniam questa si come ad ebbro; ma guarda che per la vita tua91 da quinci innanzi simili novelle noi non sentiamo più, ché per certo, se più nulla ce ne viene agli orecchi, noi ti pagheremo di questa e di quella»; e così detto, se n’andarono. 50 Arriguccio, rimaso come uno smemorato92, seco stesso non sappiendo se quello che fatto avea era stato vero o s’egli aveva sognato, senza più farne parola, lasciò la moglie in pace. La qual, non solamente colla sua sagacità fuggì il pericol sopra stante ma s’aperse la via a poter fare nel tempo avvenire ogni suo piacere, senza paura alcuna più aver del marito93. – 49 91 se ti preme, se hai cara la vita: VII 9,14 n. Cfr. 32 n. 93 Conclusione assai simile – come vari momenti della narrazione – a quella della VII 4. 92 Letteratura italiana Einaudi 1008 NOVELLA NONA 1 Lidia moglie di Nicostrato ama Pirro, il quale, acciò che credere il1 possa, le chiede tre cose, le quali ella gli fa tutte; e oltre a questo in presenza di Nicostrato si sollazza con lui, e a Nicostrato fa credere che non sia vero quello che ha veduto2. 1 Cioè possa credere che Lidia lo ami. È una delle poche novelle di cui sia chiara e sicura la fonte: cioè la Comoedia Lydiae, commedia elegiaca già attribuita a Matteo di Vendôme, trascritta di proprio pugno dal B. nel cod. Laurenziano XXXIII 31, cc. 71 sgg. (cfr. H. HAUVETTE, Notes sur de mss. autographes de B., in «Mél. d’Archéologie et d’Histoite de l’Ecole française de Rome», XIV, 1894; B. M. DA RIF, La Miscellanea Laurenziana XXXIII 31, in «Studi sul B.», VII, 1973: il poemetto è pubblicato da E. Lackenbacher in La Comédie latine en France au XIIe siècle, Paris 1931, I, pp. 225 sgg.: ivi varie notizie sull’autore). Nel testo medievale – seguito puntualmente dal B. – già si trovano fusi due diversi racconti che avevano avuto grande fortuna: quello delle varie mistificazioni fatte subire al marito per dare prove all’amante (o per altro fine), e quello del pero incantato. II primo, con diverse e anche profonde varianti, era negli Exempla di Jacques de Vitry (CCXLVIII e anche CCLX) e nello Speculum di Vincenzo di Beauvais (III IX 15); nei fabliaux, Trois dames qui trouvèrent l’annel, De la Dame escolliée e in uno d’Haisel (Recueil général, I 15 e VI 138; VI 148; e anche III 61); nell’Huon de Bordeaux (vv. 5705 sgg.) e nel Conte devot d’un roi qui vouloit faire brúler les fils de son sénécbal (Fabliaux, ed. Legrand, V, p. 56; e anche II, pp. 311 sgg.); in due testi tedeschi (KELLER, Erzählungen, p. 210; Liedersaal di Lassberg, III 5), in versioni del Libro dei Sette Savi (P. RAJNA, in «Romania», X, 1881), in una delle novelle aggiunte dal Borghini al Novellino (LXVIII: ed. Torino 1946). II secondo era nei fabliaux, Du prestre ki abevete (Recueil général, III 61) e Dou vileins di Maria di Francia, nelle Latin Stories pubblicate dal Wright (1 e 91), nel Novellino (ed. Biagi, CLV), nell’antico racconto tedesco Der wiîe List (Gesammtabenteuer, XXXVIII), oltre che in varie raccolte orientali (Bahár i Dánisch, Shrewsbury I799, II, p. 64; Anciens Sastraskmers, Saigon 1878, II, p. 52; Mille e una notte, Benares 1888, V, pp. 116 sgg.; Quaranta Visiri, ed. Gibb, XXXI, London 1886 ecc.). Per la storia dei rapporti fra queste diverse versioni e varie altre, su cui, data la sicurezza della fonte del B., sarebbe superfluo insistere, cfr. BÉDIER, Les Fabliaux, pp. 265 sgg.; F. LANGLOIS, Nouvelles inédites du XVI siècle, Paris 1918, 2 Letteratura italiana Einaudi 1009 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 2 3 4 5 Tanto era piaciuta la novella di Neifile, che né di ridere né di ragionar di quella si potevano le donne tenere3, quantunque il re più volte silenzio loro avesse imposto, avendo comandato a Panfilo che la sua dicesse. Ma pur, poi che tacquero, così Panfilo incominciò. Io non credo, reverende4 donne, che niuna cosa sia, quantunque sia grave e dubbiosa, che a far non ardisca5 chi ferventemente ama. La qual cosa quantunque in assai novelle sia stato dimostrato6, nondimeno io il mi credo molto più, con una che dirvi intendo, mostrare, dove udirete d’una donna, alla qua le nelle sue opere fu troppo più favorevole la fortuna, che la ragione avveduta; e per ciò non consiglierei io alcuna che dietro alle pedate7 di colei, di cui dire intendo, s’arrischiasse d’andare, per ciò che non sempre è la fortuna in un modo disposta, né sono al mondo tutti gli uomini abbagliati8 igualmente. In Argo9, antichissima città di Grecia, per li suoi passati re molto più famosa che grande, fu già uno nobile uomo, il quale appellato fu Nicostrato10, a cui già vicino alla pp. 18 sgg.; L. DI FRANCIA, Alcune novelle cit., 1907; e per vari particolari Aarne, 1406, 1423; Thompson e Rotunda, K 1518 e 1545, J 2324, e anche F 770 (per gli alberi straordinari e incantati) e H 900 (per le prove impossibili). 3 trattenere. 4 È aggettivo di rispetto usato solo qui per le donzelle della brigata. 5 Solita costruzione di ardire per cui cfr. II 1,20 n. 6 «Virtualmente la q u a l c o s a vuol dire il che: e però qui, per sillessi, vedesi accordato con d i m o s t r a t o» (Fanfani): caso analogo a quello più volte notato di ogni cosa considerata neutro (II 3,25 n.). 7 sulle orme: cfr. VI 10,3 n. 8 Negli occhi dell’intelletto: cioè stupidi (Marti). Cfr. qui par. 78. 9 Nel modello latino non era indicata la città, che al B. forse piacque identificare con Argo che aveva cantato nel Teseida (II; VI; ch. II 14: «Argos fu già in Grecia famosissima città»). 10 È l’unico nome mutato dal B. rispetto alla sua fonte latina (dove il marito era Decius), certo per le esigenze dell’ambientazione greca: significa esercito vincitore ed era assai diffuso anche nelle letterature greca e latina. Letteratura italiana Einaudi 1010 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 6 7 8 vecchiezza la fortuna concedette per moglie una gran donna, non meno ardita che bella, detta per nome Lidia. Teneva costui, sì come nobile uomo e ricco, molta famiglia e cani e uccegli11, e grandissimo diletto prendea nelle cacce; e aveva tra gli altri suoi famigliari un giovinetto leggiadro e adorno e bello della persona e destro a12 qualunque cosa avesse voluta fare, chiamato Pirro; il quale Nicostrato oltre ad ogni altro amava e più di lui si fidava. Di costui Lidia s’innamorò forte, tanto che né dì né notte che13 in altra parte che con lui aver poteva il pensiere; del quale amore, o che Pirro14 non s’avvedesse o non volesse, niente mostrava se ne curasse, di che la donna intollerabile noia15 portava nell’animo. E disposta del tutto di fargliele sentire, chiamò a sé una sua cameriera nomata Lusca16, della quale ella si confidava17 molto, e sì le disse: 11 Falconi da caccia, evidentemente. Il quadro della vita cortese e signorile può ricordare quello della VII 7. F a m i g l i a come altrove vale servitù. 12 capace di. Presentazione convenzionale per simili personaggi: cfr. per es. VII 3,4: «un giovane assai leggiadro ... e ornato»; VII 2,8 n. ecc. Normale il rafforzamento in addorno (cfr. X concl., 2; Sacchetti, Rime, CXXXI 6). 13 Singolare ripetizione, a distanza minima, della c h e : ma già ne abbiamo visto di analoghe dopo frasi parentetiche o interposte. 14 «Nota che dove è questo segno [cioè accanto a P i r r o] mette l’autore in dubbio qual fosse la cagione che Pirro non si curava dello amore di Lidia, cioè o non vedere o non volere. E qui dove è questo segno [cioè accanto a d’ a l c u n a c o s a : 13] afferma esserne suta cagione solamente il non avederserie; la qual cosa par viziosa» (M.). 15 pena, tormento. 16 II B. lascia questo nome francese (louche) della sua fonte accanto agli altri nomi greci: chiaro indizio di dipendenza. E mentre qui è un puro nome, il poemetto ne sfrutta ampiamente i possibili sensi allusivi («Lusca, quidem nescis causam cur Lusca voceris: | Ut reor, a luna nomen et omen babes. | Quinta fuit, fateor, subducens cornua matris, | Coro redit in lucem parturientis onus ... | Nocte placet quod agis: tibi lux est aemula, Lusca; Constat servitio nominis umbra sui»). 17 si fidava: III 8,35 n. Letteratura italiana Einaudi 1011 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 9 10 11 12 13 «Lusca, li benefici li quali tu hai da me ricevuti ti debbono fare a me obediente e fedele; e per ciò guarda che quello che io al presente ti dirò niuna persona senta giammai se non colui al quale da me ti fia imposto18. Come tu vedi, Lusca, io son giovane e fresca donna, e piena e copiosa19 di tutte quelle cose che alcuna può disiderare; e brievemente, fuor che d’una20, non mi posso rammaricare, e questa è che gli anni del mio marito son troppi, se co’ miei si misurano, per la qual cosa di quello che21 le giovani donne prendono più piacere io vivo poco contenta; e pur come l’altre disiderandolo, è buona pezza che io diliberai meco di non volere, se la fortuna m’è stata poco amica in darmi così vecchio marito, essere io nimica di me medesima in non saper trovar modo a’ miei diletti e alla mia salute; e per avergli così compiuti in questo come nell’altre cose, ho per partito preso di volere, sì come di ciò più degno che alcun altro, che il nostro Pirro co’ suoi abbracciamenti gli supplisca, e ho tanto amore in lui posto, che io non sento mai bene se non tanto quanto io il veggio o di lui penso22; e se io senza indugio non mi ritruovo seco, per certo io me ne credo morire. E per ciò, se la mia vita t’è cara, per quel modo che miglior ti parrà, il mio amore gli significherai e sì ‘l pregherai da mia parte che gli piaccia di venire a me quando tu per lui andrai». La cameriera disse di farlo volentieri; e come prima23 tempo e luogo le parve, tratto Pirro da parte, quan- 18 È sottinteso facilmente d i r l o che regge a l q u a l e. ricca, fornita abbondantemente. Condizione che ricorda quella di monna Bartolomea (II 10) e della moglie di Maestro Mazzeo (IV 10). 21 di cui. 22 Per la costruzione pensare di cfr. V 1,54 n.; e per l’appassionata affermazione solita sulle labbra degli amanti del D. cfr. IV 8,6 n. 23 non appena. 19 20 Letteratura italiana Einaudi 1012 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII to seppe il meglio l’ambasciata gli fece della sua donna. La qual cosa udendo Pirro, si maravigliò forte, sì come colui che mai d’alcuna cosa avveduto non s’era, e dubitò non la donna ciò facesse dirgli per tentarlo; per che su14 bito e ruvidamente rispose: «Lusca, io non posso credere che queste parole vengano dalla mia donna24, e per ciò guarda quel che tu parli25; e se pure da lei venissero, non credo che con l’animo26 dir te le faccia; e se pur con l’animo dir le facesse, il mio signore mi fa più onore che io non vaglio27; io non farei a lui sì fatto oltraggio per la vita mia28; e però guarda che tu più di sì fatte cose non mi ragioni». 15 La Lusca, non sbigottita per lo suo rigido29 parlare, gli disse: «Pirro, e di queste e d’ogn’altra cosa che la mia donna m’imporrà ti parlerò io quante volte ella il mi comanderà, o piacere o noia ch’egli ti debbia essere; ma tu se’ una bestia30!». E turbatetta31 con le parole di Pirro se ne tornò alla 16 donna, la quale udendole disiderò di morire, e dopo al17 cun giorno riparlò alla cameriera e disse: «Lusca, tu sai che per lo primo colpo non cade la quercia32; per che a me pare che tu da capo ritorni a colui che in mio pregiu- 24 dalla mia padrona. Per parlare usato transitivamente cfr. II 3,28 n. 26 Cioè: sinceramente. 27 che io non merito, non valgo. 28 per quanto ho cara la vita: VIII 8,49 n. 29 severo, scontroso (II 5,53 n.), come sopra r u v i d a m e n t e (II 1,23). 30 «Sì, cornuta» (M). II tono impaziente e irato ricorda le simili parole della Licisca (VI intr., 7). 31 inquieta, adirata: II 9,12 n. 32 Proverbio assai diffuso, fin dall’antichità («multis ictibus deiicitur quercus»): cfr. GIUSTI, Raccolta di proverbi cit., p. 244. 25 Letteratura italiana Einaudi 1013 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 18 19 20 21 dicio nuovamente33 vuol divenir leale, e, prendendo tempo convenevole, gli mostra interamente il mio ardore e in tutto t’ingegna34 di far che la cosa abbia effetto; però che, se così s’intralasciasse35, io ne morrei ed egli si crederebbe esser stato tentato; e dove il suo amor cerchiamo, ne seguirebbe odio». La cameriera confortò la donna, e cercato di Pirro, il trovò lieto e ben disposto, e sì gli disse: «Pirro, io ti mostrai, pochi dì sono, in quanto fuoco la tua donna e mia stea per l’amor che ella ti porta, e ora da capo te ne rifò certo, che, dove tu in su la durezza che l’altrieri36 dimostrasti dimori, vivi sicuro che ella viverà poco; per che io ti priego che ti piaccia di consolarla del suo disiderio; e dove tu pure in su la tua ostinazione stessi duro, là dove io per molto savio t’aveva, io t’avrò per uno scioccone. Che gloria ti può egli esser maggiore che una così fatta donna, così bella, così gentile e così ricca, te sopra ogni altra cosa ami? Appresso questo, quanto ti puo’ tu conoscere alla fortuna obligato, pensando che ella t’abbia parata dinanzi37 così fatta cosa, e a’ disideri della tua giovinezza atta, e ancora un così fatto rifugio a’tuoi bisogni! Qual tuo pari conosci tu che per via di diletto38 meglio stea che starai tu, se tu sarai savio? Quale altro troverai tu che in arme, in cavalli, in robe e in denari possa star come tu starai, volendo il tuo amor concedere a costei39? 33 a mio danno in modo strano, insolito: I 7,1 n. Popolaresca è la forma p r o g i u d i c i o , corrente anche nel Trecento (per es., nel Passavanti, passim). 34 ingegnati: imperativo: cfr. VII 8,44 n. 35 si abbandonasse la cosa. 36 giorni la: III 3,23 n. 37 offerta: IV 9,3 n. 38 quanto a diletto. 39 Perorazione su due esclamative e su due interrogative retoriche, strutturate binariamente, che in certo modo anticipa quella grandiosa, in ritmi ternari, della conclusione della X 8 (113-16), e segue l’avvio della VII 4,3 n. Letteratura italiana Einaudi 1014 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 22 23 24 25 26 Apri adunque l’animo alle mie parole e in te ritorna40; e ricordati che una volta senza più 41suole avvenire che la Fortuna si fa altrui incontro col viso lieto e col grembo aperto42; la quale chi allora non sa ricevere, poi, trovandosi povero e mendico, di sé e non di lei s’ha a rammaricare43. E oltre a questo non si vuol44 quella lealtà tra’ servidori usare e’signori, che tra gli amici e pari si conviene; anzi gli deono così i servidori trattare, in quel che possono, come essi da loro trattati sono. Speri tu, se tu avessi o bella moglie o madre o figliuola o sorella45 che a Nicostrato piacesse, che egli andasse la lealtà ritrovando46 che tu servar vuoi a lui della47 sua donna? Sciocco se’ se tu ‘l credi: abbi di certo, se le lusinghe e’ prieghi non bastassono, che che ne dovesse a te parere, e’vi si adoperrebbe48 la forza49. Trattiamo adunque loro e le lor cose come essi noi e le nostre trattano. Usa il beneficio della Fortuna; non la cacciare, falleti incontro e lei vegnente ricevi, ché per certo, se tu nol fai, lasciamo stare50 la morte la quale senza fallo alla tua donna ne seguirà, ma tu ancora te ne penterai tante volte che tu ne vorrai morire». 40 Tono e concetto simili nell’esortazione analoga della moglie del geloso confessore (VII 5,58). 41 una volta sola, una volta e non più: II 3,37 n. 42 «Nota» (M.). 43 Concetto già in qualche modo accennato nella Amorosa Visione, XXXII 28 sgg.; ed era sentenza proverbiale: «Se vien ventura, prendela a man salva | Dinanzi dico, ch’ell’è dietro calva» (NOVATI, Serie alfaabetiche cit., LV, p. 292). 44 deve: I 1,26 n. 45 Due endecasillabi di seguito. 46 avesse in mente, meditasse la lealtà. E per l’uso e il valore di questo congiuntivo imperfetto di aspettazione cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 358. 47 a rispetto alla: II 7,64 n. 48 Solita forma: I 1,14 n. 49 L’ammonizione sentenziosa si compone qui nel ritmo di quattro versi di seguito. E cfr. II 7,25 n. 50 a parte, senza considerare: cfr. VII 5,9 n. Letteratura italiana Einaudi 1015 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 27 28 29 30 31 Pirro, il qual più fiate sopra le parole che la Lusca dette gli avea avea ripensato, per partito avea preso51 che, se ella più a lui ritornasse, di fare52 altra risposta e del tutto recarsi53 a compiacere alla donna, dove certificar si potesse che tentato non fosse 54; e per ciò rispose: «Vedi, Lusca, tutte le cose che tu mi di’ io le conosco vere, ma io conosco d’altra parte il mio signore molto savio e molto avveduto, e ponendomi55 tutti i suoi fatti in mano, io temo forte che Lidia con consiglio e voler di lui questo non faccia per dovermi tentare; e per ciò, dove tre cose ch’io domanderò voglia fare a chiarezza di me56, per certo niuna cosa mi comanderà poi che io prestamente non faccia. E quelle tre cose che io voglio son queste: primieramente che in presenzia di Nicostrato ella uccida il suo buono57 sparviere; appresso ch’ella mi mandi una ciocchetta della barba di Nicostrato; e ultimamente un dente di quegli di lui medesimo de’ migliori58». Queste cose parvono alla Lusca gravi e alla donna gravissime59; ma pure Amore, (che è buono confortatore e gran maestro di consigli, le fece diliberar di farlo, e per la sua cameriera gli mandò dicendo60 che quello che egli aveva addimandato pienamente fornirebbe, e tosto; e oltre a ciò, per ciò che egli così savio reputava Nicostrato, disse che in presenzia di lui con Pirro si sollazze51 aveva deciso. Cambiamento di costruzione (che lascia sospesa la precedente c h e ) solito specie dopo inciso condizionale. 53 indursi, disporsi: e cfr. più sotto 72. 54 se potesse assicurarsi di non esser messo alla prova soltanto, dall’offerta di Lidia. 55 Gerundio causale: e poiché mi pone. 56 Cioè per darmi affidamento, per rendermi certo del suo amore e della sua sincerità. 57 valente: ma finora la novella non l’aveva menzionato: v’era solo stato un accenno generico ai falconi da caccia (6). 58 di quelli tra i più sani di lui medesimo. 59 «Nota» (M.). 60 Per l’uso di mandar col gerundio cfr. IV 2,23 n. 52 Letteratura italiana Einaudi 1016 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 32 33 34 rebbe e a Nicostrato farebbe credere che ciò non fosse vero. Pirro adunque cominciò ad aspettare quello che far dovesse la gentil donna; la quale, avendo ivi a pochi dì Nicostrato dato un gran desinare, sì come usava spesse volte di fare, a certi gentili uomini, ed essendo già levate le tavole, vestita d’uno sciamito61 verde e ornata molto, e uscita della sua camera62, in quella sala venne dove costoro erano, e veggente Pirro e ciascuno altro63, se n’andò alla stanga sopra la quale lo sparviere era cotanto da Nicostrato tenuto caro, e scioltolo, quasi in mano sel volesse levare, e presolo per li geti64, al muro il percosse e ucciselo. E gridando verso lei Nicostrato: «Ohimè, donna, che hai tu fatto?» niente a lui rispose; ma, rivolta a’ gentili uomini che con lui avevan mangiato, disse: « Signori, mal prenderei vendetta d’un re che mi facesse dispetto, se d’uno sparvier non avessi ardir di pigliarla. Voi dovete sapere che questo uccello tutto il tempo da dover essere prestato dagli uomini al piacer delle donne lungamente m’ha tolto; per ciò che, sì come65 l’aurora suole apparire, così Nicostrato s’è levato66, e salito a cavallo 61 drappo di velluto: Novellino, LXXXII: «coperta d’uno vcrmiglio sciamito». E si ricordi che il verde era uno dei colori più solenni e onorevoli: III 7,89 n. 62 Perché non partecipava alla mensa degli ospiti: così, in situazione simile, la moglie di Messer Torello (X 9,26 sgg.). 63 Alla latina, per secondaria indipendente: sotto gli occhi di ...: cfr. VIII 1,12: «veggente il suo compagno»; Corbaccio, 230: «veggenti i mariti». 64 Strisce di cuoio adattate alle zampe dei falconi per attaccarvi la catenella che li teneva legati alla stanga. 65 appena. 66 Il passato prossimo, usato per questa e per le azioni seguenti, indica la rapidità onde all’apparire del sole succede immediatamente l’allontanarsi di Nicostrato, quasi due azioni contemporanee (uso simile a quello già notato a II 5,58). Per questo valore Letteratura italiana Einaudi 1017 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 35 36 37 38 39 col suo sparviere in mano n’è andato alle pianure aperte a vederlo volare; e io, qual voi mi vedete, sola e mal contenta nel letto mi sono rimasa; per la qual cosa ho più volte avuta voglia di far ciò che io ho ora fatto, né altra cagione m’ha di ciò ritenuta se non l’aspettar di farlo in presenzia d’uomini che giusti giudici sieno alla mia querela67, sì come io credo che voi sarete». I gentili uomini che l’udivano, credendo non altramente esser fatta la sua affezione a Nicostrato che sonasser le parole68, ridendo ciascuno e verso Nicostrato rivolti che turbato era cominciarono a dire: «Deh! come la donna ha ben fatto a vendicare la sua ingiuria con la morte dello sparviere! » e con diversi motti sopra così fatta materia, essendosi già la donna in camera ritornata, in riso rivolsero il cruccio di Nicostrato. Pirro, veduto questo, seco medesimo disse: « Alti principii ha dati la donna a’ miei felici amori; faccia Iddio che ella perseveri ». Ucciso adunque da Lidia lo sparviere, non trapassar molti giorni che, essendo ella nella sua camera insieme con Nicostrato, faccendogli carezze, con lui cominciò a cianciare69, ed egli per sollazzo alquanto tiratala per li capelli, le diè cagione di mandare ad effetto la seconda cosa a lei domandata da Pirro; e prestamente lui per un picciolo lucignoletto70 preso della sua barba e ridendo, sì forte il tirò che tutto del mento gliele divelse. Di che iterativo e perfettivo del passato prossimo cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 299 sgg. 67 della mia protesta, rimostranza. Questo pretesto di Lidia ricorda il racconto dei Gesta Romanorum (LXXXIV) già citato a proposito della V 9,1 n. 68 non essere diverso il suo affetto per Nicostrato da quello che manifestavano le sue parole ... 69 scherzare, celiare: VIII 10,27: «incominciò a cianciare e a ruzzar con lui». 70 ricciolo, ciuffo, ciocchetta: e cfr. III 3,54 n. Letteratura italiana Einaudi 1018 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII ramaricandosi Nicostrato, ella disse: «Or che avesti, che fai cotal viso per ciò che io t’ho tratti forse sei peli della barba? Tu non sentivi quel ch’io, quando tu mi tiravi te40 steso71 i capelli». E così d’una parola in una altra continuando il lor sollazzo, la donna cautamente guardò72 la ciocca della barba che tratta gli avea, e il dì medesimo la mandò al suo caro amante. 41 Della terza cosa entrò la donna in più pensiero; ma pur, sì come quella che era d’alto ingegno e Amor la faceva vie più, s’ebbe pensato73 che modo tener dovesse a 42 darle compimento. E avendo Nicostrato due fanciulli datigli da’ padri loro acciò che in casa sua, per ciò che gentili uomini erano, apparassono alcun costume74, dei quali, quando Nicostrato mangiava, l’uno gli tagliava innanzi 75 e l’altro gli dava bere, fattigli chiamare amenduni, fece lor vedere che la bocca putiva loro76 e ammaestrogli che quando a Nicostrato servissono, tirassono il capo indietro il più che potessono, né questo mai dicessero a persona. I 43 giovanetti, credendole, cominciarono a tenere quella maniera che la donna aveva lor mostrata. Per che ella una volta domandò Nicostrato: «Se’ ti tu accorto77 di ciò che questi fanciulli fanno quando ti servono?» 44 Disse Nicostrato: « Mai78 sì, anzi gli ho io voluti79 domandare perché il facciano». 71 testé, poco fa: forma allungata, non insolita nel B.: per es. IX 4,13 n. 72 segretamente custodi. riuscì a pensare. 74 si educassero, imparassero le abitudini signorili, la cortesia: cfr. VII 7,5. 75 gli tagliava i cibi sul piatto: cioè uno faceva da scalco e l’altro da coppiere. 76 diede loro ad intendere, fece loro credere che puzzava loro la bocca, l’alito. 77 Ti sei avveduto: Inf., XII 80 sg.: «Siete voi accorti | Che quel di tetro move ciò ch’el tocca?» 78 Per questo rafforzativo cfr. III 3,36 n. 79 sono stato sul punto di: IV 8,18 n. 73 Letteratura italiana Einaudi 1019 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 45 46 47 48 49 50 51 A cui la donna disse: «Non fare80, ché io il ti so dire io81, e holti82 buona pezza taciuto per non fartene noia; ma ora che io m’accorgo che altri comincia ad avvedersene, non è più da celarloti. Questo non ti avviene per altro, se non che la bocca ti pute fieramente, e non so qual si sia la cagione, per ciò che ciò non soleva essere; e questa è bruttissima cosa, avendo tu ad usare con gentili uomini; e per ciò si vorrebbe veder modo di curarla». Disse allora Nicostrato: «Che potrebbe ciò essere? Avrei io in bocca dente niun guasto?» A cui Lidia disse: «Forse che sì»; e menatolo ad una finestra, gli fece aprire la bocca, e poscia che ella ebbe d’una patte e d’altra riguardato, disse: «O Nicostrato, e come il puoi tu tanto aver patito? Tu n’hai uno da questa parte, il quale, per quel che mi paia, non solamente è magagnato, ma egli è tutto fracido83, e fermamente, se tu il terrai guari in bocca84, egli guasterà quegli che son da lato; per che io ti consiglierei che tu nel cacciassi fuori, prima che l’opera85 andasse più innanzi». Disse allora Nicostrato: «Da poi che egli ti pare, e86 egli mi piace; mandisi senza più indugio per un maestro87 il qual mel tragga». Al quale la donna disse: «Non piaccia a Dio che qui per questo venga maestro; e’ mi pare che egli stea in maniera, che senza alcun maestro io medesima tel trarrò ot80 Non farlo: Purg., XXI 131 sg.: «Frate, | Non far ...» Corrente la ripetizione del pronome personale a rendere più energica l’affermazione: cfr. VII 8,44. 82 te lo ho. 83 non solo è cariato ma è tutto guasto: anche nella Comedia, XXXII II: «fracidi denti, de’ quali il numero in molte parti si vede scemo». 84 se tu lo terrai ancora un poco in bocca. 85 la cosa, il fatto, cioè il guasto, la rovina (cfr. II 3,27 n.). 86 ecco che, allora: in ripresa, come al solito, dopo causale: I 1,39 n. 87 medico: IV 10,4 n. 81 Letteratura italiana Einaudi 1020 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 52 53 54 55 56 57 timamente. E d’altra parte questi maestri son sì crudeli a far questi servigi, che il cuore nol mi patirebbe per niuna maniera di vederti o di sentirti tra le mani a niuno; e per ciò del tutto io voglio fare io medesima; ché almeno, se egli ti dorrà troppo, ti lascerò io incontanente, quello che88 il maestro non farebbe». Fattisi adunque venire i ferri da tal servigio e mandato fuori della camera ogni persona, solamente seco la Lusca ritenne; e dentro serratesi, fece distender Nicostrato sopra un desco89, e messegli le tanaglie in bocca, e preso uno de’ denti suoi, quantunque egli forte per dolor gridasse, tenuto fermamente dall’una, fu dall’altra per viva forza un dente tirato fuori90; e quel serbatosi, e presone un altro il quale sconciamente91 magagnato Lidia aveva in mano, a lui doloroso92 e quasi mezzo morto il mostrarono, dicendo: «Vedi quello che tu hai tenuto in bocca già è cotanto93». Egli credendoselo, quantunque gravissima pena sostenuta avesse e molto se ne ramaricasse, pur, poi che fuor n’era, gli parve esser guarito; e con una cosa e con altra riconfortato, essendo la pena alleviata, s’uscì della camera. La donna, preso il dente, tantosto94 al suo amante il mandò; il quale già certo del suo amore, sé ad ogni suo piacere offerse apparecchiato. La donna, disiderosa di farlo più sicuro, e parendole ancora ogn’ora mille che 88 il che, ciò che. un tavolo. «Or t’avess’ella cavato l’ochio!» (M.) Da ricordare che l’estrazione di un dente può alludere alla castrazione (cfr. J. E. CIRLOT, A Dictionary of Symbols, pp. 313 sgg.). 91 terribilmente, orrendamente: II 3,12 n.; Sacchetti, CXXXV: «nelle gambe sconciamente inferriato». 92 dolente: II 5,55 n. 93 da tanto tempo. 94 subito. 89 90 Letteratura italiana Einaudi 1021 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII con lui fosse95, volendo quello che profferto gli avea attenergli96, fatto sembiante d’essere inferma ed essendo un dì appresso mangiare da Nicostrato visitata, non veggendo con lui altri che Pirro, il pregò per alleggiamento della97 sua noia, che aiutar la dovessero ad andare infino nel giardino. Per che Nicostrato dall’un de’ lati e Pirro dall’altro 58 presala, nel giardin la portarono e in un pratello a piè d’un bel pero la posarono; dove stati alquanto sedendosi, disse la donna, che già aveva fatto informar Pirro di ciò che avesse a fare: «Pirro, io ho gran disiderio d’aver di quelle pere, e però montavi98 suso e gittane giù alquante». Pirro, prestamente salitovi, cominciò a gittar giù del59 le pere; e mentre le gittava cominciò a dire: «Eh, messere, che è ciò che voi fate? E voi, madonna, come non vi vergognate di sofferirlo99 in mia presenza? Credete voi che io sia cieco? Voi eravate pur testé così forte malata; come siete voi così tosto guerita che voi facciate tai cose? Le quali se pur far volete, voi avete tante belle camere; perché non in alcuna di quelle a far queste cose ve n’andate? E’ sarà più onesto100 che farlo in mia presenza». La donna, rivolta al marito, disse: «Che dice Pirro? 60 Farnetica egli?» 95 96 97 98 99 100 e ogni ora sembrandole mille prima di essere con lui. mantenergli quello che gli aveva promesso. per alleviare la: Proemio, 7 n. Riferito all’albero, come il seguente s a l i t o v i. di sopportare, di subire quello che vi fa vostro marito. più educato, più conveniente. Letteratura italiana Einaudi 1022 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 61 62 63 64 65 66 67 Disse allora Pirro: «Non farnetico no, madonna; non credete voi che i veggia?» Nicostrato si maravigliava forte, e disse: «Pirro, veramente io credo che tu sogni.» Al quale Pirro rispose: «Signor mio, non sogno né mica101, né voi anche non sognate; anzi vi dimenate ben sì che, se così si dimenasse questo pero, egli non ce ne rimarrebbe su niuna102». Disse la donna allora: «Che può questo essere? Potrebbe egli esser vero che gli paresse ver ciò ch’e’dice? Se103 Dio mi salvi, se io fossi sana come io fu’ già, che io vi sarrei104 suso, per vedere che maraviglie sien queste che costui dice che vede». Pirro d’in sul pero pur diceva, e continuava queste novelle105; al qual Nicostrato disse: «Scendi giù » ; ed egli scese; a cui egli disse: « Che di’ tu che vedi?» Disse Pirro: «Io credo che voi m’abbiate per smemorato106 o per trasognato; vedeva voi addosso alla donna vostra, poi pur dir mel conviene107; e poi discendendo io vi vidi levare e porvi così dove voi siete a sedere». «Fermamente,» disse Nicostrato «eri tu in questo 101 per nulla: Petrarca, CXIII 7 sg.: «E perché mitigato nonché spento, | Né mica trovo il mio ardente desio»; Volg. Vita S. Baríaam e Giosafatte cit., p. 7: «Me non vi menerai tu, ché io non ti ubbidirò né mica». 102 nessuna pera: facile ellissi. 103 Deprecativo. 104 salirei: contrazione analoga a dorrei per dolerci. 105 discorsi. 106 scemo, pazzo: cfr. VII 8,32: e qui 67. 107 poiché devo pur dirlo. Letteratura italiana Einaudi 1023 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 68 69 70 71 smemorato, ché noi non ci siamo, poi che in sul pero salisti, punto mossi, se non come tu vedi. Al qual Pirro disse: «Perché ne facciam noi quistione? Io vi pur vidi108; e se io vi vidi, io vi vidi in sul vostro109». Nicostrato più ogn’ora si maravigliava, tanto che egli disse: «Ben vo’ vedere se questo pero è incantato, e che110 chi v’è su vegga le maraviglie » ; e montovvi su. Sopra il quale come egli fu, la donna insieme con Pirro s’incominciarono a sollazzare111; il che Nicostrato veggendo cominciò a gridare: «Ahi rea femina, che è quel che tu fai112? E tu Pirro, di cui io più mi fidava? » e così dicendo cominciò a scendere del pero. La donna e Pirro dicevano: «Noi ci seggiamo113 » e lui veggendo discendere, a seder si tornarono in quella guisa che lasciati gli avea. Come Nicostrato fu giù e vide costoro dove lasciati gli avea, così lor cominciò a dir villania. Al quale Pirro disse: «Nicostrato, ora veramente confesso io che, come voi diciavate114 davanti, che115 io falsamente vedessi mentre fui sopra ’l pero; né ad altro il conosco se non a questo, che io veggio e so che voi falsamente avete veduto. E che io dica il vero, niun’altra cosa 108 Io vi vidi pure: iperbato corrente. «Val come una scherzosa, o licenziosa, concessione: è vero che io vi ho visto, ma d’altra parte voi eravate su ciò che v’appartiene» (Marti). 110 se è vero che: facile ellissi. 111 Riprova di quanto il B. affermerà nel Corbaccio, 230: «E, che maggior vitupero è, veggenti i mariti, ne sono infinite che presummono fare i lor piaceri». 112 Esclamazione e minaccia che già risuonavano nelle novelle precedenti (per es. VII 8,18 e 35 n.; VII 7,40 ecc.). 113 stiamo qui seduti. 114 Per queste forme dell’imperfetto cfr. II 5,23 n. 115 Solita ripetizione della c h e dopo incidentale. 109 Letteratura italiana Einaudi 1024 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 72 73 74 75 76 vel mostri, se non l’aver riguardo e pensare a che ora116 la vostra donna, la quale è onestissima e più savia che altra volendo di tal cosa farvi oltraggio, si recherebbe117 a farlo davanti agli occhi vostri. Di me non vo’dire, che mi lascerei prima squartare118 che io il pur pensassi, non che io il venissi a fare in vostra presenza. Per che di certo la magagna119 di questo transvedere120 dee procedere dal pero; per ciò che tutto il mondo non m’avrebbe fatto discredere121 che voi qui non foste colla donna vostra carnalmente giaciuto122, se io non udissi dire a voi che egli vi fosse paruto che io facessi quello che io so certissimamente che io non pensai, non che io facessi mai». La donna appresso, che quasi tutta turbata s’era levata in piè, cominciò a dire: «Sia con la mala ventura, se tu m’hai per sì poco sentita123, che, se io volessi attendere a queste tristezze124 che tu di’ che vedevi, io le venissi a fare dinanzi agli occhi tuoi. Sii certo di questo che qualora volontà me ne venisse, io non verrei qui, anzi mi crederrei sapere essere125 in una delle nostre camere, in guisa e in maniera che gran cosa mi parrebbe che tu il risapessi giammai». Nicostrato, al qual vero parea ciò che dicea l’uno e l’altro che essi quivi dinanzi a lui mai a tale atto non si dovessero esser condotti, lasciate stare le parole e le riprensioni di tal maniera, cominciò a ragionar della no- 116 quando mai, a quale scopo: VI 5,14 n. si indurrebbe. 118 Protesta identica a quella del Conte d’Anguersa (II 8,20 n.). 119 difetto, colpa: e cfr. più sopra 49 n. 120 travedere: forma latineggiante. 121 non credere: cioè non m’avrebbe fatto credere. 122 Cfr. III 2,16. 123 se tu mi stimi tanto poco accorta, giudiziosa, intelligente: VI 10,2 n.; Rime, X 4. 124 disonestà: V 10,1 n. 125 mi crederei capace di stare. 117 Letteratura italiana Einaudi 1025 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 77 78 79 80 vità126del fatto e del miracolo della vista che così si cambiava a chi su vi montava. Ma la donna, che della oppinione che Nicostrato mostrava d’avere avuta di lei si mostrava turbata, disse: «Veramente questo pero non ne farà mai più niuna, né a me né ad altra donna, di queste vergogne, se io potrò; e perciò, Pirro, corri e va e reca una scure, e ad una ora te e me vendica tagliandolo, come che molto meglio sarebbe a dar con essa in capo a Nicostrato, il quale senza considerazione alcuna così tosto si lasciò abbagliar gli occhi dello ‘ntelletto; ché, quantunque a quegli che tu127 hai in testa paresse ciò che tu di, per niuna cosa dovevi nel giudicio della tua mente comprendere o consentir128 che ciò fosse». Pirro prestissimo andò per la scure e tagliò il pero; il quale come la donna vide caduto, disse verso Nicostrato: «Poscia che io veggio abbattuto il nimico della mia onestà, la mia ira è ita via » ; e a Nicostrato, che di ciò la pregava, benignamente perdonò, imponendogli che più non gli avvenisse di presummere, di colei che più che sé l’amava129, una così fatta cosa giammai. Così il misero marito schernito con lei insieme e col suo amante nel palagio se ne tornarono130, nel quale poi molte volte Pirro di Lidia, ed ella di lui, con più agio presero piacere e di letto. Dio ce ne dea a noi131. 126 singolarità, stranezza. Lidia si rivolge ora al marito. immaginare o ammettere: I 5,11 n. 129 La consueta affermazione iperbolica (IV 6,22 n.) ha qui suono grottesco. 130 Solita concordanza a senso per cui cfr. II 9,1n. 131 Conclusione su un’invocazione analoga a quelle che chiudono varie novelle della III giornata (3, 6, 7, 10). 127 128 Letteratura italiana Einaudi 1026 NOVELLA DECIMA 1 Due sanesi amano una donna comare dell’uno; muore il, compare e torna al compagno secondo la promessa fattagli, e raccontagli come di là si dimori1. 2 Restava solamente al re il dover novellare, il quale, poi 1 La novella ha certo relazione con quei numerosi racconti di ammonimenti fatti da anime di trapassati, che punteggiavano come esempi edificanti le prediche, e di cui resta ampia testimonianza nei prontuari del tempo. Anzi sono citati episodi di amici che, come i protagonisti di questa novella, si erano promessi reciprocamente un intervento dall’al di là: per es. nel Dialogus miraculorum di Cesario di Heisterbach (I 33: racconta di due giovani negromanti riferendo dal Liber Visionum Caraevallis; e cfr. II 15 e III 24), nello Speculum morale di Vincenzo di Beauvais (II 1,13), nella Summa praedicantium del Bromyard (F, III, 16), nel Cronicorum liber di Elinando (Bibl. Patr. Cistercensium, VII, p. 163), nello Specchio di vera penitenza del Passavanti (III 2 e IV 2) che derivò dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (163). Si aggiunga il CL del Liber exemplorum ad usum praedicantium saeculo XII, ed. A. G. Little, Aberdeen 1908. Il Di Francia (Alcune novelle, 1907), fissò come fonte diretta del B. la pia narrazione di Elinando, ma senza ragioni valide: cfr. anche A. MONTEVERDI, Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli, Milano 1954, pp. 186 sgg., 206 sgg. per vari racconti simili diffusi nella letteratura medievale; e per la popolarità del tema nella novellistica cfr. Aarne, 470; Thompson, E 360 sgg., M 252; Rotunda, E 374. È anche opportuno ricordare che nella VII 3 già apparivano maliziosamente burlati gli scrupoli che il comparatico metteva nell’animo di una donna amata, e proprio, come qui, in Siena; che nella V 8 già campeggiavano una visione e un ammonimento d’oltre tomba; e che infine il B. nel Corbaccio parla di questi interventi con parole lontane da ogni incredulità (per es. tra le altre volte 454: «per alcuni accidenti n’è conceduto da Dio il venir di qua alcuna volta, e massimamente o per rammentare noi medesimi a coloro a’ quali dee di noi calere, o per simile caso come è questo per lo quale io sono a te venuto»). Del resto nella novella si riflette grottescamente in qualche modo la situazione centrale del Teseida: due amici innamorati della stessa donna e dei quali muore quello che aveva ottenuto l’amata. Letteratura italiana Einaudi 1027 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 3 4 5 6 7 che vide le donne racchetate, che del pero tagliato che colpa non avea si dolevano2, incominciò: – Manifestissima cosa è che ogni giusto re primo servatore dee essere delle leggi fatte da lui, e se altro ne fa3, servo degno di punizione, e non re, si dee giudicare; nel quale peccato e riprensione a me, che vostro re sono, quasi costretto cader con viene. Egli è il vero che io ieri la legge diedi a’ nostri ragionamenti fatti oggi, con intenzione di non voler questo dì il mio privilegio usare; ma soggiacendo4 con voi insieme a quella, di quello ragionare che voi tutti ragionato avete. Ma egli non solamente è stato raccontato quello che io imaginato avea di raccontare ma sonsi sopra quello5 tante altre cose e molto più belle dette, che io per me, quantunque la memoria ricerchi, rammentar non mi posso né conoscere che io intorno a sì fatta materia dir potessi cosa che alle dette s’appareggiasse6. E per ciò, dovendo peccare nella7 legge da me medesimo fatta, sì come degno di punizione, infino ad ora ad ogni ammenda che comandata mi fia mi proffero8 apparecchiato, e al mio privilegio usitato mi tornerò. E dico che la novella detta da Elissa del compare e della comare9, e appresso la bessaggine10 de’ sanesi, hanno tanta forza, carissime donne, che, lasciando stare le beffe agli sciocchi mariti fatte dalle lor savie mogli, mi 2 Non rari questi scherzosi sentimenti di compassione nelle donne (VII 8,2, VIII 7,2 ecc.). 3 e se altrimenti agisce, si contiene diversamente. 4 sottomettendomi. 5 oltre a ciò che io pensavo di raccontarvi. 6 fosse pari. 7 contro la, alla latina. 8 mi dichiaro 9 Cioè la VII 3, che alla fine (30) è ancora citata esplicitamente, ambientata anch’essa a Siena e con patinature espressivistiche municipali. 10 bestiaggine, balordaggine, scempiaggine, buaggine: non si citano altri esempi, ma cfr. bescio usato per un senese nella VII 3,29 n. Letteratura italiana Einaudi 1028 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII tirano a dovervi contare11 una novelletta di loro, la quale, ancora che in sé abbia assai di quello che creder non si dee12, nondimeno sarà in parte piacevole ad ascoltare. Furono adunque in Siena due giovani popolari, de’ 8 quali l’uno ebbe nome Tingoccio Mini e l’altro fu chiamato Meuccio di Tura13, e abitavano in porta Salaia14, e quasi mai non usavano se non l’un con l’altro, e per quello che paresse s’amavan molto15. E andando, come 9 gli uomini vanno, alle chiese e alle prediche, più volte udito avevano della gloria e della miseria16 che all’anime di coloro che morivano era, secondo li lor meriti, conceduta nell’altro mondo. Delle quali cose disiderando di saper certa novella17, né trovando il modo, insieme18 si promisero che qual prima di lor morisse, a colui che vivo fosse rimaso, se potesse, ritornerebbe, e direbbegli novelle di quello che egli desiderava; e questo fermarono con giuramento. Avendosi adunque questa promession fatta, e insie10 me continuamente usando, come è detto, avvenne che Tingoccio divenne compare d’uno Ambruogio Anselmi- 11 Cfr. II 2,3 n. Cioè: dell’inverosimile. 13 I Mini e i Tura furono famiglie popolane senesi: cfr. passim, Cronache senesi, in RR.II.SS 2, XV, XIX, XX, XXIII(assai noto è il cronista Angiolo di Tura). Non si ha notizia di un Tingoccio Mini (ma cfr. VIII 8,4 n.). Meuccio potrebbe essere uno dei due Meucci, l’uno barlettaio e l’altro pizzicagnolo, a quel tempo (E. SANTINI, Il B. novellatore d’amore, in «Italia», III, 1915). 14 Si trovava alla metà circa dell’attuale Via di Fontebranda: ancor oggi la località si chiama Arco di Porta Salaria. 15 Situazione simile a quella dei due Guiglielmi della IV 9. 16 infelicità: Inf., XXX 61. 17 sicura notizia: Par., X III: «Là giù ne gola di saper novella». 18 reciprocamente, scambievolmente: II 7,42: «più colpi ... si diedono insieme». 12 Letteratura italiana Einaudi 1029 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII ni19, che stava in Camporeggi20, il qual d’una sua donna chiamata monna Mita aveva avuto un figliuolo. 11 Il qual Tingoccio, insieme con Meuccio visitando alcuna volta questa sua comare, la quale era una bellissima e vaga donna, non ostante il comparatico, s’innamorò di lei; e Meuccio similmente, piacendogli ella molto e molto udendola commendare a Tingoccio, se ne innamorò. 12 E di questo amore l’un si guardava dall’altro21, ma non per una medesima cagione: Tingoccio si guardava di scoprirlo a Meuccio per la cattività22 che a lui medesimo pareva fare d’amare la comare, e sarebbesi vergognato che alcun l’avesse saputo23; Meuccio non se ne guardava per questo. ma perché già avveduto s’era che ella piace13 va a Tingoccio, laonde egli diceva: «Se io questo gli discuopro, egli prenderà gelosia di me; e potendole ad ogni suo piacere parlare, sì come compare, in ciò che egli potrà le mi metterà in odio, e così mai cosa che mi piaccia di lei io non avrò ». 14 Ora, amando questi due giovani, come detto è, avvenne che Tingoccio, al quale era più destro24 il potere alla donna aprire ogni suo disiderio, tanto seppe fare, e con atti e con parole, che egli ebbe di lei il piacere suo; di che Meuccio s’accorse bene; e quantunque molto gli dispiacesse, pure, sperando di dovere alcuna volta pervenire al fine del suo disidero, acciò che Tingoccio non avesse materia né cagione di guastargli o d’impedirgli alcun suo fatto, faceva pur vista25 di non avvedersene. 19 Altra nota famiglia popolana senese: ma anche di Ambrogio non si ha notizia. M i t a è accorciatura di Margherita. 20 Nota contrada senese, 21 Cioè se lo tenevano segreto reciprocamente: cfr. II 8,49 n. 22 disonestà, malvagità (I 8,7 n.; V 10,51 n.); alludendo al carattere quasi incestuoso di un tale amore (cfr. VII 3,16 n.). 23 Piuccheperfetto per imperfetto a indicare uno stato anteriore: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 314 sgg. 24 più facile cioè aveva migliore opportunità di: IV 5,8 n. 25 continuava a fingere. Letteratura italiana Einaudi 1030 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 15 16 17 18 19 20 21 Così amando i due compagni, l’uno più felicemente che l’altro, avvenne che, trovando Tingoccio nelle possessioni della comare il terren dolce, tanto vangò e tanto lavorò26 che una infermità ne gli sopravenne, la quale dopo alquanti dì sì l’aggravò forte che, non potendola sostenere, trapassò di questa vita. E trapassato, il terzo dì appresso (ché forse prima non aveva potuto) se ne venne, secondo la promession fatta, una notte nella camera di Meuccio, e lui, il qual forte dormiva, chiamò. Meuccio destatosi disse: «Qual se’ tu27?» A cui egli rispose: «Io son Tingoccio, il qual, secondo la promession che io ti feci, sono a te tornato a dirti novelle dell’altro mondo». Alquanto si spaventò Meuccio veggendolo, ma pure rassicurato disse: «Tu sia il ben venuto, fratel mio » ; e poi il domandò se egli era perduto28. Al qual Tingoccio rispose: «Perdute son le cose 29 che non si ritruovano; e come sarei io in mei chi30, se io fossi perduto?» «Deh,» disse Meuccio «io non dico così ; ma io ti 26 Il solito linguaggio sessuale figurato sui lavori campestri per cui II 10,32 n.; III 1,18 n. ecc. 27 Chi sei tu? meglio di: Come sei tu? cioè: sei tu vivo o morto (Pézard, che rimanda a Inf., I 66). 28 dannato: Inf., III 3; «perduta gente». Ma nella risposta Tingoccio tesserà un bisticcio su questo verbo con una paradossale tautologia, che ricorda gli esempi buffoneschi di Frate Cipolla (VI 10) e di Maso del Saggio (VIII 3). 29 Anche altrove il B.: «le cose perdute non si ritruovan mai»: Esposizioni, XV 24. 30 proprio qui, qui in mezzo. Chi è idiotismo senese per qui; mei ha soltanto valore enfatico, come già sulle labbra di Frate Cipolla (VI 10,42 n.). Anche queste sono note dello spirito caricaturale col quale i Senesi sono presentati nel D. (VII 3,4 n.), con impegno anche linguisticamente espressivistico (cfr. Introduzione a questa edizione, pp. XXI sgg.). Letteratura italiana Einaudi 1031 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 22 23 24 25 domando se tu se’ tra l’anime dannate nel fuoco pennace31 di Ninferno». A cui Tingoccio rispose: «Costetto32 no, ma io son bene, per li peccati da me commessi, in gravissime pene e angosciose molto». Domandò allora Meuccio particularmente Tingoccio che pene si dessero di là per ciascun de’ peccati che di qua si commettono; e Tingoccio gliele disse tutte. Poi gli domandò Meuccio s’egli avesse di qua per lui a fare alcuna cosa. A cui Tingoccio rispose di sì, e ciò era che egli facesse per lui dir delle messe e delle orazioni33 e fare delle limosine per ciò che queste cose molto giovavano a quei di là34, a cui Meuccio disse di farlo volentieri. E partendosi Tingoccio da lui, Meuccio si ricordò della comare, e sollevato alquanto il capo disse: «Ben che mi ricorda35, o Tingoccio: della comare, con la quale tu giacevi quando eri di qua, che pena t’è di là data36?» A cui Tingoccio rispose: «Fratel mio, come io giunsi di là, sì fu uno, il qual pareva che tutti i miei peccati sapesse a mente37, il quale mi comandò che io andassi in quel luogo nel quale io purgo in grandissima pena le colpe mie, dove io trovai molti compagni a quella medesima pena condennati che io38; e stando io tra loro, e ricordandomi di ciò che già fatto avea con la comare e 31 che dà pena, tormentoso. Solita frase stereotipata: III 3,32 n. Cotesto: altro idiotismo senese: IX 4,15: «costette parole». 33 «Nota che Messer Giovanni ristora i frati dicendo delle messe quel che non credeva» (M.): ma il suo testamento mostra il contrario. 34 Purg., III 145: «Ché qui per quei di là molto s’avanza». 35 Bene, A proposito, Ora che mi ricordo: e per l’uso di ricordare impersonale cfr. II 7,107 n. 36 che pena ti è data nell’al di là del peccato che commettevi giacendoti con la comare quand’eri in questo mondo? 37 Riflesso forse del Minosse dantesco: Inf., V 9 sg.: «E quel conoscitor de le peccata | Vede qual loco d’inferno è da essa». 38 alla quale ero condannato io. 32 Letteratura italiana Einaudi 1032 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 26 27 28 29 30 aspettando per quello troppo maggior pena che quella che data m’era, quantunque io fossi in un gran fuoco e molto ardente, tutto di paura tremava. Il che sentendo39 un che m’era dal lato, mi disse: «Che hai tu più che gli altri che qui sono, che triemi stando nel fuoco? » « Oh, » diss’io « amico mio, io ho gran paura del giudicio che io aspetto d’un gran peccato che io feci già ». Quegli allora mi domandò che peccato quel fosse. A cui io dissi: « Il peccato fu cotale, che io mi giaceva con una mia comare, e giacquivi tanto che io me ne scorticai40 ». Ed egli allora, faccendosi beffe di ciò, mi disse: « Va, sciocco, non dubitare; ché di qua non si tiene ragione alcuna delle comari41 »; il che io udendo tutto mi rassicurai. E detto questo, appressandosi il giorno, disse: «Meuccio, fatti con Dio42, ché io non posso più esser con teco » ; e subitamente andò via. Meuccio, avendo udito che di là niuna ragione si teneva delle comari, cominciò a far beffe della sua sciocchezza, per ciò che già parecchie n’avea risparmiate; per che, lasciata andar la sua ignoranza, in ciò per innanzi divenne savio. Le quali cose se frate Rinaldo avesse saputo, non gli sarebbe stato bisogno d’andare silogizzando43 quando convertì a’suoi piaceri la sua buona comare. – 39 Della quale cosa accorgendosi. In senso erotico alludendo alle conseguenze del gran lavoro di cui al 15: proprio al XII 77 del Teseida («... nel fonte amoroso, ove raro i Buon pescator con util si diventa») il B. chiosa: «perciò che per troppo pescare nell’amoroso fonte sono di tali che se ne scorticano». 41 non si tiene conto alcuno delle comari. «E però dice il proverbio: chi la fa alla comare non fa né ben né male» (M.). 42 Modo di prender o dare commiato, quasi sta, rimani con Dio: VII 1,32 n.; VIII 8,15. 43 ragionando, ragionando sottilmente (Par., X 138): allusione alle speciose argomentazioni di frate Rinaldo nella VII 3,17 sgg. E per l’ironizzazione di questo linguaggio cfr. Introduzione a questa edizione, pp. XXI e XXIX; e V. BRANCA, B. e le tradizioni letterarie, in Il B. nelle culture e letterature nazionali, Firenze 1978. 40 Letteratura italiana Einaudi 1033 CONCLUSIONE 1 2 3 Zeffiro era levato per lo sole che al ponente s’avvicinava1, quando il re, finita la sua novella né alcuno altro restandogli a dire2, levatasi la corona di testa, sopra il capo la pose alla Lauretta, dicendo: «Madonna, io vi corono di voi medesima3 reina della nostra brigata; quello omai che crederete che piacer sia di tutti e consolazione, sì come donna4, comanderete » ; e riposesi a sedere. La Lauretta, divenuta reina, si fece chiamare il siniscalco, al quale impose che ordinasse che nella piacevole valle alquanto a migliore ora5 che l’usato si mettesser le tavole, acciò che poi adagio6 si potessero al palagio tornare; e appresso ciò che a fare avesse, mentre il suo reggimento durasse, gli divisò7. Quindi, rivolta alla compagnia, disse: «Dioneo volle ieri che oggi si ragionasse delle beffe che le donne fanno a’mariti; e, se non fosse ch’io non voglio mostrare d’essere di schiatta di can botolo8 che incontanente si vuol vendicare, io direi che domane si dovesse ragionare del1 Cioè si era levato un venticello poiché ci si avvicinava al tramonto. 2 non rimanendo ivi alcun altro che dovesse parlare, cioè non restando da novellare ad alcun altro. 3 Cioè del lauro: gioco di parole amato e ripetuto, com’è noto, dal Petrarca, e che potrebbe confermare l’identità allusiva proposta per questa novellatrice (Intr., 51 n.). 4 signora: termine usato correntemente, per il suo aristocratico valore, a indicare le regine di queste brigate cortesi: II 8,5 n.; V 7,10 n. 5 più presto: VI concl., 33. 6 agiatamente, con agio, o lentamente come potrebbe suggerire l’espressione seguente «con lento passo» (7). 7 gli ordinò, gli espose. 8 È un piccolo cane, per natura vile e ringhioso: Purg., XIV 46 sg.: «Botoli trova poi ... | Ringhiosi più che non chiede lor possa»: e cfr. anche VI 3,3 n. Letteratura italiana Einaudi 1034 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 4 5 6 7 le beffe che gli uomini fanno alle lor mogli. Ma, lasciando star questo, dico che ciascun pensi di dire di quelle beffe che tutto il giorno9, o donna ad uomo, o uomo a donna, o l’uno uomo all’altro si fanno; e credo che in questo sarà non men di piacevol ragionare, che stato sia questo giorno » ; e così detto, levatasi in piè, per infino ad ora di cena licenziò la brigata. Levaronsi adunque le donne e gli uomini parimente, de’quali alcuni scalzi per la chiara acqua cominciarono ad andare, e altri tra’belli e diritti alberi sopra il verde prato s’andavano diportando10. Dioneo e la Fiammetta gran pezza cantarono insieme d’Arcita e di Palemone11; e così, vari e diversi diletti pigliando, il tempo infino all’ora della cena con grandissimo piacer trapassarono12. La qual venuta e lungo al pelaghetto13 a tavola postisi, quivi al canto di mille uccelli, rinfrescati sempre da un’aura soave che da quelle montagnette dattorno nasceva, senza alcuna mosca, riposatamente e con letizia cenarono. E levate le tavole, poi che alquanto la piacevol valle ebber circuita14, essendo ancora il sole alto a mezzo vespro, sì come alla loro reina piacque, in verso la loro usata dimora con lento passo ripresero il cammino; e mot9 sempre, di continuo. a passeggio sollazzando. Come nella V intr., 2: «Fiammetta ... con la sua compagnia ... diportando s’andò». 11 «Qui si comprende che il Teseo fu prima fatto che questo libro Decameron» (M.). L’allusione al Teseida (1340-41?) attraverso il nome dei due protagonisti è inequivocabile, perché tali personaggi, ignoti alle fonti del poemetto, sono creazione originale del B. Si noti del resto che il B. nella IV intr., 35-36, si presentava come autore già di «mille versi»; e che la novella VII 10 riflette proprio grottescamente la situazione centrale del Teseida (cfr. 1 n.). E cfr. VI intr. 3 e n. 12 passarono, trascorsero: Intr., 3 n. 13 Cioè il laghetto di cui qui all’intr., 7. 14 ebbero percorso, girato, come al principio della giornata: «intorniando quella [valle]» (VII intr., 5 n.): Par., XII 86. 10 Letteratura italiana Einaudi 1035 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 8 9 10 11 teggiando e cianciando15 di ben mille cose, così di quelle che il dì erano state ragionate16 come d’altre, al bel palagio assai vicino di notte17 pervennero. Dove con freschissimi vini e con confetti18 la fatica del picciol cammin cacciata via, intorno della bella fontana di presente19 furono in sul danzare20, quando al suono della cornamusa di Tindaro21 e quando d’altri suoni carolando22. Ma alla fine la reina comandò a Filomena che dicesse una canzone, la quale così incominciò: Deh lassa la mia vita! Sarà giammai ch’io possa ritornare donde mi tolse noiosa partita23? Certo io non so, tanto è ‘ disio focoso che io porto nel petto, di ritrovarmi24 ov’io lassa già fui. O caro bene, o solo mio riposo, che ‘l mio cuor tien distretto25, deh dilmi tu, ché domandarne altrui non oso, né so cui, 15 discorrendo scherzosamente, scherzando: come altra volta, III intr., 3: «e cianciando e motteggiando e ridendo con la sua brigata»: e cfr. VII 9,38. 16 Corrente l’uso transitivo di ragionare (Intr., 52 n.). 17 sull’annottare. 18 Quasi una formula: cfr. per es. III intr., 4. 19 subito, tosto: I 1,77 n. 20 si misero a danzare: VI concl., 39 n. 21 E l’unica volta che uno dei servi compaia in queste azioni aristocratiche. 22 intrecciando carote su altre melodie di altri strumenti. 23 in quello stato dal quale mi allontanò una partenza dolorosa (IV 6,30 n.). 24 non so ... se io potrò ancora dimorare. 25 Amorosa Visione, XXIII 64, B: «Sola mia gioia, solo mio disire | Sola speranza mia, se tu ieri vai | Da me ’l cuor partirà nel tuo partire». Distretto legato: è termine della tradizione lirica di quei secoli (provenzale destrenher). Letteratura italiana Einaudi 1036 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 12 13 deh, signor mio, deh fammelo sperare sì ch’io conforti l’anima smarrita26. Io non so ben ridir27 qual fu ’l piacere28 che sì m’ha infiammata, ché io non trovo dì né notte loco29, perché l’udire e ’l sentire e ’l vedere, con forza non usata, ciascun per sé accese novo foco; nel qual tutta mi coco30, né mi può altri che tu confortare, o ritornar la virtù sbigottita31. Deh dimmi s’esser dee, e quando fia, ch’io ti trovi giammai, dov’io baciai quegli occhi che m’han morta32. Dimmel, caro mio bene, anima mia quando tu vi verrai e col dir –«Tosto » alquanto mi conforta. Sia la dimora corta 26 Linguaggio di origine stilnovistica: Vita Nuova, XXIII 21; Cino, Avegna ched elm’aggia, 6; Filostrato, IV 89 e 124, VII 52. 27 Inf., I 10: «Io non so ben ridir ...» 28 bellezza, avvenenza: anche questo vocabolo è usato spesso dal B. in senso stilnovistico (II 3,22 n.). 29 luogo ove stare, ove quietare: cioè: non trovo requie: V 4,25 n., VIII 10,11: «la piacevolezza sua aveva si la sua donna presa, che ella non trovava luogo né di né notte»; Dante, Rime, cui 15: e per il verso precedente cfr. Par., III 52. 30 ardo, mi consumo: VIII concl., 10: «Lieve mi fa lo star dov’io mi coco»; Dante, Rime, XLII 3: «d’ira mi coco». E nota le rime in -oco predilette dal B. e che ritornano anche nella ballata della VIII (V. BRANCA, Tradizione delle opere di G. B., pp. 136 sg.). 31 o rendermi le facoltà ora ottuse: Vita Nuova, XV 6: «l’alma sbigottita». 32 Dante, Rime, LXVII 49: «li. occhi micidiali»; Cino, Io son sì vago, 2: «li occhi traditor che m’hanno ucciso». Letteratura italiana Einaudi 1037 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII 14 15 16 d’ora al venire, e poi lunga allo stare33, ch’io non men curo, sì m’ha Amor ferita. Se egli avvien che io mai più ti tenga, non so s’io sarò sciocca, com’io or fui, a lasciarti partire. Io ti terrò, e che può sì n’avvenga; e della dolce bocca convien ch’io sodisfaccia al mio disire. D’altro non voglio or dire. Dunque vien tosto, vienmi ad abbracciare che ’l pur pensarlo di cantar m’invita34. Estimar fece questa canne a tutta la brigata che nuovo e piacevole amore Filomena strignesse; e per ciò che per le parole di quella pareva che ella più avanti che la vista sola n’avesse sentito35, tenendonela più felice, invidia per tali vi furono le ne fu avuta36. Ma poi che la sua canzon fu finita, ricordandosi la reina che il dì seguente era venerdì, così a tutti piacevolmente disse: – «Voi sapete, nobili donne e voi giovani, che domane è quel dì che alla passione del nostro Signore è consecrato, il qual, se ben vi ricorda, noi divotamente celebrammo, essendo reina Neifile, e a’ragionamenti dilettevoli demmo 33 sia l’indugio breve quanto alla tua venuta e lungo quanto al tuo dimorar presso di me: cioè vieni presto e fermati molto con me. 34 che anche soltanto il pensarlo mi induce a cantare. Nostalgica ballata di lontananza che può ricordare la situazione dell’Elegia di Madonna Fiammetta e i suoi lamenti e la sua dolce ardenza, Cfr. v. 36 e Dante, Rime, XCVI 3. La ballata è introdotta da una ripresa di un settenario e due endecasillabi (zYZ), cui seguono quattro stanze (AbC, AbC; cYZ), tutte legate dalle rime-ritorneho finali (YZ). 35 gustato: cfr. difatti gli ultimi cinque versi. 36 le ne fu portata invidia da alcuni che erano là presenti: e per l’ellissi t a l i v i f u r o n o cfr. IV concl., 18 n. Letteratura italiana Einaudi 1038 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VII luogo37, e il simigliante facemmo del sabato susseguente. Per che, volendo il buono essemplo datone da Neifi17 le seguitare, estimo che onesta cosa sia, che domane e l’altro dì, come i passati giorni facemmo, dal nostro dilettevole novellare ci asteniamo, quello a memoria riducendoci38 che in così fatti giorni per la salute delle nostre anime addivenne». Piacque a tutti il divoto parlare della loro reina, dalla 18 quale licenziati, essendo già buona pezza di notte passata, tutti s’andarono a riposare. 37 «Nota modum loquendi non secundum autores alios» (M.); e di fatti correntemente d a r l u o g o a vale mettersi a fare una cosa e non, come qui, astenersi dal. Ma cfr. senso analogo in VIII concl., 2: «poi che tenuti ebbe gli occhi alquanto bassi e ebbe il rossor dato luogo» (cioè cessò, scomparve); e soprattutto Volg. Vita di San Girolamo (T.): «Girolamo... diede luogo a tanta loro malizia, onde si parti subito da Roma». 38 richiamandoci alla mente: Purg., XXIII 115; Par., XXIII 51. Letteratura italiana Einaudi 1039 OTTAVA GIORNATA 1 Finisce la settima giornata del Decameron: incomincia l’Ottava, nella quale, sotto il reggimento di Lauretta, si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno1 o donna a uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno. 2 Già nella sommità de’ più alti monti apparivano la domenica mattina i raggi della surgente luce2 e, ogni ombra partitasi, manifestamente le cose si conosceano3, quando la reina levatasi con la sua compagnia, primieramente alquanto su per le rugiadose erbette andarono4, e poi in su la mezza terza5 una chiesetta lor vicina visitata, in quella il divino officio ascoltarono6; e a casa tornatisene, poi che con letizia e con festa ebber mangiato, cantarono e danzarono alquanto, e appresso, licenziati dalla reina, chi volle andare a riposarsi potè. Ma, avendo il sol già passato il cerchio di meriggio7, come alla reina piacque, al novellare usato tutti appresso la bella fontana a seder posti, per comandamento della reina così Neifile cominciò. 3 1 sempre, spesso: II 3,20 n. Aen., XII 113 sg.: «Postera vix summos spargebat lumine montis | Orta dies». 3 Cioè erano visibili. 4 La solita concordanza a senso per cui cfr. II 9,1 n. È l’unico attosociale, pubblico, dei novellatori registrato nel D. 5 Cioè tra l’alba e la terza, circa alle sette e mezzo: III intr., 3 n. 6 Menzione esplicita dell’osservanza del precetto di ascoltare Messa la domenica che non ricorreva nella III intr., otto giorni prima. 7 Purg., XXV 2-3: «Ché ’l sole aveva il cerchio di merigge | Lasciato…» 2 Letteratura italiana Einaudi 1040 NOVELLA PRIMA 1 Gulfardo prende da Guasparruolo denari in prestanza, e con la moglie di lui accordato di dover giacer con lei per quegli sì gliele dà; e poi in presenzia di lei a Guasparruol dice che a lei gli diede, ed ella dice che è il vero1. 2 – Se così ha disposto Idio che io debba alla presente giornata dare con la mia novella cominciamento, e el2 mi piace. E per ciò, amorose donne, con ciò sia cosa che molto detto si sia delle beffe fatte dalle donne agli uomini, una fattane da uno uomo ad una donna mi piace di raccontarne, non già perché io intenda in quella di biasimare ciò che l’uom fece o di dire che alla donna non fosse bene investito3, anzi per commendar l’uomo e biasimare la donna, e per mostrare che anche gli uomini sanno beffare chi crede loro, come essi da cui egli credono4 son beffati. Avvegna che, chi volesse più propriamente parlare, quello che io dir debbo non si direbbe beffa, anzi si direbbe merito; per ciò che, con ciò sia cosa che ciascuna donna debba essere onestissima5 e la sua castità come la sua vita guardare, né per al- 3 1 La somiglianza di questa novella con un fabliau, Du bouchier d’Abevile (Recueil cit., III 84), affermata da E. Du Meril (Hist. de la poésie scandinave, Paris 1839, p. 335) è quanto mai vaga e generica, come già osservarono il Bartoli (p. 33) e il Bédier (p. 449). II tema del resto è assai popolare (Thompson e Rotunda, K 1581.3) e ritorna anche nel Sercambi (XXXII) e nel Chaucer (Shipman’s Tale). 2 ecco che questo, allora questo: VII 9,50 n. Per ‘el’ cfr. II 6,44 n. 3 non stesse bene: X 10,69: «Al quale non sarebbe forse stato male investito d’essersi abbattutola una ...» 4 da chi, da colui il qua e essi credono, nel quale hanno fiducia: cfr. Musafia, p. 526. Per egli eglino, essi cfr. III 7,11 n. 5 Il soggetto l a d o n n a – come altra volta il soggetto o l’oggetto (per es. II 7,3 n., VIII 7,33 n.) – è sottinteso dal periodo precedente: ed è confermato dal seguente colei. Letteratura italiana Einaudi 1041 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 4 5 6 cuna cagione a contaminarla conducersi; (e questo non possendosi6 così appieno tuttavia, come si converrebbe, per la fragilità nostra); affermo colei esser degna del fuoco la quale a ciò per prezzo si conduce7; dove chi per amore, conoscendo le sue forze grandissime, perviene 8, da giudice non troppo rigido merita perdono, come, pochi dì son passati, ne mostrò Filostrato essere stato in madonna Filippa observato in Prato9. Fu adunque già in Melano10 un tedesco al soldo11, il cui nome fu Gulfardo12, pro’ della persona13 e assai leale a coloro ne’ cui servigi si mettea, il che rade volte suole de’ tedeschi avvenire14; e per ciò che egli era nelle prestanze de’ denari che fatte gli erano lealissimo renditore, assai mercatanti avrebbe trovati che per piccolo utile15 ogni quantità di denari gli avrebber prestata. Pose costui, in Melan dimorando, l’amor suo in una donna assai bella, chiamata madonna Ambruogia16, moglie d’un ricco mercatante, che aveva nome Guasparruol Cagastraccio17, il quale era assai suo conoscente e 6 non essendo possibile. Ricorda le appassionate ragioni della regina di Francia (II 8,2 sgg.). 7 Concetto riaffermato varie volte nel D.: per es., oltre che nella VI 7 citata nelle righe seguenti, nella VI 3, 10 ecc. 8 al quale atto chi per denaro si induce. Due endecasillabi congiunti da un decasillabo a un terzo sottolineano la solennità dell’affermazione. 9 Cfr. VI 7. 10 Costante questa forma nel D.: III 5,4 n. 11 Cioè un soldato mercenario. 12 Forse trascrizione del nome assai comune Wolfard. 13 Quasi una formula: II 7,48; II 8,40 n. e 49 ecc. 14 Naturale il ricordo dei versi petrarcheschi, proprio degli stessi anni: «Né v’accorgete ancor per tante prove | Del bavarico inganno | Ch’alzando il dito colla morte scherza?» (CXXVIII 65 sgg.). «Nota» (M.). 15 interesse, come più sotto (10). 16 Costante questa forma dittongata: VII 3,41; VII 10,10. 17 «Nota gentil nome» (M.). Nessuna traccia si è potuto trovare né di questo né degli altri personaggi della novella: ma nomi Letteratura italiana Einaudi 1042 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 7 8 amico; e amandola assai discretamente, senza avvedersene il marito né altri, le mandò un giorno a parlare, pregandola che le dovesse piacere d’essergli del suo amor cortese, e che egli era dalla sua parte presto a dover far ciò che ella gli comandasse. La donna, dopo molte novelle18, venne a questa conclusione, che ella era presta di far ciò19 che a Gulfardo piacesse, dove due cose ne dovesser seguire: l’una, che questo non dovesse mai per lui esser manifestato ad alcuna persona; l’altra, che, con ciò fosse cosa che ella avesse per alcuna sua cosa bisogno di fiorini dugento20 d’oro, voleva che egli, che ricco uomo era, gliele donasse21, e appresso sempre sarebbe al suo servigio. Gulfardo, udendo la ’ngordigia di costei, sdegnato per la viltà22 di lei, la quale egli credeva che fosse una valente donna, quasi in odio trasmutò il fervente amore, e pensò di doverla beffare23, e mandolle dicendo che molto volentieri e quello e ogn’altra cosa, che egli potesse, che le piacesse24; e per ciò mandassegli pure a formati come questo, ricorrono spesso nei documenti lombardi del tempo (Cagafava, Cagapanno ecc.). Si alternano qui le forme Guasparruolo e Guasparuolo. 18 ciance, discorsi vani: II 9, 10 n. e II 8,67 n. 19 Nota la ripresa delle parole di Gulfardo. 20 Sintagma o formula proprio di origine mercantesca (cfr. 10): cfr. G. FOLENA, Appunti sulla lingua, in Motti e facezie del Piovano Arlotto, Milano 1956, p. 378: e qui II 9,60 e anche VIII 2,35 n. 21 «Non emo tanti unum penitere» (M.). 22 bassezza d’animo, contrapposta a «valore» implicato nel v a l e n t e della stessa riga. 23 Proprio come Rinieri con Elena («il lungo e fervente amor portatole Subitamente in crudo e acerbo odio trasmutò, seco gran cose e varie volgendo a trovar modo alla vendetta»: VIII 7,40). 24 Ellissi dell’uso (molto volentieri darebbe e quello; e cfr. 10); e dell’uso boccacciano è pure la successione di due relative senza alcun legame, di cui la prima equivale a un aggettivo (ogni altra cosa a lui possibile che ... ): cfr. II 6,72. Letteratura italiana Einaudi 1043 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII dire quando ella volesse che egli andasse a lei, ché egli gliele porterebbe, né che mai di questa cosa alcun sentirebbe, se non un suo compagno di cui egli si fidava molto e che sempre in sua compagnia andava in ciò che 9 faceva. La donna, anzi cattiva femina25, udendo questo, fu contenta, e mandogli dicendo che Guasparuolo suo marito doveva ivi a pochi dì per sue bisogne andare infino a Genova, e allora ella gliele farebbe assapere26 e manderebbe per lui. 10 Gulfardo, quando tempo gli parve, se n’andò a Guasparuolo e sì gli disse: «Io son per fare un mio fatto, per lo quale mi bisognano fiorini dugento d’oro, li quali io voglio che tu mi presti con quello utile che tu mi suogli prestare degli altri». Guasparruolo disse che volentieri, e di presente27 gli annoverò i denari. 11 Ivi a pochi giorni Guasparuolo andò a Genova, come la donna aveva detto; per la qual cosa la donna mandò a Gulfardo che a lei dovesse venire e recare li 12 dugento fiorin d’oro. Gulfardo, preso il compagno28 suo, se n’andò a casa della donna, e trovatala che l’aspettava, la prima cosa che fece, le mise in mano questi dugento fiorin d’oro, veggente il suo compagno, e sì le disse: «Madonna, tenete questi denari, e daretegli a vostro marito quando serà tornato». La donna gli prese, e non s’avide perché Gulfardo 13 dicesse così; ma si credette che egli il facesse, acciò che ’l compagno suo non s’accorgesse che egli a lei per via 25 Evidente qui l’opposizione per dignità morale fra d o n n a e f e m i n a , come invece per condizione sociale a V 7,10 n. 26 Per questa forma intensiva cfr. III 3,26 n. 27 subito, immediatamente: I 1,77 n. 28 Participio per secondaria indipendente: mentre vedeva il suo compagno sotto gli occhi del suo compagno: cfr. VII 9,32 n. Letteratura italiana Einaudi 1044 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII di prezzo29 gli desse. Per che ella disse: «Io il farò volentieri, ma io voglio vedere quanti sono»; e versatigli sopra una tavola e trovatigli esser dugento, seco forte contenta, gli ripose, e tornò a Gulfardo, e lui nella sua camera menato, non solamente quella volta, ma molte altre, avanti che ’l marito tornasse da Genova, della sua persona gli sodisfece. Tornato Guasparuolo da Genova, di presente Gul15 fardo, avendo appostato30 che insieme con la moglie era, [preso il compagno suo], se n’andò a lui, e in presenza di lei disse: «Guasparuolo, i denari, cioè li dugento fiorin d’oro che l’altrier31 mi prestasti, non m’ebber luogo32, per ciò che io non pote’ fornir la bisogna33 per la quale gli pre-si; e per ciò io gli recai qui di presente alla donna tua, e sì gliele diedi; e per ciò dannerai la mia ragione34». Guasparuolo, volto alla moglie, la domandò se avuti 16 gli avea. Ella, che quivi vedeva il testimonio35, nol seppe negare, ma disse: «Mai36 sì che io gli ebbi, né me n’era ancora ricordata di dirloti». 29 quale ricompensa, quale pagamento: e per l’espressione p e r v i a d i cfr. VI 1,6 n.; VII 9,21 n. 30 osservato, spiato: cfr. VIII 2,41 n. 31 Con valore indeterminato: giorni or sono: III 3,23 n. 32 non mi furono necessari, non li adoperai: cfr. III I,15 n. 33 concludere l’affare. 34 casserai, cancellerai la mia partita: espressione tecnica: cfr. Detto d’amore, 133 sgg. «... è scritto a mi’ conto | Ch’i’ non sia più tu’ conto. la ragion dannata...» E cfr. anche II 9,10 n. 35 Non è chiaro se si alluda semplicemente a Gulfardo o al compagno presente anche in questa circostanza, seppure non è detto esplicitamente. 36 Solito rafforzamento (III 3,36 n.). Letteratura italiana Einaudi 1045 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 17 18 Disse allora Guasparuolo: «Gulfardo, io son contento; andatevi pur con Dio, che io acconcerò bene la vostra ragione37». Gulfardo partitosi, e 38 la donna rimasa scornata diede al marito il disonesto prezzo della sua cattività; e così il sagace amante senza costo godé della sua avara donna39. – 37 metterò in ordine, aggiusterò la vostra partita, il vostro conto. «O non sapevi tu che egli aveva nome Gulfardo?» (M.). 38 ecco che, allora: secondo il solito uso della congiunzione in ripresa: cfr. 1,39 n. 39 Si potrebbe richiamare la conclusione della VII 4, contro l’avarizia nemica d’amore. Letteratura italiana Einaudi 1046 NOVELLA SECONDA 1 Il Prete da Varlungo si giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro; e accattato da lei un mortaio, il rimanda e fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza1; rendelo proverbiando2 la buona donna3. 2 Commendavano igualmente e gli uomini e le donne ciò che Gulfardo fatto aveva alla ’ngorda melanese, quando la reina a Panfilo voltatasi, sorridendo gl’impose ch’el seguitasse; per la qual cosa Panfilo incominciò: – Belle donne, a me occorre di dire una novelletta contro a coloro li quali continuamente n’offendono senza poter da noi del pari essere offesi, cioè contro a’ preti, li quali sopra le nostre mogli hanno bandita la croce4, e par loro non altramenti aver guadagnato il perdono di colpa e di pena, quando una se ne possono metter sotto, che se d’Allessandria avessero il soldano menato legato a Vignone5. Il che i secolari cattivelli6 non possono a lor fare; come che nelle madri, nelle sirocchie, nell’amiche e nelle figliuole con non meno ardore, che essi le lor mogli assaliscano, vendichino l’ire loro7. E per ciò io intendo raccontarvi uno amorazzo 3 4 5 1 per pegno, come al 41 e 43 n. Con un motto (cfr. 44). 3 Vaghissimi antecedenti sono indicati in un fabliau, Du prestre et de la dame (Recueil général, II 51), e nei distici Versus de mola piperis (I. DUNLOP, History of prose fiction, London 1888, II, p. 125). Ma il tema - non dissimile da quello della VIII 1 - forse era popolare e trovava riscontri nella cronaca aneddotica del tempo (Thompson e Rotunda, K 1581.3). 4 hanno bandito una crociata per conquistare le nostre mogli: cfr. I 6,10. 5 Avignone, dove in quegli anni era la corte papale (corrente l’aferesi). 6 i laici miserelli, poveretti. 7 Sfogo e concetti che possono richiamare la III 7,34 sgg. 2 Letteratura italiana Einaudi 1047 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 6 7 8 9 contadino, più da ridere per la conclusione che lungo di parole, del quale ancora potrete per frutto cogliere che a’ preti non sia sempre ogni cosa da credere. Dico adunque che a Varlungo, villa assai vicina di qui8, come ciascuna di voi o sa o puote avere udito, fu un valente prete e gagliardo9 della persona ne’ servigi delle donne, il quale, come che legger non sapesse troppo, pur con molte buone e sante parolozze la domenica a piè dell’olmo10 ricreava i suoi popolani; e meglio le lor donne, quando essi in alcuna parte andavano, che altro prete che prima vi fosse stato, visitava, portando loro della festa11 e dell’acqua benedetta e alcun moccolo di candela talvolta infino a casa, dando loro la sua benedizione. Ora avvenne che, tra l’altre sue popolane che prima gli eran piaciute, una sopra tutte ne gli piacque, che aveva nome monna Belcolore12, moglie d’un lavoratore che si facea chiamare13 Bentivegna14 del Mazzo, la qual 8 A pochi chilometri da Firenze, nel Valdarno: oggi incorporato nella periferia della città. 9 Aggettivo che ritorna spesso nel D. con un sottinteso erotico: II 10,31; IV 1,5; V 10,8; VIII 9,86 ecc. 10 «Le chiese in contado sogliono avere così dall’un de’ lati un grand’olmo: quivi sotto, la state, s’adunano all’ombra i contadini: e mentre ch’essi aspettano l’altra brigata, il Prete gl’intrattiene» (Sansovino): cfr. VIII 6,41: «Ragunata ... una buona brigata ... dinanzi alla chiesa intorno all’olmo». 11 «Robe solite a vendersi per le feste, come piccole immagini di santi, abitini, rosari ecc.» (Fanfani). 12 Proprio il testamento di una Donna Belcolore da Varlungo sembra aver raccolto nel 1363 ser Michele di Salvestro Contadini (Archivio di Firenze, C 599-605). 13 si chiamava: VIII 5,5: «uno il quale si facea chiamare messer Niccola da S. Lepidio». 14 Era nome augurativo assai comune: un Bentivegna, probabilmente di Certaldo, era socio di Boccaccino e nella Compagnia dei Bardi (CAMERA, Annali cit., II, pp. 346; F. TORRACA, G. B. a Napoli cit., pp. 5 sgg.). Letteratura italiana Einaudi 1048 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII nel vero era pure una piacevole e fresca foresozza15, brunazza e ben tarchiata, e atta a meglio saper macinare16 che alcuna altra17. E oltre a ciò era quella che meglio sapeva sonare il cembalo 18 e cantare: L’acqua corre la borrana19, e menare la ridda e il ballonchio20, quando bisogno faceva, che 21 vicina che ella 10 avesse, con bel moccichino e gente22 in mano. Per le quali cose messer lo prete ne ’nvaghì sì forte, che egli ne menava smanie23; e tutto ’l dì andava aiato24 per poterla vedere; e quando la domenica mattina la sentiva in chiesa, diceva un Kyrie e un Sanctus sforzandosi ben di mo15 contadinotta: in tutta la novella è caratteristica la espressivistica insistenza su questi accrescitivi-vezzeggiativi rusticani, quasi a parodiare le presentazioni di Ifigenia, Isotta, Ginevra (V 1, X 6) e delle ninfe della Comedia (cfr. V. BRANCA, B. medievale, pp. 111 e 116): e Cfr. VIII 4,22 n. 16 Nel tradizionale senso equivoco, sessuale: IV 10,48 n. e qui 23 n. 17 Tre endecasillabi avvivano questo ritratto contadinesco. 18 Tamburello a sonagli : cfr. V concl., 9 n., e qui 47. 19 il fossato, il burrone (da borro). Locuzione proverbiale (e qui evidentemente allusiva), corrispondente alla più comune «l’acqua corre sempre all’ingiù» (III 6,37 n.), che ricorre anche nel Patago (V 67); costituiva il primo verso di una canzonetta a ballo diffusissima in quel secolo (DE BARTHOLOMAEIS, Rime giullaresche, p. 29; A. MUSSAFIA, in «Il Propugnatore», I, 1868, p. 232; F. NOVATI, in «Giorn. Stor. Lett. It.», IV, 1884, pp. 440 599.; P. TOSCHI, Ultime tracce di antiche canzoni, in Studi in onore di Angelo Monteverdi, Modena 1959). 20 L’una è una danza in tondo fatta da più persone e accompagnata dal canto; l’altro un ballo contadinesco, un saltarello (cfr. Inf., VII 24; Dittamondo, IV 5). 21 Da unirsi al m e g l i o di due righe innanzi (meglio che). 22 gentile, leggiadro (prov. e fr. ant. gent): cfr. Fiore, CXXVII «don sí bel e gente». 23 smaniava: per l’uso di m e n a r e con sostantivi di contegno e atteggiamento cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 483. 24 andava a zonzo. Come le locuzioni analoghe «andare aione» «gire aione», probabilmente deriva da «aia» («a l’aia» vale a zonzo: cfr. F. AGENO, Riboboli trecenteschi, in «Studi di Filologia Italiana», X, 1952, p. 421). Letteratura italiana Einaudi 1049 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 11 12 13 strarsi un gran maestro di canto, che pareva uno asino che ragghiasse25, dove, quando non la vi vedeva, si passava assai leggermente; ma pure sapeva sì fare che Bentivegna del Mazzo non se ne avvedeva, né ancora vicino che egli avesse. E per poter più avere la dimestichezza di monna Belcolore, a otta a otta la presentava 26, e quando le mandava un mazzuol d’agli freschi, che egli aveva i più belli della contrada in un suo orto che egli lavorava a sue mani, e quando un canestruccio di baccelli, e talora un mazzuol di cipolle malige o di scalogni27; e, quando si vedeva tempo, guatatala un poco in cagnesco, per amorevolezza la rimorchiava 28, ed ella cotal salvatichetta29, faccendo vista di non avvedersene, andava pure oltre in contegno30; per che messer lo prete non ne poteva venire a capo. Ora avvenne un dì che, andando il prete di fitto meriggio31 per la contrada or qua or là zazeato32, scontrò 25 Paragone consueto per i preti: cfr. F. C. TUBACH, Index exemplorum, Helsinki 1969, 4395. 26 di quando in quando le faceva doni. 27 Cipolle di maggio, dalla forma allungata, fortissime; e cipolle a cespi, più piccole e meno forti delle comuni («cipolla d’Ascalona»). 28 amorevolmente la rimbrottava, si doleva con lei: verbo contadinesco secondo il Varchi (Ercolano, Milano 1880, p. 63) e il Borghini (Dichiarazioni di alcune voci delle novelle antiche, XLI: ai rimproveri di Marco Lombardo è sovrapposto nei mss. il titolo «Rimorchio di M. L., uomo di corte») E cfr. Sacchetti, Rime, CLIX 19 sgg.: «sente | Primieramente | Rimorchi, | Rimbrocci, | Gnaffe ed occi»; L. Pulci, Beca, 18 (cfr. F. AGENO, art. cit., p. 447: p. 452 per g u a t a t a l a i n c a g n e s c o guardatala con viso arcigno). 29 alquanto ritrosetta, scontrosetta. Per c o t a l e con valore avverbiale cfr. II 3,2 n.; e per s a l v a t i c h e t t a III 7,26 n.; V 6,16 n. 30 tutta sostenuta, tutta contegnosa. 31 di bel mezzogiorno, proprio a mezzogiorno. 32 scioperato, a zonzo, girellando. Così l’interpretazione tradizionale, non appoggiata però su alcun esempio antico. Il Fiacchi, Osservazioni, p. 94, cita soltanto un passo di G. M. Cecchi in cui si Letteratura italiana Einaudi 1050 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 14 15 Bentivegna del Mazzo con uno asino pien di cose innanzi; e fattogli motto, il domandò dov’egli andava. A cui Bentivegna rispose: «Gnaffe, sere33, in buona verità io vo infino a città34 per alcuna mia vicenda, e porto queste cose a ser Bonaccorri da Ginestreto35, che m’aiuti di non so che m’ha fatto richiedere per una comparigione del parentorio per lo pericolator suo il giudice del dificio36». Il prete lieto disse: «Ben fai, figliuole37; or va con la mia benedizione, e torna tosto; e se ti venisse veduto Lapuccio38 o Naldino, non t’esca di mente di dir lor che dice che il Petrarca «andò zazeando dattorno un pezzo» per l’amore di Laura; ma un altro esempio cinquecentesco è nelle Lettere di M. Franzesi, IV: «Poiché voi siete stato zazeando io non vi ho scritto» (Prose fiorentine, Firenze 1716, IV): e cfr. nella quattrocentesca Canzone levata per un contadino, V. 28 «a ogni festa aval vo zazzerando» (D. DE ROBERTIS, Un nuovo ritmo nenciale, in «Studi di Filologia Italiana», XXI, 1963). II Parodi, invece, richiamandosi a «zazzicare» interpreta affannato (in Miscellanea... Ascoli, Torino 1901, p. 481). 33 Titolo (17, 43 ecc.) che si dava al parroco: VIII 6,43. Per g n a f f é in mia fé cfr. I 55 n. 34 Per l’eccezionalità di questo sintagma (ripetuto al 18) cfr. E. DE FELICE, La preposiozione italiana ’a’, in «Studi di filologia italiana», XVIII, pp. 169 sgg., 219. Nota due settenari rimati. 35 Di «Ser Buonaccorius notarius filius Gerii de Ginestreto populi S. Sirnonis» si hanno documenti tra il 1321 e il 1350: nel 1354 appare defunto (Marini: ma non ve n’è traccia nell’Archivio di Firenze). 36 il giudice delle cause penali mi ha fatto citare (VI 7,8 n.) per una comparsa perentoria per mezzo del suo procuratore. «Questo discorso di Bentivegna è messo a posta così spropositato, ché v i c e n d a sta per faccenda, p a r e n t o r i o per perentorio, p e r i c o l a t o r e per procuratore, g i u d i c e d e l d i f i c i o per giudice del maleficio» (Fanfani). «Tutti i nomi storpiati ... lo sono così ancora con poco divario da’ villani di quel paese, che pure è vicinissimo alle mura di Firenze» (Ferrario). E cfr. G. HERCZEG, I cosiddetti ’nomi parlanti’ nel D. cit. Simili storpiature e metaplasmi ricorrono sulle labbra di sempliciotti (per es. III 8,74 n.): e cfr. 44 n. 37 Forma corrente al vocativo: cfr. Purg., XXIII 4. 38 Cfr. V concl., 9 n.: Naldino è ipocoristico di Arnaldo o Rinaldo. Letteratura italiana Einaudi 1051 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 16 17 18 19 20 mi rechino quelle combine39 per li coreggiati miei». Bentivegna disse che sarebbe fatto; e venendosene verso Firenze, si pensò il prete che ora era tempo d’andare alla Bel colore e di provare sua ventura40; e messasi la via tra’ piedi, non ristette sì41 fu a casa di lei, ed entrato dentro disse: «Dio ci42 mandi bene, chi è di qua?» La Belcolore, ch’era andata in balco43, udendol disse: «O sere, voi siate il ben venuto; che andate voi zaconato44 per questo caldo?» Il prete rispose: «Se Dio mi dea bene, che io mi vengo a star con teco un pezzo, per ciò che io trovai l’uom tuo45 che andava a città». La Belcolore, scesa giù, si pose a sedere, e cominciò nettar sementa di cavolini, che il marito avea poco innanzi trebbiati. Il prete le cominciò a dire: «Bene46, Belcolore, de’ mi tu far sempre mai morire questo modo?» La Belcolore cominciò a ridere e a dire: «O che ve47 fo io?» 39 Strisce di cuoio con le quali si unisce al manico la cima del correggiato, lo strumento adoperato per battere il grano. 40 Espressione quasi tecnica nel linguaggio d’amore: II 9,6 n.: ma qui forse piegata a allusione equivoca, fallica (cfr. 31 n.). 41 fino a che: II 2,14 n. 42 qui, in questa casa. 43 soffitta o piano superiore, come palco a VII 3,23 n.: «è luogo alto dove si monta, e si scende» (Buti, comm. a Purg., IX 2). 44 È considerato sinonimo o storpiatura contadinesca del precedente zazeato: ma senza alcun fondamento o documentazione. Già il Varchi: «... la qual voce io non so quello che si voglia significare» (op. cit., p. 75). «Nel contesto in cui appare sembrerebbe recare una conferma all’interpretazione surriferita del Parodi» (Sapegno). 45 tuo marito. «Anche oggi le contadine dicono il mi’ omo per mio marito, come i contadini la me’ donna per mia moglie» (Fanfani). 46 «È naturalissimo il cominciare un discorso che si fa con qualche ritegno con una particella conclusiva, come Dunque, Bene o simili» (Fanfani): cfr. VII 10,24 n. 47 Idiotismo per vi (VIII 9,30 n.): tali idiotismi qui si infittiscono. Letteratura italiana Einaudi 1052 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 21 22 23 24 25 26 Disse il prete: «Non mi fai nulla, ma tu non mi lasci fare a te quei ch’io vorrei e che Idio comandò». Disse la Belcolore: «Deh! andate, andate48: o fanno i preti così fatte cose?» Il prete rispose: «Sì facciam noi meglio che gli altri uomini; o perché no? E dicoti più, che noi facciamo vie miglior lavorio; e sai perché? Perché noi maciniamo a raccolta49; ma in verità bene a tuo uopo50, se tu stai cheta e lascimi fare». Disse la Belcolore: «O che bene a mio uopo potrebbe esser questo, ché siete tutti quanti più scarsi che ’l fistolo51?» Allora il prete disse: «Io non so, chiedi pur tu: o vuogli un paio di scarpette, o vuogli un frenello52, o vuogli una bella fetta di stame53, o ciò che tu vuogli». Disse la Belcolore: «Frate, bene sta54! Io me n’ho di 48 andate svelto, con faciloneria, senza indugi. Andante è usato forse avverbialmente, come nelle frasi «scrivere, parlare andante» (cfr. T.): ma cfr. Filocolo, III 33,2 «l’andante cavallo», forse nel senso di svelto, rapido. 49 «Vale usar di rado l’atto venereo, e perciò con maggior veemenza, tolta la metafora da’ molini, che per mancanza d’acqua non possono continuamente macinare, ma aspettano la colta», cioè che l’acqua si raccolga (Ferrario: cfr. Sacchetti, Rime, LXIV 343: «ben macina ’l mulin ch’ha buona colta»; Poliziano, Ballate, XXVII 43; Aretino, Sei giornate, Bari 1969, p. 82). Anche nella Conclusione, 26: «i frati ... macinano a raccolta». 50 a tuo vantaggio, 51 più avari del diavolo: VII 5,12 n. 52 «Una ghirlanda di seta che le donne portano in cima la fronte, attorno ai confini della cuffia» (Sansovino): o qualcosa di simile. Cfr. Sacchetti, Rime, CLIII 31 sgg.: «E vo’ lasciar frenelli | Contar di tanti versi con ciocchette | E venir a la parte de’ lor visi»; Francesco da Barberino, Reggimento, p. 234: «portava un suo frenello si stretto, che quasi le segava la testa». 53 una cintura di lana fine (Alunno): VII 1,4 n. In uno statuto senese si cita «scageale overo fietta d’argento» (Merkel, p. 92). Il Fanfani e altri annotatori invece: un taglio di stame, tanto quanto basta a fare un vestito. 54 Esclamazione ironica: III 3,28 n. Letteratura italiana Einaudi 1053 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 27 28 29 30 coteste cose; ma se voi mi volete cotanto bene, ché non mi fate voi un servigio, e io farò ciò che voi vorrete?» Allora disse il prete: «Di’ ciò che tu vuogli, e io il farò volentieri». La Belcolore allora disse: «Egli mi conviene andar sabato a Firenze a render lana che io ho filata55 e a far racconciare il filatoio mio; e se voi mi prestate cinque lire, che so che l’avete, io ricoglierò56 dall’usuraio la gonnella mia del perso57 e lo scaggiale58 dai dì delle feste, che io recai a marito 59, ché vedete che non ci posso andare a santo60 né in niun buon luogo, perché io non l’ho; e io sempre mai poscia farò ciò che voi vorrete». Rispose il prete: «Se Dio mi dea il buono anno61, io non gli ho allato62; ma credimi che, prima che sabato sia, io farò che tu gli avrai molto volentieri». «Sì63,» disse la Belcolore «tutti siete così gran promettitori, e poscia non attenete altrui nulla64; credete voi fare a me come voi faceste alla Biliuzza, che se n’andò col ceteratoio65? Alla fè di Dio non farete, ché 55 Cfr. IV 7,7 n. ritirerò, riscatterò: VI 10,10 n. Per l i r a cfr. IX 3,4 n. 57 «Lo perso è uno colore misto di purpureo e di nero, ma vince lo nero» (Convivio, IV XX 2). E per l’uso dell’articolo: I 1,87 n. (cfr. anche più sotto 40: «il mortaio suo della pietra»). 58 cintura di solito riccamente lavorata: Merkel, pp. 89 sgg.; Annotazioni, p. 209: e cfr. qui n, 5. 59 portai in dote. 60 in chiesa secondo un uso popolare ancora corrente, quasi a indicare il luogo santo per eccellenza: cfr. Più sotto 38. 61 Augurio, introdotto dal se deprecativo, assai comune: III 8,45 n. 62 «Oggi si dice: Non ce n’ho in tasca» (Fanfani). 63 Ironico: al 36 è popolarescamente strascicato con epitesi in sie. 64 mantenete ... nulla di ciò che avete promesso: III 3,30 n. 65 Il Fiacchi pensa che sia una storpiatura contadinesca come quelle ricorse sulle labbra di Bentivegna: e significhi «un precetto di sfratto o di comparigione, o per debito o per altra cagione ... per le tante eccetere di che sogliono i legali o i ministri della giusti56 Letteratura italiana Einaudi 1054 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII ella n’è divenuta femina di mondo pur per ciò; se voi non gli avete, e voi andate per essi». 31 «Deh!» disse il prete «non mi fare ora andare infino a casa; ché vedi che ho così ritta la ventura66 testè che non c’è persona, e forse quand’io tornassi ci sarebbe chi che sia che c’impaccerebbe; e io non so quando e’ mi si venga così ben fatto come ora». E ella disse: «Bene sta; se voi volete andar, sì andate; 32 se non, sì ve ne durate67». 33 Il prete, veggendo che ella non era acconcia a far cosa che gli piacesse, se non a salvum me fac, ed egli volea fare sine costodia68, disse: «Ecco, tu non mi credi che io te gli rechi; acciò che tu mi creda, io ti lascerò pegno questo mio tabarro di sbiavato69». 34 La Belcolore levò alto il viso e disse: «Sì, cotesto tabarro, o che vale egli?» zia riempire le scritture loro. La Biliuzza affidata alle magnifiche promesse del Sere, esser potevasi avviluppata in debiti troppo più gravi ... Andata in fumo ogni promessa, ecco la Biliuzza pegnorata col ceteratoio, e non avendo con che soddisfare o difendersi, eccola ridotta al lastrico e data alla mala vita». Cfr. Piovano Arlotto, CLXVIII: «cetere di notai», cioè imbrogli, garbugli; Machiavelli, Mandragola, III 12: «entriamo in cetere». II Pézard propone invece una derivazione da «cetera», chitarra: cioè la Biliuzza se ne andò senza altro profitto che un ventre grosso come un chitarrone; altri: se ne andò con una suonata di cetra, di chitarra. In tutti i casi il senso è se ne andò beffata, con vane promesse. E cfr. G. HERCZEG, I cosiddetti ’nomi parlanti’ cit. Biliuzza è diminutivo di Bilia, da Sibilia o anche da Benedetta. 66 Una locuzione corrente («ventura diritta» buona ventura) usata qui equivocamente (cfr. 37): Sacchetti, CCVI e CCXXVI: cfr. anche VII 1,27. 67 soffritelo, fatene a meno: riflessivo con una sfumatura significante che chi parla si disinteressa della cosa: Cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 148. 68 «Espressioni ulpiance scherzosamente adoperate a dire dando garanzia ... senza pegno a garanzia» (Petronio). 69 panno turchino: Sacchetti, XCII. Il tabarro era usato correntemente dagli ecclesiastici di condizione modesta, cui era concesso anche dalle disposizioni canoniche (Merkel, pp. 61 sgg.). Letteratura italiana Einaudi 1055 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 35 36 37 38 Disse il prete: «Come, che vale? Io voglio che tu sappi che egli è di duagio infino in treagio, e hacci di quegli nel popolo nostro che il tengon di quattragio70, e non è ancora quindici dì che mi costò da Lotto rigattiere delle lire ben71 sette, ed ebbine buon mercato72 de soldi ben cinque, per quel che mi dice Buglietto73 d’Alberto, che sai che si conosce74 così bene di questi panni sbiavati». «O sie? «disse la Belcolore «se Dio m’aiuti, io non l’averei mai creduto; ma datemelo in prima». Messer lo prete, ch’aveva carica la balestra, trattosi il tabarro, gliele diede; ed ella, poi che riposto l’ebbe, disse: «Sere, andiancene qua nella capanna, che non vi vien mai persona «; e così fecero. E quivi il prete, dandole i più dolci baciozzi del mondo e faccendola parente di messer Domenedio75, con lei una gran pezza si sollazzò; poscia, partitosi in gonnella, che pareva che venisse da servire a nozze76, se ne tornò al santo. 70 Duagio era il panno fine di Douai in Fiandra (Purg., XX 46) altamente apprezzato nella Firenze del Trecento e commerciato proprio dai Bardi (SAPORI, Studi di storia economica, p. 494; Merkel, p. 106; Burchiello, Un gatto si dormiva: «vendendomi vestito di doagio»). T r e a g i o e q u a t t r a g i o sono nomi di immaginarie stoffe ancor più preziose, forgiati dal se re su una falsa facile etimologia per meglio infinocchiare la Belcolore: artificio analogo a quelli di Frate Cipolla: cfr. HERCZEG, I cosiddetti ’nomi parlanti’ cit. 71 «Era pratica de’ nostri vecchi dettatori porre l’avverbio bene in precedenza al numero determinato degli oggetti e specialmente de’ denari che essi nominavano ... per una cotal maggior sicurezza di affermazione» (Dal Rio): cfr. V 3,13. E per sintagma mercantesco analogo vedi VIII 1,7 n. 72 ci risparmiai, me lo diede per meno: VIII 5,20 n. 73 Evidentemente il padre di Nuto (40). 74 si intende. 75 Solito senso equivoco: II 7,89 n.; III 1,43 n. 76 Perché la gonnella (II 5,68 n.) si portava senza tabarro solo in solennità straordinarie. Letteratura italiana Einaudi 1056 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 39 40 41 42 43 Quivi, pensando che quanti moccoli ricoglieva in tutto l’anno d’offerta non valevan la metà di cinque lire, gli parve aver mal fatto, e pentessi d’aver lasciato il tabarro e cominciò a pensare in che modo riavere lo potesse senza costo77. E per ciò che alquanto era maliziosetto, s’avvisò troppo bene come dovesse fare a riaverlo, e vennegli fatto; per ciò che il dì seguente, essendo festa, egli mandò un fanciul d’un suo vicino in casa questa monna Belcolore, e mandolla pregando che le piacesse di prestargli il mortaio suo della pietra78, però che desinava la mattina con lui Binguccio dal Poggio e Nuto Buglietti, sì che egli voleva far della salsa. La Belcolore gliele mandò. E come fu in su l’ora del desinare, e ’l prete appostò79 quando Bentivegna del Mazzo e la Belcolor manicassero, e chiamato il chierico suo, gli disse: «Togli quel mortaio e riportalo alla Belcolore, e di’: ‘Dice il sere che gran mercé80, e che voi gli rimandiate il tabarro che ’l fanciullo vi lasciò per ricordanza’». Il cherico andò a casa della Belcolore con questo mortaio e trovolla insieme con Bentivegna a desco81 che desinavano; quivi, posto giù il mortaio, fece l’ambasciata del prete. La Belcolore, udendosi richiedere il tabarro, volle rispondere; ma Bentivegna con un mal viso disse: 77 Sei settenari di seguito sembrano sottolineare il raccoglimento pensoso e malizioso del sere. 78 di pietra: cfr. I 1, 8 7 n. Il seguente B i n g u c c i o è forma di Binduccio coristico di Ildebrando; Buglietto (cfr. 35) è soprannome creato per cambiamento di suffisso da bugliolo o buglione cioè secchio di legno, barile e quindi vale ubriacone (cfr. O. BRATTÖ, op. cit.), per N u t o cfr. III 1,7 n. 79 il prete spiò, osservò. E la prima vota che l’articolo appare in questa forma, el forse con connotazione linguistica villereccia (ma cfr. VIII 9,46 n.); mentre tale forma è corrente per il pronome (cfr. per es. IX 1,17 n.). 80 che vi ringrazia molto. 81 a tavola: cfr. VII 9,53 n. Letteratura italiana Einaudi 1057 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 44 45 46 «Dunque toi tu ricordanza82 al sere? Fo boto a Cristo, che mi vien voglia di darti un gran sergozzone83; va, rendigliel tosto, che canciola te nasca84; e guarda che di cosa che voglia mai, io dico s’e’volesse l’asino nostro85, non ch’altro, non gli sia detto di no». La Belcolore brontolando si levò, e andatasene al soppediano86, ne trasse il tabarro e diello al cherico e disse: «Dirai così al sere da mia parte: ‘La Belcolor dice che fa prego a Dio che voi non pesterete mai più salsa in suo mortaio87: non l’avete voi sì bello onor fatto di questa’». Il cherico se n’andò col tabarro e fece l’ambasciata al sere, a cui il prete ridendo disse: «Dira’le, quando tu la vedrai, che s’ella non ci presterà il mortaio, io non presterrò a lei il pestello; vada l’un per l’altro». Bentivegna si credeva che la moglie quelle parole dicesse perché egli l’aveva garrito88, e non se ne curò. Ma la Belcolore venne in iscrezio col sere, e tennegli favel- 82 prendi tu pegno. Forse altra connotazione villereccia in toi (ma la forma è usata anche dal Petrarca, CLXXXVM 8). 83 colpo alla gola, pugno al mento: Sacchetti, Rime, CLIX 47, Per va rendigliel cfr. II 5,45 n. 84 che ti venga il canchero. C a n c i o l a è forma eufemistica o modo contadinesco e imprecativo di cui non sono segnalati altri esempi. 85 «Detto con enfasi, come il bene maggiore della famiglia» (Petronio). 86 Cassa bassa che si teneva a piè del letto, e dove si usava tenere i panni di lana. 87 Evidente e corrente senso equivoco (II 10,37 e 40 n.; Concl., 5) accostato alla ironizzazione del linguaggio cortese nella frase seguente e ripreso nel paragrafo 45. Per tutto il linguaggio espressivistico della novella cfr. la Introduzione a questa edizione, pp. XXXIV sgg. (e ora B. medievale, pp. 374 sgg.). 88 rimbrottata, rimproverata: IX 6,16 n.; ma per l’uso attivo cfr. Inf., XV 92; e per il participio invariato Intr., 35 n. Letteratura italiana Einaudi 1058 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII la89 insino a vendemmia. Poscia, avendola minacciata il prete di farnela andare in bocca del lucifero maggiore90, per bella paura entro91, col mosto e con le castagne calde si rappattumò con lui, e più volte insieme fecer 47 poi gozzoviglia. E in iscambio delle cinque lire le fece il prete rincartare il cembal92 suo e appiccovi un sonagliuzzo, e ella fu contenta. – 89 si guastò col parroco e si astenne dal parlargli, dal rivolgergli la parola: cfr. Annotazioni, pp. 209 sgg. 90 Minaccia analoga a quella fatta da un frate a monna Ermellina (III 7,28 n.; lucifero era sentito come nome comune per diavolo: VIII 9,15). 91 Per grande paura che la Belcolore avea dentro di sé. Il Barbi ricorda per questa espressione il verso di Dante che pone la paura nel lago del core e i modi di dire sempre vivi: «m’è entrata una paura, ho una paura in corpo». Cfr. anche Annotazioni, p. 152; e Morelli, Ricordi, p. 445: «il Siepe per bella paura ... gittò le bandiere»; Sacchetti, CXL. 92 mettere la cartapecora nuova al suo cembalo. Letteratura italiana Einaudi 1059 NOVELLA TERZA 1 Calandrino, Bruno e Buffalmacco giù per lo Mugnone1 vanno cercando di trovar l’elitropia2, e Calandrino se la crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia3, e egli turbato la batte, e a’ suoi compagni racconta ciò che essi sanno meglio di lui4. 2 Finita la novella di Panfilo, della quale le donne avevano tanto riso che ancor ridono5, la reina ad Elissa commise che seguitasse6, la quale ancora ridendo incominciò: 1 Torrentello che si butta nell’Arno a valle di Firenze. Favolosa pietra, che, simile allo smeraldo (ma chiazzata di sanguigno), avrebbe avuto la virtù di rendere invisibili. Già lo affermava Plinio, Nat. Hist., XXXVII 60; e da lui la notizia discese a tutta la cultura medievale: Inf., XXIV 92 sg.: «Correan genti nude e spaventate, | Sanza sperar pertugio o elitropia»; Mare amoroso, 240-41: «aritropia, | Che fa ciascun si che non sia veduto»; Fiore, CLXXXII; Intelligenzia, 39 ecc. Per l’importanza della simbolica delle pietre nell’antichità e nel Medioevo cfr. J. G. FRAZER, The golden bough, I 3; J. E. CIRLOT, A Dictionary of Symbols, pp. 299 sgg. 3 rampogna, rimprovera: II 5,43 n. e qui più avanti al 51. 4 Nessun preciso antecedente esiste per questa novella, che ha tutti i caratteri e gli elementi degli aneddoti municipali fiorentini, come chiariranno le note seguenti. Qualche richiamo molto vago hanno indicato il Landau (pp. 335 sgg.) e il Bédier (p. 448): ma si tratta di elementi tutt’altro che caratteristici, di tipo popolare (cfr. nn. seguenti; e Thompson e Rotunda, D 1980, J 2337 X 950 sgg.). Qualche elemento sembra anticipato da Vitale di Blois nella sua Aulularia (Comédie latine en France, Paris 1931, pp. 1 sgg.): Calandrino «è lapidato dagli amici che fingono di non vederlo, come Birria da Geta; si accerta d’esser fatto invisibile per il mancato saluto di gabellieri e di passanti, come Geta si accerta di esistere per il saluto d’Anfitrione» (G. A. LEVI, Da Dante al Machiavelli, Firenze 1935, pp. 205 sgg.) 5 Cfr. IX concl., 1: «Quanto di questa novella si ridesse ... colei sel pensi che ancora ne riderà». 6 affidò il compito di continuare il novellare. 2 Letteratura italiana Einaudi 1060 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 3 4 – Io non so, piacevoli donne, se egli mi si verrà fatto di farvi con una mia novelletta, non men vera che piacevole, tanto ridere quanto ha fatto Panfilo con la sua, ma io me ne ’ngegnerò. Nella nostra città, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti7 è stata abondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino8, uom semplice e di nuovi costumi, il quale il più del tempo con due altri dipintori usava9, chiamati l’un Bruno e l’altro Buffalmacco10, uomini sollazzevoli molto, ma per 7 di usanze varie e di persone singolari, cioè tipi originali, bizzarri (II 1,6 n.). Questo inizio ricorda quelli della III 3,5 («Nella nostra città, più d’inganni piena che d’amore o di fede»), VII 6,4 («Nella nostra città, copiosa di tutti i beni»): e cfr. anche VI 9,4 e Fiammetta, II 6,20 e V 27,1. 8 È Nozzo – ossia Giovannozzo – di Perino, abitante nel popolo di San Lorenzo (si dirà, al 50, che abita al Canto alla Macina, cioè all’angolo fra Via Ginori e Via Guelfa): è ricordato in atti (Archivio di Firenze: G 676) del notaio Ser Grimaldo di Ser Compagno da Pesciola tra il 20 luglio 1301 e il 17 febbraio 1318 (è nominato come morto in un atto del notaio Ser Lando d’Ubaldino da Pesciola: L 38-39). Era probabilmente allievo di Andrea Tafi: apparteneva cioè alla scuola fiorentina pregiottesca e più resistente alle esigenze della nuova pittura; di lui si ricordano solo affreschi in una villa di Camerata (per altre notizie cfr. note seguenti). Ma dovette essere soprattutto noto nella Firenze trecentesca per la sua semplicità e goffaggine, che lo rendevano naturale bersaglio delle beffe e delle burle dei colleghi. E difatti dopo l’alta consacrazione letteraria nel D. (VIII 3 e 6; IX 3 e 5: nessun personaggio è protagonista di tante novelle!), Calandrino appare – sempre nello stesso atteggiamento – nel Sacchetti (LXVII, LXXX, LXXXIV) e poi nelle Vite del Vasari (Vita di Buonamico), nelle Notizie del Baldinucci (Firenze 1845, I, pp. 148 sgg.), nella ampia e conclusiva biografia dedicatagli dal Manni (Veglie piacevoli, II); tanto da passare in proverbio («far Calandrino», burlare uno, pigliarsene spasso; cfr. anche Bibbiena, Calandria; il soprannome derivò da calandrino che è, come dice il Vasari, una squadra mobile di legno usata da scalpellini, pittori, ecc., o da un tipo di allodola calandrino o calandrella: è del resto diminuitivo di Calandro, nome diffuso nella Firenze del tempo). 9 frequentava, bazzicava due altri ... : I 1,14 ecc. 10 Bruno di Giovanni d’Olivieri – menzionato insieme al fra- Letteratura italiana Einaudi 1061 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 5 altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de’ modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano. Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa che far voleva astuto e avvenevole 11, chiamato Maso del Saggio12; il quale, udendo alcune cose della tello Bartolino, pittore, per una vendita in un atto del già citato Ser Grimaldo nel 1301 – abitava nel popolo di San Simone; appare in uno dei volumi delle matricole di medici e speziali insieme a Buffalmacco e Giotto nel 1320 (vol. VIII, c. 732). Fu «compagno d’arte, non collaboratore di Buffalmacco: un dipintore di camere, come allora si diceva, non un maestro»; e non sapendo dare alle sue figure l’espressione necessaria, scriveva – a quel che narra il Vasari – appropriata parole su cartigli che uscivano loro di bocca. Vero maestro fu invece Bonarnico, soprannominato Buffalmacco, abitante in Via del Cocomero, vissuto, secondo il Vasari, dal 1262 al 1340. Allievo anche lui di Andrea Tali, molto dipinse in Toscana e Umbria; sono noti gli affreschi nella chiesa di Badia a Firenze e nel Duomo di Arezzo. Recentemente il Bellosi gli ha voluto assegnare il Trionfo della Morte nel Camposanto di Pisa: a lui è attribuita anche la famosa rappresentazione dell’Inferno fatta il I° maggio 1304 in Arno su barche (G. Villani, VIII 70). Di lui, piacevolissimo burlone, narrarono il Sacchetti (CXXXVI, CLXI, CLXIX, CLXX, CXCI, CXCII), il Vasari (Vita cit.), il Baldinucci (1, pp. 179 sgg.), il Manni (op. cit.). Cfr. per notizie su questi pittori, oltre le opere già Citate: L. LANZI, Storia pittorica, Milano 1823, I, pp. 47 sgg.; G. CAVALCASELLE - J. A. CROWE, Storia della pittura, Firenze : 1883, II, pp. 87 sgg.; A. VENTURI, Storia dell’Arte, Milano 1907, V, pp. 289 sgg.; P. BACCI, Gli affreschi di Buffalmacco ecc., in «Bollettino d’Arte», v, 1911, e Bonamico Buffalmacco ecc., Pisa 1917; C. FIORILLI, Commenti e frammenti, in «Marzocco», XXII, 10 giugno 1917; M. SALMI, rec. in «Rivista d’arte», XI, 1929, p. 140, e Aggiunte al Tre e al Quattrocento fiorentino, ivi, XVI, 1934; L. BELLOSI, Buffalmacco e il Trionfo della morte, Torino 1974 (ma cfr. C. BRANDI, in «Studi sul B.», VIII, 1974). Buffalmacco vale forse gran mangiatore o gran beffatore. 11 abile, cui tutto riusciva bene (con senso diverso da quello a VII 6,6 e X 10,24): cfr. Volg. Vita San Giovanni Battista, p. 252 (C.): «ed era molto presta ed avvenevole a fare, secondo il mondo, ciò ch’ella voleva». 12 Anche dal Sacchetti (XCIII), dal Vasari, dal Baldinucci, dal Manni (opp. e locc. citt.) è presentato come un famoso burlone. Letteratura italiana Einaudi 1062 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 6 7 8 simplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de’ fatti suoi col fargli alcuna beffa, o fargli credere alcuna nuova cosa13. E per avventura trovandolo un dì nella chiesa di San Giovanni, e vedendolo stare attento a riguardar le dipinture e gl’intagli14 del tabernacolo il quale è sopra l’altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo15 alla sua intenzione. E informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s’accostarono là dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo, insieme cominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre, delle quali Maso così efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario16. A’ quali ragionamenti Calandrino posto orecchie17, e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che non era credenza18, si congiunse con loro; il che forte piacque a Maso; il quale, Era sensale e la sua bottega «era un ridotto di cittadini e di quanti piacevoli uomini aveva a Firenze e burlevoli» (Vasari). Già nella VI 10,42 era citato da Frate Cipolla ad autenticare le sue favolosità geografiche; e quale bizzarro moqueur ritornerà nella VIII 5. 13 alcuna cosa strana, qualche sciocchezza: II 8,3 n. È questo un tema frequente nella novellistica: cfr. per es. Sacchetti, CIV. 14 bassorilievi (III intr., 9; Amorosa Visione, XXXIII 28; Sacchetti, CCXXIX). Questo accenno permette di determinare, con una certa precisione, il tempo in cui il B. immaginò l’azione della sua novella: poiché è del 1313 la decisione dei consoli dell’arte di Calimala di affidare a Lippo di Benivieni le ornamentazioni del tabernacolo di cui sopra (BACCI, art. cit.). 15 occasione favorevole: II 3,28 n. 16 un grande esperto, conoscitore di pietre preziose: cfr. Novellino, II: «lo lapidario si mosse guernito di molte pietre di gran bellezza ...» Lapidari erano chiamati anche i trattati attorno alle pietre preziose e alle loro favolose «virtù». E per s o l e n n e cfr. II 7,32 n. 17 Caso eccezionale di participio invariato al femminile (cfr. Intr., 35 n.) forse favorito dal sintagma corrente «posta orecchia». 18 non v’era segreto: Cfr. III I,21 n.; e qui più avanti 37. Letteratura italiana Einaudi 1063 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 9 seguendo le sue parole19, fu da Calandrin domandato dove queste pietre così virtuose20 si trovassero. Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone, terra de’ Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi21, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio22 e un papero giunta23, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni24 e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi25 giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia26, della migliore che mai si bevve, senza avervi27 entro gocciol d’acqua. 19 continuando il proprio discorso. prodigiose, efficaci: cfr. I 6,10 n. 21 Comincia la fantasmagorica girandola di nomi favolosi con cui Maso, nuovo Frate Cipolla, stordisce e incanta Calandrino. Berlinzone (anche nella VIII 9,23: «la semistante di Berlinzone») è nome probabilmente coniato su «berlingare» ciarlare, «berlingaio» ghiottone, «berlingaccio» giovedì grasso (Varchi, Ercolano cit., p. 64: «chiamano i fiorentini berlingaiuoli e berlingatori coloro i quali si dilettano d’empiere la morfia, cioè la bocca, pappando e leccando»); si è pensato anche a storpiature da Bellinzona o Berençon (Zingarelli, Fornaciari), I b a s c h i sono proverbialmente citati come ultima Thule anche nelle VI 10,41 C VIII 9,23. Trasparente, nella sua formazione, il senso favoloso di B e n g o d i , il mitico paese di Cuccagna del favolello Dit de Coquaigne: gioconda creazione della fantasia medievale sui cui particolari (riflessi anche nelle righe seguenti) cfr. F. NOVATI, II paese che non si trova, Genova 1888 e Freschi e mini del Dugento, Milano 1908, p. 45; U. FRITTELLI, in «Memorie Valdarnesi», II, 1903; G. HERCZEG, I cosiddetti ‘nomi parlanti’ cit.; Thompson e Rotunda, X 950. 22 La dodicesima parte di un soldo: cfr. II 2,7 n. 23 di giunta, per giunta. 24 gnocchi: Cfr. U. E. PAOLI, Maccheroni non maccheroni, in «Lingua Nostra», IV, 1942; L. MESSEDAGLIA, Chiose al D., in «Atti Ist. Veneto», CXII, 1953-54. 25 di qui. 26 Vino bianco secco, pregiatissimo: cfr. X 2,12 n. 27 esservi, impersonale. 20 Letteratura italiana Einaudi 1064 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 10 11 12 13 14 15 16 17 18 «Oh,» disse Calandrino «cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de’ capponi che cuocon coloro28?» Rispose Maso: «Mangiansegli i Baschi tutti». Disse allora Calandrino: «Fostivi tu mai?» A cui Maso rispose: «Di’ tu se io vi fu’ mai? Sì vi sono stato così una volta come mille29». Disse allora Calandrino: «E quante miglia ci ha?» Maso rispose: «Haccene più di millanta, che tutta notte canta30». Disse Calandrino: «Dunque dee egli essere più là che Abruzzi31». «Sì bene, «rispose Maso «si è cavelle32». Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo33 e senza ridere, quella fede vi dava che dar si può a qualunque verità più manifesta, e così l’aveva per vere, e disse: «Troppo ci è di lungi a’ 28 Le allitterazioni sottolineano burlescamente l’ingordigia di Calandrino. 29 Sullo stile di Frate Cipolla, nega fingendo di affermare. Il Poliziano nella sua raccolta di motti cita questo detto (Tagebuch, ed. Wesselski, Jena 1929, p. 199). 30 Parole dal suono falsamente prestigioso, anche per la rima, dette per confondere il povero semplicione: come quelle simili del monaco bolognese a Ferendo (III 8,62) o varie espressioni di Frate Cipolla. Probabili anche i riflessi popolareschi: A. CASETTI e V. IMBRIANI, Canti popolari delle province meridionali, Torino 1872, II, p. 197; G. VIDOSSICH, Elementi mitici in un canto popolare, in «Atene e Roma», IV, 1901; HERCZEG, art. cit.; e per la forma giocosa e indeterminata millanta (rifatta su sette-settanta, otto-ottanta ecc.) cfr. VI 10,22 n. 31 Altra proverbiale terra remota, menzionata anche da Frate Cipolla (VI 10,40 n.). 32 un nulla, o anche nulla (Rohlfs, 131 e 502). Evidente il senso equivoco di questo linguaggio furbesco, simile a quello usato, ancora con Calandrino, da Buffalmacco nella IX 3, I 2 («Si, potrestú aver cavelle, non che nulla»): e cfr. anche IX 4,15. 33 impassibile: frase d’uso (II 9,50; VI 7,10 ecc.): e cfr. Purg., XXVII 34. Letteratura italiana Einaudi 1065 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 19 20 fatti miei34, ma se più presso ci fosse, ben ti dico che io vi verrei una volta con essoteco, pur per veder fare il tomo a quei35 maccheroni, e tormene una satolla36. Ma dimmi, che lieto sie tu, in queste contrade non se ne truova niuna di queste pietre così virtuose?» A cui Maso rispose: «Sì, due maniere di pietre ci si truovano di grandissima virtù: l’una sono i macigni da Settignano e da Montisci37, per virtù de’ quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina; e per ciò si dice egli in que’ paesi di là, che da Dio vengono le grazie e da Montici le macine; ma ecci di questi macigni sì gran quantità, che appo noi 38 è poco prezzata, come appo loro gli smeraldi, de’quali v’ha maggior montagne che monte Morello che rilucon di mezza notte vatti con Dio39; e sappi che chi facesse le macine belle e fatte legare in anella, prima che elle si forassero40, e portassele al soldano, n’avrebbe ciò che volesse41. L’altra si è una pietra, la quale noi altri lapidari appelliamo elitropia, pietra di troppo gran virtù, per ciò che qualunque per34 troppo lontano dai miei interessi, per me (cfr. al 5: «de’ fatti suoi» e I 1,23 n.). 35 fare il capitombolo, ruzzolare giù quei ...: cfr. Inf., XVI 63; Sacchetti, CLII. 36 farne una scorpacciata: cfr. Pucci, Centiloquio, LXXI 40: «volendo di pecunia far satolla». 37 Due collinette (e paesi) attorno a Firenze, come Monte Morello, con importanti cave di pietra serena. Per la costruzione equivoca della frase cfr. Mussafia, p. 530. 38 presso di noi. 39 Quasi: non mi far dire, non mi domandare altro: frase di commiato dell’uso, in senso più o meno benevolo: cfr. VII 1,32. «Altro gioco lessicale imperniato sul di m e z z a n o t t e tra r i l u c o n (e questo è lo straordinario) e v a t t i c o n D i o (formula di saluto: cioè, di mezzanotte sta a casa tua)» (Marti). 40 «Cosa evidentemente impossibile» (Marti). 41 È una variante del motivo popolare, diffusissimo, della preferenza all’utile sul dilettevole (Thompson e Rotunda, J 245.1): e proprio di pietre da macina preferite a gioielli narra Poggio (Facezie, Roma 1927, n. 74). Letteratura italiana Einaudi 1066 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 21 22 23 24 25 26 27 28 sona la porta sopra di sè, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è42». Allora Calandrin disse: «Gran virtù son queste; ma questa seconda dove si truova?» A cui Maso rispose che nel Mugnone se ne solevan trovare. Disse Calandrino: «Di che grossezza è questa pietra? O che colore è il suo?» Rispose Maso: «Ella è di varie grossezze, ché alcuna n’è più e alcuna meno43, ma tutte son di colore quasi come nero». Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate44, fatto sembiante d’avere altro a fare, si partì da Maso, e seco propose di voler cercare di questa pietra; ma diliberò di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente amava. Diessi adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e prima che alcuno altro n’andassero a cercare, e tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli45. Ultimamente, essendo già l’ora della nona passata, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza46, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n’andò a costoro, e chiamatigli, così disse loro: «Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo dive42 Altre parole, simili a alcune di Frate Cipolla, che nulla dicono; e invece a Calandrino sembrano dire gran cosa, perché pronunziate con solennità fracipollesca. 43 Cioè meno grossa: cfr. Mussafia, p. 523. 44 Con senso intensivo, come alla VII 1,3 n. 45 «Si noti il ritorno di cercare quattro volte in pochi righi: è tutto affanno di Calandrino» (Zingarelli). 46 Monache che avevano convento fuori dell’antica porta Faenza, pressappoco dove sorse poi la Fortezza da Basso, Presso tali suore, conte narra il Vasari nella Vita di Buffalmacco, effettivamente lavorò questo festoso pittore (probabilmente negli ultimi anni del Duecento). Letteratura italiana Einaudi 1067 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII nire i più ricchi uomini di Firenze, per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la qual chi la porta sopra47 non è veduto da niun’altra persona; per che a me parrebbe48 che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v’andas29 se, v’andassimo a cercare. Noi la troveremo per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l’avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scarsella49 e andare alle tavole de’ cambiatori50, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi51 e di fiorini, e torcene quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrà; e così potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a schiccherare52 le mura a modo che fa la lumaca». Bruno e Buffalmacco, udendo costui, fra sé medesi30 mi cominciarono a ridere, e guatando l’un verso l’altro fecer sembianti di maravigliarsi forte, e lodarono il consiglio di Calandrino; ma domandò Buffalmacco, come 31 questa pietra avesse nome. A Calandrino, che era di grossa pasta, era già il nome uscito di mente, per che egli rispose: «Che abbiam noi a far del nome, poi che noi sappiam la vertù53? A me parrebbe che noi andassomo54 a cercare senza star più». 32 «Or ben,» disse Bruno «come è ella fatta?» 47 addosso. sembrerebbe bene, ben fatto, come più sotto (31): IX intr., 3; Inf., XVI 90: «Per ch’al maestro parve di partirsi». 49 Tasca o borsetta di cuoio che si attaccava alla cintura. 50 Cioè ai banchi dei cambiavalute e dei banchieri. 51 Piccole monete d’argento: VIII 10,27; per fiorino cfr. II 1,21 n. 52 imbrattare, sgorbiare. 53 Il Fornaciari ricorda il ciceroniano: «cum intelligitur quid significetur, minus laborandum est de nomine» (Top., VIII 35). 54 Forma vernacolare dell’imperfetto congiuntivo che il B. mette anche altrove sulle labbra di questi personaggi (per es. qui 35 e VIII 9,22: e cfr. per forme analoghe VIII 6,8 n.). 55 Ce n’è d’ogni maniera, d’ogni foggia. 48 Letteratura italiana Einaudi 1068 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII Calandrin disse: «Egli ne son d’ogni fatta55, ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vederem nere, tanto che56 noi ci abbattiamo ad essa; e per ciò non perdiamo tempo, andiamo». 34 A cui Bruno disse: «Or t’aspetta;» e volto a Buffalmacco disse: «A me pare che Calandrino dica bene; ma non mi pare che questa sia ora da ciò57, per ciò che il sole è alto e dà per lo Mugnone entro58 e ha tutte le pietre rasciutte, per che tali paion testé59 bianche delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che il sole l’abbia 35 rasciutte, paion nere; e oltre a ciò molta gente per diverse cagioni è oggi, che è dì di lavorare, per lo Mugnone, li quali60 vedendoci si potrebbono indovinare quello che noi andassimo faccendo61, e forse farlo essi altressì, e potrebbe venire alle mani a loro, e noi avremmo per36 duto il trotto per l’ambiadura62. A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover fare da mattina63, che si conoscon meglio le nere dalle bianche, e in dì di festa, che non vi sarà persona che ci vegga». Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, e Calandri37 no vi s’accordò, e ordinarono che la domenica mattina 33 56 finché. opportuna, adatta a far questo. Cioè picchia sul greto del Mugnone. Si usava alle volte posporre entro a parole rette dalla preposizione per: Petrarca, CCIV 13: «per la nebbia entro de’ suoi dolci sdegni»: e cfr. Annotazioni, LXI. 59 a quest’ora, adesso: IX 5,55; Inf., VI 69, 60 Una delle solite concordanze a senso, con g e n te. 61 «La perifrasi accentua l’eventualità dell’azione» (Contini). 62 «Cioè per volere troppa comodità, avremmo perduto lo scopo del nostro viaggio: come chi volendo avvezzare un cavallo all’ambio o ambiadura (che è un modo di andare movendo insieme le due gambe del medesimo fianco e così procedendo senza scuotere il cavaliere) gli togliesse l’andar naturale e non potesse farlo trottare» (Fornaciari). 63 sul mattino. 57 58 Letteratura italiana Einaudi 1069 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 38 39 40 vegnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa pietra; ma sopra ogn’altra cosa gli pregò Calandrino che essi non dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare 64 , per ciò che a lui era stata posta in credenza65. E ragionato questo, disse loro ciò che udito avea della contrada di Bengodi, con saramenti66 affermando che così era. Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a questo avessero a fare ordinarono fra sé medesimi. Calandrino con disidero aspettò la domenica mattina; la qual venuta, in sul far del dì si levò, e chiamati i compagni, per la porta a San Gallo67 usciti e nel Mugnon discesi, cominciarono ad andare in giù 68, della pietra cercando. Calandrino andava, come più volenteroso, avanti, e prestamente or qua e or là saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava69, e quella ricogliendo si metteva in seno. I compagni andavano appresso, e quando una e quando un’altra ne ricoglievano; ma Calandrino non fu guari di via andato, che egli il seno se n’ebbe pieno70; per che, alzandosi i gheroni della gonnella71, che all’analda non era72, e faccendo di 64 Solito nel D. l’uso transitivo di ragionare (Intr., 52 n.). Millanteria (cfr. 8), tipica del carattere di Calandrino, come vedremo (cfr. per es. 50 e 60). 66 giuramenti: I 1,2 n. 67 Cfr. IV 7,11 n. 68 Cioè dirigendosi verso la foce del Mugnone in Arno. 69 Col senso di ingordo desiderio che il verbo già aveva nella novella di Frate Cipolla (VI 10,21). 70 riempito di pietre. II trapassato remoto ha nella sovraordinata il valore di indicazione di limiti temporali, nella subordinata quello di compimento immediato dell’azione (F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 303). 71 lembi, falde della veste lunga (II 5,68 n.). 72 Cioè che non era stretta e corta come quella alla foggia dell’Hainaut (centro vivissimo di industrie tessili e di vita cavalleresca, ora nel Belgio), allora di moda (Merkel, pp. 38 sgg.), e contro cui si scaglierà il B. nelle Esposizioni, V all. 34. Per la forma cfr. G. Villani, VIII 57, X 153. 65 Letteratura italiana Einaudi 1070 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 41 42 43 44 45 quegli ampio grembo, bene avendogli alla coreggia73 attaccati d’ogni parte, non dopo molto gli empié, e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo74, quello di pietre empiè75. Per che, veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l’ora del mangiare s’avvicinava, secondo l’ordine da sé posto 76, disse Bruno a Buffalmacco: «Calandrino dove è?» Buffalmacco, che ivi presso sel vedeva, volgendosi intorno e or qua e or là riguardando, rispose: «Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi». Disse Bruno: «Ben che fa poco77! a me par egli esser certo che egli è ora a casa a desinare, e noi ha lasciati nel farnetico78 d’andar cercando le pietre nere giù per lo Mugnone». «Deh come egli ha ben fatto,» disse allora Buffalmacco «d’averci beffati e lasciati qui, poscia che noi fummo sì sciocchi che noi gli credemmo. Sappi79! chi sarebbe stato sì stolto che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una così virtuosa pietra, altri che noi?» Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la virtù d’essa coloro, ancor che lor fosse presente, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir 73 alla cintura di cuoio: VI 10,18 n. Cioè prese in mano le falde del mantello in modo da potervi riporre le pietre. 75 Insistente, colorita ripetizione. 76 secondo il piano stabilito fra loro. 77 Altro che poco! Ripresa burlesca delle parole di Buffalmacco, variamente interpretata: Sì, Poco la era qui, ma ... (Sapegno, Segre); È proprio vero che la poco (Marti); Benché poco fa [fosse qui dinanzi a noti] (Barbi). 78 ha lasciati ad ammattire, nella pazzia, nell’impiccio: cfr. VII 9,60. 79 Modo di richiamar l’attenzione, come oggi vedi, senti, ma sì! (imperativo fatico). 74 Letteratura italiana Einaudi 1071 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa; e volti i passi indietro80, se ne cominciò a venire. 46 Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno: «Noi che faremo? Ché non ce ne andiam noi?» A cui Bruno rispose: «Andianne; ma io giuro a Dio 47 che mai Calandrino non me ne farà più niuna; e se io gli fossi presso, come stato sono tutta mattina, io gli darei tale81 di questo ciotto82 nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa «; e il dir le parole e l’aprirsi83 e ‘1 dar del ciotto nel calcagna a Calandrino fu tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e cominciò a soffiare, ma pur si tacque e andò oltre. 48 Buffalmacco, recatosi in mano uno de’ codoli84 che raccolti avea, disse a Bruno: «Deh! vedi bel codolo, così giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino! «e lasciato andare, gli diè con esso nelle reni una gran percossa. E in brieve in cotal guisa or con una parola, e or con una altra su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il 49 vennero lapidando. Quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie de’ gabellieri85 si ristettero; le quali, prima da loro informate, faccendo vista di non vedere, lasciarono andar Calandrino con le 80 Cioè risalendo il corso del Mugnone per giungere a Porta San Gallo e venir via (venire). 81 in tale modo, talmente, avverbialmente (Intr., 100 n.; VIII 9,62 n.). 82 ciottolo, sasso: cfr. Crescenzi, Agricoltura volg., IX 100,3. 83 allargare le braccia per scagliare il ciottolo: Filocolo, V 6,2: «s’aperse vibrato il dardo ...»; Purg., XXXI 100). 84 Unica testimonianza letteraria, a mia conoscenza, di questa forma – registrata solo dal GDLI (ma cfr. REW 2288 «cotulus» dim. di «cotis») viva ancora in vari dialetti veneti e in corso – sostituita poi da «ciottolo» (di origine onomatopeica da una base «côtt» secondo REW 2454: cfr. c i o t t o ). «È incrociato con ciotto, il precedente di c i o t t o l o » (Contini). 85 dazieri. Letteratura italiana Einaudi 1072 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII maggior risa del mondo. Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla Macina; e in tanto fu la fortuna piacevole86 alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la città, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne scontrasse, per ciò che quasi87 a desinare era ciascuno. Entrossene adunque Calandrino così carico in casa 51 sua. Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa88, bella e valente donna, in capo della scala; e alquanto turbata della sua lunga dimora, veggendol venire, cominciò proverbiando a dire: «Mai, frate, il diavol ti ci reca89! ogni gente ha già desinato quando tu torni a desinare». 52 Il che udendo Calandrino, e veggendo che veduto era90, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare: «Ohimè, malvagia femina, o eri tu costì? Tu m’hai diserto91; ma in fè di Dio io te ne pagherò»; e salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso92 corse verso la moglie, e presala per le 50 86 favorevole, propizia. «Determina c i a s c u n o . Perciò la moglie parla di d i m o r a , ritardo»(Contini). 88 Il nome di Tessa era assai comune in Toscana come eco della leggendaria fama della Contessa Matilde; e proprio Tessa si chiamava, secondo il Manni, la moglie di Calandrino, parente del pittore Nello di Dino (IX 3,6 n.; IX 5,19; e per possibili sensi equivoci cfr. VII 1,6 n. e l’art. del Guerri ivi citato). 89 Finalmente, Una buona volta il diavolo ti porta a casa, fratello (con il consueto sapore ironico: VIII 2,26). Anche il Sacchetti, CCIX: «parendo al Minestra che troppo fosse stata dice ‘Il diavol ti ci reca’». E cfr. specialmente, sul valore particolare di m a i ’ Annotazioni, XXXIV. 90 Un esempio tipico di due accezioni diverse di uno stesso verbo legate sintatticamente. 91 mi hai rovinato: II 4,7 n.; e per la forma VIII 6,27; VIII 10,57. 92 irato, furibondo, cioè reso cattivo dall’ira (lat. iniquus, nequam): Filostrato, V 15: «nel viso fellone e niquitoso». 87 Letteratura italiana Einaudi 1073 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII treccie la si gittò a’piedi, e quivi, quanto egli poté menar le braccia e’ piedi, tanto le diè93 per tutta la persona pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso addosso che macero94 non fosse, niuna cosa valendole il chieder mercé con le mani in croce95. 53 Buffalmacco e Bruno, poi che co’ guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino, e giunti a piè dell’uscio96 di lui, sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure allora97 il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso e affannato si fece alla finestra, e pregogli che suso a lui do98 54 vessero andare . Essi, mostrandosi alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di pietre, e nell’un de’canti la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso dolorosamente piagnere, e d’altra parte Calandrino scinto e ansando a guisa d’uom lasso99 sedersi. 93 tanto la picchiò: con uso assoluto di dare come qui al 47 e a VIII 9,62 n. 94 pesto, ammaccato: IX 9,30 n.; Sacchetti, LXXXVI: «la donna macera e tormentata». 95 Sono state ricordate le battiture subite da Martellino (II i), da Biondello e dalla moglie di Giosefo (IX 8 e 9): ma sono da tener presenti soprattutto l’aspro ricambio di busse fatto dalla Tessa a Calandrino (IX 5) e una scena della VII 8 molto simile, fino a riprese verbali (18-19: «’Ove se’ tu, rea femina?’ ... e quanto egli poté menare le mani e’ piedi tante pugna e tanti calci le diede, tanto che tutto il viso l’amaccò»). 96 accanto all’uscio, o meglio sotto l’uscio che era generalmente sollevato di qualche gradino sul livello stradale: II 2,17; IX 1,30. 97 proprio, solo in quel momento. 98 Tre endecasillabi di seguito sottolineano la concitazione della figura, ritratta con una di quelle serie di aggettivi cadenzati e rimati caratteristiche in simili momenti del D. (VI 10,17 n. e anche 21 n.). 99 Inf., XXXIV 83: «Disse ’1 maestro, ansando com’uom lasso». Letteratura italiana Einaudi 1074 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII Dove come alquanto ebbero riguardato, dissero: «Che è questo, Calandrino? Vuoi tu murare100, che noi veggiamo qui tante pietre? «E oltre a questo soggiunsero: «E monna Tessa che ha? E’ par che tu l’abbi battu56 ta; che novelle101 son queste?» Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta, e dal dolore della ventura102 la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccogliere lo spirito103 a formare intera la parola alla risposta104. Per che 57 soprastando105, Buffalmacco ricominciò: «Calandrino, se tu aveva altra ira106, tu non ci dovevi perciò straziare107 come fatto hai; ché, poi sodotti108 ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo, a guisa di due becconi109 nel Mugnon ci lasciasti, e venistitene, il che noi abbiamo forte per male; ma per certo questa fia la sezzaia110 che tu ci farai mai». 58 A queste parole Calandrino sforzandosi rispose: 55 100 far muri, fabbricare. che novità, che discorsi son questi? che storia è questa?: cfr. II 8,67 n. 102 dal dolore della fortuna (per lo scambio fra di e da cfr. VIII 5,4 n.). Il Dal Rio nota come il B. efficacemente ha fatto qui servire lo stesso participio f a t i c a t o a varie azioni materiali e morali. 103 ripigliare fiato (Purg., XXX 98). 104 Inf., VII 125 sg.: «Quest’inno si gorgoglian ne la strozza, | Ché dir nol posson con parola integra». 105 indugiando, rimanendo sospeso, cioè continuando a non parlare: V 2,42; VI intr., 9. 106 se avevi altro motivo di collera, se eri adirato per altra ragione. 107 dileggiare, schernire: I 7,10 n. 108 sedotti, lusingati: idiotismo corrente (cfr. per es. G. Villani, VIII 92; Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino 1305-1306, Firenze 1974, LXXVIII 8). 109 castroni, bestioni: come nella VIII 5,20: «dove egli doveva aver menati giudici, egli aveva menati becconi per aveme miglior mercato». 110 ultima: I 1,19 n.; Par., XVIII 93. Ripetizione dello parole di Bruno (47). 101 Letteratura italiana Einaudi 1075 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 59 60 61 «Compagni, non vi turbate, l’opera111 sta altramenti che voi non pensate. Io, sventurato! avea quella pietra trovata; e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste l’un l’altro, io v’era presso a men di diece112 braccia; e veggendo che voi ve ne venavate e non mi vedavate113, v’entrai innanzi114, e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto». E, cominciandosi dall’un de’ capi, infino la fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano, e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel’avessero, e poi seguitò: «E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli115 e noiosi que’ guardiani a volere ogni cosa vedere; e oltre a questo ho trovati per la via più miei compari e amici, li quali sempre mi soglion far motto e invitarmi a bere, né alcun fu che parola mi dicesse né mezza116, sì come quegli che non mi vedeano. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi ed ebbemi veduto117, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la virtù ad 111 la cosa, la faccenda: II 3,27 n. Per la forma cfr. Proemio, I n. 113 Le solite forme: cfr. II 5,23 n.; II 10,31n.; VIII 4,31 n. 114 camminai, mi misi innanzi a voi: V 7, 12 n. 115 seccanti, molesti: VII 6,6 n. 116 neppure mezza. Ma è un puro e maldestro vanto per accreditare la propria invisibilità (cfr. 50), come altri caratteristici della goffaggine di Calandrino (cfr. per es. 28-29; IX 5,35 sg. e 50). 117 Il trapassato remoto qui «sottolinea il contrasto fra quel diavolo di femina per a quale è stato vano ogni magico potere dell’elitropia, e le persone incontrate precedentemente, che non avevano mostrato di vedere Calandrino passare carico di pietre. Siamo al confine dove un fatto istituzionale si muta, grazie alla singolare abilità dello scrittore, in un fatto stilistico» (F. AGENO, Annotazioni sintattiche sul D., in «Studi sul B.», II, 1964). 112 Letteratura italiana Einaudi 1076 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII ogni cosa118: di che io, che mi poteva dire il più avventurato uom di Firenze, sono rimaso il più sventurato; e 62 per questo l’ho tanto battuta quant’io ho potuto menar le mani119, e non so a quello che io mi tengo120 che io non le sego le veni121; che maladetta sia l’ora che io prima la vidi e quand’ella mi venne in questa casa!» E raccesosi nell’ira, si voleva levar. per tornare a batterla da capo. 63 Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano122 quello che Calandrino diceva, e avevano sì gran voglia di ri64 dere che quasi scoppiavano. Ma, vedendolo furioso levare123 per battere un’altra volta la moglie, levatiglisi allo ’ncontro124 il ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver la donna, ma egli che sapeva che le femine facevano perdere la virtù alle cose e non le aveva detto che ella si guardasse d’apparirgli innanzi quel giorno: il quale avvedimento Idio gli aveva tolto125 o per ciò che la ventura non doveva esser sua, o perch’egli aveva in animo d’ingannare i suoi compagni, a’quali, come s’avvedeva d’averla trovata, il doveva pa65 lesare. E dopo molte parole, non senza gran fatica, la dolente donna riconciliata con essolui, e lasciandol malinconoso colla casa piena di pietre, si partirono. – 118 Antico e popolare pregiudizio, consacrato anche in proverbi, e forse disceso dalla narrazione biblica della seduzione di Eva. 119 Sempre la solita frase (52 n.). 120 non so a che fine, perché mi contengo, mi trattengo: cfr. II 5,53 n. 121 Per questi plurali in -i di femminili in -a cfr. VII 5,47 n. 122 confermavano. 123 «In forma non riflessiva dopo il verbum sentiendi»(Contini). 124 andatigli contro. 125 accorgimento, cautela Dio non gli aveva permesso di avere: cfr. X 8,65. Letteratura italiana Einaudi 1077 NOVELLA QUARTA 1 Il proposto di Fiesole ama una donna vedova: non è amato da lei e, credendosi giacer con lei, giace con una sua fante, e i fratelli della donna vel fanno trovare al vescovo suo1. 2 Venuta era Elissa alla fine della sua novella 2, non senza gran piacere di tutta la compagnia avendola raccontata, quando la reina, ad Emilia voltatasi, le mostrò voler che ella appresso d’Elissa la sua raccontasse, la quale prestamente così cominciò: – Valorose donne, quanto i preti e’ frati e ogni cherico sieno sollecitatori3 delle menti nostre, in più novelle dette mi ricorda essere mostrato; ma per ciò che dir non se ne potrebbe tanto che ancora più non ne fosse4, io, oltre a quelle, intendo di dirvene una d’un proposto5, il quale, malgrado di tutto il mondo, voleva 3 1 Qualche antecedente dell’intrigo centrale di questa novella già è rintracciabile nella letteratura classica: nella Casina di Plauto, nel racconto ovidiano di Anna Perenna e di Marte (Fasti, III 667 sgg.), in una declamazione di Quintiliano (CCCLXIII: Vestiplica pro domina). Ma l’astuzia della sostituzione prende colori e svolgimento molto simili a questa novella in un fabliau, Du prestre et d’Alison di Guglielmo il Normanno (Recueil général, II 31; BÉDIER, pp. 120 e 468). Per gli elementi popolari e la grande fortuna del tema (ripreso in qualche modo dal Sercambi, XXXIII): cfr. Thompson, K 1223, 1317, 1512 sgg., e Thompson e Rotunda, K 1228 per il topos della sostituzione della serva (cfr. VII 8). Cfr. in gen. anche R. WENDRINER, Die Quellen von B. Dovizi’s Calandria, in Abbandlungen H. Prof. Dr. A. Tobler, Halle 1895. 2 O si deve sottintendere un era o il gerundio (essendo venuta) è indipendente: cfr. III 8,2 n. 3 Con un senso amoroso e peccaminoso, come altrove (qui al 9; e VII 2,8; VII 3,13; VII 6,6 ecc.). Altri invece: quanto abbiano sollecitato le nostre menti, cioè qual ricca materia abbiano prestato alla nostra memoria per il nostro novellare (Marti). «Nota pe’ cherici» (M.). 4 non ne restasse da raccontare. 5 prevosto. Letteratura italiana Einaudi 1078 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 4 5 6 7 che una gentil donna vedova gli volesse bene o volesse ella o no; la quale, si come molto savia, il trattò sì come egli era degno. Come ciascuna di voi sa, Fiesole, il cui poggio noi possiamo di quinci vedere6, fu già antichissima città e grande, come che oggi tutta disfatta7 sia, né per ciò è mai cessato che vescovo avuto non abbia8, e ha ancora. Quivi vicino alla maggior chiesa9 ebbe già una gentil donna vedova, chiamata monna Piccarda10, un suo podere con una casa non troppo grande; e per ciò che la più agiata donna del mondo non era, quivi la maggior parte dell’anno dimorava11 e con lei due suoi fratelli, giovani assai dabbene e cortesi. Ora avvenne che, usando12 questa donna alla chiesa maggiore ed essendo ancora assai giovane e bella e piacevole, di lei s’innamorò sì forte il proposto della chiesa13, che più qua né più là non vedea14. E dopo alcun tempo fu di tanto ardire, che egli medesimo disse a questa donna il piacer suo, e pregolla che ella dovesse esser contenta del suo amore e d’amar lui come egli lei amava. Era questo proposto d’anni già vecchio ma di senno giovanissimo, baldanzoso e altiero, e di sé ogni gran 6 Poiché si immagina che i novellatori siano sul poggio di Camerata (III intr., 3 n.). 7 in decadenza, in rovina: cfr. VI 10,27 n. e Par., XVI 76. 8 è mai mancato vescovo, o non ha mai smesso di avere vescovo: costrutto impersonale non corrente. 9 Cioè il Duomo, sulla piazza di Fiesole: cfr. II 5,64 n. 10 Non v’è alcun elemento di possibile identificazione: il nome era assai comune nella Firenze del Due-Trecento. 11 Per economia e secondo un uso riflesso anche nella V 9 (78 e 10 n.). 12 essendo assidua. 13 Il Manni propose – ma senza argomento alcuno – di identificarlo con «Messer Tebaldo», che fu prevosto di Fiesole dal 1282 al 1327. 14 Espressione solita: per es. VII 9,7; X 6,24. Letteratura italiana Einaudi 1079 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 8 9 cosa presummeva, con suoi modi e costumi pieni di scede15 e di spiacevolezze, e tanto sazievole e rincrescevole che niuna persona era che ben gli volesse16; e se alcuno ne gli voleva poco, questa donna era colei, ché non solamente non ne gli voleva punto, ma ella l’aveva più in odio che il mal del capo; per che ella, sì come savia, gli rispose: «Messere, che voi m’amiate mi può esser molto caro, e io debbo amar voi e amerovvi volentieri; ma tra il vostro amore e ’l mio niuna cosa disonesta dee cader mai. Voi siete mio padre spirituale e siete prete, e già v’appressate molto bene alla vecchiezza, le quali cose vi debbono fare e onesto e casto; e d’altra parte io non son fanciulla, alla quale questi innamoramenti steano oggimai bene, e son vedova; ché sapete quanta onestà nelle vedove si richiede17; e per ciò abbiatemi per iscusata, che al modo che voi mi richiedete io non v’amerò mai, né così voglio essere amata da voi». Il proposto, per quella volta non potendo trarre da lei altro, non fece come sbigottito o vinto al primo colpo18, ma, usando la sua trascutata prontezza19, la sollicitò molte volte e con lettere e con ambasciate, e anco- 15 smorfie, svenevolezze: Concl., 23: «prediche ... piene di motti e di ciance e di scede»; Par., XXIX 115 «con motti e con iscede» e il Buti chiosa il secondo sostantivo «detti beffevoli che strazieggiano e contraffanno lo parlare altrui». 16 Ritratto simile a quello di un altro stucchevole e fastidioso innamorato, Lambertuccio (VII 6,6: «spiacevole uomo e sazievole»), o della Cesca da Celatico (VI 8,5: «spiacevole, sazievole e stizzosa ... ch’a sua guisa niuna cosa si poteva fare»), e delineato con analoghe sottolineature rimate. 17 «Dell’onestà richiesta alla vedova discorre a lungo, tra gli altri, Francesco da Barberino nel suo Reggimento e costumi di donna» (Sapegno), precisamente nelle parti VI e VII. 18 come uno che fosse rimasto spaventato o vinto al primo assalto (colpo, con allusione alla singolar tenzone equestre) (Marti). 19 tracotante, smodata (VI 2,1 n.) improntitudine, sfacciataggine: cfr. «impronto proposto» al 37 n. Letteratura italiana Einaudi 1080 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII ra egli stesso quando nella chiesa la vedeva venire20. Per che, parendo questo stimolo21 troppo grave e troppo noioso alla donna, si pensò di volerlosi levar da dosso per quella maniera la quale egli meritava, poscia che altramenti non poteva; ma cosa alcuna far non volle, che 22 10 prima co’ fratelli nol ragionasse. E detto loro ciò che il proposto verso lei operava, e quello ancora che ella intendeva di fare, e avendo in ciò piena licenza da loro, ivi a pochi giorni andò alla chiesa come usata era. La quale come il proposto vide, così se ne venne verso lei e, come far soleva, per un modo parentevole23 seco entrò in parole. 11 La donna, vedendol venire, e verso lui riguardando, gli fece lieto viso, e da una parte tiratisi, avendole il proposto molte parole dette al modo usato, la donna dopo 12 un gran sospiro disse «Messere, io ho udito assai volte che egli non è alcun castello sì forte che, essendo ogni dì combattuto 24, non venga fatto d’esser preso una volta, il che io veggo molto bene in me essere avvenuto. Tanto, ora con dolci parole e ora con una piacevolezza e ora con un’altra, mi siete andato d’attorno, che voi m’avete fatto rompere il mio proponimento, e son disposta, poscia che io così vi piaccio, a volere esser vostra». Il proposto tutto lieto disse: «Madonna, gran mercè; 13 e a dirvi il vero, io mi son forte maravigliato come voi vi 18 20 Proprio come «il prete ... sollicitatore o inducitore a male» che il Passavanti descrive nel suo specchio (V 4). 21 Nel solito particolare senso amoroso: III 3,23 n. 22 Neutro accordato a e o sa: cfr. II 3,25 n. 23 familiare, confidenziale, come cioè fosse stato un parente: X 8,89: «e fattasi parentevoie e amichevole festa ...»; Morelli, Ricordi, p. 162: «parentevole, domestico, bello novellatore». 24 Preso d’assalto: G. Villani, IX 118: «assediarono la città di Noli combattendola per più volte». Letteratura italiana Einaudi 1081 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII siete tanto tenuta25, pensando che mai più di niuna non m’avvenne26; anzi ho io alcuna volta detto: ‘ Se le femine fossero d’ariento, elle non varrebbon denaio27, per ciò che niuna se ne terrebbe a martello28 ’ . Ma lasciamo andare ora questo: quando e dove potrem noi essere insieme?» 14 A cui la donna rispose: «Signor mio dolce, il quando potrebbe essere qual ora più ci piacesse, perciò che io non ho marito a cui mi convenga render ragion delle notti, ma io non so pensare il dove». 15 Disse il proposto: «Come no? O in casa vostra?» Rispose la donna: «Messer, voi sapete che io ho due 16 fratelli giovani, li quali e di dì e di notte vengono in casa con lor brigate, e la casa mia non è troppo grande, e per ciò esser non vi si potrebbe, salvo chi non volesse starvi29 a modo di mutolo, senza far motto o zitto30 alcuno e al buio a modo di ciechi; vogliendo far così, si potrebbe, per ciò che essi non s’impacciano nella camera mia; ma è la loro sì allato alla mia, che paroluzza sì cheta31 non si può dire che non si senta». 17 Disse allora il proposto: «Madonna, per questo non rimanga32 per una notte per due, intanto che io pensi dove noi possiamo essere in altra parte con più agio». 25 contenuta, trattenuta (dal cedermi), avete tanto resistito: III 6,2 n. 26 «Deh datti la mala pasqua, asino, pazzo, villanaccio» (M.). Cioè la dodicesima parte del soldo: cfr. II 2,7 n. 28 nessuna resisterebbe al martello (cioè alle insistenze); sicché non sarebbero d’un argento adatto a coniare moneta. 29 eccetto che volendo starvi. «Poteva dirsi anche chi non volesse lasciando il salvo, perché il chi in questi parlari ha forza di condizionale e vai quasi se alcuno» (Fanfani). 30 zittio, sussurro, minimo cenno di voce: M. Villani, IX 75: «chetamente e senza fare zitto ... uscì di Bologna». 31 sommessa: X 8,48 n. 32 questo non sia d’impedimento: III 6,41 n.; V 8,43 n. 27 Letteratura italiana Einaudi 1082 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 19 20 21 22 La donna disse: «Messere, questo stea pure a voi33; ma d’una cosa vi priego: che questo stea segreto, che mai parola non se ne sappia». Il proposto disse allora: «Madonna, non dubitate di ciò, e se esser puote, fate che istasera noi siamo insieme». La donna disse: «Piacemi»; e datogli l’ordine come e quando venir dovesse, si partì e tornossi a casa. Aveva questa donna una sua fante, la quale non era però troppo giovane, ma ella34 aveva il più brutto viso e il più contraffatto che si vedesse mai; ché ella aveva il naso schiacciato forte e la bocca torta e le labbra grosse e i denti mal composti 35 e grandi, e sentiva del guercio36, né mai era senza mal d’occhi, con un color verde e giallo, che pareva che non a Fiesole ma a Sinigaglia37 avesse fatta la state; e oltre a tutto questo era sciancata e un poco monca dal lato destro; e il suo nome era Ciuta38; e perché così cagnazzo39 viso avea, da 33 questo sia vostro pensiero, vostra cura: e per la forma stea corrente nel B. cfr. Teseida, p. CXLIII e Amorosa Visione, p. CXXXVII. 34 «Dopo n o n e r a t r o p p o g i o v a n e il m a farebbe aspettare una qualità positiva: seguono invece altri difetti» (Petronio). 35 Il ritratto fortemente caricaturato si sviluppa attraverso endecasillabi, settenari, quinari: un sottile contrappuntato ritmico prediletto dal B. in casi simili (per es. VI 10,17 e 21; VIII 5,7). Ha anche tutti i caratteri di una tradizionale vituperatiti (cfr. E. FARAL, Les Arts Poétiques ecc., Paris 1923, pp. 126, 131, 210, 225). 36 era piuttosto guercia: cfr. IV 2,14 n. 37 Cioè in una regione allora malarica e dove l’estate si pigliavan le febbri. Marti cita Cenne «Di agosto vi reposo eri acre bella | Eri Sinigallia, che mi par ben fina». 38 Coincidenza curiosa: in un atto del 1305 di Ser Grimaldo di Compagno (Archivio di Firenze: G 676) è nominata «Da Ciuta vidua penzochera uxor quondam Cianghelli de Fesulis». C i u t a è accorciatura di Ricevuta. 39 livido, di color verde giallo: Inf., XXXII 70 sg.: «vid’io mille visi cagnazzi | Fatti per freddo»; Sacchetti, XCII. Letteratura italiana Einaudi 1083 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII ogn’uomo era chiamata Ciutazza40; e benché ella fosse contraffatta della persona, ella era pure alquanto mali23 ziosetta. La quale la donna chiamò a sé e dissele: «Ciutazza, se tu mi vuoi fare un servigio stanotte, io ti donerò una bella camicia nuova». La Ciutazza, udendo ricordar la camicia, disse: 24 «Madonna, se voi mi date una camicia, io mi gitterò nel fuoco, non che altro». 25 «Or ben,» disse la donna «io voglio che tu giaccia stanotte con uno uomo entro il letto mio, e che tu gli faccia carezze, e guarditi ben di non far 27 motto, sì che tu non fossi sentita da’ fratei miei, ché sai che ti dormono allato; e poscia io ti darò la camicia». 26 La Ciutazza disse: «Sì dormirò io con sei, non che con uno, se bisognerà». Venuta adunque la sera, messer lo ploposto41 venne, 27 come ordinato gli era stato, e i due giovani, come la donna composto42 avea, erano nella camera loro e facevansi ben sentire; per che il proposto, tacitamente e al buio nella camera della donna entratosene, se n’andò, come ella gli disse, al letto, e dall’altra parte la Ciutazza, 28 ben dalla donna informata di ciò che a far avesse. Messer lo proposto, credendosi aver la donna sua allato, si recò in braccio la Ciutazza, e cominciolla a baciar senza dir parola, e la Ciutazza lui; e cominciossi il proposto a 40 Altra sghignazzante serie di quattro endecasillabi divisi a due a due da un lento settenario (e i l s u o n o m e e r a C i u t ’ e ), conclusa da un sonante peggiorativo. «II nome almeno è bello si che basta» (M.); ed è forse usato con valore antonomastico dal Sacchetti nella sua frottola burlesca, CLIX 326 (C i u t a è diminutivo di Bencivenuta). Per simili desinenze caricaturali cfr. VIII 2,9 n. 41 Metaplasmo vernacolare e rusticano usato qui – e più avanti (28,32) caricaturalmente. 42 combinato, fissato: III 8,36 n.; V 5,13 n. Letteratura italiana Einaudi 1084 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII sollazzar con lei, la possession pigliando de’ beni lungamente disiderati43. 29 Quando la donna ebbe questo fatto, impose a’ fratelli che facessero il rimanente di ciò che ordinato era; li quali, chetamente della camera usciti, n’andarono verso la piazza, e fu lor la fortuna in quello che far volevano più favorevole che essi medesimi non dimandavano44; per ciò che, essendo il caldo grande45, aveva domandato il vescovo46 di questi due giovani, per andarsi infino a 30 casa lor diportando47 e ber con loro. Ma come venir gli vide, così detto loro il suo disidero, con loro si mise in via, e in una lor corticella fresca entrato, dove molti lumi accesi erano, con gran piacer bevve d’un loro buon vino48. 31 E avendo bevuto, dissono i giovani: «Messer, poi che tanta di grazia n’avete fatto, che degnato siete di visitar questa nostra piccola casetta49, alla quale noi venavamo50 ad invitarvi, noi vogliam che vi piaccia di voler vedere una cosetta che noi vi vogliam mostrare». 43 «Tutto ’l danno non fu della Ciutazza, anzi ebbe la buona notte» (M.). 44 Frase che ritorna con minime varianti spesso in queste novelle di intrigo (II 4,10; II 5,38; VIII 3,50 ecc.). 45 Posizione eccezionale dell’articolo, consueta in frasi simili (II 10,11 n.). 46 Nonostante le varie ricerche e ipotesi del Manni non è possibile dare alcun profilo storico a questa figura. Troppo vaga è l’indicazione e troppi i Vescovi di Fiesole negli anni in cui può essere immaginata l’azione: fra i quali è anche la figura gagliarda e arguta di quell’Antonio d’Orso di cui già nella VI 3 (cfr. 6 n.), e che passato a Firenze pubblicò costituzioni «ad reformationem cleri». 47 passeggiando per svago: V intr., 2: e per la costruzione del gerundio dipendente da andare cfr. V 3,12 n. 48 Limpida freschezza, in quel caldo grande, che può ricordare la nitidissima scena della novella di Cisti (VI 2). 49 Eco delle parole del centurione evangelico (Matteo 8.8, Luca 7.6). 50 Cfr. VIII 3,58 n. Letteratura italiana Einaudi 1085 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII Il vescovo rispose che volentieri; per che l’un de’ giovani, preso un torchietto51 acceso in mano e messosi innanzi, seguitandolo il vescovo e tutti gli altri, si dirizzò verso la camera dove messer lo proposto giaceva con la Ciutazza. Il quale, per giugner tosto, s’era affrettato di cavalcare52, ed era, avanti che costor quivi venissero, cavalcato già delle miglia più di tre 53; per che istanchetto, avendo, non ostante il caldo, la Ciutazza in 33 braccio, si riposava. Entrato adunque con lume in mano il giovane nella camera, e il vescovo appresso e poi tutti gli altri, gli fu mostrato il proposto con la Ciutazza in 34 braccio54. In questo55 destatosi messer lo proposto, e veduto il lume e questa gente da tornosi56, vergognandosi forte e temendo, mise il capo sotto i panni57. Al quale il vescovo disse una gran villania, e fecegli trarre il 35 capo fuori e vedere con cui giaciuto era. Il proposto, conosciuto lo ’nganno della donna, sì per quello e sì per lo vituperio che aver gli parea, subito divenne il più doloroso58 uomo che fosse mai; e per comandamento del vescovo rivestitosi, a patir gran penitenza del peccato commesso con buona guardia ne fu mandato alla casa59. Volle il vescovo appresso sapere come questo fosse avvenuto, che egli quivi con la Ciutazza fosse a giacere an- 32 51 52 piccola torcia: III 2,12 n. «O pur ben dich’io, tutto il mal non fu della Ciutazza» (M.). 53 Nel solito senso equivoco (III 6,37 n.; V 4,48; VIII 7,102). Una scena che può ricordare quella centrale della V 6: ma soprattutto, per il simile senso grottesco – cui forse non fu insensibile l’Ariosto della novella di Giocondo – quella finale della IX 2 o l’inizio del XIX dell’Amorosa Visione. 55 In questo frattempo. 56 dattorno a sé. Non raro il pronome personale enclitico con preposizione o avverbio: Sacchetti, LXXXVII: «allatogli». 57 le coperte: cfr. VI 18,8. 58 dolente: II 5,55 n.; VIII 7,21: e cfr. anche simili frasi esclamative a II 10,14; IV 9,23; IV 10,16; V 1,38. 59 casa sua. 54 Letteratura italiana Einaudi 1086 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII dato. I giovani gli dissero ordinatamente ogni cosa. Il che il vescovo udito, commendò molto la donna e i giovani altressì, che, senza volersi del sangue de’ preti imbrattar le mani60, lui sì come egli era degno avean trattato. 37 Questo peccato gli fece il vescovo piagnere quaranta dì, ma amore e isdegno gliele fecero piagnere più di quarantanove61, senza che, poi ad un gran tempo62, egli non poteva mai andar per via che egli non fosse da’ fanciulli mostrato a dito, li quali dicevano: «Vedi colui che giacque con la Ciutazza»; il che gli era sì gran noia, che egli ne fu quasi in su lo ’mpazzare. E in così fatta guisa la valente donna si tolse da dosso la noia dello impronto63 proposto; e la Ciutazza guadagnò la camiscia64. – 36 60 Cfr. II 6,39 n.; IV 1,3 n. Non un numero preciso, ma una ripresa scherzosa del precedente «quaranta»: il n o v e è forse aggiunto per suggestione biblica o semplicemente per accentuazione scherzosa. 62 senza dire che poi per lungo tempo. 63 importuno, petulante, sfacciato: cfr. p r o n t e z z a al 9 n. e Pulci, Morgante, XVIII 130. 64 «E la buona notte» (M). 61 Letteratura italiana Einaudi 1087 NOVELLA QUINTA 1 Tre giovani traggono le brache a un giudice marchigiano in Firenze, mentre che egli, essendo al banco, teneva ragione1. 2 Fatto aveva Emilia fine al suo ragionamento2, essendo stata la vedova donna commendata da tutti, quando la reina, a Filostrato guardando, disse: – A te viene ora il dover dire. – Per la qual cosa egli prestamente rispose sé essere apparecchiato, e cominciò: – Dilettose donne, il giovane che Elissa poco avanti nominò, cioè Maso del Saggio3, mi farà lasciare stare una novella la quale io di dire intendeva, per dirne una di lui e d’alcuni suoi compagni, la quale ancora che disonesta non sia, per ciò che vocaboli in essa s’usano che voi d’usar vi vergognate4, nondimeno è ella tanto da ridere, che io la pur dirò. 3 1 sedendo in tribunale, al banco dei giudici, amministrava la giustizia. Nessun vero antecedente per questa novella di carattere tipicamente fiorentino: ma non dovevano esser rare simili burle a giudici forestieri (cfr. per es. Sacchetti, XLII, CXXVII, CXXXIX, CXLV, CLXIII; e anche De vulgari eloquentia, I XI 3 e nota del Marigo). Per possibili riferimenti popolareschi cfr. Thompson, K 1285, p. 421; per il tema, diffuso nel Medioevo, delle «brache», IX 2,1 n.; per il ridiculum della nudità involontaria prediletto nel Medioevo cfr. F. R. CURTIUS, op. cit., pp. 533 sg. (prendeva le mosse spesso dal versetto di Geremia XIII 26 «nudavi femora tua contra faciem tuam et apparuit ignominia tua»). Anche un fabliau di Jean de Boves (Recueil cit., IV 97) narra di una gara di bravura tra ladri in cui uno riesce a sfilare le brache ad un altro. 2 Purg., XVIII 1 sg.: «Posto avea fine al suo ragionamento | l’alto dottore»; e cfr. VII 5,2 n. 3 3 Cfr, VIII 3,5 n. 4 e sebbene questa novella non sia sconveniente per quanto siano usati in essa termini che voi avete vergogna di usare. Per ciò che è concessivo, analogamente a perché (cfr. II 5,31 n.; III 1,24 n.). Non lo comprende il Mannelli che chiosa: «quel non v’è troppo». Si potrebbe però anche intendere p e r c i ò c h e per il fatto Letteratura italiana Einaudi 1088 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 4 5 6 Come voi tutte potete avere udito, nella nostra città vengono molto spesso rettori marchigiani5, li quali generalmente sono uomini di povero cuore e di vita tanto strema6 e tanto misera, che altro non pare ogni lor fatto che una pidocchieria; e per questa loro innata miseria e avarizia, menan seco e giudici e notari7 che paion uomini levati più tosto dallo aratro o tratti dalla calzoleria, che delle8 scuole delle leggi. Ora, essendovene9 venuto uno per podestà, tra gli altri molti giudici che seco menò, ne menò uno il quale si facea chiamare messer Niccola da San Lepidio10, il qual pareva più tosto un magnano11 che altro a vedere, e fu posto costui tra gli altri giudici ad udire le quistion criminali12. E come che. Già i Deputati del resto: «ella non è disonesta, ma dubitò Filostrato ch’ella non fusse tale, o almanco dovesse parere, per alcune parole che mal volentieri nei ragionamenti di costumate persone si trasmettono»; o forse «ci è lasciata qualche parte che facilmente si sottintende, come sarebbe se si intendesse innanzi: ella può parere, perciò che vocaboli ecc.; ovver dopo perciocché vocaboli in essa s’usano, non si dovrebbe forse raccontare, nondimeno ecc.» (XCVIII). 5 Effettivamente molti podestà marchigiani registrano in quel periodo i Prioristi fiorentini e altri documenti del tempo (specialmente durante il vescovato di Francesco de’ Silvestri da Cingoli); e della goffaggine di uno di essi parla anche il Sacchetti (CXXVII). 6 di animo gretto, misero e di vita tanto ristretta, pitocca (V 9,31 n.): e cfr. VI 7,9: «di gran cuore era»; I 9,5: «era di si rimessa vita»; IV 7,6: «non fu ... di sì povero animo». 7 Cioè la «famiglia» di vari funzionari che i podestà conducevano seco per il disbrigo delle loro funzioni. 8 Per il frequente uso nel D. di di invece che da, specialmente coi participi passati, cfr. I 6,2 n.; VIII 3,56 n. 9 A Firenze. 10 Non figura, a quanto mi risulta, in nessun documento: è ricordato, per questa novella, dal Sacchetti, XLIX. San Lepidio o San Lupidio è in provincia di Ascoli, l’attuale Sant’Elpidio a Mare: proprio il frate marchigiano Antonio da San Lupidio volgarizzerà il De mulieribus del B. E per l’espressione si facea chiamare aveva nome cfr. VIII 2,8 n. 11 fabbro. 12 dirigere i processi penali: secondo la classica divisione dei Letteratura italiana Einaudi 1089 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 7 8 spesso avviene che, bene che i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a palagio13, pur talvolta vi vanno, avvenne che Maso del Saggio una mattina, cercando d’un suo amico, v’andò; e venutogli guardato là dove questo messer Niccola sedeva, parendogli che fosse un nuovo uccellone 14, tutto il venne considerando. E, come che egli gli vedesse il vaio tutto affumicato 15 in capo e un pennaiuolo16 a cintola, e più lunga la gonnella che la guarnacca17, e assai altre cose tutte strane da18 ordinato e costumato uomo19. Tra queste una, ch’è più notabile che alcuna dell’altre, al parer suo, ne gli vide, e ciò fu un paio di brache, le quali, sedendo egli e i panni per istrettezza standogli aperti dinanzi, vide che il fondo loro in fino a mezza gamba gli agiugnea20. Per che, senza star troppo a guardarle, lasciato quelgiudici nel comune fiorentino (civili e criminali). 13 Quello del podestà, per antonomasia (per es. II 1,22 n.; IV 6,32 n.). 14 strano, buffo babbeo: da essere uccellato, beffato: cfr. Canti carnascialeschi cit., glossario. 15 Di vaio (una varietà di scoiattolo bianco e grigio) portavano foderata la berretta giudici e medici (VIII 9,4): quello di Niccola era divenuto nero di untume e sudiciume (VI 10,21). 16 Scatola con penna e calamaio che giudici, notai ecc. portavano alla cintola: VII 8,46 n.; Sacchetti, CLIII. 17 Sopravveste larga e lunga da indossarsi sopra la gonnella cioè la veste: cfr. II 9,28 n. e II 5,68 n. (e per tutto questo abbigliamento misero e ridevele cfr. Merkel). 18 disadatte, sconvenienti a: Tesoro, III 443: «questa virtù non crede che alcuna cosa umana sia strana da lei». 19 uomo educato e dabbene. Une serie di tre endecasillabi divisi da un quinario sottolinea anche questo ritratto burlesco (cfr. VIII 4,21 n.). 20 giungeva, arrivava. Uno dei tipici anacoluti del B. (I 3,II n.); quel l e q u a l i , anticipato e sospeso, fissa meglio l’attenzione sull’oggetto che colpisce la fantasia canzonatoria di Maso. Non capi il Mannelli: «Quel l e q u a l i v’è troppo e vorrebe dire delle quali e poi non vi fosse quel nome lo r o». E per queste ridevoli e sconce fogge di vestire cfr. Esposizioni, V all. 31 sgg.; Sacchetti, CLXV. Letteratura italiana Einaudi 1090 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII lo che andava cercando, incominciò a far cerca nuova, e trovò due suoi compagni, de’quali l’uno aveva nome Ribi e l’altro Matteuzzo21, uomini ciascun di loro non meno sollazzevoli che Maso, e disse loro: «Se vi cal di me22, venite meco infino a Palagio, ché io vi voglio mostrare il più nuovo squasimodeo23 che voi vedeste mai». E con loro andatosene in Palagio, mostrò loro que9 sto giudice e le brache sue. Costoro dalla lungi cominciarono a ridere di questo fatto, e fattisi più vicini alle panche sopra le quali messer lo giudice stava, vider che sotto quelle panche molto leggiermente24 si poteva andare, e oltre a ciò videro rotta l’asse sopra la quale messer lo giudicio25 teneva i piedi, tanto che a grand’agio vi si poteva mettere la mano e ’l braccio. E allora Maso disse a’ compagni: «Io voglio che noi 10 gli traiamo quelle brache del tutto, per ciò che si può troppo bene». 11 Aveva già ciascun de’ compagni veduto come: per che, fra sè ordinato che dovessero fare e dire, la seguen21 «Ridi buffone ... fu piacevolissimo; e fu fiorentino, e molto si ridusse, come fanno li suoi pari, nelle Corte de’ signori lombardi e romagnuoli, perché con loro facea bene i fatti suoi, ché dava parole, e riceveva robe e vestimenti; e quando venia in Firenze, non guadagnando, ricorrea alcuna volta alle nozze, dove pur alcuna cosa leccava». Così il Sacchetti nella XLIX narrando proprio di due risposte burlesche a famigli del podestà e a giudici (altri motti suoi anche nella L). Nessuna notizia di Matteuzzo: probabilmente anch’egli buffone, della razza di Martellino, Stecchi e Marchese (II 1). R i b i potrebbe essere ipocoristico da Garibaldo, Ribaldo, Riberto. 22 Se mi volete bene, Se mi volete lare un piacere: IX 4,17. 23 minchione, babbeo: Sacchetti, CLXV: «... uno giudice che parca il più nuovo squasimodeo», e CXCII; Rime, CLIX 125; Pataffio, I 1: cfr. F. AGENO, Riboboli ecc., in «Studi di Filologia Italiana», x, 1952, p. 442. L’espressione significava spasimo di Dio. Per il sintagma a palagio cfr. VIII 2,14 n. 24 facilmente. 25 Metaplasmo di declinazione, di carattere popolare, con evidente senso beffardo. Letteratura italiana Einaudi 1091 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 12 13 14 te mattina vi ritornarono; ed essendo la corte molto piena d’uomini, Matteuzzo, che persona non se ne avvide26, entrò sotto il banco e andossene appunto sotto il luogo dove il giudice teneva i piedi. Maso dall’un de’lati accostatosi a messer lo giudice, il prese per lo lembo della guarnacca, e Ribi accostatosi dall’altro e fatto il simigliante, incominciò Maso a dire: «Messer27, o messere; io vi priego per Dio, che, innanzi che cotesto ladroncello, che v’è costì dallato, vada altrove, che 28 voi mi facciate rendere un mio paio d’uose29 le quali egli m’ha imbolate30, e dice pur di no, e io il vidi, non è ancora un mese, che le faceva risolare». Ribi dall’altra parte gridava forte: «Messere, non gli credete, ché egli è un ghiottoncello31, e perché egli sa che io son venuto a richiamarmi di lui d’una32 valigia la quale egli m’ha imbolata, ed egli è testè venuto e dice dell’uose, che io m’aveva in casa infin vie l’altrieri33. E se voi non mi credeste, io vi posso dare per testimonia34 la trecca mia da lato35, e la Grassa ventraiuola36, e un che va raccogliendo la spazzatura da Santa Maria a Verzaia37, che ’l vide quando egli tornava di villa38». Maso d’altra parte non lasciava dire a Ribi, anzi gri- 26 senza che nessuno se ne avvedesse. Titolo che spettava di diritto ai giudici. 28 Solita ripetizione di che dopo incidentale. 29 Calzature simili agli stivali. 30 rubate. Solita forma: I 1,14 n. 31 furfantello, bricconcello: IV 2,56 n. 32 a citarlo in giudizio per una: I 9,5 n. 33 da gran tempo. «L’altrieri vale per se stesso giorni fa: e aggiuntavi la particella moltiplicativa vie gli dà valore di un tempo assai lungo» (Fanfani), Cfr. III 3,23 n. 34 Forma non rara: VIII 7,104 n.; e anche Intr., 56 n. 35 la fruttivendola mia vicina, che abita accanto a me. 36 trippaia. 37 Chiesa a Porta San Frediano. 38 dalla campagna. 27 Letteratura italiana Einaudi 1092 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII dava, e Ribi gridava ancora. E mentre che il giudice stava ritto e loro più vicino per intendergli meglio, Matteuzzo, preso tempo 39 , mise la mano per lo rotto dell’asse, e pigliò il fondo delle brache del giudice, e tirò giù forte. Le brache ne venner giuso incontanente, 15 per ciò che il giudice era magro e sgroppato40. Il quale, questo fatto sentendo e non sappiendo che ciò si fosse, volendosi tirare i panni dinanzi e ricoprirsi e porsi a sedere, Maso dall’un lato e Ribi dall’altro pur tenendolo e 16 gridando forte: «Messer, voi fate villania a non farmi ragione, e non volermi udire, e volervene andare altrove; di così piccola cosa, come questa è, non si dà libello in questa terra41»; e42 tanto in queste parole il tennero per li panni, che quanti nella corte43 n’erano s’accorsero essergli state tratte le brache. Ma Matteuzzo, poi che alquanto tenute l’ebbe, lasciatele, se n’uscì fuori e andossene senza esser veduto. Ribi, parendogli di aver assai fatto, disse: «Io fo 17 boto a Dio d’aiutarmene al sindacato44!». 39 colto il momento opportuno: II 5,78 n. senza fianchi (groppe: IX 10,18 n.). II termine è usato per i cavalli: qui caricatureggia efficacemente la figura del giudice magro e sfiancato come una vecchia rozza. 41 a non si presentano atti scritti, non si tratta per via di scritture in questa città: cfr. Sacchetti, CXLV: G. SALVIOLI, Storia della procura civile e criminale, Bologna 1898, II, p. 350. È espressione di tecnica giudiziaria. 42 ecco che: solito valore della congiunzione in ripresa: cfr. I 1,39 n. 43 tribunale. 44 di rifarmene al momento del sindacato, cioè del rendiconto che del proprio operato i giudici, come tutti i magistrati del Comune fiorentino, dove vano fare al termine del loro ufficio, a norma degli Ordinamenti (Rubricario del 1344, rubr. 32); e ai «sindacatori» i cittadini potevano presentare i loro ricorsi. Cfr. Compagni, I 14 e 19 e l’ampia nota di I. DEL LUNGO, in RR. II.SS.2, IX 2, p. 41. È un’altra espressione tecnico-amministrativa. 40 Letteratura italiana Einaudi 1093 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 18 19 20 E Maso dall’altra parte, lasciatagli la guarnacca disse: «No, io ci pur verrò45 tante volte, che io vi troverrò così impacciato46 come voi siete paruto stamane «; e l’uno in qua e l’altro in là, come più tosto poterono, si partirono. Messer lo giudice, tirate in su le brache in presenza d’ogni uomo, come se da dormir si levasse accorgendosi pure allora del fatto, domandò dove fossero andati quegli che dell’uose e della valigia avevan quistione; ma, non ritrovandosi, cominciò a giurare per le budella di Dio47 che e’ gli conveniva48 cognoscere e saper se egli s’usava a Firenze di trarre le brache a’ giudici, quando sedevano al banco della ragione49. Il podestà d’altra parte, sentitolo, fece un grande schiamazzio; poi per suoi amici mostratogli50 che questo non gli era fatto se non per mostrargli che i fiorentini conoscevano che, dove egli doveva aver menati giudici, egli aveva menati becconi51 per averne miglior mercato52, per lo miglior si tacque53, né più avanti andò la cosa per quella volta. 45 tornerò qui ancora. occupato o preoccupato, frastornato: cfr. V 9,15 n. 47 Modo di giurare o imprecare simile a quello più frequente nel D., «per lo corpo di Cristo», e usato anche dal giudice del Sacchetti (XLIX). 48 che gli piaceva, o meglio gli sarebbe piaciuto. 49 giustizia. Proteste e imprecazioni riprese dal giudice Presentato dal Sacchetti (XLIX): e cfr. sommario. È l’ultima nota di quell’espressivismo linguistico, basato sul linguaggio giuridico, estraniato per contrasto, che caratterizza tutta la novella (cfr. Introduzione a questa edizione, pp. XXVIII sg.). 50 essendogli stato dimostrato. 51 bestioni: VIII 3,57 n. 52 perché gli costavano meno, perché ci risparmiava: VIII 2,35 n. 53 ritenne cosa migliore tacere. 46 Letteratura italiana Einaudi 1094 NOVELLA SESTA 1 Bruno e Buffalmacco imbolano1 un porco a Calandrino; fannogli fare la sperienzia da ritrovarlo2 con galle di gengiovo3 e con vernaccia, e a lui ne danno due, l’una dopo l’altra, di quelle del cane confettate in aloè4, e pare che l’abbia avuto egli stesso: fannolo ricomperare5, se egli non vuole che alla moglie il dicano6. 2 Non ebbe prima la novella di Filostrato fine, della quale molto si rise, che la reina a Filomena impose che seguitando dicesse; la quale incominciò: – Graziose donne, come Filostrato fu dal nome di Maso tirato a dover dire la novella la quale da lui udita avete, così né più né men son tirata io da quello di Calandrino e de’ compagni suoi a dirne un’altra di loro, la qual, sì come io credo, vi piacerà. Chi Calandrino, Bruno e Buffalmacco fossero non bisogna che io vi mostri, ché assai l’avete di sopra udito; 3 4 1 rubano: cfr. I 1,14 n. l’esperimento, il sortilegio per ritrovarlo. pallottole di zenzero: cfr. 35; e per la sperienza: 32 sgg. e nn. 4 di quelle di zenzero del cane preparate in aloè: cfr. 39 n. 5 riscattare, pagar la taglia: secondo un senso assai comune già notato a I,35 n.; e cfr. X 9,52 n. 6 Nessun antecedente è stato trovato per questa novella appartenente, come la VIII 3, al caratteristico nucleo di aneddotica municipale (e come tale riferita dal BALDINUCCI, op. cit.). Gli accostamenti a spunti della narrativa orientale (Pantschatantra, ed. Benfey cit., I, pp. 356 sgg.) o occidentale (BÉDIER, Fabliaux, pp. 448 sgg.) hanno valore più che generico; e così quelli a temi popolareschi in generale posteriori o addirittura a imitazioni, dal Bracciolini al D’Annunzio (cfr. Aarne, 1792; Thompson e Rotunda, K 343.2 sgg., 401; J 2318). Tuttavia un vago raffronto può essere stabilito con un episodio del Roman de Renart (XV). Cfr. 32 sgg. e no. anche per la tradizione dell’esperienza che sta al centro della novella. 2 3 Letteratura italiana Einaudi 1095 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 5 6 7 e per ciò, più avanti faccendomi7, dico8 che Calandrino aveva un suo poderetto non guari lontano da Firenze, che in dote aveva avuto della moglie, del quale tra l’altre cose che su vi ricoglieva9, n’aveva ogn’anno un porco, ed era sua usanza sempre colà di dicembre 10 d’andarsene la moglie ed egli in villa, e ucciderlo e quivi farlo salare. Ora avvenne una volta tra l’altre che, non essendo la moglie ben sana, Calandrino andò egli solo ad uccidere il porco; la qual cosa sentendo Bruno e Buffalmacco, e sappiendo che la moglie di lui non v’andava, se n’andarono ad un prete loro grandissimo amico, vicino di Calandrino, a starsi con lui alcun dì. Aveva Calandrino, la mattina che costor giunsero il dì11, ucciso il porco, e vedendogli col prete, gli chiamò e disse: «Voi siate i ben venuti. Io voglio che voi veggiate che massaio 12 io sono«; e menatigli in casa, mostrò loro questo porco. Videro costoro il porco esser bellissimo, e da Calandrino intesero che per la famiglia sua il voleva salare. A cui Brun disse: «Deh! come tu se’ grosso13! Vendilo, e godianci14 i denari; e a mogliata15 dì che ti sia stato imbolato». 7 proseguendo il mio dire, inoltrandomi nel narrare. Inizio di narrazione su di un’agile sequenza di quattro endecasillabi (elidendo: udit’e). Per i tre protagonisti cfr. VIII 3,4 nn. 9 ne ricavava, ne ritraeva: VI 10,10 n. 10 verso dicembre: cfr. VIII 9,86: «colà un poco dopo l’avemaria»; Petrarca, CCXXXIX 1: «Là ver’ l’aurora». 11 la mattina stessa del giorno in cui giunsero: di contrapposto a mattina accenna a giorno avanzato: VI 5,11 n. 12 amministratore: V 9,43 n. 13 sciocco: III 3,8 n. 14 Riflessivo transitivo come al 12: Cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 144. 15 tua moglie: con la enclisi popolaresca del possessivo, solita in simili casi nel toscano: cfr. qui 27 «mogliema» e 28; V 5,17 n.; VIII 7,35: «fratelmo». Cfr. Rohlfs, 430. 8 Letteratura italiana Einaudi 1096 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII Calandrin disse: «No, ella nol crederrebbe, e caccerebbemi16 fuor di casa; non v’impacciate17, ché io nol farei mai». Le parole furono assai, ma niente montarono18. Calandrino gl’invitò a cena cotale alla trista19, sì che costoro non vi vollon cenare, e partirsi da lui. 9 Disse Bruno a Buffalmacco: «Vogliangli noi imbolare stanotte quel porco?» 10 Disse Buffalmacco: «O come potremmo noi?» Disse Bruno: «Il come ho io ben veduto, se egli nol 11 muta20 di là ove egli era testé». 12 «Adunque,» disse Buffalmacco «faccianlo; perché nol faremo noi? E poscia cel goderemo qui insieme col domine21». Il prete disse che gli era molto caro. Disse allora 13 Bruno: «Qui si vuole usare un poco d’arte22. Tu sai, Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come egli bee volentieri quando altri paga; andiamo e menianlo23 alla taverna, e quivi il prete faccia vista di pagare tutto per onorarci e non lasci pagare a lui nulla; egli si ciurmerà24, e verracci troppo ben fatto 25 poi, per ciò 8 16 Forma popolaresca e contadinesca, analoga ad altre attribuite a Calandrino (cfr. VIII 3,31 n.). A meno di pensare a una terza plurale con assimilazione (caccerebbonmi), accordata a senso con un soggetto sottinteso, come «i miei familiari». 17 non intromettetevi, non prendetevi questa briga: V 5,39 n. 18 non giovarono, non conclusero nulla. Espressione solita: cfr. per es. II 9,21 n.; III 9,34; IV 6,32; IX 4,15 ecc. 19 così di malavoglia, senza cordialità. C o t a le ha valore di avverbio: II 3,2 n. 20 non lo toglie, per metterlo in un altro luogo: cfr. III 7,10 n. 21 col prete (da «domine» è venuto «donno» e poi «don»): Pulci, Morgante, III 36. 22 Purg., X 10: «Qui si conviene usare un poco d’arte». 23 Meniamolo. 24 si ubriacherà, «C i u r m a r e ... vuol dire propriamente trar di senno alcuno con una bevanda magica; poi, per metafora, si dice degli effetti del vino» (Fornaciari). Cfr. Sacchetti, CCXXIX. 25 ci riuscirà benissimo: cfr. VI 9,9 n. Letteratura italiana Einaudi 1097 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 14 15 16 17 che egli è solo in casa». Come Brun disse, così fecero. Calandrino, veggendo che il prete nol lasciava pagare, si diede in sul bere26, e benché non ne gli bisognasse troppo, pur si caricò bene27; ed essendo già buona ora di notte28 quando dalla taverna si partì, senza volere altramenti cenare29, se n’entrò in casa, e credendosi aver serrato l’uscio, il lasciò aperto e andossi al letto. Buffalmacco e Bruno se n’andarono a cenare col prete, e, come cenato ebbero, presi loro argomenti30 per entrare in casa Calandrino31 là onde Bruno aveva divisato32, là chetamente n’andarono; ma, trovando aperto l’uscio, entrarono dentro, e ispiccato il porco, via a casa del prete nel portarono, e ripostolo, se n’andarono a dormire. Calandrino, essendogli il vino uscito del capo, si levò la mattina, e, come scese giù, guardò e non vide il porco suo, e vide l’uscio aperto; per che, domandato questo e quell’altro se sapessero chi il porco s’avesse avuto, e non trovandolo, incominciò a fare il romore grande33: oisé34!, dolente sé, che il porco gli era stato imbolato. Bruno e Buffalmacco levatisi, se n’andarono verso Calandrino, per udir ciò che egli del porco dicesse. Il qual, come gli vide, quasi piagnendo chiamatigli, 26 si mise a bere: e cfr. VII concl., 8 n. Cioè: benché non reggesse il vino pure ne bevve assai. 28 notte avanzata. 29 Tre endecasillabi di seguito segnano il momento fatale per Calandrino. 30 ordigni, arnesi: cfr. Intr., 13 n. e Purg., II 31. 31 in casa di Calandrino, con la solita omissione di di: cfr. II 5,50 n. 32 dalla parte, dal luogo che Bruno aveva pensato. 33 Espressione solita in questi casi: IV 7,15 n. 34 È modellato su oimè. Forme simili (e anche «oité», «oitú») non erano rare: cfr. per es. Tristano Riccardiano cit., p. 55: «incominciassi a chiamare oissé e lasso tapino»; Dialoghi di San Gregorio (T.): «oité, domino, che non ne dovete avere più de’ vescovi». Qui danno comico colorito al discorso indiretto. 27 Letteratura italiana Einaudi 1098 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 disse: «Oimè, compagni miei, che il porco mio m’è stato imbolato». Bruno, accostatoglisi, pianamente35 gli disse: «Maraviglia, che se’ stato savio una volta36». «Oimè» disse Calandrino «ché io dico da dovero». «Così di’,» diceva Bruno «grida forte sì, che paia bene che sia stato cosi». Calandrino gridava allora più forte e diceva: «Al corpo di Dio37, che io dico da dovero che egli m’è stato imbolato». E Brun diceva: «Ben di’, ben di’: e’si vuol ben dir così, grida forte fatti ben sentire, sì che egli paia vero». Disse Calandrino: «Tu mi faresti dar l’anima al nemico38: io dico che tu non mi credi, se io non sia impiccato per la gola, che egli m’è stato imbolato39». Disse allora Bruno: «Deh! come dee potere esser questo? Io il vidi pure ieri costì. Credimi tu far credere che egli sia volato40»? Disse Calandrino: «Egli è come io ti dico». «Deh!» disse Bruno «può egli essere?» «Per certo,» disse Calandrino «egli è così, di che io son diserto41 e non so come io mi torni a casa: moglie- 35 sottovoce, con aria di complicità: VIII 9,96 n. Strano che per una volta sei stato turbo. Una serie di endecasillabi e settenari, conclusa da un quinario (O i m è … u n a v o l t a ) sottolinea questo momento culminante dell’azione. 37 Solita esclamazione o forma di giuramento per cui cfr. VII 6,18 n. 38 al diavolo: cioè: mi faresti dannare. 39 così io vada libero dall’essere appiccato, come è vero che il porco mi è stato rubato: il che viene a dire: se non mi è stato imbolato che io possa essere appiccato (Fanfani). 40 Per il bisticcio solito cfr. VI 5,14-15 n.: e nota in volato l’eco beffarda del precedente in volato l’eco beffarda del precedente imbolato. 41 rovinato: II 4,7 n. e VIII 3,52 (proprio sulle labbra di Calandrino). 36 Letteratura italiana Einaudi 1099 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 28 29 30 31 32 ma nol mi crederà, e se ella il mi pur crede42, io non avrò uguanno43 pace con lei». Disse allora Bruno: «Se Dio mi salvi, questo è mal fatto, se vero è; ma tu sai, Calandrino, che ieri io t’insegnai dir così: io non vorrei che tu ad un’ora44 ti facessi beffe di moglieta e di noi». Calandrino incominciò a gridare e a dire: «Deh perché mi farete disperare e bestemmiare Iddio e’ santi e ciò che v’è45? Io vi dico che il porco m’è stato sta notte imbolato». Disse allora Buffalmacco: «Se egli è pur così, vuolsi veder via, se noi sappiamo, di riaverlo». «E che via» disse Calandrino «potrem noi trovare?» Disse allora Buffalmacco: «Per certo egli non c’è venuto d’India46 niuno a torti il porco; alcuno di questi tuoi vicini dee essere stato; e per ciò, se tu gli potessi ragunare, io so fare la esperienza del pane e del formaggio47e vederemmo di botto48 chi l’ha avuto». 42 «II B. si diletta, seguendo un antico uso provenzale, di posporre immediatamente la particella pure ai monosillabi mi, ti, si, ci, ecc.» (Fornaciari). 43 quest’anno letteralmente, e quindi mai piú: cfr. IV 10,44 n. 44 a un tempo, insieme. 45 ogni cosa, tutto quello che esiste: VIII 7,24 C 52 nn. 46 Nominata come paese di favolosa lontananza, ai confini del mondo: cfr. VI 10,42 n.; VIII 7,50. 47 Era un sortilegio, un incantesimo assai diffuso e che aveva assunto quasi forme di rito: il Martène (De antiquis Ecclesiae ritibus, Anversa 1763, II, pp. 334 sgg.) tra le varie prove «ad tegenda occulta seu dubia crimina» cita «ad furtum inveniendum» proprio la prova del pane e formaggio: fatti certi segni e data la benedizione su bocconi confezionati con formaggio e pane (d’orzo, in genere), si invitavano i presunti ladri a giurare la loro innocenza; e, dette speciali orazioni, si davano loro da mangiare quei bocconi che non potevano esser inghiottiti dal colpevole. Cfr. anche per la diffusione e il rituale del sortilegio: L. A. Muratori, Antiquitates italicae, Milano 1738, XXXVIII; G. BOTTARI, Lezioni sopra il D. cit., II, pp. 177 sgg.; G. AMATI, Ubbie, ciancioni e ciarpe, Bologna 1866, p. 51; T. CASINI, Scongiuro e poesia, in «Archivio per lo Letteratura italiana Einaudi 1100 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 33 34 35 36 37 38 39 «Sì,» disse Bruno «ben farai49 con pane e con formaggio a certi gentilotti che ci ha da torno50! ché son certo che alcun di loro l’ha avuto, e avvederebbesi del fatto, e non ci vorrebber venire». «Come è dunque da fare?» disse Buffalmacco. Rispose Bruno: «Vorrebbesi fare con belle galle di gengiovo51 e con bella vernaccia, e invitargli a bere. Essi non sel penserebbono e verrebbono; e così si possono benedire le galle del gengiovo, come il pane e ‘cacio». Disse Buffalmacco: «Per certo tu di’ il vero; e tu, Calandrino, che di’? Vogliallo fare?» Disse Calandrino: «Anzi ve ne priego io per l’amor di Dio; ché, se io sapessi pur chi l’ha avuto, sì mi parrebbe esser mezzo consolato». «Or via,» disse Bruno «io sono acconcio52 d’andare infino a Firenze per quelle cose in tuo servigio, se tu mi dai i denari». Aveva Calandrino forse quaranta soldi53, li quali egli gli diede. Bruno, andatosene a Firenze ad un suo amico speziale, comperò una libbra di belle galle di gengiovo, studio delle tradizioni popolari», v, 1886; A. GIANNINI, in «Fanfulla della Domenica», 27 agosto 1905; GIARDINI, Tradizioni popolari nel D. cit., pp. 78 sgg. 48 di colpo, subito: Inf., XXII 130. 49 Cioè, ironicamente: concluderai molto. 50 signorotti, galantuomini che stanno qui intorno. «Nome che davasi, non senza qualche intenzione di disprezzo, a gentile o nobile, signore di feudo in contado» (C.); ed è ironico come il precedente ben f arai. Cfr. Merelli, Ricordi, p. 148: «fecionsi matricolare molti gentilotti»; M. Villani, II 47: «i loro principi e gli altri gentilotti cominciarono a ricettare i malandrini nelle loro tenute». 51 pallottole, pillole di zenzero: cfr. 1 n. Bruno qui burlescamente sostituisce al pane e cacio le galle di zenzero, all’acqua benedetta la vernaccia, se stesso al prete, l’incantagione alla benedizione (cfr. 40). E nota in questa frase la solita oscillazione nell’uso dell’articolo («belle galle di gengiovo ... le galle del gengiovo») per cui I 1,87 n. 52 disposto: VIII 7,94 n. 53 Cioè circa un mezzo fiorino, al tempo in cui si immagina l’azione della novella. Letteratura italiana Einaudi 1101 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII e fecene far due di quelle del cane54, le quali egli fece confettare in uno aloè patico fresco55; poscia fece dar loro le coverte del zucchero56, come avevan l’altre, e per non ismarrirle o scambiarle, fece lor fare un certo segnaluzzo per lo quale egli molto bene le conoscea, e comperato un fiasco d’una buona vernaccia, se ne tornò 40 in villa57 a Calandrino e dissegli: «Farai che tu inviti domattina a ber con teco tutti coloro di cui tu hai sospetto; egli è festa, ciascun verrà volentieri, e io farò stanotte insieme con Buffalmacco la ’ncantagione sopra le galle, e recherolleti domattina a casa, e per tuo amore io stesso le darò, e farò e dirò ciò che fia da dire e da fare». 41 Calandrino così fece. Ragunata adunque una buona brigata tra di giovani fiorentini, che per la villa erano, e di lavoratori, la mattina vegnente, dinanzi alla chiesa intorno all’olmo58, Bruno e Buffalmacco vennono con una scatola di galle e col fiasco del vino, e fatti stare co42 storo in cerchio, disse Bruno: «Signori, e’mi vi convien dir la cagione per che voi siete qui, acciò che, se altro 54 Cioè: due galle di zenzero canino, uno zenzero di meno pregio, forse da riconoscersi nel pepe d’acqua: Cfr. M. PASTORE STOCCHI, Altre annotazioni, in «Studi sul B.», VII, 1973. Nell’articolo (che ha chiarito quest’allusione restata misteriosa fino allora) si documenta pure il largo uso dei confetti aromatici di zenzero, presentato anche nei romanzi cortesi come ingrediente di pozioni magiche. 55 preparare con succo d’aloè (pianta liliacea amarissima) appena spremuto e buono per la cura del legato (patico aferesi di epatico). Un Antico ricettario fiorentino, citato dalla Crusca, parla proprio del «secondo aloè ... che è chiamato volgarmente epatico»: e cfr. PASTORE STOCCHI, art. cit. 56 le fece coprire di zucchero, avvolgere nello zucchero: col solito uso della preposizione articolata innanzi a nome di materia preceduto da sostantivo con articolo: cfr. I 1, 87 n. 57 al villaggio: II 3, 24 n. 58 Cfr. VIII 2, 6 n. Letteratura italiana Einaudi 1102 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII avvenisse che non vi piacesse, voi non v’abbiate a ramaricar di me. A Calandrino, che qui è, fu ier notte tolto un suo bel porco, né sa trovare chi avuto se l’abbia; e per ciò che altri che alcun di noi che qui siamo non gliele dee potere aver tolto, esso, per ritrovar chi avuto l’ha, vi dà a mangiar queste galle una per uno, e bere. E infino da ora sappiate che chi avuto avrà il porco, non potrà mandar giù la galla, anzi gli parrà più amara che veleno, e sputeralla59; e per ciò, anzi che questa vergogna gli sia fatta in presenza di tanti, è forse il meglio che quel cotale che avuto l’avesse, in penitenzia il dica al sere60, e io mi rimarrò di61 questo fatto». Ciascun che v’era disse che ne voleva volentier man44 giare; per che Bruno, ordinatigli e messo Calandrino tra loro, cominciatosi all’un de’capi, cominciò a dare a ciascun la sua, e, come fu per mei62 Calandrino, presa una delle canine, gliele pose in mano. Calandrino presta45 mente63 la si gittò in bocca e cominciò a masticare; ma sì tosto come la lingua sentì l’aloè, così Calandrino, non 46 potendo l’amaritudine sostenere, la sputò fuori. Quivi ciascun guatava nel viso l’uno all’altro, perveder chi la sua sputasse; e non avendo Bruno ancora compiuto di darle, non faccendo sembianti d’intendere64 a ciò, s’udì dir dietro: «Eia65, Calandrino, che vuol dir questo? «per che prestamente rivolto, e veduto che Calandrino 43 59 II rigettare è prova tradizionale di colpevolezza, fin dal famoso aneddoto della fanciullezza di Esopo: cfr. Rotunda, J 1142.3*. 60 lo dica in confessione al parroco (VIII 2,4 n.): cfr. Passavanti, Specchio, pp. 5, 9 e passim. 61 mi asterrà da, rinuncerò a: III 3,19 n. 62 davanti a, di fronte a: Cfr. V 10,48 n. 63 subito, senza sospetti: cfr. II 7,20 n. 64 badare, porre mente: I 1,17 n. 65 Ehi, Ohe, o simili interiezioni di meraviglia: Sacchetti, CXLVI: «Eia, questo è pure il più bel frodo che si vedesse mai». Letteratura italiana Einaudi 1103 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 47 48 49 50 la sua aveva sputata, disse: «Aspettati66, forse che alcuna altra cosa gliele fece sputare: tenne67 un’altra »; e presa la seconda, gliele mise in bocca, e fornì68 di dare l’altre che a dare aveva. Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima69; ma pur vergognandosi di sputarla, alquanto masticandola la tenne in bocca, e tenendola cominciò a gittar le lagrime che parevan nocciuole, sì eran grosse; e ultimamente, non potendo più, la gittò fuori come la prima aveva fatto70. Buffalmacco faceva dar bere71 alla brigata, e Bruno72: li quali, insieme con gli altri questo vedendo, tutti dissero che per certo Calandrino se l’aveva imbolato egli stesso; e furonvene di quegli che aspramente il ripresono. Ma pur, poi che partiti si furono, rimasi Bruno e Buffalmacco con Calandrino, gl’incominciò Buffalmacco a dire: «Io l’aveva per lo certo tuttavia 73 che tu te l’avevi avuto tu, e a noi volevi mostrare che ti fosse stato imbolato, per non darci una volta bere de’ denari che tu n’avesti». 66 Aspetta un po’, Vediamo un poco: VI 4,17 n.; VII 3,34; VIII 7,37. 67 tienine, eccotene: e cfr. X 10,32 n. compí, fini: I 1,86 n. 69 «È forse il più bell’anacoluto della nostra letteratura» (Momigliano). Non l’avverti il Mannelli quando notò «Melius: a Calandrino». 70 Proprio come nei simili esorcismi e sortilegi riferiti dal Martène (op. cit., pp. 334 e 339) e dal Bottari (op. cit., pp. 177 sgg.): «guttur sic concludatur ut non glutiat ... constricto gutture et gula, ... nisi inflato ore cum spuma et gemitu et dolore et lacrimis et faucibus suis constrictis et obligatis hunc cibum emittat»; «faux eius claudatur, guttur eius stranguletur ... et ante illud eiciatur quam devoretur». 71 Solita omissione della preposizione a o da: II 7,26 n. 72 e così pure Bruno: cfr. IX 3,32 n. 73 Io avevo la certezza sempre. 68 Letteratura italiana Einaudi 1104 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII Calandrino, il quale ancora non aveva sputata l’amaritudine dello aloè, incominciò a giurare che egli avuto non l’avea. 52 Disse Buffalmacco: «Ma che n’avesti, sozio, alla buona fè? avestine sei74?» 53 Calandrino, udendo questo, s’incominciò a disperare. A cui Brun disse: «Intendi sanamente75, Calandrino, che egli fu tale nella brigata che con noi mangiò e bevve, che mi disse che tu avevi quinci su una giovinetta che tu tenevi a tua posta76, e davile ciò che tu potevi rimedire77, e che egli aveva per certo che tu l’avevi mandato questo porco. Tu sì hai apparato ad esser 54 beffardo78! Tu ci menasti una volta giù per lo Mugnone ricogliendo pietre nere, e quando tu ci avesti messo in galea senza biscotto79, e tu80; e poscia ci volevi far cre51 74 Ma tu, amico, compare (IX 5,12 n. con valore ironico, come altra volta frate: III 3,28 n.; VIII 2,26 n.), dimmi la verità, quanto ne ricavasti? sei fiorini? «II numero sei era dai fiorentini usato per un prezzo qualunque indeterminato ma grande. P- come dire: hai dunque trovato da fare buoni affari?» (Fornaciari). 75 Ascoltami bene: III 4,15 n. 76 tu avevi quassù, da queste parti una giovinetta che tenevi a tua disposizione: cfr. IX 5,8 n. Come questa frase sembra in qualche modo anticipazione della IX .5, così le righe seguenti ricordano la VIII 3. 77 rimediare, raggranellare (forse metatesi dal lat. redimere): cfr. G. Villani, VI 21: «impegnati i suoi g101elli e vasellamenti, e più moneta non potea rimedire». 78 Tu hai imparato davvero ad essere un beffatore! (per questo s i cfr. 55). Il Casa dà questa definizione: «i beffardi, cioè coloro che si dilettano di far beffe e di uccellare ciascuno, non per ischerzo né per disprezzo, ma per piacevolezza» (Galateo, XIX). 79 Cioè negli impicci, in un’impresa o condizione disperata; come chi senza provviste (b i s c o t t o è il pane tostato che si portava in navigazione) si imbarcasse per un viaggio in mare. Così il B., a proposito delle sue lezioni dantesche del 1374, in un sonetto: «Io ho messo in galea senza biscotto L’ingrato vulgo» (CXXV). 80 allora tu te ne ritornasti a casa: cfr. VIII 3,57. Letteratura italiana Einaudi 1105 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 55 56 dere che tu l’avessi trovata; e ora similmente ti credi co’ tuoi giuramenti far credere altressì che il porco, che tu hai donato o ver venduto, ti sia stato imbolato. Noi sì siamo usi delle tue beffe e conoscialle; tu non ce ne potresti far più; e per ciò, a dirti il vero, noi ci abbiamo durata fatica in far l’arte81, per che noi intendiamo che tu ci doni due paia di capponi, se non che noi diremo a monna Tessa ogni cosa». Calandrino, vedendo che creduto non gli era, parendogli avere assai dolore, non volendo anche il riscaldamento82 della moglie, diede a costoro due paia di capponi. Li quali, avendo essi salato il porco, portatisene a Firenze, lasciaron Calandrino col danno e con le beffe. 81 far l’incantesimo: Sacchetti, CXCVI,,: «io farò fare l’arte a un mio amico»; Tavola ritonda cit., pp. 424, 426 ecc. «La proposizione che logicamente dovrebbe essere causale sospesa (poiché noi ci abbiamo ecc.) è posta assolutamente come principale, e quindi la conclusione (n o i i n t e n d i a m o ecc.) le viene unita per mezzo d’una congiunzione consecutiva (per che): modo rotto di ordinare i concetti e conforme al parlar famigliare ed all’intenzione di Bruno, il quale vuole insistere principalmente sull’idea della fatica durata» (Fornaciari). 82 il rabbuffo, la sgridata: e cfr. III 3,30 n. Nota i tre gerundi di seguito senza congiunzione alcuna. Letteratura italiana Einaudi 1106 NOVELLA SETTIMA 1 Uno scolare1 ama una donna vedova, la quale, innamorata d’altrui, una notte di verno il fa stare sopra la neve ad aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un dì la fa stare in su una torre alle mosche e a’ tafani e al sole2. 1 studente: in generale così si chiamava chi frequentava o aveva frequentato uno Studio, anche senza addottorarsi. 2 Per questa novella – la più lunga del D. – l’antecedente di Somadeva (I 12), citato dal Landau (p. 104) non è significante: si tratta di un innamorato che fa esporre nuda in cima ad un tempio – perché a lui nemica – la madre dell’amata. Piuttosto è opportuno richiamare per la prima parte della novella una lunga tradizione medievale: ché di solenni beffe fatte da donne a filosofi, a poeti a studiosi – da Aristotile a Virgilio – è piena la letteratura latina e volgare dell’età di mezzo (cfr. per es. Gesammtabenteuer cit., I pp. LXXV sgg., III pp. CXXXIX sgg.; D. COMPARETTI, Virgilio nel medioevo, Firenze 1941, II, specie pp. 106 sgg.; BÉDIER, Fabliaux, pp. 334 sgg.; e per possibili riferimenti antropologici e popolari cfr. J. G. FRAZER, The golden bough, I 3; M. P. GIARDINI, Tradizioni popolari nel D., pp. 73 sgg.; Thompseri, D 1900, K 1211, 1212). Ma in generale si è insistito soprattutto, dal Groto e dal Sansovino fino ai giorni nostri, a voler riconoscere in questa novella un episodio autobiografico da mettere in rapporto col Corbaccio: senza accorgersi del tessuto letterario, dipendente da una robusta tradizione medievale, di questi sfoghi misogini (tipo Ibis), di queste rappresentazioni di amori per vedove. La stessa opera del B. ne è fittamente punteggiata: dalla sua b109rafia romanzata (Comedia, XXIII 28 sgg.) e dal suo primo poema (Criscida nelle fonti è pulcella, nel Filostrato vedova), a varie novelle del D. (per es. II 2 II 5, II 6, IV I, VIII 4, IX 1; e anche II 8) e al Corbaccio. Anzi il B. teorizza ripetutamente l’eccellenza dell’amore delle vedove al confronto di quello delle fanciulle (Filocolo, IV 51 sgg.; Rime, LXXXI-LXXXII), seguendo anche in questo i canoni della precettistica medievale, da Andrea Cappellano (pp. 79 sgg.) al Petrarca stesso (Familiares, XXII 1; Seniles, IV 5). E cfr. in gen. G. BILLANOVICH, Restauri cit., pp. 161 sgg.; V. BRANCA, B. medievale, pp. 200, 219, 232, e Per il testo del D., I, pp. 38 sgg. La novella, ricca di echi danteschi, è impostata sull’idea stessa del contrappasso dantesco. Letteratura italiana Einaudi 1107 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 2 3 4 Molto avevan le donne riso del cattivello3 di Calandrino, e più n’avrebbono ancora, se stato non fosse che loro in crebbe di vedergli torre ancora i capponi, a 4 color che tolto gli aveano il porco5. Ma poi che la fine fu venuta, la reina a Pampinea impose che dicesse la sua; ed essa prestamente così cominciò: – Carissime donne, spesse volte avviene che l’arte è dall’arte schernita, e per ciò è poco senno il dilettarsi di schernire altrui6. Noi abbiamo per più novellette dette riso molto delle beffe state fatte, delle quali niuna vendetta esserne stata fatta s’è raccontato; ma io intendo di farvi avere alquanta compassione d’una giusta retribuzione ad una nostra cittadina renduta, alla quale la sua beffa presso che con morte, essendo beffata, ritornò sopra il capo. E questo udire non sarà senza utilità di voi, per ciò che meglio di beffare altrui vi guarderete, e farete gran senno7. Egli non sono ancora molti anni passati8, che in Firenze fu una giovane del corpo bella e d’animo altiera e di legnaggio assai gentile, de’beni della fortuna convenevolmente abondante e nominata Elena9; la quale ri3 di quel misero, disgraziato: I 1,53 n. da. Pietà e simpatia donnesche analoghe a quelle accennate nella VII 10,2. 6 Sentenza che ricorda proprio quelle che iniziano le II 9 e VIII 10; C che riecheggia qui, più che detti popolari (II 9,3 n.), i Distica Catonis (I 26: «Sic ara deluditur arte»). Naturalmente arte astuzia, accorgimento: cfr. VIII 6,13 n. 7 Petrarca, CCXLIII: «II mio cor | E fé gran senno». 8 Uno dei più soliti inizi narrativi, quasi una formula dalle minime variazioni (cfr. per es. II I,3; IV 7,6; IV 10,4; V 4,4; VI 6,4; VII 2,7 ecc.). 9 Un nome risonante per il B. di tutta una serie di echi letterari: da quelli dell’argiva Elena (così sottolineati per es. dal Filocolo, II 13,6 e III 35,6 e dall’Amorosa Visione, VIII 70 sgg. alla Genealogia, XI 7 e De mulieribus, XXXVII) a quelli di Madonna Elena nel cantare omonimo. 4 5 Letteratura italiana Einaudi 1108 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 5 6 masa del suo marito vedova, mai più rimaritar non si volle, essendosi ella d’un giovinetto bello e leggiadro a sua scelta innamorato10; e da ogni altra sollicitudine sviluppata11, con l’opera d’una sua fante, di cui ella si fidava molto, spesse volte con lui con maraviglioso diletto si dava buon tempo12. Avvenne in questi tempi che un giovane chiamato Rinieri13, nobile uomo della nostra città, avendo lungamente studiato a Parigi, non per vender poi la sua scienzia a minuto14, come molti fanno, ma per sapere la ragion delle cose e la cagion d’esse (il che ottimamente sta in gentile uomo15), tornò da Parigi a Firenze; e quivi onorato molto sì per la sua nobiltà e sì per la sua scienzia, cittadinescamente16 viveasi. Ma, come spesso avviene, coloro17 ne’ quali è più l’avvedimento delle cose profonde più tosto da amore essere incapestrati18, avvenne a questo Rinieri. Al quale, essendo egli un giorno per via di diporto19 andato ad una festa20, davanti agli occhi si parò questa Elena, vestita di nero sì come le nostre vedove vanno21, piena di tanta bellezza al suo giudicio e di tanta piacevolezza, 10 Uno dei soliti casi di forma invariata del participio nei verbi composti: cfr. Intr., 35 n. e qui 21 n. 11 essendo libera o liberatasi: II 4,24 n. 12 Espressione stereotipata in casi simili: e cfr. V 3,46 n. 13 Nome comune nella Firenze del tempo e già ricorso nel D. (III 4,4). 14 Cioè non per esercitare una professione a fine di lucro: cfr. VI 10,42. E cfr. Convivio, III XI 9 sgg. 15 conviene a: III 9,22. «Nota bene» (M., segnando a margine il periodo). 16 civilmente, signorilmente: cfr. V 1,8 n. e V 9,8 n. 17 È soggetto del seguente essere incapestrati. 18 presi al capestro: cfr. linguaggio simile nella IX 5,11 n. 19 Anche Madonna Oretta andava «per via di diporto» (VI 1,6 n.). Tutta questa scena ricorda strettamente l’innamoramento di Troilo (Filostrato, I 18 sgg.). 20 Cfr. VII 7,8 n. 21 Cfr. III 7,10 n. Letteratura italiana Einaudi 1109 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 7 8 9 quanto alcuna altra ne gli fosse mai paruta vedere; e seco estimò colui potersi beato chiamare, al quale Idio grazia facesse lei potere ignuda nelle braccia tenere22. E una volta e altra cautamente riguardatala, e conoscendo che le gran cose e care non si possono senza fatica acquistare, seco diliberò del tutto di porre ogni pena23 e ogni sollicitudine in piacere a costei24, acciò che per lo piacerle il suo amore acquistasse, e per questo il potere aver copia di lei. La giovane donna, la quale non teneva gli occhi fitti in inferno25, ma, quello e più tenendosi che ella era, artificiosamente movendogli si guardava dintorno, e prestamente conosceva chi con diletto la riguardava; e26 accortasi di Rinieri, in sé stessa ridendo disse: «Io non ci27 sarò oggi venuta in vano, ché, se io non erro, io avrò preso un paolin28 per lo naso». E cominciatolo con la coda dell’occhio alcuna volta a guardare, in quanto ella poteva, s’ingegnava di dimostrar gli che di lui le calesse29; d’altra parte, pensandosi che quanti più n’adescasse e prendesse col suo piacere30, tanto di maggior pre22 Cfr. Filostrato, III 32; e forse ironizzando Vita Nuova, III 15: «Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda». 23 fatica, cura. 24 Sembra riccheggiar una frase di senso diverso della VII 8,6: «tutta la sua sollicitudíne aveva posta in guardar ben costei». 25 «Non gli teneva fissi a terra; e dice in inferno per enfasi» (Fanfani). 26 Superflua o con valore illativo (perché, per la qualcosa): Mussafia, p. 466. 27 qui. 28 È una specie di uccello acquatico (cfr. Caccia, VIII 55); oggi si direbbe merlotto, pollastro: Sacchetti, LXIX: «aveva trovato gente paolina»; Pataffio, III 25: «tu se’ un nuovo pagolino»: cfr. F. AGENO, Nomignoli ecc., in «Lingua Nostra», XIX, 1958, p. 73. 29 le importasse: III 4,29 n. Per g l i le cfr. III 9,9 n. «Deh nota» (M.). 30 con la sua avvenenza, con la sua bellezza: II 3,22 n. Letteratura italiana Einaudi 1110 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 10 11 12 13 14 gio fosse la sua bellezza, e massimamente a colui al quale ella insieme col suo amore l’aveva data. Il savio scolare, lasciati i pensier filosofici da una parte, tutto l’animo rivolse a costei31; e, credendosi doverle piacere, la sua casa apparata32, davanti v’incominciò a passare, con varie cagioni colorando33 l’andate. Al qual la donna, per la cagion già detta di ciò seco stessa vanamente gloriandosi, mostrava di vederlo assai volentieri; per la qual cosa lo scolare, trovato modo, s’accontò con la fante34 di lei, e il suo amor le scoperse, e la pregò che con la sua donna operasse sì che la grazia di lei potesse avere. La fante promise largamente e alla sua donna il raccontò, la quale con le maggior risa del mondo l’ascoltò, e disse: «Hai veduto dove costui è venuto a perdere il senno che egli ci ha da Parigi recato? Or via, diangli di quello ch’e’va cercando. Dira’gli, qualora egli ti parla più, che io amo molto più lui che egli non ama me; ma che a me si convien di guardar35 l’onestà mia, sì che io con l’altre donne possa andare a fronte scoperta, di che egli, se così è savio come si dice, mi dee molto più cara avere». Ahi cattivella, cattivella! ella non sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aia36 con gli scolari. La fante, trovatolo, fece quello che dalla donna sua le fu imposto. Lo scolar lieto procedette a più caldi prieghi e 31 Variazione dell’espressione già notata al 7. imparata, conosciuta: I 4,21 n. Per la frase cfr. X 8,91 n. 33 giustificando con vari pretesti: cfr. I 3,7 n. E per questo canonico espediente degli amanti cfr. per es. I 10,2; III 2,7; III 9,8; IV 7,7 ecc. 34 si fece familiare, strinse amicizia con la cameriera: II 3,1 n. Anche questo è espediente canonico: cfr. per es. II 9,25; V 5,9 e 12; VII 7,10 ecc. 35 salvaguardare. 36 intrigarsi, avere a che fare (metafora dal senso originario distendere i covoni sull’aia per battere il grano). «E’ sanno dove il diavolo tien la coda» (M.): cfr. 56 n. e 149 n. 32 Letteratura italiana Einaudi 1111 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 15 16 17 18 19 a scriver lettere e a mandar doni, e ogni cosa era ricevuta, ma in dietro non venivan risposte se non generali; e in questa guisa il tenne gran tempo in pastura37. Ultimamente, avendo ella al suo amante ogni cosa scoperta ed egli essendosene con lei alcuna volta turbato e alcuna gelosia presane, per mostrargli che a torto di ciò di lei sospicasse38, sollicitandola lo scolare molto, la sua fante gli mandò, la quale da sua parte gli disse che ella tempo mai non aveva avuto da poter fare cosa che gli piacesse poi che del suo amore fatta l’aveva certa39, se non che per le feste del Natale che s’appressava ella sperava di potere esser con lui; e per ciò la seguente sera alla festa40, di notte, se gli piacesse, nella sua corte se ne venisse, dove ella per lui, come prima potesse, andrebbe. Lo scolare, più che altro uom lieto, al tempo impostogli andò alla casa della donna, e messo dalla fante in una corte e dentro serratovi, quivi la donna cominciò ad aspettare. La donna, avendosi quella sera fatto venire il suo amante e con lui lietamente avendo cenato, ciò che fare quella notte intendeva gli ragionò, aggiugnendo: «E potrai vedere quanto e quale sia l’amore, il quale io ho portato e porto a colui del quale scioccamente hai gelosia presa». Queste parole ascoltò l’amante con gran piacer d’animo disideroso di vedere per opera41 ciò che la donna con parole gli dava ad intendere. Era per avven37 lo tenne lungo tempo pascendolo di speranze, cioè lo tenne a bada. Invece Marti: a pascolo [della sua civetteria]. 38 sospettasse: cfr. V 7,36 n.; VI 10,35 n 39 Le note di linguaggio cortese, riflesse da questa espressione, sono naturali nel tessuto tutto canonico di questa storia d’amore (6 «stupor» o «cominzo»; 10 sgg. «arnor terribilis et diutina lassitudo» o «fiore»; 16 sgg. promessa della «gioia compiuta»: cfr. BRANCA, B. medievale, pp. 221 sgg.). 40 la sera seguente alla festa, la sera dopo la lesta di Natale (Fanfani). 41 di fatto, in realtà: cfr. II 8,27 n. Letteratura italiana Einaudi 1112 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII tura il dì davanti a quello nevicato forte, e ogni cosa di neve era coperta; per la qual cosa lo scolare fu poco nella corte dimorato, che egli cominciò a sentir più freddo42 che voluto non avrebbe; ma, aspettando di ristorarsi, pur pazientemente il sosteneva43. 20 La donna al suo amante disse dopo alquanto: «Andiancene in camera, e da una finestretta guardiamo ciò che colui, di cui tu se’divenuto geloso, fa, e quello che egli risponderà alla fante44, la quale io gli ho mandata a favellare». 21 Andatisene adunque costoro a una finestretta, e veggendo senza esser veduti, udiron la fante da un’altra favellare allo scolare e dire: «Rinieri, madonna è la più dolente femina che mai fosse45, per ciò che egli ci è stasera venuto uno de’ suoi fratelli e ha molto con lei favellato, e poi volle cenar con lei, e ancora non se n’è andato; ma io credo che egli se n’andrà tosto; e per questo non è ella potuto46 venire a te, ma tosto verrà oggimai; ella ti priega che non ti incresca l’aspettare». 22 Lo scolare, credendo questo esser vero, rispose: «Dirai alla mia donna che di me niun pensier si dea in fino a tanto che ella possa con suo acconcio47 per me venire; ma che questo ella faccia come più tosto può». 23 La fante, dentro tornatasi se n’andò a dormire. La donna allora disse al suo amante: «Ben, che dirai? Credi 42 Una coppia di endecasillabi sottolinea la situazione eccezionale e decisiva per lo svolgersi del racconto. 43 sopportava, soffriva. Tema popolare nella novellistica questo dell’amante che attende sotto la neve, mentre alle volte l’amata si intrattiene con un altro uomo: cfr. Thompson e Rotunda, K 1212. 44 Solito scambio tra ‘verba sentiendi’ (sinestesia) corrente, come abbiamo visto, nel D.: VII 2,25 n. 45 Espressione che è quasi una formula (per es. VIII 4,35 n.). 46 Un altro caso di forma invariata del participio: cfr. qui 4 n. 47 a suo comodo: VIII 20,49 n. Letteratura italiana Einaudi 1113 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 24 25 26 27 tu che io, se quel ben gli volessi che tu temi, sofferissi48 che egli stesse là giù ad agghiacciare? «e questo detto, con l’amante suo, che già in parte era contento, se n’andò a letto, e grandissima pezza stettero in festa e in piacere, del misero iscolare ridendosi e faccendosi beffe. Lo scolare andando per la corte sé essercitava49 per riscaldarsi, né aveva dove porsi a sedere né dove fuggire il sereno50, e maladiceva la lunga dimora del fratel con la donna; e ciò che51 udiva credeva che uscio fosse che per lui dalla donna s’aprisse; ma invano sperava. Essa infino vicino della mezza notte col suo amante sollazzatasi, gli disse: «Che ti pare, anima mia, dello scolare nostro? Qual ti par maggiore o il suo senno o l’amore ch’io gli porto? Faratti il freddo che io gli fo patire uscir del petto quello che per li miei motti52 vi t’entrò l’altrieri?» L’amante rispose: «Cuor del corpo mio 53, sì, assai conosco che così come tu se’il mio bene e il mio riposo e il mio diletto e tutta la mia speranza, così sono io la tua». «Adunque» diceva la donna «or mi bacia ben mille volte, a veder se tu di’ vero». Per la qual cosa l’amante, abbracciandola stretta, non che mille, ma più di cento milia la baciava54. 48 Come altra volta il congiuntivo imperfetto per il condizionale: cfr. VII 9,24 n. 49 faceva del moto, si agitava (alla latina). 50 l’aria aperta: e quindi il freddo e l’umidità della notte: cfr. I 10,3 n.; VI I,2 n.; Amorosa Visione, XLIX 7. 51 tutto quello che, cioè ogni rumore che: cfr. VIII 6,29. 52 parole, cenni o celie: cfr. 15. 53 Il solito tenero appellativo popolaresco, per cui cfr. II 10,30 n. (anche per le espressioni seguenti), 54 Due endecasillabi di seguito danno rilievo alla tenerezza amorosa. Letteratura italiana Einaudi 1114 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 28 29 30 31 32 33 E poi che in cotale ragionamento stati furono alquanto, disse la donna: «Deh! levianci un poco, e andiamo a vedere se ’l fuoco è punto spento, nel quale questo mio novello amante tutto il dì mi scrivea che ardeva55». E levati, alla finestretta usata n’andarono, e nella corte guardando, videro lo scolare fare su per la neve una carola trita56 al suon d’un batter di denti, che egli faceva per troppo freddo, sì spessa e ratta, che mai simile veduta non aveano. Allora disse la donna: «Che dirai, speranza mia dolce? Parti che io sappia far gli uomini carolare57 senza suono di trombe o di cornamusa?» A cui l’amante ridendo rispose: «Diletto mio grande, sì». Disse la donna: «Io voglio che noi andiamo infin giù all’uscio: tu ti starai cheto e io gli parlerò, e udirem quello che egli dirà; e per avventura n’avrem non men festa che noi abbiam di vederlo». E aperta la camera chetamente, se ne scesero all’uscio, e quivi, senza aprir punto, la donna con voce sommessa da un pertugetto che v’era il chiamò. Lo scolare, udendosi chiamare, lodò Idio, credendosi troppo bene entrar dentro; e accostatosi all’uscio disse: «Eccomi qui, madonna: aprite per Dio, ché io muoio di freddo». La donna disse: «O sì che io so che tu se’ uno assiderato58; e anche è il freddo molto grande, perché costì 55 Questi e i seguenti scherni, come del resto tutta la scena, hanno precisi e interessanti riscontri nel Corbaccio, 450 sgg. 56 una danza a passi piccoli e frequenti: cfr. Orlando Furioso, XIX 81. L’immagine può anche ricordare Inf., XIV 40. 57 danzare la carola, con riferimento ironico ai movimenti di Rinieri. 58 freddoloso, troppo curante del freddo: VIII 9,90 n. «La donna parla qui ironicamente dicendo: ‘O è codesto un gran fred- Letteratura italiana Einaudi 1115 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 34 35 36 37 sia un poco di neve! Già so io che elle59 sono molto maggiori a Parigi. Io non ti posso ancora aprire, per ciò che questo mio maladetto fratello, che ier sera ci venne meco a cenare, non se ne va ancora; ma egli se n’andrà tosto, e io verrò incontanente ad aprirti. Io mi son testé con gran fatica scantonata60 da lui, per venirti a confortare che l’aspettar non t’incresca». Disse lo scolare: «Deh! madonna, io vi priego per Dio che voi m’apriate, acciò che io possa costì dentro stare al coperto, per ciò che da poco in qua s’è messa61 la più folta neve del mondo, e nevica tuttavia; e io v’attenderò quanto vi sarà a grado». Disse la donna: «Ohimè, ben mio dolce, che io non posso ché questo uscio fa sì gran romore quando s’apre, che leggermente sarei sentita da fratelmo62, se io t’aprissi; ma io voglio andare a dirgli che se ne vada, acciò che io possa poi tornare ad aprirti». Disse lo scolare: «Ora andate tosto; e priegovi che voi facciate fare un buon fuoco, acciò che, come io enterrò dentro, io mi possa riscaldare, ché io son tutto divenuto sì freddo che appena sento di me63». Disse la donna: «Questo non dee potere essere, se quello è vero che tu m’hai più volte scritto, cioè che tu per l’amor di me ardi tutto; ma io son certa che tu mi beffi. Ora io vo: aspettati, e sia di buon cuore». do per un po’ di neve che v’è! A Parigi dove tu se’ stato è ben più freddo’» (Fanfani). 59 Cioè le nevi: concordanza ardita ma cfr. Concl., 5 n. 60 allontanata di soppiatto, alla sfuggita: Casa, Galateo, XVIII: «da’ maestri e da’ padri... i figliuoli e i discepoli si scantonano tanto volentieri». 61 è cominciata: II 4,16 n. 62 Una di quelle forme popolari o familiari per cui cfr. VIII 6,7 n. 63 che appena conservo la coscienza, che appena non sono venuto meno. Letteratura italiana Einaudi 1116 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII L’amante, che tutto udiva e aveva sommo piacere, con lei nel letto tornatosi, poco quella notte dormirono64, anzi quasi tutta in lor diletto e in farsi beffe dello scolare consumarono. 39 Lo scolare cattivello (quasi cicogna divenuto, sì forte batteva i denti65) accorgendosi d’esser beffato, più volte tentò l’uscio se aprir lo potesse, e riguardò se altronde ne potesse uscire; né vedendo il come, faccendo le volte del leone66, maladiceva la qualità del tempo, la malvagità della donna e la lunghezza della notte, insie40 me con la sua simplicità67; e sdegnato forte verso di lei, il lungo e fervente amor portatole subitamente in crudo e acerbo odio transmutò68, seco gran cose e varie volgendo a trovar modo alla vendetta, la quale ora molto più disiderava, che prima d’esser con la donna non avea disiato. 41 La notte, dopo molta e lunga dimoranza, s’avvicinò al dì, e cominciò l’alba ad apparire. Per la qual cosa la fante della donna ammaestrata, scesa giù, aperse la corte, e mostrando d’aver compassion di costui, disse: «Mala ventura possa egli avere che iersera ci venne 69! Egli n’ha tutta notte tenute in bistento70, e te ha fatto 38 64 Uno dei non rari esempi in cui due sostantivi legati da con reggono un verbo plurale: cfr. II 9,1 n. 65 Cfr. II 2,22 n.: e tutta la situazione è quella di Rinaldo d’Asti, ma rovesciata. 66 Cioè andando su e giù come un leone in gabbia. 67 stupidità, ingenuità: cfr. III 3,54 n. 68 Situazione ed espressione molto simili a quelle della II 8,2I e IV 3,22 («rivoltato l’amore il quale a Restagnon portava in acerbo odio») e VIII 1,8 («quasi in odio transmutò il fervente amore»). 69 colui avere che venne qui ieri sera. 70 in gran pena, in gran disagio (forse da bis e stento, cioè quasi doppio stento); oppure in impaccio, in sospeso: cfr. G. Villani, VII 94: «stando il detto stuolo in bistento» (e anche VIII 56, X 92). Dovuto a attrazione è il t e n u t a riferito alle due donne, come accerta il pronome precedente ne: cfr. Mussafia, p. 455. Letteratura italiana Einaudi 1117 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 42 43 44 45 agghiacciare; ma sai che è? Portatelo 71 in pace, ché quello che stanotte non è potuto essere sarà un’altra volta; so io bene che cosa non potrebbe essere avvenuta, che tanto fosse dispiaciuta a madonna». Lo scolare sdegnoso, sì come savio, il quale sapeva niun’altra cosa le minacce essere che arme del minacciato72, serrò dentro al petto suo ciò che la non temperata volontà73 s’ingegnava di mandar fuori, e con voce sommessa, senza punto mostrarsi crucciato, disse: «Nel vero io ho avuta la piggior notte che io avessi mai, ma bene ho conosciuto che di ciò non ha la donna alcuna colpa, per ciò che essa medesima, sì come pietosa di me, infin quaggiù venne a scusar sé e a confortar me; e come tu di’, quello che stanotte non è stato sarà un’altra volta; raccomandalemi e fatti con Dio74». E quasi tutto rattrappato75, come potè a casa sua se ne tornò; dove, essendo stanco e di sonno morendo, sopra il letto si gittò a dormire, donde tutto quasi perduto76 delle braccia e delle gambe si destò. Per che, mandato per alcun medico e dettogli il freddo che avuto avea, alla sua salute fe’ provedere. Li medici con grandissimi argomenti e con presti77 aiutandolo, appena dopo alquanto di tempo il poterono de’ nervi guerire e far sì che si distendessero; e se non fosse che egli era 71 Sopportalo. È frase proverbiale: cfr. per es. T. Lucino, Dictorum isagogicus libellus, Ferrara 1492 (?). E fu annotata da Leonardo nel codice Atlantico: cfr. C. DIONISOTTI, Leonardo uomo di lettere, in «Italia Medioevale e Umanistica», V, 1962. 73 la volontà se non fosse stata tenuta a freno. «Nota bel detto» (M.). 74 Solita formula di commiato: VII 10,29 n. 75 attratto, rattratto, come sarà spiegato subito dopo (45): è forma corrente nel Trecento per rattrappito. 76 rovinato, paralizzato: anche Martellino sembrava «tutto della persona perduto e ratratto» (II 1,11 n.). 77 con rimedi, mezzi efficaci e solleciti: Intr., 13 n. 72 Letteratura italiana Einaudi 1118 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII giovane e sopravveniva il caldo, egli avrebbe avuto troppo da sostenere78. Ma ritornato sano e fresco, dentro il suo odio servando, vie più che mai si mostrava innamorato della vedova sua. 46 Ora avvenne, dopo certo spazio di tempo, che la fortuna apparecchiò caso da poter lo scolare al suo disiderio sodisfare; per ciò che, essendosi il giovane che dalla vedova era amato (non avendo alcun riguardo all’amore da lei portatogli), innamorato di un’altra donna, e non volendo né poco né molto dire né far cosa che a lei fosse a piacere, essa in lagrime e in 47 amaritudine79 si consumava. Ma la sua fante, la qual gran compassion le portava80, non trovando modo da levar la sua donna dal dolor preso per lo perduto amante, vedendo lo scolare al modo usato per la contrada passare, entrò in uno sciocco pensiero, e ciò fu che l’amante della donna sua ad amarla come far solea si dovesse poter riducere per alcuna nigromantica operazione81, e che di ciò lo scolare dovesse essere gran mae48 stro, e disselo alla sua donna. La donna poco savia, senza pensare che, se lo scolare saputo avesse nigromantia, per sé adoperata l’avrebbe, pose l’animo82 alle parole della sua fante, e subitamente le disse che da lui sapesse se fare il volesse, e sicuramente gli promettesse che per merito di ciò83, ella farebbe ciò che a lui piacesse. 78 sopportare. Un accoppiamento amato dal B.: III 7,17 V 9,39 ecc. 80 che aveva di lei grande compassione: Inf. XX 30: «Al giudicio divin passion comporta»: e cfr. Annotazioni, XV. E nota il parallelismo della frase con la precedente finta pietà (41). 81 condurre, indurre per mezzo di qualche atto di negromanzia, qualche sortilegio, incantesimo. Scanzonato atteggiamento caratteristico del B.: cfr. VIII 6 e 9; cede solo nel crescendo meraviglioso della X (5 e 9). 82 diede retta, diede ascolto. 83 in ricompensa di questo: III 9,14 n. 79 Letteratura italiana Einaudi 1119 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 49 50 51 52 53 La fante fece l’ambasciata bene e diligentemente, la quale udendo lo scolare, tutto84 lieto seco medesimo disse: «Iddio lodato sie tu: venuto è il tempo che io farò col tuo aiuto portar pena alla malvagia femina della ingiuria fattami in premio del grande amore che io le portava». E alla fante disse: «Dirai alla mia donna che di questo non stea in pensiero, che, se il suo amante fosse in India85, io gliele farò prestamente venire e domandar mercé di ciò che contro al suo piacere avesse fatto; ma il modo che ella abbia a tenere intorno a ciò, attendo di dire a lei, quando e dove più le piacerà; e così le di’, e da mia parte la conforta». La fante fece la risposta, e ordinossi che in Santa Lucia del Prato86 fossero insieme. Quivi venuta la donna e lo scolare, e soli insieme parlando, non ricordandosi ella che lui quasi alla morte condotto avesse, gli disse apertamente ogni suo fatto e quello che disiderava, e pregollo per la sua salute. A cui lo scolar disse: «Madonna, egli è il vero che tra l’altre cose che io apparai a Parigi si fu nigromantia, della quale per certo io so ciò che n’è87, ma per ciò che ella è di grandissimo dispiacer di Dio, io avea giurato di mai né per me né per altrui d’88adoperarla. È il vero che 84 Tre endecasillabi di seguito (ella ... tutte) inframezzati da un settenario (e diligentemente). 85 Un toponimo usato, come altri simili, a indicare favolosa distanza: VIII 6,32 n. 86 fu stabilito che si ritrovassero nella chiesa di Santa Lucia a Porta al Prato, tuttora esistente (di incontri amorosi o galanti in chiese è punteggiata l’opera del B.: VIII 2, VIII 4; Filocolo, I 17 sgg.; Filostrato, I 18 sgg. ecc.). 87 tutto quello che se ne può sapere: cfr. 24 e VIII 6,29 n. «E poco dopo io n’ebbi troppo d’una, francesismi pretti (‘je sais ce qui en est’ ‘j’en eus trop d’une’) attribuiti dal B. allo scolare che aveva studiato a Parigi» (Foscolo, Opere, III, p. 66); modi però non peregrini in quel periodo. 88 Una delle solite ripetizioni della preposizione dopo inciso e dinanzi al verbo. Letteratura italiana Einaudi 1120 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII l’amore il quale io vi porto è di tanta forza, che io non so come io mi nieghi cosa che voi vogliate che io faccia; e per ciò, se io ne dovessi per questo solo andare a casa 54 del diavolo, sì son presto di farlo, poi che vi piace. Ma io vi ricordo che ella è più malagevole cosa a fare che voi per avventura non v’avvisate; e massimamente quando una donna vuole rivocare uno uomo ad amar sé o l’uomo una donna, per ciò che questo non si può far se non per la propria persona a cui appartiene89; e a far ciò convien che chi ’l fa sia di sicuro animo90, per ciò che di notte si convien fare e in luoghi solitari e senza compagnia; le quali cose io non so come voi vi siate a far disposta». 55 A cui la donna, più innamorata che savia, rispose: «Amor mi sprona per sì fatta maniera91, che niuna cosa è la quale io non facessi92 per riaver colui che a torto m’ha abbandonata; ma tuttavia, se ti piace, mostrami in che mi convenga esser sicura». Lo scolare, che di mal pelo avea taccata la coda93, 56 disse: «Madonna, a me converrà fare una imagine di stagno94 in nome di colui il qual voi disiderate di racquistare, la quale quando io v’arò mandata, converrà 89 dalla persona medesima che lo vuole, cioè dall’interessato stesso. 90 sia di animo coraggioso, abbia coraggio: cfr. VIII 9,80: «a voi conviene esser molto sicuro»; IX 1,11: «del quale ... i più sicuri uomini ... avevan paura». 91 Affermazione, all’inizio del discorso, che può ricordare quella di Guiscardo (IV 1,23). 92 Il solito congiuntivo imperfetto in luogo del condizionale futuro: VI concl., 12 n.; VII 9,24 n. 93 Era tristo e furbo quanto uomo può essere (Fanfani): poiché aveva la coda screziata di mal pelo, come i diavoli. 94 Tali quasi sempre le immagini negli incantesimi d’amore: e per questo, come per gli altri particolari del sortilegio (il volgersi verso Nord, l’immagine, la luna, la nudità, la formula, le damigelle ecc.), cfr. THOMPSON, locc. citt.; J. G. FRAZER, op. e loc. citt.; M. P. GIARDINI, op. cit., pp. 74 sgg. Letteratura italiana Einaudi 1121 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 57 58 59 60 61 che voi, essendo la luna molto scema95, ignuda in un fiume vivo96, in sul primo sonno e tutta sola, sette97 volte con lei vi bagniate; e appresso, così ignuda, n’andiate sopra ad un albero, o sopra una qualche casa disabitata; e, volta a tramontana con la imagine in mano, sette volte diciate certe parole che io vi darò scritte; le quali come dette avrete, verranno a voi due damigelle delle più belle che voi vedeste mai, e sì vi saluteranno e piacevolmente vi domanderanno quel che voi vogliate che si faccia. A queste farete che voi diciate bene e pienamente i disideri vostri; e guardatevi che non vi venisse nominato un per un altro; e come detto l’avrete, elle si partiranno, e voi ve ne potrete scendere al luogo dove i vostri panni avrete lasciati e rivestirvi e tornarvene a casa. E per certo, egli non sarà mezza98 la seguente notte, che il vostro amante piagnendo vi verrà a dimandar mercé e misericordia; e sappiate che mai da questa ora innanzi egli per alcuna altra non vi lascierà». La donna, udendo queste cose e intera fede prestandovi, parendole il suo amante già riaver nelle braccia, mezza lieta99 divenuta disse: «Non dubitare, che queste cose farò io troppo bene, e ho il più bel destro da ciò del mondo100; ché io ho un podere verso il Valdarno di sopra101, il quale è assai vicino alla riva del fiume, ed egli è testé di luglio102, che sarà il bagnarsi dilettevole. E 95 calante. d’acqua corrente: alla latina: e cfr. X 6,6 «avendo d’acqua viva copia». 97 Uno dei classici numeri magici o favolosi (III 3,25 n.; III 7,7 n.). 98 non sarà giunta alla sua metà. 99 Cfr. VIII 6,37: «mezzo consolato». 100 ho per questo il più bel comodo, agio del mondo: IV 5,8 n. 101 Valdarno superiore. 102 è da poco cominciato il mese di luglio. 96 Letteratura italiana Einaudi 1122 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII ancora mi ricorda103 esser non guari lontana dal fiume una torricella disabitata, se non che per cotali scale di castagnuoli104 che vi sono, salgono alcuna volta i pastori sopra un battuto105 che v’è, a guardar di lor bestie smarrite (luogo molto solingo e fuor di mano), sopra la quale io salirò, e quivi il meglio del mondo spero di fare quello che m’imporrai». Lo scolare, che ottimamente sapeva106 e il luogo 62 della donna e la torricella, contento d’esser certificato della sua intenzion107, disse: «Madonna, io non fu’mai in coteste contrade, e per ciò non so il podere né la torricella; ma, se così sta come voi dite, non può essere al mondo migliore108. E per ciò, quando tempo sarà, vi manderò la imagine e l’orazione; ma ben vi priego che, quando il vostro disiderio avrete e conoscerete che io v’avrò ben servita, che vi ricordi di me e d’attenermi la 63 promessa». A cui la donna disse di farlo senza alcun fallo; e preso da lui commiato, se ne tornò a casa. 64 Lo scolar, lieto di ciò che109 il suo avviso pareva dovere avere effetto, fece una imagine con sue cateratte110, 103 Solito uso impersonale, come più sotto (62): II 7,107 n. rami di castagno. pavimento e quindi qui terrazza: e cfr. 69 e 72. 106 conosceva come tre righe più sotto: IV 10,36 n. 107 di essere fatto e certo, d’esser assicurato riguardo al disegno che aveva concepito: cfr. III 3,22; VII 9,27 n. 108 Sottinteso: luogo o modo. 109 perciocché, perché: VIII 10,49 n. 110 Probabilmente voce burlesca nel senso di caratteri magici, come sembra confermare la IX 5,48: «scrisse in su quella carta certe sue frasche con alquante cateratte»: cfr. p. Aretino, Sei giornale, Bari 1 969, p. 37 «catarattole dipinte». Altri pensa a una confusione con un nome di origine greca, altri a una metatesi scherzosa per caratteri quasi a indicare sgorbi, caratteracci... Cfr. B. MIGLIORINI, Che cos’è un vocabolario, Firenze 1951, pp. 21 sgg.; B. RICHARDSON, Onomastica boccacciana, in «Lingua Nostra», XXXIV, 1973. 104 105 Letteratura italiana Einaudi 1123 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 65 66 67 68 e scrisse una sua favola per orazione; e, quando tempo gli parve, la mandò alla donna e mandolle a dire che la notte vegnente senza più indugio dovesse far quello che detto l’avea; e appresso segretamente con un suo fante se n’andò a casa d’un suo amico che assai vicino stava alla torricella, per dovere al suo pensiero dare effetto. La donna d’altra parte con la sua fante si mise in via e al suo podere se n’andò; e come la notte fu venuta, vista faccendo d’andarsi al letto, la fante ne mandò a dormire, e in su l’ora del primo sonno, di casa chetamente uscita, vicino alla torricella sopra la riva d’Arno se n’andò, e molto dattorno guatatosi111, né veggendo né sentendo alcuno, spogliatasi e i suoi panni sotto un cespuglio nascosi, sette volte con la imagine si bagnò, e appresso, ignuda con la imagine in mano, verso la torricella n’andò. Lo scolare, il quale in sul fare della notte, col suo fante tra salci e altri alberi presso della torricella nascoso s’era, e aveva tutte queste cose vedute, e passandogli ella quasi allato così ignuda, ed egli veggendo lei con la bianchezza del suo corpo vincere le tenebre della notte, e appresso riguardandole il petto e l’altre parti del corpo, e vedendole belle e seco pensando quali infra piccol termine dovean divenire, sentì di lei alcuna compassione. E d’altra parte lo stimolo della carne l’assalì subitamente e fece tale in piè levare che si giaceva112, e confortavalo che egli da guato uscisse113 e lei andasse a prendere e il suo piacer ne facesse; e vicin fu ad essere tra dall’uno e dall’altro114 vinto. Ma nella 111 Participio invariato, come spesso già abbiamo notato nel D. e in questa novella: cfr. Intr., 35 n. 112 «Steterunt et membra que iacebant ante» (M.). È citazione da Apuleio, Met., II 7: e cfr. IX 10,18 n. 113 lo spingeva ad uscire dal lungo ov’era in agguato, dal nascondiglio. 114 Cioè dalla compassione e dallo stimolo della carne. Letteratura italiana Einaudi 1124 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 69 70 71 72 memoria tornandosi115 chi egli era, e qual fosse la ’ngiuria ricevuta, e perché e da cui116, e per ciò nel lo sdegno raccesosi, e la compassione e il carnale appetito cacciati, stette nel suo proponimento fermo, e lasciolla andare117. La donna, montata in su la torre e a tramontana rivolta, cominciò a dire le parole datele dallo scolare118; il quale, poco appresso nella torricella entrato, chetamente a poco a poco levò quella scala che saliva in sul battuto dove la donna era, e appresso aspettò quello che ella dovesse dire e fare. La donna, detta sette volte la sua orazione, cominciò ad aspettare le due damigelle, e fu sì lungo l’aspettare (senza che119 fresco le faceva troppo più che voluto non avrebbe) che ella vide l’aurora apparire120; per che, dolente che avvenuto non era ciò che lo scolare detto l’avea, seco disse: «Io temo che costui non m’abbia voluto dare una notte chente io diedi a lui; ma, se per ciò questo m’ha fatto, mal s’è saputo vendicare, ché questa non è stata lunga per lo terzo che fu la sua121, senza che il freddo fu d’altra qualità». E perché il giorno quivi non la cogliesse, cominciò a volere smontare della torre, ma ella trovò non esservi la scala. Allora, quasi come se il mondo sotto i piedi venuto le fosse meno, le fuggì l’animo122, e vinta cadde sopra il battuto della torre. E 115 richiamandosi alla mente. e per quale ragione e da quale persona. 117 Della sete di vendetta, che vince la forza di ogni altra passione (cfr. 80) parlerà il B. nella Consolatoria. 118 Cioè la «favola per orazione» (64). 119 a parte il fatto che. 120 Omesso, come altre volte, il che che dovrebbe reggere questo verbo: e cfr. Mussafia, pp. 534 sgg. 121 il terzo, una terza parte di quello che fu lunga la sua. 122 le venne meno lo spirito vitale, svenne più che si sgomentò, si perse d’animo. Tutta l’espressione ricorda i danteschi: «l’animo mio ch’ancor fuggiva» e «gent’è che par nel duol si vinta» (Inf., I 25 e III 33); e le classiche espressioni: «aufugit mi animus» (Q. 116 Letteratura italiana Einaudi 1125 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 73 74 75 poi che le forze le ritornarono, miseramente cominciò a piagnere e a dolersi; e assai ben conoscendo questa dovere essere stata opera dello scolare, s’incominciò a ramaricare d’avere altrui offeso, e appresso d’essersi troppo fidata di colui, il quale ella doveva meritamente creder nimico; e in ciò stette123 lunghissimo spazio. Poi, riguardando se via alcuna da scender vi fosse e non veggendola, ricominciato il pianto, entrò in uno amaro pensiero, a sé stessa dicendo:«O sventurata, che si dirà da’ tuoi fratelli, da’ parenti e da’ vicini, e generalmente da tutti i fiorentini, quando si saprà che tu sii qui trovata ignuda? La tua onestà124, stata cotanta, sarà conosciuta essere stata falsa; e se tu volessi a queste ce avrebbe, il maladetto scolare, che tutti i fatti tuoi sa, non ti lascerà mentire. Ahi misera te, che ad una ora avrai perduto il male amato giovane125 e il tuo onore! «E dopo queste126 venne in tanto dolore, che quasi fu per gittarsi della torre in terra. Ma, essendosi già levato il sole ed ella alquanto più dall’una delle parti più127 al muro accostatasi della torre, guardando se alcuno fanciullo quivi colle bestie s’accostasse cui essa potesse mandare per la sua fante, avvenne che lo scolare, avendo a piè d’un cespuglio dormito alquanto, destandosi la vide ed ella lui. Alla quale lo scolare disse: «Buon dì, madonna; sono ancor venute le damigelle?» Catulo citato da Gellio, XIX 9,14) e «evicta dolore» (Aen., IV 474). E Cfr. 112 C V 3,17 n. 123 in questo stato o in questo meditare. 124 buon nome, buona lama: cfr. III 8,76 n. 125 il giovane in mal punto, con mala ventura, preso ad amare. Cfr. Intr., 18: «gli mal tirati stracci». 126 Si riferisce a un parole sottinteso a senso: e cfr. II 7,3 n. 127 Resta dubbio se il più sia ripetuto pleonasticamente o se si debba intendere che Elena si era avvicinata di più al muro spostandosi di più verso l’uno dei lati della torre. Per a c c o s t a t o s i cfr. 65 n. Letteratura italiana Einaudi 1126 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII La donna, vedendolo e udendolo, ricominciò a piagner forte e pregollo che nella torre venisse, acciò che essa potesse parlargli. Lo scolare le fu di questo assai cortese. 77 La donna, postasi a giacer boccone sopra il battuto, il capo solo fece alla cateratta128 di quello, e piagnendo disse: «Rinieri, sicuramente, se io ti diedi la mala notte, tu ti se’ ben di me vendicato, per ciò che, quantunque di luglio sia, mi sono io creduta questa notte, stando ignuda, assiderare; senza che io ho tanto pianto e lo ’nganno che io ti feci e la mia sciocchezza che ti credetti129, che maraviglia è come gli occhi mi sono in capo rimasi. 78 E per ciò io ti priego, non per amor di me, la qual tu amar non dei, ma per amor di te, che se’gentile uomo, che ti basti, per vendetta della ingiuria la quale io ti feci, quello che infino a questo punto fatto hai, e faccimi i miei panni recare, e che io possa di quassù discendere, e non mi voler tor quello che tu poscia vogliendo130 render non mi potresti, cioè l’onor mio; ché, se io tolsi a te l’esser con meco quella notte, io, ognora che a grado 79 ti fia, te ne posso render molte per quella una. Bastiti adunque questo, e come a valente uomo, sieti assai131 l’esserti potuto vendicare e l’averlomi fatto conoscere; non volere le tue forze contro ad una femina esercitare; niuna gloria è ad una aquila l’aver vinta una colomba132; 76 128 Cioè all’apertura, alla botola cui si appoggiava la scala: cfr. 121; oppure alla buca per lo scolo dell’acqua piovana (Sapegno). 129 la sciocchezza di me che ti credetti, con una delle più solite sillessi: cfr. IV 2,21 n. A meno di pensare a una oggettiva equivalente a dell’averti creduto (Mussafia, p. 523). 130 Gerundio con valore concessivo: anche se me lo volessi restituire. 131 ti basti: cfr. Proemio, 13 n. 132 Cfr. Teseida, I 104: «’1 guerreggiar con donne e aver vittoria | Del vincitor è più biasmo che gloria». Letteratura italiana Einaudi 1127 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 80 81 82 83 dunque, per l’amor di Dio e per onor di te, t’incresca di me». Lo scolare, con fiero animo seco la ricevuta ingiuria rivolgendo, e veggendo piagnere e pregare, ad una ora aveva piacere e noia nello animo; piacere della vendetta, la quale più che altra cosa disiderata avea; e noia sentiva, movendolo la umanità sua a compassion della misera. Ma pur, non potendo la umanità vincere la fierezza dello appetito133, rispose: «Madonna Elena, se i miei prieghi (li quali nel vero io non seppi bagnare di lagrime né far melati 134 come tu ora sai porgere i tuoi) m’avessero impetrato, la notte che io nella tua corte di neve piena moriva di freddo, di potere essere stato messo da te pure135 un poco sotto il coperto, leggier cosa mi sarebbe al presente i tuoi esaudire. Ma se cotanto or più che per lo passato del tuo onor ti cale, ed etti grave il costà su ignuda dimorare, porgi cotesti prieghi a colui nelle cui braccia non t’increbbe, quella notte che tu stessa ricordi, ignuda stare, me sentendo per la tua corte andare i denti battendo e scalpitando 136 la neve, e a137 lui ti fa aiutare, a lui ti fa i tuoi panni recare, a lui ti fa por la scala per la qual tu scenda, in lui t’ingegna di mettere tenerezza138 del tuo onore, per cui quel medesimo, e ora e mille altre volte, non hai dubitato di mettere in periglio. Come nol chiami tu che ti venga ad aiutare? E a cui appartiene139 egli più che a lui? Tu se’ sua: e quali cose guarderà egli o aiuterà, se egli non 133 Cioè la forza del desiderio di vendetta. dolci come il miele: III 8,51 n.; Jacopone, LXXXIII 23. «Dum femina plorat | Decipere laborat» (joca monachorum); e cfr. VIII 10,28 n. 135 almeno. 136 calpestando: II intr., 2 n. 137 da: Intr., 20 n. 138 sollecitudine, cura, compassione. 139 conviene, si addice: cfr. 54. 134 Letteratura italiana Einaudi 1128 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII guarda e aiuta te? Chiamalo, stolta che tu se’, e prova se l’amore il quale tu gli porti e il tuo senno col suo ti possono dalla mia sciocchezza liberare, la qual 140, sollazzando141 con lui, domandasti quale gli pareva maggiore o la mia sciocchezza o l’amor che tu gli portavi142. Né essere a me ora cortese di ciò che io non disidero, né 84 negare il mi puoi se io il disiderassi; al tuo amante le tue notti riserba, se egli avviene che tu di qui viva ti parti; tue sieno e di lui; io n’ebbi troppo d’una, e bastimi d’essere stato una volta schernito. E ancora, la tua astuzia usando nel favellare, t’ingegni col commendarmi143 la mia benivolenzia acquistare, e chiamimi gentile uomo e 85 valente, e tacitamente, che io come magnanimo mi ritragga dal punirti della tua malvagità, t’ingegni di fare; ma le tue lusinghe non m’adombreranno 144 ora gli occhi dello ’ntelletto145, come già fecero le tue disleali promessioni; io mi conosco, né tanto di me stesso apparai mentre dimorai a Parigi, quanto tu in una sola notte delle tue mi facesti conoscere. Ma, presupposto che io pur magnammo fossi, non se’ tu di quelle in cui la ma86 gnanimità debba i suoi effetti mostrare; la fine della penitenzia, nelle salvatiche fiere come tu se’, e similmente della vendetta, vuole esser la morte, dove negli uomini quel dee bastare che tu dicesti. Per che, quatunque io aquila non sia, te non colomba, ma velenosa serpe co- 140 «Malo latino: direbe meglio [il] quale» (M.). Ma forse il Mannelli fraintendeva: la qual si riferisce a tu: tu che. 141 Questo gerundio si riferisce al soggetto della sovraordinata: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 214 sgg. 142 Già Fausto da Longiano osservò che queste parole Madonna Elena le aveva dette segretamente al suo amante e Rinieri non poteva quindi saperle. 143 lodarmi. 144 non mi offuscheranno, non m’incanteranno: X 7,24 n. 145 Cfr. VI 2,7 n. Letteratura italiana Einaudi 1129 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 87 88 89 90 noscendo, come antichissimo nemico146 con ogni odio e con tutta la forza di perseguire intendo, con tutto che147 questo che io ti fo non si possa assai propriamente vendetta chiamare, ma più tosto gastigamento148, in quanto la vendetta dee trapassare l’offesa, e questo non v’agiugnerà149; per ciò che se io vendicar mi volessi, riguardando a che partito tu ponesti l’anima mia150, la tua vita non mi basterebbe, togliendolati, né cento altre alla tua simiglianti, per ciò che io ucciderei una vile e cattiva151 e rea feminetta. E da che diavol togliendo via cotesto tuo pochetto di viso, il quale pochi anni guasteranno riempiendolo di crespe152 se’ tu più che qualunque altra dolorosetta fante153? Dove per te non rimase di154 far morire un valente uomo, come tu poco avanti mi chiamasti, la cui vita ancora potrà più in un dì essere utile al mondo, che centomilia tue pari non potranno mentre il mondo durar dee155. Insegnerotti adunque con questa noia che tu sostieni che cosa sia lo schernir gli uomini che hanno alcun sentimento156, e che cosa sia lo scher146 Tutta la frase richiama alla tradizionale figurazione del diavolo tentatore in un serpente. 147 benché. 148 riprensione, castigo: III 3,51 n. 149 Cioè non raggiungerà il livello dell’offesa. 150 la mia vita: Volg. Omelie di San Gregorio, p. 18 (T.): «II buon pastore pone l’anima sua per le pecorelle sue» (Giov. 10.11). 151 dappoco, meschina: I 9,1 n. 152 rughe: cfr. Crescenzi, Agricoltura volg. (Verona 1851), VI 63 «mondificherà la faccia e rimoverà le crespe». «Quam cito, me miseram, lassantur corpora rugis» (M.). È citazione da Ovidio, Ars Am., III 73 (ma «miserum»); motivo sviluppato dal B. anche nelle Rime (XLIII 8 sg.: «vedere | e Canuta e crespa pallida colei ...»; XLIV 4: «E crespo farsi il viso di costei»: e cfr. anche 13). 153 miserella, cioè, serva povera e dappoco (Fanfani): un diminutivo in senso dispregiativo, come il precedente pochetto. 154 tu non trascurasti nulla per: III 7,46. 155 finché il mondo durerà. «È, una forma di futuro locuzionale col verbo ‘dovere’» (Marti). 156 sapienza, maturità umana: VI 5,4 n.; VI 9,3 n. Letteratura italiana Einaudi 1130 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 91 92 93 94 nir gli scolari; e darotti materia di giammai più in tal follia non cader, se tu campi. Ma se tu n’hai così gran voglia di scendere, ché non te ne gitti tu in terra? E ad una ora con lo aiuto di Dio fiaccandoti tu il collo, uscirai della pena nella quale esser ti pare, e me farai il più lieto uomo del mondo. Ora io non ti vo’dir più; io seppi tanto fare che io costà su ti feci salire; sappi tu ora tanto fare che tu ne scenda, come tu mi sapesti beffare». Parte 157 che lo scolare questo diceva, la misera donna piagneva continuo158, e il tempo se n’andava, sagliendo tuttavia il sol più alto. Ma poi che ella il sentì tacer, disse: «Deh! crudele uomo, se egli ti fu tanto la maladetta notte grave e parveti il fallo mio così grande che né ti posson muovere a pietate alcuna la mia giovane bellezza, le amare lagrime né gli umili prieghi, almeno muovati alquanto e la tua severa rigidezza diminuisca questo solo mio atto, l’essermi di te nuovamente159 fidata e l’averti ogni mio segreto scoperto col quale ho dato via160 al tuo disidero in potermi fare del mio peccato conoscente; con ciò sia cosa che, senza fidarmi io di te, niuna via fosse a te161 a poterti di me vendicare, il che tu mostri con tanto ardore aver disiderato. Deh, lascia l’ira tua e perdonami omai! io sono, quando tu perdonar mi vogli e di quinci farmi discendere, acconcia162 d’abbandonar del tutto il disleal giovane e te solo aver per amadore e per signore, quantunque tu molto la mia bellezza biasimi, brieve e poco cara mostrandola; la quale, chente che ella, insieme con quella dell’altre, si 157 Mentre: VIII 9,40 n.; Inf., XXIX I 6; Purg., XXI 19 ecc. continuamente: Filocolo, III 28,7: «continuo le mani menandosi davanti al viso»; e qui V 10,8 n. e anche III 2,II n. 159 da ultimo. 160 ho dato modo, mezzo. 161 avresti avuta. 162 pronta, disposta: VIII 6,38 n. 158 Letteratura italiana Einaudi 1131 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 95 96 97 98 sia, pur so che, se per altro non fosse da aver cara, si è per ciò che vaghezza e trastullo e diletto è della giovanezza degli uomini; e tu non se’ vecchio163. E quantunque io crudelmente da te trattata sia, non posso per ciò credere che tu volessi vedermi fare così disonesta 164 morte, come sarebbe il gittarmi a guisa di disperata quinci giù dinanzi agli occhi tuoi, a’ quali, se tu bugiardo non eri come sei diventato, già piacqui cotanto165. Deh! increscati di me per Dio e per pietà: il sole s’incomincia a riscaldar troppo, e come il troppo freddo questa notte m’offese, così il caldo m’incomincia a far grandissima noia». A cui lo scolare, che a diletto la teneva a parole166, rispose: «Madonna, la tua fede167 non si rimise ora nelle mie mani per amor che tu mi portassi, ma per racquistare quello che tu perduto avevi; e per ciò niuna cosa merita altro che maggior male; e mattamente credi, se tu credi questa sola via senza più168 essere, alla disiderata vendetta da me, oportuna stata169. Io n’aveva mille altre, e mille lacciuoli170, col mostrar d’amarti, t’aveva tesi intorno a’ piedi, né guari di tempo era ad andare171, che di necessità, se questo avvenuto non fosse, ti convenia in uno incappare; né potevi incappare in alcuno, che in maggior pena e vergogna che questa non ti fia ca- 163 «Nota dolci parole» (M., che segna a margine tutto il periodo) disonorevole e crudele, alla latina (Aen., VI 497): VIII 5,3 n.; Inf., XIII 140: «lo strazio disonesto». 165 Purg., I 85: «Marzia piacque tanto a li occhi miei». 166 si dilettava di pascerla di chiacchiere, d’intrattenerla con parole: VI 10,14 n. 167 fiducia, confidenza. 168 e nessun’altra: II 3,37 n. 169 essere stata opportuna alla vendetta desiderata da me. 170 Inf., XXII 109: «avea lacciuoli a gran divizia»; e qui 146 n. 171 non sarebbe passato troppo tempo: Purg., XI 140: «Ma poco tempo andrà ...» 164 Letteratura italiana Einaudi 1132 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 99 100 101 102 duta non fossi; e questo presi non per agevolarti, ma per esser più tosto lieto. E dove tutti mancati mi fossero, non mi fuggiva la penna, con la quale tante e sì fatte cose di te scritte avrei e in sì fatta maniera, che, avendole tu risapute (ché l’avresti), avresti il dì mille volte disiderato di mai non esser nata 172. Le forze della penna sono troppo maggiori che173 coloro non estimano che quelle con conoscimento provate non hanno. Io giuro a Dio (e se174 Egli di questa vendetta, che io di te prendo, mi faccia allegro175 infin la fine, come nel cominciamento m’ha fatto) che io avrei di te scritte cose che, non che dell’altre persone, ma di te stessa vergognandoti, per non poterti vedere t’avresti cavati gli occhi176; e per ciò non rimproverare al mare d’averlo fatto crescere il piccolo ruscelletto. Del tuo amore, o che tu sii mia, non ho io, come già dissi, alcuna cura; sieti pur177 di colui di cui stata se’, se tu puoi, il quale, come io già odiai, così al presente amo, riguardando a ciò che egli ha ora verso te operato. Voi v’andate innamorando e disiderate l’amor de’ giovani, per ciò che alquanto con le carni più vive e con le barbe più nere gli vedete, e sopra sé andare178 e carolare e giostrare179; le quali cose tutte ebber coloro che più alquanto attempati sono, e quel sanno 172 Marco, 14.21: «Bonum erat ci si non esset natus homo ille». di quanto. 174 e così: è uno dei soliti se deprecativi (II 4,18 n.). 175 Inf., XIV 60: «Non ne potrebbe aver vendetta allegra». 176 Forse è presente una qualche reminiscenza letteraria della leggenda di Neobule, impiccatasi per la vergogna causatale dagli atroci giambi di Archiloco da lei respinto. Sono del resto queste righe e le seguenti quelle che più direttamente vengono riflesse e ampliate, in tutte le loro pieghe letterarie, nel Corbaccio, anche nella difesa dell’intellettuale e nella esaltazione del potere dello scrittore. 177 continua a essere. 178 portare ben dritta la persona, camminare pettoruti e impettiti. 179 danzare e combattere nelle giostre: Intr., 106 n.; III 6,7 n. 173 Letteratura italiana Einaudi 1133 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII che coloro hanno ad imparare. E oltre a ciò, gli stimate miglior cavalieri e far di più miglia180 le lor giornate che gli uomini più maturi181. Certo io confesso che essi con maggior forza scuotono i pilliccioni182, ma gli attempati, 103 sì come esperti, sanno meglio i luoghi dove stanno le pulci; e di gran lunga è da eleggere più tosto il poco e saporito che il molto e insipido; e il trottar forte rompe e stanca altrui, quantunque sia giovane, dove il soavemente183 andare, ancora che alquanto più tardi altrui meni allo albergo, egli il vi conduce almen riposato. Voi non v’accorgete, animali senza intelletto184, quanto di 185 di bella apparenza stea nasco104 male sotto quella poca so. Non sono i giovani d’una contenti, ma quante ne veggono tante ne disiderano, di tante par loro esser degni; per che essere non può stabile il loro amore; e tu ora ne puoi per pruova esser verissima testimonia186. E par loro esser degni d’essere reveriti e careggiati187 dalle 105 loro donne; né altra gloria hanno maggiore che il vantarsi di quelle che hanno avute; il qual fallo già sotto a’ frati, che nol ridicono, ne mise molte 188. Benché tu 180 Nei soliti sensi equivoci per cui III 6,37 n. e VIII 4,32 n.: giornate tappe. 181 Segnando a margine queste e le righe seguenti (da il quale 101 a v’è donato 105): «Messer Giovanni mio tu predichi nel diserto, quantunque a me paia che dica il vero» (M.). 182 Altra consueta metafora sessuale (IV 10,46 n.; X 10,69 n.), come la seguente delle p u l e i . 183 riposatamente, lentamente: VI 2,28. 184 Espressione energica amata dal B.: Amorosa Visione, XXXII 2. 185 Solita attrazione per cui cfr. II 10,18 n. 186 Forma frequente nel D.: VIII 5,13 n., e anche Intr., 56 n. 187 vezzeggiati, tenuti cari: VIII 9,1 12: «molto più gli onorò e careggiò»; Esposizioni, VI litt. 34: «non erano acostanti all’usanze degli uomini, né gli careggiavano». 188 Cioè: ne indusse molte ad accondiscendere alle voglie dei frati, che almeno non hanno l’abitudine di vantarsene (Sapegno). «E pe’ fra(ti)» (M.). Letteratura italiana Einaudi 1134 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 106 107 108 109 dichi189 che mai i tuoi amori non seppe altri che la tua fante e io, tu il sai male, e mal credi se così credi. La sua190 contrada quasi di niun’altra cosa ragiona, e la tua; ma le più volte è l’ultimo, a cui cotali cose agli orecchi pervengono, colui a cui elle appartengono191. Essi192 ancora vi rubano, dove dagli attempati v’è donato. Tu adunque, che male eleggesti, sieti di colui a cui tu ti desti, e me, il quale schernisti, lascia stare ad altrui, ché io ho trovata donna da molto più che tu non se’, che meglio n’ha conosciuto che tu non facesti. E acciò che tu del disidero degli occhi miei possi maggior certezza nell’altro mondo portare che non mostra193 che tu in questo prenda dalle mie parole, gittati giù pur tosto, e l’anima tua, sì come io credo, già ricevuta nel le braccia del diavolo, potrà vedere se gli occhi miei d’averti veduta strabocchevolmente194 cadere si saranno turbati o no. Ma per ciò che io credo che di tanto non mi vorrai far lieto, ti dico che, se il sole ti comincia a scaldare, ricorditi del freddo che tu a me facesti patire, e se con cotesto caldo il mescolerai, senza fallo il sol sentirai temperato». La sconsolata donna, veggendo che pure a crudel fine riuscivano le parole dello scolare, ricominciò a piagnere e disse: «Ecco, poi che niuna mia cosa di me a pietà ti muove195, muovati l’amore, il qual tu porti a quella donna che più savia di me di’che hai trovata, e da cui tu di’che se’ amato, e per amor di lei mi perdona e i 189 Per queste forme del congiuntivo cfr. II 7,100 n. Dell’amante. si riferiscono: 192 Cioè i giovani. 193 Impersonale: IV 10,36 n. 194 precipitando, a capofitto: V 6,3 n.; e Corbaccio, 392: «le dure rocce e gli strabocchevoli balzi». 195 Purg., VI 116: «E se nulla di noi pietà ti move». 190 191 Letteratura italiana Einaudi 1135 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 110 111 112 113 miei panni mi reca, ché io rivestir mi possa, e quinci mi fa smontare». Lo scolare allora cominciò a ridere; e veggendo che già la terza era di buona ora passata, rispose: «Ecco, io non so ora dir di no, per tal donna me n’hai pregato196; insegnamegli197, e io andrò per essi e farotti di costà su scendere». La donna, ciò credendo, alquanto si confortò, e insegnogli il luogo dove aveva i panni posti. Lo scolare, della torre uscito, comandò al fante suo che di quindi non si partisse, anzi vi stesse vicino, e a suo poter guardasse che alcun non v’entrasse dentro198 infino a tanto che egli tornato fosse; e questo detto, se n’andò a casa del suo amico, e quivi a grande agio desinò, e appresso, quando ora gli parve, s’andò a dormire. La donna, sopra la torre rimasa, quantunque da sciocca speranza un poco riconfortata fosse, pure oltre misura dolente si dirizzò a sedere, e a quella parte del muro dove un poco d’ombra era s’accostò, e cominciò accompagnata da amarissimi pensieri ad aspettare; e ora pensando e ora piagnendo, e ora sperando e or disperando della tornata dello scolare co’panni, e d’un pensiero in altro saltando, sì come quella che dal dolore era vinta, e che niente la notte passata aveva dormito, s’addormentò. Il sole, il quale era ferventissimo, essendo già al mezzo giorno salito, feriva alla scoperta e al diritto199 sopra il tenero e dilicato corpo di costei e sopra la sua testa, da niuna cosa coperta, con tanta forza, che non solamente le cosse le carni tanto quanto ne vedea, ma 196 Risposta analoga a quella di Ricciardo a Catella (III 6,12). mostrami, indicami dove sono. 198 Uso solito nel B., quasi «entrare» valesse genericamente andare: cfr. 2,15 e soprattutto V 7,12 n. 199 dardeggiava, batteva senza trovare ostacoli e a perpendicolo. 197 Letteratura italiana Einaudi 1136 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 114 115 116 117 quelle minuto minuto200 tutte l’aperse; e fu la cottura tale, che lei che profondamente dormiva constrinse a destarsi. E sentendosi cuocere e alquanto movendosi, parve nel muoversi che tutta la cotta pelle le s’aprisse e ischiantasse, come veggiamo avvenire d’una carta di pecora abbruciata, se altri la tira; e oltre a questo le doleva sì forte la testa201, che pareva che le si spezzasse, il che niuna maraviglia era. E il battuto della torre era fervente202 tanto, che ella né co’ piedi né con altro vi poteva trovar luogo203; per che, senza star ferma, or qua or là si tramutava piagnendo. E oltre a questo, non faccendo punto di vento, v’erano mosche e tafani in grandissima quantità abondanti204, li quali, ponendolesi sopra le carni aperte, sì fieramente la stimolavano205, che ciascuna le pareva una puntura d’uno spontone206 per che ella di menare le mani attorno non restava niente207, sé, la sua vita, il suo amante e lo scolare sempre maladicendo. E così essendo dal caldo inestimabile, dal sole, dalle mosche e da’ tafani, e ancor dalla fame, ma molto più dalla sete, e per aggiunta da mille noiosi pensieri angosciata e stimolata e trafitta, in piè dirizzata, cominciò a guardare se vicin di sé o vedesse o udisse alcuna perso- 200 Ripetizione con valore di superlativo: minutissimamente, cioè con fittissime screpolature. 201 Cfr. 123 n. 202 Caldo, scottante. 203 trovare dove stare: VII concl., 12 n. 204 vi erano ... venuti, sopraggiunti abbondantemente: cfr. per es. Jacopo da Cessole, Volgarizzamento del giuoco degli scacchi, Milano 1829, p. 96; Pulci, Morgante, III 22. 205 pungevano, punzecchiavano: cfr. II 9,75 e lnf., III 65-66: «ignudi, stimolati molto | Da mosconi e da vespe ch’eran ivi». 206 spiedo, asta dalla punta acuta. 207 non si interrompeva, non sostava per nulla: Inf., XIV 40-41: «Sanza riposo mai era la tresca | De le misere mani». Letteratura italiana Einaudi 1137 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 118 119 120 121 na, disposta del tutto, che che avvenire ne le dovesse, di chiamarla e di domandare aiuto. Ma anche questo l’aveva la sua nimica fortuna tolto. I lavoratori eran tutti partiti de’campi per lo caldo, avvegna che208 quel dì niuno ivi appresso era andato a lavorare, sì come quegli che allato alle lor case tutti le lor biade battevano; per che niuna altra cosa udiva che cicale, e vedeva Arno, il qual, porgendole disiderio delle sue acque, non iscemava la sete ma l’acresceva209. Vedeva ancora in più luoghi boschi e ombre e case, le quali tutte similmente l’erano angoscia disiderando210. Che direm più della sventurata vedova? Il sol di sopra e il fervor del battuto di sotto e le trafitture delle mosche e de’ tafani da lato sì per tutto l’avean concia, che ella, dove la notte passata con la sua bianchezza vinceva le tenebre, allora rossa divenuta come rabbia211, e tutta di sangue chiazzata, sarebbe paruta, a chi veduta l’avesse, la più brutta cosa del mondo. E così dimorando costei, senza consiglio alcuno o speranza, più la morte aspettando che altro, essendo già la mezza nona212 passata, lo scolare, da dormir levatosi e della sua donna ricordandosi, per veder che di lei fosse se ne tornò alla torre, e il suo fante, che ancora era digiuno, ne mandò a mangiare; il quale avendo la donna sentito, debole e della grave noia angosciosa213, venne 208 per quanto, benché. Inf., XXX 64 sgg .: «Li ruscelletti che d’i verdi colli I| Del Casentin discendon giuso in Arno ... | Sempre mi stanno innanzi, e non indarno, | Ché l’imagine lor vie più m’asciuga». 210 poiché le desiderava, per lei che le desiderava: IV concl., 16 n.; Vita Nuova, III 12; Compagni, I 10: «furono messi in caccia uccidendoli». 211 La rabbia o ’stizza’ è un malore che rende rossa la pelle e tutta scabbiosa (Colombo, Fanfani, Tommasco). O forse il riferimento è, brachilogicamente a senso, al rossore provocato dall’ira? 212 Cioè circa l’una e mezza del pomeriggio. 213 e angosciata, sfinita per tutte quelle sofferenze. 209 Letteratura italiana Einaudi 1138 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 122 123 124 125 sopra la cateratta, e postasi a sedere, piagnendo cominciò a dire: «Rinieri, ben ti se’ oltre misura vendico214, ché se io feci te nella mia corte di notte agghiacciare, tu hai me di giorno sopra questa torre fatta arrostire, anzi ardere, e oltre a ciò di fame e di sete morire; per che io ti priego per solo Idio215 che qua su salghi, e poi che a me non soffera il cuore216 di dare a me stessa la morte, dallami tu, ché io la disidero più che altra cosa, tanto e tale è il tormento che io sento. E se tu questa grazia non mi vuoi fare, almeno un bicchier d’acqua mi fa venire, che io possa bagnarmi la bocca, alla quale non bastano le mie lagrime, tanta è l’asciugaggine 217 e l’arsura la quale io v’ho dentro». Ben conobbe lo scolare alla voce la sua debolezza, e ancor vide in parte il corpo suo tutto riarso dal sole, per le quali cose e per gli umili suoi prieghi un poco di compassione gli venne di lei; ma non per tanto rispose: «Malvagia donna, delle mie mani non morrai tu già, tu morrai pur delle tue, se voglia te ne verrà; e tanta acqua avrai da me a sollenamento218 del tuo caldo, quanto fuoco io ebbi da te ad alleggiamento219 del mio freddo. Di tanto mi dolgo forte, che la ’nfermità del mio freddo 214 vendicato. Uno dei soliti participi accorciati o aggettivi verbali: cfr. II 7,89 n. 215 solo per amor di Dio: e non per la bellezza e per l’amore, come prima aveva supplicato. 216 non soffre, non sopporta il cuore, cioè non ho coraggio. 217 secchezza. Ricorda l’«asciuga» dell’esempio dantesco or ora citato: Da Buti, comm. a Purg., XXIV 32: «con men secchezza, cioè con minore asciugaggine che non avea ora quando io lo vidi». E per l’arsura cfr. Inf., XXX 127: «tu hai l’arsura e il capo che ti duole» (per questo particolare cfr. 114). 218 sollevamento, sollievo, lenimento: sostantivo raro dal verbo corrente «sollenare» (dal lat. lenis, forgiato sui composti del tipo delenire, oblenire): cfr. per es. Vita Nuova, XII 2, XXXIX 4; C. Davanzati, Rime, Bologna 1965, XVl 55; 30,9. 219 alleviamento: Proemio, 7 n. Letteratura italiana Einaudi 1139 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII col caldo del letame puzzolente si convenne curare, ove 126 quella del tuo caldo col freddo della odorifera acqua 127 128 129 130 rosa220 si curerà; e dove io per perdere i nervi e la persona221 fui, tu da questo caldo scorticata, non altramenti rimarrai bella che faccia la serpe lasciando il vecchio cuoio». «O misera me!» disse la donna «queste bellezze in così fatta guisa acquistate dea Iddio a quelle persone che mal mi vogliono; ma tu, più crudele che ogni altra fiera, come hai potuto sofferire di straziarmi a questa maniera? Che più doveva io aspettar da te o da alcuno altro, se io tutto il tuo parentado sotto crudelissimi tormenti avessi uccisi222? Certo io non so qual maggior crudeltà si fosse potuta usare in223 un traditore che tutta una città avesse messa ad uccisione, che quella alla qual tu m’hai posta a farmi arrostire al sole e manicare 224 alle mosche; e oltre a questo non un bicchier d’acqua volermi dare, che a’ micidiali dannati dalla ragione225, andando essi alla morte, è dato ber molte volte del vino, pur che essi ne domandino. Ora ecco, poscia che io veggo te star fermo nella tua acerba crudeltà, né poterti la mia passione in parte alcuna muovere, con pazienzia mi disporrò alla morte ricevere, acciò che Iddio abbia misericordia della anima mia, il quale io priego che con giusti occhi questa tua operazion riguardi». E queste parole dette, si trasse con gravosa sua pena verso il mezzo del battuto, disperandosi di dovere da così ardente caldo campare; e non una volta ma mille, oltre 220 Acqua odorosa distillata dalle rose: è nominata anche nella VIII 10,18 tra i vari profumi usati da Madonna Iancofiore. 221 le forze e la vita: II 5,60 n. 222 Facile concordanza, a senso, con il collettivo parentado. 223 contro: II 1,31 n. 224 mangiare: I 1,42 n. 225 mentre agli assassini, agli omicidi condannati dalla giustizia: II 6,39 n. e VIII 5,1 n. Letteratura italiana Einaudi 1140 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 131 132 133 134 agli altri suoi dolori, credette di sete spasimare226, tuttavia227 piagnendo forte e della sua sciagura dolendosi. Ma essendo già vespro e parendo allo scolare avere assai fatto, fatti prendere i panni di lei e inviluppare nel mantello del fante, verso la casa della misera donna se n’andò, e quivi sconsolata e trista e senza consiglio228 la fante di lei trovò sopra la porta sedersi, alla quale egli disse: «Buona femina, che è della donna tua?» A cui la fante rispose: «Messere, io non so; io mi credeva stamane trovarla nel letto dove iersera me l’era paruta vedere andare; ma io non la trovai né quivi né altrove, né so che si sia divenuta229, di che io vivo con grandissimo dolore; ma voi, messere, saprestemene dir niente?» A cui lo scolar rispose: «Così avess’io avuta te con lei insieme là dove io ho lei avuta, acciò che io t’avessi della tua colpa così punita come io ho lei della sua! Ma fermamente tu non mi scapperai dalle mani, che io non230 ti paghi sì dell’opere tue che mai di niuno uomo farai beffe che di me non ti ricordi». E questo detto, disse al suo fante: «Dalle cotesti panni e dille che vada per lei, s’ella vuole». Il fante fece il suo comandamento; per che la fante, presigli e riconosciutigli, udendo ciò che detto l’era, temette forte non l’avessero uccisa, e appena di gridar si ritenne; e subitamente, piagnendo, essendosi già lo scolar partito, con quegli verso la torre n’andò correndo. Aveva per isciacura uno lavoratore di questa donna quel dì due suoi porci smarriti, e andandoli cercando, 226 struggersi, consumarsi, venir meno. sempre, continuamente: I 1,15 n. 228 senza sapere che risoluzione prendere e quindi: disperata, smarrita. 229 che cosa ne sia avvenuto: cfr. Annotazioni, LXII. 230 senza che io. 227 Letteratura italiana Einaudi 1141 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 135 poco dopo la partita dello scolare a quella torricella 136 137 138 139 pervenne, e andando guatando per tutto se i suoi porci vedesse, sentì il miserabile pianto che la sventurata donna faceva, per che salito su quanto potè, gridò: «Chi piagne là su?» La donna conobbe la voce del suo lavoratore, e chiamatol per nome gli disse: «Deh! vammi per la mia fante231, e fa sì che ella possa qua su a me venire». Il lavoratore, conosciutala, disse: «Ohimè! madonna: o chi vi portò costà su? La fante vostra v’è tutto dì232 oggi andata cercando; ma chi avrebbe mai pensato che voi doveste essere stata qui?» E presi i travicelli233 della scala, la cominciò a dirizzar come star dovea e a legarvi con ritorte i bastoni a traverso. E in questo234 la fante di lei sopravenne, la quale, nella torre entrata, non potendo più la voce tenere, battendosi a palme235 cominciò a gridare: «Ohimè, donna mia dolce, ove siete voi?» La donna udendola, come più forte potè, disse: «O sirocchia236 mia, io son qua su; non piagnere, ma recami tosto i panni miei». Quando la fante l’udì parlare, quasi tutta riconfortata, salì su per la scala già presso che racconcia237 dal la231 va a cercare la mia fante: solito uso delle particelle me, mi ad accennare servigio o favore: cfr. per es. VII 7,39 n. 232 per tutto il giorno, sempre: sintagma consueto: V 10,34 n. 233 Le due assi, le due travi laterali. Ma nella precedente azione non era detto che la scala fosse stata scomposta o rovinata, ma solo levata (69). 234 in questo mezzo, in questo frattempo. 235 percuotendosi con le palme delle mani il viso per disperazione: Inf., IX 50: «Battiensi a palme», che il B. chiosa: «come qui fanno le femine che gran dolor sentono» (Esposizioni, IX litt. 30; e cfr. anche III litt. 17). 236 Consueti simili appellativi per i domestici e i familiari: cfr. per es. VIII 3,5I; Purg., IV 127. 237 riassettata, raggiustata: un altro participio accorciato: cfr. II 7,89 n. Letteratura italiana Einaudi 1142 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 140 voratore, e aiutata da lui in sul battuto pervenne; e ve- dendo la donna sua, non corpo umano ma più tosto un cepperello inarsicciato238 parere, tutta vinta, tutta spunta239, e giacere in terra ignuda, messesi l’unghie nel viso cominciò a piagnere sopra di lei240, non altramenti che se morta fosse. Ma la donna la pregò per Dio che ella tacesse e lei rivestire aiutasse241. E avendo da lei saputo 141 che niuna persona sapeva dove ella stata fosse, se non coloro che i panni portati l’aveano e il lavoratore che al presente v’era, alquanto di ciò racconsolata, gli pregò per Dio che mai ad alcuna persona di ciò niente dicessero. Il lavoratore dopo molte novelle 242, levatasi la donna in collo, che andar non poteva, salvamente 243 142 infin fuor della torre la condusse. La fante cattivella, che di dietro era rimasa, scendendo meno avvedutamente, smucciandole il piede244, cadde della scala in terra e ruppesi la coscia, e per lo dolor sentito cominciò a mugghiar che pareva un leone245. Il lavoratore, posata la donna sopra ad uno erbaio246, andò a vedere che avesse la fante, e trovatala 238 un piccolo ceppo bruciacchiato, alquanto arso: cfr. Amorosa Visione, IX 53. 239 tutta inerte, affranta, tutta smunta, consunta: cfr. Sacchetti, Rime, CCXCVIII 5 sgg.: «L’altro con membra nude nere e smorte | Sul bove scapigliata si figura | Orrida spunta e scura»; Pataffio, IV 24. 240 Vita Nuova, VIII 6: «io ’1 vidi lamentare in forma vera | Sovra la morta imagine avvenente». 241 Solita omissione della preposizione a: IV intr., 36 n. 242 discorsi, ciance: II 8,67 n. 243 Cioè: sana e salva. 244 scivolandole il piede: Inf., XXIV 127; Pulci, Morgante, XXI 72. 245 «In che nuova Africa o Nuovo Mondo mugghiano i leoni e per íscambio ruggiano i buoi?» Così il Bartoli nell’ultimo paragrafo del Torto e diritto del non si può: ma anche il Tasso scrive: «Così leon ch’anzi l’orribil chioma | Con inuggito scotea superbo e fiero» (Gerusatemme Liberata, VIII 83). 246 luogo erboso. Letteratura italiana Einaudi 1143 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 143 con la coscia rotta, similmente nello erbaio la recò, e al- lato alla donna la pose. La quale veggendo questo a giunta degli altri suoi mali avvenuto, e247 colei avere rotta la coscia da cui ella sperava essere aiutata più che da altrui, dolorosa senza modo 248 ricominciò il suo pianto tanto miseramente, che non solamente il lavoratore non la potè racconsolare, ma egli altressì cominciò a piagnere. Ma, essendo già il sol basso, acciò che quivi non gli cogliesse la notte, come alla sconsolata donna 144 piacque, n’andò alla casa sua, e quivi chiamati due suoi fratelli e la moglie, e là tornati con una tavola, su v’acconciarono la fante e alla casa ne la portarono; e riconfortata la donna con un poco d’acqua fresca e con buone parole, levatalasi il lavoratore in collo, nella camera di lei la portò. La moglie del lavoratore, datole mangiar pan lavato249 e poi spogliatala, nel letto la mise, 145 e ordinarono che essa e la fante fosser la notte portate a Firenze; e così fu fatto. Quivi la donna, che aveva a gran divizia lacciuoli250, fatta una sua favola tutta fuor dell’ordine delle cose av146 venute251, sì di sé e sì della sua fante fece a’ suoi fratelli e alle sirocchie e ad ogn’altra persona credere che per indozzamenti di demoni252 questo loro fosse avvenuto. 247 «E pro idest» (M.). «Ma ... la e qui non vai di certo cioè perché questo è un parlar semplicissimo ed è da intendersi: veggendo che per giunta era precipitata dalla scala la fante e che si era rotta la coscia» (Fanfani). 248 Cfr. VIII 4,35: «divenne il più doloroso uomo che fosse mai». 249 Pane che affettato e arrostito s’inzuppa nell’acqua e condiscesi con olio aceto zucchero e simili (T.). 250 Cioè: malizie, inganni: cfr. Inf., XXII 109: «Ond’ei ch’avea lacciuoli a gran divizia»; e cfr. qui 98 n. 251 Come la Violante: cfr. V 7,23 n. 252 per malie, fatture diaboliche che intorpidiscono le membra. Di indozzamento i Vocabolari non citano se non tardi esempi, con Letteratura italiana Einaudi 1144 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII I medici furon presti253, e non senza grandissima angoscia e affanno della donna che tutta la pelle più volte 147 appiccata lasciò alle lenzuola, lei d’una fiera febbre e degli altri accidenti254 guerirono, e similmente la fante della coscia. Per la qual cosa la donna, dimenticato il suo amante, da indi innanzi e di beffare e d’amare si 148 guardò saviamente255. E lo scolare, sentendo alla fante la coscia rotta, parendogli avere assai intera vendetta, lieto, senza altro dirne, se ne passò256. Così adunque alla stolta giovane addivenne delle sue beffe, non altramente con uno scolare credendosi 149 frascheggiare257 che con un altro avrebbe fatto; non sappiendo bene che essi, non dico tutti ma la maggior parte, sanno dove il diavolo tien la coda258. E per ciò guardatevi, donne, dal beffare, e gli scolari spezialmente259. tutta probabilità ripresi da questo passo. Ma cfr. Teseida, VIII 84: «Tal di quel colpo sentiva la ’ndozza»; Sacchetti, CCXXV: «Per certo, Golzo, tu dei essere indozzato» (cioè stregato) e Rime, CLIX 83: cfr. F. AGENO, Riboboli trecenteschi, in «Studi di Filologia Italiana», X, 1952, p. 427. 253 pronti e solleciti. 254 mali. 255 «Scioccamente direbbe meglio» (M.). 256 lasciò correr la cosa, non fece altro: IV 5,7 n. 257 civettare, scherzare: cfr. III 3,26 n. 258 «Modo famigliare per accennare un furbo trincato, un uomo astutissimo e da non potersi o doversi beffare» (Fanfani); e cfr. nota del Mannelli al 13. 259 «Nota» (M. segnando a margine tutto il periodo). Letteratura italiana Einaudi 1145 NOVELLA OTTAVA 1 Due usano insieme; l’uno con la moglie dell’altro si giace; l’altro, avvedutosene, fa con la sua moglie che1 l’uno è serrato in una cassa, sopra la quale, standovi l’un dentro, l’altro con la moglie dell’un si giace2. 2 Gravi e noiosi erano stati i casi d’Elena ad ascoltare alle donne; ma per ciò che in parte giustamente avvenutigli3 gli estimavano, con più moderata compassion gli avean trapassati4, quantunque rigido e costante fieramente, anzi crudele, riputassero lo scolare. Ma essendo Pampinea venutane alla fine, la reina alla Fiammetta impose che seguitasse, la quale, d’ubidire disiderosa 5, disse: – Piacevoli donne, per ciò che mi pare che alquanto trafitto v’abbia la severità dello offeso scolare, estimo che convenevole sia con alcuna cosa più dilettevole rammorbidire gl’innacerbiti spiriti; e per ciò intendo di dirvi una novelletta d’un giovane, il quale con più mansueto animo una ingiuria ricevette, e quella con più mo- 3 1 combina con sua moglie che, d’accordo con sua moglie la in modo che ... 2 Nessun preciso e diretto antecedente di questa novella: poiché relazioni che sono state stabilite con un fabliau, Constant du Hamel (Recueil général, IV 166; BÉDIER, pp. 331 sgg. e 454 sgg.) e colle sue possibili fonti (La fleur lascive orientale, Oxford 1884, p. 10; CLOUSTON, Popular tales cit., II, pp. 298 sgg.; Gesammtabenteuer cit., III, pp. XXXV sgg.), sono assai vaghe e riguardano vendette di donne contro amanti importuni. Cfr. anche Thompson e Rotunda, K 1566: e A. L. STIEFEL, Zum Schwank von der Roche eines betrogenen Ehemannes, in «Zeitschr. f. neufranzösische Sprache und Literatur», XXXII, 1908, pp. 268 sgg. 3 avvenutile: solecismo già notato altra volta (III 9,9 n.). 4 Cioè ascoltati ad uno ad uno. 5 Per lo stilema dantesco cfr. V 3,2 n. Letteratura italiana Einaudi 1146 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 4 5 derata operazion vendicò. Per la quale potrete comprendere che assai dee bastare a ciascuno, se quale asino dà in parete tal riceve6, senza volere, soprabondando oltre la convenevoleza della vendetta, ingiuriare, dove l’uomo si mette alla ricevuta ingiuria vendicare7. Dovete adunque sapere che in Siena, sì come io intesi già, furon due giovani assai agiati e di buone famiglie popolane, de’ quali l’uno ebbe nome Spinelloccio Tavena8 e l’altro ebbe nome Zeppa di Mino9, e amenduni eran vicini a casa in Camollia10. Questi due giovani sempre usavano insieme, e per quello che mostrassono, così s’amavano, o più, come se stati fosser fratelli11, e ciascun di loro avea per moglie una donna assai bella. 6 Cioè se facendo un’ingiuria ne riceve una pari: proverbio già riferito nelle II 9,6 e V 10,64 (cfr. ivi nn.), e simile a quello che ricorre più innanzi (30: «voi m’avete renduto pan per focaccia»). «Vuol dire che all’offeso deve bastare una vendetta che, senza trascendere, pareggi l’ingiuria. S’avverta che, in questi limiti, la vendetta era considerata lecita dalle leggi» (Sapegno). 7 quando ci si mette a vendicare l’ingiuria ricevuta: iperbato simile a quelli notati a Intr., 20 n. ecc. 8 Nota famiglia senese: cfr. per es. BIAGI-PASSERINI, Codice diplomatico dantesco, Firenze 1895, p. 3, Un «dominus Spinellus quondam domini Mei Tavene de Tolomeis» è ricordato in documenti dei primi del Trecento; abitava con la moglie Caterina di Naddo Piccolomini nel Terzo di Camollia (E. SANTINI, II B. novellatore d’amore, in «Italia», III, 1913, numero dedicato al B. S p i n e l l o c c i o è ipocoristico di Spina, Spinello. 9 Mino de’ Tolomei, detto Zeppa, è spesso e irosamente ricordato dal fratello Meo: ebbe varie cariche tra il 1279 e il 1307, e come Podestà a San Gimignano ricevette nel Trecento l’ambasceria di cui fece parte Dante (abitò nel Terzo di Camollia: BIAGIPASSERINI, Codice diplomatico cit., pp. 2 599; M. MARTI, Cultura e stile nei poeti giocosi, Pisa 1953, pp. 59 sgg.; e anche Codice diplomatico dantesco edito da R. Piattoli, Firenze 1950, p. 81; e cfr. VII 10,8 n.). Si noti però che i Tolomei non si potevano dire «popolani». M i n o è ipocoristico di vari nomi, per es. Anselmo, Giacomo. 10 vicini di casa nella contrada di Porta Camollia. 11 Proprio come i protagonisti di un’altra novella senese (VII 10,8). Letteratura italiana Einaudi 1147 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 6 7 8 9 10 Ora avvenne che Spinelloccio, usando molto in casa del Zeppa12, ed essendovi il Zeppa e non essendovi, per sì fatta maniera con la moglie del Zeppa si dimesticò, che egli incominciò a giacersi con essolei13; e in questo continuarono una buona pezza avanti che persona se n’avvedesse. Pure al lungo andare, essendo un giorno il Zeppa in casa e non sappiendolo la donna, Spinelloccio venne a chiamarlo. La donna disse che egli non era in casa; di che14 Spinelloccio prestamente andato su e trovata la donna nella sala, e veggendo che altri non v’era, abbracciatala la cominciò a baciare, ed ella lui 15. Il Zeppa, che questo vide, non fece motto, ma nascoso si stette a veder quello a che il giuoco dovesse riuscire; e brievemente egli vide la sua moglie e Spinelloccio così abbracciati andarsene in camera e in quella serrarsi, di che egli si turbò forte. Ma conoscendo che per far romore né per altro la sua ingiuria non diveniva minore, anzi ne cresceva la vergogna, si diede a pensar che vendetta di questa cosa dovesse fare16, che, senza sapersi da torno17, l’animo suo rimanesse contento; e dopo lungo pensiero, parendogli aver trovato il modo, tanto stette nascoso quanto Spinelloccio stette con la donna. Il quale come andato se ne fu, così egli nella camera se n’entrò, dove trovò la donna che ancora non s’era compiuta18 di racconciare i veli in capo, li quali scher12 Nota in tutta la novella l’articolo preposto a questo nome proprio o soprannome: come del resto per es. nelle III 5, IV 3 ecc. 13 E s s o rafforzativo è invariabile: II 5,31 n.; VII 6,13 n. (e qui 21, e s s o n o i ); e per la sfumatura erotica in s i d i m e s t i c ò cfr. II 7,22 n.; II 7,28 n. 14 per la qual cosa. 15 «Insino a qui non cade vendetta» (M.). 16 Atteggiamento simile a quello del fratello di Lisabetta da Messina (IV 5,7). 17 tale che, per modo che, senza che si sapesse in giro, che si divulgasse. 18 aveva compiuto, finito: uso corrente. Letteratura italiana Einaudi 1148 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 11 12 13 14 15 zando Spinelloccio fatti l’aveva cadere, e disse: «Donna, che fai tu?» A cui la donna rispose: «Nol vedi tu?» Disse il Zeppa: «Sì bene, sì, ho io veduto anche altro che io non vorrei«; e con lei delle cose state entrò in parole, ed essa con grandissima paura dopo molte novelle19 quello avendogli confessato che acconciamente della sua dimestichezza con Ispinelloccio negar non potea, piagnendo gl’incominciò a chieder perdono. Alla quale il Zeppa disse: «Vedi, donna, tu hai fatto male, il quale se tu vuogli che io ti perdoni, pensa di fare compiutamente quello che io t’imporrò, il che è questo. Io voglio che tu dichi20 a Spinelloccio che domattina in su l’ora della terza21 egli truovi qualche cagione di partirsi da me e venirsene qui a te; e quando egli ci sarà, io tornerò, e come tu mi senti, cosi il fa entrare in questa cassa e serracel dentro; poi, quando questo fatto avrai, e22 io ti dirò il rimanente che a fare avrai; e di far questo non aver dottanza23 niuna, ché io ti prometto che io non gli farò male alcuno». La donna, per sodisfargli, disse di farlo, e così fece. Venuto il dì seguente, essendo il Zeppa e Spinelloccio insieme in su la terza, Spinelloccio, che promesso aveva alla donna d’andare a lei a quella ora, disse al Zeppa: «Io debbo stamane desinare con alcuno amico, al quale io non mi voglio fare aspettare, e per ciò fatti con Dio24». 19 ciance, storie: II 8,67 n. Forme popolaresche consuete: II 7,100 n. 21 Cioè verso le nove. 22 Solito uso della congiunzione in ripresa dopo una temporale a indicare istantaneità: Intr., 78 n. 23 timore, sospetto: Amorosa Visione, XLI 77. 24 Consueta forma di commiato: VII 10,29 n. 20 Letteratura italiana Einaudi 1149 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 16 17 18 19 20 21 22 Disse il Zeppa: «Egli non è ora di desinare di questa pezza25». Spinelloccio disse: «Non fa forza26; io ho altressì a parlar seco d’un mio fatto, sì che egli mi vi convien pure essere a buona ora». Partitosi adunque Spinelloccio dal Zeppa, data una sua volta27, fu in casa con la moglie di lui; ed essendosene entrati in camera, non stette guari che il Zeppa tornò; il quale come la donna sentì, mostratasi paurosa molto, lui fece ricoverare in quella cassa che il marito detto l’avea e serrollovi entro, e uscì della camera. Il Zeppa, giunto suso, disse: «Donna, è egli otta28 di desinare?» La donna rispose: «Sì, oggimai29». Disse allora il Zeppa: «Spinelloccio è andato a desinare stamane con un suo amico e ha la donna sua lasciata sola; fatti alla finestra e chiamala, e dì che venga a desinar con essonoi». La donna, di se stessa temendo e per ciò molto ubbidiente divenuta, fece quello che il marito le ‘mpose. La moglie di Spinelloccio, pregata molto dalla moglie del Zeppa, vi venne, udendo che il marito non vi30 doveva desinare. E quando ella venuta fu, il Zeppa, faccendole le carezze31 grandi e presala dimesticamente per mano, comandò pianamente alla moglie che in cucina n’andasse, e quella seco ne menò in camera, nella quale come fu, 25 in questo tempo, a quest’ora: IV 2,23 n. e IX 8,19 n. Non importa, Non vuol dire: Sacchetti, CLXIII: «la cioppa... perché ella sia più corta, non fa forza». E cfr. Annotazioni, CII. 27 fatto un giro: IX 6,8 n. e 9; Amorosa Visione, XLII 17. 28 ora: VII 2,12 n. 29 ormai: III 6,41 n. 30 In casa. 31 affettuosità, feste: II 5,16 n. 26 Letteratura italiana Einaudi 1150 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 23 24 25 26 voltatosi addietro, serrò la camera dentro. Quando la donna vide serrar la camera dentro, disse: «Oimè, Zeppa, che vuol dire questo? Dunque mi ci avete voi fatta venir per questo? Ora, è questo l’amor che voi portate a Spinelloccio e la leale compagnia che voi gli fate?» Alla quale il Zeppa, accostatosi alla cassa dove serrato era il marito di lei e tenendola bene, disse: «Donna, imprima che tu ti ramarichi, ascolta ciò che io ti vo’ dire: io ho amato e amo Spinelloccio come fratello, e ieri, come che egli nol sappia, io trovai che la fidanza32 la quale io ho di lui avuta era pervenuta a questo, che egli con la mia donna così si giace come con teco; ora, per ciò che io l’amo, non intendo di voler di lui pigliare altra vendetta, se non quale è stata l’offesa33: egli ha la mia donna avuta, e io intendo d’aver te. Dove tu non vogli, per certo egli converrà che io il ci colga34, e per ciò che io non intendo di lasciare questa vendetta35 impunita, io gli farò giuco36 che né tu né egli sarete mai lieti». La donna, udendo questo e dopo molte riconfermazioni fattelene dal Zeppa, credendol, disse: «Zeppa mio, poi che sopra me dee cadere questa vendetta, e37 io son contenta, sì veramente38 che tu mi facci, di questo che far dobbiamo, rimanere in pace con la tua donna, come io, non ostante quello che ella m’ha fatto, intendo di rimaner con lei». 32 fiducia: I X,8 n.; IV 6,40 n. Ripete il concetto già enunciato al 3: cioè: non voglio da lui prendere più di quello che egli offendendomi mi ha preso. E cfr. X 3,29 n. 34 lo colga sul fatto, in flagrante. 35 spregio, azione oltracotante: un uso insolito ma possibile. 36 Espressione solita in simili casi: VII 5,37; VII 8,26 ecc.; e per giuco cfr. III 1,11 n. 37 Enfatico, in ripresa dopo causale, quasi un etiam: I 1,44 n. 38 Purché naturalmente, a questo patto: I 2,10 n.; II 9,22 n. 33 Letteratura italiana Einaudi 1151 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 27 28 29 30 31 A cui il Zeppa rispose: «Sicuramente io il farò; e oltre a questo ti donerò un così caro e bello gioiello, come niun altro che tu n’abbi»; e così detto, abbracciatala e cominciatala a baciare, la distese sopra la cassa, nella quale era il marito di lei serrato e quivi su, quanto gli piacque, con lei si sollazzò, ed ella con lui. Spinelloccio, che nella cassa era e udite aveva tutte le parole dal Zeppa dette e la risposta della sua moglie, e poi aveva sentita la danza trivigiana39 che sopra il capo fatta gli era, una grandissima pezza sentì tal dolore che parea che morisse; e se non fosse40 che egli temeva del Zeppa, egli avrebbe detta alla moglie una gran villania così rinchiuso come era. Poi, pur ripensandosi che da lui era la villania incominciata e che il Zeppa aveva ragione di far ciò che egli faceva, e che verso di lui umanamente e come compagno s’era portato, seco stesso disse di volere esser più che mai amico del Zeppa, quando volesse. Il Zeppa, stato con la donna quanto gli piacque, scese della cassa, e domandando la donna il gioiello promesso, aperta la camera fece venir la moglie, la quale niun’altra cosa disse, se non: «Madonna, voi m’avete renduto pan per focaccia41»; e questo disse ridendo. Alla quale il Zeppa disse: «Apri questa cassa»; ed ella il fece; nella quale il Zeppa mostrò alla donna il suo Spinelloccio. 39 «Ballo antico, e men che onesto, che usava già a Trevigi» (Manni): in senso equivoco il termine era assai diffuso: come nei fabliaux «la danse du lou», «la queue entre les jambes». 40 se non fosse stato: enallage consueta (per es. I 6,20; VI intr., 15). «Questa forma di dire... è costantemente usata dagli antichi e buoni scrittori che sembra appresso loro più tosto regola che licenza» (Bartoli). 41 Cfr. 3 n. Letteratura italiana Einaudi 1152 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 32 33 34 35 E lungo sarebbe a dire qual più di lor due si vergognò, o Spinelloccio vedendo il Zeppa e sappiendo che egli sapeva ciò che fatto aveva, o la donna vedendo il suo marito e conoscendo che egli aveva e udito e sentito ciò che ella sopra il capo fatto gli aveva. Alla quale il Zeppa disse: «Ecco il gioiello il quale io ti dono». Spinelloccio, uscito della cassa, senza far troppe novelle42, disse: «Zeppa, noi siam pari pari; e per ciò è buono, come tu dicevi dianzi alla mia donna, che noi siamo amici come solavamo43; e non essendo tra noi dua44 niun’altra cosa che le mogli divisa, che45 noi quelle ancora comunichiamo46». Il Zeppa fu contento; e nella miglior pace del mondo tutti e quattro desinarono insieme. E da indi innanzi ciascuna di quelle donne ebbe due mariti, e ciascun di loro ebbe due mogli, senza alcuna quistione o zuffa mai per quello insieme averne. – 42 ciance, chiacchiere, storie: cfr. 12 n. Desinenze correnti già notate altre volte (per es. II 5,23 n.), e qui forse usate a contraffare la pronunzia senese. 44 Altra forma diffusa soprattutto nella Toscana orientale e meridionale (Rohlfs, 971): ma cfr. Rime, 17. 45 Dipende sempre dal precedente è b u o n o . 46 anche quelle mettiamo in comune: X 8,1: «con lui comunica ogni suo bene». Si potrebbe ricordare il proverbio latino. «Omnia amicorum communia». 43 Letteratura italiana Einaudi 1153 NOVELLA NONA 1 Maestro Simone medico da Bruno e da Buffalmacco, per esser fatto d’una brigata che va in corso, fatto andar di notte in alcun luogo, è da Buffalmacco gittato in una fossa di bruttura e lasciatovi1. 2 Poi che le donne alquanto ebber cianciato dello accomunar le mogli fatto da’ due sanesi2, la reina, alla qual sola restava a dire, per non fare ingiuria a Dioneo3, incominciò: – Assai bene, amorose donne, si guadagnò Spinelloccio la beffa che fatta gli fu dal Zeppa; per la qual cosa non mi pare che agramente sia da riprendere, come Pampinea volle poco innanzi mostrare4, chi fa beffa alcuna a colui che la va cercando o che la si guadagna. Spinelloccio la si guadagnò; e io intendo di dirvi d’uno che se l’andò cercando; estimando che quegli che gliele fecero, non da biasimare ma da com mendar sieno. E fu colui a cui fu fatta un medico, che a Firenze 3 1 Nessun antecedente per questa tipica novella municipale: se non, in qualche modo, le tradizioni e le narrazioni classiche di magie in Luciano, Petronio, Apuleio, e quelle medievali del Sabah, di cui largamente già discorse il Bottari (II, pp. 209 sgg.), e le relative tradizioni popolari (Thompson, K 1286, P 424, X 950 sgg.; G. BONOMO, Caccia alle streghe, Palermo 1959, pp. 339 sgg.; M. P. GIARDINI, Tradizioni popolari cit., pp. 69 sgg.; e cfr. anche per qualche riscontro orientale R. BASSET, Contes et légendes de l’extréme Orient, in «Rev. des traditions populaires», XVIII, 1902). Il Baldinucci (Vita di Bruno cit.) narra l’avvenimento come realmente accaduto. Per il particolare valore di «va in corso», cfr. la spiegazione a 19-30. 2 Due endecasillabi e un quinario di seguito, d’apertura. 3 Cioè per non togliere a Dioneo il diritto di parlare per ultimo. 4 Cfr. VIII 7,3 e VIII 8,2. Letteratura italiana Einaudi 1154 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 4 5 da Bologna, essendo una pecora5, tornò tutto coperto di pelli di vai6. Sì come noi veggiamo tutto il dì i nostri cittadini da Bologna7 ci tornano qual giudice e qual medico e qual notaio, co’ panni lunghi e larghi, e con gli scarlatti8 e co’ vai, e con altre assai apparenze grandissime9, alle quali come gli effetti succedano anche veggiamo tutto giorno10. Tra’ quali un maestro Simone da Villa11, più ricco di ben paterni che di scienza, non ha gran tempo, vestito di scarlatto e con un gran batalo12, dottor di medicine, secondo che egli medesimo diceva, ci ritornò13, 5 pur essendo un bestione, uno scroccone: cfr. VI intr.,10 e anche la nota del M. a II 8,21; e qui, più avanti (12), pecoraggine. 6 Secondo l’uso degli addottorati: VIII 5,7 n. 7 Si ricordi che l’università a Firenze funzionò solo dopo il 1349. 8 La veste scarlatta (cfr. n. a VII 3,12) caratteristica di chi aveva titolo dottorale: i p a n n i l u n g h i e l a r g h i alludono alla guarnacca (VII I 5,9). 9 Si conclude qui l’eccezionale serie di versi che caratterizza questo inizio di novella, in cui il movimento burlesco è sottolineato dagli echi caricaturali delle rime e dalla mobilità estrema degli accenti e della misura dei versi. 10 Risponde al precedente tutto il dì: e cfr. I 1,88 n. 11 Di questo credulo e sciocco medico tessé una vita, mescolando notizie d’archivio a quelle fornite dalle novelle del B. (VIII 9 e IX 3), il Manni nelle Veglie piacevoli (IV, pp. 3 sgg.). Esistette effettivamente una famiglia Da Villa, e un Ricciardo da Villa fu Podestà di Bologna nel 1250 e 1255; un Messer Simone da Villa è ricordato nelle Storie pistoresi nel 1315 e 1326 (RR.II.SS.2, XI 5, pp. 65, 104, 105). Un Maestro Simone Medico risulta sepolto in Santa Croce, verso la metà del Trecento, dal Sepoltuario della Chiesa stessa conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze (cod. Magliabechiano XXXVII 286). 12 meglio batolo: falda del cappuccio che nobili, preti, dottori ecc. lasciavano cadere sulle spalle. Cfr. Sacchetti, XLII e CLV, da cui si trae che a Firenze l’uso era caratteristico dei medici (cfr. Merkel, pp. 64 sgg.). 13 venne a stare di casa qui a Firenze (II 5,22 n.). Difatti, come si dirà più innanzi, «a Bologna nato e cresciuto era» (78). Letteratura italiana Einaudi 1155 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 6 7 8 e prese casa nella via la quale noi oggi chiamiamo la Via del Cocomero14. Questo maestro Simone novellamente tornato, sì come è detto, tra gli altri suoi costumi notabili aveva in costume di domandare chi con lui era chi15 fosse qualunque uomo veduto avesse per via passare; e quasi degli atti degli uomini dovesse le medicine che dar doveva a’ suoi infermi comporre, a tutti poneva mente e raccoglievagli16. E intra gli altri, alli quali con più efficacia gli vennero gli occhi addosso posti17, furono due dipintori dei quali s’è oggi qui due volte ragionato, Bruno e Buffalmacco, la compagnia de’ quali era continua18, ed eran suoi vicini. E parendogli che costoro meno che alcuni altri del mondo curassero19 e più lieti vivessero, sì come essi facevano, più persone domandò di lor condizione; e udendo da tutti costoro essere poveri uomini e dipintori, gli entrò nel capo non dover potere essere che essi dovessero così lietamente vivere della lor povertà, ma s’avvisò, per ciò che udito avea, che astuti uomini erano, che d’alcuna altra parte non saputa da gli uomini 14 Corrispondeva a un tratto dell’attuale Via Ricasoli, presso Mercato Vecchio, dove abitavano anche Bruno e Buffalmacco: cfr. IX 3,17: «maestro Simone ... allora a bottega stava in Mercato Vecchio alla ’nsegna del mellone». Certo questa toponomastica è scelta anche per alludere alla balordaggine di Simone (cfr. 15 n.). E per l’uso di ripetizioni simili a quella di via in questa frase cfr. Esposizioni, X 24: «il mare fu chiamato il mar Tireno»; Vita Nuova, XXV 9 e la nota del Barbi nell’ed. cit. 15 La solita costruzione di domandare con due accusativi: II 7,87 n. 16 osservava e meditava: III 9,37 n. 17 e intra gli altri addosso li quali ecc. (Foscolo). 18 i quali stavano sempre insieme (cfr. VIII 3 e 6). E cfr. VIII 3,4 nn. 19 si preoccupassero della gente, si curassero del successo mondano. Letteratura italiana Einaudi 1156 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 9 10 11 12 13 dovesser trarre profetti 20 grandissimi; e per ciò gli venne in disidero di volersi, se esso potesse con amenduni, o con l’uno almeno, dimesticare; e vennegli fatto di prendere dimestichezza con Bruno. E Bruno, conoscendolo21, in poche di volte che con lui stato era, questo medico essere uno animale 22, cominciò di lui ad avere il più bel tempo del mondo con sue nuove novelle23, e il medico similmente cominciò di lui a prendere maraviglioso piacere. E avendolo alcuna volta seco invitato a desinare e per questo credendosi dimesticamente con lui poter ragionare, gli disse la maraviglia che egli si faceva di lui e di Buffalmacco, che, essendo poveri uomini, così lietamente viveano; e pregollo che gli ’nsegnasse come facevano. Bruno, udendo il medico, e parendogli la domanda dell’altre sue sciocche e dissipite24, cominciò a ridere, e pensò di rispondergli secondo che alla sua pecoraggine 25 si convenia, e disse: «Maestro26, io nol direi a molte persone come noi facciamo, ma di dirlo a voi, perché siete amico e so che ad altrui nol direte, non mi guarderò. Egli è vero che il mio compagno e io viviamo 20 profitti. Forma meno frequente ma corrente (cfr. per es. Fra Giordano, Prediche, ed. Moreni, Firenze 1831, II, pp. 43 e 45). 21 -lo è prolettico della frase seguente. Non pare invece possibile costruire diversamente, considerando questo medico soggetto di era: «E Bruno conoscendolo (in poche di volte che con lui stato era questo medico) essere uno animale». 22 Espressione generica, a indicare la sciocchezza di Simone, analoga a quelle della VI intr., 7 e 9; VII 6,2 ecc.; ma già usata dal B. nell’Amorosa Visione proprio per coloro che credono le ricchezze sommo bene e unica fonte di felicità (XXXII 2 sgg.). 23 a prender sollazzo delle sue strane scempiaggini, ciancie. 24 una delle sue solite sciocchezze e delle più insipide: III 8,6 n. 25 scempiaggine, balordaggine: cfr. 3 n. 26 Il solito titolo degli addottorati in medicina: IV 10,4 n. Letteratura italiana Einaudi 1157 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 14 15 così lietamente e così bene come vi pare e più; né di nostra arte né d’altro frutto, che noi d’alcune possessioni traiamo27, avremmo da poter pagar pur l’acqua che noi logoriamo28; né voglio per ciò che voi crediate che noi andiamo ad imbolare29, ma noi andiamo in corso, e di questo ogni cosa che a noi è di diletto o di bisogno, senza alcun danno d’altrui, tutto traiamo, e da questo viene il nostro viver lieto che voi vedete». Il medico udendo questo e, senza saper che si fosse, credendolo, si maravigliò molto; e subitamente entrò in disidero caldissimo di sapere che cosa fosse l’andare in corso; e con grande instanzia il pregò che gliel dicesse, affermandogli che per certo mai a niuna persona il direbbe30. «Omè!» disse Bruno «maestro, che mi domandate voi? Egli è troppo gran segreto quello che voi volete sapere, ed è cosa da disfarmi31 e da cacciarmi del mondo; anzi da farmi mettere in bocca del Lucifero da San Gallo32, se altri il risapesse; ma sì è grande l’amor che io porto alla vostra qualitativa mellonaggine da Legnaia33, 27 ricaviamo. consumiamo: «ma non detto propriamente, ché logorare dicesi di cose che si deteriorano e vengon meno per lungamente trattarle» (Fanfani). 29 involare, rubare. 30 Come già un altro babbeo, Puccio (III 4,14 n.) a un altro furbo matricolato. 31 rovinarmi, farmi perire: IV 9,24 n. e VIII 4,4 n 32 L’ospedale, di cui alla IV 7,11 n., «nella facciata aveva dipinto il Diavolo grandissimo con più bocche; laonde i fanciulli avevan grandissima paura a vederlo» (Sansovino): e cfr. VIII 2,46 n. 33 A Legnaia, borgo presso Firenze, si producevano melloni assai pregiati. Mellonaggine vale naturalmente stupidaggine, scempiaggine (cfr. 64 n. e Corbaccio, 458); qualitativa, aggettivo corrente nel linguaggio scientifico del tempo, è qui parola di colore oscuro e senza preciso senso che serve soltanto a rendere equivocamente stupefacente il suono della frase, colla quale forse Bruno 28 Letteratura italiana Einaudi 1158 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 16 17 e la fidanza34 la quale ho in voi, che io non posso negarvi cosa che voi vogliate; e per ciò io il vi dirò con questo patto, che voi per la croce a Montesone35 mi giurerete che mai, come promesso avete, a niuno il direte». Il maestro affermò che non farebbe36. «Dovete adunque,» disse Bruno «maestro mio dolciato37, sapere che egli non è ancora guari che in questa città fu un gran maestro in nigromantia, il quale ebbe nome Michele Scotto38, per ciò che di Scozia era, e da molti gentili uomini, de’ quali pochi oggi son vivi, ricevette grandissimo onore; e volendosi di qui partire, ad istanzia de’prieghi loro ci lasciò due suoi soffficienti39 discepoli, a’ quali impose che ad ogni piacere di questi cotali gentili uomini, che onorato l’aveano, fossero semvuol dire: la vostra stupidaggine squisita, di buona qualità, e da legno, cioè degna di bastone («ed è uno dei molti termini dispregiativi della sciocchezza del medico che Bruno usa con tono di rispettoso affetto, come dolciato, 17, zucca mia da sale, 22»: Segre). Bruno, in questo e nei discorsi seguenti, sfrutta anche evidentemente l’ignoranza di Simone circa la toponomastica di Firenze e del contado, si che quei nomi e quei termini anfibologici suonano sempre meravigliosi, come già per i poveri certaldesi quelli simili fioriti, anche espressivisticamente come qui, sulle labbra di Fra Cipolla. 34 fiducia: I 1,8 n.; IV 6,40 n. 35 Montisoni, Poggio presso Firenze, sopra l’Antella, con monastero, chiesa e castello assai noti. V’era un crocefisso famoso (cfr. P. BERTI, San Lorenzo a Montisoni, Firenze 1889). 36 non lo direbbe: secondo l’uso corrente (cfr. Intr., 14 n.). 37 dolce; ma qui Bruno intende dire, come altrove (60 n.), dolce di sale (IV 2,20 n.), scimunito. Cfr. IV 3,66 n. 38 Valente pensatore scozzese, celebre specie quale astrologo di Federico II: Sembra che abbia vissuto oltre il 1290. Scrisse di filosofia, d’astrologia, diritto ammirativo e ne riferí varie profezie (cfr. specie pp. 515 sgg. e 525 sgg.); Leonardo Fibonacci lo esaltò quale sommo maestro; Dante lo pose nella quarta bolgia con alte parole di lode per la sua arte (Inf., XX 116 sg.: «Michele Scotto fu, che veramente | De le magiche frode seppe ’l gioco»). Altre notizie più o meno fantastiche danno i commentatori danteschi. 39 valenti, insigni: VII 1,33 n.; Par., XIII 96, Letteratura italiana Einaudi 1159 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 18 19 20 pre presti. Costoro adunque servivano i predetti gentili uomini di40 certi loro innamoramenti e d’altre cosette liberamente; poi, piacendo lor la città e i costumi degli uomini, ci si disposero a voler41 sempre stare, e preserci di grandi e di strette amistà con alcuni, senza guardare chi essi fossero, più gentili che non gentili, o più ricchi che poveri, solamente che uomini fossero conformi a’ lor costumi. E per compiacere a questi così fatti loro amici ordinarono una brigata forse di venticinque42 uomini, li quali due volte almeno il mese insieme si dovessero ritrovare in alcun luogo da loro ordinato; e qui vi essendo, ciascuno a costoro il suo disidero dice, ed essi prestamente per quella notte il forniscono43. Co’ quali due avendo Buffalmacco e io singulare amistà e dimestichezza, da loro in cotal brigata fummo messi, e siamo. E dicovi così che, qualora egli avvien che noi insieme ci raccogliamo, è maravigliosa cosa a vedere i capoletti44 intorno alla sala dove mangiamo, e le tavole messe alla reale45, e la quantità de’ nobili e belli servidori, così femine come maschi, al piacer di ciascuno che è di tal compagnia, e i bacini, gli urciuoli, i fiaschi e le coppe e 40 circa, riguardo a. si disposero a volerci ... : uno dei consueti iperbati. Il solito numero approssimativo e generico: III intr., 3 n. 43 compiono, adempiono quel desiderio. A simili magici conviti alludono i commentatori danteschi parlando proprio di Michele Scotto: per es. il Lana, commentando Inf., XX I 15-17, «usando con gentili uomini e cavalieri, e mangiando come s’usa tra essi in brigata a casa l’uno dell’altro, quando venia la volta di lui d’apparecchiare ... aveva spiriti a suo comandamento che li facea levare lo lesso dalla cucina dello re di Francia, lo rosto da quella del re d’Inghilterra, le tramesse di quella del re di Sicilia, lo pane d’un luogo e ’l vino d’un altro, confetti e frutta là onde li piacea ...» (cfr. più avanti, 20). 44 drappi da parare stanze, come alla X 10,52, più che nel senso particolare della VII intr., 9. 45 imbandite regalmente. 41 42 Letteratura italiana Einaudi 1160 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 21 22 23 24 l’altro vasellamento d’oro e d’argento, ne’ quali noi mangiamo e beiamo; e oltre a questo le molte e varie vivande, secondo che ciascun disidera, che recate ci sono davanti ciascheduna a suo tempo. Io non vi potrei mai divisare chenti46 e quanti sieno i dolci suoni d’infiniti istrumenti e i canti pieni di melodia che vi s’odono; né vi potrei dire quanta sia la cera che vi s’arde a queste cene, né quanti sieno i confetti che vi si con sumano e come sieno preziosi i vini che vi si beono. E non vorrei, zucca mia da sale47, che voi credeste che noi stessomo48 là in questo abito o con questi panni che ci vedete: egli non ve n’è niuno sì cattivo49 che non vi paresse uno imperadore, sì siamo di cari50 vestimenti e di belle cose ornati. Ma sopra tutti gli altri piaceri che vi sono, si è quello delle belle donne, le quali subitamente, purché l’uom voglia, di tutto il mondo vi son recate. Voi vedreste quivi la donna dei Barbanicchi, la reina de’ Baschi, la moglie del soldano, la imperadrice d’Osbech, la ciancianfera di Norrueca, la semistante di Berlinzone e la scalpedra di Narsia51. Che vivo io annoverando52? E’ vi 46 descrivere, narrare partitamente e minutamente quali ... : II 8,86 n.; VI 10,39 n. 47 Variazione sul tema dell’appellativo precedente dolciato (17): e cfr. IV 2,20 n. 48 Per la forma cfr. VIII 3,31 n. 49 povero, meschino: II 5,58 n.; IX 5,67 n. 50 preziosi: II 5,77 n. 51 Sono nomi in parte del tutto fantastici, in parte con qualche riferimento etimologico o furbesco alla realtà: ma tutti stravolti e lasciati cadere con un’intonazione meravigliosa e stupefacente, degna di Frate Cipolla (VI 10) e di Maso del Saggio (VIII 3). La terra dei B a s c h i e B e r l i n z o n e sono nominati come paesi di fiabesca distanza proprio nella VIII 3 (9 e II); O s b e c h è ricordato nel fulgore della sua favolosa potenza nella II 7,76 sgg.; il S o l d a n o appare più volte anche nelle novelle del D.; N o r r u e c a è forse deformazione per Norweg e Norvegia; b a r b a n i c c h i ricorre anche nel sonetto del Burchiello Andando fuor l’altra sera a sollazzo; c i a n c i a n f e r a (da ricondurre forse a «ciancia»), s e m i - Letteratura italiana Einaudi 1161 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 25 26 27 sono tutte le reine del mondo, io dico infino alla schinchimurra53 del Presto Giovanni, che ha per me’ ‘1 culo le corna: or vedete oggimai voi! Dove, poi che hanno bevuto e confettato54, fatta una danza o due, ciascuna con colui a cui stanza55 v’è fatta venire se ne va nel la sua camera. E sappiate che quelle camere paiono un paradiso a veder, tanto son belle; e sono non meno odorifere56 che sieno i bossoli57 delle spezie della bottega vostra, quando voi fate pestare il comino58, e havvi letti che vi parrebber più belli che quello del doge di Vinegia, e in quegli a riposar se ne vanno. Or che menar di calcole e di tirar le casse a sè per fare il panno serrato faccian le tessitrici59, lascerò io pensare pure a voi! Ma s t a n t e (che richiama «amostante», «almirante»), s c a l p e d e r a (forse contaminazione di «scalpitare» e «puledra»), come nota Sapegno, sono titoli presentati immaginosamente e burlescamente per incantare Simone. Simili sono del resto vari di quelli enumerati dal Sacchetti nella sua frottola di «molti strani vocaboli de’ fiorentini» (Rime, CLIX). E cfr. in generale G. HERCZEG, I cosiddetti ‘nomi parlanti’ nel D. cit.; e, per l’espressivismo, Introduzione pp. XXXII sg. 52 Ricorda puntualmente un momento del discorso di Frate Cipolla (VI 10,39). 53 «Parola foggiata in modo che possa sembrare un termine della lingua Originale del prete Gianni: sarà ‘moglie’, ‘regina’ o simili» (Marti). Il leggendario Pretejanni (Imperatore-sacerdote d’Etiopia) fu chiamato a Firenze P r e s t o G i o v a n n i (cfr. per es. Novellino, 1; G. Villani, passim: fr. Preste Jean): gli furono attribuiti ricchezze smisurate e poteri sovrannaturali. Il M. a margine: «che ha per me’ ’1 culo le corna». 54 mangiato confetti, dolciumi: VIII 10,21. 55 a richiesta del quale. 56 Come sono sempre le camere di convegni amorosi: II 5,17; VIII 10,17 sgg. 57 barattoli. «Questo mostra che i medici erano anco speziali e fabbricavano e vendevano rimedi» (Martinelli); cfr. difatti IX 4,28 sgg. 58 Pianta ombrellifera medicinale dai cui semi si estraggono essenze adoperate per liquori e profumi. 59 Linguaggio equivoco tratto dall’arte tessile, come nella nota Letteratura italiana Einaudi 1162 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 28 29 30 31 tra gli altri che meglio stanno, secondo il parer mio, siam Buffalmacco e io, per ciò che Buffalmacco le più delle volte vi fa venir per sè la reina di Francia, e io per me quella d’Inghilterra, le quali son due pur le più belle donne del mondo; e sì abbiamo saputo fare che elle non hanno altro occhio in capo che noi60. Per che da voi medesimo pensar potete se noi possiamo e dobbiamo vivere e andare più che gli altri uomini lieti, pensando che noi abbiamo l’amor di due così fatte reine; senza che61, quando noi vogliamo un mille o un dumilia fiorini da loro, noi non gli abbiamo62. E questa cosa chiamiam noi vulgarmente l’andare in corso63; per ciò che sì come i corsari tolgono la roba d’ogn’uomo, e così facciam noi; se non che di tanto siam differenti da loro, che eglino mai non la rendono, e noi la rendiamo come adoperata l’abbiamo. Ora avete, maestro mio da bene64, inteso ciò che noi diciamo l’andare in corso; ma quanto questo voglia esser segreto voi il vi potete vedere, e per ciò più nol vi dico né ve65 ne priego». Il maestro, la cui scienzia non si stendeva forse più del M. alla IV 7,8; e cfr. Pataffio, VIII 24. C a l c o l a e c a s s a sono parti del telaio. 60 Modo assai diffuso per dire che non hanno altra cosa più cara. 61 senza aggiungere che. 62 È, detto certo scivolando sulla negazione, per goder meglio della scempiaggine del Maestro: proprio come Frate Cipolla aveva detto che chi fosse segnato dai carboni miracolosi «fuoco noi cocerà che non si senta» (VI 10,52), o Maso a Calandrino, esaltando le virtù dell’elitropia, aveva affermato che chi la tiene addosso «non è da alcuna altra persona veduto dove non è» (VIII 3,20). 63 L’espressione (letteralmente esercitare la pirateria) ricorda i termini tecnici delationem ad ludum e portari ad ludum del linguaggio canonico riferentesi alle streghe, agli incantesimi e alle feste demoniache. 64 Bruno gioca evidentemente su d a b e n e e d a b b e n a g g i n e : mentre chiama Simone scimunito, sembra fargli una lode. 65 Idiotismo per vi: Cfr. VIII 2,20 n. Letteratura italiana Einaudi 1163 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 32 33 34 35 oltre che il medicare i fanciulli del lattime66, diede tanta fede alle parole di Bruno quanta si saria convenuta a qualunque verità; e in tanto disiderio s’accese di volere essere in questa brigata ricevuto, quanto di qualunque altra cosa più disiderabile si potesse essere acceso. Per la qual cosa a Bruno rispose che fermamente maraviglia non era se lieti andavano; e a gran pena si temperò in riservarsi67 di richiederlo che essere il vi facesse, infino a tanto che, con più onor fattogli, gli potesse con più fidanza68 porgere i prieghi suoi. Avendoselo adunque riservato, cominciò più a continuare con lui l’usanza69 e ad averlo da sera e da mattina a mangiar seco e a mostrargli smisurato amore70; ed era sì grande e sì continua questa loro usanza, che non parea che senza Bruno il maestro potesse né sapesse vivere. Bruno, parendogli star bene, acciò che ingrato non paresse di questo onor fattogli dal medico, gli aveva dipinto nella sala sua la Quaresima71 e uno agnus dei all’entrar della camera e sopra l’uscio della via uno orinale72, acciò che coloro che avessero del suo consiglio bisogno il sapessero riconoscere dagli altri; e in una sua loggetta gli aveva dipinta la battaglia dei topi e delle gatte73, la quale troppo bella cosa pareva al medico. E oltre a questo diceva alcuna volta al maestro, quando con lui non avea cenato: «Stanotte fu’ io alla brigata, ed 66 Cioè quelle croste che vengono ai lattanti. si trattenne, fece forza a se stesso nell’astenersi. 68 fiducia, confidenza: cfr. 15 n. e 41. 69 a frequentarlo familiarmente sempre più: cfr. IV 3,12 n. 70 Due endecasillabi di seguito. 71 Cioè una di quelle personificazioni e raffigurazioni della Quaresima, come donna macilenta e penitente, che non erano rare in quel secolo. 72 Perché l’esame delle urine era uno dei mezzi diagnostici più usati: IX 3,15 n. 73 Per l’uso di questo femminile cfr. V 10,20 n. 67 Letteratura italiana Einaudi 1164 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 36 37 38 39 40 41 essendomi un poco la reina d’Inghilterra rincresciuta, mi feci venire la gumedra del gran Can d’Altarisi74». Diceva il maestro: «Che vuol dire gumedra? Io non gli intendo questi nomi». «O maestro mio,» diceva Bruno «io non me ne maraviglio, ché io ho bene udito dire che Porcograsso e Vannaccena75 non ne dicon nulla». Disse il maestro: «Tu vuoi dire Ipocrasso e Avicena». Disse Bruno: «Gnaffé! io non so; io m’intendo così male de’ vostri nomi come voi de’ miei; ma la gumedra in quella lingua del gran Cane vuol tanto dire quanto imperadrice nella nostra. O ella vi parrebbe la bella feminaccia! Ben vi so dire che ella vi farebbe dimenticare le medicine e gli argomenti76 e ogni impiastro». E così dicendogli alcuna volta per più accenderlo, avvenne che, parendo a messer lo maestro una sera a vegghiare77, (parte che78 il lume teneva a Bruno che la battaglia de’ topi e delle gatte dipignea), bene averlo co’ suoi onori preso 79 , che 80 egli si dispose d’aprirgli l’animo suo; e soli essendo, gli disse: «Bruno, come 74 Altra buffonesca invenzione; forse il nome è foggiato su qualche suggestione di «scuccumedra» (cavalla da poco, rozza: Sacchetti, LXIV)? A 1 t a r i s i potrebbe esser coniato fantasiosamente su una contaminazione fra ‘altare’ e ‘Altai’, la regione mongola descritta da Marco Polo (LXIX-LXXI) parlando di Cinghis Can e dei suoi discendenti. 75 Deformazioni caricaturali, a sfondo culinario, per Ippocrate e Avicenna (i celeberrimi medici l’uno greco e l’altro arabo) che devono convincere Maestro Simone della sua superiorità su quel povero pittore ignorante: e cfr. per queste e le precedenti deformazioni G. HERCZEG, art. cit. 76 serviziali, clisteri più probabilmente che rimedi come a Intr., 13 n. 77 una sera a veglia. 78 mentre: VIII 7,92 n. 79 conquistato, reso amico coi suoi inviti e colle sue cortesie. 80 Solita ripetizione del che dopo la lunga frase parentetica: I 3,II n. Letteratura italiana Einaudi 1165 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 42 43 44 45 Iddio sa, egli non vive oggi alcuna persona per cui io facessi ogni cosa come io farei per te; e per poco81, se tu mi dicessi che io andassi di qui a Peretola82, io credo che io v’andrei; e per ciò non voglio che tu ti maravigli se io te dimesticamente e a fidanza richiederò. Come tu sai, egli non è guari che tu mi ragionasti de’ modi della vostra lieta brigata, di che sì gran disiderio d’esserne83 m’è venuto, che mai niuna altra cosa si disiderò tanto. E questo non è senza cagione, come tu vedrai se mai avviene che io ne sia; ché infino ad ora voglio io che tu ti facci beffe di me se io non vi fo venire la più bella fante che tu vedessi già è buona pezza, a che io vidi pur l’altr’anno a Cacavincigli84, a cui io voglio tutto il mio bene; e per lo corpo di Cristo che io le volli dare dieci bolognin 85 grossi, e 86 ella mi s’acconsentisse, e non volle. E però quanto più posso ti priego che m’insegni quello che io abbia a fare per dovervi potere essere, e che tu ancora facci e adoperi che io vi sia; e nel vero voi avrete di me buono e fedel compagno e orrevole. Tu vedi innanzi innanzi87 come io sono bello uomo e come mi stanno bene le gambe in su la persona88, e ho un viso 81 quasi: II 5,8 n. «Non sa come forestiero e come goffo che in un’ora si farebbe quel viaggio per la vicinità di quei luoghi» (Nisiely): cfr. VI 4,5 n. 83 essere uno della brigata, esservi compreso: come al 43 e al 51 che io ne sia. 84 «È un chiasso in Firenze così nominato, cioè calle ovvero ruga sporca e da vil gente abitata ... Cacavincigli tanto vuol dire quanto cacavinci o vincigli, cioè di stirpe de’ villani; e cacastecchi in Toscana anco si dice a uno che sia misero e avaro» (Alunno). È toponimo certo usato come burlesca anticipazione della maleodorante conclusione della novella. 85 Monete bolognesi d’argento del valore di circa sei quattrini (I 1,55 n.). 86 Con valore condizionale come alla VI 3,7 n. 87 anzi tutto. 88 come sono aitante, in gamba: IV 2,32 n. 82 Letteratura italiana Einaudi 1166 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 46 47 48 49 50 che pare una rosa, e oltre a ciò son dottore di medicine, che non credo che voi ve n’abbiate niuno; e so di molte belle cose e di belle canzonette, e vo’tene dire una - ; e di botto incominciò a cantare89». Bruno aveva sì gran voglia di ridere che egli in sè medesimo non capeva; ma pur si tenne. E finita la canzone, el90 maestro disse: «Che te ne pare?» Disse Bruno: «Per certo con voi perderieno le cetere de’ sagginali91, sì artagoticamente stracantate92». Disse il maestro: «Io dico che tu non l’avresti mai creduto, se tu non m’avessi udito». «Per certo voi dite vero,» disse Bruno. Disse il maestro: «Io so bene anche dell’altre, ma lasciamo ora star questo. Così fatto come tu mi vedi93, mio padre fu gentile uomo, benché egli stesse in contado, e io altressì son nato per madre di quegli da Vallecchio94; e, come tu hai potuto vedere, io ho pure i più 89 Anticipazione della goffaggine di Calandrino innamorato (IX 5,39). 90 Altro esempio nel D. di questa forma corrente dell’articolo maschile, forse con connotazione ironica e contadinesca (A. CASTELLANI, Nuovi testi fiorentini, Firenze 1952, p. 44): ma ricorre in altri scritti del B. (per es. VIII 2,41 n.; Amorosa Visione, VIII 18; Rime, XVII 12, XVIII 5, LV 2 e 5). Per questo non è necessario scrivere e ’1, come fecero alcuni editori. 91 Cetere o zufoli fatti dalle canne di saggina: ma cfr. VIII 2,30 n. 92 È evidentemente verbo coniato su straparlare, stralare ecc.; e mentre a Simone suona come una lode superlativa (il prefisso stra- serve talora a formare proprio superlativi) in realtà significa cantar male, uscir dai termini del bel canto. Così a r t a g o t i c a m e n t e , interpretato dalla Crusca miracolosamente, più probabilmente vuol significare arcigoffamente, arcirozzamente (dal senso spregiativo che aveva «gotico»). Ma naturalmente tutta la frase ha valore nel suo complessivo suono grandioso ed equivoco che sempre più intontisce Simone (cfr. Introduzione a questa edizione, p. XXXIII). 93 Tal quale mi vedi: Inf., XXXIII 70. 94 Borgo ora nel comune di Castelfiorentino. Letteratura italiana Einaudi 1167 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 51 52 53 be’ libri e le più belle robe che medico95 di Firenze. In fè di Dio, io ho roba che costò, contata ogni cosa, delle lire presso a cento di bagattini96, già è degli anni più di diece97! Per che quanto più posso ti priego che facci che io ne sia; e in fè di Dio, se tu il fai, sie pure infermo se tu sai98, che mai di mio mestiere io non ti torrò un denaio». Bruno, udendo costui, e parendogli, sì come altre volte assai paruto gli era, un lavaceci99, disse: «Maestro, fate un poco il lume più qua, e non v’incresca infin tanto che io abbia fatte le code a questi topi, e poi vi risponderò». Fornite100 le code, e Bruno faccendo vista che forte la petizion gli gravasse, disse: «Maestro mio, gran cose son quelle che per me fareste, e io il conosco; ma tuttavia quella che a me addimandate, quantunque alla grandezza del vostro cervello sia piccola, pure è a me grandissima, né so alcuna persona del mondo per cui io potendo la mi facessi101, se io non la facessi per voi, sì perché v’amo quanto si conviene, e sì per le parole vostre le quali son condite di tanto senno che trarrebbono le pinzochere degli usatti102, non che me del mio proponi- 95 che qualsiasi altro medico: secondo termine di paragone. circa cento lire di bagattini: così erano chiamati i piccioli (I 1,55 n.) o danari (11 2,7 n.) a Venezia e in generale nell’Italia Settentrionale. L’espressione equivale quindi a lire di piccioli (IX 3,4 n.). 97 sono passati già più di dieci anni. 98 ammalati pure quanto ti piace. 99 scimunito, uomo dappoco: VII 1,33 n. 100 Finite, Compiute. 101 Da notare qui, perché l’una accanto all’altra, le due desinenze in -e e -i della prima persona del congiuntivo imperfetto che si alternano nel B. come in generale nel Due-Trecento (Inf., XIII 25, Purg., VIII 47: cfr. Rohlfs, 560). 102 caverebbero le pinzochere (III 7,35) dai loro stivaletti, le farebbero andar scalze. Un’altra frase di colore oscuro per stordire Maestro Simone: forse accenna burlescamente a cosa impossibile, 96 Letteratura italiana Einaudi 1168 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 54 55 56 mento; e quanto più uso con voi, più mi parete savio. E dicovi ancora così, che se altro non mi vi facesse voler bene, sì vi vo’ bene perché veggio che innamorato siete di così bella cosa come diceste. Ma tanto103 vi vo’ dire: io non posso in queste cose quello che voi avvisate104, e per questo non posso per voi quello che bisognerebbe adoperare; ma, ove voi mi promettiate sopra la vostra grande e calterita105 fede di tenerlomi credenza106, io vi darò il modo che a tenere avrete; e parmi esser certo che, avendo voi così be’libri e l’altre cose che di sopra dette m’avete, che egli vi verrà fatto». A cui il mastro disse: «Sicuramente di’: io veggio che tu non mi conosci bene e non sai ancora come io so tenere segreto. Egli erano poche cose che messer Guasparruolo da Saliceto facesse, quando egli era giudice della podestà di Forlimpopoli, che egli non me le mandasse a dire, perché mi trovava così buon segretaro107. E vuoi vedere se io dico vero? Io fui il primaio108 uomo a cui egli dicesse che egli era per isposare la Bergamina: vedi oggimai tu109!» poiché le pinzochere avevano per regola di andare scalze. Per u s a s t i (da uose) cfr. Corbaccio, 460. 103 soltanto: cfr. V 8,20 n. 104 credete, immaginate: Intr., 20 n.; VI concl ., 47 n 105 Forse anche questa è parola usata senza preciso senso: a meno che Bruno abbia voluto a bella posta giocare equivocamente fra i due significati che sono documentati nei vocabolari, e cioè scaltrito, accorto (Jacopone, XLIII 139: lat. cauteritus) e impuro, macchiato (Volg. Trattati di Albertano cit.: T.). 106 tenermelo segreto: III 1,21 n.; VIII 3,8 e 37 no. 107 uomo che tiene il segreto: cfr. G. Villani, IX 163: «La cagione nullo sapea, se non certi segretari». E si noti, per quel che può valere, che Guglielmo da Saliceto fu autorevole professore di medicina a Bologna fra il XIII e il XIV secolo. 108 È esito toscano da primarius: Teseida, IV 16, VII 49, XII 46 ecc. 109 vedi ormai tu, vedi un po’ tu. Letteratura italiana Einaudi 1169 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 57 58 59 60 61 «Or bene sta dunque,» disse Bruno «se cotestui se ne fidava, ben me ne posso fidare io. Il modo che voi avrete a tener fia questo. Noi sì abbiamo a questa nostra brigata un capitano con due consiglieri110, li quali di sei in sei mesi si mutano; e senza fallo a calendi111 sarà capitano Buffalmacco e io consigliere, e così è fermato; e chi è capitano può molto in mettervi e far che messo vi sia chi egli vuole; e per ciò a me parrebbe che voi, in quanto voi poteste, prendeste la dimestichezza di Buffalmacco e facestegli onore. Egli è uomo che, veggendovi così savio, s’innamorerà di voi incontanente, e quando voi l’avrete col senno vostro e con queste buone cose che avete un poco dimesticato112, voi il potrete richiedere: egli non vi saprà dir di no. Io gli ho già ragionato di voi, e vuolvi il meglio del mondo113; e quando voi avrete fatto così, lasciate far me con lui». Allora disse il maestro: «Troppo114 mi piace ciò che tu ragioni; e se egli è uomo che si diletti de’savi uomini, e favellami pure un poco, io farò ben che egli m’andrà sempre cercando, per ciò che io n’ho tanto del senno, che io ne potrei fornire una città. e rimarrei savissimo». Ordinato questo, Brun disse ogni cosa a Buffalmacco per ordine; di che a Buffalmacco parea mille anni di dovere essere a far quello che questo maestro sapa 115 andava cercando. Il medico che oltre modo disiderava 110 Secondo il modello delle compagnie dei laudesi e delle confraternita religiose in generale (cfr. VII 1,4 n.). 111 il primo del mese venturo: III 8,70 n. 112 ve lo sarete ... fatto un poco amico: cfr. V 5,12 n. 113 vi vuole il più gran bene del mondo: solito superlativo (II 10,16 n.) ripetuto anche al 68. 114 Col solito valore di moltissimo. 115 Appellativo burlevole che riprende il precedente dolciato (17 n.): sapa è il mosto cotto, il miele d’uva: ed è proverbiale «Dolce come la sapa» (Giusti, Proverbi toscani, p. 363). Letteratura italiana Einaudi 1170 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 62 d’andare in corso, non mollò mai che116 egli divenne amico di Buffalmacco, il che agevolmente gli venne fatto; e cominciogli a dare le più belle cene e i più belli desinari del mondo, e a Bruno con lui altressì; ed essi si carapinavano117. come que’signori, li quali118 sentendogli bonissimi vini119 e di grossi capponi ed altre buone cose assai, gli si tenevano assai di presso, e senza troppi inviti, dicendo sempre che con uno altro ciò non farebbono, si rimanevan con lui. Ma pure, quando tempo parve al maestro, sì come Bruno aveva fatto120, così Buffalmacco richiese. Di che Buffalmacco si mostrò molto turbato e fece a Bruno un gran romore in testa121, dicendo: «Io fo boto all’alto 116 non posò, non ristette mai fin che: Corbaccio, 380: «di ciarlare mai non ristà, mai non molla». 117 si attaccavano a lui o si davan buon tempo, si soltazzavano. Ma questi significati sono stati dati al verbo tirando a indovinare, perché mancano altri esempi contemporanei. II verbo figura però in qualche ms. alla VIII 6,14 invece di «si caricò»; più tardi fu ripreso per es. dal Sassetti nel secondo significato (Lettere, Firenze 1855, p. 205). Vedi per maggiori particolari la discussione del Barbi, La Nuova Filologia, pp. 68 sgg. (pensa a una derivazione dell’ant. fr. charpigner, o a un incrocio di carmignare con carpire) e del Singleton e Spitzer, D. VIII 9: carapignare, in «Mod. Lang. Notes», L,X, 1944 (deriverebbe dal lat. volg. carpiniare, «afferrare», «arraffare»: cfr. REW 7663, FEW s. v. carpere; o dal fr. écarpigner «grattarsi», cioè ‘si grattavano l’un l’altro per la contentezza’, come si dice ‘grattarsi la pancia per la gioia’). Sembra più probabile dunque il secondo significato (ma il DEI registra il primo: e cfr. anche R. LEVY, Encore un mot sur l’italien «carapignarsi», in «Studies in Philology», 1945). 118 come coloro che (lat. quippe qui). «Invece di come quello si può dire come quell’uomo ... e per ischerzo come quel signore» (Mussafla, p. 487). 119 sapendo che egli possedeva ottimi vini. 120 richiesto; col solito uso per cui Intr., 14 n. 121 una grande sfuriata: III 7,28: «mi fece un romore in capo che ancor mi spaventa»; IV 10,31. Letteratura italiana Einaudi 1171 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 63 64 65 Dio da Passignano122 che io mi tengo a poco123 che lo non ti do tale124 in su la testa, che il naso ti caschi nelle calcagna traditor che tu se’, ché altri che tu non ha queste cose manifestate al maestro». Ma il maestro lo scusava forte, dicendo e giurando sè averlo d’altra parte saputo; e dopo molte delle sue savie parole pure il paceficò. Buffalmacco rivolto al maestro disse: «Maestro mio, egli si par bene che voi siete stato a Bologna, e che voi infino in questa terra abbiate recata la bocca chiusa125; e ancora vi dico più, che voi non apparaste miga l’abbiccì in su la mela126, come molti sciocconi voglion fare, anzi l’apparaste bene in sul mellone, ch’è così lungo; e se io non m’inganno, voi foste battezzato in domenica127. E come che Bruno m’abbia detto che voi studia122 «Nella facciata della chiesa di Passignano c’era dipinto un Dio Padre, e su questo finge di giurare Buffalmacco, sapendo che il dottore non sapeva di tale immagine, e che avrebbe preso queste parole per qualche imprecazione da uomo infuriato» (Fanfani). 123 mi trattengo a stento: cfr. III 6,38 n. e anche II 5,53 n. 124 in modo tale, così. avverbio: VIII 3,47 e 52 nn. E per la costruzione che sostituisce l’indicativo, più forte, al congiuntivo cfr. V 6,22 n. 125 Cioè abbiate saputo mantenere i segreti. 126 «I maestri, o anche i padri, quando vogliono fare apparare i fanciulli a conoscere le lettere sogliono scrivere una o due lettere sopra d’una mela e mostrandola al fanciullo dicono che se conosce quella lettera o quelle lettere, gli darà la mela» (Ruscelli). Nel vocabolarietto filare dell’ed. aldina del 1522 si dice che il modo di dire ha senso equivocamente osceno. Ma qui tutta la frase – come è evidente dal seguito – è usata soprattutto per alludere, con un giuoco di parole, alla mellonaggine del medico (e cfr. Corbaccio, 329: «te ora gocciolone e ora mellone ... chiamando»); riferendosi forse anche a quanto sarà detto nella IX 3,17: «a bottega stava in Mercato Vecchio alla ’nsegna del mellone». Ma cfr. anche Sacchetti, CXLVII: «Antonio che già avea studiato e letto l’abbicí in sul mellone». 127 «Si diceva già per sciocco, perché le domeniche non si vendeva il sale» (Fanfani): che nel battesimo è somministrato come simbolo e auspicio di sapienza. Letteratura italiana Einaudi 1172 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 66 67 68 69 ste là in medicine, a me pare che voi studiaste in apparare a pigliar uomini; il che voi, meglio che altro uomo che io vidi mai, sapete fare con vostro senno e con vostre novelle». Il medico, rompendogli la parola in bocca128, verso Brun disse: «Che cosa è a favellare e ad usare co’ savi129! Chi avrebbe così tosto ogni particularità compresa del mio sentimento, come ha questo valente uomo? Tu non te ne avvedesti miga così tosto tu130 di quel che io valeva, come ha fatto egli; ma di’ almeno quello che io ti dissi quando tu mi dicesti che Buffalmacco si dilettava de’ savi uomini: parti che io l’abbia fatto?» Disse Bruno: «Meglio131». Allora il maestro disse a Buffalmacco: «Altro avresti detto se tu m’avessi veduto a Bologna, dove non era niuno grande né piccolo, né dottore né scolare, che non mi volesse il meglio del mondo, sì tutti gli sapeva appagare col mio ragionare e col senno mio. E dirotti più, che io. non vi dissi mai parola che io non facessi ridere ogn’uomo, sì forte piaceva loro; e quando io me ne partii, fecero tutti il maggior pianto del mondo, e volevano tutti che io vi pur rimanessi; e fu a tanto la cosa perch’io vi stessi, che vollono lasciare a me solo che io leggessi, a quanti scolari v’aveva, le medicine132; ma io non volli, ché io era pur disposto a venir qua a grandissime eredità che io ci ho, state sempre di quei di casa mia, e così feci». 128 interrompendolo Vedete che cosa vuol dire parlare e aver dimestichezza cogli uomini saggi, sapienti? 130 Consueta ripetizione del pronome nel discorso diretto concitato: VI intr., 14 n. 131 Meglio [che non m’aspettassi]. 132 insegnassi dalla cattedra le materie mediche a tutti gli studenti che v’erano. L e g g e r e era termine tecnico a indicare l’insegnamento universitario. 129 Letteratura italiana Einaudi 1173 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 70 71 72 73 Disse allora Bruno a Buffalmacco: «Che ti pare? Tu nol mi credevi, quando io il ti diceva. Alle guagnele133! Egli non ha in questa terra medico che s’intenda d’orina d’asino134 a petto a costui, e fermamente tu non ne troverresti un altro di qui alle porti 135 di Parigi de’ così fatti. Va, tienti oggimai tu di 136 non fare ciò ch’e’vuole!» Disse il medico: «Brun dice il vero, ma io non ci137 sono conosciuto. Voi siete anzi gente grossa138 che no; ma io vorrei che voi mi vedeste tra’ dottori, come io soglio stare». Allora disse Buffalmacco: «Veramente, maestro, voi le sapete troppo più che io non avrei mai creduto; di che io, parlandovi come si vuole parlare a’ savi come voi siete, frastagliatamente139 vi dico che io procaccerò senza fallo che voi di nostra brigata sarete». Gli onori dal medico fatti a costoro appresso questa promessa multiplicarono; laonde essi, godendo, gli facevan cavalcar la capra delle maggiori sciocchezze del mondo140 e impromisongli di dargli per donna la contessa di Civillari141, la quale era la più bella cosa che si trovasse in tutto il culattario dell’umana generazione. 133 Per il, Sul Vangelo: VI 6,8 n. Quasi a farlo, da medico, veterinario. Forma di plurale corrente: cfr. II 2,16 n. 136 guardati ... da, astieniti ... da: II 9,16: e cfr. anche II 5,45 n. e qui 62 n. 137 qui, a Firenze. 138 rozza, sempliciotta: III 8,5 n.; IX 10,13 n. 139 Voce probabilmente senza senso, delle molte dette per stordire Maestro Simone. Alcuni pensano derivi da frastagliare, cioè dire «cose grandi impossibili ... per ingannare e giuntare chicchessia» (Varchi); «al medico forestiero sfugge il significato del vocabolo o forse l’intende nel senso di francamente, schiettamente» (Sapegno). 140 gli davano a intendere le maggiori sciocchezze del mondo: cfr. II 10,43 n. 141 «È la regina dei Condotti, ovvero Cacatoi o del Sterco ... Civillari è un chiasso così detto in Firenze, sopra il monastero di 134 135 Letteratura italiana Einaudi 1174 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 74 75 76 Domandò il medico chi fosse questa contessa; al quale Buffalmacco disse: «Pinca mia da seme142, ella è una troppo gran donna, e poche case ha per lo mondo, nelle quali ella non abbia alcuna giurisdizione; e non che altri, ma i frati minori a suon di nacchere143 le rendon tributo. E sovvi dire, che quando ella va dattorno, ella si fa ben sentire, benché ella stea il più rinchiusa; ma non ha per ciò molto che ella vi passò innanzi all’uscio, una notte che andava ad Arno a lavarsi i piedi144 e per pigliare un poco d’aria; ma la sua più continua dimora è in Laterino145. Ben vanno per ciò de’ suoi sergenti spesso dattorno, e tutti a dimostrazion della maggioranza146 di lei portano la verga e ‘1 piombino147. De’ suoi baron si veggon per tutto assai, sì come è il Tamagnin dalla Porta 148, don Meta, Manico di San Jacopo a Ripoli, nel qual luogo si caca senza rispetto; e fannovisi certe buche o fosse per comodità di votarvi i condotti, e a tempi debiti poi di quel sterco i lavoratori ingrassano gli orti» (Alunno). Cfr. 97 sgg. Da questo sfondo puzzolente e escrementizio (che ricorda Inf., XVIII) si levano coerenti tutti i particolari seguenti (subito nella riga sotto, l’equivoco culattario: cfr. Pataffio, III 13, IX 47). 142 Cetriolo mio grosso da seme: ingiuria equivoca: cfr. Pataffio, V 3. 143 In senso sudiciamente equivoco: Sacchetti, Rime, CLIX 187. 144 Cioè: «a deporre le some di siffatte schifiltà» (Nisiely): la trasporta per scaricarla in Arno. 145 Facile gioco sul nome del paese nel Valdarno, verso Arezzo: già Plauto aveva scherzosamente accennato a un simile equivoco (Curculio, IV 4). 146 potenza, signoria: Intr., 96 n. 147 Strumenti dei nettacessi: ma verga può valere anche scettro (X I,17 n.) e piombino sigillo. 148 «Uomo piccolo e che ha più anni che non mostra; e qui per scherzo stronzolo corto e grosso; e così queste altre voci indicano forme diverse dello sterco che esce dal ventre. Ma io non vo’ fermarmi, come altri fa, tra simili lordure» (Fanfani). Cfr. Sacchetti, Rime, CLIX 179 sgg. Secondo il Nisiely possono anche essere «soprannomi di gente vile, che allora si doveano intendere». Letteratura italiana Einaudi 1175 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 77 78 79 80 81 Scopa, lo Squacchera e altri, li quali vostri dimestici credo che sieno, ma ora non ve ne ricordate. A così gran donna adunque, lasciata star quella da Cacavincigli, se ’l pensier non c’inganna149, vi metteremo nelle dolci braccia». Il medico, che a Bologna nato e cresciuto era, non intendeva i vocaboli di costoro, per che egli della donna si chiamò per contento. Nè guari dopo queste novelle150 gli recarono i dipintori che egli era per ricevuto151. E venuto il dì che la notte seguente si dovean ragunare, il maestro gli ebbe amenduni a desinare, e desinato ch’egli152 ebbero, gli domandò che modo gli conveniva tenere a venire a questa brigata; al quale Buffalmacco disse: «Vedete, maestro, a voi conviene esser molto sicuro153, per ciò che, se voi non foste molto sicuro, voi potreste ricevere impedimento e fare a noi grandissimo danno; e quello a che egli vi conviene esser molto sicuro, voi l’udirete. A voi si convien trovar modo che voi siate stasera in sul primo sonno154 in su uno di quegli avelli rilevati che poco tempo ha si fecero di fuori a Santa Maria Novella155, con una delle più belle vostre robe in dosso, acciò che voi per la prima volta compariate orrevole dinanzi alla brigata, e sì ancora per ciò che (per quello che detto ne fosse, ché non vi fummo noi poi), per ciò156 che voi siete gentile uomo, la contes149 Conclusione equivocamente magniloquente sul plurale «maiestatis» e su una serie di due settenari e un endecasillabo alternati. 150 ciance, baie. 151 gli riferirono i pittori che egli era stato ammesso. 152 Per eglino, essi: III 7,11 n. 153 coraggioso, intrepido. VIII 7,54 n. 154 Tra le dieci e le undici circa: V 3,43 n. e VIII 7,56. 155 Erano stati edificati per la maggior Parte nel 1314 (soltanto alcuni qualche anno prima); ed erano a v e l l i r i l e v a t i cioè arche grandi rilevate da terra come quelle della VI 9,10 (avello vale invece genericamente fossa da sepoltura). 156 Una delle solite riprese dopo frase parentetica. Letteratura italiana Einaudi 1176 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 82 83 84 sa intende di farvi cavaliere bagnato157 alle sue spese158; e quivi v’aspettate tanto, che per voi venga colui che noi manderemo. E acciò che voi siate d’ogni cosa informato, egli verrà per voi una bestia nera e cornuta, non molto grande, e andrà faccendo per la piazza dinanzi da voi un gran sufolare e un gran saltare per ispaventarvi; ma poi, quando vedrà che voi non vi spaventiate, ella vi s’accosterà pianamente. Quando accostata vi si sarà, e159 voi allora senza alcuna paura scendete giù dello avello, e, senza ricordare o Iddio o’ santi, vi salite suso, e come suso vi siete acconcio, così, a modo che se steste cortese160, vi recate le mani al petto, senza più toccar la bestia. Ella allora soavemente si moverà e recherravverle a noi; ma infino ad ora, se voi ricordaste o Iddio o’ santi, o aveste paura, vi dich’io che ella vi potrebbe gittare o percuotere in parte che vi putirebbe161; e per ciò, se non vi dà il cuore d’esser ben sicuro, non vi venite, ché voi fareste danno a voi, senza fare a noi pro veruno». Allora il medico disse: «Voi non mi conoscete ancora; voi guardate forse per ché io porto i guanti in mano 157 Altra frase equivoca, come chiarirà il seguito della novella: ma realmente, fra le varie specie di cavalieri, esistevano allora «li cavalieri bagnati: si fanno con grandissime cerimonie e conviene che sieno bagnati e lavati d’ogni vizio» (Sacchetti, CLIII). 158 Cioè sostenendo lei le spese necessarie alla cerimonia e alla grande pompa: G Villani, IX 33: «Il popolo di Firenze alle spese del Comune fece quattro de’ Pazzi cavalieri»; Morelli, Ricordi, p. 131. 159 La solita congiunzione in ripresa dopo temporale a indicare successione immediata nelle azioni: Intr., 78 n. 160 Cioè con le braccia íncrociate sul petto: cfr. 96: «si recò con le mani a star cortese»; Sacchetti, CLVI: «recandosi cortese». 161 «II medico intende genericamente vi dispiacerebbe (così a VII 8,47); ma Bruno e Buffalmacco pensano al bagno progettato, ove il putire sarà non metaforico» (Petronio). Letteratura italiana Einaudi 1177 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 85 86 87 88 e’ panni lunghi162. Se voi sapeste quello che io ho già fatto di notte a Bologna, quando io andava talvolta co’miei compagni alle femine, voi vi maravigliereste. In fè di Dio egli fu tal notte che, non volendone una venir con noi (ed era una tristanzuola163, ch’è peggio164, che non era alta un sommesso165), io le diedi in prima di molte pugna, poscia, presala di peso, credo che io la portassi presso ad una balestrata166, e pur convenne, sì feci, che ella ne venisse con noi. E un’altra volta mi ricorda che io, senza esser meco altri che un mio fante, colà167 un poco dopo l’avemaria passai allato al cimitero de’ frati minori, ed eravi il dì stesso stata sotterrata una femina, e non ebbi paura niuna; e per ciò di questo non vi sfidate168; ché sicuro e gagliardo son io troppo. E dicovi che io, per venirvi bene orrevole, mi metterò la roba mia dello scarlatto169 con la quale io fui conventato170, e vedrete se la brigata si rallegrerà quando mi vedrà, e se io sarò fatto a mano a man171 capitano. Vedrete pure come l’opera 172 andrà quando io vi sarò stato, da che, non avendomi ancor quella contessa ve162 Particolari caratteristici nell’abbigliamento dei dottori e delle persone autorevoli (Merkel, pp. 95 sgg.): cfr. per es. VIII 5,7; VIII 9,4. 163 una mingherlina, una donnetta sparuta: II 10,39: «si tisicuzzo e tristanzuol parete»; Sacchetti, LXIV. 164 quelch’è peggio. 165 Cioè la lunghezza del pugno col pollice alzato: G. Villani, XII 84: «vermini grandi uno sommesso». 166 circa lo spazio del tiro di una balestra: cfr. X 6,6 n. 167 circa, verso: VIII 6,4 n. 168 diffidate, perdete la fiducia: Pucci, Certiloquio, XXVI 57: «veggendogliene andar così sfidati». 169 Col solito uso della preposizione articolata: cfr. I 1,87 n. 170 addottorato: Jacopone, XVII 2 7, LXXX 36; Sacchetti, CXXIII; M. Villani, 18. Lo scarlatto era colore di prammatica in simili circostanze: Merkel, p. 107. 171 presto, senza indugio: X 9,49: «quasi a mano a man cominciò una grandissima infermeria»; VIII 10,13 n. 172 faccenda, come più sotto (93): II 3,27 n. Letteratura italiana Einaudi 1178 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 89 90 91 92 duto, ella s’è sì innamorata di me che ella mi vol fare cavalier bagnato; e forse che la cavalleria mi starà così male, e saprolla così mal mantenere o pur bene? Lascerete pur far me!» Buffalmacco disse: «Troppo dite bene, ma guardate che voi non ci faceste la beffa, e non vi veniste o non vi foste trovato quando per voi manderemo; e questo dico per ciò che egli fa freddo, e voi signor medici ve ne guardate molto». «Non piaccia a Dio!» disse il medico «io non sono di questi assiderati173; io non curo freddo; poche volte è mai che io mi levi la notte così per bisogno del corpo, come l’uom fa talvolta, che io mi metta altro che il pilliccione mio sopra il farsetto174; e per ciò io vi sarò fermamente». Partitisi adunque costoro, come notte si venne faccendo, il maestro trovò sue scuse in casa con la moglie, e trattane celatamente la sua bella roba, come tempo gli parve, messalasi in dosso, se n’andò sopra uno de’ detti avelli; e sopra quegli marmi ristrettosi175, essendo il freddo grande, cominciò ad aspettar la bestia. Buffalmacco, il quale era grande e atante della persona176, ordinò d’avere177 una di queste maschere che usare si soleano a certi giuochi li quali oggi non si fanno178, e messosi in dosso un pilliccion nero a rivescio179, in quello 173 freddolosi, morti di freddo, ma con tono caricaturato: VIII 7,33 n. 174 «Ripari che sarebbero troppi nella Scizia» (Nisieiy). rannicchiatosi. robusto, aitante, un pezzo d’uomo: II 8,75 n. 177 fece in modo dovere. 178 «Deve essere una delle maschere usate nel cosiddetto Gioco del Veglio, mascherata proibita almeno dal 1325» (Petronio). Il travestimento di Buffalmacco si rifà in qualche modo anche alle figurazioni tradizionali del demonio sempre nero e sempre mezza bestia e mezzo uomo. 179 Forma allora corrente per rovescio. 175 176 Letteratura italiana Einaudi 1179 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 93 94 95 96 s’acconciò in guisa che pareva pure uno orso; se non che la maschera aveva viso di diavolo ed era cornuta. E così acconcio, venendoli Bruno appresso per vedere come l’opera andasse, se n’andò nella piazza nuova di Santa Maria Novella. E come egli si fu accorto che messer lo maestro v’era, così cominciò a saltabellare e a fare un nabissare180 grandissimo su per la piazza, e a sufolare e ad urlare e a stridere a guisa che se imperversato181 fosse. Il quale come il maestro sentì e vide, così tutti i peli gli s’arricciarono adosso182, e tutto cominciò a tremare, come colui che era più che una femina pauroso; e fu ora che egli183 vorrebbe essere stato innanzi a casa sua che quivi. Ma non per tanto pur, poi che andato v’era, si sforzò d’assicurarsi184, tanto il vinceva il disidero di giugnere a vedere le maraviglie dettegli da costoro. Ma poi che Buffalmacco ebbe alquanto imperversato, come è detto, faccendo sembianti di rappacificarsi, s’accostò allo avello sopra il quale era il maestro, e stette fermo. Il maestro, sì come quegli che tutto tremava di paura, non sapeva che farsi, se su vi salisse o se si stesse185. Ultimamente, temendo non gli facesse male se su non vi salisse, con la seconda paura cacciò la prima, e sceso dello avello, pianamente186 dicendo, «Idio m’aiuti «, su vi salì, e acconciossi molto bene, e sempre tremando tutto 180 saltabeccare e a impazzare: Filostrato, IV 27; Sacchetti, LXIV: «entrò dentro correndo e nabissando»; e LXVI (e cfr. III 3,39 n.). 181 indemoniato, spiritato: G. Villani, VII 155: «sanando infermi, e rizzando attratti, e sgombrando imperversati». 182 Cfr. V 8,28 n. e IX 1,25: «tutti i peli gli s’incominciarono a arricciare addosso». 183 ci fu un momento in cui: VII 3,37 n. 184 farsi coraggio, rassicurarsi: VII 1,2 n. 185 se ne astenesse: I 2,17 n.; III 7,92 n. 186 sottovoce: VIII 6,18 n. Letteratura italiana Einaudi 1180 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII si recò con le mani a star cortese, come detto gli era stato. Allora Buffalmacco pianamente s’incominciò a dirizzare verso Santa Maria della Scala, e andando carpo98 ne infin presso le donne di Ripole il condusse187. Erano allora per quella contrada fosse, nelle quali i lavoratori di que’ campi facevan votare la contessa di Civillari188, 99 per ingrassare i campi loro. Alle quali come Buffalmacco fu vicino, accostatosi alla proda d’una e preso tempo, messa la mano sotto all’un de’piedi del medico e con essa sospintolsi da dosso, di netto col capo innanzi il gittò in essa, e cominciò a ringhiare forte e a saltare e ad imperversare e ad andarsene lungo Santa Maria della Scala verso il prato d’Ognissanti, dove ritrovò Bruno che per non poter tener le risa fuggito s’era; e amenduni festa faccendosi, di lontano si misero a veder quello che 100 il medico impastato189 facesse. Messer lo medico, sentendosi in questo luogo così abominevole, si sforzò di rilevare 190 e di volersi aiutare per uscirne, e ora in qua191 e ora in là ricadendo, tutto dal capo al piè impastato, dolente e cattivo192, avendone alquante dragme193 97 187 Buffalmacco cioè prende l’attuale Via della Scala e si avvia verso il Prato: passa prima lungo l’ospedale di Santa Maria della Scala (fondato nel 1316 da Cione Pollini; poi Monastero di San Martino), quindi egli si avvia verso il convento delle monache di San Jacopo di Ripoli in Via della Scala edificato nel 1300-301 (in tale convento avrebbero proprio dipinto Bruno e Buffalmacco, secondo le notizie del Vasari e del Baldinucci). L’azione della novella è immaginata dunque verso l’anno 1320 (cfr. anche 81 n.). 188 «Conte di» e «conte a» erano modi usati promiscuamente in quel tempo. 189 lordo, impiastricciato di bruttura: Inf., XVIII 107 sgg. 190 raddrizzarsi, rialzarsi: forma attiva invece che riflessiva: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 246. 191 Espressione del tipo latino hinc ... hinc, o di questo e questo: cfr. anche Purg. XI, 127 «qua giù dimora e qua su non ascende». 192 misero, sventurato: cfr. 22 n. 193 La dramma era 1/8 di oncia (Purg., XXI 99, XXX 46), cioè circa g 3 1/2. Letteratura italiana Einaudi 1181 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 101 102 103 104 105 ingozzate, pur n’uscì fuori e lasciovvi il cappuccio; e, spastandosi con le mani come poteva il meglio, non sappiendo che altro consiglio pigliarsi, se ne tornò a casa sua, e picchiò tanto che aperto gli fu. Né prima, essendo egli entrato dentro così putente, fu l’uscio riserrato, che Bruno e Buffalmacco furono ivi, per udire come il maestro fosse dalla sua donna raccolto. Li qua li stando ad udir, sentirono alla194 donna dirgli la maggior villania195 che mai si dicesse a niun tristo, dicendo: «Deh, come ben ti sta! Tu eri ito a qualche altra femina, e volevi comparire molto orrevole con. la roba dello scarlatto. Or non ti bastava io? Frate196, io sarei sofficiente ad un popolo197, non che a te198. Deh, or t’avessono essi affogato, come essi ti gittarono là dove tu eri degno d’esser gittato. Ecco medico onorato, aver moglie e andar la notte alle femine altrui199!» E con quelle e con altre assai parole, faccendosi il medico tutto lavare, infino alla mezza notte non rifinò200 la donna di tormentarlo. Poi la mattina vegnente Bruno e Buffalmacco, avendosi tutte le carni dipinte soppanno201 di lividori a guisa che far sogliono le battiture, se ne vennero a casa del medico, e trovaron lui già levato; ed entrati dentro a lui, sentirono ogni cosa putirvi; ché ancora non s’era sì ogni cosa potuta nettare, che non vi putisse. E sentendo il medico costor venire a lui, si fece loro incontro, dicendo che Idio desse loro il buon dì. Al quale Bruno e Buf194 195 196 197 198 199 dalla: Intr., 20 n. Espressione consueta in simili casi: 7,43; VIII 8,19 e 49 ecc. Col solito senso sdegnosamente ironico: VIII 2,26 n. a tutta parrocchia. «Concedatur» (M.); e cfr. III 1,37 n. Espressione di sdegno beffardo analoga a quella della III 3,30. 200 201 finì, smise: V 3,30 n. sotto i panni, a modo di avverbio. Letteratura italiana Einaudi 1182 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII falmacco, sì come proposto aveano, risposero con tur106 bato viso: «Questo non diciam noi a voi, anzi preghia- 107 108 109 110 111 mo Iddio che vi dea tanti malanni che voi siate morto a ghiado202, sì come il più disleale e il maggior traditor che viva; per ciò che egli non è rimaso per voi203, ingegnandoci noi di farvi onore e piacere, che noi non siamo stati morti come cani. E per la vostra dislealtà abbiamo stanotte avute tante busse, che di meno204 andrebbe uno asino a Roma; senza che noi siamo stati a pericolo d’essere stati cacciati della compagnia nella quale noi avavamo ordinato di farvi ricevere. E se voi non ci credete, ponete mente205 le carni nostre come elle stanno». E ad un cotal206 barlume apertisi i panni dinanzi, gli mostrarono i petti loro tutti dipinti, e richiusongli senza indugio. Il medico si volea scusare e dir delle sue sciagure, e come e dove egli era stato gittato. Al quale Buffalmacco disse: «Io vorrei che egli v’avesse gittato dal ponte in Arno: perché ricordavate voi o Dio o’ santi? Non vi fu egli detto dinanzi?» Disse il medico: «In fè di Dio non ricordava». «Come,» disse Buffalmacco «non ricordavate! Voi ve ne ricordate molto207! ché ne disse il messo nostro che voi tremavate come verga, e non sapavate208 dove voi vi foste. Or voi ce l’avete ben fatta; ma mai più per- 202 ammazzato ucciso a coltellate o di spada; Sacchetti, CIC; G. Villani, VIII 92: «e ’l Priore morto a ghiado». 203 perché per parte vostra nulla è stato trascurato ... affinché noi: III 6,41 n.; III 7,46 n. 204 con meno busse. 205 guardate, osservate: VII 8,43 n. 206 a un certo e quindi a un tenue, incerto: VII 5,14 n. 207 Nel primo caso r i c o r d a r e vale menzionare (Dio e i santi), nel secondo avere a mente. 208 Per queste forme dell’imperfetto cfr. II 5,23 n. Letteratura italiana Einaudi 1183 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII sona non la ci farà, e a voi ne faremo ancora quello onore che vi se ne conviene». 112 Il medico cominciò a chieder perdono, e a pregargli per Dio che nol dovessero vituperare209; e con le miglior parole che egli potè, s’ingegnò di pacificargli. E per paura che essi questo suo vitupero non palesassero, se da indi a dietro onorati gli avea, molto più gli onorò e careggiò210 con conviti e altre cose da indi innanzi. Così adunque, come udito avete, senno s’insegna a chi tanto non apparò a Bologna211. – 209 infamare, svergognare: III 6,39 n. fece loro gentilezze: VIII 7,105 n. Conclusione sentenziosa su due endecasillabi uniti da un quinario. 210 211 Letteratura italiana Einaudi 1184 NOVELLA DECIMA 1 Una ciciliana maestrevolmente toglie ad un mercatante ciò che in Palermo ha portato; il quale, sembiante faccendo d’esservi tornato con molta più mercatantia che prima, da lei accattati denari, le lascia acqua e capecchio1. 2 Quanto la novella della reina in diversi luoghi facesse le donne ridere, non è da domandare: niuna ve n’era a cui per soperchio riso non fossero dodici2 volte le lagrime venute in su gli occhi. Ma poi che ella ebbe fine, Dioneo, che sapeva che a lui toccava la volta3, disse: – Graziose donne, manifesta cosa è tanto più l’arti piacere, quanto più sottile artefice è per quelle artificio- 3 1 Cioè la parte più grossolana risultante dalla prima pettinatura della canapa e del lino. Molti antecedenti sono stati ricordati a proposito dell’espediente di Salabaetto per ingannare l’ingannatrice e riavere il suo denaro: doveva essere un tema assai Popolare (Thompson e Rotunda, K 1667 e anche 455.9, L 431-2) riflesso pure dalla CXCVIII novella del Sacchetti. Dalle raccolte orientali sono state citate l’Agiab Elmeasar (m. CARDONNE, Mélanges de littérature orientale, ’s Gravenhage 1771, pp. 35 sgg.), Le mille e una notte (CLOUSTON, Eastern Romances cit., p. 556); e più verosimilmente dalle occidentali una versione rimata dei Sette Savi (P. RAJNA, in «Romania», x, 1881, pp. 9 sgg.), e soprattutto la Disciplina clericalis di Pietro Alfonso (XVI) da cui discendono le narrazioni simili nei Gesta Romanorum (118), in una novella aggiunta al Novellino dal Borghini (LXXIV), nel Chastiement d’un père à son fils (XIII: in Fabliaux, ed. Barbazan-Meon cit., II. pp. 107 sgg.), nel Liber Kalitae et Dimnae di Raimondo di Béziers (VIII: in HERVIEUX, Fabulistes latins cit., V), nel Volgarizzamento del giuoco degli scacchi di Jacopo di Cessole (Libro di novelle antiche a cura di F. Zambrini, Bologna 1868, VI). Ma a parte le linee fondamentali dello stratagemma di Salabaetto, nulla in quei testi anticipa la presente novella che riflette chiaramente soprattutto dirette esperienze d’ambiente mercantile. Cfr. oltre le opere solite L. DI FRANCIA, Alcune novelle, 1904; C. TRASSELLI, II D. come fonte storica, in «Rass. di cultura e vita scolastica», IX, 1955. 2 Uno dei soliti numeri indeterminati: VI 4,16 n. 3 il turno: cfr. II 3,3 n. Letteratura italiana Einaudi 1185 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 4 5 samente beffato. E per ciò, quantunque bellissime cose tutte raccontate abbiate, io intendo dl raccontarne una? tanto più che alcuna altra dettane da dovervi aggradire, quanto colei che beffata fu era maggior maestra di beffare altrui, che alcuno altro beffato fosse di quegli o di quelle che avete contate4. Soleva essere, e forse che ancora oggi è, una usanza in tutte le terre marine5 che hanno porto, così fatta, che tutti i mercatanti che in quelle con mercatantie capitano, faccendole scaricare, tutte in un fondaco il quale in molti luoghi è chiamato dogana6, tenuta per lo comune o per lo signor della terra, le portano7. E quivi, dando a coloro che sopra ciò sono8 per iscritto tutta la mercatantia e il pregio9 di quella, è dato per li detti al mercatante un magazzino, nel quale esso la sua mercatantia ripone e serralo con la chiave; e li detti doganieri poi scrivono in sul libro della dogana a ragione10 del mercatante tutta la sua mercatantia, faccendosi poi del lor diritto 4 Cfr. II 9,6 n. C VIII 7,3 n. città marinare. 6 il primo degli arabismi che espressivisticamente colorano, con i frequenti sicilianismi, questa novella palermitana (cfr. G. B. PFLLEGRINI, Gli arabismi nelle lingue neolatine, Brescia 1972, pp. 104, 131 e 346: e per fondaco pp. 104 sgg., 131). E in generale per l’espressivismo linguistico, meridionale e mercantile, in questa novella cfr. Introduzione, pp. XXIII. 7 L’usanza descritta nelle righe seguenti è importante documento dell’esistenza in Italia, già ai tempi del B., degli equivalenti dei moderni docks e warrants, (cfr. VIDAL BEY, B. et les docks et warrants, in «Bull. de l’Institut Egyptien», serie II, III, 1883): ed è certo testimonianza che risale agli anni giovanili delle esperienze mercantesche del B. a Napoli. Per questi e altri termini tecnici si ricorrenti nella novella si tenga presente F. EDLER, Glossary of Mediaeval terms of business, Cambridge (Mass.) 1934. 8 che sono incaricati di quest’ufficio, che soprintendono a questo. 9 il prezzo, il valore: II 4, 29 n. 10 a conto: II 9, 10 n. e qui più avanti 44. 5 Letteratura italiana Einaudi 1186 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 6 7 8 pagare al mercatante, o per tutta o per parte della mercatantia che egli della dogana traesse. E da questo libro della dogana assai volte s’informano i sensali11 e delle qualità e delle quantità delle mercatantie che vi sono, e ancora chi sieno i mercatanti che l’hanno, con li quali poi essi, secondo che lor cade per mano12, ragionano di cambi, di baratti e di vendite e d’altri spacci. La quale usanza, sì come in molti altri luoghi, era in Palermo in Cicilia, dove similmente erano e ancor sono assai femine del corpo bellissime, ma nemiche della onestà13; le quali, da chi non le conosce, sarebbono e son tenute grandi e onestissime donne. E essendo, non a radere, ma a scorticare14 uomini date del tutto15, come un mercatante forestiere riveggono, così dal libro della dogana s’informano di ciò che egli v’ha e di quanto può fare; e appresso con lor piacevoli e amorosi atti e con parole dolcissime questi cotali mercatanti s’ingegnano d’adescare e di trarre nel loro amore; e già molti ve n’hanno tratti, a’ quali buona parte della lor mercatantia hanno delle mani tratta, e a assai tutta 16; e di 11 Altro arabismo (63 e 65: PELLEGRINI, op. cit., pp. 100, 137, 433, 509). 12 capita l’occasione. 13 Cfr. per questo II 5,4 n. Il DI FRANCIA, art. cit., riferisce che in Calabria si dice proverbialmente di una donna: «Bella come le cortigiane di Palermo». 14 Il primo verbo indica il prendere i denari con abilità e destrezza e qualche pretesto, il secondo trarli senza riguardo né misericordia alcuna. Probabilmente questa come varie delle immagini seguenti, nacquero più facilmente dalla consuetudine allora diffusa delle donne barbiere: anche nel Fiore, CLXII: «Ciascuna de’ aver fermo intendimento | Di scorticargli, si seri falsi e rei»; e Cecco Angiolieri: «- Chi t’ha rubato? | - Una che par che rada | Come rasoi’, si m’ha netto lasciato» (son. 1). Ma il termine b a r b i e r a (cfr. più sotto e 10) divenne specifico e quasi tecnico: cfr. Basile, Pentamerone cit., II, p. 98. 15 attendendo esclusivamente, per mestiere, a ... 16 e a molti mercanti hanno preso tutta la mercanzia. Letteratura italiana Einaudi 1187 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 9 10 quelli vi sono stati che la mercatantia e ’navilio e le polpe e l’ossa lasciate v’hanno, sì ha soavemente la barbiera saputo menare il rasoio17. Ora, non è ancor molto tempo, avvenne che quivi, da’ suoi maestri18 mandato, arrivò un giovane nostro fiorentino detto Nicolò da Cignano19, come che Salabaetto fosse chiamato, con tanti pannilani che alla fiera di Salerno gli erano avanzati, che potevan valere un cinquecento fiorin d’oro; e dato il legaggio20 di quegli a’ doganieri, gli mise in un magazzino, e senza mostrar troppo gran fretta dello spaccio, s’incominciò ad andare alcuna volta a sollazzo per la terra. E essendo egli bianco e biondo e leggiadro molto, e standogli ben la vita21, avvenne che una di queste barbiere, che si faceva chiamare madonna Iancofiore22, avendo alcuna cosa sentita 17 «Secca ti sia ella se tu esci a cancello uguanno» (M.). capi della casa commerciale: termine tecnico: cfr. 41. Assai nota la famiglia da Cignano - mugenana d’origine del quartiere di San Giovanni, gonfalone Vaio, cui appartennero vari priori (Archivio di Firenze, Priorista Mariani, VI, c. 1467). Di un Niccolò di Cecco da Cignano si ha notizia proprio attorno alla metà del Trecento (Archivio di Firenze, Carte Pucci, busta 4, n. 56; Carte Dei, busta 18, n. 19): forse era della Compagnia Scali, dominatrice del commercio dei panni nel Regno e alla famosa fiera di Salerno, dotata di privilegi già da Federico II e da Manfredi (L. S. PERUZZI, Storia del commercio ecc., Firenze 1868, pp. 272 sgg.; A. SAPORI, Studi di storia economica cit., pp. 445 sgg.). Salabaetto secondo il Trasselli (art. cit.) significherebbe gaudente. Per l’assidua presenza di mercanti fiorentini a Palermo cfr. R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze cit., VI, pp. 818 sgg.; C. TRASSELLI, Note per la storia dei banchi in Sicilia, Palermo 1958. 20 Tassa o diritto da pagarsi ai doganieri a titolo di legatura, imballaggio ecc.: Statuto di Calimata cit.: «il legaggio e caticaggio ... che il re di Francia toglie»; e cfr. più avanti 44. 21 avendo un bel personale, essendo di bella apparenza: cfr. A. SOZZINI, in «Archivio Storico Italiano» II, 1842, pp. 353: «un gentiluomo spagnuolo, quale aveva una bella vita». 22 Forma siciliana per Biancofiore: nel 1305 esisteva a Palermo una figlia di barbiere così chiamata (Trasselli). 18 19 Letteratura italiana Einaudi 1188 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 11 12 13 de’fatti suoi, gli pose l’occhio addosso. Di che egli accorgendosi, estimando che ella fosse una gran donna, s’avvisò che per la sua bellezza le piacesse23, e pensossi di volere molto cautamente menar questo amore; e senza dirne cosa alcuna a persona, incominciò a far le passate24 dinanzi alla casa di costei. La quale accortasene, poi che alquanti dì l’ebbe ben con gli occhi acceso, mostrando ella di consumarsi per lui, segretamente gli mandò una sua femina la quale ottimamente l’arte sapeva del ruffianesimo. La quale, quasi con le lagrime in su gli occhi, dopo molte novelle, gli disse che egli con la bellezza e con la piacevolezza sua aveva sì la sua donna presa25, che ella non trovava luogo né dì né notte26; e per ciò, quando a lui piacesse, ella disiderava più che altra cosa di potersi con lui ad un bagno27 segretamente trovare; e appresso questo, trattosi uno anello dì borsa, da parte della sua donna gliele donò. Salabaetto, udendo questo, fu il più lieto uomo che mai fosse, e preso l’anello e fregatoselo agli occhi 28 e poi baciatolo sel mise in dito, e rispose alla buona femina che, se madonna Jancofiore l’amava, che ella n’era ben cambiata29, per ciò che egli amava più lei che la sua propria vita30, e che egli era disposto d’andare dovunque a lei fosse a grado, e ad ogn’ora. Tornata adunque la messaggiera alla sua donna con 23 Come Andreuccio: II 5,2 n. a passare e ripassare: come altri innamorati nel D. (I 10,11; III 3,25; 5,17 ecc.). 25 conquistata, soggiogata d’amore: espressione della tradizione lirica: Inf., V 101: «prese costui»: e cfr. IX 1,5 n. 26 Consueta affermazione: VII concl., 12 n. 27 Solito luogo di appuntamenti amorosi: III 6,17 n. 28 In segno di affetto e di attaccamento straordinario: l’anello gli era caro come gli occhi. 29 ricambiata. 30 Anche questa è affermazione topica: cfr. V 6,4 n., e qui 49. 24 Letteratura italiana Einaudi 1189 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 14 15 questa risposta, a Salabaetto fu a mano a man31 detto a qual bagno il dì seguente passato vespro la dovesse aspettare. Il quale, senza dirne cosa del mondo a persona, prestamente all’ora impostagli v’andò, e trovò il bagno per la donna esser preso32. Dove egli non stette guari che due schiave33 venner cariche: l’una aveva un materasso di bambagia bello e grande in capo, e l’altra un grandissimo paniere pien di cose; e steso questo materasso in una camera del bagno sopra una lettiera, vi miser su un paio di lenzuola sottilissime listate di seta, e poi una coltre di bucherame34 cipriana bianchissima con due origlieri lavorati a maraviglie 35. E appresso questo spogliatesi ed entrate nel bagno, quello tutto lavarono e spazzarono ottimamente. Né stette guari che la donna con due sue altre schiave appresso al bagno venne; dove ella, come prima ebbe agio, fece a Salabaetto grandissima festa; e dopo i maggiori sospiri del mondo, poi che molto e abbracciato e baciato l’ebbe, gli disse: «Non so chi mi s’avesse a questo potuto conducere, altro che tu; tu m’hai miso lo foco all’arma36, toscano acanino37». 31 subito, poco dopo: VIII 9,87 n. esser preso in affitto dalla donna. Si è ora preteso di identificarlo nel «bagno d’oro» di Vicolo Ragusi (cfr. «Il Gazzettino», 1° ottobre 1998). 33 Per le condizioni di queste schiave, in genere orientali, cfr. le opere citate a II 6,27 n. 34 Tessuto di lino candido e sottile, simile al bisso, di provenienza orientale: anche il termine è arabo (G. B. PELLEGRINI, op. cit., pp. 173, 338): G. Villani, X 167: «l’altro [palio] di baracane bambagino»; Pucci, Centiloquio, LXXIX 10. 35 «Dicevasi una foggia di ricamo ben largo e di bizzarro disegno, simile a quelli che ora si dicono a fantasia» (Fanfani). Per origlieri cuscini cfr. IV 6,27 n. 36 tu m’hai messo il fuoco all’anima. Le forme meridionali (mise, arma, lo dopo vocale) coloriscono il parlar della siciliana: cfr. Annotazioni, CVIII; G. A. CESARFO, Studi e ricerche, Palermo 1930, pp. 195 sgg.: B. medievale, pp. 363 sg. 37 Parola del siciliano antico che deriva forse dall’arabo hanïn 32 Letteratura italiana Einaudi 1190 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 16 17 18 Appresso questo, come a lei piacque, ignudi amenduni se n’entrarono nel bagno, e con loro due delle schiave. Quivi, senza lasciargli por mano addosso ad altrui,. ella medesima con sapone moscoleato38 e con garofanato maravigliosamente e bene tutto lavò Salabaetto; e appresso sé fece e lavare e strapicciare alle schiave. E fatto questo, recaron le schiave de lenzuoli bianchissimi e sottili, de’quali veniva sì grande odor di rose che ciò che v’era pareva rose39; e l’una inviluppò nell’uno Salabaetto e l’altra nell’altro la donna, e in collo levatigli, amenduni nel letto fatto ne gli portarono. E quivi, poi che di sudare furono restati40, dalle schiave fuor di que’ lenzuoli tratti, rimasono ignudi negli altri. E tratti del paniere oricanni41 d’ariento bellissimi e pieni qual d’acqua rosa 42 , qual d’acqua di fior d’aranci, qual d’acqua di fior di gelsomino e qual d’acqua nanfa43, (caro, amato, dolce): «haninu», «cianinu» con tale valore è ancora vivo nel Trapanese (cfr. G. B. PELLEGRINI, op. cit., pp. 75 sg.). «Doveva avere un’intensità di tenerezza e di passione quale ha beddu pur oggi nel linguaggio amoroso di Sicilia: non bello soltanto, ma caro, dolce, amato ... Fu adoperato come aggettivo, senza escluder del tutto che potesse anche esser preso quale un’interiezione amorosa, né aggettivo né sostantivo, come sarebbero, nel linguaggio amoroso de’ nostri giorni: amore, dolcezza e simili» (G. A. CESAREO, op.cit.). 38 muschiato, profumato al muschio: la forma è siciliana (tosc. moscato). 39 ogni cosa che era in quel luogo pareva fosse rose: VIII 6,29 n. Tanto essere che parere, quando vi siano due sostantivi di numero diverso, si possono accordare con uno qualsiasi di essi. 40 finirono di sudare. 41 vasetti per profumi, dall’imboccatura stretta. I Vocabolari ne citano solo esempi tardi (per es. dal Magalotti). 42 Profumo già ricordato nella VIII 7,126 n. 43 acqualanfa, profumo distillato dai fior d’arancio: Pulci, Morgante, XXV 216. Ma è evidentemente altra cosa - probabilmente per lavorazione diversa - dall’«acqua di fior d’aranci» già nominata sopra: il nome è di origine araba (G. B. PELLEGRINI, op. cit., p. 81). Letteratura italiana Einaudi 1191 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 19 20 21 22 tutti costoro di queste acque spruzzano; e appresso tratte fuori scatole di confetti e preziosissimi vini, alquanto si confortarono44. A Salabaetto pareva essere in paradiso, e mille volte aveva riguardata costei, la quale era per certo bellissima, e cento anni gli pareva ciascuna ora che queste schiave se n’andassero e che egli nelle braccia di costei si ritrovasse. Le quali poi che per comandamento della donna, lasciato un torchietto acceso nella camera, andate se ne furono fuori, costei abbracciò Salabaetto ed egli lei, e con grandissimo piacer di Salabaetto, al quale pareva che costei tutta si struggesse per suo amore, dimorarono una lunga ora45. Ma poi che tempo parve di levarsi alla donna, fatte venire le schiave, si vestirono, e un’altra volta bevendo e confettando46 si riconfortarono alquanto, e il viso e le mani di quelle acque odorifere lavatisi e volendosi partire, disse la donna a Salabaetto: «Quando a te fosse a grado, a me sarebbe grandissima grazia che questa sera te ne venissi a cenare e ad albergo meco47». Salabaetto, il qual già e dalla bellezza e dalla artificiosa48 piacevolezza di costei era preso, credendosi fermamente da lei essere come il cuor del corpo amato49, rispose: «Madonna, ogni vostro piacere m’è sommamente a grado, e per ciò e istasera e sempre intendo di far quello che vi piacerà e che per voi mi fia comandato». 44 Una delle solite frasi fatte in queste situazioni, e che è ripetuta al 21: I 10,14 n.; IV 2,30 ecc. 45 In senso generico: lunga pezza, lungo tempo. 46 mangiando dolciumi: VIII 9,24 n. 47 La copula unisce qui due parti del discorso diverse dipendenti da venire: come per es. a X 6,13: «venute innanzi onestamente e vergognose». L’espressione era corrente (cfr. per es. qui 56; e Morelli, Ricordi, passim). 48 lusingatrice e piena di vezzi. 49 Solita tenera espressione popolaresca: II 10,30 n.; e qui 29. Letteratura italiana Einaudi 1192 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 23 24 25 Tornatasene adunque la donna a casa, e fatta bene di sue robe e di suoi arnesi ornar la camera sua, e fatto splendidamente far da cena, aspettò Salabaetto. Il quale, come alquanto fu fatto oscuro, là se n’andò, e lietamente ricevuto, con gran festa e ben servito cenò. Poi, nella camera entratisene, sentì quivi maraviglioso odore di legno aloè, e d’uccelletti cipriani50 vide il letto ricchissimo, e molte belle robe su per le stanghe51. Le quali cose tutte insieme, e ciascuna per sé, gli fecero stimare costei dovere essere una grande e ricca donna52. E quantunque in contrario avesse della vita di lei udito bucinare53, per cosa del mondo nol voleva credere; e se pure alquanto ne credeva lei già alcuno aver beffato, per cosa del mondo non poteva credere questo dovere a lui intervenire. Egli giacque con grandissimo suo piacere la notte con essolei, sempre più accendendosi. Venuta la mattina, ella gli cinse una bella e leggiadra cinturetta d’argento con una bella borsa54, e sì gli disse: «Salabaetto mio dolce, io mi ti raccomando55; e così come la mia persona è al piacer tuio, così è ciò che ci è56 e ciò che per me si può è allo comando tuio57». Sala50 Pezzi di pasta profumata, preparati variamente, che si ardevano: erano chiamati «useletti o vuoi pizzetti». L’aggettivo deve indicare, come già per b u c h e r a m e (14), qualità sopraffina, orientaleggiante. Per la discussa interpretazione del termine cfr. m. PASTORE STOCCHI, Note e chiose interpretative, in «Studi sul B.», II, 1964, con puntuale documentazione. 51 pertiche o traverse di legno secondo l’uso già descritto a II 5,17. Anzi tutta questa pagina ripete assai da vicino la descrizione dell’ambiente in cui un’altra avida cortigiana, Madonna Fiordaliso, riceve l’ingenuo Andreuccio. 52 Proprio ancora come Andreuccio: II 5,17. 53 chiacchierare, mormorare: III 4,5 n. 54 Ornamenti in cui comunemente si sfoggiava l’eleganza e che eran doni di prammatica fra amanti (III 3,26 n.). 55 Formula consueta di commiato cortese. 56 ogni cosa, tutto quanto è qui, è mio: VIII 6,29 n. e più sotto 30. 57 Cfr. IV 3,26: «gli significò sé essere a ogni suo comanda- Letteratura italiana Einaudi 1193 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 26 27 28 29 baetto lieto abbracciatala e baciatala, s’uscì di casa costei58 e vennesene là dove usavano gli altri mercatanti. E usando una volta e altra con costei senza costargli cosa del mondo, e ogni ora più invescandosi59, avvenne che egli vendé i panni suoi a contanti e guadagnonne bene. Il che la buona donna non da lui, ma da altrui sentì incontanente; e essendo Salabaetto da lei andato una sera, costei incominciò a cianciare e a ruzzare con lui, a baciarlo e abbracciarlo, mostrandosi sì forte di lui infiammata, che pareva che ella gli volesse d’amor morir nelle braccia60; e volevagli pur donare due bellissimi nappi d’argento che ella aveva, li quali Salabaetto non voleva torre, sì come colui che da lei tra una volta e altra aveva avuto quello che valeva ben trenta fiorin d’oro, senza aver potuto fare che ella da lui prendesse tanto che valesse un grosso61. Alla fine, avendol costei bene acceso col mostrar sé accesa e liberale, una delle sue schiave, sì come ella aveva ordinato, la chiamò; per che ella, uscita della camera e stata alquanto, tornò dentro piagnendo62, e sopra il letto gittatasi boccone, cominciò a fare il più doloroso lamento che mai facesse femina. Salabaetto, maravigliandosi, la si recò in braccio, e cominciò a piagner con lei e a dire: «Deh, cuor del corpo mio, che avete voi così subitamente? Che è la cagione di questo dolore? Deh! ditemelo, anima mia63». mento». Tu i o è un’altra delle forme meridionaleggianti di cui è punteggiato il parlare di Madonna Iancofiore. 58 Con la solita soppressione della preposizione di (II 5,50 n.). 59 impaniandosi: linguaggio tradizionale: X 6,24 n. 60 Espressione tradizionale e ricorrente (cfr. qui a 56 in altro senso). 61 Monetina d’argento: VIII 3,29 n. 62 «Muliebris lacryma condimentum malitiac est» (Publilio Siro, Sententiae): e cfr. il già citato «Dum femina plorat | Decipere laborat» (VIII 7,81 n.). 63 Discorso punteggiato dai soliti tenerissimi appellativi, per cui cfr. per es. II 10,30 n. Letteratura italiana Einaudi 1194 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 30 31 32 Poi che la donna s’ebbe assai fatta pregare, e64 ella disse: «Ohimè, signor mio dolce, io non so né che mi far né che mi dire: io ho testé ricevute lettere da Messina, e scrivemi mio fratello, che, se io dovessi vendere e impegnare ciò che ci è65, che66 senza alcun fallo io gli abbia fra qui e otto dì mandati67 mille fiorin d’oro, se non che gli sarà tagliata la testa; e io non so quello che io mi debba fare, che68 io gli possa così prestamente avere; ché, se io avessi spazio pur quindici dì, io troverrei modo da civirne69 d’alcun luogo donde io ne debbo avere molti più, o io venderei alcuna delle nostre possessioni; ma, non potendo, io vorrei esser morta prima che quella mala novella mi venisse »; e detto questo, forte mostrandosi tribolata, non restava70 di piagnere. Salabaetto, al quale l’amorose fiamme avevan gran parte del debito conoscimento tolto, credendo quelle verissime lagrime e le parole ancor più vere, disse: «Madonna, io non vi potrei servire di mille, ma di cinquecento fiorin d’oro sì bene71, dove voi crediate potermegli rendere di qui a quindici dì; e questa è vostra ventura che pure ieri mi vennero venduti i panni miei, ché, se così non fosse, io non vi potrei prestare un grosso». 64 In ripresa dopo temporale: ecco che: I 1,39 n. anche se io dovessi vendere e impegnare tutto ciò che possiedo (cfr. 25 n.). 66 La solita ripetizione del che dopo frase parentetica condizionale. 67 Il trapassato remoto indica un’azione che deve compiersi, e compiersi entro un termine perentorio: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 309 sgg. E cfr. X 10,12 n. per «fra qui e otto dì». 68 in modo che: cfr. I 4,6 n. 69 provvedermene, procacciarmene: cfr. Amorosa Visione, XVI 79; Fiore, LXIX 2. 70 non cessava. «Nota» (M.). 71 Solito rafforzativo dell’affermazione o della negazione: III 8,56 n. 65 Letteratura italiana Einaudi 1195 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 33 34 35 36 37 «Oimè! «disse la donna «dunque hai tu patito disagio di denari? O perché non me ne richiedevi tu? Perché72 io non n’abbia mille, io ne aveva ben cento e anche dugento da darti; tu m’hai tolta tutta la baldanza73 da dovere da te ricevere il servigio che tu mi profferi». Salabaetto, vie più che preso da queste parole, disse: «Madonna, per questo non voglio io che voi lasciate74; ché, se fosse così bisogno a me come egli fa a voi, io v’avrei ben richiesta». «Ohimè!» disse la donna «Salabaetto mio, ben conosco che il tuo è vero e perfetto amore75 verso di me, quando, senza aspettar d’esser richiesto di così gran quantità di moneta, in così fatto bisogno liberamente mi sovieni76. E per certo io era tutta tua senza questo, e con questo sarò molto maggior mente; né sarà mai che io non riconosca da te77 la testa di mio fratello. Ma sallo Iddio che io mal volentier gli prendo, considerando che tu se’ mercatante, e i mercatanti fanno co’ denari tutti i fatti loro; ma per ciò che il bisogno mi strigne e ho ferma speranza di tosto rendergliti, io gli pur prenderò, e per l’avanzo78, se più presta via non troverrò, impegnerò tutte queste mie cose«; e così detto lagrimando, sopra il viso di Salabaetto si lasciò cadere. Salabaetto la cominciò a confortare; e stato la notte con lei, per mo- 72 Concessivo: III 1,24 n. ardire, coraggio: VII 3,13: «e cresciutagli baldanza, con più instanzia ... la cominciò a sollicitare». 74 tralasciate: V 3,50 n.; e qui più avanti 61. 75 Espressione dell’uso cortese: cfr. per es. anche III 5,19; VI 7,13 n. 76 Par., XXXIII 16 sgg.: «La tua benignità non pur soccorre | A chi domanda, ma molte fiate | Liberamente al dimandar precorre»; e anche Par., XVII 74 sgg. 77 di dovere a te, che mi venga da te: cfr. Par., XXXI 83. 78 e per il resto. 73 Letteratura italiana Einaudi 1196 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 38 39 40 41 strarsi bene liberalissimo suo servidore, senza alcuna richiesta di lei aspettare, le portò cinquecento be’ fiorin d’oro, li quali ella, ridendo col cuore e piagnendo con gli occhi, prese, attenendosene Salabaetto alla sua semplice promessione79. Come la donna ebbe i denari, così s’incominciarono le ’ndizioni80 a mutare; e dove prima era libera l’andata alla donna ogni volta che a Salabaetto era in piacere, così incominciaron poi a sopravvenire delle cagioni, per le quali non gli veniva delle sette volte l’una fatto il potervi entrare, né quel viso né quelle carezze né quelle feste più gli eran fatte che prima. E passato d’un mese e di due il termine, non che venuto, al quale i suoi danari riaver dovea, richiedendogli, gli eran date parole in pagamento. Laonde, avvedendosi Salabaetto dell’arte della malvagia femina e del suo poco senno, e conoscendo che di lei niuna cosa più che le si piacesse di questo poteva dire81, sì come colui che di ciò non aveva né scritta né testimonio, e vergognandosi di ramarricarsene con alcuno, sì perché n’era stato fatto avveduto dinanzi, e sì per le beffe le quali meritamente della sua bestialità n’aspettava, dolente oltre modo, seco medesimo la sua sciocchezza piagnea. E avendo da’ suoi maestri 79 fidandosi Salabaetto della sua promessa semplice, puramente verbale. 80 Periodi di quindici anni, cominciati a calcolare dal 313. «II motto è preso dall’uso del notai che forzati per legge antichissima a metter ne’ loro contratti queste benedette indizioni, che né loro né altri sa oggi mai più che si siano o che s’importino e perché le si mutano là di settembre e a mezzo il mese ..., come s’accosta il tempo, se lo vanno ricordando, e come bandendo fra loro: mutatur indicio» (Annotazioni, pp. 230 sgg.). Cfr. Vita Nuova, XXIX. La metafora viene a significare che la donna mutò l’ordine e il modo di riceverlo: come è spiegato nelle righe seguenti. 81 non poteva dir nulla di più di quel che piacesse a lei: cioè poteva dir quel che voleva ché, se non piaceva a lei, era inutile (Fanfani). Letteratura italiana Einaudi 1197 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 42 più lettere avute che egli quegli denari cambiasse e mandassegli loro; acciò che, non faccendolo egli, quivi non fosse il suo difetto scoperto, diliberò di partirsi; e in su un legnetto montato, non a Pisa, come dovea, ma a Napoli se ne venne. Era quivi in quei tempi nostro compar Pietro dello Canigiano82, tresorier di madama la ’mperatrice di Costantinopoli83, uomo di grande intelletto e di sottile ingegno, grandissimo amico e di Salabaetto e de’ suoi; col quale, sì come con discretissimo uomo, dopo alcuno giorno Salabaetto dolendosi, raccontò ciò che fatto aveva e il suo misero accidente, e domandogli aiuto e consiglio in fare che esso quivi potesse sostentar la sua vita84, affermando che mai a Firenze non intendeva di ritornare. 82 È uno dei vari personaggi viventi introdotti nelle novelle dal B., che con la stessa formula affettuosa già l’aveva ricordato nella sua burlevole lettera napoletana («e raccomandace, se te chiace, a nuostro compatre Pietro da lu Canajano, ca lo puozziamo bedere alla buoglia suoia»), e lo nominerà nel testamento tutore dei suoi credi. Dietro Dioneo si affaccia qui il B. ( ... nostro compar ... ). Pietro Canigiani era coetaneo circa del B., e amico e fedele dell’Acciaiuoli; ebbe varie e onorevoli cariche alla Corte angioina e nella Repubblica fiorentina, ma poi nel 1378 ebbe arse le case in Firenze e vietati gli uffici; nel 1381 morì confinato a Sarzana. Fu padre di Ristoro, l’autore del Ristorato: TIRIBILLI-GIULIANI, Sommario storico delle famiglie celebri toscane, Firenze 51 1862, I, p. 2; C. FRATI, in «Studi di filologia romanza», VI, 1890, p. 306; F. CORAZZINI, I Ciompi, Firenze 1888, pp. 12, 95, 103 e 133 sgg.; LÉONARD, Histoire de jeanne Ier, cit. III, p. 380. 83 Caterina di Valois-Courtenay (1301-46); come discendente di Baldovino II aveva il titolo di imperatrice di Costantinopoli. Aveva sposato a soli dodici anni Filippo, quartogenito di Carlo II lo Zoppo, da cui ebbe Roberto e Luigi di Taranto e quattro figlie. Secondo una voce, accreditata dal B. stesso (Buccolicum Carmen, VIII), dai suoi favori ebbe inizio la fortuna di Niccolò Acciaiuoli (G. Villani, XII 75). II B. la ricordò anche nel De casibus, IX 24 e nello Zibaldone Magliabechiano, C. 205r. Cfr. in generale LÉONARD, op. cit., I, passim. Trasorier è gallicismo frequente anche nei documenti del Regno angioino. 84 campare: cfr. IX 10,6: «per sostentar la vita sua». Letteratura italiana Einaudi 1198 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 43 44 45 46 Il Canigiano, dolente di queste cose, disse: «Male hai fatto; mal ti se’ portato; male hai i tuoi maestri ubbiditi; troppi denari ad un tratto hai spesi in dolcitudine85; ma che? fatto è, vuolsi vedere altro86». E, sì come avveduto uomo, prestamente ebbe pensato quello che era da fare, e a Salabaetto il disse; al quale piacendo il fatto, si mise in avventura di volerlo seguire87. E avendo alcun denaio, e il Canigiano avendonegli alquanti prestati, fece molte balle ben legate e ben magliate88, e comperate da89 venti botti da olio ed empiutele, e caricato ogni cosa, se ne tornò in Palermo; e il legaggio delle balle dato a doganieri e similmente il costo delle botti, e fatto ogni cosa scrivere a sua ragione, quelle mise ne’ magazzini, dicendo che, infino che altra mercatantia la quale egli aspettava non veniva, quelle non voleva toccare. Iancofiore, avendo sentito questo e udendo che ben duemilia fiorin d’oro valeva o più quello che al presente aveva recato, senza quello che egli aspettava, che valeva più di tre milia, parendole aver tirato a pochi90, pensò di restituirgli i cinquecento, per potere avere la maggior parte de’ cinquemilia, e mandò per lui. Salabaetto divenuto malizioso v’andò; al quale ella 85 lascivie, mollezze. procurare altra cosa cioè trovare un rimedio. È una delle affermazioni solite alla sapienza bonaria e umanissima del B.: III 6,43 n. e Filocolo, III 7,9. Cfr. Plauto, Aul., 74 «Factum infectum fieri nequit»; WALTHER, Proverbia cit., II, pp. 15 sg.; Inf., XXVIII 107. 87 affrontò il rischio (II 9,27 n.) di volerlo eseguire, mettere in pratica: X 3,30 n.; Petrarca, LXXII 22. 88 ammagliate, legate strette: Ariosto, Cassaria, III 9: «corda da magliare». 89 circa: II 7,7 n. 90 aver mirato a pochi denari oppure aver fatto un magro bottino. 86 Letteratura italiana Einaudi 1199 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 47 48 49 faccendo vista di niente sapere di ciò che recato s’avesse, fece maravigliosa festa e disse: «Ecco, se tu fossi crucciato meco perché io non ti rende’ così al termine i tuoi denari91...?» Salabaetto cominciò a ridere e disse: «Madonna, nel vero egli mi dispiacque bene un poco sì come a colui che mi trarrei il cuor per darlovi, se io credessi piacervene; ma io voglio che voi udiate come io son crucciato con voi. Egli è tanto e tale l’amor che io vi porto, che io ho fatto vendere la maggior parte delle mie possessioni, e ho al presente recata qui tanta mercatantia che vale oltre a dumilia92 fiorini, e aspettone di Ponente tanta che varrà oltre a tremilia, e intendo di fare in questa terra un fondaco93 e di starmi qui, per esservi sempre presso, parendomi meglio stare del94 vostro amore che io creda che stia alcuno innamorato del suo». A cui la donna disse: «Vedi, Salabaetto, ogni tuo acconcio95 mi piace forte, sì come di quello di colui il quale io amo più che la vita mia96, e piacemi forte che tu con intendimento di starci tornato ci sii, però che spero d’avere ancora assai di buon tempo con teco 97; ma io mi ti voglio un poco scusare ch’e, di quei tempi che tu te n’andasti, alcune volte ci volesti venire e non potesti, e alcune ci venisti e non fosti così lietamente ve91 «Credo che voglia dire: se’ ti tu forse crucciato ecc. per lo punto interrogativo» (M.). E cfr. Annotazioni, CX. 92 In simili numerali composti - m i l i a si alterna con - m i l a (II 5,43 n.). 93 Piuttosto che magazzino, come al 4, qui va inteso come azienda mercantile (IV 5,5 n.; VII 7,5 n.). 94 essere più contento in quanto al. 95 comodo, vantaggio, bene: VIII 7,22; e IX 1,9: «il quale ella avvisò dovere in parte essere grande acconcio del suo proponimento»; Fiammetta, VIII 1,3: «mi seguiranno due acconci». 96 Frase consueta in queste dichiarazioni: V 6,4 n.; e qui 12. 97 Anche questa è frase solita in situazioni simili: V 3,46 n.; VIII 9,10 n. Letteratura italiana Einaudi 1200 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 50 52 53 54 55 duto come solevi; e oltre a questo, di ciò98 che io al termine promesso non ti rende’ i tuoi denari. Tu dei sapere che io era allora in grandissimo dolore e in grandissima afflizione, e chi è in così fatta disposizione, quantunque egli ami molto altrui, non gli può far così buon viso né attendere tuttavia a lui come colui vorrebbe; e appresso dei sapere ch’egli è molto malagevole ad una donna il poter99 trovar mille fiorin d’oro, e sonci tutto il dì dette delle bugie e non c’è attenuto quello che ci è promesso, e per questo conviene che noi altressì mentiamo altrui; e di quinci venne, e non da altro difetto, che io i tuoi denari non ti rendei; ma io gli ebbi poco appresso la tua partita, e se io avessi saputo dove mandargliti, abbi per certo che io te gli avrei mandati; ma perché saputo non l’ho, gli t’ho guardati100». E fattasi venire una borsa dove erano quegli medesimi che esso portati l’avea, gliele pose in mano e disse: «Annovera se son cinquecento». Salabaetto non fu mai sì lieto, e annoveratigli e trovatigli cinquecento e ripostigli, disse: «Madonna, io conosco che voi dite vero, ma voi n’avete fatto assai; e dicovi che per questo e per lo amore che io vi porto, voi non ne vorreste da me per niun vostro bisogno quella quantità che io potessi fare101, che io non ve ne servissi; e come io ci sarò acconcio102, voi ne potrete essere alla pruova». E in questa guisa reintegrato con lei l’amore in parole, rincominciò Salabaetto vezzatamente103 a usar 98 [mi ti voglio scusare] di questo, cioè che, o semplicemente perché (VIII 7,64 n.). 99 Pleonastico, come altra volta nel D. (per es. X 3,30; X 9,15): cfr. p. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 458 sg. 100 te li ho serbati, custoditi. 101 mettere insieme. 102 mi sarò stabilito, sistemato qui: corrente questo participio accorciato o aggettivo verbale. 103 carezzevolmente, ma con affettazione: Volg. Lucano (T.): Letteratura italiana Einaudi 1201 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 56 57 58 59 con lei, ed ella a fargli i maggiori piaceri e i maggiori onori del mondo, e a mostrargli il maggiore amore. Ma Salabaetto, volendo col suo inganno punire lo ’nganno di lei104, avendogli ella il dì mandato105 che egli a cena e a albergo106 con lei andasse, v’andò tanto malinconoso e tanto tristo, che egli pareva che volesse morire. Iancofiore, abbracciandolo e baciandolo, lo ’ncominciò a domandare perché egli questa malinconia avea. Egli, poi che una buona pezza107 s’ebbe fatto pregare, disse: «Io son diserto108 per ciò che il legno, sopra il quale e la mercatantia che io aspettava, è stato preso da’corsari di Monaco109 e riscattasi diecimilia fiorin110 d’oro, de’quali ne tocca a pagare a me mille, e io non ho un denaio, per ciò che li cinquecento che mi rendesti incontanente mandai a Napoli ad investire in tele per far venir qui. E se io vorrò al presente vendere la mercatantia la quale ho qui, per ciò che non è tempo, appena che io abbia delle due derrate un denaio111, e io non ci sono sì ancora conosciuto che io ci trovassi chi di questo mi sovvenisse, e per ciò io non so che mi fare né che mi dire; e se io non mando tosto i denari, la mercatantia ne fia portata a Monaco; e non ne riavrò mai nulla». La donna, forte crucciosa di questo, sì come colei alla quale tutto il pareva perdere 112, avvisando che «parlò ai messaggi molto vezzatamente». 104 Uno dei temi preferiti dal B. e spesso dichiarato esplicitamente: II 9, III 5, III 9, IV 2, VII 5, VIII 7, VIII 8, IX 8 ecc. 105 mandato a dire: cfr. V 6,41 n. 106 Cfr. 21 n. 107 un buon tratto di tempo, un bel pezzo: II 3,24 n. 108 rovinato: II 4,7 n.; VIII 6,27 n. 109 Nido di pirati famoso in quel secolo: cfr. II 10,16 n. 110 Senza preposizione di complemento, secondo l’uso corrente. 111 sarà molto se ricaverà un denaro dalla doppia quantità di merce: cioè dovrò vendere a metà prezzo. Vendita rovinosa in condizioni analoghe a quella fatta da Landolfo Rufolo (II 4). 112 «Le pareva di perdere lui proprio, e per conseguenza anche Letteratura italiana Einaudi 1202 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 60 61 62 63 modo ella dovesse tenere acciò che a Monaco non andasse, disse: «Dio il sa che ben me ne incresce per tuo amore; ma che giova il tribolarsene tanto? Se io avessi questi denari, sallo Idio che io gli ti presterrei incontanente; ma io non gli ho. È il vero che egli ci è alcuna persona, il quale113 l’altrieri mi servì de’ cinquecento che mi mancavano, ma grossa usura ne vuole; ché egli non ne vuol meno che a ragion di trenta per centinaio114; se da questa cotal persona tu gli volessi, converrebbesi far sicuro di buon pegno115, e io per me sono acconcia116 d’impegnar per te tutte queste robe e la persona per tanto quanto egli ci vorrà su prestare, per poterti servire, ma del rimanente come il sicurerai tu?» Conobbe Salabaetto la cagione che moveva costei a fargli questo servigio, e accorsesi che di lei dovevan essere i denari prestati; il che piacendogli, prima la ringraziò, e appresso disse che già per pregio117 ingordo non lascerebbe, strignendolo il bisogno; e poi disse che egli il sicurerebbe della mercatantia la quale aveva in dogana, faccendola scrivere in colui118 che i denar gli prestasse; ma che egli voleva guardar119 la chiave de’ magazzini, sì per poter mostrar la sua mercatantia, se richiesta gli fosse, e sì acciò che niuna cosa gli potesse esser tocca o tramutata o scambiata. La donna disse che il magazzino, nel quale esso per lei era personificato» (Fanfani): oppure perdere tutto il guadagno, il denaro; e ricorre uno dei soliti iperbati. 113 Concordanza a senso già altra volta notata: II 6,70 n. 114 all’interesse del trenta per cento. 115 dare garanzia con un buon perno; Velluti, Cronica, p. 65: «demmene sicuro sopra certa parte della casa»; e più sotto sicurare garantire. 116 disposta: VIII 6,38 n. 117 prezzo e qui interesse. 118 registrare in nome, a conto di colui. 119 conservare, tener presso di sé. Letteratura italiana Einaudi 1203 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 64 65 66 questo era ben detto, ed era assai buona sicurtà120. E per ciò, come il dì fu venuto, ella mandò per un sensale di cui ella si confidava 121 molto, e ragionato con lui questo fatto122, gli diè mille fiorin d’oro li quali il sensale prestò a Salabaetto, e fece in suo nome scrivere alla dogana ciò che Salabaetto dentro v’avea; e fattesi loro scritte123 e contrascritte insieme, e in concordia rimasi, attesero a’ loro altri fatti. Salabaetto, come più tosto potè, montato in su un legnetto con mille cinquecento fiorin d’oro, a Pietro dello Canigiano se ne tornò a Napoli, e di quindi buona e intera ragione124 rimandò a Firenze a’suoi maestri che co’panni l’avevan mandato; e pagato Pietro e ogni altro a cui alcuna cosa doveva, più di col Canigiano si diè buon tempo dello inganno fatto alla ciciliana. Poi di quindi, non volendo più mercatante essere, se ne venne a Ferrara125. Iancofiore, non trovandosi Salabaetto in Palermo, s’incominciò a maravigliare e divenne sospettosa; e poi che ben due mesi aspettato l’ebbe, veggendo che non veniva, fece che ’l sensale fece schiavare126 i magazzini. E primieramente tastate le botti, che si credeva che piene d’olio fossero, trovò quelle esser piene d’acqua marina, avendo in ciascuna127 forse un barile d’olio di 120 121 122 garanzia: c me sopra (60) s i c u r o : IV 4,13 n. si fidava: III 8,35 n. Solita costruzione di r a g i o n a r e con l’accusativo: Intr., 52. 123 contratti scritti: cfr. II 9,23 n. regolare e pieno rendiconto: III 1,6 n. Questo dislocamento di Salabaetto a Ferrara vuole confermare, probabilmente, il suo distacco dalla mercatura. Tuttavia Ferrara era notevole centro commerciale dove operavano mercanti fiorentini (cfr. II 2,4 n.). 126 forzare le porte, aprire a forza. 127 essendovi in ciascuna: Intr., 15 n. 124 125 Letteratura italiana Einaudi 1204 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 67 sopra vicino al cocchiume128. Poi, sciogliendo le balle, tutte, fuor che due che panni erano, piene le trovò di capecchio; e in brieve, tra ciò che v’era129, non valeva oltre a dugento fiorini. Di che Iancofiore tenendosi scornata, lungamente pianse i cinquecento renduti e troppo più i mille prestati, spesse volte dicendo: «Chi ha a far con tosco, non vuole esser losco130 «. E così, rimasasi col danno e colle beffe, trovò che tanto seppe altri quanto altri131. – 128 Il foro donde si riempie la botte. in tutto ciò che v’era, compreso e computato ciò che v’era. 130 Chi tratta con un toscano non deve, non può esser guercio, cioè deve tener bene gli occhi aperti. Proverbio diffuso e ripetuto, con visibile soddisfazione, dagli scrittori toscani: anche il Sacchetti così conclude la sua CXLIV; il Poliziano riferisce il detto al n. 373 dei suoi motti (cfr. Tagebuch cit., p. 189); il Giusti lo registra nella sua Raccolta di proverbi toscani (p. 219). 131 che tanto fu accorto l’uno quanto l’altro. «I due indefiniti hanno entrambi il riferimento personale: l’uno a lancofiore, l’altro a Salabaetto» (Marti). 129 Letteratura italiana Einaudi 1205 CONCLUSIONE 1 2 3 Come Dioneo ebbe la sua novella finita, così Lauretta, conoscendo il termine esser venuto oltre al quale più regnar non dovea, commendato il consiglio di Pietro Canigiano che apparve dal suo effetto buono, e la sagacità di Salabaetto che non fu minore a mandarlo ad esecuzione, levatasi la laurea1 di capo, in testa ad Emilia la pose, donnescamente2 dicendo: – Madonna, io non so come3 piacevole reina noi avrem di voi, ma bella la pure avrem noi4; fate adunque che alle vostre bellezze l’opere sien rispondenti – ; e tornossi a sedere. Emilia, non tanto dell’esser reina fatta, quanto dell’udirsi così in pubblico commendare di ciò che5 le donne sogliono essere più vaghe, un pochetto si vergognò6, e tal nel viso divenne qual in su l’aurora son le novelle rose. Ma pur, poi che avendo alquanto gli occhi tenuti bassi ebbe il rossore dato luogo7, avendo col suo siniscalco de’ fatti pertinenti alla brigata ordinato, così cominciò a parlare: – Dilettose donne, assai manifestamente veggiamo che, poi che i buoi per alcuna parte del giorno hanno faticato sotto il giogo ristretti, quegli esser dal giogo alleviati e disciolti, e liberamente, dove lor più piace, per li boschi lasciati sono andare alla pastura8; e 1 corona d’alloro: III concl., 1 n. Frequente in simili momenti questo avverbio o l’aggettivo corrispondente: I 10,2 n.; IV intr., 31 n. e 45; V 9,20 n. 3 quanto: cfr. V 3,23 n. 4 di certo noi l’avremo bella. 5 di quello di cui: II 7,26 n. 6 «Nota il fumo delle donne» (M.). 7 si fu dileguato, scomparve: VII concl., 16 n. 8 Cambiamento di costruzione frequente, come si è visto, nelle oggettive (e s s e r e l a s c i a t i sono dipendenti da c h e ): cfr. per es. Intr., 42 n. 2 Letteratura italiana Einaudi 1206 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 4 5 6 7 8 veggiamo ancora non esser men belli, ma molto più, i giardini di varie piante fronzuti, che i boschi ne’quali solamente querce veggiamo; per le quali cose io estimo, avendo riguardo quanti giorni sotto certa9 legge ristretti ragionato abbiamo, che, sì come a bisognosi, di vagare alquanto, e vagando riprender forze a rientrar sotto il giogo, non sola mente sia utile ma opportuno. E per ciò quello che domane, seguendo10 il vostro dilettevole ragionare, sia da dire, non intendo di ristrigneni sotto alcuna spezialità11, ma voglio che ciascun secondo che gli piace ragioni, fermamente tenendo12 che la varietà delle cose che si diranno non meno graziosa ne fia che l’avrete pur d’una parlato; e così avendo fatto, chi appresso di me nel reame verrà, sì come più forti13, con maggior sicurtà ne potrà nelle usate leggi ristrignere. – E detto questo, infino all’ora della cena libertà concedette a ciascuno. Commendò ciascun la reina delle cose dette, sì come savia; e in piè drizzatisi, chi ad un diletto e chi ad un altro si diede: le donne a far ghirlande e a trastullarsi, i giovani a giucare e a cantare, e così infino all’ora della cena passarono14; la quale venuta, intorno alla bella fontana con festa e con piacer cenarono; e dopo la cena al modo usato cantando e ballando un gran pezzo si trastullarono. Alla fine la reina, per seguire de’ suoi predecessori lo stilo, non obstanti quelle15 che volonta9 10 11 determinata, fissa. proseguendo. Cioè di costringervi a trattare alcun tema particolare, presta- bilito, 12 13 tenendo per fermo, ritenendo sicuro. Cioè: trovandoci più forti (dopo la libertà goduta un gior- no). 14 15 passarono il tempo. senza tener conto di quelle canzoni. Letteratura italiana Einaudi 1207 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII riamente da più di loro erano state dette, comandò a Panfilo che una ne dovesse cantare. Il quale così liberamente cominciò: 9 10 11 Tanto è, Amore, il bene ch’io per te sento, e l’allegrezza e ’l gioco16, ch’io son felice ardendo17 nel tuo foco. L’abondante allegrezza ch’è nel core, dell’18alta gioia e cara nella qual m’hai recato, non potendo capervi19 esce di fore, e nella faccia chiara20 mostra ’l mio lieto stato; ch’essendo innamorato in così alto e raguardevol loco21 lieve mi fa lo star dov’io mi coco22. Io non so col mio canto dimostrare, né disegnar col dito23, Amore, il ben ch’io sento; e s’io sapessi, mel convien celare; ché, s’el fosse sentito24, 16 gioia; II concl., 13; rime predilette dal B. sono, come già si è detto, gioco, foco, loco, poco. Cfr. la popolarissima canzone Tanto è il bene ch’io aspetto (Cantilene e Ballate, ed. Carducci cit., XVIII). 17 d’ardere o anche se ardo (gerundio per infinito con preposizione o concessivo). Cfr. Par., VII 17-18; Petrarca, CCCXXXVII II «ardendo, assai felice fui», CCCLXIV 1-2. 18 a causa della. Per g i o i a c a r a cfr. Par., IX 37, XXIV 89. 19 essere contenuta, star dentro il cuore: I 10,12 n. 20 serena: V 6 2: «levato il chiaro viso». 21 di persona così nobile e importante: espressione tradizionale nella lirica d’arte. 22 ardo: VII concl., 12 n. 23 designare, indicare col dito, additare (IV 5,13): è negazione nella struttura e nel gusto degli impossibilia medievali. 24 saputo, conosciuto. Per el cfr. II 6,44 n. Letteratura italiana Einaudi 1208 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII 12 13 torneria in tormento: ma io son sì contento ch’ogni parlar sarebbe corto e fioco25, pria26 n’avessi mostrato pure un poco. Chi potrebbe estimar che le mie braccia aggiugnesser giammai là dov’io l’ho tenute, e ch’io dovessi giunger la mia faccia là dov’io l’accostai per grazia e per salute27? Non mi sarien credute le mie fortune28; ond’io tutto m’infoco, quel nascondendo ond’io m’allegro e gioco29. La canzone di Panfilo aveva fine, alla quale quantunque per tutti fosse compiutamente risposto30, niun ve n’eb-be che, con più attenta sollecitudine che a lui non apparteneva31, non notasse le parole di quella, in- 25 insufficiente e debole: cfr. II 6,6 n.: Par., XXXIII 121: «Oh quanto è corto il dire e come fioco ...». 26 prima che. 27 per ottenere misericordia e salvezza. Espressione stilnovistica: e cfr. Purg., XXX 51. 28 Era usato correntemente anche il plurale: X 9,98 n. 29 mi rallegro e sono giocondo, gioioso (cfr. II concl., 13): uso eccezionale del verbo «giocare», aria provenzale (joc è sinonimo di joi, e così gioco di gioia: Cfr. V. 2). Ballata esultante, dell’amore appagato; e tutta percorsa da motivi e soprattutto da linguaggio della più alta tradizione lirica. Può ricordare del resto alcune Rime del B. stesso (LIXI LXVI, LXX; e anche Amorosa Visione, XLII 62 sgg.). È una ballata costituita da una ripresa (yZZ) e tre stanze (Abc, Abc; cZZ): le rime dei due versi finali della ripresa e delle stanze sono identiche. 30 Cantando in coro la ripresa. 31 Cioè: di quanta fosse nei limiti della discrezione (a lui si riferisce a niun) (Marti). Letteratura italiana Einaudi 1209 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata VIII gegnandosi di quello volersi indovinare che32 egli di convenirgli tener nascoso cantava. E quantunque vari varie cose andassero imaginando, niun per ciò alla verità del fatto pervenne. Ma la reina, poi che vide la canzone di Panfilo finita, e le giovani donne e gli uomini volentier riposarsi, comandò che ciascuno se n’andasse a dormire. 32 d’indovinare quello che. Letteratura italiana Einaudi 1210 GIORNATA NONA 1 Incomincia la nona giornata nella quale sotto il reggimento d’Emilia, si ragiona ciascuno secondo che gli piace e di quello che più gli aggrada 2 La luce, il cui splendore la notte fugge, aveva già l’ottavo cielo1 d’azzurrino in color cilestro mutato tutto, e cominciavansi i fioretti per li prati a levar suso2, quando Emilia, levatasi, fece le sue compagne e i giovani parimente chiamare. Li quali venuti, e appresso alli lenti passi della reina avviatisi, infino ad un boschetto, non guari al palagio lontano, se n’andarono; e per quello entrati, videro gli animali, sì come cavriuoli, cervi e altri3, quasi sicuri da’ cacciatori per la sopra stante pistolenzia, non altramente aspettargli che se senza te ma o dimestichi fossero divenuti. E ora a questo e ora a quell’altro appressandosi, quasi giugnere gli dovessero, faccendogli correre e saltare, per alcuno spazio sollazzo presero. Ma già inalzando il sole, parve4 a tutti di ritornare. Essi eran tutti di frondi5 di quercia inghirlandati, con 3 4 1 Il cielo stellato o delle stelle fisse (Par., XXII sgg.), secondo la cosmologia tolemaica. 2 Inf., II 127 sgg.: «Quali fioretti dal notturno gelo | Chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca, | Si drizzan tutti aperti in loro stelo»: versi già ripresi puntualmente dal B. nel Filostrato, II 80 e nel Teseida, IX 28. E anche qui al centro della scena mattutina è un’Emilia, come nel Teseida, III 5 sgg. 3 Descrizione boschereccia e venatoria prelusa nella Caccia, II 1 sgg. 4 parve bene, parve opportuno: VIII 3,28 n. 5 Desinenza comune e forse più popolaresca, come «porti»: II 2,16 n. Letteratura italiana Einaudi 1211 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 5 6 7 le mani piene o d’erbe odorifere o di fiori; e chi scontrati gli avesse, niun’altra cosa avrebbe potuto dire se non: «O costor non saranno dalla morte vinti, o ella gli ucciderà lieti». Così adunque, piede innanzi piè6 venendosene, cantando e cianciando e motteggiando7, pervennero al palagio, do ve ogni cosa ordinatamente disposta e li lor famigliari lieti e festeggianti trovarono. Quivi riposatisi alquanto, non prima a tavola andarono che sei canzonette, più lieta l’una che l’altra, da’ giovani e dalle donne cantate furono; appresso alle quali, data l’acqua alle mani, tutti secondo il piacer della reina gli mise il siniscalco a tavola, dove le vivande venute, allegri tutti mangiarono; e da quello levati8, al carolare9 e al sonare si dierono per alquanto spazio, e poi, co mandandolo la reina, chi volle s’andò a riposare. Ma già l’ora usitata 10 venuta, ciascuno nel luogo usato s’adunò a ragionare; dove la reina, a Filomena guardando, disse che principio desse alle novelle del presente giorno, la qual sorridendo cominciò in questa guisa. 6 lentamente, passo passo: V 8,13 n. chiacchierando e dicendo motti di spirito, celiando: I 5,17 n. e II 9,5 n. 8 da quell’occupazione (neutro) o dal mangiare (sottinteso e compreso nel precedente m a n g i a r o n o: sillessi). 9 danzare in tondo, in cerchio: Intr., 106 n. 10 usata, consueta. 7 Letteratura italiana Einaudi 1212 NOVELLA PRIMA 1 Madonna Francesca, amata da un Rinuccio e da uno Alessandro, e niuno amandone, col fare entrare l’un per morto in una sepoltura, e l’altro quello trarne per morto, non potendo essi venire al fine imposto, cautamente se gli leva da dosso1. 2 – Madonna, assai m’aggrada, poi che vi piace, che2 per questo campo aperto e libero, nel quale la vostra magnificenzia3 n’ha messi, del novellare, d’esser colei che corra il primo aringo4, il quale se ben farò, non dubito che quegli che appresso verranno non facciano bene e meglio. Molte volte s’è, o vezzose donne, ne’ nostri 3 1 Gli stratagemmi di donne che per allontanare le insistenze di amanti importuni impongono loro imprese difficili o addirittura impossibili, costituiscono temi cari alla narrativa popolare di tutti i tempi (Thompson, K 1218.4, 1517.1.1) e a quella letteraria del Medioevo. Il B. stesso racconta un altro caso analogo nella X 5; Bonaccorso Pitti delinea un episodio autobiografico simile nella sua Cronica (Bologna 1905, p. 42). Non v’è bisogno quindi di ricorrere, come ha fatto il Landau (p. 333), a una storiella di Harut e Marut narrata dai commentatori del Corano (riferita anche nell’ebraico Midrasch Abchir) per indicare antecedenti vaghi e generici di questa novella. Nulla di preciso e significativo è stato finora citato. Piuttosto si possono richiamare i temi antropologici e novellistici delle prove impossibili: Thompson e Rotunda, H 900; e quelli delle astuzie femminili contro gli amanti importuni: Thompson e Rotunda, K 1218 sgg. e 1218.4. 2 Pleonastico, poiché si muta costruzione e segue poi l’infinito d’e s s e r . 3 Titolo conveniente alla dignità della «regina» e che accenna alla sua liberalità per aver concesso a ognuno di narrare su di un argomento a piacere; o si può anche intendere m a g n i f i c e n z i a come liberalità. 4 giostra: facile linguaggio metaforico già usato alla II 8,3 n. Letteratura italiana Einaudi 1213 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 4 5 6 ragionamenti mostrato quante e quali sieno le forze d’amore; né però credo che pienamente se ne sia detto, né sarebbe ancora, se di qui ad uno anno d’altro che di ciò non parlassimo; e per ciò che esso non solamente a vari dubbi5 di dover morire gli amanti conduce, ma quegli ancora ad entrare nelle case de’ morti per morti tira, m’aggrada di ciò raccontarvi6, oltre a quelle che dette sono, una novella, nella quale non solamente la potenzia d’amore comprenderete, ma il senno da una valorosa donna usato a torsi da dosso due che contro al suo piacere l’amavan, cognoscerete. Dico adunque che nella città di Pistoia fu già una bellissima donna vedova, la quale due nostri fiorentini, che per aver bando7 di Firenze a Pistoia dimoravano 8, chiamati l’uno Rinuccio Palermini9 e l’altro Alessandro Chiarmontesi10, senza sapere l’un dell’altro, per caso di costei presi11, sommamente amavano, operando cautamente ciascuno ciò che per lui si poteva, a dover l’amor di costei acquistare. Ed essendo questa gentil donna, il cui nome fu madonna Francesca de’ Lazzari12, assai so- 5 rischi, pericoli: I 3,3 n. mi piace raccontarvi attorno a questo. per essere stati banditi, esiliati: infinito presente con valore di passato: cfr. II 10,24 n. 8 vivevano, conducevano la vita: anche con uso assoluto (Guittone, Rime, XVIII 33; Vita Nuova, VII 48): ma probabilmente qui si sottintende l à , a P i s t o i a , con facile costruzione a senso. 9 Nota famiglia ghibellina del sesto di San Pancrazio, esiliata con le altre della sua parte (G. Villani, IV 10, V 39): un Palermini già era stato fatto dal B. protagonista di una novella (III 7,4 n.). 10 Altra famiglia fiorentina ghibellina e poi guelfa, abitante presso Orsanmichele, esiliata come i Palermini (G. Villani, IV II, V 39). 11 invaghiti: VIII 10,11 n. 12 Nota e potente famiglia pistoiese, fin dai primi del ’200 della «pars militum» e guelfa; il Vanni Fucci dantesco (Inf., XXIV 122 6 7 Letteratura italiana Einaudi 1214 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 7 8 9 vente stimolata13 da ambasciate e da prieghi di ciascun di costoro, e avendo ella ad esse men saviamente più volte gli orecchi porti, e volendosi saviamente14 ritrarre e non potendo, le venne, acciò che la lor seccaggine si levasse da dosso, un pensiero15; e quel fu di volergli richiedere d’un servigio il quale ella pensò niuno dovergliele fare, quantunque egli fosse possibile, acciò che, non faccendolo essi, ella avesse onesta o colorata ragione16 di più non volere le loro ambasciate udire; e ’l pensiero fu questo. Era, il giorno che questo pensier le venne, morto in Pistoia uno, il quale, quantunque stati fossero i suoi passati17 gentili uomini, era reputato il piggiore uomo che, non che in Pistoia, ma in tutto il mondo fosse18; e oltre a sgg.) e il celebre giurista Filippo de’ Lazzari furono ambedue di questa schiatta (cfr. per es. Storie Pistoresi cit., passim agli indici; e anche G. GANUCCI CANCELLIERI, Pistoia nel XIII secolo, Firenze 1975, pp. 259 sgg.): ma di questa Francesca nessuna notizia. E cfr. per questi possibili riferimenti Storici B. BRUNI, Rileggendo il B. Le novelle pistoiesi del D., in «Pistoia», XI, 1965. 13 sollecitata insistentemente: con quella sfumatura di senso accennante a insistenze amorose, che già abbiamo visto altrove: II 8,41 n.; III 3,23 n. 14 poco saviamente, o addirittura imprudentemente (dando a meno il valore negativo di cui alla II 8,49 n.). «Minus pro non» (M.). Cfr. X 5,14 n. 15 «La proposizione finale a c c i ò che è inserita in mezzo alla principale l e v e n n e, quasi a mostrarci il lento formarsi di quel disegno e il forte intendimento, ch’ella aveva, di trovar via a levarseli d’attorno» (Fornaciari). 16 motivo ragionevole, conveniente (Intr., 7 n.) o verisimile, apparentemente giusto: I 3,7 n.: «fargli una forza da alcuna ragion colorata». 17 trapassati, antenati: X 10,43 n. 18 Riecheggia in qualche modo la frase finale del ritratto di Ser Ciappelletto: «egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse» (I 1,15). Letteratura italiana Einaudi 1215 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 10 11 12 questo vivendo19 era sì contraffatto e di sì divisato20 viso, che chi conosciuto non l’avesse, vedendol da prima, n’avrebbe avuto paura; ed era stato sotterrato in uno avello21 fuori della chiesa dei frati minori22; il quale ella avvisò dovere in parte essere grande acconcio del suo proponimento23. Per la qual cosa ella disse a una sua fante: «Tu sai la noia e l’angoscia la quale io tutto il dì ricevo dall’ambasciate di questi due fiorentini, da Rinuccio e da Alessandro; ora io non son disposta a dover loro del mio amore compiacere; e per torglimi da dosso, m’ho posto in cuore, per le grandi profferte che fanno, di volergli in cosa provare24, la quale io son certa che non faranno, e così questa seccaggine torrò via: e odi come. Tu sai che stamane fu sotterrato al lugo25 de’frati minori lo Scannadio26» così era chiamato quel reo uomo di cui dl sopra dicemmo27 del quale, non che morto, ma vivo, i più sicuri28 uomini di questa terra, vedendolo, avevan paura; e però tu te n’andrai segretamente prima ad Alessandro, e sì gli dirai: ‘Madonna Francesca ti manda dicendo29 che 19 mentre era in vita. sfigurato, deforme: VIII 5,23 n.; Guido Cavalcanti, LI 2: «E pon ben mente com’è divisata». C o n t r a f a t t o si riferisce in genere al corpo (IX 7,13); d i v i s a t o al viso. 21 arca: cfr. VIII 9,81 n. 22 Cioè la chiesa di San Francesco, una delle più famose di Pistoia, la cui costruzione cominciò nel 1295. 23 vantaggio, aiuto per effettuare il suo proposito: VIII 10,49 n. 24 mettere alla prova. 25 convento: I 1,75 n. E per la forma (ripetuta anche al 25) con riduzione del dittongo cfr. III 1,11 n. 26 Nome facilmente allusivo, usato anche dal Firenzuola nel suo Asino d’oro (VIII, passim). 27 «Nota hic esse parentesim» (M.). 28 coraggiosi: VIII 7,54 n. 29 ti manda a dire: IV 2,23 n. 20 Letteratura italiana Einaudi 1216 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX ora è venuto il tempo che tu puoi avere il suo amore, il qual tu hai cotanto disiderato, ed esser con lei, dove tu vogli, in questa forma. A lei dee, per alcuna cagione che tu poi saprai, questa notte essere da un suo parente recato a casa il corpo di Scannadio che stamane fu sepellito, ed ella, sì come quel la che ha di lui, così morto come 14 egli è, paura, nol vi vorrebbe. Per che ella ti priega in luogo di gran servigio30, che ti debbia piacere d’andare stasera in su il primo sonno31 ed entrare in quella sepoltura dove Scannadio è sepellito, e metterti i suoi panni in dosso, e stare come se tu desso fossi, infino a tanto che per te sia venuto32, e senza alcuna cosa dire o motto fare33, di quella trarre ti lasci e recare a casa sua, dove ella ti riceverà, e con lei poi ti starai, e a tua posta ti potrai partire, lasciando del rimanente il pensiero a lei’. E, se 15 egli dice di volerlo fare, bene sta; dove dicesse di non volerlo fare sì gli di’ a mia parte che più dove io sia non 16 apparisca, e come egli ha cara la vita, si guardi che più né messo né ambasciata mi mandi. E appresso questo te n’andrai a Rinuccio Palermini, e sì gli dirai: «Madonna Francesca dice che è presta di volere ogni tuo piacer fare, dove tu a lei facci un gran servigio, cioè che tu stanotte in su la mezza notte te ne vadi allo avello dove fu stamane sotterrato Scannadio, e lui, senza dire alcuna parola di cosa che tu oda o senta34, tragghi di quello soa13 30 quale gran servizio, per gran servizio: II 1,5; V 7,52. all’ora in cui la gente comincia a dormire (con valore generico): V 3,43 n.; e qui più sotto, 19. 32 che alcuno venga a cercarti, a prenderti: costruzione alla latina (s i a v e n u t o impersonale = ventum sit). 33 Cioè fare un rumore qualsiasi colla bocca: cfr. IV 5,6 n. 34 «O d a si riferisce a parole che gli potessero esser dette, s e n t a si riferisce ad altre paure o noie che gli venisser fatte» (Fornaciari). 31 Letteratura italiana Einaudi 1217 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 17 18 19 20 21 vemente35 e rechigliele a casa. Quivi perché ella il voglia36 vedrai, e di lei avrai il piacer tuo; e dove questo non ti piaccia di fare ella infino ad ora37 t’impone che tu mai più non le mandi né messo né ambasciata». La fante n’andò ad amenduni, e ordinatamente a ciascuno, secondo che imposto le fu, disse. Alla quale risposto fu da ognuno, che non che in una sepoltura, ma in inferno andrebber, quando le piacesse. La fante fe’ a risposta alla donna, la quale aspettò di vedere se sì fosser pazzi che essi il facessero. Venuta adunque la notte, essendo già primo sonno38, Alessandro Chiarmontesi spogliatosi in farsetto39, uscì di casa sua per andare a stare in luogo di Scannadio nello avello, e andando gli venne un pensier molto pauroso nell’animo, e cominciò a dir seco: «Deh, che bestia sono io? Dove vo io? che so io se i parenti di costei, forse avvedutisi che io l’amo, credendo essi quel che non è, le fanno far questo per uccidermi in quello avello? Il che se avvenisse, io m’avrei il danno, né mai cosa del mondo se ne saprebbe che lor nocesse. che so io se forse alcun mio nimico que sto m’ha procacciato, il quale ella forse amando, di questo il vuol servire40?» E poi dicea: «Ma 35 pian piano, delicatamente: VI 2,28 n. Per la desinenza -i nella II sing. del congiuntivo presente della II e III coniugazione cfr. Intr., 81 n. 36 lo voglia: la forma e l, per il pronome, è corrente. 37 sin da ora: cfr. III 5,22 n. 38 l’ora del primo sonno: cfr. 14 n. 39 Cioè tenendo solo il farsetto (II 4,15 n.) per esser più sciolto e più comodo (II 5,37 n.). 40 di questo (cioè d’uccidermi) vuole compiacerlo, rendergli servizio: X 9,4 n. Letteratura italiana Einaudi 1218 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 22 23 24 25 pognam che niuna di queste cose sia, e che pure i suoi parenti a casa di lei portar mi debbano io debbo credere che essi il corpo di Scannadio non vogliono per doverlosi tenere in braccio, o metterlo in braccio a lei; anzi si dee credere che essi ne voglian far qualche strazio, sì come di colui che forse già d’alcuna cosa gli diservì41. Costei dice che di cosa che io senta io non faccia motto: o se essi mi cacciasser gli occhi o mi traessero i denti o mozzasermi le mani o facessermi alcuno altro così fatto giuoco42, a che sare’ io? Come potre’ io star cheto? E se io favello, e’ mi conosceranno e per avventura mi faranno male; ma come che essi non me ne facciano, io non avrò fatto nulla, ché essi non mi lasceranno con la donna; e la donna dirà poi che io abbia rotto il suo comandamento e non farà mai cosa che mi piaccia43». E così dicendo, fu tutto che tornato a casa44; ma pure il grande amore il sospinse innanzi con argomenti contrari a questi e di tanta forza, che allo avello il condussero. Il quale egli aperse, ed entratovi dentro e spogliato Scannadio e sé rivestito e l’avello sopra sé richiuso e nel luogo di Scannadio postosi, gl’incominciò a tornare a mente chi costui era stato, e le cose che già aveva udite45 41 li servì male, li offese, fece loro cosa sgradita: Fiammetta, VI 3,5: «credendomi servire diservita m’avete»; Tristano Riccardiano cit., p. 70: «di che Tristano t’ae diservito?»; Morelli, Ricordi, p. 254. 42 Cioè un «mal giuoco», come dice altrove il B.: VII 8,26 n. e VIII 8,25. 43 Finale sconsolato su due endecasillabi di seguito. 44 fu quasi per tornare a casa, fu sul punto di tornare a casa: come più sotto, 27: «tutto che rattenuto fu»; e cfr. Sacchetti, CLXXVIII: «percosse in una pietra per forma che tutto fu che caduto in terra». 45 Proposizione con attrazione e anticipazione: cfr. Mussafia, p. 451. Letteratura italiana Einaudi 1219 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 26 27 28 29 dire che di notte erano intervenute, non che nelle sepolture de’ morti, ma ancora altrove; e tutti i peli gli s’incominciarono ad arricciare ad dosso46, e parevagli tratto tratto47 che Scannadio si dovesse levar ritto e quivi scannar lui. Ma da fervente amore aiutato, questi e gli altri paurosi pensier vincendo, stando come se egli il morto fosse, cominciò ad aspettare che di lui dovesse intervenire48. Rinuccio, appressandosi la mezza notte, uscì di casa sua per far quello che dalla sua donna gli era stato mandato a dire; e andando, in molti e vari pensieri entrò delle cose possibili ad intervenirgli; sì come di poter col corpo sopra le spalle di Scannadio venire alle mani della signoria ed esser come malioso49 condennato al fuoco; o di dovere, se egli si risapesse, venire in odio de’ suoi parenti; e d’altri simili50, da’ quali tutto che rattenuto fu51. Ma poi, rivolto52, disse: «Deh! dirò io di no della prima cosa che questa gentil donna, la quale io ho cotanto amata e amo, m’ha richiesto, e spezialmente dovendone la sua grazia acquistare? Non, ne dovess’io di certo morire, che io non me ne metta a fare ciò che promesso l’ho53»; e andato avanti giunse alla sepoltura e quella leggermente54 aperse. 46 Come a maestro Simone (VIII 9,94). di momento in momento, di quando in quando. 48 che cosa dovesse avvenirgli. 49 stregone, operatore di malie: Corbaccio, 236: «gli astrologhi, le nigromanti, le femmine maliose». 50 e d’altri simili casi con facile sillesi e dipendendo sempre dal precedente p e n s i e r i o s ì c o m e. 51 fu quasi trattenuto: cfr. 24. Ripetendosi la situazione sono ripetuti i modi lessicali e sintattici. 52 mutato pensiero o proposito: cfr. IV 2,40 n. 53 Non sia mai, anche se ne dovessi morire, che io non mi metta a fare ciò che le ho promesso. 54 facilmente. 47 Letteratura italiana Einaudi 1220 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX Alessandro, sentendola aprire, ancora che gran paura avesse, stette pur cheto. Rinuccio, entrato dentro, credendosi il corpo di Scannadio prendere, prese Alessandro pe’ piedi e lui fuor ne tirò, e in su le spalle levatoselo, verso la casa della gentil donna cominciò ad andare; e così andando e non riguardandolo altramenti55, spesse volte il percoteva ora in un canto e ora in un altro d’alcune panche che allato alla via erano; e la notte era sì buia e sì oscura che egli non poteva discernere ove 30 s’andava. E essendo già Rinuccio a piè dell’uscio della gentil donna, la quale alle finestre con la sua fante stava per sentire se Rinuccio Alessandro recasse, già da sé armata in modo da56 mandargli amenduni via, avvenne che la famiglia della signoria57, in quella contrada ripostasi58 e chetamente standosi aspettando di dover pigliare uno sbandito59, sentendo lo scalpiccio che Rinuccio coi piè faceva, subitamente tratto fuori un lume per veder che si fare e dove andarsi, e mossi i pavesi60 e le lance, gridò: 31 «Chi è là?». La quale Rinuccio conoscendo, non avendo tempo da troppa lunga diliberazione, lasciatosi cadere Alessandro, quanto le gambe nel poteron portare andò via. Alessandro, levatosi prestamente, con tutto che i panni del morto avesse in dosso, li quali erano molto lunghi, pure andò via altressì. 55 non usandogli riguardo alcuno: I 1,15 n. già per proprio conto pronta, preparata a: Par., XXIV 46: «Sì come il baccialier s’arma e non parla». 57 la polizia, le guardie: IV 6,31 e 32 n. 58 postasi in agguato: V 5,15 n. 59 un bandito, cacciato dalla città. 60 imbracciati gli scudi (erano di forma rettangolare). G. Villani, XII 21; Sacchetti, LXIII. 56 Letteratura italiana Einaudi 1221 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 32 33 34 35 La donna, per lo lume tratto fuori dalla famiglia, ottimamente veduto aveva Rinuccio con Alessandro dietro alle spalle, e similmente aveva scorto61 Alessandro esser vestito dei panni di Scannadio, e maravigliossi molto del grande ardire di ciascuno; ma con tutta la maraviglia62 rise assai del veder gittar giuso Alessandro, e del vedergli poscia fuggire. Ed essendo di tale accidente molto lieta e lodando Iddio che dallo ‘mpaccio di costoro tolta l’avea, se ne tornò dentro e andossene in camera, affermando con la fante senza alcun dubbio ciascun di costoro amarla molto, poscia quello avevan fatto, sì come appariva, che63 ella loro aveva imposto. Rinuccio, dolente e bestemmiando la sua sventura, non se ne tornò a casa per tutto questo, ma, partita di quella contrada la famiglia, colà tornò dove Alessandro aveva gittato, e cominciò brancolone64 a cercare se egli il ritrovasse, per fornire65 il suo servigio, ma non trovandolo, e avvisando la famiglia quindi averlo tolto, dolente a casa se ne tornò. Alessandro, non sappiendo altro che farsi66, senza aver conosciuto chi portato se l’avesse, dolente di tale sciagura, similmente a casa sua se n’andò. La mattina, trovata aperta la sepoltura di Scannadio né dentro vedendovisi67, perciò che nel fondo l’aveva Alessandro voltato68, tutta Pistoia ne fu in vari ragiona- 61 «V e d u t o ... s c o r t o: gradazione di verbi che ha la sua ragione nella varia difficoltà delle due percezioni: l’una di cose più palesi, l’altra di più oscure» (Fornaciari). 62 malgrado la grande meraviglia, benché molto meravigliata: cfr. Intr., 22 n. 63 poscia, poi ... che avevan fatto quello ... che. 64 brancolando. Avverbio rifatto su «carpone, ginocchione, tastone» e altri simili in -one. 65 portare a compimento. 66 Per questa serie verbale fissa cfr. II 2,15 n. 67 Cioè: non vedendovi dentro lo Scannadio. Letteratura italiana Einaudi 1222 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 36 menti, estimando gli sciocchi lui da’ diavoli essere stato portato via. Nondimeno ciascun de’ due amanti, significato alla donna ciò che fatto avea e quello che era intervenuto, e con questo scusandosi se fornito non avean pienamente il suo comandamento, la sua grazia e il suo amore addimandava. La qual mostrando a niun ciò voler credere, con recisa risposta69 di mai per lor niente voler fare, poi che essi ciò che essa ad dimandato avea non avean fatto, se gli tolse da dosso. - 68 69 spinto, facendolo girare, rotolare: Inf., VII 27; Purg., V 128. con secca risposta, da tagliare ogni possibilità di replica. Letteratura italiana Einaudi 1223 NOVELLA SECONDA 1 Levasi una badessa in fretta e al buio per trovare una sua monaca, a lei accusata, col suo amante nel letto; e essendo con lei un prete, credendosi il saltero de’ veli1 aver posto in capo, le brache del prete vi si pose; le quali vedendo l’accusata e fattalane accorgere, fu diliberata2, e ebbe agio di starsi col suo amante3. 2 Già si tacea Filomena, e il senno della donna a torsi da dosso coloro li quali amar non volea da tutti era stato commendato, e così in contrario non amor ma pazzia era stata tenuta da tutti l’ardita presunzione degli amanti, quando la reina ad Elissa vezzosamente disse: - Elissa, segui; la quale prestamente incominciò: 1 Termine tecnico (cfr. 9): indicava il complesso dei veli che, disposti sul capo, avevano la forma triangolare dello strumento musicale chiamato salterio. La Fontaine lo usò come titolo della sua imitazione (Contes et Nouvelles, IV 7 «Le Psautier»). 2 liberata dall’accusa e dalla pena conseguente: cfr. 3; IX 3,26 n. E per i passati remoti che sostituiscono nella seconda parte del sommario i soliti presenti cfr. III 9,1 n. 3 Antecedenti interessanti di questa novella – riassunta dal Pulci nel Morgante (XVI 59) – sono stati indicati nella letteratura di devozione dei secoli precedenti: per es. nella Legenda Aurea (146) e più tardi nella Vita di San Girolamo del Cavalca. Poco prima che il B. scrivesse il D., storie simili erano state narrate in Francia nel Dit de la nonnete e nel Des braies au cordelier (Recueil général cit., VI, app. III, III 88; BÉDIER, p. 466) e nel Renard le Contrefait (III b.; Histoire Littéraire de la France cit., XXIII, p. 83; e cfr. Recueil de farces, moralités ecc., Paris 1837, II, c. 14). Il tema dovette presto divenir popolare se, come nota il Manni, è antico modo di dire «Madonna annodatevi la cuffia»: ma va ricordata soprattutto la popolarità del motivo delle «brache del prete» nella letteratura medievale (CURTIUS, op. cit., pp. 152, 534 sgg.). E cfr. Thompson e Rotunda, K 1273, 1526. Letteratura italiana Einaudi 1224 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 3 4 5 – Carissime donne, saviamente si seppe madonna Francesca, come detto è, liberar dalla noia sua; ma una giovane monaca, aiutandola la fortuna, sé da un soprastante pericolo, leggiadramente parlando, diliberò. E, come voi sapete, assai sono li quali, essendo stoltissimi, maestri degli altri si fanno e gastigatori4, li quali, sì come voi potrete com prendere per la mia novella, la fortuna alcuna volta e meritamente vitupera5; e ciò addivenne alla badessa, sotto la cui obedienza6 era la monaca della quale debbo dire. Sapere adunque dovete in Lombardia essere un famosissimo monistero di santità e di religione7, nel quale, tra l’altre donne monache8 che v’erano, v’era una giovane di sangue nobile e di maravigliosa bellezza dotata, la quale, Isabetta chiamata, essendo un dì a un suo parente alla grata venuta, d’un bel giovane che con lui era s’innamorò. Ed esso, lei veggendo bellissima, già il suo disidero avendo con gli occhi concetto9, similmente di lei s’accese; e non senza gran pena di ciascuno questo amore un gran tempo senza frutto10 sostennero. 4 si mettono a far da maestri e riprensori degli altri: II 4,11 n.; I 1,45 n. 5 infama, svergogna: VIII 9,112 n. È il tema svolto anche da varie altre novelle del D., : per es. I 4 e 6, V 10, VI 3, VIII 4 ecc. 6 Termine proprio del linguaggio canonico a indicare l’autorità del superiore ecclesiastico: Intr., 62 «rotte della obedienza le leggi». 7 Formula usata in questi casi con minime varianti (I 4,4; III 1,6 ecc.). 8 Il solito sostantivo di stato o di condizione con d o n n a: cfr. IV intr., 12 n. 9 compreso: participio alla latina già usato in senso un po’ diverso ma con analoga sfumatura amorosa nel Proemio, 3 n.; e anche I 5,16. 10 Nel senso tecnico del linguaggio lirico e amoroso del tempo: cfr. V. BRANCA, B. medievale, pp. 224 sgg.; e VII 7,25 n. Letteratura italiana Einaudi 1225 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 6 7 8 Ultimamente, essendone ciascun sollicito, venne al giovane veduta una via da potere alla sua monaca occultissimamente andare; di che ella contentandosi11, non una volta ma molte, con gran piacer di ciascuno, la visitò12. Ma continuandosi questo, avvenne una notte che egli da una delle donne13 di là entro fu veduto, senza avvedersene egli o ella, dall’Isabetta partirsi e andarsene. Il che costei con alquante altre comunicò14. E prima ebber consiglio d’accusarla alla badessa, la quale madonna Usimbalda15 ebbe nome, buona e santa donna secondo la oppinione delle donne monache e di chiunque la conoscea; poi pensarono, acciò che la negazione non avesse luogo16, di volerla far cogliere col giovane alla badessa; e così taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie segretamente partirono17 per incoglier18 costei. Or, non guardandosi l’Isabetta da questo, né alcuna cosa sappiendone, avvenne che ella una notte vel19 fece venire; il che tantosto20 sepper quelle che a ciò badava- 11 essendo contenta, felice. Soggetto è il giovane. 13 Cioè: monache, cfr. VIII 3,27 n. 14 mise in comune (VIII 8,34 n.), cioè manifestò ad alquante altre. 15 «Nome di buona panichina» (M.): forse forgiato su u s u l i e r i (14)? Ma c’era una famiglia Usimbardi (DAVIDSOHN, Storia di Firenze, II, p. 341). 16 non fosse possibile negare: I 5,16: «forza non v’avea luogo»: e cfr. qui più avanti, 16. 17 divisero. Comincia quel linguaggio soldatesco col quale in tutta questa pagina il B. caricatureggia l’affaccendarsi di quelle zelanti. 18 cogliere di sorpresa, sorprendere sul fatto: Livio volg., 8,18 (C.): «tantosto le potrebbono incogliere». «Ahi invidiose malvage» (M.). 19 L’amante, facilmente sottinteso dopo tutto il periodo precedente. 20 subito, in tutta fretta: II 3,32 n. 12 Letteratura italiana Einaudi 1226 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX no. Le quali, quando a loro parve tempo, essendo già buona pezza di notte21, in due si divisero, e una parte se ne mise a guardia del l’uscio della cella dell’Isabetta, e un’altra n’andò correndo alla camera della badessa; e picchiando l’uscio, a lei che già rispondeva, dissero: «Su, madonna, levatevi tosto, ché noi abbiam trovato che l’Isabetta ha un giovane nella cella22» Era quella notte la badessa accompagnata d’un pre9 te, il quale ella spesse volte in una cassa si faceva venire23. La quale, udendo questo, temendo non forse le monache per troppa fretta o troppo volonterose, tanto l’uscio sospignessero che egli s’aprisse, spacciatamente24 si levò suso, e come il meglio seppe si vestì al buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in capo portano e 10 chiamanli il saltero, le venner tolte25 le brache del prete; e tanta fu la fretta, che, senza avvedersene, in luogo del saltero le si gittò in capo e uscì fuori, e prestamente l’uscio si riserrò dietro, dicendo: «Dove è questa mala11 detta da Dio?» E con l’altre, che sì focose e sì attente erano a dover far trovare in fallo l’Isabetta, che di cosa che la badessa in capo avesse non s’avvedieno, giunse all’uscio della cella, e quello, dall’altre aiutata, pinse in terra: e entrate dentro, nel letto trovarono i due amanti abbracciati. Li quali, da così subito sopraprendimento26 storditi, non sappiendo che farsi, stettero fermi. La gio- 21 essendo notte avanzata, essendo trascorso già un buon tratto della notte: II 3,24 n. 22 «Scacco all’Isabetta» (M.). 23 Artificio classico e accennato anche in altre novelle del B. (per es. II 9,25 sgg.). 24 in fretta e furia: Buti, comm. a Purg., XV 2: «fanno la cosa spacciatamente»: cfr. II 5,65 n. 25 le capitò di prendere. 26 sorpresa: II 2,16 n. Letteratura italiana Einaudi 1227 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 12 13 14 15 16 vane fu incontanente dall’altre monache presa, e per comandamento della badessa menata in capitolo. Il giovane s’era rimaso; e vestitosi, aspettava di veder che fine la cosa avesse, con intenzione di fare un mal giuoco 27 a quante giugner ne potesse, se alla sua giovane novità niuna28 fosse fatta, e di lei menarne con seco. La badessa, postasi a sedere in capitolo, in presenzia di tutte le monache, le quali solamente alla colpevole riguardavano, incominciò a dirle la maggior villania che mai a femina fosse detta29, sì come a colei la quale la santità, l’onestà e la buona fama del monistero con le sue sconce e vituperevoli opere, se di fuor si sapesse, contaminate avea; e dietro alla villania aggiugneva gravissime minacce. La giovane, vergognosa e timida, sì come colpevole, non sapeva che si rispondere, ma tacendo, di sé metteva compassion nell’altre; e, multiplicando30 pur la badessa in novelle31, venne alla giovane alzato il viso e veduto ciò che la badessa aveva in capo, e gli usulieri32 che di qua e di là pendevano. Di che ella, avvisando33 ciò che era, tutta rassicurata disse: «Madonna, se Iddio v’aiuti, annodatevi la cuffia, e poscia mi dite ciò che voi volete». La badessa, che non la intendeva, disse: «Che cuffia, rea femina? ora hai tu viso34 di motteggiare? parti egli aver fatta cosa che i motti ci abbian luogo35?» 27 Solita espressione minacciosa: VII 5,37 n. Cioè: alcun male. Anche questa è frase solita in situazioni simili: VII 7,43; VII 8,19 n. 30 diffondendosi o forse tempestando, imperversando (II 1,19 n.). 31 chiacchiere, ciance. 32 legacci coi quali si fermavano le brache alle calzature (uose). 33 pensando, avvedendosi, immaginando: VI concl., 47 n. 34 hai tu coraggio, si direbbe oggi, hai tu tanta faccia (Fanfani). 35 Cioè: che sia il caso di far dello spirito. 28 29 Letteratura italiana Einaudi 1228 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX Allora la giovane un’altra volta disse: «Madonna, io vi priego che voi v’annodiate la cuffia, poi dite a me ciò che vi piace»; laonde molte delle monache levarono il viso al capo della badessa, ed ella similmente ponendovisi le mani, s’accorsero perché l’Isabetta così diceva. 18 Di che36 la badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo e vedendo che da tutte veduto era né aveva ricoperta37, mutò sermone, e in tutta altra guisa che fatto non avea cominciò a parlare, e conchiudendo venne impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere; e per ciò chetamente, come infino a quel dì fatto s’era, disse che ciascuna si desse buon tempo quando potesse; e liberata la giovane, col suo prete si tornò a dormire, e 19 l’Isabetta col suo amante38. Il qual poi molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fé venire; l’altre che senza amante erano, come seppero il meglio, segretamente procacciaron lor ventura39. 17 36 Per la qual cosa. né v’era maniera di coprire, di nascondere la cosa: I 5,17: «il presto partirsi ricoprisse la sua disonesta venuta»; IX 7,27 n.; Sacchetti, CCVII: «per ricoprire il difetto». 38 «Lima, lima, invidiose» (M.). 39 Solita espressione: II 9,6 n.; VIII 2,16 n. 37 Letteratura italiana Einaudi 1229 NOVELLA TERZA 1 Maestro Simone, a instanzia di Bruno e di Buffalmacco e di Nello, fa credere a Calandrino che egli è pregno; il quale per medicine dà a’ predetti capponi e denari, e guarisce senza partorire1. 2 Poi che Elissa ebbe la sua novella finita, essendo da tutte rendute grazie a Dio che la giovane monaca aveva con lieta uscita2 tratta dei morsi delle invidiose compa- 1 La burla - narrata naturalmente come storica dal Baldinucci (Notizie cit., I, p. 154) e dal Manni - ha tutto il carattere municipale delle altre beffe ordite dagli stessi protagonisti (VIII 3, 6, 9; IX 5: e cfr. le note alle novelle citate per notizie su ciascuno di essi). Ma il tema della gravidanza d’un uomo è antichissimo, risalendo alle credenze più radicate fin dalle civiltà primitive (cfr. per es. TYLER, Primitive culture, London 1891, passim; ROHDE, Der griechische Roman cit., pp. 264 sgg.); che si riflettono poi in diffusissimi motivi popolari (Aarne, 1737; Thompson, J 2317, 2321, 2321.1, T 578 sgg.; Rotunda, J 2321). Da queste fonti mitiche e culturali discendono probabilmente nella letteratura classica e romanza racconti o scene che, in tono assolutamente diverso, anticipano in qualche modo elementi di questa novella: per es. in Strabone (III 4) e in qualche autore greco (ROHDE, pp. 265 sgg.); in Aucassin et Nicolette (ed. Roques, Paris 1936, XXIX), in un favolello attribuito a Maria di Francia Du vilain et de l’escarbot (e cfr. anche Du mire qui seina uns home: Poésies, ed. Roquefort, Paris 1820, II, pp. 203 e 195), in un racconto di Rabbi Beranchja (Landau, p. 153), nella Legenda aurea (89, a proposito di Nerone), nel Libro di novelle antiche (ed. cit., n. 38), in alcuni dei più antichi racconti raccolti dall’Hagen (Gesammtabenteuer, XXIV e II, pp. 491 sgg.), in exempla di predicatori (per es. Giordano da Pisa, Prediche, Firenze 1739, p. 200: cfr. C. DELCORNO, Giordano da Pisa, Firenze 1975, pp. 70 sg.). Ma la novella del B. è, come abbiamo accennato, tutt’altra cosa. 2 con felice esito, successo: cfr. G. Villani (T.) «aver sì fatta uscita». «Felicemente sottraendonela» (Marti). Letteratura italiana Einaudi 1230 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 3 4 5 gne, la reina a Filostrato comandò che seguitasse; il quale, senza più comandamento aspettare, incominciò: – Bellissime donne, lo scostumato3 giudice marchigiano, di cui ieri vi novellai, mi trasse di bocca una novella di Calandrino, la quale io era per dirvi. E per ciò che ciò che di lui si ragiona non può altro che multiplicare la festa4, benché di lui e de’ suoi compagni assai ragionato si sia, ancor pur quella che ieri aveva in animo vi dirò. Mostrato è di sopra assai chiaro chi Calandrin fosse e gli altri de’ quali in questa novella ragionar debbo; e per ciò, senza più dirne, dico5 che egli avvenne che una zia di Calandrin si morì e lasciogli dugento lire di piccioli contanti6: per la qual cosa Calandrino cominciò a dire che egli voleva comperare un podere; e con quanti sensali aveva in Firenze, come se da spendere avesse avuti diecimila fiorin d’oro7, teneva mercato8, il quale sempre si guastava quando al prezzo del poder domandato si perveniva. Bruno e Buffalmacco, che queste cose sapevano, gli avevan più volte detto che egli farebbe il meglio a goderglisi con loro insieme, che andar comperando terra, come se egli avesse avuto a far pallottole9; ma, 3 rozzo, maleducato: vedi la definizione riferita a V 1,4 n.; e cfr. I 8,10. 4 accrescere la giocondità, aumentare l’allegria: V 8,8 n. 5 Inizio di novella molto simile a quello della VIII 6. 6 L a l i r a d i p i c c i o l i valeva 240 danari o piccioli (cfr. II 5,60 n. e 1,55 n.): aveva assai minor valore della «lira di grossi» (il grosso valeva cinque soldi: VIII 3,39 n.). 7 Una somma enorme: cfr. II 1,21 n. 8 si metteva a contrattare: cfr. II 5,3 n. 9 Probabile gioco ironico fra senso proprio e figurato: con duecento lire Calandrino poteva comprar tanta terra da farne al più pallottole per balestra, non certo un podere da coltivare; non poteva cioè concluder nulla (secondo l’uso figurato della frase). Letteratura italiana Einaudi 1231 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 6 7 8 9 non che a questo, essi non l’aveano mai potuto conducere10 che egli loro una volta desse mangiare. Per che un dì dolendosene, ed essendo a ciò sopravenuto un lor compagno, che aveva nome Nello, dipintore11, di liberar tutti e tre di dover trovar modo da ugnersi il grifo12 alle spese di Calandrino; e senza troppo indugio darvi, avendo tra sé ordinato quello che a fare avessero, la seguente mattina appostato quando Calandrino di casa uscisse, non essendo egli guari andato13, gli si fece incontro Nello e disse: «Buon dì, Calandrino». Calandrino gli rispose che Iddio gli desse il buon dì e ’l buono anno14. Appresso questo Nello, rattenutosi un poco15, lo n’cominciò a guardar nel viso: a cui Calandrino disse:«Che guati tu?» E Nello disse a lui: «Haiti tu sentita sta notte cosa niuna? Tu non mi par desso16». Calandrino incontanente incominciò a dubitare 17 e disse: «Ohimè, come! Che ti pare egli che io abbia?» 10 persuadere, indurre: IV 2,51 n. Nello di Dino o Bandino, del popolo di San Cristofano, figurava sotto il 1306, a quanto scrive il Manni, nel Libro della Compagnia de’ Pittori posseduto dal Manni stesso e ora perduto. Appare quale testimone in un contratto di vendita di un terreno sito in Legri, rogato il 14 settembre 1306 da Ser Uguccione di Ranieri Bondoni («presentibus testibus Michele Compagni et Nello Bandini pictore»: Archivio di Firenze, B 2127, c. 27). Era parente della moglie di Calandrino (IX 5,19), compagno intimo e assiduo di Bruno e Buffalmacco, e forse anch’egli discepolo del Tafi. Di lui narrò diffusamente il Baldinucci (Notizie, I, pp. 195 sgg.). 12 fare una mangiata, fare baldoria: Sacchetti, CII: «n’abbiate il danno, che voi non ve ne ugneste il grifo»; e cfr. IX 5,37: «tu te la griferai: e’ mi par pur vederti morderle ...» 13 non avendo egli fatto ancora molta strada. 14 Modo consueto di saluto e di augurio: III 8,4; VIII 2,29 n. 15 trattenutosi, indugiatosi un po’ [con Calandrino]. 16 Tu non mi sembri tu stesso, cioè sei diverso dal solito: con valore facilmente disceso da quello più consueto (II 5,10 n.). 17 temere: Intr., 55 n. 11 Letteratura italiana Einaudi 1232 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 10 11 12 13 14 15 Disse Nello: «Deh! io nol dico per ciò; ma tu mi pari tutto cambiato; fia forse altro18»; e lasciollo andare. Calandrino tutto sospettoso, non sentendosi per ciò19 cosa del mondo, andò avanti. Ma Buffalmacco, che guari non era lontano, vedendol partito da Nello, gli si fece incontro, salutatolo il domandò se egli si sentisse niente. Calandrino rispose: «Io non so, pur testé mi diceva Nello che io gli pareva tutto cambiato; potrebbe egli essere che io avessi nulla?» Disse Buffalmacco: «Sì, potrestù aver cavelle20, non che nulla: tu par mezzo morto». A Calandrino pareva già aver la febbre. Ed ecco Bruno sopravvenne, e prima che altro dicesse, disse: «Calandrino, che viso è quello? E’ par che tu sia morto: che ti senti tu?» Calandrino, udendo ciascun di costor così dire, per certissimo ebbe seco medesimo d’esser malato; e tutto sgomentato gli domandò: «Che fo?» Disse Bruno: «A me pare che tu te ne torni a casa a vaditene in su ’l letto e facciti ben coprire, e che tu mandi il segnal21 tuo al maestro Simone, che è così nostra cosa22 come tu sai. Egli ti dirà incontanente ciò che tu avrai 18 sarà forse diversamente, non sarà nulla: cioè sarà solo una mia impressione. 19 però, avversativo: Intr., 78 n. 20 qualcosa, un nonnulla o un nulla: tutta la frase ha quel tono equivoco, fatto apposta per imbrogliar Calandrino, già usato altra volta con lui da questi burloni (VIII 3,17 n.). 21 sintomo, cioè l’urina il cui esame costituiva uno dei mezzi diagnostici più usati: cfr. II 8,42 n.; VIII 9,34 n. Letteratura italiana Einaudi 1233 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 16 17 18 19 20 a fare, e noi ne verrem teco, e se bisognerà far cosa niuna, noi la faremo». E con loro aggiuntosi Nello, con Calandrino se ne tornarono a casa sua, ed egli entratosene tutto affaticato nella camera, disse alla moglie: «Vieni e cuoprimi bene, ché io mi sento un gran male». Essendo adunque a giacer posto, il suo segnale per una fanticella mandò al maestro Simone, il quale allora a bottega stava in Mercato Vecchio alla ’nsegna del mellone23; e Bruno disse a’ compagni: «Voi vi rimarrete qui con lui, e io voglio andare a sapere che il medico dirà; e, se bisogno sarà, a menarloci24». Calandrino allora disse: «Deh! sì, compagno mio, vavvi e sappimi ridire come il fatto sta, ché io mi sento non so che25 dentro». Bruno, andatosene al maestro Simone, vi fu prima che la fanticella che il segno portava, ed ebbe informato maestro Simone del fatto. Per che, venuta la fanticella e26 il maestro veduto il segno, disse alla fanticella: «Vattene, e di’ a Calandrino che egli si tenga ben caldo, e io verrò a lui incontanente e dirogli ciò che egli ha, e ciò che egli avrà a fare». La fanticella così rapportò: né stette guari che il maestro e Brun vennero, e postoglisi il medico a sedere 22 nostro intimo amico: cfr. VIII 9; e per l’espressione IX 10,12 n. Cfr. VIII 9,5 n. e per l’equivoco su m e l l o n e anche 64 n. 24 a condurlo qui. 25 È uno dei primi esempi dell’espressione: cfr. G. NATALI, Ancora del «non so che», in «Lingua Nostra», XIX, 1958. 26 ecco che: la solita congiunzione in ripresa. 23 Letteratura italiana Einaudi 1234 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 21 22 23 24 allato, gli n’cominciò a toccare il polso27, e dopo alquanto, essendo ivi presente la moglie, disse: «Vedi, Calandrino, a parlarti come ad amico, tu non hai altro male se non che tu se’ pregno». Come Calandrino udì questo, dolorosamente cominciò a gridare e a dire: «Ohimè! Tessa, questo m’hai fatto tu, che non vuogli stare altro che di sopra28: io il ti diceva bene!» La donna, che assai onesta persona era, udendo così dire al marito, tutta di vergogna arrossò29, e abbassata la fronte, senza risponder parola s’uscì della camera. Calandrino, continuando il suo ramarichio30, diceva: «Ohimè, tristo me! Come farò io? Come partorirò io questo figliuolo? Onde uscirà egli? Ben veggo che io son morto per la rabbia31 di questa mia moglie, che tanto la faccia Iddio trista quanto io voglio esser lieto; ma, così foss’io sano come io non sono, ché io mi leverei e dare’ le tante busse, che io la romperei32 tutta, avvegna che egli mi stea molto bene, ché io non la doveva mai lasciar salir di sopra; ma per certo, se io scampo di questa, ella se ne potrà ben prima morir di voglia». 27 Un altro dei mezzi diagnostici classici fin dall’antichità: II 8,44 sgg. 28 Un motivo ricorrente nelle narrazioni citate (per es. nelle pubblicate dall’Hagen e nella 35 del Grand Parangon de nouvelles nouvelles, Paris 1869) cui forse alludevano anche i precedenti c o p r i r e (15,16): e cfr. IX 5,57 sgg. 29 Per la forma cfr. I 10,7 n. e II concl., 3 n. 30 lamento: «con alcunché di querulo e femminile nella parola» (Petronio): III 6,42: «le parole furono assai e il ramarichio della donna grande». 31 libidine disordinata, foia: Francesco da Barberino, Documenti d’amore, Roma 1905-27, I 9: «nec dicendus est amor, sed in communem usum proborum devenit quod rabies appellatur» (e cfr. Lucrezio, IV 1110): cfr. anche II 5,48 n. 32 pesterei: VIII 4,29 n. Letteratura italiana Einaudi 1235 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 25 26 27 28 Bruno e Buffalmacco e Nello avevan sì gran voglia di ridere che scoppiavano, udendo le parole di Calandrino, ma pur se ne tenevano; ma il maestro Scimmione33 rideva sì squaccheratamente34, che tutti i denti gli si sarebber potuti trarre. Ma pure al lungo andare, raccomandandosi Calandrino al medico e pregandolo che in questo gli dovesse dar consiglio e aiuto, gli disse il maestro: «Calandrino, io non voglio che tu ti sgomenti, ché, lodato sia Iddio, noi ci siamo sì tosto accorti del fatto, che con poca fatica e in pochi dì ti dilibererò35; ma conviensi un poco spendere». Disse Calandrino: «Ohimè! maestro mio, sì per l’amor di Dio. Io ho qui dugento lire di che io voleva comperare un podere; se tutti bisognano36, tutti gli togliete, purché io non abbia a partorire, ché io non so come io mi facessi, ché io odo fare alle femine un sì gran romore quando son per partorire, con tutto che elle abbian buon cotal grande37 donde farlo, che io credo, se io avessi quel dolore, che io mi morrei prima che io partorissi». Disse il medico: «Non aver pensiero. Io ti farò fare una certa bevanda stillata molto buona e molto piacevole a bere, che in tre mattine risolverà ogni cosa, e rimarrai più sano che pesce; ma farai che tu sii poscia38 savio e 33 Storpiatura beffarda del nome del maestro: «ad essa contribuisce la pronuncia bolognese di -s- come -sc-» (Marti). 34 sgangheratamente, spruzzando saliva: ma con senso evidentemente più volgare ed equivoco: VIII 9,76 n. E per la frase seguente cfr. VI intr., 11. 35 libererò dal male: III 7,19; IX 2,1 n. 36 Poiché le l i r e sono d a n a r i si usa il maschile; ed è del resto sillessi dell’uso, corrente in questi casi. 37 un tale coso, cioè un organo, assai ampio: espressione tradizionale nel gergo sessuale. 38 Cioè: ma starai attento d’ora in poi ad esser ... Letteratura italiana Einaudi 1236 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 29 30 31 32 33 più non incappi in queste sciocchezze. Ora ci bisogna per quella acqua tre paia di buon capponi e grossi, e per altre cose che bisognano darai ad un di costoro cinque lire di piccioli, che le comperi, e fara’ mi ogni cosa recare alla bottega39, e io al nome di Dio domattina ti manderò di quel beveraggio stillato, e comincera’ ne a bere un buon bicchiere grande per volta. Calandrino, udito questo, disse: «Maestro mio, ciò siane in voi40»; e date cinque lire a Bruno e denari per tre paia di capponi, il pregò che in suo servigio in queste cose durasse fatica. Il medico, partitosi, gli fece fare un poco di chiarea41 e mandogliele. Bruno, comperati i capponi e altre cose necessarie al godere, insieme col medico e co’ compagni suoi se li mangiò. Calandrino bevve tre mattine della chiarea, e il medico venne a lui, e42 i suoi compagni, e toccatogli il polso gli disse: «Calandrino, tu se’ guerito senza fallo; e però sicuramente oggimai va a fare ogni tuo fatto, né per questo star più in casa». Calandrino lieto levatosi s’andò a fare i fatti suoi, lodando molto, ovunque con persona a parlar s’avveniva, la bella cura che di lui il maestro Simone aveva fatta, 39 Cfr. VIII 9,25 n. a questo pensate voi, questo rimetto a voi, nelle vostre mani. bevanda medicinale (Crusca); vino speziato che i moderni chiamano ipocrasso (Ruscelli); bevanda ammolliente (Fanfani). Probabilmente dal fr. ant. clarée o claré cioè liquore. Non si ha precisa notizia di cosa fosse, benché non manchino esempi antichi: per es. Volg. Epistole di Seneca (T.): «Non le fa neente, s’ell’è acqua calda o fredda o vino o chiarea». 42 insieme con, e così pure: cfr. VIII 6,49 n. 40 41 Letteratura italiana Einaudi 1237 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX d’averlo fatto in tre dì senza pena alcuna spregnare43; e Bruno e Buffalmacco e Nello rimaser contenti d’aver con ingegni44 saputa schernire l’avarizia di Calandrino, quantunque monna Tessa, avvedendosene, molto col marito ne brontolasse. - 43 abortire: cfr. V 7,17 n.; Cronichette antiche, Firenze 1733, Cronaca attr. a Amaretto Mannelli, p. 106: «poi volle ispregnare e convenne ch’ella le uscisse di corpo». 44 astuzie, inganni, espedienti: III 2,11 n. e Petrarca, CCLXX 73: «Che giova, Amor, tuoi ingegni ritentare?» Letteratura italiana Einaudi 1238 NOVELLA QUARTA 1 Cecco di messer Fortarrigo giuoca a Bonconvento ogni sua cosa e i denari di Cecco di messer Angiolieri, e in camiscia correndogli dietro e dicendo che rubato l’avea, il fa pigliare a’ villani; e i panni di lui si veste e monta sopra il pallafreno, e lui, venendosene, lascia in camiscia1. 2 Con grandissime risa di tutta la brigata erano state ascoltate le parole da Calandrino dette della sua moglie; ma, tacendosi Filostrato, Neifile, sì come la reina volle, incominciò: – Valorose donne, se egli non fosse più malagevole agli uomini il mostrare altrui il senno e la virtù loro, che sia la sciocchezza e ’l vizio, invano si faticherebber molti in porre freno alle lor parole; e questo v’ha assai manifestato la stoltizia di Calandrino, al quale di niuna necessità era, a voler guerire del male che la sua simplicità gli faceva accredere2, che egli avesse i segreti diletti della sua donna in pubblico a dimostrare. La qual cosa una a sé contraria nella mente me n’ha recata, cioè come la malizia d’uno il senno soperchiasse3 d’un altro, con grave danno e scorno del soperchiato; il che mi piace di raccontarvi. 3 4 1 Nessun antecedente di questa novella: qualche motivo trova però riscontro nella narrativa popolare (Thompson e Rotunda, K 484.3). I precisi riferimenti ai due personaggi storici, protagonisti della novella, hanno troppo facilmente inclinato a riferire il fatto come realmente avvenuto (Crescimbeni, Manni, Gigli, Bartoli ecc.). 2 credere: cfr. VII 1,1 n. 3 sopraffacesse. Letteratura italiana Einaudi 1239 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 5 6 Erano, non sono molti anni passati, in Siena due già per età compiuti uomini4, ciascuno chiamato Cecco, ma l’uno di messer Angiulieri5, e l’altro di messer Fortarrigo6. Li quali quantunque in molte altre cose male insieme di costumi si convenissero7, in uno8, cioè che amenduni li lor padri odiavano, tanto si convenivano, che amici n’erano divenuti e spesso n’usavano insieme9. Ma parendo all’Angiulieri, il quale e bello e costumato uomo era10, mal dimorare in Siena della provesione11 che dal padre donata gli era, sentendo nella Marca d’Ancona esser per legato del papa venuto un cardinale che 4 uomini maturi, uomini fatti: Filocolo, IV 39,1: «un mio fratello, bellissimo giovane e di compiuta età». 5 È Cecco Angiolieri (1258?-1313?), il bizzarro ed estroso poeta senese, il maggiore dei burleschi e realisti di quel tempo. 6 Cecco di Fortarrigo Piccolomini; questo Cecco risulta condannato per omicidio nel 1293 (ma la sentenza non fu eseguita: cfr. Sonetti di Cecco Angiolieri a cura di A. F. Massera, Bologna 1906, pp. 141 sgg.). A lui l’Angiolieri indirizzò un sonetto (CVIII; il Massera riferisce alla novella il LXVIII; cfr. anche A. LISINI LIBERATI, in «Misc. Stor. Senese», V, 1898; E. SANTINI, Il B. novellatore d’amore cit. e anche La fortuna del B. a Siena, in Raccolta ... a F. Flamini, Pisa 1918; P. D’ANCONA, Studi di critica, Bologna 1912, I, p. 196). 7 si accordassero, si assomigliassero: X 10,6: «chi co’ suoi costumi ben si convenga». 8 in una sola cosa: neutro (cfr. II 10,5 n.). 9 per questo spesso si ritrovavano insieme. Dell’odio dell’Angiolieri per il padre parlano vari suoi sonetti: e proprio in quello già citato (CVIII) l’Angiolieri, annunciando la morte del proprio padre, presagisce all’amico l’immortalità del suo altrettanto odiato genitore, nonostante sia malandato. 10 Immagine contraria a quella della leggenda creata sui sonetti, letti come documenti autobiografici. 11 vivere a disagio in Siena con l’assegno: III 9,28 n. Letteratura italiana Einaudi 1240 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 7 8 molto suo signore era12, si dispose a volersene andare a lui, credendone la sua condizion migliorare. E fatto questo al padre sentire, con lui ordinò d’avere ad un’ora13 ciò che in sei mesi gli dovesse dare, acciò che vestir si potesse e fornir di cavalcatura e andare orrevole14. E cercando d’alcuno, il qual seco menar potesse al suo servigio, venne questa cosa sentita al Fortarrigo, il qual di presente15 fu all’Angiulieri, e cominciò, come il meglio seppe, a pregarlo che seco il dovesse menare, e che egli voleva essere e fante e famiglio16 e ogni cosa, e senza alcun salario sopra le spese17. Al quale l’Angiulieri rispose che menar nol voleva, non perché egli nol conoscesse bene ad ogni servigio sufficiente18, ma per ciò che egli giucava e oltre a ciò s’innebbriava alcuna volta. A che il Fortarrigo rispose che dell’uno e dell’altro senza dubbio si guarderebbe, e con molti saramenti gliele af- 12 era suo grande protettore, con cui aveva grande ‘servitù’. Il Manni pensò al Card. Giovanni Gaetano Orsini, legato nella Marca nel 1326 (G. Villani, IX 346), ma a tale data Cecco era già morto; il Massera (op. cit., p. 179) suppone fosse Napoleone Orsini; «di una dimora in Roma di Cecco presso il Cardinale Riccardo Petroni vi sono buone testimonianze e vi si riferisce un sonetto perduto di Dante al quale Cecco rispose col sonetto Dante Aligbier, s’io son buon begolardo: e che ciò avvenisse nel 1303, nella prima dimora dell’Alighieri in Verona, risulterebbe dal verso ‘S’io son fatto romano e tu lombardo’» (Zingarelli). Sono notizie di dubbio credito, però. 13 tutto in una volta, cioè in un unico anticipo. 14 con decoro, in abbigliamento decoroso: I 7,9 n. 15 subito: I 1,77 n. 16 servitore (in generale) e familiare, cioè addetto più specialmente al servizio della persona; ma qui, come chiarisce anche il seguente «e ogni cosa», l’enumerazione ha valore soprattutto enfatico. 17 oltre le spese, oltre il puro mantenimento: II 3,12 n.; e cfr. più sotto, 16: «sopra ciò». 18 abile, capace: VIII 9,17 n. Letteratura italiana Einaudi 1241 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 9 10 11 fermò, tanti prieghi sopraggiugnendo19, che l’Angiulieri, sì come vinto, disse che era contento. E entrati una mattina in cammino20 amenduni, a desinar n’andarono a Buonconvento21. Dove avendo l’Angiulier desinato, ed essendo il caldo grande22, fatto acconciare un letto nello albergo e spogliatosi, dal Fortarrigo aiutato s’andò a dormire, e dissegli che come nona23 sonasse il chiamasse. Il Fortarrigo, dormendo l’Angiulieri, se n’andò in su la24 taverna, e quivi, alquanto avendo bevuto, cominciò con alcuni a giucare25, li quali, in poca d’ora alcuni denari che egli avea avendogli vinti, similmente quanti panni egli aveva in dosso gli vinsero; onde egli, disideroso di riscuotersi26, così in camiscia27 come era, se n’andò là dove dormiva l’Angiulieri, e vedendol dormir forte, di borsa gli trasse quanti denari egli avea28, e al giuoco tornatosi, così gli perdè come gli altri. L’Angiulieri, destatosi, si levò e vestissi e domandò del Fortarrigo, il quale non trovandosi, avvisò29 l’Angiu19 aggiungendo: II 6,76 n. E per il seguente v i n t o cfr. X 9,25 n. 20 Cfr. II 8,4 n.; VII intr., 4 n. ecc. Paese a circa quaranta chilometri a sud di Siena, dove la strada si biforcava e portava, a oriente, verso le Marche. 22 Per questa posizione dell’articolo in simili frasi stereotipate cfr. II 10,11 n. (e cfr. al 12: «il romor fu grande»). 23 Cioè circa le tre pomeridiane. 24 nella, dentro la: cfr. VII 9,18: «in su la tua obstinazione»; VI intr., 7. 25 Forma corrente (Proemio, 12 n.) caratteristica nel senese (cfr. qui 8, 16, 22). 26 rifarsi, aver la rivincita, riacquistare quello che aveva perduto: come figuratamente già nella V concl., 3 e nella VI intr., 1: «con alcun leggiadro motto , tentato, si riscotesse». 27 Cioè senza mantello, gonnella, farsetto, ma con le brache e il resto: II 2,13 e 15; e qui 23 n. 28 Gesto risoluto e frettoloso che ricorda quello di Fiordaliso (II 5,40). 29 pensò, immaginò. 21 Letteratura italiana Einaudi 1242 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX lieri lui in alcuno luogo ebbro dormirsi, sì come altra volta era usato di fare. Per che, diliberatosi di lasciarlo stare, fatta mettere la sella e la valigia ad un suo pallafreno, avvisando di fornirsi d’altro famigliare a Corsigna12 no30, volendo, per andarsene, l’oste pagare, non si trovò danaio31; di che il rumore fu grande e tutta la casa dell’oste fu in turbazione, dicendo l’Angiulieri che egli là entro era stato rubato e minacciando egli di farnegli 13 tutti presi32 andare a Siena. Ed ecco venire in camicia il Fortarrigo, il quale per torre i panni, come fatto aveva i denari, veniva. E veggendo l’Angiulieri in concio di cavalcar33, disse: «Che è questo, Angiulieri? Vogliancene noi andare ancora34? Deh aspettati un poco: egli dee venire qui testeso35 uno che ha pegno36 il mio farsetto per trentotto soldi; son certo, che egli cel renderà per trentacinque, pagandol testé». 14 E duranti37 ancora le parole, sopravvenne uno il quale fece certo l’Angiulieri il Fortarrigo essere stato colui che i suoi denar gli aveva tolti, col mostrargli la quantità di quegli che egli aveva perduti. Per la qual cosa l’Angiulier turbatissimo38 disse al Fortarrigo una grandissima 30 È la cittadina chiamata poi Pienza da Pio II, che vi nacque: è a una ventina di chilometri da Buonconvento, sulla strada che va verso l’Umbria. 31 La minima parte del fiorino: II 5,60 n. 32 arrestati, prigionieri: X 8,95 n. 33 pronto a cavalcare: Sacchetti, LXX: «Torello, recatosi in concio ...» 34 ce ne vogliamo già andare?: IV 8,17 n. 35 testé, subito: VII 9,39 n. 36 ha in pegno, tiene impegnato. 37 Costruzione assoluta: mentre duravano, durando: cfr. VI 7,5 n. 38 furibondo, con grandissima ira: VI 4,9 n. Letteratura italiana Einaudi 1243 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 15 villania, e se più d’altrui che di Dio temuto non avesse, gliele avrebbe fatta39; e, minacciandolo di farlo impiccar per la gola o fargli dar bando delle forche40 di Siena, montò a cavallo. Il Fortarrigo, non come se l’Angiulieri a lui, ma ad un altro dicesse, diceva: «Deh! Angiulieri, in buona ora lasciamo stare ora costette41 parole che non montan cavelle42; intendiamo a questo43; noi il riavrem per trentacinque soldi, ricogliendol testé44, ché, indugiandosi pure di qui45 a domane, non ne vorrà meno di trentotto come egli me ne prestò; e fammene questo piacere, perché io gli misi a suo senno46. Deh! perché non ci miglioriam noi47 questi tre soldi?» 39 gli avrebbe fatto grandissima villania o gli avrebbe fatto la festa se non avesse temuto più di lui (Fortarrigo) o delle leggi umane che di Dio. 40 Cioè l’esilio, con la pena dell’impiccagione se avesse rotto il bando. 41 «Così dice il testo originale, e però non radere tu che leggi» (M.). Ma questa è forma già nel D. messa altra volta sulle labbra di senesi (VII 10,22 n.). Cfr. anche MASSERA, op. cit., p. 189 per un sonetto dell’Angiolieri punteggiato di senesismi. E per l’espressivismo seneseggiante di questa novella cfr. Introduzione, pp. XXI sgg. 42 nulla, dato che c a v e l l e è in frase negativa (Annotazioni, p. 239: e cfr. IX 3,12 n.); anche questa è voce assai usata in Siena e nel contado. 43 occupiamoci di questo. 44 ricomprandolo, riscattandolo subito: VIII 2,28 n. 45 anche solo fino. 46 e mi fa questo favore perché mi rimisi a lui (per fissare il valore del farsetto). Altri interpreta: perché puntai [al gioco] secondo il suo consiglio. 47 non risparmiamo, non ci avvantaggiamo di, non guadagniamo: cfr. più sotto 17; e F. da Barberino, Documenti d’amore cit., II 37: «servire l’amico solo per migliorarsi» («ad proprium commodum» nel testo latino). Letteratura italiana Einaudi 1244 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX L’Angiulieri, udendol così parlare, si disperava, e massimamente veggendosi guatare a quegli che v’eran dintorno, li quali parea che credessono non che il Fortarrigo i denari dello Angiulieri avesse giucati, ma che l’Angiulieri ancora avesse de’ suoi48, e dicevagli: «Che ho io a fare di tuo farsetto49? Che appiccato sia tu per la gola, che non solamente m’hai rubato e giucato il mio, ma sopra ciò50 hai impedita la mia andata, e anche ti fai beffe di me». 17 Il Fortarrigo stava pur fermo51 come se a lui non dicesse, e diceva: «Deh, perché non mi vuo’ tu migliorar qui52 tre soldi? Non credi tu che io te li possa ancor servire53? Deh, fallo, se ti cal di me54: per che hai tu questa fretta? Noi giugnerem bene ancora stasera a Torrenie18 ri55. Fa truova56 la borsa: sappi che io potrei cercar tutta Siena, e non ve ne troverre’uno che così mi stesse ben come questo; e a dire che io il lasciassi57 a costui per 16 48 Cioè avesse anche denari del Fortarrigo. Che ho io a fare col tuo farsetto? L’Angiolieri doveva esser pratico di simili forme di pegno, se si può dare fede al suo sonetto I’ son venuto di schiatta di struzzo (LXXXVII). 50 oltre a ciò: cfr. 7 n. 51 impassibile, imperterrito: VIII 3,18 n. 52 Deve essere, come al 24 («a qui tempi»), riduzione per protonia di quei, perseguita per volgarismo ipersenese, proprio - come con altre forme già citate - per dare colore locale alla narrazione, anche con intenzione espressivistica. L’espressione riprende quella precedente «perché non ci miglioriam noi questi tre soldi?» (15). 53 dare: ma il senso più corrente del verbo era prestare (I 3,7 n.), e il Fortarrigo continua a giocar sull’equivoco. 54 se mi vuoi bene: solita forma di preghiera (VIII 5,8 n.). 55 Borgo a una diecina di chilometri da Buonconvento, sulla strada di Corsignano, la Cassia. 56 Fa di trovare, doppio imperativo: II 5,45 n. 57 e dire che io lo dovrei lasciare: è modo ancor vivo. 49 Letteratura italiana Einaudi 1245 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 19 20 21 22 trentotto soldi! Egli vale ancor quaranta o più, sì che tu mi piggiorresti58 in due modi». L’Angiulier, di gravissimo dolor punto, veggendosi rubare da costui e ora tenersi a parole59, senza più rispondergli, voltata la testa del pallafreno, prese il cammin verso Torrenieri. Al quale il Fortarrigo, in una sottil malizia entrato60, così in camicia cominciò a trottar dietro; ed essendo già ben due miglia andato pur61 del farsetto pregando, andandone l’Angiulieri forte per levarsi quella seccaggine dagli orecchi, venner veduti al Fortarrigo lavoratori in un campo vicino alla strada dinanzi all’Angiulieri, ai quali il Fortarrigo, gridando forte, incominciò a dire: «Pigliatel, pigliatelo62». Per che essi chi con vanga e chi con marra nella strada paratisi dinanzi all’Angiulieri, avvisandosi che rubato avesse colui che in camincia dietro gli venia gridando, il ritennero e presono. Al quale per dir63 loro chi egli fosse e come il fatto stesse, poco giovava. Ma il Fortarrigo, giunto là, con un mal viso64 disse: «Io non so come io non t’uccido, ladro disleale, che ti fuggivi col mio!»; e a’ villani rivolto disse: «Vedete, signori65, come egli m’aveva, nascostamente partendosi, 58 danneggeresti (sincopato da piggioreresti): contrario del m i g l i o r a r e usato sopra. 59 vedendo che egli era stato derubato da costui ed ora era trattenuto in chiacchiere vane. 60 avendo pensato un’astuzia finissima: II 5,9 e I 4,9 n. 61 continuamente, ancora. 62 Il grido può ricordare l’inizio del sonetto Accorri accorri accorri, uom, a la strada! proprio di Cecco Angiolieri (I). 63 per quanto dicesse. 64 con viso irato: I 4,20. 65 Anche Frate Cipolla (VI 10,37) inizia così: S i g n o r i ..., quasi una captatio benevolentiae. Letteratura italiana Einaudi 1246 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX avendo prima ogni sua cosa giucata, lasciato nello albergo in arnese66! Ben posso dire che per Dio e per voi io abbia questo cotanto67 racquistato, di che io sempre vi sarò tenuto». L’Angiulieri diceva egli altressì, ma le sue parole non 23 erano ascoltate. Il Fortarrigo con l’aiuto de’villani il mise in terra del pallafreno, e spogliatolo, de’ suoi panni si rivestì, e a caval montato, lasciato l’Angiulieri in camicia e scalzo68, a Siena se ne tornò, per tutto dicendo sé il pal24 lafreno e’ panni aver vinti all’Angiulieri. L’Angiulieri, che ricco si credeva andare al cardinal nella Marca, povero e in camicia si tornò a Buonconvento, né per vergogna a que’ tempi69 ardì di tornare a Siena, ma statigli panni prestati, in sul ronzino70 che cavalcava il Fortarrigo se n’andò a’ suoi parenti a Corsignano, co’ quali si stette tanto che da capo dal padre fu sovvenuto. 25 E così la malizia del Fortarrigo turbò il buono avviso71 dello Angiulieri, quantunque da lui non fosse a luogo e a tempo72 lasciata impunita. – 66 in quale [male] arnese mi aveva lasciato all’albergo: I 7,18 n. tutto questo, almeno questo, poco o molto. Come Rinaldo derubato (II 2,15); e cfr. qui 10 n. 69 per allora: per q u i cfr. 17 n. 70 Contrapposto al p a l l a f r e n o (23) rubatogli dal Fortarrigo. 71 guastò il buon proposito, il savio disegno: II 6,9 n. 72 Cfr. X 8,45: «a luogo e a tempo manifesteremo il fatto»; e anche IX 5,3. 67 68 Letteratura italiana Einaudi 1247 NOVELLA QUINTA 1 Calandrino s’innamora d’una giovane, al quale Bruno fa un brieve1, col quale come egli la tocca, ella va con lui, e dalla moglie trovato, ha gravissima e noiosa quistione2. 2 Finita la non lunga novella di Neifile, senza troppo riderne o parlarne passatasene3 la brigata, la reina verso la Fiammetta rivolta, che ella seguitasse le comandò, la quale tutta lieta4 rispose che volentieri, e cominciò: – Gentilissime donne, sì come io credo che voi sappiate, niuna cosa è di cui tanto si parli, che sempre più non piaccia; dove il tempo e il luogo che quella cotal cosa richiede si sappi per colui, che parlar ne vuole, debitamente eleggere. E per ciò, se io riguardo quello per che noi siam qui (ché per aver festa e buon tempo, e non per altro, ci siamo) stimo che ogni cosa che festa e piacer possa porgere qui abbia e luogo e tempo debito; e ben- 3 4 1 biglietto con formule magiche: cfr. 45; Passavanti Specchio, p. 387: «parole dette o portate addosso scritte per modo di brieve». Per la popolarità, anche nella novellistica, di questo mezzo cfr. Rotunda, K I 15.1 I* sgg., 1963.2*. 2 La storiella, riferita naturalmente come storica dal Baldinucci (Notizie cit.) e dal Manni, non ha antecedenti: probabilmente era una di quelle che correvano nella Firenze del Trecento. Anche la risoluta affermazione di Fiammetta nel prologo al racconto (5) può avere un qualche significato (cfr. V. BRANCA, B. medievale, pp. 167 sgg.). 3 sbrigatasene: VI 8,4 n.: riflesso critico negativo quasi unico nel D. 4 È un atteggiamento frequente in Fiammetta all’inizio del novellare (III 6, IV 1, V 9 ecc.). Letteratura italiana Einaudi 1248 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 5 6 ché mille volte ragionato ne fosse, altro che dilettar non debbia5 altrettanto parlandone. Per la qual cosa, posto che6 assai volte de’ fatti di Calandrino detto si sia tra noi, riguardando, sì come poco avanti disse Filostrato, che essi son tutti piacevoli, ardirò, oltre alle dette, di dirvene una novella, la quale, se io dalla verità del fatto mi fossi scostare voluta o volessi, avrei ben saputo e saprei sotto altri nomi comporla e raccontarla; ma per ciò che il partirsi dalla verità delle cose state nel novellare è gran diminuire di diletto negli ‘ntendenti, in propia forma7, dalla ragion di sopra detta aiutata, la vi dirò. Niccolò Cornacchini fu nostro cittadino8 e ricco uomo, e tra l’altre sue possessioni una bella n’ebbe in Camerata9, sopra la quale fece fare uno orrevole e bello casamento, e con Bruno e con Buffalmacco che tutto gliele dipignessero si convenne; li quali, per ciò che il lavorio era molto, seco aggiunsero e Nello e Calandrino10, e cominciarono a lavorare. Dove, benché alcuna camera11 5 Solita forma del congiuntivo: cfr. I 1,23 n. sebbene, nonostante. 7 così come fu veramente. E il Mannelli sottolinea l’importanza dell’affermazione, notando a margine di questo periodo: «Nota aliquod generale documentum in libro isto». E cfr. II 6,4; Concl. 4 n.; e in generale, V. BRANCA, B. medievale, pp. 167 sgg. 8 concittadino: III 7,3. I Cornacchini furono nota famiglia di mercanti nella Firenze dei secoli XIII-XIV: formarono un’accreditata «compagnia», con sedi anche in Avignone e in Inghilterra, in stretti rapporti coi Frescobaldi (SAPORI, Studi di storia economica medievale, pp. 905 sgg.). Avevano le loro abitazioni proprio in Via del Cocomero, presso cioè quelle dei pittori nominati nelle righe seguenti e di Maestro Simone (VIII 9,5). Inizio di novella su di un settenario e un endecasillabo. 9 La collina sotto Fiesole altre volte nominata nel D. come luogo di ville suburbane (per es. VII 1) e dove Calandrino lavorò (cfr. VIII 3,4 n.). 10 Tutti personaggi già noti per le novelle precedenti (VIII 3 e 6 e 9; IX 3: e cfr. nn. relative). 6 Letteratura italiana Einaudi 1249 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 7 8 9 fornita di letto e dell’altre co se opportune fosse, e una fante vecchia dimorasse sì come guardiana del luogo, per ciò che altra famiglia non v’era, era usato un figliuolo del detto Niccolò, che avea nome Filippo, sì come giovane e senza moglie, di menar talvolta alcuna femina a suo diletto, e tenervela un dì o due e poscia mandarla via. Ora tra l’altre volte avvenne che egli ve ne menò una, che aveva nome la Niccolosa12, la quale un tristo13, che era chiamato il Mangione, a sua posta tenendola in una casa a Camaldoli14, prestava a vettura15. Aveva costei bella persona ed era ben vestita, e, secondo sua pari16, assai costumata e ben parlante17. Ed essendo ella un dì di meriggio della camera uscita in un guarnel18 bianco e co’ capelli ravvolti al capo, e ad un pozzo che nella corte era del casamento lavandosi le mani e l’ viso, avvenne 11 solo qualche camera. Una Niccolosa Cornacchini risulta sepolta in Santa Maria Novella nel giugno 1341 (Sepoltuario Cirri, Biblioteca Nazionale di Firenze: probabilmente per errore il Manni la disse sepolta in San Michele Visdomini). Il nome di Niccolosa era comune nella Firenze del tempo: anche il B. appare in relazione con una donna di tal nome (TORDI, Gli inventari, cit., p. 71), e cfr. IX 6,3. 13 un tipo losco, un uomo di malaffare: con una sfumatura di depravazione, come nella V 10,1 n. o nella VII 8,43 n. o qui più avanti, 52. n. 14 Via di Firenze nel quartiere di San Pier Maggiore. 15 dava a nolo: con un tono di spregio, quasi fosse una giumenta: IX 6,8 n. 16 per una sua pari. 17 pronta di parola: anche Oretta Spini (VI 1,5) è detta «costumata donna e ben parlante»: ma il ritratto qui richiama soprattutto quello di Madonna Fiordaliso (II 5,15 e 25 n.). 18 in una sottoveste di guarnello (tessuto di canapa e cotone). 12 Letteratura italiana Einaudi 1250 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 10 11 12 13 14 15 che Calandrino quivi venne per acqua, e dimesticamente la salutò. Ella, rispostogli, il cominciò a guatare, più perché Calandrino le pareva un nuovo uomo19 che per altra vaghezza. Calandrino cominciò a guatar lei, e parendogli bella, cominciò a trovar sue cagioni 20, e non tornava a’ compagni con l’acqua; ma, non conoscendola, niuna cosa ardiva di dirle. Ella, che avveduta s’era del guatar di costui, per uccellarlo21 alcuna volta guatava lui, alcun sospiretto gittando; per la qual cosa Calandrino subitamente di lei s’imbardò22, né prima si partì della corte che ella fu da Filippo nella camera richiamata. Calandrino, tornato a lavorare, altro che soffiar23 non faceva; di che Bruno accortosi, per ciò che molto gli poneva mente alle mani24, sì come quegli che gran diletto prendeva de’ fatti suoi, disse: «Che diavolo hai tu, sozio25 Calandrino? Tu non fai altro che soffiare». A cui Calandrino disse: «Sozio, se io avessi chi m’aiutasse, io starei bene». «Come?» disse Bruno. A cui Calandrino disse: «E’ non si vuol dire a persona: egli è una giovane quaggiù, che è più bella che una 19 un uomo strano, sempliciotto: II 5,17 n.; VI 4,6 n. a trovar pretesti [trattenersi]. beffarlo. 22 si invaghì, si innamorò: Tesoretto, 1428 sg.: «una cosa che ’mbarda | La gente più che ’l grado»; Guittone, Rime, 66,3: «Che vista fo che di ciascuna embardi»; Chiaro Davanzati, Rime, I 32. 23 sbuffare o sospirare: VI 8,3 n. 24 osservava quanto faceva. 25 compare, amico: VIII 6,52 n. 20 21 Letteratura italiana Einaudi 1251 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 16 17 18 19 20 21 lammia26, la quale è sì forte innamorata di me, che ti parrebbe un gran fatto; io me n’avvidi testé quando io andai per l’acqua». «Ohimè!» disse Bruno «guarda che ella non sia la moglie di Filippo». Disse Calandrino: «Io il credo, per ciò che egli la chiamò, ed ella se n’andò a lui nella camera; ma che vuol per ciò dir questo? Io la fregherei a Cristo di così fatte cose27, non che a Filippo. Io ti vo’dire il vero, sozio: ella mi piace tanto, che io nol ti potrei dire». Disse allora Bruno: «Sozio, io ti spierò chi ella è; e se ella è la moglie di Filippo, io acconcierò i fatti tuoi in due parole, per ciò che ella è molto mia domestica. Ma come farem noi che Buffalmacco nol sappia? Io non le posso mai favellare ch’e’non sia meco». Disse Calandrino: «Di Buffalmacco non mi curo io, ma guardianci di Nello, ché egli è parente della Tessa28 e guasterebbeci ogni cosa». Disse Bruno: «Ben di’». Or sapeva Bruno chi costei era, sì come colui che veduta l’avea venire, e anche Filippo gliele aveva detto. Per che, essendosi Calandrino un poco dal lavorio parti- 26 fata o ninfa: Comedia, IX 6: «marmoree colonne sostenenti candida lammia»; Cavalcanti, XLIV 12 sg.: «un grande fiume I Pieno di lammie»; L. Pulci, Driadeo, I 12: «il rozzo parlar de’ villan vuole | Che queste Ninfe sien chiamate Lammie». 27 Cioè: io farei di questi scherzi, di queste ingiurie a Cristo stesso. 28 La moglie di Calandrino: VIII 3,51 n. Letteratura italiana Einaudi 1252 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 22 23 24 25 26 27 to e andato per vederla, Bruno disse ogni cosa a Nello e a Buffalmacco, e insieme tacitamente ordinarono quello che fare gli dovessero di questo suo innamoramento. E come egli ritornato fu, disse Bruno pianamente: «Vedestila?» Rispose Calandrino: «Ohimè! sì, ella m’ha morto». Disse Bruno: «Io voglio andare a vedere se ella è quella che io credo; e se così sarà, lascia poscia far me». Sceso adunque Bruno giuso, e trovato Filippo e costei, ordinatamente disse loro chi era Calandrino, e quello che egli aveva lor29 detto, e con loro ordinò quello che ciascun di loro dovesse fare e dire, per avere festa e piacere dello innamoramento di Calandrino. E a Calandrino tornatosene disse:« Bene è dessa; e per ciò si vuol questa cosa molto saviamente fare, per ciò che, se Filippo se ne avvedesse, tutta l’acqua d’Arno non ci laverebbe30. Ma che vuo’tu che io le dica da tua parte, se egli avvien che io le favelli?» Rispose Calandrino: «Gnaffe! tu sì le dirai in prima in prima che io le voglio mille moggia di quel buon bene da impregnare; e poscia, che io son suo servigiale31, e se ella vuol nulla; ha’mi bene inteso?» 29 a loro, agli amici. Espressione proverbiale assai diffusa in Toscana per dire che nulla potrebbe scusare. 31 servitore (II 5,43 n.): «secondo i concetti dell’amore cortese. Ma si diceva di solito ‘servidore’ o ‘servente’ e il B. probabilmente usa s e r v i g i a l e a render ridicolo Calandrino» (Petronio); in armonia del resto con tutta la goffa frase precedente. 30 Letteratura italiana Einaudi 1253 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 28 29 30 31 32 33 Disse Bruno: «Sì, lascia far me». Venuta l’ora della cena, e32 costoro avendo lasciata opera e giù nella corte discesi33, essendovi Filippo e la Niccolosa, alquanto in servigio di Calandrino ivi si posero a stare. Dove Calandrino incominciò a guardare la Niccolosa e a fare i più nuovi34 atti del mondo, tali e tanti che se ne sarebbe avveduto un cieco. Ella d’altra parte ogni cosa faceva per la quale credesse bene accenderlo, e secondo la informazione avuta da Bruno, il miglior tempo del mondo prendendo de’ modi di Calandrino; Filippo con Buffalmacco e con gli altri faceva vista di ragionare e di non avvedersi di questo fatto. Ma pur dopo alquanto, con grandissima noia di Calandrino, si partirono; e venendosene verso Firenze, disse Bruno a Calandrino: «Ben ti dico che tu la fai struggere come ghiaccio a sole35; per lo corpo di Dio, se tu ci rechi la ribeba36 tua e canti un poco con essa di quelle tue canzoni innamorate, tu la farai gittare a terra delle finestre per venire a te». Disse Calandrino: «Parti, sozio? Parti37 che io la rechi?» «Sì,» rispose Bruno. 32 La solita congiunzione in ripresa dopo temporale Un solo ausiliare (a v e n d o) per due verbi che lo vorrebbero diverso: uso solito: II 8,95 n. 34 strani, da sempliciotto. 35 Immagine amorosa solita anche nel B. (per es. X 7,8 n.; Amorosa Visione, XXV 27); cfr. Petrarca, XXX 21; e per l’omissione dell’articolo cfr. III 10,35 n.; V 10,54 n. 36 O ribeca: strumento a tre corde, ad arco, simile alla viola (è parola di origine araba: rabab: cfr. G. B. PELLEGRINI, Gli arabismi cit., p. 98): Sacchetti, Rime, CXCVIII 12: «se sonasse Ughetto la ribeca». 37 Ti pare?, Ti pare bene? 33 Letteratura italiana Einaudi 1254 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX A cui Calandrino disse: «Tu non mi credevi oggi, quando io il ti diceva; per certo, sozio, io m’avveggio che io so meglio che altro uomo far ciò che io voglio. 35 Chi avrebbe saputo, altri che io, farcosì tosto innamorare una così fatta donna come è costei? A buona otta l’avrebber saputo far38 questi giovani di tromba marina39, che tutto ‘l dì vanno in giù e in su, e in mille anni non sa36 prebbero accozzare tre man di noccioli40. Ora io vorrò che tu mi vegghi un poco con la ribeba; vedrai bel giuoco! E intendi sanamente41 che io non son vecchio come io ti paio, ella se n’è bene accorta ella; ma altramenti ne la farò io accorgere se io le pongo la branca addosso; per lo verace corpo di Cristo, che io le farò giuoco, che ella mi verrà dietro come va la pazza al figliuolo42». 37 «Oh,» disse Bruno «tu te la griferai43: e’ mi par pur 34 38 Alla buon’ora, quando mai l’avrebbero saputo fare: ironico; e cfr. VII 2,23 n. e VII 5,39 n. 39 giovani che portano le maniche a tromba (cfr. Esposizioni, V litt. 147 sgg.; Sacchetti, Rime, CVII); giovani che strombazzano per tutto i favori che ricevon dalle donne (Martinelli); giovani vuoti, pieni di vento come una tromba marina (Vidossich). Ma l’interpretazione non è del tutto sicura. 40 Cioè venire a capo del minimo negozio (Fanfani): espressione tratta dal gioco fanciullesco coi noccioli in cui si chiama «una mano» il gruppo di noccioli giocato di volta in volta. O più semplicemente: non saprebbero raccogliere tre manciate di noccioli (Quaglio). 41 bene: III 4,15 n. 42 Espressione proverbiale usata per chi correva senza ritegno dietro chi amava. 43 le metterai il grido addosso, come un maiale lo ficca nel pastone per trangugiarlo: cfr. IX 3,6 n. Bruno continua il linguaggio immaginosamente bestiale di Calandrino in fregola (b r a n c a, g r i f o , d e n t i, m o r d e r e, m a n i c a r e, c u o i o, ecc.). Letteratura italiana Einaudi 1255 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 38 39 40 vederti morderle con cotesti tuoi denti fatti a bischeri44 quella sua bocca vermigliuzza e quelle sue gote che paion due rose, e poscia manicarlati tutta quanta». Calandrino, udendo queste parole, gli pareva essere a’ fatti, e andava cantando e saltando tanto lieto, che non capeva nel cuoio45. Ma l’altro dì46 recata la ribeba, con gran diletto di tutta la brigata cantò più canzoni con essa47. E in brieve in tanta sosta48 entrò dello spesso veder costei, che egli non lavorava punto, ma mille volte il dì ora alla finestra, ora alla porta e ora nella corte correa per veder costei; la quale astutamente secondo l’ammaestramento di Bruno adoperando, molto bene ne gli dava cagione. Bruno d’altra parte gli rispondeva alle sue ambasciate e da parte di lei ne gli faceva talvolte; quando ella non v’era, che era il più del tempo, gli faceva venir lettere da lei, nelle quali esso gli dava grande speranza de’ desideri suoi, mostrando che ella fosse a casa di suoi parenti là dove egli allora non la poteva vedere. 44 I pioli cui sono attaccate le corde di certi strumenti, quali il liuto, la chitarra, ecc. e coi quali se ne regola la tensione (chiavi). 45 non stava nella pelle. È parola scelta apposta per Calandrino: altrove (VIII 7) lo dice di serpe; Dante, Convivio, IV XXV 6, lo dice di leone; e di esseri umani si trova in scrittori di linguaggio violento quali Jacopone, XVI 44 e Cecco Angiolieri, CV 12» (Petronio). 46 il giorno seguente. 47 Caricatura che può ricordare quella di Maestro Simone (VIII 9,45 sgg.). 48 scioperio, volontà di non far nulla: cfr. la discussione e la documentazione nelle Annotazioni, CXV. A meno di pensare a una forma per susta, cioè guaio, agitazione, come nell’Orlando del Berni (XXIV 5; XXVII 5), e come accennano i vocabolari cinquecenteschi dell’Acariso e dell’Alunno sotto sosta stessa. Cfr. BARBI, La Nuova Filologia, p. 45; D. OLIVIERI e B. MIGLIORINI, Sosta, susta, sista, in «Lingua Nostra», V, 1943. Letteratura italiana Einaudi 1256 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX E in questa guisa Bruno e Buffalmacco, che tenevano mano al fatto, traevano de’ fatti di Calandrino il maggior piacer del mondo, faccendosi talvolta dare, sì come domandato dalla sua donna, quando un pettine d’avorio e quando una borsa e quando un coltellino e cotali ciance49, allo ‘ncontro recandogli cotali anelletti contraffatti50 di niun valore, de’ quali Calandrino faceva maravigliosa festa. E oltre a questo n’avevan da lui di buone merende e d’altri onoretti51, acciò che solliciti fossero a’ fatti suoi. 42 Ora, avendol tenuti52 costoro ben due mesi in questa forma senza più aver fatto, vedendo Calandrino che il lavorio si veniva finendo, e avvisando che, se egli non recasse ad effetto il suo amore prima che finito fosse il lavorio, mai più fatto non gli potesse53 venire, cominciò 43 molto a strignere e a sollicitare Bruno. Per la qual cosa, essendovi la giovane venuta54, avendo Bruno prima con Filippo e con lei ordinato quello che fosse da fare, disse a Calandrino: «Vedi, sozio, questa donna m’ha ben mille volte promesso di dover far ciò che tu vorrai, e poscia non ne fa nulla, e parmi che ella ci meni per lo naso; e per ciò, poscia che ella nol fa come ella promette, noi gliele farem fare o voglia ella o no, se tu vorrai». 44 Rispose Calandrino: «Deh! sì, per l’amor di Dio, facciasi tosto». 41 49 cosucce, bazzecole: ed erano proprio i doni più comuni fra amanti: cfr. III 3,26. 50 falsi, d’oro falso. 51 piccoli inviti, piccole gentilezze: cfr. VIII 9,73. 52 Una delle solite concordanze a senso del participio passato: cfr. VIII 7,41 n. 53 potrebbe: cfr. I 1,51 n. 54 essendo la giovane venuta ivi, in quella casa a Camerata. Letteratura italiana Einaudi 1257 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 45 46 47 48 49 Disse Bruno: «Dratti55 egli il cuore di toccarla con un brieve56 che io ti darò?» Disse Calandrino: «Sì bene57». «Adunque,» disse Bruno «fa che tu mi rechi un poco di carta non nata58 e un vispistrello59 vivo e tre granella d’incenso e una candela benedetta, e lascia far me». Calandrino stette tutta la sera vegnente con suoi artifici60 per pigliare un vispistrello, e alla fine presolo, con l’altre cose il portò a Bruno. Il quale, tiratosi in una camera, scrisse in su quella carta certe sue frasche con alquante cateratte61, e portogliele e disse: «Calandrino, sappi che se tu la toccherai con questa scritta, ella ti verrà incontanente dietro e farà quello che tu vorrai. E però, se Filippo va oggi in niun luogo, accostaleti in qualche modo e toccala, e vattene nella casa della paglia62 ch’è qui dallato, che è il miglior luogo che ci sia, 55 Sincope insolita nel B., poiché è caratteristica del toscano occidentale, lucchese specialmente (S. PIERI, Appunti morfologici, in «Arch. Glottologico Italiano», XII, 1890-93, p. 166). 56 Cfr. 1 n. 57 Sì certo, Sì davvero: III 8,56 n. 58 «Carta fatta di pelle d’animale tratto dal ventre della madre innanzi ch’e’ nasca» (T.). Cfr. Statuto Arte della Lana di Siena (T.): «... per cagione de’ brevi e di scritture che si fanno ne’ carte non nate». 59 pipistrello: questo e i seguenti sono elementi soliti in queste fatture: cfr. per es. Passavanti, Specchio, pp. 372 sgg. (Dell’altra scienza diabolica). 60 trappole, congegni: II 9,25 n. 61 certe sue sciocchezze con alquanti caratteri magici: III 3,26 n.; VIII 7,64 n. 62 capanna di paglia, pagliaio: per questa costruzione del complemento di materia cfr. I 1,87 n. Letteratura italiana Einaudi 1258 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 50 51 52 53 per ciò che non vi bazzica mai persona; tu vedrai che ella vi verrà; quando ella v’è, tu sai ben ciò che tu t’hai a fare63». Calandrino fu il più lieto uomo del mondo, e presa la scritta, disse: «Sozio, lascia far me». Nello, da cui Calandrino si guardava, avea di questa cosa quel diletto che gli altri, e con loro insieme teneva mano a beffarlo; e per ciò, sì come Bruno gli aveva ordinato, se n’andò a Firenze alla moglie di Calandrino, e dissele: «Tessa, tu sai quante busse Calandrino ti diè senza ragione il dì che egli ci64 tornò con le pietre di Mugnone, e per ciò io intendo che tu te ne vendichi, e se tu nol fai, non m’aver mai né per parente né per amico 65. Egli si s’è innamorato d’una donna colassù, ed ella è tanto trista66 che ella si va rinchiudendo assai spesso con essolui: e poco fa si dieder la posta67 d’essere insieme via via68, e per ciò io voglio che tu vi venga e vegghilo e gastighil bene». Come la donna udì questo, non le parve giuoco69, ma 63 Per l’antica tradizione di simili incantesimi cfr. J. G. FRAZER, The golden bough, I 3. 64 a casa: cfr. VIII 3. 65 Espressione solita a indicare inimicizia feroce: cfr. III 7,72 n.; V 3,6 n. 66 Cfr. 8 n. 67 s’accordarono, si diedero appuntamento: IX 7,10 n. 68 tra poco: Purg., VIII 39: «Per lo serpente che verrà vie via». 69 non le parve uno scherzo, cioè prese la cosa sul serio. Letteratura italiana Einaudi 1259 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 54 55 56 57 levatasi in piè cominciò a dire: «Ohimè! ladro piuvico70, fa’mi tu questo? Alla croce di Dio71, ella72 non andrà così, che io non te ne paghi». E preso suo mantello e una feminetta in compagnia, vie più che di passo73 insieme con Nello lassù n’andò. La qual come Bruno vide venire di lontano, disse a Filippo: «Ecco l’amico nostro». Per la qual cosa Filippo andato colà dove Calandrino e gli altri lavoravano, disse: «Maestri, a me conviene andare testé a Firenze: lavorate di forza»; e partitosi, s’andò a nascondere in parte che egli poteva, senza esser veduto, veder ciò che facesse Calandrino74. Calandrino, come credette che Filippo alquanto dilungato75 fosse, così se ne scese nella corte, dove egli trovò sola la Niccolosa, ed entrato con lei in novelle, ed ella, che sapeva ben ciò che a fare aveva, accostataglisi, un poco di più dimestichezza che usata non era gli fece, donde76 Calandrino la toccò con la scritta; e come tocca l’ebbe, senza dir nulla volse i passi ver so la casa della paglia, dove la Niccolosa gli andò dietro; e, come dentro fu, chiuso l’uscio, abbracciò Calandrino, e in su la paglia che era ivi in terra il gittò, e saligli addosso a cavalcione, e tenendogli le mani in su gli omeri, senza lasciarlosi ap- 70 notorio, pubblico (piubico): espressione e insulto dell’uso, indirizzato anche da Dante a Forese (Rime, LXXVII 8: «piuvico ladron»). 71 Deprecazione ricorsa sulle labbra di altre donne irate del D.: VII 8,45 n. 72 La faccenda, la cosa. 73 Cioè di corsa: cfr. Amorosa Visione, XVIII 26. 74 Due endecasillabi di seguito segnano il momento culminante dell’attesa. 75 allontanato: cfr. V 3,10 e 37. 76 onde, per la qual cosa. Letteratura italiana Einaudi 1260 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 58 59 60 61 62 pressare al viso, quasi come un suo gran disidero il guardava dicendo: «O Calandrino mio dolce, cuor del corpo mio, anima mia, ben mio, riposo mio77, quanto tempo ho io desiderato d’averti e di poterti tenere a mio senno! Tu m’hai con la piacevolezza tua tratto il filo della camiscia78; tu m’hai agratigliato79 il cuore colla tua ribeba; può egli esser vero che io ti tenga?» Calandrino, appena potendosi muover, diceva: «Deh! anima mia dolce, lasciamiti baciare». La Niccolosa diceva: «O tu hai la gran fretta! lasciamiti prima vedere a mio senno; lasciami saziar gli occhi di questo tuo viso dolce!» Bruno e Buffalmacco n’erano andati da Filippo, e tutti e tre vedevano e udivano questo fatto. Ed essendo già Calandrino per voler pur la Niccolosa baciare, e80 ecco giugner Nello con monna Tessa, il quale come giunse, disse: «Io fo boto a Dio81 che sono insieme»; e all’uscio della casa pervenuti, la donna, che arrabbiava82, datovi delle mani83, il mandò oltre, ed entrata dentro vide la Niccolosa addosso a Calandrino; la quale, come la 77 Sequenza di appellativi popolareschi tenerissimi, ritmati e rimati, il cui tono caricaturato ricorda particolarmente messer Ricciardo e le sue goffe insistenze amorose (II 10,30 n. e 35,36). 78 mi hai fatto piegare al tuo desiderio, puoi ottenere da me ciò che vuoi: espressione immaginosamente popolaresca. 79 incatenato: altra voce popolaresca, armonica al tono enfatico e caricaturale di tutte le parole della Niccolosa: cfr. Pataffio, I 33. 80 È usata, come altra volta, la congiunzione in ripresa, dopo gerundio, a indicare istantaneità nella successione delle azioni: Intr., 78 n. 81 Il solito giuramento concitato: VII 6,16 n. 82 ardeva di rabbia, fremeva tutta di stizza. 83 spintolo colle mani. Letteratura italiana Einaudi 1261 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 63 64 65 donna vide, subitamente levatasi, fuggì via e andossene là dove era Filippo. Monna Tessa corse con l’unghie nel84 viso a Calandrino, che ancora levato non era, e tutto gliele graffiò e presolo per li capelli, e in qua e in là tirandolo, cominciò a dire: «Sozzo can vituperato85, dunque mi fai tu questo? Vecchio impazzato, che maladetto sia il ben che io t’ho voluto; dunque non ti pare avere tanto a fare a casa tua, che ti vai innamorando per l’altrui? Ecco bello innamorato! Or non ti conosci tu, tristo? Non ti conosci tu, dolente86? che premenloti tutto, non uscirebbe tanto sugo che bastasse ad una salsa87? Alla fè di Dio, egli non era ora la Tessa quella che t’impregnava88, che Dio la faccia trista chiunque ella è, che ella dee ben sicuramente esser cattiva cosa ad aver vaghezza di così bella gioia come tu se’». Calandrino, vedendo venir la moglie, non rimase né morto né vivo89, né ebbe ardire di far contro di lei difesa alcuna; ma pur così graffiato e tutto pelato e rabbuffato, ricolto il cappuccio suo e levatosi, cominciò umilmente a pregar la moglie che non gridasse, se ella non volesse che egli fosse tagliato tutto a pezzi, per ciò che colei che 84 contro il: II 1,31 n. Tutta la scena ricorda il trattamento fatto altra volta da Calandrino a monna Tessa (VIII 3,52 sgg.; e anche VII 8,19), quasi contrappasso. 85 Espressione violenta, già usata in un caso simile da Catella: III 6,34. 86 tristo, malnato: V 10,9 n. 87 Simile espressione ingiuriosa ed equivoca aveva usato Bartolomea col vecchio e striminzito marito (II 10,40 n.). 88 Cfr. IX 3, particolarmente 21 n. 89 Cioè rimase così stordito, confuso, che non sapeva se era vivo o morto: Inf., XXXIV 25: «Io non mori’ e non rimasi vivo». Letteratura italiana Einaudi 1262 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX con lui era, era moglie del signor della casa. La donna disse: «Sia, che Iddio le dea il malanno». Bruno e Buffalmacco, che con Filippo e con la Nic66 colosa avevan di questa cosa riso a lor senno, quasi al romor venendo90, colà trassero, e dopo molte novelle rappacificata la donna, dieron per consiglio a Calandrino che a Firenze se n’andasse e più non vi91 tornasse, acciò che Filippo, se niente di questa cosa sentisse, non gli fa67 cesse male. Così adunque Calandrino tristo e cattivo92, tutto pelato e tutto graffiato a Firenze tornatosene, più colassù non avendo ardir d’andare, il dì e la notte molestato e afflitto dai rimbrotti della moglie, al suo fervente amor pose fine, avendo molto dato da ridere a’suoi compagni e alla Niccolosa e a Filippo. – 90 come se accorressero per il chiasso (Quaglio). colà, a Camerata. 92 afflitto e misero, sciagurato. Riprende, con ritmi e assonanze caricaturali la sequenza di aggettivi già prima fatti giocare attorno a Calandrino (e cfr. IX 7,13 n.). E del resto in quest’ultima novella su Calandrino sono riprese in certo modo le altre tre che lo avevano avuto protagonista (la VIII 3 al 52, la VIII 6 al 53, la IX 3 al 64). 91 Letteratura italiana Einaudi 1263 NOVELLA SESTA 1 Due giovani albergano con uno1, de’quali l’uno si va a giacere con la figliuola, e la moglie di lui disavvedutamente si giace con l’altro. Quegli che era con la figliuola, si corica col padre di lei e dicegli ogni cosa, credendosi dire al compagno. Fanno romore insieme. La donna, ravvedutasi, entra nel letto della figliuola, e quindi con certe parole ogni cosa pecefica2. 2 Calandrino, che altre volte la brigata aveva fatta ridere, similmente questa volta la fece; de’ fatti del quale poscia che le donne si tacquero, la reina impose a Panfilo che dicesse, il quale disse: – Laudevoli donne, il nome della Niccolosa amata da Calandrino m’ha nella memoria tornata una novella3 d’un’altra Niccolosa, la quale di raccontarvi mi piace, 3 1 presso un tale. Tra i fabliaux, uno di Jean de Boves, De Gombert et des deux clers (o L’Hotel St. Martin) e specialmente uno anonimo Le meunier et les deux clers (Recueil général, I 22; V 119) possono apparire chiaramente quali antecedenti della novella boccacciana, pur con varie divergenze di trama e di particolari, e con tono del tutto diverso. Tale intrigo è anche narrato sotto il titolo D’Estula et de l’anel de la paelle (Recueil cit., V 96); e un altro, assai più divergente, appare nella raccolta dell’Hagen (Gesammtabenteuer III, LV; e anche III, pp. XIX sgg.). Si tratta evidentemente di tema assai popolare e diffuso, che poi sarà ripreso anche da Chaucer (Reeve’s Tale) e dalla novellistica: cfr. BÉDIER, op. cit., p. 463; Aarne, 1363; Thompson e Rotunda, K 1345; DI FRANCIA, art. cit., 1907; H. VARNHAGEN, Die Erzählung von der Wiege in «Englische Studien», IX, 886; M. LANGE, Vom Fabliau zu B. und Chaucher, Hamburg 1935. 3 Uno di quei legami meccanici tra novella e novella già altra volta notati e che qui è introdotto con parole ricorse nella VII 3,3. 2 Letteratura italiana Einaudi 1264 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 4 5 6 per ciò che in essa vedrete un subito avvedimento4 d’una buona donna avere un grande scandalo tolto via. Nel pian di Mugnone5 fu, non ha guari, un buon uomo, il quale a’ viandanti dava pe’lor danari mangiare e bere; e come che povera persona fosse e avesse piccola casa, alcuna volta per un bisogno grande6, non ogni persona, ma alcun conoscente albergava. Ora aveva costui una sua moglie assai bella femina, della quale aveva due figliuoli; e l’uno7 era una giovanetta bella e leggiadra, d’età di quindici o di sedici anni, che ancora marito non avea8; l’altro era un fanciul piccolino, che ancora non aveva uno anno, il quale la madre stessa allattava. Alla giovane aveva posto gli occhi addosso un giovanetto leggiadro e piacevole e gentile uomo della nostra città, il quale molto usava per la contrada, e focosamente l’amava9. Ed ella, che d’esser da un così fatto giovane amata forte si gloriava10, mentre di ritenerlo con piacevoli sembianti nel suo amor si sforzava, di lui similmente s’innamorò; e più volte per grado11 di ciascuna delle par- 4 improvviso, tempestivo accorgimento. Il fiumicello già nominato alla VIII 3: la valle del Mugnone si percorre uscendo da Firenze verso la Romagna. 6 Cioè: in caso di necessità estrema. 7 Accordato con f i g l i u o l i, come nella IV 4,4: «ebbe due figliuoli, l’uno maschio ... l’altro femina». 8 Solita età canonica per il matrimonio delle fanciulle e solito rimprovero indiretto ai genitori che ne ritardano le nozze: II 6,35 n.; IV 5,4 n.; VI intr., 9 n. 9 «Nota de’ lacciuoli d’amore, che mentre ch’una donna ha vaghezza d’esser guatata, molte volte piacevolegiando si truova intinta» (M.). 10 Sentimento analogo a quello del palafreniere innamorato di Teodolinda ed espresso con parole simili: III 2,7. 11 con piacere, con gradimento. 5 Letteratura italiana Einaudi 1265 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 7 8 9 ti avrebbe tale amore avuto effetto12, se Pinuccio (che così aveva nome il giovane non avesse schifato13 il biasimo della giovane e ’l suo. Ma pur, di giorno in giorno multiplicando14 l’ardore, venne disidero a Pinuccio di doversi pur con costei ritrovare, e caddegli nel pensiero di trovar modo di dover col padre albergare, avvisando, sì come colui che la disposizion della casa della giovane sapeva, che, se questo facesse, gli potrebbe venir fatto d’esser con lei, senza avvedersene persona; e co me nell’animo gli venne, così senza indugio mandò ad effetto. Esso, insieme con un suo fidato compagno chiamato Adriano15, il quale questo amor sapeva, tolti una sera al tardi due ronzini a vettura16 e postevi su due valigie, forse piene di paglia, di Firenze uscirono, e presa una lor volta17, sopra il pian di Mugnone cavalcando pervennero, essendo già notte; e di quindi, come se di Romagna tornassero, data la volta18, verso le case se ne vennero, e alla casa del buon uom picchiarono; il quale, sì come colui che molto era dimestico di ciascuno, aperse la porta prestamente. Al quale Pinuccio disse: «Vedi, a te conviene stanotte albergarci: noi ci credemmo dover potere 12 Espressione canonica, quasi una formula: per es. II 6,36; e cfr. VII 7,25 n. 13 non avesse voluto evitare, non avesse temuto. 14 accrescendosi: II 1,19 n. 15 Fra conoscenti del B. troviamo proprio un Adriano e una Niccolosa: TORDI, Gli inventari ecc., p. 71, n. 5. 16 a nolo: VI 5,9 n.; IX 5,8 n. 17 e fatto un giro: VIII 8,18 n.: «data una sua volta» (come qui più sotto, 9). 18 invertita la direzione. Letteratura italiana Einaudi 1266 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 10 11 12 13 entrare in Firenze, e non ci siamo sì saputi studiare19, che noi non siam qui pure a così fatta ora, come tu vedi, giunti». A cui l’oste rispose: «Pinuccio, tu sai bene come io sono agiato di20 poter così fatti uomini come voi siete albergare; ma pur, poi che questa ora v’ha qui sopraggiunti, né tempo ci è da potere andare altrove, io v’albergherò volentieri com’io potrò». Ismontati adunque i due giovani e nello alberghetto entrati, primieramente i loro ronzini adagiarono21, e appresso, avendo ben seco portato da cena, insieme con l’oste cenarono. Ora non avea l’oste che una cameretta assai piccola, nella quale eran tre letticelli messi come il meglio l’oste avea saputo, né v’era per tutto ciò tanto di spazio rimaso, essendone due dall’una delle facce della camera e ’l terzo di rincontro a quegli dall’altra, che altro che strettamente andar vi si potesse. Di questi tre letti fece l’oste il men cattivo acconciar per li due compagni, e fecegli coricare; poi dopo alquanto, non dormendo alcun di loro, come che di dormir mostrassero, fece l’oste nell’un de’due che rimasi erano coricar la figliuola, e nell’altro s’entrò egli e la donna sua; la quale allato del letto dove dormiva pose la culla nella quale il suo piccolo figlioletto teneva. E essendo le cose in questa guisa disposte, e Pinuccio avendo ogni cosa veduta, dopo alquanto spazio, parendogli che ogn’uomo addormentato fosse, pianamente levatosi se n’andò al letticello dove la giovane amata da lui si giaceva, e miselesi a giacere allato; dalla quale, 19 curare e qui affrettare: IX 8,26 n. tu sai bene se io sono in buone condizioni, tali da ..., se io ho buone possibilità da ...: cfr. I 1,18 n.; Novellino, XLVI: «io non sono sì agiato ch’io gli potessi nutricare». 21 sistemarono, misero a posto: IV 3,11 n.; X 9,15 n. 20 Letteratura italiana Einaudi 1267 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 14 15 16 17 ancora che paurosamente il facesse, fu lietamente raccolto, e con essolei di quel piacere che più disideravano prendendo si stette. E standosi così Pinuccio con la giovane, avvenne che una gatta22 fece certe cose cadere, le quali la donna destatasi sentì; per che levatasi23 temendo non fosse altro, così al buio come era, se n’andò là dove sentito avea il romore. Adriano, che a ciò non avea l’animo, per avventura per alcuna opportunità natural24 si levò, alla quale espedire andando25, trovò la culla postavi dalla donna, e non potendo senza levarla oltre passare, presala la levò del luogo dove era, e posela allato al letto dove esso dormiva; e fornito quello per che levato s’era e tornandosene, senza della culla curarsi, nel letto se n’entrò. La donna, avendo cerco e trovato che quello che caduto era non era tal cosa26, non si curò d’altrimenti accender lume per vederlo, ma, garrito alla gatta27, nella cameretta se ne tornò, e a tentone dirittamente al letto dove il marito dormiva se n’andò. Ma, non trovandovi la culla, disse seco stessa: «Ohimè, cattiva me28, vedi quel che io faceva! In fè di Dio, che io me n’andava dirittamente nel letto degli osti29 miei»; e, fattasi un poco più 22 Usato il femminile, come di solito: V 10,20 n. La ripetizione del participio sottolinea che la donna se ne va nuda come si era alzata di balzo. 24 bisogno naturale, fisico. 25 andando a sbrigare (cioè soddisfare) la quale: I 4,2 n.; VI 2,18 n. 26 non era ciò che credeva, o non era cosa importante. «Dicit testus, male ut credo» (M.). 27 sgridata la gatta: participio assoluto. 28 povera me, misera me. È questo uno dei passi più strettamente simile al fabliau citato. 29 ospiti: sostantivo che aveva (e lo ha ora ospite) senso passivo, come qui, o attivo come al 18: V 9,22 n. 23 Letteratura italiana Einaudi 1268 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 18 19 20 avanti e trovando la culla, in quello letto al quale ella era allato insieme con Adriano si coricò. credendosi col marito coricare. Adriano, che ancora raddormentato non era, sentendo questo, la ricevette e bene e lietamente, e senza fare altramenti motto, da una volta in su caricò l’orza30 con gran piacer della donna. E così stando, temendo Pinuccio non il sonno con la sua giovane il soprapprendesse31, avendone quel piacer preso che egli desiderava, per tornar nel suo letto a dormire le si levò dallato, e là venendone, trovando la culla, credette quello essere quel dell’oste; per che, fattosi un poco più avanti insieme con l’oste si coricò, il quale per la venuta di Pinuccio si destò. Pinuccio, credendosi essere allato ad Adriano, disse: «Ben ti dico che mai sì dolce cosa non fu come è la Niccolosa32: al corpo di Dio, io ho avuto con lei il maggior diletto che mai uomo avesse con femina, e dicoti che io sono andato da sei volte in su in villa33, poscia che io mi partì quinci». L’oste, udendo queste novelle e non piacendogli troppo, prima disse seco stesso: «Che diavol fa costui qui?» Poi, più turbato che consigliato, disse: «Pinuccio, la tua è stata una gran villania, e non so perché tu mi t’abbi a far questo; ma, per lo corpo di Dio34, io te ne pagherò». 30 Espressione marinaresca (che vale tirare la corda che si lega nel capo dell’antenna dalla parte dove soffia il vento, e figuratamente riempire soverchiamente) volta qui equivocamente a significato sessuale. 31 sorprendesse: II 2,16 n. 32 Endecasillabo e decasillabo rimati. 33 Altra espressione equivoca: «par VII foiz l’ai anuit corbée» dice il fabliau, anche in questo passo strettamente simile. 34 Solita imprecazione minacciosa: VII 6,18 n.: simile, ma con valore esclamativo al 19. Letteratura italiana Einaudi 1269 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 21 22 23 24 25 26 Pinuccio, che non era il più savio giovane del mondo, avveggendosi del suo errore, non ricorse35 ad emendare come meglio avesse potuto, ma disse: «Di che mi pagherai? Che mi potrestù fare tu36?» La donna dell’oste, che col marito si credeva essere, disse ad Adriano: «Ohimè! Odi gli osti nostri che hanno non so che parole insieme». Adriano ridendo disse: «Lasciali fare, che Iddio gli metta in malanno37: essi bevver troppo iersera». La donna, parendole avere udito il marito garrire e udendo Adriano, incontanente conobbe là dove stata era e con cui; per che, come savia, senza alcuna parola dire, subitamente si levò, e presa la culla del suo figlioletto, come che punto lume nella camera non si vedesse, per avviso38 la portò allato al letto dove dormiva la figliuola, e con lei si coricò; e quasi desta fosse per lo rumore del marito, il chiamò e domandollo che parole egli avesse con Pinuccio. Il marito rispose: «Non odi tu ciò ch’e’dice che ha fatto stanotte alla Niccolosa?» La donna disse: «Egli mente bene per la gola39, ché con la Niccolosa non è egli giaciuto, ché io mi ci coricai io in quel punto, che io non ho mai poscia potuto dor- 35 si rivolse, corse. Ripetizione del pronome non insolita nel discorso diretto eccezionalmente concitato: VI intr., 14 n. 37 li maledica. 38 secondo quanto poteva indovinare, immaginare; secondo la sua opinione, congettura: Comedia, XXVI 8 sg.: «un suo giardino ... secondo l’avviso dell’occhio, corrente per tutte le parti presto, era quadro, di bella grandezza». 39 Modo corrente di smentire energicamente: II 1,27 n. 36 Letteratura italiana Einaudi 1270 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 27 28 29 mire40; e tu se’una bestia che egli credi. Voi bevete tanto la sera, che poscia sognate la notte e andate in qua e in là senza sentirvi41, e parvi far maraviglie: egli è gran peccato che voi non vi fiaccate il collo! Ma che fa egli costì Pinuccio? Perché non si sta egli nel letto suo?» D’altra parte Adriano, veggendo che la donna saviamente la sua vergogna e quella della figliuola ricopriva42, disse: «Pinuccio, io te l’ho detto cento volte che tu non va da attorno, ché questo tuo vizio del levarti in sogno e di dire le favole che tu sogni per vere ti daranno una volta la mala ventura: torna qua, che Dio ti dea la mala notte!» L’oste, udendo quello che la donna diceva e quello che diceva Adriano, cominciò a creder troppo bene che Pinuccio sognasse; per che, presolo per la spalla, lo ’ncominciò a dimenare43 e a chiamar, dicendo: «Pinuccio, destati; tornati al letto tuo». Pinuccio, avendo raccolto44 ciò che detto s’era, cominciò a guisa d’uom che sognasse ad entrare in altri farnetichi45; di che l’oste faceva le maggior risa del mondo. Alla fine, pur sentendosi dimenare, fece sembiante di destarsi, e chiamando Adrian, disse: «E’ egli ancora46 dì, che tu mi chiami?» 40 mi coricai qui, nel suo letto (c i), in un momento dopo il quale io non ho mai potuto dormire. Nota l’affermazione che si presta all’equivoco, e l’insistenza su i o quasi a dare maggiore forza all’affermazione stessa. 41 senza risentirvi, senza svegliarvi: IV 10,1 n. 42 Saviezza simile a quella di Agilulfo (III 2,29 sgg.); e cfr. IX 2,18 n. 43 scuotere, scrollare: II 5,41 n. 44 compreso: I 5,16 n. 45 vaneggiamenti: cfr. VIII 3,43 n. 46 già: IV 8,17 n. Letteratura italiana Einaudi 1271 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX Adriano disse: «Sì, vienne qua». Costui, infignendosi47 e mostrandosi ben sonnocchioso, al fine si levò d’allato all’oste e tornossi al letto con Adriano. E, venuto il giorno e levatisi, l’oste inco32 minciò a ridere e a farsi beffe di lui e de’ suoi sogni. E così d’uno in altro motto acconci i due giovani i lor ronzini48 e messe le lor valigie e bevuto con l’oste, rimontati a cavallo49 se ne vennero a Firenze, non meno contenti del modo in che la cosa avvenuta era, che dello effetto 33 stesso della cosa. E poi appresso, trovati altri modi, Pinuccio con la Niccolosa si ritrovò, la quale alla madre affermava lui fermamente aver sognato. Per la qual cosa la donna, ricordandosi dell’abbracciar d’Adriano, sola seco diceva d’aver vegghiato50. – 30 31 47 dissimulando, fingendo di ignorare tutto quanto era accaduto: II 10,18 n. 48 avendo i due giovani approntati, sellati i loro ronzini: cfr. IX 4,13 n.: per il participio accorciato o aggettivo verbale cfr. VI 4,6 n. 49 «Alle consequenzie» (M.). 50 d’essere stata sveglia. Letteratura italiana Einaudi 1272 NOVELLA SETTIMA 1 Talano d’Imole sogna che uno lupo squarcia tutta la gola e ’l viso alla moglie; dicele che se ne guardi; ella nol fa, e avvienle1. 2 Essendo la novella di Panfilo finita e l’avvedimento della donna commendato da tutti, la reina a Pampinea disse che dicesse la sua, la quale allora cominciò: – Altra volta, piacevoli donne, delle verità dimostrate da’ sogni, le quali molte scherniscono, s’è fra noi ragionato2; e però, come che detto ne sia, non lascerò io che con una novelletta assai brieve io non vi narri quello che ad una mia vicina, non è ancor guari, addivenne, per non crederne uno di lei3 dal marito veduto. Io non so se voi vi conosceste Talano d’Imolese4, uo- 3 4 1 Nessun precedente diretto e documentato: ma racconti di donne ostinate e ritrose, che, malgrado gli avvertimenti, fanno un’azione che torna loro fatale, sono assai comuni in tutte le letterature: dalla francese (Le pré tondu: BÉDIER, op. cit., pp. 45 sgg., 125, 467) alla tedesca e alla russa (LANDAU, pp. 160 sgg.), e alle più diverse forme popolaresche e narrative (Thompson, M 341.2.6; T 251 sgg., 254.2; Rotunda, J 652, T 255.7*). E sono correnti anche nei repertori di exempla e nella predicazione (cfr. F. C. TUBACH, Index exemplorum, Helsinki 1969, s. v. wife). Il Manni (p. 533) riferisce un caso simile narrato a proposito della moglie di Pio Enea degli Obizzi. 2 Cfr. per es. IV 5,12 sgg. n.; IV 6,3 sgg. n. 3 per non credere a un sogno che la riguardava. 4 Esisteva in quei secoli a Firenze una famiglia Imolese o da Imola o Imole (cfr. per es. Archivio di Firenze, Spogli Ancisa; MONALDI, Diario, Firenze 1733, p. 322; O. BRATTÖ, Nuovi studi cit., p. 137). Talano è accorciatura di Catalano, nome non raro nella Firenze del tempo. Letteratura italiana Einaudi 1273 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 5 6 mo assai onorevole. Costui, avendo5 una giovane chiamata Margarita, bella tra tutte l’altre, per moglie presa, ma sopra ogni altra bizzarra, spiacevole e ritrosa6, intanto che7 a senno di niuna persona voleva fare alcuna cosa, né altri far la poteva a suo; il che8 quantunque gravissimo fosse a comportare9 a Talano, non potendo altro fare, sel sofferiva10. Ora avvenne una notte, essendo Talano con questa sua Margarita in contado ad una lor possessione, dormendo egli, gli parve11 in sogno vedere la donna sua andar per un bosco assai bello, il quale essi non guari lontano alla lor casa avevano; e mentre così andar la vedeva, gli parve che d’una parte del bosco uscisse un grande e fiero12 lupo, il quale prestamente s’avventava alla gola di 5 Un altro esempio di gerundio dove metteremmo un imperfetto, aveva (III 7,87 n.). 6 stizzosa, sgarbata e scontrosa. Anche della Cesca da Celatico il B. aveva scritto «spiacevole, sazievole e stizzosa che alcuna altra, che a sua guisa niuna cosa si potea fare» (VI 8,5): le due definizioni simili si compongono anche in ritmi simili. E cfr. I 6,20 n.; V 4,23 n.; VII 6,6 n. E per b i z z a r r a cfr. I 6,20 n. 7 a tal punto che. 8 «Ripiglia sinteticamente, secondo un frequente modulo della sintassi parlata (numerosi casi, per es., nel Cellini), le precedenti proposizioni subordinate, considerate nel loro complesso come un solo complemento oggetto: e questo fatto, queste condizioni’» (Marti). Cfr. anche Mussafia, pp. 466 sgg. 9 sopportare: III 1,41 n. 10 Secondo la solita bonaria filosofia del B. di fronte all’inevitabile: II 8,67 n.; III 5,43 n. 11 Nota la soppressione del c h e (che dovrebbe dipendere da avvenne e reggere g l i p a r v e ) «per cui si cambia, per effetto di evidenza, un discorso indiretto e subordinato in diretto» (Zingarelli); e l’insistenza in tutto questo periodo su p a r v e, come in un’altra descrizione di sogno assai simile a questo (IV 6,14 n.). 12 Come «grandi e fieri» erano i mastini della visione infernale di Nastagio (V 8, 16). Letteratura italiana Einaudi 1274 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 7 8 9 costei e tiravala in terra, e lei gridante13 aiuto si sforzava di tirar via, e poi di bocca uscitagli, tutta la gola e ’l viso pareva l’avesse guasto14. Il quale, la mattina appresso levatosi, disse alla moglie: «Donna, ancora che la tua ritrosia15 non abbia mai sofferto che io abbia potuto avere un buon dì con teco, pur sarei dolente quando mal t’avvenisse; e per ciò, se tu crederrai al mio consiglio, tu non uscirai16 oggi di casa»; e domandato da lei del perché, ordinatamente le contò il sogno suo. La donna, crollando il capo, disse: «Chi mal ti vuol, mal ti sogna17; tu ti fai18 molto di me pietoso, ma tu sogni di me quello che tu vorresti vedere; e per certo io me ne guarderò e oggi e sempre di non farti né di questo né d’altro mio male mai allegro». Disse allora Talano: «Io sapeva bene che tu dovevi dir così, per ciò che tal grado ha chi tigna pettina19; ma credi che ti piace20; io per me il dico per bene, e ancora 13 Costruzione latineggiante, col participio in funzione d’attributo (X 7,45 n.), efficacissima. 14 rovinato, straziato: IV 10,9 n. e meglio Inf., XXXIII 3. 15 scontrosità, sgarberia: cfr. r i t r o s a al 4 e n. 16 È usato il futuro, invece dell’imperativo, certo per non irritare quella donna scontrosissima. 17 Evidentemente detto popolare: cfr. K. LANDAUER, «Chi mal ti vuol mal ti sogna». Ein Traum und Deutung in D., in «Psychoanalytische Bewegung», I, 1929; GIUSTI, Raccolta di proverbi toscani, p. 167. 18 ti mostri: cfr. Inf., I 135. 19 per ciò che tale gratitudine si guadagna chi si mette a pettinare un tignoso (perché procura a lui dolore, e a sé schifo): cfr. Inf., XXII 92 sg.: «i’ temo ch’ello | Non s’apparecchi a grattarmi la tigna». 20 credi pure qualunque cosa ti piace. Letteratura italiana Einaudi 1275 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX da capo te ne consiglio, che tu oggi ti stea in casa o almeno ti guardi d’andare nel nostro bosco». La donna disse: «Bene, io il farò»; e poi seco stessa 10 cominciò a dire: «Hai veduto come costui maliziosamente si crede avermi messa paura d’andare oggi al bosco nostro? là dove egli per certo dee aver data posta a qualche cattiva21, e non vuol che io il vi truovi. Oh, egli avrebbe buon manicar co’ ciechi22, e io sarei bene sciocca se io nol conoscessi e se io il credessi! Ma per certo e’ non gli verrà fatto: e’convien pur che io vegga, se io vi dovessi star tutto dì, che mercatantia23 debba esser questa che egli oggi far vuole». E come questo ebbe detto, uscito il marito da una 11 parte della casa, e24 ella uscì dall’altra, e come più nascosamente poté, senza alcuno indugio, se n’andò nel bosco, e in quello nella più folta parte che v’era si nascose, stando attenta e guardando or qua or là, se alcuna per12 sona venir vedesse. E mentre in questa guisa stava senza alcun sospetto di lupo25, ed ecco vicino a lei uscir d’una 21 dato appuntamento a qualche mala femmina: VII 8,42 n. e anche IX 3, 52 n. e 64. 22 Modo proverbiale: egli mangerebbe volentieri coi ciechi, cui potrebbe toglier dal piatto quello che volesse; cioè egli farebbe bene le sue cose se io fossi cieca, se io gli credessi e lo lasciassi fare. Cfr. I 1,42 n. 23 che affare, in senso ironico e volgare, com’è tutto il linguaggio di questa stizzosa, sempre proverbiosamente grossolano. 24 ed ecco: la solita congiunzione in ripresa dopo proposizione temporale, col solito senso di successione istantanea: Intr., 78 n.; e qui più sotto, 12, e e c c o. 25 apprensione, timore (IV 6,12 n.) di verun lupo. «Nota questa preposizione d i con questo significato generale e indeterminato» (Fanfani). Letteratura italiana Einaudi 1276 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 13 14 macchia folta un lupo grande e terribile26, né poté ella, poi che veduto l’ebbe, appena dire «Domine, aiutami27», che il lupo le si fu avventato28 alla gola, e presala forte, la cominciò a portar via come se stata fosse un piccolo agnelletto. Essa non poteva gridare, sì aveva la gola stretta, né in altra maniera aiutarsi; per che, portandosenela il lupo, senza fallo strangolata l’avrebbe, se in certi pastori non si fosse scontrato, li quali sgridandolo29 a lasciarla il costrinsero; ed essa misera e cattiva30, da’ pastori riconosciuta e a casa portatane, dopo lungo studio 31 da’ medici fu guarita, ma non sì, che tutta la gola e una parte del viso non avesse per sì fatta maniera guasta, che, dove prima era bella, non paresse poi sempre sozzissima e contrafatta32. Laonde ella, vergognandosi d’apparire dove veduta fosse, assai volte miseramente pianse la sua ritrosia e il non avere, in quello che niente le costava, al vero33 sogno del marito voluto dar fede. 26 Prima, nel sogno (6), «grande e fiero». Invocazione ricorsa già alle labbra di un’altra donna: VIII 8,30 n. e cfr. anche X 9,91. 28 Il trapassato remoto invece del passato è usato a indicare la subitaneità: II 5,58 n. 29 gridando contro di lui. 30 Dittologia sinonimica (ché a t t i v a vale misera, infelice) amata dal B. e ripetuta con variazioni minime in circostanze simili: per es. VIII 9,100 n.; IX 5,67 n.; IX 8,29 n.; Amorosa Visione, XXIV 34-35; e cfr. Inf., XXX 16: «Ecuba trista, misera e cattiva». 31 lunga cura: IV 5,19 n. 32 bruttissima e deforme: VI 5,4: «viso piatto e ricagnato ... sozzo»; IX 1,9: «sì contrafatto e di sì divisato viso». 33 veritiero: Filostrato, VII 27: «amaro | E vero sogno!». 27 Letteratura italiana Einaudi 1277 NOVELLA OTTAVA 1 Biondello fa una beffa a Ciacco d’un desinare, della quale Ciacco cautamente si vendica faccendo lui sconciamente battere1. 2 Universalmente ciascuno della lieta compagnia disse quello che Talano veduto avea dormendo non essere stato sogno ma visione2, sì appunto, senza alcuna cosa mancarne, era avvenuto. Ma, tacendo ciascuno, impose la reina alla Lauretta che seguitasse, la qual disse: – Come costoro, soavissime donne, che oggi davanti a me hanno parlato, quasi tutti da alcuna cosa già detta mossi sono stati a ragionare, così me muove la rigida3 vendetta ieri raccontata da Pampinea, che fe’ lo scolare, a dover dire d’una assai grave a colui che la sostenne, 3 1 Nessun antecedente di questa novella tipicamente municipale, in cui appaiono vari personaggi del mondo dantesco (e in cui forse, come nella V 91 si profila la presenza di ricordi diretti di Coppo Domenichi: cfr. qui 13 n.). Benvenuto da Imola, illustrando l’episodio di Filippo Argenti (Inf., VIII 31 sgg.), traduce quasi letteralmente gran parte di questa novella affermando essere avvenuto il fatto «paulo ante expulsionem autoris» (cioè di Dante 1301); e così lo introduce: «Sed ut appareat clare qualiter iste canis rabidus non potuerit pati aliquam contumeliam verborum etiam iocosam, volo te scire novum iocum, per quod evidenter appareat eius natura clara displicenter». Notevole anche un sonetto, forse del secolo XIV, di argomento gargantuesco, attribuito a Biondello e indirizzato a Ciacco: V. ROSSI, Noterelle d’erudizione spicciola, in AA.VV., Dai tempi antichi ai tempi moderni, Milano 1904. E per la tradizione nella novellistica cfr. Rotunda, J 1561.8*. 2 Cioe un’apparizione veritiera come quella di Lorenzo alla sua Lisabetta: IV 5,14: «dando fede alla visione». 3 severa, inflessibile: II 5,53 n. L’allusione è alla VIII 7. Letteratura italiana Einaudi 1278 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 4 quantunque non fosse per ciò tanto fiera. E per ciò dico che, essendo in Firenze uno da tutti chiamato Ciacco4, uomo ghiottissimo quanto alcun altro fosse giammai, e non possendo la sua possibilità5 sostenere le spese che la sua ghiottornia6 richiedea, essendo per altro assai costumato e tutto pieno di belli e di piacevoli motti, si diede ad essere, non del tutto uom di corte, ma morditore7, e 4 È con ogni probabilità, il celebre goloso presentato nell’Inf., VI 38 sgg. Ciacco è, secondo antichi commentatori danteschi, soprannome dispregiativo (maiale); ma più probabilmente è abbreviazione di Giacomo o Jacopo, forse dal francese Jacques. Potrebbe quindi essere la stessa persona di quel Ciacco dell’Anguillaia del quale ci restano alcune rime (cfr. M. SCHERILLO, Il Ciacco della Divina Commedia, in «Nuova Antologia», agosto e settembre 1901; V. ROSSI, Noterelle d’erudizione spicciola: I «Biondello a Ciacco», in AA.VV., Dai tempi antichi ai tempi moderni già citato, e rec. a A. DISPENZA, Ciacco ecc., in «Bull. Soc. Dantesca», XI, 1904; G. BERTONI, Il Duecento cit., p. 151; E. PASQUINI, in La letteratura italiana. Storia e Testi, Bari 1970, I 11, pp. 129 sgg.). Di lui narrano, come di un ghiottone famoso, i commentatori danteschi: e così il B. ampliando il primo periodo di questa novella, ma ripetendone alla lettera alcune espressioni: «Fu costui uomo non del tutto di corte; ma, per ciò che poco avea da spendere ed erasi, come egli stesso dice, dato del tutto al vizio della gola era morditore e le sue usanze erano sempre co’ gentili uomini e ricchi, e massimamente con quelli che splendidamente e dilicatamente mangiavano e beveano, da’ quali se chiamato era a mangiare, v’andava, e similmente, se invitato non era, esso medesimo s’invitava; ed era per questo vizio notissimo uomo a tutti i Fiorentini. Senza che, fuor di questo, egli era costumato uomo, secondo la sua condizione, ed eloquente e affabile e di buon sentimento; per le quali cose era assai volentieri da qualunque gentile uomo ricevuto» (Esposizioni, VI litt. 25). 5 le sue facoltà, il suo patrimonio: II 7,115 n. 6 ghiottoneria: idiotismo toscano. 7 motteggiatore: V concl., 3 n.; VI 3,4 (in altro senso nella IV intr., 42). Opposizioni ripetuta nelle Esposizioni e per cui cfr. I 8,7 n.; Novellino, IV: Paolino «era a guisa di morditore» nelle corti; Sacchetti, CXLIV: «uomini assai sollazzevoli ed erano mezzi cortigiani». Letteratura italiana Einaudi 1279 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 5 6 ad usare con coloro che ricchi erano e di mangiare delle buone cose si dilettavano; e con questi a desinare e a cena, ancor che chiamato8 non fosse ogni volta, andava assai sovente. Era similmente in quei tempi in Firenze uno, il quale era chiamato Biondello9, piccoletto della persona, leggiadro10 molto e più pulito che una mosca11, con sua cuffia12 in capo, con una zazzerina bionda13 e per punto14 senza un capel torto avervi, il quale15 quel medesimo mestiere usava che Ciacco. Il quale essendo una mattina di quaresima andato là dove il pesce si vende, e comperando due grossissime 8 invitato: cfr. VI 7,14 n.; e per l’uso cfr. qui 9 n. Personaggio del tutto ignoto. Lo Zingarelli pensa si tratti di un soprannome «perché era piccolo e biondo ...; molti giullari che avevano un soprannome»: e cfr. 1 n. 10 azzimato, ricercato: cfr. VII 2,8 n. 11 Perché la mosca sembra che si ripulisca e si lisci continuamente colle sue zampine. «Il paragone poi è più grazioso perché cade fra un parassito e una mosca, col quale animaletto anche i latini significavano talora questa specie di gente: vedi Plauto, Poenul., III 3,77» (Fornaciari). 12 Gli uomini la portavano raramente, ed era per questo indizio di raffinatezza eccezionale (Merkel, p. 68). Anche il Sacchetti attribuisce «zazzera ... in cuffia» a due suoi personaggi bizzarri e motteggiatori, come Mazzeo e Basso della Penna (II e VI). 13 «Le miniature, gli affreschi, quando vogliono rappresentare un bel giovane gli danno lunga e bionda zazzera» (Merkel). 14 a puntino, a pennello. 15 Si riferisce a Biondello. 9 Letteratura italiana Einaudi 1280 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 7 lamprede16 per messer Vieri de’ Cerchi17, fu veduto da Ciacco; il quale, avvicinatosi a Biondello, disse: «Che vuol dir questo?» A cui Biondello rispose: «Iersera ne furono mandate tre altre, troppo più belle che queste non sono e uno storione a messer Corso Donati18, le quali non bastando- 16 Evidentemente lamprede di mare (Petromyzon marinus) rinomate sul mercato fiorentino nel Trecento: cfr. Sacchetti, CLXXXIII: e in generale L. MESSEDAGLIA, Di una novella di Franco Sacchetti, in «Atti Istituto Veneto», CXI, 1953. 17 Vieri de’ Cerchi portò all’apice la potenza mercantile e politica della famiglia - originaria di Val di Sieve e inurbatasi nel secolo XIII (Par., XVI 65) - e della consorteria, capeggiando il partito dei guelfi bianchi. Dopo la vittoria dei Neri, mori in esilio, ad Arezzo, attorno al 1305. È presentato dal Compagni come valoroso e magnanimo (I 10,13 e passim); dal Villani come generoso (VII 131 e VIII 41), ma bizzarro e altero (VIII 39 e 49). Il B. scrive nelle Esposizioni (VI litt. 34): «messer Vieri de’ Cerchi, il quale era, come detto è, capo della parte Bianca, e’ suoi consorti erano tutti ricchi e agiati uomini, e per questo erano non solamente superbi e altieri, ma egli erano salvatichetti intorno a’ costumi cittadineschi, per ciò che non erano acostanti all’usanze degli uomini, né gli careggiavano, come per avventura faceva la parte avversa, la quale era più povera». 18 Corso Donati, chiamato per la fierezza dei suoi modi «il barone», capo del partito dei guelfi neri, esiliato per i tumulti del 1300, ritornò nel 1301 con Carlo di Valois; e mentre già chiaramente aspirava alla Signoria, fu ucciso nel 1308 dai suoi avversari dell’oligarchia mercantesca (Purg., XXIV 82 sgg.). Ne lasciò un superbo e grandioso ritratto, II 20, e cfr. passim; e G. Villani, VII 114 sgg.; VIII 39 sgg.); e così ne parla il B.: «Messer Corso, ... a rispetto di messer Vieri era vero cavaliere, ed era grande spenditore; per che, veggendo sé povero e messer Vieri ricco, gli portava invidia, come suole avvenire ... E, oltre a ciò, v’era la preeminenzia dello stato, al quale generalmente tutti coloro, che in istato non si vedevano, portavano invidia» (Esposizioni, VI litt. 47). Sono dunque, in questa novella, di fronte, in atteggiamento signorile e munifico, i capi delle due fazioni che si disputavano il potere in Firenze; e sono evocati proprio accanto a Ciacco, come nell’Inf., VI e nelle relative Esposizioni del B. Letteratura italiana Einaudi 1281 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX gli per voler dar mangiare a certi gentili uomini, m’ha fatte comperare quest’altre due: non vi verrai tu?» 8 Rispose Ciacco: «Ben sai che io vi verrò19». E quando tempo gli parve, a casa messer Corso20 se 9 n’andò, e trovollo con alcuni suoi vicini che ancora non era andato a desinare. A quale egli, essendo da lui domandato che andasse faccendo, rispose: «Messere, io vengo a desinar con voi e con la vostra brigata21». A cui messer Corso disse: «Tu sie ‘l ben venuto, e 10 per ciò che egli è tempo, andianne». Postisi dunque a tavola, primieramente ebbero del 11 cece e della sorra22, e appresso del pesce d’Arno fritto, senza più23 Ciacco, accortosi dello ’nganno di Biondello e in sé non poco turbatosene, propose di dovernel pagare24; né passar molti dì che egli in lui si scontrò, il qual 12 già molti aveva fatti ridere di questa beffa. Biondello, vedutolo, il salutò, e ridendo il domandò chenti25 la fosser state le lamprede di messer Corso; a cui Ciacco rispondendo disse: «Avanti che otto giorni passino tu il saprai molto meglio dir di me». 19 Stai pur certo che io vi verrò: b e n s a i e b e n s a p e t e furono usati come affermazioni. 20 Che era nel sesto di Porta San Piero; e cfr. II 5,50 n. 21 Il presentarsi senza essere invitati era costume non insolito a questi scrocconi di mondo: come narra anche il Sacchetti di Ser Ciolo (LI). 22 ventresca di tonno. 23 senza null’altro: II 3,37 n. 24 ripagare, ricambiare: VIII 3,52: «in fé di Dio io te ne pagherò». 25 di che specie, di che sapore: Intr., 55 n. Letteratura italiana Einaudi 1282 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 13 14 E senza mettere indugio al fatto, partitosi da Biondello, con un saccente barattiere26 si convenne del prezzo, e datogli un bottaccio27 di vetro, il menò vicino della loggia de’ Cavicciuli28, e mostrogli in quella un cavaliere chiamato messer Filippo Argenti29, uomo grande e nerboruto e forte, sdegnoso, iracundo e bizzarro30 più che altro, e dissegli: «Tu te ne andrai a lui con questo fiasco in mano, e dira’gli così: ‘Messere, a voi mi manda Biondello, e mandavi pregando che vi piaccia d’arubinargli31 questo fiasco del vostro buon vin vermiglio, ch’e’si vuo- 26 furbo vagabondo, faccendiere: X 2,7 n.; Tesoretto, 731; e I 7,23 n. 27 fiasco, bottiglione: VII 3,10 n. Era su corso Adimari, oggi via Calzaiuoli, dove avevan le loro case i Cavicciuli-Adimari (l’«oltracotata schiatta»: Par., XVI 115). 29 Di Filippo Argenti degli Adimari dei Cavicciuli, immortalato da Dante nell’VIII dell’Inferno, così parla il B., su ricordi dell’amico Coppo (cfr. V 9,4 n.): «Fu questo Filippo Argenti, secondo che ragionar solea Coppo di Borghese Domenichi, de’ Cavicciuli, cavaliere ricchissimo, tanto che esso alcuna volta fece il cavallo, il quale usava di cavalcare, ferrare d’ariento e da questo trasse il sopranome. Fu uomo di persona grande, bruno e nerboruto e di maravigliosa forza e, più che alcuno altro, iracundo, eziandio per qualunque menoma cagione. Né di sue opere più si sanno che queste due, assai ciascuna per sé biasimevole» (Esposizioni, VIII litt. 68). E cfr. Sacchetti, CXIV. 30 Aggettivi che ripetono la caratterizzazione dantesca e che sono ripresi nelle Esposizioni: e per bizzarro (Inf., VIII 62), stizzoso, cfr. IX 7,4 n. 31 fargli rosso, del color del rubino: cioè di riempire col «buon vin vermiglio». «Parola del linguaggio furbesco, detta per ischerzo. Anche l’Allegri, 318: “E con un garbo ch’ha del signorile | Un tratto m’arrubina il trasparente», cioè il bicchiere” (Fornaciari). 28 Letteratura italiana Einaudi 1283 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 15 16 17 18 le alquanto sollazzar con suoi zanzeri32’; e sta bene accorto che egli non ti ponesse33 le mani addosso, per ciò che egli ti darebbe il mal dì34, e avresti guasti i fatti miei». Disse il barattiere: «Ho io a dire altro?» Disse Ciacco: «No; va pure; e come tu hai questo detto, torna qui a me col fiasco, e io ti pagherò». Mossosi adunque il barattiere, fece a messer Filippo l’ambasciata. Messer Filippo, udito costui, come colui che piccola levatura avea35, avvisando che Biondello, il quale egli conosceva, si facesse beffe di lui, tutto tinto36 nel viso, dicendo: «Che ‘arrubinatemi’ e che ‘zanzeri’ son questi? Che nel mal anno metta Iddio te e lui!», si levò in piè e distese il braccio per pigliar con la mano il barattiere; ma il barattiere, come colui che attento stava, fu presto e fuggì via, e per altra parte ritornò a Ciacco, il quale ogni cosa veduta avea, e dissegli ciò che messer Filippo aveva detto. 32 compagnacci, compagni di stravizio: anche questa è parola furbesca, di cui non si hanno esempi («si potrebbe pensare a parola non fiorentina, ma veneziana, zanza = ciancia, sicché z a n z e r i burloni» Zingarelli). È una richiesta fatta in tono volgare, ingaglioffito: lontanissima da quella, simile solo materialmente, di Geri Spini a Cisti (VI 2), benché il rapporto sociale sia rovesciato. 33 Più efficace l’imperfetto potenziale del presente, che sarebbe qui regolare: il fatto presentato solo come possibile è più pauroso: Inf., IX 56: F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 383 sgg. 34 la mala giornata, il malanno: III 8,45 e 71n.; VIII 9,106; e anche qui sotto al 17. 35 era facile a irritarsi: cfr. IV 2,41 n.; VII 3,22 n. 36 rosso, infocato per la rabbia: Filostrato, V 13: «tutto tinto nel viso»; Fiammetta, VI 20,10 : «con viso tinto»; Inf., III 29. Letteratura italiana Einaudi 1284 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 19 20 21 22 23 24 Ciacco contento pagò il barattiere, e non riposò mai ch’egli37 ebbe ritrovato Biondello, al quale egli disse: «Fostù a questa pezza38 dalla loggia de’ Cavicciuli?» Rispose Biondello: «Mai39 no; perché me ne domandi tu?» Disse Ciacco: «Per ciò che io ti so dire che messer Filippo ti fa cercare, non so quel ch’e’si vuole». Disse allora Biondello: «Bene, io vo verso là, io gli farò motto40». Partitosi Biondello, Ciacco gli andò appresso per vedere come il fatto andasse. Messer Filippo, non avendo potuto giugnere il barattiere, era rimaso fieramente turbato e tutto in sé medesimo si rodea41, non potendo dalle parole dette dal barattiere cosa del mondo trarre altro42, se non che Biondello, ad instanzia di cui che sia43, si facesse beffe di lui. E in questo che egli così si rodeva, e44 Biondel venne. Il quale come egli vide, fattoglisi incontro, gli diè nel viso un gran punzone45. «Ohimè! messer,» disse Biondel «che è questo?» 37 non si dié pace fin che egli. di questi tempi, da poco in qua: cioè è molto che tu non sei stato: II 3,28 n. 39 Solito rafforzativo: III 3,36 n. 40 gli farò cenno, lo saluterò: Inf., XIX 48; Purg., II 25; e anche IX 1,14 n. 41 Proprio di Filippo, che non si poteva vendicare come avrebbe voluto, Dante scrive: «In sé medesimo si volvea co’ denti» (Inf., VIII 63); e il B. chiosa: «vedendosi schernire, o assalire dagli altri ... per ira mordendosi» (Esposizioni, VIII litt. 69). 42 Cioè cavare nessun altro senso. 43 di chicchessia, di chissà chi. 44 ecco che: la solita ripresa, dopo temporale, a indicare istantaneità nel succedersi di due azioni: Intr., 55 n. 45 colpo, pugno: VII 8,32 n. 38 Letteratura italiana Einaudi 1285 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX Messer Filippo, presolo per li capelli e stracciatagli la cuffia in capo e gittato il cappuccio46 per terra e dandogli tuttavia forte, diceva: «Traditore, tu il vedrai bene ciò che questo è. Che ‘arrubinatemi’ e che ‘zanzeri’ mi mandi tu dicendo a me47? Paiot’io fanciullo da dovere essere uccellato48?» 26 E così dicendo, con le pugna, le quali aveva che parevan di ferro, tutto il viso gli ruppe49, né gli lasciò in capo capello che ben gli volesse50, e convoltolo51 per lo fango, tutti i panni in dosso gli stracciò; e sì a questo fatto si studiava52, che pure una volta53 dalla prima innanzi non gli potè Biondello dire una parola, né domandar perché 27 questo gli facesse. Aveva egli bene inteso dello ‘arrubi28 natemi’ e de’ ‘zanzeri’, ma non sapeva che ciò si volesse dire. Alla fine, avendol messer Filippo ben battuto, ed essendogli molti dintorno, alla maggior fatica del mondo gliele trasser di mano così rabbuffato54 e malconcio come era; e dissergli perché messer Filippo questo avea 25 46 Sopra la cuffia si metteva il cappuccio (Merkel). Ripetizione del pronome solita in questi momenti di alta concitazione: VI intr., 14 n. 48 preso in giro, beffato: III 3,33 n. e 5,3 n. 49 pestò, ammaccò: VII 4,29 n. 50 che stesse bene, a posto, che non fosse malconcio. È detto per ischerzo, quasi anche i capelli, stravolti com’erano, fossero arrabbiati col povero Biondello» (Fomaciari): personificazione efficace. 51 avvoltolatolo, fattolo rotolare: Inf., XXI 46: «e tornò su convolto»; Sacchetti, CLX: «convolta nel fango». 52 e tanto s’affannava, s’adoperava a far questo: IX 6,9; Fiammetta, VI 1715: «chi di consigliare s’affretta, si studia di pentere»; Sacchetti, XLVIII: «studia il fante che selli le bestie». 53 una sola volta. 54 scompigliato; come Calandrino uscito dalle mani di Monna Tessa (IX 5,65; e cfr. II 8,22 n.). 47 Letteratura italiana Einaudi 1286 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 29 30 31 32 33 fatto, riprendendolo di ciò che mandato gli avea dicendo, e dicendogli ch’egli doveva bene oggimai55 cognoscer messer Filippo e che egli non era uomo da motteggiar con lui. Biondello piagnendo si scusava e diceva che mai a messer Filippo non aveva mandato per vino. Ma poi che un poco si fu rimesso in assetto, tristo e dolente56 se ne tornò a casa, avvisando questa essere stata opera di Ciacco. E poi che dopo molti dì, partiti i lividori del viso, cominciò di casa ad uscire, avvenne che Ciacco il trovò, e ridendo il domandò: «Biondello, chente57 ti parve il vino di messer Filippo?» Rispose Biondello: «Tali fosser parute a te le lamprede di messer Corso!» Allora disse Ciacco: «A te sta58 oramai: qualora tu mi vuogli così ben dare da mangiar come facesti, io darò a te così ben da bere come avesti». Biondello, che conoscea che contro a Ciacco egli poteva più aver mala voglia che opera59, pregò Iddio della pace sua60, e da indi innanzi si guardò di mai più non beffarlo. - 55 ormai. Accoppiamento di aggettivi amato dal B. in situazioni simili: IX 7,13 n. 57 di che specie, di che sapore. La domanda ripete puntualmente e in tono canzonatorio quella di Biondello (12 n.). 58 Sta in te, Dipende da te: V 4,10 n. 59 poteva più avere desiderio di fargli del male che farglielo veramente. 60 Solita forma di saluto (Inf. V 92; Purg., XXI 13): «ma dopo quel che è successo, ci si vede il barlume di un sorriso» (Momigliano). 56 Letteratura italiana Einaudi 1287 NOVELLA NONA 1 Due giovani domandano consiglio a Salamone, l’uno come possa essere amato, l’altro come gastigare debba la moglie ritrosa: all’un risponde che ami, all’altro che vada al Ponte all’Oca1. 2 Niuno altro che la reina, volendo il privilegio servare a Dioneo, restava a dover novellare, la qual, poi che le donne ebbero assai riso dello sventurato Biondello, lieta cominciò così a parlare: – Amabili donne, se con sana mente sarà riguardato2 l’ordine delle cose, assai leggiermente si conoscerà tutta la universal moltitudine delle femine dalla natura e da’ costumi e dalle leggi essere agli uomini sottomessa, e se- 3 1 Alcuni nomi e alcuni particolari topografici hanno fatto insistentemente parlare per questa novella di un’origine orientale. Nel fatto poi soltanto il Clouston (Flowers from a Persian Garden, London 18942, p. 214) ha citato una leggenda rabbinica che tramanda un consiglio di Salomone simile a quello dato in questa novella a Giosefo: ma non ha fornito la minima indicazione del testo o della fonte, e quindi della cronologia. Qualche vago riscontro si può trovare se mai in raccolte relativamente recenti: per es. nelle Mille e una notte (Prologo: Storia del bue e dell’asino) o nei simili apologhi indiani (cfr. J. JACOBS, in Barlaam and Josaphat cit., pp. CXXIX sgg.). Ma il tema, almeno per i modi da adoperare con le mogli bisbetiche, doveva essere fin da quei secoli largamente diffuso - come già in qualche modo si è accennato a proposito della IX 7 (e cfr. qui, 8 n.) - in Oriente e Occidente (Thompson e Rotunda, J 21.16, T 252.2; Sacchetti, LXXXV e LXXXVI; Pecorone, V 2 ecc.). 2 Purg., VI 36: «Se ben si guarda con la mente sana». Letteratura italiana Einaudi 1288 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 4 5 condo la discrezion3 di quegli convenirsi reggere e governare; e per ciò ciascuna che quiete, consolazione e riposo vuole con quegli uomini avere a’ quali s’appartiene4, dee essere5 umile, paziente e ubidiente, oltre all’essere onesta: il che è sommo e spezial tesoro di ciascuna savia. E quando a questo le leggi, le quali il ben comune riguardano in tutte le cose, non ci ammaestrassono, e l’usanza o costume che vogliam dire, le cui forze son grandissime e reverende, la natura assai apertamente cel mostra, la quale ci ha fatte ne’ corpi dilicate e morbide, negli animi timide e paurose6, nelle menti benigne e pietose, e hacci date le corporali forze leggieri, le voci piacevoli e i movimenti de’ membri soavi: cose tutte testificanti7 noi avere dell’altrui governo bisogno. E chi ha bisogno d’essere aiutato e governato ogni ragion vuol lui dovere essere ubidiente e subietto e reverente all’aiutatore e al governator suo8. E cui abbiam noi governatori e aiutatori, se non gli uomini? Dunque agli uomini dob- 3 discernimento, giudizio, senno: cfr. Proemio, 3 n.; IX concl., 4; Convivio, I XI 3. Tutto questo ragionamento di Emilia riprende e sviluppa - fino a riprese verbali - quanto già Filomena e Elissa avevano affermato nell’Intr., 73 sgg. Il M. segna a margine tutta la pagina (A m a b i l i ... s p a v e n t i, 19) e chiosa «Nota bene». 4 é in rapporto di dipendenza. 5 conviene essere. Facile anacoluto dovuto probabilmente al fatto che il B. scrivendo a c i a s c u n a pensava di continuare con un c o n v i e n e, si c o n v i e n e. 6 Intr., 75: «Noi siamo mobili, riottose, sospettose, pusillanime e paurose»: e cfr. n. e IV 2,32 n. Cfr. anche per la frase seguente Esposizioni, II litt. 79-80: «l’atto donnesco ... dee essere soave e riposato ... la voce piacevole». 7 attestanti, che testimoniano. 8 Periodo costruito sull’anticipazione di un dimostrativo superfluo (cfr. Mussafia, pp. 452 sgg.) e su studiati parallelismi. Letteratura italiana Einaudi 1289 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 6 7 8 biamo, sommamente onorandogli, soggiacere; e qual da questo si parte9, estimo che degnissima sia non solamente di riprension grave, ma d’aspro gastigamento10. E a così fatta considerazione, come che altra volta avuta l’abbia, pur poco fa mi ricondusse ciò che Pampinea della ritrosa moglie di Talano raccontò11, alla quale Iddio quel gastigamento mandò che il marito dare non aveva saputo; e però nel mio giudicio cape12 tutte quelle esser degne, come già dissi, di rigido e aspro gastigamento, che dall’esser piacevoli, benivole e pieghevoli13, come la natura, l’usanza e le leggi voglion, si partono. Per che m’aggrada di raccontarvi un consiglio renduto14 da Salamone, sì come utile medicina a guerire quelle che così son fatte da cotal male. Il quale niuna, che di tal medicina degna non sia, reputi ciò15 esser detto per lei, come che gli uomini un cotal proverbio usino: «Buon cavallo e mal cavallo vuole sprone, e buona femina e mala femina vuol bastone16». Le quali parole chi volesse sol- 9 chi si allontana da questo, chi fa altrimenti: cfr. Amorosa Visione, XXXIII 20-21. 10 Nel solito senso aspro e violento: I 1,45 n.; VII 8,47 n. 11 Cfr. IX 7. 12 il mio giudizio è, io giudico: VI 6,5 n. 13 Due aggettivi rimasti come sopra (3 «paziente e ubidente»): cfr. VI 10,17 n. 14 dato: Inf., XXIII 34: «tal consiglio rendere». 15 Nota il passaggio improvviso al neutro (c i ò) dal maschile ( i l q u a l e c o n s i g l i o ) in questo periodo anch’esso costruito su di una anticipazione (cfr. Mussafia, p. 453). 16 Proverbio assai diffuso e ripetuto anche nella letteratura del tempo con minime varianti (cfr. per es. Sacchetti, LXXXVI; Paolo da Certaldo, n. 209: «Buon cavallo e mal cavallo vuole sprone; buona donna e mala donna vuol signore e tale bastone»; NOVATI, Serie alfabetiche proverbiali cit., II, p. 129; GIUSTI, Raccolta cit., p. 339 ecc.). E nota la paratassi, i ritmi scanditi, le rime solite in questi casi. «Sì, ma non di legno» (M.). Letteratura italiana Einaudi 1290 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 9 10 lazzevolmente17 interpretare, di leggieri si concederebbe da tutte così esser vero; ma pur vogliendole moralmente intendere, dico che è da concedere. Son naturalmente le femine tutte labili e inchinevoli18, e per ciò a correggere la iniquità di quelle che troppo fuori de’termini posti loro si lasciano andare, si conviene il bastone che le punisca; e a sostentar la virtù dell’altre che trascorrere non si lascino, si conviene il bastone che le sostenga e che le spaventi19. Ma, lasciando ora stare il predicare, a quel venendo che di dire ho nello animo, dico Che, essendo già quasi per tutto il mondo l’altissima fama del miracoloso senno di Salamone20 discorsa per l’universo21, e il suo essere di quello liberalissimo mostratore22 a chiunque per esperienzia ne voleva certezza, molti di diverse parti del mondo a lui per loro strettissimi e ardui bisogni23 con correvano per consiglio; e tra gli altri che a ciò andavano, si partì un giova- 17 scherzosamente, giocosamente. facili a errare e a lasciarsi trascinare dalla passione: Trattatello, I 217: «li prelati ... nella cui custodia sono commesse l’anime labili»; e cfr. IV 2,41; VII 3,22. «Deh, nota qui» (M.). 19 Questo excursus, fondamentalmente antifemminile, prelude in qualche modo alle grandi pagine che il B. scriverà sull’argomento: al Corbaccio, al Trattatello (I 46 sgg.), al De casibus (per es. VIII 23, IX 3 ecc.). 20 Le due forme S a l o m o n e e S a l a m o n e (assimilazione progressiva, con paraetimologia) si alternano correntemente (cfr. qui 7,14; e VI 8,10; VI 10,16). 21 sparsa, diffusa fra tutti, in tutto il mondo: Intr., 29 n. L’inizio solenne ricorda quello della I 7,5: «Sì come chiarissima fama quasi per tutto il mondo suona ...» 22 e come egli liberalmente faceva parte del ..., mostrava il suo senno. 23 problemi preoccupanti e ardui a risolversi. 18 Letteratura italiana Einaudi 1291 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX ne, il cui nome fu Melisso24, nobile e ricco molto, della città di Laiazzo25, là onde egli era e dove egli abitava. E verso Ierusalem cavalcando, avvenne che uscendo d’Antioccia26 con un altro giovane chiamato Giosefo27, il qual quel medesimo cammin teneva che faceva esso, cavalcò per alquanto spazio, e, come costume è de’ camminan12 ti28, con lui cominciò ad entrare in ragionamento. Avendo Melisso già da Giosefo di sua condizione29 e donde fosse saputo, dove egli andasse e per che il domandò; al quale Giosefo disse che a Salamone andava, per aver consiglio da lui che via tener dovesse con una sua moglie più che altra femina ritrosa e perversa30, la quale egli né con prieghi né con lusinghe né in alcuna altra guisa dalle sue ritrosie ritrar poteva. E appresso lui similmente, donde fosse e dove andasse e per che, domandò. Al qua13 le Melisso rispose: «Io son di Laiazzo, e sì come tu hai una disgrazia, così n’ho io un’altra: io sono ricco giovane e spendo il mio in mettere tavola31 e onorare i miei cittadini, ed è nuova32 e strana cosa a pensare che per tutto 11 24 Nome di un filosofo greco già esaltato dal B.: cfr. Amorosa Visione, IV 47 sgg. e comm. Il nome ricorreva anche per il filosofo distratto rimproverato da una donna in un exemplum diffusissimo (cfr. per es. Novellino, XXXVIII). 25 Città della Piccola Armenia, citata nella V 7,36 (cfr. n.). 26 Forma popolaresca per Antiochia. 27 Forma che si alterna con Giuseppe, Gioseppo, Giuseppo (Corbaccio, 444). 28 viandanti: Intr., 4. 29 «Non vuol dire in questo luogo la nascita e il grado, ma abbraccia largamente l’essere e lo stato di una persona» (Fornaciari). Cfr. II 6,21; Purg., V 30. 30 scontrosa e cattiva. Come la moglie di Talano: IX 7,4 n. 31 dar conviti: VI 9,5 n. E per o n o r a r e II 6,73 n. e II 7,113 n. 32 singolare. Letteratura italiana Einaudi 1292 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 14 15 16 questo io non posso trovare uom che ben mi voglia; e per ciò io vado dove tu vai, per aver consigli come addivenir possa che io amato sia. Camminarono adunque i due compagni insieme, e in Jerusalem pervenuti per introdotto d’uno de’ baroni33 di Salamone, davanti da34 lui furon messi, al qual brievemente Melisso disse la sua bisogna. A cui Salamone rispose: «Ama». E detto questo prestamente Melisso fu messo fuori, e Giosefo disse quello per che v’era. Al quale Salamone null’altro rispose, se non: «Va al Ponte all’Oca»; il che detto, similmente Giosefo fu senza indugio dalla presenza del re levato, e ritrovò Melisso il quale aspettava, e dissegli ciò che per risposta avea avuto. Li quali a queste parole pensando e non potendo d’esse comprendere né intendimento né frutto35 alcuno per la loro bisogna, quasi scornati, a ritornarsi indietro entrarono in cammino36. E poi che alquante giornate camminati furono37, pervennero ad un fiume sopra il quale era un bel ponte; e per ciò che una gran carovana di some sopra muli e sopra cavalli passavano, gli38 convenne lor sofferir di passar39 tanto che quelle passate fossero. Ed essendo già quasi che tutte passate, per ventura 33 su presentazione, per mediazione (III 7,77 n.) d’uno dei cortigiani: IV 4,26 n. 34 davanti a: I 7,10 n. 35 né significato, senso (Purg., XXVIII 60), né utilità. 36 Cfr. VII intr., 4 n.; IX 4,9 n. 37 Meno comune l’ausiliare essere con camminare, ma cfr., nel D. stesso, V 3,10 n. 38 È com’è noto, nell’italiano antico forma corrente per il dativo plurale (Rohlfs, 463): cfr. X 7,46 n. 39 attendere a passare: Purg., XXXI 10. Letteratura italiana Einaudi 1293 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX v’ebbe40 un mulo il quale adombrò, sì come sovente gli veggiam fare, né volea per alcuna maniera avanti passare; per la qual cosa un mulattiere presa una stecca41, prima assai temperata mente lo ‘ncominciò a battere perché passasse. Ma il mulo ora da questa parte della via e ora da quella attraversandosi42, e talvolta indietro tor- 18 nando, per niun partito43 passar volea; per la qual cosa il mulattiere oltre modo adirato gl’incominciò con la stecca a dare i maggiori colpi del mondo, ora nella testa e ora nei fianchi e ora sopra la groppa; ma tutto era nulla44. 19 Per che Melisso e Giosefo, li quali questa cosa stavano a vedere, sovente dicevano al mulattiere: «Deh! cattivo, che farai? Vuoil tu uccidere? perché non t’ingegni tu di menarlo bene e pianamente45? Egli verrà più tosto che a bastonarlo come tu fai». A’quali il mulattiere rispose: «Voi conoscete i vostri 20 cavalli e io conosco il mio mulo; lasciate far me con lui.E questo detto rincominciò a bastonarlo, e tante d’una parte e d’altra ne gli diè, che il mulo passò avanti, sì che il mulattiere vinse la pruova46». 21 Essendo adunque i due giovani per partirsi, domandò Giosefo un buono uomo, il quale a capo del 17 40 vi fu: Intr., 15 n. bastone, legno. ponendosi di traverso, piegando: Sacchetti, LXXIV: «questo cavallo ... andava aizzato e intraversando». 43 in nessun modo: V 3,6 n. 44 ma tutti i tentativi non servivano a nulla: II 1,19 n. 45 con garbo, con le buone: I 4,17 n. 46 riuscì nell’intento, la vinse: Inf., VIII 122: «Non sbigottir, ch’io vincerò la prova». 41 42 Letteratura italiana Einaudi 1294 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 22 23 24 25 ponte sedeva, come quivi47 si chiamasse. Al quale il buono uomo rispose: «Messere, qui si chiama il Ponte all’oca». Il che come Giosefo ebbe udito, così si ricordò delle parole di Salamone, e disse verso Melisso: «Or ti dico io, compagno, che il consiglio datomi da Salamone potrebbe esser buono e vero, per ciò che assai manifestamente conosco che io non sapeva battere la donna mia, ma questo mulattiere m’ha mostrato quello che io abbia a fare». Quindi, dopo alquanti dì divenuti48 a Antiocia, ritenne Giosefo Melisso seco a riposarsi alcun dì; ed essendo assai ferialmente49 dalla donna ricevuto, le disse che così facesse far da cena come Melisso divisasse50; il quale, poi51 vide che a Giosefo piaceva, in poche parole se ne dilivrò52. La donna, sì come per lo passato era usata, non come Melisso divisato avea, ma quasi tutto il contrario fece. Il che Giosefo vedendo, a turbato disse: «Non ti fu egli detto in che maniera tu facessi questa cena fare?» La donna, rivoltasi con orgoglio53, disse: - Ora che vuol dir questo? deh! ché non ceni, se tu vuoi cenare? Se mi fu detto altramenti, a me parve da far così; se ti piace, sì ti piaccia; se non, sì te ne sta54». 47 questo luogo: e così subito dopo «qui si chiama»: cfr. II 3,27 n.; VI concl., 18. Vari esempi di quest’uso ha raccolto e discusso G. VANDELLI, Di un antico uso sintattico ecc., in «Studi Danteschi», XIII, 1928, pp. 65 sgg. 48 pervenuti, giunti: V 9,9 n. 49 freddamente: è il contrario di «festosamente»: cfr. Fiammetta, V 31,7 «di feriali vestimenti vestita», cioè non festivi. 50 disponesse, ordinasse: I 5,10 n. 51 poi che. 52 sbrigò: IV 7,2 n. 53 arroganza: Par. VI 49. 54 astienitene, fanne a meno: cioè non mangiare: VIII 9,95. Letteratura italiana Einaudi 1295 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 26 27 28 29 30 Maravigliossi Melisso della risposta della donna, e biasimolla assai. Giosefo, udendo questo, disse: «Donna, ancor se’ tu quel che tu suogli; ma credimi che io ti farò mutar modo»; e a Melisso rivolto disse: «Amico, tosto vedremo chente sia stato il consiglio di Salamone; ma io ti priego non ti sia grave lo stare a vedere, e di reputare per un giuco55 quello che io farò. E acciò che tu non m’impedischi56, ricorditi della risposta che ci fece il mulattiere quando del suo mulo c’increbbe57». Al quale Melisso disse: «Io sono in casa tua, dove dal tuo piacere io non intendo di mutarmi58». Giosefo, trovato un baston tondo d’un querciuolo giovane, se n’andò in camera, dove la donna, per istizza da tavola levatasi, brontolando se n’era andata; e presala per le treccie, la si gittò a’ piedi e cominciolla fieramente a battere con questo bastone. La donna cominciò prima a gridare e poi a minacciare; ma veggendo che per tutto ciò Giosefo non ristava, già tutta rotta59 cominciò a chiedere mercé per Dio che egli non l’uccidesse, dicendo oltre a ciò mai dal suo piacer non partirsi60. Giosefo per tutto questo non rifinava61, anzi con più furia l’una volta che l’altra, or per lo costato, or per l’anche e ora su per 55 Per questa forma cfr. VIII 8,2 5 n. e anche Proemio, 12 n. Per questa forma del congiuntivo presente cfr. II 7,100 n. avemmo pietà: cfr. II 7,114 n. 58 io non voglio allontanarmi: III 7,10 n.; Purg., XXV 98. 59 pesta: VII 4,29 n. 60 che mai si sarebbe allontanata da ciò che a lui piacesse, che lo avrebbe sempre accontentato. Riecheggia la frase di Melisso. 61 cessava: I 2,10 n.; V 3,30 n. «Dalle a questa troia, dalle» (M.). 56 57 Letteratura italiana Einaudi 1296 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 31 32 33 le spalle, battendola forte, l’andava le costure ritrovando62, né prima ristette che egli fu stanco63; e in brieve niuno osso né alcuna parte rimase nel dosso della buona donna, che macerata64 non fosse. E questo fatto, ne venne a Melisso e dissegli: «Doman vedrem che pruova avrà fatto il consiglio del ‘Va al Ponte all’Oca’; e riposatosi alquanto e poi lavatesi le mani, con Melisso cenò, e quando fu tempo, s’andarono a diposare65. La donna cattivella66 a gran fatica si levò di terra, e in sul letto si gittò, dove, come potè il meglio, riposatasi, la mattina vegnente per tempissimo levatasi, fe’domandar Giosefo quello che voleva si facesse da desinare. Egli, di ciò insieme ridendosi con Melisso, il divisò67, e poi, quando fu ora, tornati, ottimamente ogni cosa e secondo 62 Cioè la picchiava di santa ragione. «Tolta la metafora dai sarti che, dopo cucito la costura, la picchiano col ferro caldo per ispianare il rilevato di essa» (C.): Rime, CXX 3: «A dover ritrovarti le costure»; Pulci, Morgante, XIX 53: «Per modo le costure m’ha trovate | Ch’e’ non sarebbe cattivo sartore; | E m’ha tutte le reni fracassate». 63 «Dalle, dalle» (M.). 64 pesta, rotta: come la povera Tessa (VIII 3,52 n.). Cfr. NOVATI, Serie alfabetiche cit., II, p. 129. 65 riposare, sostare: cfr. Sabadino degli Arienti, Porretane, Bari 1914, p. 112: «Quivi dunque disposato a l’ospizio» (e anche p. 322). Secondo il GDLI, il vocabolo sarebbe da di intensivo e posare costruito su riposare, con scambio di prefisso. Non si può escludere contaminazione fra diportare, diporre e riposare, o assimilazione adriposare addiposare, favorita dal precedente a n d a r o n o, o scambio di prefisso come per esempio in dibassamento per ribassamento. 66 miserella: I 1,53 n. 67 lo ordinò: cfr. 23 n. Letteratura italiana Einaudi 1297 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX l’ordine dato trovaron fatta; per la qual cosa il consiglio prima da loro male inteso sommamente lodarono. E dopo alquanti dì partitosi Melisso da Giosefo e 34 tornato a casa sua, ad alcun, che savio uomo era, disse ciò che da Salamone avuto avea; il quale gli disse: «Niuno più vero consiglio né migliore ti potea dare. Tu sai che tu non ami persona, e gli onori e’servigi li quali tu fai, gli fai, non per amore che tu ad altrui porti, ma per pompa68. Ama adunque, come Salamon ti disse, e sarai amato69». 35 Così adunque fu gastigata la ritrosa, e il giovane amando fu amato.– 68 per vanagloria, per ostentazione: II 3,11; G. Villani, XII 3: «Il duca ne montò in grande pompa». 69 Sentenza diffusissima e nei classici e nei moralisti medievali: Ovidio, Ars Am., II 107; Seneca, Ep. ad Luc., IX 4: «Si vis amari, ama»; Marziale, VII 2; Albertano da Brescia, Trattati morali volg., Bologna 1873, p. 256; NOVAN, Serie al alfabetiche cit., II, p. 125; Fr. da Barberino, Documenti cit., II, p. 209: «Chi vuol essere amato convien che ami»; Paolo da Certaldo, n. 75: «Se tu vuoli essere amato, sì ama»; Alberti, Rime, XVII 202 sg.; Poliziano, Rime, CXIII 18. E cfr. Speculum Historiale, VI 106; Burley, XC. Letteratura italiana Einaudi 1298 NOVELLA DECIMA 1 Donno Gianni ad istanzia di compar Pietro fa lo ’ncantesimo per far diventar la moglie una cavalla; e quando viene ad appiccar la coda, compar Pietro, dicendo che non vi voleva coda, guasta tutto lo ’ncantamento1. 2 Questa novella dalla reina detta diede un poco da mormorare alle donne e da ridere a’ giovani; ma poi che ristate2 furono, Dioneo così cominciò a parlare. Leggiadre donne, infra molte bianche colombe aggiugne più di bellezza uno nero corvo, che non farebbe un candido cigno; e così tra molti savi alcuna volta un 3 1 È citato come antecedente diretto di questa novella un fabliau, De la pulcelle qui vouloit voler (Recueil général cit., IV, 108; già attribuito a Rutebeuf), che però si svolge attraverso una successione di circostanze diverse. Trasformazioni simili, e proprio di un uomo in asino, avevano del resto offerto ampio soggetto anche a uno scrittore amato dal B., Apuleio, e ai Mitografi vaticani da lui largamente utilizzati (III, IV n. 7); e il Gröber (p. 77) osserva che la novella «s’appoggia sulla credenza della trasformazione dell’uomo in animale di cui si parla nel Talmud e nell’Evangelo apocrifo dell’infanzia di Gesù». Racconti del genere ripetevano anche gli scrittori religiosi a vario fine: proprio di metamorfosi di una fanciulla in cavalla narrano variamente per es. le Vitae Patrum (Patrologia lat., XXI 451 sgg., LXXIII 1110 sgg., LXXIV 354 sgg.), Vincenzo di Beauvais (Speculum bistoriale, XVIII 70), Jacques de Vitry (Exempla, n. 262), Etienne de Bourbon (IV 1) ecc., e in fine il Passavanti (Specchio, pp. 370 sgg.). Potrebbe questo essere un altro esempio di ironizzazione novellistica licenziosa di un racconto devoto (e per la popolarità del tema cfr. Thompson e Rotunda, D 130 sgg., 620 sgg.; Rotunda, K 1315-3.2*). 2 Accordato a senso a m o r m o r a z i o n i e r i s a t e sottintese nel periodo precedente: o alle sole d o n n e. Letteratura italiana Einaudi 1299 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 4 5 6 men savio è non solamente un accrescere splendore e bellezza alla lor maturità, ma ancora diletto e sollazzo. Per la qual cosa, essendo voi tutte discretissime e moderate, io, il qual sento anzi dello scemo che no3, faccendo la vostra virtù più lucente col mio difetto, più vi debbo esser caro che se con più valore quella facessi divenir più oscura; e per conseguente più largo arbitrio debbo avere in dimostrarmi tal qual io sono, e più pazientemente dee da voi esser sostenuto4 che non dovrebbe se io più savio fossi, quel dicendo che io dirò5. Dirovvi adunque una novella non troppo lunga, nella quale comprenderete quanto diligentemente si convengano osservare le cose imposte da coloro che alcuna cosa per forza d’incantamento fanno, e quanto piccol fallo 6 in quelle commesso ogni cosa guasti dallo incantator fatta. L’altr’anno fu a Barletta7 un prete, chiamato donno Gianni di Barolo8, il qual, per ciò che povera chiesa avea, per sostentar la vita sua9, con una cavalla cominciò 3 ho piuttosto poco senno, poco giudizio: IV 2,14 n. essere tollerato: I 1,26 n. quello che io parlando dirò. 6 Purg., III 9: «Come t’è picciol fallo». 7 È questa l’unica novella pugliese del D. (oltre i cenni alla stessa regione e alla stessa zona nella II 4,28 sgg.). A Barletta proprio la compagnia dei Bardi aveva una delle succursali (e così quella del Peruzzi: cfr. A. SAPORI, Studi cit., pp. 459 sgg., 479 sgg., 692): era città molto attiva commercialmente e frequentata dai mercanti fiorentini (cfr. R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze cit., VI, pp. 810 sgg.). Di Barletta e delle sue fazioni il B. mostra di aver buone conoscenze in una lettera a un amico che in quella città aveva preso moglie (Epistole, IV; e cfr. Comedia, XXVI 70, dove si parla di usi pugliesi; e qui II 6,18 per i santuari pugliesi). 8 D o n n o è forma meridionale per don (Inf., XXII 88); Barolo è forma latina di Barletta (Epistole, IV). 9 Quasi una formula: per es. VIII 10,42 n. 4 5 Letteratura italiana Einaudi 1300 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 7 8 9 10 a portar mercatantia in qua e in là per le fiere di Puglia e a comperare e a vendere. E così andando, prese stretta dimestichezza con uno che si chiamava Pietro da Tresanti10, che quello medesimo mestiere con uno suo asino faceva, e in segno d’amorevolezza e d’amistà, alla guisa pugliese11, nol chiamava se non compar Pietro; e quante volte in Barletta arrivava, sempre alla chiesa sua nel menava, e quivi il teneva seco ad albergo, e come poteva l’onorava. Compar Pietro d’altra parte, essendo poverissimo e avendo una piccola casetta in Tresanti, appena bastevole12 a lui e ad una sua giovane e bella moglie e all’asino suo, quante volte donno Gianni in Tresanti capitava tante sel menava a casa, e come poteva, in riconoscimento dell’onor che da lui13 in Barletta riceveva, l’onorava14. Ma pure, al fatto dello albergo15, non avendo compar Pietro se non un piccol letticello, nel quale con la sua bella moglie dormiva, onorar nol poteva come voleva, ma conveniva che, essendo in una sua stalletta allato all’asino suo allogata la cavalla di donno Gianni, che egli allato a lei sopra alquanto di paglia si giacesse. La donna, sappiendo l’onor che il prete al marito faceva a Barletta, era più volte, quando il prete vi veniva, volutasene andare a dormire con una sua vicina, che avea nome Zi- 10 A nord di Barletta (lat. Trium Sanctorum). secondo l’uso pugliese. 12 sufficiente, che bastava, con complemento di comodo: cfr. p. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 279. 13 in riconoscimento di ciò che da lui, brachilogico. 14 trattava, ospitava onorevolmente: II 6,73 n. 15 quanto al dargli alloggio. 11 Letteratura italiana Einaudi 1301 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX ta Carapresa di Giudice Leo16, acciò che il prete col marito dormisse nel letto, e avevalo molte volte al prete 11 detto, ma egli non aveva mai voluto. E tra l’altre volte, una le disse: «Comar Gemmata17, non ti tribolar di me, ché io sto, bene, per ciò che quando mi piace io fo questa mia cavalla diventare una bella zitella18 e stommi con essa, e poi quando voglio la fo diventar cavalla, e per ciò non mi partirei da lei». 12 La giovane si maravigliò e credettelo, e al marito il disse, aggiugnendo: «Se egli è così tuo19 come tu di’, ché non ti fai tu insegnare quello incantesimo, ché tu possa far cavalla di me e fare i fatti tuoi con l’asino e con la cavalla, e guadagneremo due cotanti20, e quando a casa fossimo tornati, mi potresti rifar femina come io sono». Compar Pietro, che era anzi grossetto21 uom che no, 13 credette questo fatto e accordossi al consiglio, e come meglio seppe, cominciò a sollicitar donno Gianni, che questa cosa gli dovesse insegnare. Donno Gianni s’ingegnò assai di trarre costui di questa sciocchezza, ma pur non potendo, disse: «Ecco, poi che voi pur volete, do- 16 Anche Zita, contro l’interpretazione data finora (giovane sposa) deve essere nome proprio: ricorre con gli altri nel Codice diplomatico barese (TORRACCA, art. cit., p. 158) e nell’epistola napoletana (Zita Cubitosa, Zita Burnacchia). Carapresa e Giudice Leo di Bitonto figurano anche nel D. (V 2,21 n.) e nei Registri di Cancelleria (III, p. 185). 17 Il Torraca nel Codice diplomatico barese ha trovato anche, umoristica coincidenza: «tra le molte Gemme o Gemmate ... una Gemma de coda de asino». 18 ragazza, fanciulla. 19 Se è così tuo amico, Se ti vuol tanto bene: cfr. IX 3,15 n. 20 due volte tanto, il doppio. 21 sempliciotto: III 8,5 n.; VIII 9,71 n. Letteratura italiana Einaudi 1302 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 14 15 16 17 mattina ci leveremo, come noi sogliamo, anzi dì, e io vi mosterrò come si fa. E’ il vero che quello che più è malagevole in questa cosa si è l’appiccar la coda, come tu vedrai». Compar Pietro e comar Gemmata, a pena avendo la notte dormito (con tanto desidero questo fatto aspettavano), come vicino a dì fu, si levarono e chiamarono donno Gianni, il quale, in camicia levatosi, venne nella cameretta di compar Pietro e disse: «Io non so al mondo persona a cui io questo facessi, se non a voi, e per ciò, poi che vi pur piace, io il farò; vero è che far vi conviene quello che io vi dirò, se voi volete che venga fatto». Costor dissero di far ciò che egli dicesse. Per che donno Gianni, preso un lume, il pose in mano a compar Pietro e dissegli: «Guata ben come io farò, e che tu tenghi22 bene a men te come io dirò, e guardati, quanto tu hai caro di non guastare ogni cosa, che per cosa che tu oda o veggia, tu non dica una parola sola23; e priega Iddio che la coda s’appicchi bene». Compar Pietro, preso il lume, disse che ben lo farebbe. Appresso donno Gianni fece spogliare ignudanata24 comar Gemmata, e fecela stare con le mani e co’ piedi in terra, a guisa che stanno le cavalle, ammaestrandola similmente che di cosa che avvenisse motto non facesse; e con le mani cominciandole a toccare il viso e la testa, co- 22 Per queste forme del congiuntivo cfr. II 7,100 n. È uno dei precetti più correnti nella prassi degli incantesimi: così anche Bruno a Maestro Simone (VIII 9,83). 24 nuda, tutta nuda, nuda come natura la fece: Amorosa Visione, XXIV 58; Fioretti di San Francesco, cap. XXX, passim. Su questo tipo di forma rafforzata: L. SPITZER, Stilstudien, München 1928, I 15. 23 Letteratura italiana Einaudi 1303 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX minciò a dire: «Questa sia bella testa di cavalla25»; e toccandole i capelli, disse: «Questi sieno belli crini di cavalla»; e poi toccandole le braccia, disse: «E queste sieno 18 belle gambe e belli piedi di cavalla»; poi toccandole il petto e trovandolo sodo e tondo, risvegliandosi tale che non era chiamato e su levandosi26, disse: «E questo sia bel petto di cavalla»; e così fece alla schiena e al ventre e alle groppe e alle coscie e alle gambe. E ultimamente, niuna cosa restandogli a fare se non la coda, levata la camicia e preso il piuolo col quale egli piantava gli uomini27 e prestamente nel solco per ciò fatto messolo, disse: «E questa sia bella coda28 di cavalla». 19 Compar Pietro, che attentamente infino allora aveva ogni cosa guardata, veggendo questa ultima e non parendonegli bene, disse: «O donno Gianni, io non vi voglio coda, io non vi voglio coda». Era già l’umido radicale29, per lo quale tutte le piante 20 s’appiccano30, venuto, quando donno Gianni tiratolo in- 25 Come altre volte nel D. (11 2,7-8 nn.; VII 2,27 n.), queste formule sono composte nei ritmi dell’endecasillabo o di altri versi, marcati dall’anafora e dall’omeoteleuto (e cfr. T. CASINI, Scongiuro e poesia cit.). 26 Cfr. VIII 7,67 n. 27 Espressione allusiva che può ricordare la risposta «Io pianto l’uomo» di Cratete (attribuita da altri a Diogene), mentre usava con la sposa, a chi gli chiedeva che stesse facendo (L. GUICCIARDINI, L’hore di ricreatione, Venezia 1592, p. 20: cfr. Apuleio, Florida, XIV; Diogene Laerzio, VI 97; e anche Agostino, De civitate Dei, XIV 20; Burley, L). Termine equivoco corrente era p i v u o l o o p i u o l o (cfr. Canti carnascialeschi cit., glossario). 28 Tradizionale termine equivoco: III 1,20 n. 29 «Il B. torce a significato scherzoso un’espressione della lingua scientifica del tempo (per es. cfr. Convivio, IV XXIII 7; Sacchetti, Sposizioni vangeli, p. 213)» (Petronio). Cfr. specie Alberto Magno, De morte et vita, tr. 2 c. 7, De nutrimento, tr. 1 c. 5. 30 attecchiscono: Inf., XXIX 129. Letteratura italiana Einaudi 1304 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 21 22 23 24 dietro, disse: «Ohimè, compar Pietro, che hai tu fatto? non ti diss’io, che tu non facessi motto di cosa che tu vedessi? La cavalla era per esser fatta, ma tu favellando hai guasta ogni cosa, né più ci ha modo di poterla rifare oggimai». Compar Pietro disse: «Bene sta, io non vi voleva quella coda io; perché non diciavate voi a me Falla tu? e anche l’appiccavate troppo bassa». Disse donno Gianni: «Perché tu non l’avresti per la prima volta saputa appiccar sì com’io». La giovane, queste parole udendo, levatasi in piè, di buona fè31 disse al marito: «Bestia che tu se’, perché hai tu guasti li tuoi fatti e’ miei? qual cavalla vedestù mai senza coda? Se32 m’aiuti Dio, tu se’ povero, ma egli sarebbe mercè33 che tu fossi molto più». Non avendo adunque più modo a dover fare della giovane cavalla34, per le parole che dette avea compar Pietro, ella dolente e malinconosa si rivestì, e compar Pietro con uno asino, come usato era, attese a fare il suo mestiere antico, e con donno Gianni insieme n’andò alla fiera di Bitonto35, né mai più di tal servigio il richiese. - 31 ingenuamente, senza malizia. Il solito s e deprecativo in locuzione augurale. sarebbe giusto o sarebbe una grazia. Parole di rimprovero che possono ricordare quelle di Peronella al marito (VII 2,14 sgg.). 34 a dover far diventare cavalla la giovane. 35 Famosa fiera, istituita nel 1316, che si svolgeva a Ognissanti, subito prima di quella di Barletta (12 novembre: cfr. G. YVER, Le commerce et les marchands dans l’Italie méridionale au XIIIe et XIVe siècle, Paris 1902, pp. 71 sgg.). Nuove larghe documentazioni dell’onomastica pugliese riflessa da «Zita Carapresa di Giudice Leo» (10) offre ora S. GENTILE, ‘Panaile’, un incompreso pugliesismo di Masuccio (con un’appendice di onomastico boccaccesca e masucciana), Bari 1978 (Scritti di Storia Patria per la Puglia. Studi e ricerche, I). Largamente diffuso era l’equivoco cavallo-donna: cfr. N. PASERO, Donne e cavalli, in Miscellanea... a A. Roncaglia, Modena 1989. 32 33 Letteratura italiana Einaudi 1305 CONCLUSIONE 1 2 3 4 Quanto di questa novella si ridesse, meglio dalle donne intesa che Dioneo non voleva, colei sel pensi che ancora ne riderà1. Ma, essendo le novelle finite e il sole già cominciando ad intiepidire, e2 la reina, conoscendo il fine della sua signoria esser venuto, in piè levatasi e trattasi la corona, quella in capo mise a Panfilo, il quale solo di così fatto onore restava ad onorare; e sorridendo disse: – Signor mio, gran carico ti resta, sì come è l’avere il mio difetto e degli altri che il luogo hanno tenuto che tu tieni, essendo tu l’ultimo, ad emendare3, di che Iddio ti presti grazia4, come a me l’ha prestato5 di farti re. – Panfilo, lietamente l’onor ricevuto, rispose: – La vostra virtù e degli altri miei sudditi farà sì che io, come gli altri sono stati, sarò da lodare -; e secondo il costume de’ suoi predecessori col siniscalco delle cose opportune avendo disposto, alle donne aspettanti si rivolse e disse: – Innamorate donne, la discrezion6 d’Emilia, nostra reina stata questo giorno, per dare alcun riposo alle vostre forze, arbitrio vi diè di ragionare quel che più vi piacesse. Per che, già riposati essendo, giudico che sia da ritornare alla legge usata; e per ciò voglio che domane cia- 1 Simile il commento alla VIII 2: cfr. VIII 3,2. Cfr. V. concl., 1: la solita congiunzione in ripresa dopo i gerundi narrativi. 3 Cioè: l’avere ad emendare il difetto di me e degli altri: Purg., VI 41. 4 Cfr. I 1,3 (proprio parole di Panfilo). 5 Il solito participio passato invariato: cfr. Intr., 35 n. 6 saggezza, senno: IX 9,3 n. 2 Letteratura italiana Einaudi 1306 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 5 6 7 scuna di voi pensi di ragionare sopra questo, cioè: d i chi liberalmente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d ’ a m o r e o d ’ a l t r a c o s a . Queste cose e dicendo e faccendo7, senza dubbio niuno gli animi vostri ben disposti a valorosamente adoperare accenderà; ché la vita nostra, che altro che brieve esser non puote nel mortal corpo, si perpetuerà nella laudevole fama8; il che ciascuno che al ventre solamente, a guisa che le bestie fanno, non serve9, dee, non solamente desiderare, ma con ogni studio cercare e operare10. – La tema11 piacque alla lieta brigata, la quale con licenzia del nuovo re tutta levatasi da sedere, agli usati di letti si diede, ciascuno secondo quello a che più dal desidero era tirato; e così fecero insino all’ora della cena. Alla quale con festa venuti, e serviti diligentemente e con ordine, dopo la fine di quella si levarono a’ balli costumati12, e forse mille canzonette più sollazzevoli di parole che di canto maestrevoli13, avendo cantate, comandò il re a Neifile che una ne cantasse a suo nome14. La quale, 7 Il dire e il fare queste cose. «Nota belle parole» (M. segnando a margine tutto il periodo). «Si noti il particolare uso del gerundio a modo d’infinito sostantivato» (Marti). 8 Cfr. Epistole, XVIII: «in spem venio ... Deum ... effundere animas ... avidas ... non ambizione vel decipulis sibi honores exquirere sed laudabili exercitio ... nomen pretendere in evum longinquum»; e Petrarca, CXXVIII 97 sgg. 9 Cfr. I 2,20 n.: «più al ventre serventi a guisa d’animali bruti». 10 Pensieri ed espressioni comuni alla letteratura classica, e che il B. aveva insistentemente riaffermato nell’Amorosa Visione (particolarmente VI, XXXII ecc.). 11 Il tema; Fazio degli Uberti, Dittamondo, I 15: «e seguir oltre alla mia lunga tema». 12 consueti, abituali. 13 eccellenti, da maestro, per la melodia: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 285. 14 proprio in suo nome. Letteratura italiana Einaudi 1307 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX con voce chiara e lieta, così piacevolmente e senza indugio incominciò: 8 9 10 11 Io mi son giovinetta15, e volentieri m’allegro e canto en la stagion novella, merzé d’amore16 e de’ dolci pensieri. Io vo pe’ verdi prati riguardando i bianchi fiori e’ gialli e i vermigli le rose in su le spini17 e i bianchi gigli e tutti quanti gli vo somigliando18 al viso di colui che me amando, ha presa e terrà sempre, come quella ch’altro non ha in disio che’ suoi piaceri19. De’quali quand’io ne truovo alcun che sia, al mio parer, ben simile di lui, il colgo e bascio e parlomi con lui: e com’io so, così l’anima mia tututta20 gli apro, e ciò che ’l cor disia: quindi con altri il metto in ghirlandella21 legato co’miei crin biondi e leggieri. E quel piacer, che di natura il fiore agli occhi porge, quel simil mel dona che s’io vedessi la propia persona22 15 Dante, Rime, LXXXVII: «I’ mi son pargoletta». grazie ad amore: II concl., 15 n. 17 Forma corrente per il plurale: cfr. VII 5,47 n. 18 paragonando, assomigliando. Motivo già guinizzelliano (I’ vo’ del ver ecc.) e cavalcantiano (Fresca rosa, Beltà di donna), seppure il rapporto è capovolto: e cfr. anche Cino, Io guardo per li prati; Purg., XXVIII 44 sgg., 53 «in su i vermigli e in su i gialli». 19 Cioè ciò che egli desidera. 20 tutta intera: cfr. III concl., 14 n. 21 Rime, XCI 8; Purg., XXVII 102: «Le belle mani a farmi una ghirlanda». 22 mi dà un piacere simile a quello che proverei se vedessi la persona stessa: cfr. VIII 7,54 n. 16 Letteratura italiana Einaudi 1308 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata IX 12 10 che m’ha accesa del suo dolce amore23: quel che mi faccia più il suo odore esprimer nol potrei con la favella, ma i sospir ne son testimon veri. Li quai non escon già mai del mio petto, come dell’altre donne, aspri né gravi, ma se ne vengon fuor caldi e soavi, e al mio amor sen vanno nel cospetto: il qual come gli sente, a dar diletto di sé a me si muove e viene in quella24 ch’i’son per dir: «Deh vien, ch’i’ non disperi25». Assai fu e dal re e da tutte le donne comendata la canzonetta di Neifile; appresso alla quale, per ciò che già molta notte andata n’era26, comandò il re che ciascuno per infino al giorno s’andasse a riposare. 23 Sintagma e stilema frequente nel B. (per es. Filostrato, II 74; Teseida, II 3) di sapore ciniano (Una gentil piacevol, v. 10). 24 in quel momento, in quel punto: VII 3,30 n. 25 Anche la conclusione della gentilissima ballata è cavalcantiana (Perch’i’ no spero ...): come dantesche – oltre alcuni particolari già rilevati - sono varie note (21 e Par., XIII 36; 23-24 e Vita Nuova, XXI 4, XXVI 3 e 7; 31 e Vita Nuova, XXVI 7) e la struttura stessa: soli endecasillabi, ripresa di tre versi (ZYZ), quattro stanze di sette versi ciascuna (AB, AB; BYZ) legate dalle due rime finali comuni alla ripresa e alle stanze. Fu musicata da Domenico Ferabosco. 26 gran parte della notte era trascorsa. Letteratura italiana Einaudi 1309 DECIMA GIORNATA 1 Finisce la Nona giornata del Decameron: incomincia la Decima e ultima nella quale, sotto il reggimento di Panfilo, si ragiona di chi liberalmente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse1 intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa. 2 Ancora eran vermigli certi nuvoletti2 nell’occidente, essendo già quegli dello oriente nelle loro estremità simili ad oro lucentissimi divenuti, per li solari raggi che molto loro avvicinandosi li ferieno3, quando Panfilo levatosi, le donne e’suoi compagni fece chiamare. E venuti tutti, con loro insieme diliberato del dove andar potessero al lor diletto, con lento passo si mise innanzi, accompagnato da Filomena e da Fiammetta, tutti gli altri appresso seguendogli; e molte cose della loro futura vita insieme parlando e dicendo e rispondendo, per lungo spazio s’andaron diportando; e data una volta assai 3 1 È il grande tema della magnificenza e della magnanimità, come le più alte virtù, che domina, in continua ascesa, questa giornata (cfr. anche l’insistenza linguistica: X 1,4, 2,27; 3,5, e 31; 6,29; 7,15; 8,26; 9,20 e 39; 10,48). La quale conclude l’opera, la commedia dell’uomo, con questo trionfo, quasi una proiezione utopica, della virtù e della magnanimità su tutto e su tutti. 2 Vita Nuova, XXIII 25: «una nuvoletta avean davanti»; Petrarca, CXV 12 sg.: «A lui la faccia lagrimosa e trista | Un nuviletto intorno ricoverse». 3 li colpivano. Letteratura italiana Einaudi 1310 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 4 lunga4, cominciando il sole già troppo a riscaldare, al palagio si ritornarono. E quivi dintorno alla chiara fonte fatti risciacquare i bicchieri, chi volle alquanto bevve, e poi fra le piacevoli ombre del giardino infino ad ora di mangiare s’andarono sollazzando. E poi ch’ebber mangiato e dormito, come far soleano, dove al re piacque si ragunarono, e quivi il primo ragionamento5 comandò il re a Neifile, la quale lietamente così cominciò. 4 5 fatto un giro assai ampio: VIII 8,18 n. novella, novellare: VI concl., 17 n.; VII 5,2 n.; VII 5,2 n. Letteratura italiana Einaudi 1311 NOVELLA PRIMA 1 Un cavaliere serve al re di Spagna; pargli male esser guiderdonato, per che il re con esperienzia certissima gli mostra non esser colpa di lui, ma della sua malvagia fortuna, altamente donandogli poi1. 1 ricompensandolo poi con doni magnifici, generosi. L’episodio decisivo della novella - cioè la scelta avventurosa fra due oggetti apparentemente identici - è uno dei temi già cari alla letteratura classica (per es. Esiodo, Teogonia, vv. 528 sgg.; Igino, Poeticon Astronomicon II 15 ecc.), alla narrativa orientale (per es. Vikramacarita, Tamil, Cukasaptati, Lalitavistara: cfr. «Journal Asiatic Society», VI, 1845, pp. 289 sgg.; BENFEY, op. cit., p. 408; E. BRAUNHOLZ, Die erste nichtchristliche Parabel des Barlaam und Josapbat, Halle 1883, pp. 7 sgg.; e anche CLOUSTON, Eastern romances cit., pp. 489 sgg.), alla letteratura popolare di tutti i secoli (Thompson, L 211, J 1675.3 e Aggiunte, p. 475). Ma per parlare di antecedenti del B. bisogna riferirsi a testi medievali in cui l’episodio si precisa nella scelta fra due forzieri dal contenuto assai diverso; dalla Storia di Barlaam e Giosafat (VI: già nella red. greca del secolo IX: BRAUNHOLZ, op. cit.) tale episodio sembra poi essere ripetuto più o meno precisamente nel Ruodlieb (I. GRIMM - A. SCHMELLER, Lateinische Gedichte, Göttingen 1838, p. 127), negli Exempla di Jacques de Vitry (XLVII e anche XLII), nello Speculum bistoriale di Vincenzo di Beauvais (XV 10), nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (180), nella Summa praedicantium del Bromyard (Honor., 4), nei Gesta Romanorum e nelle varie versioni (ed. Oesterley, Berlin 1872, pp. 259 e 655 e cfr. BRAUNHOLZ, op. cit.), nell’antico romanzo francese Girart de Rossilon (ed. Mignard, Paris 1858), nel poemetto di Jean de Condé, Dis dou roi et des hermites (ed. A. Scheler, Berlin 1884), nei Contes moralisés de Nicole Bozon (ed. L. Toulmin Smith - P. Meyer, Paris 1889) ecc. Più lungo discorso e più ampia enumerazione richiederebbero tutti i racconti medievali che hanno per terna la scelta tra cose apparentemente identiche, l’una delle quali cela un tesoro: basti ricordare - come più prossimi alla cultura del B. - ancora i Gesta Romanorum (CIX), il De diversis materiis praedicabilibus di Etienne de Bourbon (ed. cit., p. 361), alcune delle Latin Stories pubblicate dal Wright (ed. cit., nn. 25, 104), il poemetto antico francese Renart le contrefait (BRAUNHOLZ, op. cit., p. 75) e soprattutto il Novellino (LXXIX: e quelle dell’ed. Biagi, CXLVII e CVXII, ed. Borghini, LXV). Simile, anche per il paragone del re con la mula, Letteratura italiana Einaudi 1312 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 2 3 4 – Grandissima grazia, onorabili donne, reputar mi debbo, che il nostro re me a tanta cosa, come è a raccontar della magnificenzia, m’abbia preposta2, la quale, come il sole è di tutto il cielo bellezza e ornamento, è chiarezza e lume di ciascuna altra virtù3. Dironne adunque una novelletta, assai leggiadra al mio parere, la quale rammemorarsi4 per certo non potrà esser se non utile. Dovete adunque sapere che, tra gli altri valorosi cavalieri che da gran tempo in qua sono stati nella nostra città, fu un di quegli e forse il più da bene, messer Ruggieri de Figiovanni5; il quale essendo e ricco e di grande una narrazione dell’Avventuroso Ciciliano (II 17; e non si dimentichino le novelle in qualche modo di analoga ispirazione già narrate dal B.: I 3 e I 7). Ma sull’enorme fortuna del tema, che s’amplia fino a Shakespeare e La Fontaine, vedi, oltre le solite opere, BRAUNHOLZ, op. cit.; SIMROK, Die Quellen des Shakespeare cit.; L. DI FRANCIA, Alcune novelle cit., 1907. Per la popolarità anche nella novellistica cfr. Thompson e Rotunda, J 260, 1675.3 e L 211. 2 mi abbia incaricata di parlar prima di tutti gli altri di una cosa così grande ...: X 5,26 n. E nota il solito plenasmo ( m e ... m’). 3 Paragone luminoso che può ricordare quello usato per «i leggiadri motti» da Pampinea (I 10,3) e da Filmena (VI 1,2). «La magnificenza è una delle virtù considerate dall’etica di Aristotile, precisamente quella che presiede all’uso munifico e ragionato delle grandi ricchezze (cfr. Dante, Convivio, IV XVII ); è dunque essenzialmente la virtù dei principi e dei potenti; essa, quando coopera con le altre virtù, le colorisce di grandezza e le illumina di splendore» (Sapegno). 4 il ricordarsi la quale, il ricordo della quale. 5 Nobile famiglia fiorentina, che aveva case e possedimenti anche a Certaldo. Un Carlo de’ Figiovanni, cui fu attribuito un volgarizzamento delle Eroidi ovidiane, scrive anzi in fronte alla sua opera: «Sovente ne’ giovanili anni essendo consueto di andare a una mia possessione a Certaldo, vicina a quella del nostro Messer Giovanni Boccaccio, più volte l’andai a visitare, il quale allora quasi negli ultimi suoi giorni quivi pacificamente si dimorava. E da lui più cose e bellissimi detti appresi ... e col suo aiuto più cose composi e tradussi ... fra le quali furono le Epistole di Ovidio» (ma per queste notizie assai dubbie cfr. E. BELLORINI, Note sulle traduzioni italiane delle Eroidi, Torino 1900, e Nota sulla traduzione delle Eroidi attribuita a Carlo Figiovanni, in Miscellanea ... D’Ancona, Firenze 1901), Letteratura italiana Einaudi 1313 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 5 6 7 animo, e veggendo che, considerata la qualità del vivere e de’ costumi di Toscana, egli, in quella dimorando, poco o niente potrebbe del suo valor dimostrare, prese per partito di volere un tempo essere appresso6 ad Anfonso re d’Ispagna7, la fama del valore del quale quella di ciascun altro signor trapassava a que’tempi8. E assai onorevolmente in arme e in cavalli e in compagnia9 a lui se n’andò in Ispagna, e graziosamente fu dal re ricevuto. Quivi adunque dimorando messer Ruggieri, e splendidamente vivendo, e in fatti d’arme maravigliose cose faccendo, assai tosto si fece per valoroso cognoscere. E essendovi già buon tempo dimorato, e molto alle maniere del re riguardando, gli parve che esso ora ad uno e ora ad un altro donasse castella e città e baronie assai poco discretamente, sì come dandole a chi nol valea10; e per ciò che a lui, che da quello che egli era si teneva, niente era donato, estimò che molto ne diminuisse la fama sua; per che di partirsi diliberò, e al re domandò commiato. Il re gliele concedette, e donogli una delle miglior mule che mai si cavalcasse e la più bella, la quale 6 decise (II 7,81 n.) di volere per qualche tempo vivere presso. Alfonso VIII di Castiglia (I:155-1214) fu celebratissimo da poeti e storici per le sue guerre contro i Mussulmani e per la sua liberalità; Dante lo esaltò «per li suoi reali benefici» accanto ad Alessandro e al Saladino (Convivio, IV XI 14). Questa alta fama diffusa proprio a Firenze e l’accenno della novellatrice a tempi assai remoti, rende più che improbabile l’ipotesi del Manni e di altri che non Alfonso VIII ma Alfonso XI (1311-50) sia presentato in questa novella. Piuttosto se mai si potrebbe pensare anche ad Alfonso X, il Savio (1221-84) che Brunetto Latini - già ambasciatore di Firenze alla sua corte nel 1260 - magnificò altamente nel Tesoretto (II). La forma del nome riflette quella provenzale (n’Amfos) e catalana (n’Anfos): anche nel Tesoretto, II 134 «Re Nanfosse»; e cfr. IV 3,8 n. 8 Ricorda la lode a Cangrande che apre la I 7. 9 e fornito assai riccamente di armi e di cavalli e di servitù. 10 con assai poco discernimento, dandole a chi non ne era degno o a chi non valeva lui, non era valente come lui. «Lamenti tradizionali nella poesia occitanica» (Petronio), 7 Letteratura italiana Einaudi 1314 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X per lo lungo cammino che a fare avea, fu cara a messer Ruggieri. Appresso questo, commise il re ad un suo discreto famigliare che, per quella maniera che miglior gli paresse, s’ingegnasse di cavalcare la prima giornata con messer Ruggieri, in guisa che egli non paresse dal re mandato, e ogni cosa che egli dicesse di lui raccogliesse11, sì che ridire gliele sapesse, e l’altra mattina appres12 gli comandasse che egli indietro al re tornasse. Il faso 9 migliare, stato attento, come messer Ruggieri uscì della terra, così assai acconciamente13 con lui si fu accompagnato14, dandogli a vedere che egli veniva verso Italia. Cavalcando adunque messer Ruggieri sopra la mula 10 dal re datagli, e con costui d’una cosa e d’altra parlando, essendo vicino ad ora di terza, disse: «Io credo che sia 11 ben fatto che noi diamo stalla a queste bestie». Ed entrati in una stalla, tutte l’altre, fuor che la mula, stallarono15. Per che cavalcando avanti, stando sempre il famiglio attento alle parole del cavaliere, vennero ad un fiume, e quivi abbeverando le lor bestie, la mula stallò nel fiume. Il che veggendo messer Ruggieri, disse: «Deh! dolente ti faccia Dio, bestia, ché tu se’ fatta come il signore che a me ti donò». Il famigliare questa parola ricolse16, e come che mol12 te ne ricogliesse camminando tutto il dì seco, niun’altra, 8 11 ascoltasse attentamente e ricordasse. la mattina seguente: IX 5,39. accortamente, opportunamente: I 7,27 n. 14 Nota il solito trapassato remoto (II 5,58 n.) 15 stabbiarono, defecarono, si sgravarono il ventre. 16 A sottolineare l’ubbidienza agli ordini del re è usata la stessa parola (cfr. 8 «raccogliesse»): e cfr. I 9,3 n. 12 13 Letteratura italiana Einaudi 1315 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 13 14 15 16 se non in somma lode del re, dirne gli udì; per che la mattina seguente, montati a cavallo e volendo cavalcare verso Toscana, il famigliare gli fece il comandamento del re, per lo quale messer Ruggieri incontanente tornò addietro. E avendo già il re saputo quello che egli della mula aveva detto, fattolsi chiamar con lieto viso il ricevette, e domandollo perché lui alla sua mula avesse assomigliato, ovvero la mula a lui. Messer Ruggieri con aperto viso17 gli disse: «Signor mio, per ciò ve l’assomigliai, perché, come voi donate dove non si conviene, e dove si converrebbe non date, così ella dove si conveniva non stallò, e dove non si convenia sì». Allora disse il re: «Messer Ruggieri, il non avervi donato, come fatto ho a molti, li quali a comparazion di voi da niente sono18, non è avvenuto perché io non abbia voi valorosissimo cavalier conosciuto e degno d’ogni gran dono, ma la vostra fortuna, che lasciato non m’ha19, in ciò ha peccato e non io; e che io dica vero, io il vi mosterrò manifestamente». A cui messer Ruggieri rispose: «Signor mio, io non mi turbo di non aver dono ricevuto da voi, per ciò che io nol desiderava per esser più ricco, ma del non aver voi in alcuna cosa testimonianza renduta alla mia virtù20; nondimeno io ho la vostra per buona scusa e per onesta, e son presto di veder ciò che vi piacerà, quantunque io vi creda senza testimonio21». 17 Cioè con franchezza e senza soggezione: IV 1,31 «con asciutto viso e aperto»; Inf., X 93. 18 a vostro paragone non valgono nulla: Proemio, 3 n. 19 che non me lo ha permesso, che non mi ba dato occasione: cfr. V 3,19 n. «Scusa sciocchissima» (M.). Affermazione analoga nella IV 1,38: «non il mio peccato ma quello della fortuna riprendi». 20 valore. 21 testimonianza: Inf., XVIII 62; Par., XVII 54. Letteratura italiana Einaudi 1316 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X Menollo adunque il re in una sua gran sala, dove, sì come egli davanti aveva ordinato, erano due gran forzieri serrati, e in presenzia di molti gli disse: «Messer Ruggieri, nell’uno di questi forzieri è la mia corona, la verga reale22 e ’l pomo23, e molte mie belle cinture, fermagli, anella e ogn’altra cara gioia che io ho; l’altro è pieno di terra: prendete adunque l’uno, e quello che preso avrete sì sia vostro, e potrete vedere chi è stato verso il vostro valore ingrato, o io o la vostra fortuna». Messer Ruggieri, poscia che vide così piacere al re, 18 prese l’uno, il quale il re comandò che fosse aperto, e trovossi esser quello che era pien di terra. Laonde il re ridendo disse: «Ben potete vedere, messer Ruggieri, che quello è vero che io vi dico della fortuna; ma certo il vo19 stro valor merita che io m’opponga alle sue forze24. Io so che voi non avete animo25 di divenire spagnuolo, e per ciò non vi voglio qua donare né castel né città, ma quel forziere che la fortuna vi tolse, quello in dispetto di lei voglio che sia vostro, acciò che nelle vostre contrade nel possiate portare, e della vostra virtù con la testimonianza de’miei doni meritamente gloriar vi possiate co’ vostri vicini26». Messer Ruggieri presolo, e quelle grazie rendute al 20 re che a tanto dono si confaceano, con esso lieto se ne ritornò in Toscana. – 17 22 lo scettro: Amorosa Visione, IV 29; Dante, Rime, CVXII 10; Petrarca, LIII 4. 23 «Quella palla che ha sopra una crocetta, portata in mano dagli imperatori e da’ re» (C.). Erano i segni che il B. già aveva altrove citati come caratteristici della regalità (Filocolo, IV 74,7; Teseida, XI 36; Amorosa Visione, I 34 sgg.). 24 È il grande tema della virtù che deve vincere la fortuna. «O s’egli avesse preso l’altro, che aresti tu detto, beccone?» (M.). 25 intenzione, desiderio. 26 concittadini: III 4,3 n.; Inf., XVII 68; Purg., XI 140. Letteratura italiana Einaudi 1317 NOVELLA SECONDA 1 Ghino di Tacco piglia l’abate di Clignì e medicalo del male dello stomaco e poi il lascia; il quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa e fallo friere dello Spedale1. 2 Lodata era già stata da tutti la magnificenzia del re Anfonso nel2 fiorentin cavaliere usata, quando il re, al quale molto era piaciuta, ad Elissa impose che seguitasse, la quale prestamente incominciò: – Dilicate3 donne, l’essere stato un re magnifico, e l’avere la sua magnificenzia usata verso colui che servito 3 1 frate spedaliere, cioè dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, poi di Malta ( f r i e r e per frère è iperfrancesismo corrente in espressioni simili). Nessun vero antecedente per questa novella, che è rinarrata come storica da vari commentatori danteschi a proposito di Purg., VI 13 sg. (per es. da Benvenuto da Imola, dal Buti, dal Landino ecc.), e anche da alcuni cronisti, per es. negli Annali Senesi (RR. II. SS., XIX 420). Ma già il Muratori, preludendo a questo testo (p. 385), osservava che la narrazione deriva chiaramente dal B., come è evidente anche per i citati commenti danteschi. L’episodio, riferendosi forse anche a tradizioni popolari (Thompson e Rotunda, J 1606) ebbe ampia fortuna e fu attribuito a personaggi diversi (Grand Parangon cit., 125; KÖHLER, Kleinere Schriften cit., I, p. 137 ecc.). Un’avventura simile si narra però proprio di un abate di Cluny nel secolo XII; il quale mentre attraversava la Lunigiana, improvvisamente accerchiato da armigeri dei Malaspina, fu brigantescamente spogliato (F. L. MANNUCCI, I Marchesi Malaspina e i poeti provenzali, in Dante e la Lunigiana, Milano 1909, p. 42). 2 verso il: III 6,14 n. 3 Uno degli aggettivi che il B. ama usare per le sue donne (V 2,4 n.). Letteratura italiana Einaudi 1318 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 4 l’avea, non si può dire che laudevole e gran cosa non sia; ma che direm noi se si racconterà un cherico4 aver mirabil magnificenzia usata verso persona che, se inimicato l’avesse5, non ne sarebbe stato biasimato da persona6? Certo non altro se non che quella del re fosse virtù, e quella del cherico miracolo, con ciò sia cosa che essi tutti avarissimi troppo più che le femine sieno, e d’ogni liberalità nimici a spada tratta7. E quantunque ogn’uomo naturalmente appetisca vendetta delle ricevute offese, i cherici, come si vede, quantunque la pazienzia predichino e sommamente la remission delle offese commendino, più focosamente che gli altri uomini a quella discorrono8. La qual cosa, cioè come un cherico magnifico fosse, nella mia seguente novella potrete conoscere aperto. 4 un ecclesiastico. tale che se l’avesse osteggiato, trattato da nemico: X 8,86: «quanto lo sdegno de’ romani animi possa, sempre nimicandovi, vi farò per esperienza conoscere». 6 Si imposta fin dalla seconda novella il ritmo ascensionale, quasi di gara nel presentare esempi sempre più straordinari, che caratterizza la X giornata. 7 «Nota un peduccio pe’ cherici e per le femine» (M.). Dell’avarizia degli ecclesiastici già più volte il B. aveva toccato pungentemente (per es. I 2 e 6; III 3 e 7; VIII 2,24 sgg.; e Amorosa Visione, XIV); e anche altrove accenna a quella quasi naturale delle donne (per es. VIII I; X 9,30: «le donne secondo il lor picciol cuore piccole cose danno»). 8 trascorrono, si lasciano andare: Intr., 57 n. 5 Letteratura italiana Einaudi 1319 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 5 Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso9, essendo di Siena cacciato e nimico de’conti di Santa Fiore, ribellò10 Radicofani alla 9 Gentiluomo senese della famiglia dei signori della Fratta, divenuto di bandito (1276?) masnadiero, ebbe gran nome in quel secolo per le sue ruberie e la sua audacia e per le lotte con Bonifacio VIII. Morì probabilmente presso Sinalunga verso il 1303 o il 1313. Dante ne ricorda la feroce vendetta su Benincasa da Laterina - che aveva condannato due suoi parenti - ucciso a Roma nel tribunale stesso (Purg., VI 13 sg.: «Quiv’era l’Aretin che da le braccia | F i e r e di Ghin di Tacco ebbe la morte»): ma i commentatori e i cronisti nel narrare il fatto circondano sempre Ghino di un alone di generosità e di simpatia in cui, come abbiamo detto, incastonano anche questa novella. «Dicono che Ghino fu grande di statura, membruto e robustissimo e molto liberale, ed esercitava il latrocinio non per avarizia, ma per potere usare liberalità, e volea che chi gli venia nelle mani si ponesse per se medesimo la taglia e dipoi gnene rendeva buona parte, e se avesse trovato uomini studiosi gli donava danari e confortavagli agli studi. Conoscendo Bonifazio che lui solamente per liberalità predava, lo chiamò a Roma e fecelo Cavaliere friere ...» Così il Landino riassumendo Benvenuto da Imola, e consacrando una fama popolaresca riecheggiata anche da san Bernardino da Siena (Le prediche volgari, Milano 1936, XXII, pp. 470 sg.; e anche altrove: cfr. C. DELCORNO, L’«exemplum» nella predicazione di Bernardino da Siena, in AA.VV., Bernardino predicatore nella società del suo tempo, Todi 1976). Cfr. E. SANTINI, Il B. novellatore d’amore cit.; E. HUTTON, In unknown Tuscany, London 1909, pp. 101 sgg.; G. CECCHINI, Ghino di Tacco, in «Arch. Stor. It.», CXV, 1957. 10 fece ribellare. «[Ghino] cacciato per opera dei Conti di Santa Fiora, occupò il castello di Radicofani e lo rivolse contro il Papa» (Benvenuto da Imola: l’episodio accadde verso il 1295). «Radicofani, in posizione eminente sulla via Cassia, dominava la regione di frontiera tra il territorio senese e lo Stato della Chiesa» (Contini). Santafiora era un castello nella Maremma senese appartenente alla casa Aldobrandesca (Purg., VI 111; «questi conti di Santafiora furono un tempo potentissimi nella Maremma senese: ma i Senesi li prostrarono»: così Benvenuto da Imola): e il Buti narra che Ghino e i suoi parenti «aveano tolto al comune di Siena un castello che era in Maremma». Letteratura italiana Einaudi 1320 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 6 7 8 Chiesa di Roma, e in quel dimorando, chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a’suoi masnadieri11. Ora, essendo Bonifazio papa ottavo12 in Roma, venne a corte l’abate di Clignì, il quale si crede essere un de’più ricchi prelati del mondo13, e quivi guastatoglisi lo stomaco, fu da’medici consigliato che egli andasse a’bagni di Siena14, e guerirebbe senza fallo. Per la qual cosa, concedutogliele il papa, senza curar della fama di Ghino, con grandissima pompa d’arnesi e di some e di cavalli e di famiglia entrò in cammino. Ghino di Tacco, sentendo la sua venuta, tese le reti15, e, senza perderne un sol ragazzetto16, l’abate con tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse. E questo fatto, un de’suoi, il più saccente17, bene accompagnato mandò allo abate; il qual da parte di lui assai amorevolmente18 gli disse, che gli dovesse piacere d’andare a smontare19 con esso Ghino al castel- 11 Per lo svolgimento del senso di questo termine, da soldato di ventura a ladro, assassino cfr. II 2,4 n. e III 7,99 n. 12 Alla latina («Bonifacius papa octavus»). Già altre volte era stato nominato nel D. (I 1, VI 2); ma qui il grande antagonista di Dante è ritratto direttamente. 13 Anche nella I 7,12 n., presentando questo personaggio tradizionale e favoloso nella novellistica medievale (cfr. per es. Recueil général cit., V 123,136; VI 150), il B. scriveva: «il più ricco prelato di sue entrate che abbia la Chiesa di Dio, dal Papa in fuori». I benedettini riformati cluniacensi erano notevolmente presenti anche nel Senese. 14 Erano famosi in quel periodo, nelle terre di Siena, i bagni di San Casciano e di Rapolano (non lontani da Radicofani), di Petriuolo (nominati da Folgore da San Gimignano), di Macereto ecc. 15 Cfr. Inf., XXX 7 sgg. 16 senza che gli sfuggisse neppure un servitorello, un mozzo di stalla (cfr. II 4,15 n. e II 8,1 n.). 17 accorto, furbo, colto (sicilianismo): IX 8,13 n. 18 con bel garbo, cortesemente (IV 8,10): come più sotto, 9, u m i l m e n t e (V 9,21). 19 Espressione di cortesia per cui cfr. VI 2,8. Letteratura italiana Einaudi 1321 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X lo. Il che l’abate udendo, tutto furioso rispose che egli non ne voleva far niente, sì come quegli che con Ghino niente aveva a fare; ma che egli andrebbe avanti, e vorrebbe veder chi l’andar gli vietasse. 9 Al quale l’ambasciadore umilmente parlando disse: «Messere, voi siete in parte20 venuto dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente ci si teme per noi21, e dove le scomunicazioni e gl’interdetti sono scomunicati22 tutti; e per ciò piacciavi per lo migliore23 di compiacere a Ghino di questo». Era già, mentre queste parole erano24, tutto il luogo 10 di masnadieri circundato; per che l’abate, co’suoi preso veggendosi, disdegnoso forte, con l’ambasciadore prese la via verso il castello, e tutta la sua brigata e li suoi arnesi25 con lui; e smontato, come Ghino volle, tutto solo fu messo in una cameretta d’un palagio assai oscura e disagiata, e ogn’altro uomo secondo la sua qualità per lo castello fu assai bene adagiato26, e i cavalli e tutto l’arnese messo in salvo, senza alcuna cosa toccarne. 11 E questo fatto, se n’andò Ghino all’abate e dissegli: «Messere, Ghino, di cui voi siete oste27, vi manda pre- 20 in parte tale, in luogo tale, o semplicemente dove: II 4,15 n. eccetto la forza di Dio (I 7,12), niente è qui temuto da noi (Intr., 55 n.), nulla qui noi temiamo. «Rovesciato in passivo per minor iattanza: c i è l’avverbio attualizzante» (Contini). 22 Cioè: non hanno né forza né valore. L’interdetto è sentenza che vieta l’esercizio del culto. 23 per il vostro meglio: II 5,5 4 n. 24 si tenevano, si dicevano. Intr., 78: «Mentre tralle donne erano così fatti ragionamenti». 25 equipaggiamenti: cfr. II 8,98. 26 alloggiato, sistemato comodamente: IX 6,11 n. 27 ospite (IX 6,16): «con ciò Ghino si mette senz’altro alla pari coll’abate» (Bosco). 21 Letteratura italiana Einaudi 1322 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X gando28 che vi piaccia di significarli dove voi andavate, e per qual cagione». L’abate, che, come savio, aveva l’altierezza giù 12 posta29, gli significò dove andasse e perché. Ghino, udito questo, si partì, e pensossi di volerlo guerire senza bagno; e faccendo nella cameretta sempre ardere un gran fuoco e ben guardarla, non tornò a lui infino alla seguente mattina; e allora in una tovagliuola bianchissima gli portò due fette di pane arrostito e un gran bicchiere di vernaccia da Corniglia30, di quella dello abate medesi13 mo, e sì disse all’abate: «Messer, quando Ghino era più giovane, egli studiò in medicina, e dice che apparò niuna medicina al mal dello stomaco esser miglior che quella che egli vi farà, della quale queste cose che io vi reco sono il cominciamento; e per ciò prendetele e confortatevi31». L’abate, che maggior fame aveva che voglia di mot14 teggiare, ancora che con isdegno il facesse, sì32 mangiò il pane e bevve la vernaccia, e poi molte cose altiere disse e 28 Uso del gerundio con m a n d a r e solito nel D.: IV 2,23 n. deposta: cfr. III 9,60 n. 30 Vino bianco secco assai pregiato e così chiamato da Vernazza e Corniglia, paesi delle Cinque Terre nella provincia di La Spezia (cfr. O. BACCI, La vernaccia dell’abate di Cligní, in «Fanfulla della Domenica», XXIX, 1907). Altri pensa a Cornille o Corneuil in Francia: ma cfr. Purg., XXIV 24; Sacchetti, CLXXVII: «pensò trovare modo di far venire magliuoli da Portovenere della vernaccia di Corniglia»; Corbaccio, 312: «investigatrice e bevitrice del buon vino cotto, della vernaccia da Corniglio, del greco o di qualunque altro buon vino»; e anche II 10,7; VIII 3,9 n.; VIII 6 passim. 31 e state di buon animo: V 9,16 n. 32 pure. 29 Letteratura italiana Einaudi 1323 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X di molte domandò e molte ne consigliò, e in ispezieltà33 chiese di poter veder Ghino. Ghino, udendo quelle, 15 parte ne lasciò andar sì come vane34, e ad alcuna assai cortesemente rispose, affermando che come Ghino più tosto potesse il visiterebbe; e questo detto, da lui si partì, né prima vi tornò che il seguente dì con altrettanto pane arrostito e con altrettanta vernaccia; e così il tenne più giorni, tanto che egli s’accorse l’abate aver mangiate fave secche, le quali egli studiosamente35 e di nascoso portate v’aveva e lasciate. 16 Per la qual cosa egli il domandò da parte di Ghino come star gli pareva dello stomaco; al quale l’abate rispose: «A me parrebbe star bene, se io fossi fuori delle sue mani; e appresso questo, niun altro talento36 ho maggiore che di mangiare, sì ben m’hanno le sue medicine guerito». 17 Ghino adunque avendogli de’ suoi arnesi medesimi e alla sua famiglia fatta acconciare una bella camera, e fatto apparecchiare un gran convito, al quale con molti uomini del castello fu tutta la famiglia dello abate, a lui se n’andò la mattina seguente e dissegli: «Messere, poi che voi ben vi sentite, tempo è d’uscire d’infermeria»; e per la man presolo37, nella camera apparecchiatagli nel menò, e in quella co’suoi medesimi lasciatolo, a far che il convito fosse magnifico attese. 33 specialmente, in particolare: Morelli, Ricordi, p. 372: «appresso uccidere ciascuno di loro certi loro nemici in ispezieltà». 34 «Eco del verso dantesco (nella canzone Donne ch’avete) ‘E se non vuoli andar sì come vana’. Si riferisce alle cose altiere ancora dette dall’abate benché avesse l’ a l t i e r e z z a g i ú p o s t a », 12 (Contini). 35 a bella posta, a bello studio: IV I,17 n. 36 voglia, desiderio: Inf. II 8I. 37 In atto di rispetto e di onore: X 4,41; X 7,33; X 9,96; X 10,19 ecc. Letteratura italiana Einaudi 1324 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 18 19 20 21 22 L’abate co’suoi alquanto si ricreò38, e qual fosse la sua vita stata narrò loro, dove essi in contrario tutti dissero sé essere stati maravigliosamente onorati da Ghino. Ma l’ora del mangiar venuta, l’abate e tutti gli altri ordinatamente e di buone vivande e di buoni vini serviti furono, senza lasciarsi Ghino ancora all’abate conoscere. Ma poi che l’abate alquanti dì in questa maniera fu dimorato, avendo Ghino in una sala tutti li suoi arnesi fatti venire, e in una corte, che di sotto a quella era, tutti i suoi cavalli in fino al più misero ronzino allo abate se n’andò e domandollo come star gli pareva e se forte si credeva essere da cavalcare. A cui l’abate rispose che forte era egli assai e dello stomaco ben guerito, e che starebbe bene qualora fosse fuori delle mani di Ghino. Menò allora Ghino l’abate nella sala dove erano i suoi arnesi e la sua famiglia tutta, e fattolo ad una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere, disse: «Messer l’abate, voi dovete sapere che l’esser gentile uomo e cacciato di casa sua e povero, e avere molti e possenti nimici, hanno, per potere la sua vita e la sua nobiltà difendere, e non malvagità d’animo, condotto39 Ghino di Tacco, il quale io sono, ad essere rubatore delle strade e nimico della corte di Roma40. Ma per ciò 38 si svagò, o si confortò: X 8,109 n.; Par., XXXI 43. «Nota con quanta espressione e forza l’ausiliare è separato dal suo participio a mostrare la ripugnanza con la quale Ghino si era condotto al vil mestiere che esercitava» (Fanfani). 40 «Non deve parere strano che a giustificazione delle sue ‘ruberie’ Ghino di Tacco ricordi, oltre l’esilio e la povertà e la persecuzione di potenti nemici, anche ‘l’essere gentile uomo’: il Sacchetti, CCXIV, dopo aver narrato della ruberia di ‘un gentiluomo il cui nome tacerò per onestà’, osserva: ‘Li gentili d’oggi tengono essere gentilezza vivere di ratto’» (Rua). 39 Letteratura italiana Einaudi 1325 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 23 24 25 26 che voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco guerito, come io ho, non intendo di trattarvi come un altro farei, a cui41, quando nelle mie mani fosse come voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse; ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre cose facciate che voi medesimo volete. Elle sono interamente qui dinanzi da voi tutte, e i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra nella corte vedere; e per ciò e la parte e il tutto come vi piace prendete, a da questa ora innanzi sia e l’andare e lo stare nel piacer vostro42. Maravigliossi l’abate che in un rubator di strada fosser parole sì libere43, e piacendogli molto, subitamente la sua ira e lo sdegno caduti44, anzi in benivolenzia mutatisi, col cuore amico di Ghino divenuto, il corse ad abbracciar dicendo: «Io giuro a Dio che, per dover guadagnar l’amistà d’uno uomo fatto come omai io giudico che tu45 sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui paruta46 m’è che tu m’abbi fatta. Maladetta sia la fortuna, la quale a sì dannevole47 mestier ti costrigne! E appresso questo, fatto delle sue molte cose pochissime e opportune48 prendere, 41 rispetto al quale, nei cui confronti. Formula signorile di commiato: I 7,26 n. 43 liberali, generose, nobili. 44 Più energico che cessati: X 3,27: «gli cadde il furore»; Inf., XXI 85. 45 Nota il tu dell’abate, consapevole della propria superiorità anche nello slancio di ammirazione: e cfr. S. ZINI, Il tu e il voi nel D., in «Lingua Nostra», III, 1941. 46 il soggetto di è p a r u t a è la proposizione c h e t u m’ a b b i f a t t o e quindi il participio dovrebbe essere maschile. Ma la costruzione è naturale e corrente: cfr. Mussafia, p. 444. Per la forma p a r u t o cfr. I 1,41; X concl., 5. 47 biasimevole, da condannarsi. 48 necessarie: cfr. IV intr., 16 n. 42 Letteratura italiana Einaudi 1326 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X e de’cavalli similmente, e l’altre lasciategli tutte, a Roma se ne tornò. Aveva il Papa saputa la presura49 dello abate e, come 27 che molto gravata gli fosse50, veggendolo il domandò come i bagni fatto gli avesser pro. Al quale l’abate sorridendo rispose: «Santo Padre, io trovai più vicino che i bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito m’ha»; e contogli il modo; di che il Papa rise: al quale l’abate, seguitando il suo parlare, da magnifico51 animo mosso, domandò una grazia. Il Papa, credendo lui dover domandare altro, libera28 mente52 offerse di far ciò che domandasse. Allora l’abate disse: «Santo Padre, quello che io intendo di domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di Tacco mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da molto che io accontai53 mai, egli è per certo un de’più; e quel male il quale egli fa, io il reputo molto maggior peccato della fortuna54 che suo; la qual se voi con alcuna co29 sa dandogli55, donde egli possa secondo lo stato suo vivere, mutate, io non dubito punto che in poco di tempo non ne paia a voi quello che a me ne pare». 49 cattura: il 1,24 n. e benché gli fosse motto dispiaciuta: il 5,31 n. 51 magnanimo, generoso: cfr. V 9,39 n. 52 Cioè senza condizione alcuna: il 8,35 n. 53 conobbi, avvicinai: il 3,1 n. 54 Cfr. Proemio, 13: «in parte per me s’amendi il peccato della fortuna»: tema insistente in tutta questa giornata (per es. 1,18; 7,35; 8,19 e 22; 9,55; 10,48). 55 col dargli alcuna cosa. Frequente era l’uso del gerundio con preposizione, quasi un infinito declinato: cfr. Testi fiorentini, p. 37: «con avendo», p. 170: «con sappiendo»; äKERLJ, Syntaxe cit., 210 e 782 sgg., 7,90; Rohlfs, 721. 50 Letteratura italiana Einaudi 1327 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X Il Papa, udendo questo, sì come colui che di grande animo fu e vago56 de’valenti uomini, disse di farlo volentieri, se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse 31 sicuramente57 venire. Venne adunque Ghino fidato58, come allo abate piacque, a corte; né guari appresso del Papa fu, che egli il reputò valoroso, e riconciliatoselo gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale59, di quello avendol fatto far cavaliere. La quale egli, amico e servidore di santa Chiesa e dello abate di Clignì, tenne mentre visse60. 30 56 amante, che si compiaceva: I 1,14. Cioè con un salvacondotto. 58 assicurato, garantito sulla fede del Papa: Tristano Riccardíano, p. 93: «fidatemi voi la persona?» 59 Cioè dell’ordine degli Spedalieri di San Giovanni di Gerusalemme (Villani VIII 104): con allusione scherzosa alla scienza medica di Ghino? 60 Morì, com’è stato detto, circa il 1303 o 1313. «Se poi veramente Bonifacio VIII lo abbia perdonato e colmato di favori è una questione piuttosto dubbia, anche se i tempi e i costumi possono dare qualche verosimiglianza alla cosa» (Cecchini). 57 Letteratura italiana Einaudi 1328 NOVELLA TERZA 1 Mitridanes, invidioso della cortesia di Natan, andando per ucciderlo, senza conoscerlo capita a lui, e da lui stesso informato del modo, il truova in un boschetto, come ordinato1 avea, il quale riconoscendolo si vergogna, e suo amico diviene2. 2 Simil cosa a miracolo per certo pareva a tutti avere udito, cioè che un cherico alcuna cosa magnificamente avesse operata; ma riposandosene3 già il ragionare delle donne, comandò il re a Filostrato che procedesse, il quale prestamente incominciò: – Nobili donne, grande fu la magnificenzia del re di Spagna, e forse cosa più non udita giammai quella dell’abate di Clignì; ma forse non meno maravigliosa cosa vi parrà l’udire che uno, per liberalità usare ad un al- 3 1 disposto, preordinato. Qualche antecedente della novella sembra si possa trovare come forse indica il B. stesso (cfr. 4) - nelle letterature d’oriente, e particolarmente nella persiana: nel poema Bostân di Saadi e nella raccolta di novelle Mahbúb ub Kalúb e soprattutto nella leggenda araba fiorita attorno a Hatim Taï (cfr. oltre le solite opere: T. F. CRANE, The sources ol B.’s Novella of Mithridanes and Natan, in «Romanic Review», Xil, 1921; G. THOUVENIN, La Légende d’Hatim Taï, in «Romania», LIX, 1933). Un episodio simile a quello della femminella (9-10) è narrato anche nelle Vitae Patrum, già citate (Patrologia latina, LXXIII), a proposito di Giovanni Elemosiniere (II IV 9 e Acta Sanctorum, gennaio III, 23) e nella Legenda Aurea (27): derivazioni probabili da una narrazione araba, Anis al arifin, attorno a Hatim Taï (G. THOUVENIN, art. cit.). E per la diffusione del tema nella novellistica cfr. Rotunda, W 18*; e cfr. S. Bernardino, Novellette, Bologna 1868, XIII. 3 cessando, ristando: II 6,82 n. 2 Letteratura italiana Einaudi 1329 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 4 5 6 tro che il suo sangue, anzi il suo spirito4, disiderava, cautamente5 a dargliele si disponesse; e fatto l’avrebbe, se colui prender l’avesse voluto, sì come io in una mia novelletta intendo di dimostrarvi. Certissima cosa è (se fede si può dare alle parole d’alcuni genovesi e d’altri uomini che in quelle contrade stati sono) che nelle parti del Cattaio6 fu già uno uomo di legnaggio nobile e ricco senza comparazione, per nome chiamato Natan; il quale, avendo un suo ricetto7 vicino ad una strada per la qual quasi di necessità passava ciascuno che di Ponente verso Levante andar voleva o di Levante venire in Ponente, e avendo l’animo grande e liberale e disideroso che fosse per opera8 conosciuto, quivi, avendo molti maestri9, fece in piccolo spazio di tempo fare un de’più belli e de’ maggiori e de’ più ricchi palagi che mai fosse stato veduto, e quello di tutte quelle cose che opportune erano a dovere gentili uomini rice- 4 respiro e quindi vita: cfr. più innanzi, 28; Il Boezio e l’Arrighetto volg. a cura di S. Battaglia, Torino 1929, p. 56: «per te solo lo spirito serba»; e cfr. VIII 3,56 n. 5 Cioè: con abilità e prudenza: cfr. 28 n. 6 Così era chiamata la Cina settentrionale, da Can-zi, nome impostole dalla dinastia ciurcia del Chim. Ed era la terra classica delle ricchezze e delle meraviglie, specialmente dopo le descrizioni di Marco Polo, certo presenti in questa novella: Natan e il suo palazzo ricordano direttamente Kublai Kan e le sue grandiose dimore (LXXV e LXXXIV). Ma, forse per il solito spirito antiveneziano, fonte dichiarata dal B. sono qui «genovesi» che già erano in Cina. Natan in ebraico vale «colui che ha donato» (Re II 12) (cfr. M. PASTORE STOCCHI, Dioneo ecc., in «Studi sul B.», X, 1977-78). 7 dimora, casa: II 2,15 n. 8 coi fatti, nei fatti: II 8,27 n. 9 artefici in generale (I 3,14 n.), quali muratori, fabbri, falegnami; o forse qui, specificamente, architetti, capi muratori: Nuovi testi fiorentini, p. 389: «maestri e uno manovale»; Velluti, Cronica, p. 67: «maestro in coprire tetti». Letteratura italiana Einaudi 1330 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 7 8 9 vere e onorare10, fece ottimamente fornire; e avendo grande e bella famiglia, con piacevolezza e con festa chiunque andava e veniva faceva ricevere e onorare. E in tanto perseverò in questo laudevol costume, che già, non solamente il Levante, ma quasi tutto il Ponente per fama il conoscea. Ed essendo egli già d’anni pieno11, né però del corteseggiar12 divenuto stanco, avvenne che la sua fama agli orecchi pervenne d’un giovane chiamato Mitridanes, di paese non guari al suo lontano; il quale, sentendosi non meno ricco che Natan fosse, divenuto della sua fama e della sua virtù invidioso, seco propose con maggior liberalità quella13 o annullare o offuscare. E fatto fare un palagio simile a quello di Natan, cominciò a fare le più smisurate cortesie che mai facesse alcuno altro, a chi andava o veniva per quindi14, e senza dubbio in piccol tempo assai divenne famoso. Ora avvenne un giorno che dimorando il giovane tutto solo nella corte del suo palagio, una feminella, entrata dentro per una delle porti 15 del palagio, gli domandò limosina ed ebbela; e ritornata per la seconda porta pure a lui, ancora l’ebbe, e così successivamente insino alla duodecima; e la tredecima16 volta tornata, 10 Cfr. II 6,73 n. e II 7,48 n. Come Coppo Domenichi (V 9,4): «essendo già d’anni pieno». 12 Spendere in cortesia, far cortesie: Latini, Tesoretto, 1500 sgg.: «se tu ti senti | Lo poder di donare | Ben dei corteseggiare»; Fiore, XXIV 7: «perch’egli ha corteseggiato; Velluti, Cronica, p. 34: «la giovanezza col corteseggiare e stare troppo in brigata lo sconcia». 13 «Si riferisce alla fama che sola si può offuscare, non alla virtù» (Fornaciari). 14 per di là, per quei luoghi: il 3,36 n. e qui più avanti al 18. 15 Desinenza corrente: cfr. il 2,16 n. (e qui 10). 16 Per analogia a duodecima e undecima. 11 Letteratura italiana Einaudi 1331 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X disse Mitridanes: «- Buona femina, tu se’assai sollicita17 a questo tuo dimandare»; e nondimeno le fece limosina. La vecchierella, udita questa parola18, disse: «O libe10 ralità di Natan, quanto se’ tu maravigliosa! ché per trentadue porti che ha il suo palagio, sì come questo, entrata, e domandatagli limosina, mai da lui, che egli mostrasse19, riconosciuta non fui, e sempre l’ebbi; e qui non venuta ancora se non per tredici, e riconosciuta e proverbiata20 sono stata». E così dicendo, senza più ritornarvi si dipartì. 11 Mitridanes, udite le parole della vecchia, come colui che ciò che della fama di Natan udiva diminuimento21 della sua estimava, in rabbiosa ira acceso, cominciò a dire: «Ahi lasso a me! Quando aggiugnerò io alla liberalità delle gran cose22 di Natan, non che io il trapassi, come io cerco, quando nelle piccolissime io non gli mi posso avvicinare23? Veramente io mi fatico invano, se io di terra nol tolgo; la qual cosa, poscia che la vecchiezza nol porta via, convien senza alcuno indugio che io faccia con le mie mani». 12 E con questo impeto levatosi, senza comunicare il suo consiglio ad alcuno, con poca compagnia montato a cavallo, dopo il terzo dì dove Natan dimorava pervenne; e a’compagni imposto che sembianti facessero di non 17 premurosa e quindi importuna, molesta: cfr. VIII 4,3 n. frase, sentenza: I 6,16 n. 19 per quello che egli mostrasse, desse a vedere (alla latina: quod sciam, quod intelligam). 20 rimproverata, o canzonata: VIII 3,1 n. 21 scapito, diminuzione: cfr. 43: «diminuimento della fama di Natan»; Intr. 50: «diminuire in niuno atto l’onestà delle valorose donne». 22 giungerò, arriverò (VIII 5,7) a tale liberalità da fare le gran cose ... alla generosità dei grandi atti ... 23 posso stare o andare vicino, presso. 18 Letteratura italiana Einaudi 1332 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 13 14 15 16 17 esser con lui né di conoscerlo, e che distanzia si procacciassero infino che da lui altro avessero24, quivi adunque in sul fare della sera pervenuto e solo rimaso, non guari lontano al bel palagio trovò Natan tutto solo, il quale senza alcuno abito pomposo andava a suo diporto; cui egli, non conoscendolo, domandò se insegnar gli sapesse dove Natan dimorasse. Natan lietamente rispose: «Figliuol mio, niuno è in questa contrada che meglio di me cotesto ti sappia mostrare, e per ciò, quando ti piaccia, io vi ti menerò». Il giovane disse che questo gli sarebbe a grado assai; ma che, dove esser potesse, egli non voleva da Natan esser veduto né conosciuto: al quale Natan disse: «E cotesto ancora farò, poi che ti piace». Ismontato adunque Mitridanes con Natan, che in piacevolissimi ragionamenti assai tosto il mise, infino al suo bel palagio n’andò. Quivi Natan fece ad un de’suoi famigliari prendere il caval del giovane, e accostatoglisi agli orecchi gl’impose che egli prestamente con tutti quegli della casa facesse che niuno al giovane dicesse lui esser Natan; e così fu fatto. Ma poi che nel palagio furono, mise Mitridanes in una bellissima camera dove alcuno nol vedeva, se non quegli che egli al suo servigio diputati avea, e sommamente faccendolo onorare, esso stesso gli tenea compagnia. Col quale dimorando Mitridanes, ancora che in reverenzia come padre l’avesse25, pur lo domandò chi el 24 si provvedessero di alloggio finché non ricevessero da lui altro ordine. 25 Purg., I 32 sg.: «Degno di tanta reverenza in vista, | Che più non dee padre alcun figliuolo». Letteratura italiana Einaudi 1333 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X fosse. Al quale Natan rispose: «Io sono un picciol26 servidor di Natan, il quale dalla mia fanciullezza con lui mi sono invecchiato, né mai ad altro che tu mi vegghi mi trasse27, per che, come che ogni altro uomo molto di lui si lodi, io me ne posso poco lodare io. 18 Queste parole porsero alcuna speranza a Mitridanes di potere con più consiglio e con più salvezza28 dare effetto al suo perverso intendimento. Il qual29 Natan assai cortesemente domandò chi egli fosse, e qual bisogno per quindi il portasse30, offerendo il suo consiglio e il suo 19 aiuto in ciò che per lui si potesse. Mitridanes soprastette alquanto al rispondere, e ultimamente diliberando di fidarsi di lui, con una lunga circuizion di parole31 la sua fede richiese, e appresso il consiglio e l’aiuto, e chi egli era e per che venuto e da che mosso, interamente gli discoperse. 20 Natan, udendo il ragionare e il fiero proponimento di Mitridanes, in sé tutto si cambiò32, ma senza troppo stare, con forte animo e con fermo33 viso gli rispose: «Mitridanes, nobile uomo fu il tuo padre, dal quale tu non vuogli degenerare, sì alta impresa avendo fatta come hai, cioè d’essere liberale a tutti, e molto la invidia 26 umile, di bassa condizione. non mi sollevò mai a grado diverso da quello in cui tu mi vedi. 28 con maggiore prudenza e sicurezza, cioè possibilità di salvezza, di scampo. 29 Si riferisce a Mitridanes. 30 lo conducesse da quelle parti. 31 giro di parole, circonlocuzione: Ipermestra volg. (T.) «con bella circuizione di parole accennò ... il nuovo amore di Ipermestra». 32 si turbò, fu scosso: Purg. XXXIII 6: «a la croce si cambiò Maria»; Sacchetti, CCXII: «l’abate udendo costui, si cominciò tutto a cambiare». 33 imperturbato: II 9,50 n. 27 Letteratura italiana Einaudi 1334 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 21 22 23 24 25 che alla virtù di Natan porti commendo, per ciò che, se di così fatte fossero assai34, il mondo, che è miserissimo, tosto buon diverrebbe. Il tuo proponimento mostratomi senza dubbio sarà occulto, al quale io più tosto util consiglio che grande aiuto posso donare, il quale è questo. Tu puoi di quinci vedere forse un mezzo miglio vicin di qui un boschetto, nel quale Natan quasi ogni mattina va tutto solo, prendendo diporto per ben lungo spazio; quivi leggier cosa ti fia il trovarlo e farne il tuo piacere. Il quale se tu uccidi, acciò che tu possa senza impedimento a casa tua ritornare, non per quella via donde tu qui venisti, ma per quella che tu vedi a sinistra uscir fuor del bosco n’andrai, per ciò che, ancora che un poco più salvatica35 sia, ella è più vicina a casa tua e per te più sicura». Mitridanes, ricevuta la informazione, e Natan da lui essendo partito, cautamente a’ suoi compagni, che similmente là entro erano, fece sentire dove aspettare il dovessero il dì seguente. Ma, poi che il nuovo dì fu venuto, Natan, non avendo animo vario al consiglio36 dato a Mitridanes, né quello in parte alcuna mutato, solo se n’andò al boschetto a dover morire. Mitridanes, levatosi e preso il suo arco37 e la sua spada, ché altra arme non avea, e montato a cavallo, n’andò al boschetto, e di lontano vide Natan tutto soletto andar passeggiando per quello, e diliberato, avanti che l’assa- 34 se vi fossero molle di queste [invidie], se fossero frequenti queste [invidie]. 35 selvaggia: X 8,93: «un luogo molto selvatico della città». 36 alieno, diverso dal consiglio: Esposizioni, IV litt. 286: «una oppinione strana e varia a tutte quelle degli altri filosofi». 37 Arma qui citata evidentemente, come più sotto il turbante (25), per colorire la scena all’orientale (e cfr. V 2,30 n.); ma come arma regale e cavalleresca era anche simbolo della sublimazione dei desideri e delle passioni (cfr. Dictionnaire des Symboles cit., pp. 61 sgg.). Letteratura italiana Einaudi 1335 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 26 27 28 29 lisse, di volerlo vedere e d’udirlo parlare, corse verso lui, e presolo per la benda la quale in capo avea38, disse: «Vegliardo, tu se’ morto39». Al quale niuna altra cosa rispose Natan, se non: «Dunque, l’ho io meritato». Mitridanes, udita la voce e nel viso guardatolo, subitamente riconobbe lui esser colui che benignamente l’avea ricevuto e familiarmente accompagnato e fedelmente consigliato; per che di presente40 gli cadde il furore e la sua ira si convertì in vergogna. Laonde egli, gittata via la spada, la qual già per ferirlo aveva tirata fuori, da caval dismontato, piagnendo corse a’ piè di Natan e disse: «Manifestamente conosco, carissimo padre, la vostra liberalità, riguardando con quanta cautela41 venuto siate per darmi il vostro spirito, del quale io, niuna ragione avendo, a voi medesimo disideroso mostra’mi; ma Iddio, più al mio dover sollicito42 che io stesso, a quel punto che maggior bisogno è stato gli occhi m’ha aperto dello ’ntelletto, li quali misera invidia m’avea serrati. E per ciò quanto voi più pronto stato siete a compiacermi, tanto più mi cognosco debito43 alla penitenzia del mio errore; prendete adunque di me quella vendetta44 che convenevole estimate al mio peccato». 38 Cioè il turbante: X 9,77 n. Cfr. IV 9,11 n. 40 subito: I 1,77 n. 41 accortezza, prudenza: I 4,3 n. «Riprende il c a u t a m e n t e di par. 3 per sottolineare la stranezza e magnanimità di questa astuzia adoperata a danno di se stesso» (Sapegno). 42 che ha più cura di farmi osservare il mio dovere. 43 obbligato: cioè riconosco di dover lar penitenza: Fra’ Giordano, Prediche, Firenze 1831, I, p. 48: «noi siamo sì debiti al padre e alla madre ...»; M. Villani, VII 101. 44 Nel senso forse più di punizione, che di vendetta propriamente detta, che sarebbe indegna della generosità di Natan (e cfr. I 9,6 n.). 39 Letteratura italiana Einaudi 1336 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X Natan fece levar Mitridanes in piede, e teneramente l’abbracciò e baciò, e gli disse: «Figliuol mio, alla tua impresa, chente che tu la vogli chiamare o malvagia o altrimenti, non bisogna di domandar né di dar perdono, per ciò che non per odio la seguivi45, ma per potere esse31 re tenuto migliore. Vivi adunque di me sicuro, e abbi di certo46 che niuno altro uom vive, il quale te quant’io ami, avendo riguardo all’altezza dello animo tuo, il quale non ad ammassar denari, come i miseri47 fanno, ma ad ispender gli ammassati se’dato. Né ti vergognare d’aver32 mi voluto uccidere per divenir famoso, né credere che io me ne maravigli. I sommi imperadori e i grandissimi re non hanno quasi con altra arte che d’uccidere, non uno uomo come tu volevi fare, ma infiniti, e ardere paesi e abbattere le città, li loro regni ampliati48, e per conseguente la fama loro49; per che, se tu per più farti famoso me solo uccider volevi, non maravigliosa cosa né nuova facevi, ma molto usata». Mitridanes, non iscusando il suo disidero perverso, 33 ma commendando l’onesta scusa da Natan trovata ad esso, ragionando pervenne a dire sé oltre modo maravigliarsi come a ciò si fosse Natan potuto disporre50 e a ciò dargli modo e consiglio. Al quale Natan disse: «Mitrida30 45 eseguivi, perseguivi: VIII 0,43 n. tieni per certo: cfr. VII 9,25. 47 avari, gretti: I 8,5 n. e 10 n. Lo sdegno contro la sordidezza dei grandi sembra riecheggiare motivi della I giornata, già presentati nell’Amorosa Visione (per es., XIV, XXXII). 48 Va unito a n o n h a n n o di tre righe prima. 49 Sdegnosa e amara concezione già accennata nell’Amorosa Visione (XXXII sgg.) e poi sviluppata nel De casibus (cfr. per es. dedica, II 5 ecc. fino al IX 27): con posizioni dissacranti degli eroi e degli imperi più acclamati non insolite nel B. 50 a ciò Natan fosse disposto, potesse esser disposto: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 314 sgg., 457 sgg. 46 Letteratura italiana Einaudi 1337 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X nes, io non voglio che tu del mio consiglio e della mia disposizione ti maravigli, per ciò che, poi che io nel mio albitrio fui51, e disposto a fare quello medesimo che tu hai a fare impreso, niun fu che mai a casa mia capitasse, che io nol contentasse52 a mio potere di ciò che da lui mi 35 fu domandato. Venistivi tu vago della mia vita, per che, sentendolati domandare, acciò che tu non fossi solo colui che senza la sua dimanda53 di qui si partisse, prestamente diliberai di donarlati, e acciò che tu l’avessi, quel consiglio ti diedi che io credetti che buon ti fosse ad aver la mia e non perder la tua; e per ciò ancora ti dico e priego che, s’ella ti piace, che tu la prenda e te medesimo ne sodisfaccia: io non so come io la mi possa meglio 36 spendere. Io l’ho adoperata già ottanta anni, e ne’miei diletti e nelle mie consolazioni usata; e so che, seguendo il corso della natura, come gli altri uomini fanno e generalmente tutte le cose, ella mi può omai piccol tempo esser lasciata; per che io giudico molto meglio esser quella donare, come io ho sempre i miei tesori donati e spesi, che tanto volerla guardare54, che ella mi sia contro a mia 37 voglia tolta dalla natura. Piccol dono è donare cento anni; quanto adunque è minor donarne sei o otto che io a star ci abbia55? Prendila adunque, se ella t’aggrada, io te ne priego; per ciò che, mentre vivuto ci sono, niuno ho 34 51 lui padrone, arbitro di me stesso: VII 3,5 n. Per la desinenza foneticamente regolare -e cfr. VIII .9,53 n. Poco più innanzi (35) al contrario b u o n t i f o s s i (Rohlfs, 560). 53 senza aver ottenuto quello che domandava, desiderava: Purg., IV 18 «Gridaro a noi: ‘Qui è vostro dimando’». 54 serbare, custodire: VIII 10,52 n. 55 abbia a stare su questa terra, abbia a vivere: IV 2,19 n. Forse in queste parole e in questi sentimenti è un’eco di quelli dell’Ulisse dantesco (Inf., XXVI 112 sgg.). 52 Letteratura italiana Einaudi 1338 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 38 39 40 41 42 43 ancor trovato che disiderata l’abbia, né so quando trovar me ne possa veruno, se tu non la prendi che la dimandi. E se pure avvenisse che io ne dovessi alcun trovare, conosco che, quanto più la guarderò, di minor pregio sarà; e però, anzi che ella divenga più vile56, prendila, io te ne priego. Mitridanes, vergognandosi forte, disse: «Tolga Iddio57 che così cara cosa come la vostra vita è, non che io, da voi dividendola, la prenda, ma pur la disideri58, come poco avanti faceva; alla quale non che io diminuissi gli anni suoi, ma io l’agiugnerei volentier de’ miei, se io potessi». A cui prestamente Natan disse: «E, se tu puoi, vuo’nele59 tu aggiugnere? È farai a me fare verso di te quello che mai verso alcuno altro non feci, cioè delle tue cose pigliare, che60 mai dell’altrui non pigliai?» «Sì,» disse subitamente Mitridanes. «Adunque,» disse Natan «farai tu come io ti dirò. Tu ti rimarrai, giovane come tu se’, qui nella mia casa, e avrai nome Natan, e io me n’andrò nella tua e farommi sempre chiamar Mitridanes». Allora Mitridanes rispose: «Se io sapessi così bene operare come voi sapete e avete saputo, io prenderei senza troppa diliberazione61 quello che m’offerete; ma 56 57 di minor valore. Deprecazione simile ad altre già annotate (II 8,21 n.; IV 9,23 n.). 58 nonché prenderla ma neanche soltanto che io la desideri, togliendola a voi: Purg., VI 19. 59 gliene vuoi. 60 io che. Si potrebbe forse anche interpretare c h é . 61 senza molta (Intr., 82 n.) riflessione, senza stare a pensarci troppo: IV 9,24 n. Letteratura italiana Einaudi 1339 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X per ciò che egli mi pare esser molto certo che le mie opere sarebbon diminuimento della62 fama di Natan, e io non intendo di guastare in altrui quello che in me io non acconciare63 nol prenderò». 44 Questi e molti altri piacevoli ragionamenti stati64 tra Natan e Mitridanes, come a Natan piacque, insieme verso il palagio se ne tornarono, dove Natan più giorni sommamente onorò Mitridanes, e lui con ogni ingegno e saper confortò nel suo alto e grande proponimento. E volendosi Mitridanes con la sua compagnia ritornare a casa, avendogli Natan assai ben fatto conoscere che mai di liberalità nol potrebbe avanzare, il licenziò65. - 62 di scapito, di detrimento per la ...: cfr. 11 n. compiere bene: I 1,29; VIII 1,17 n. 64 essendo stati, avvenuti: costruzione participiale assoluta. 65 non lo potrebbe superare, lo lasciò andare. 63 Letteratura italiana Einaudi 1340 NOVELLA QUARTA 1 Messer Gentil de’ Carisendi, venuto da Modona, trae della sepoltura una donna amata da lui, sepellita per morta; la quale riconfortata partorisce un figliuol maschio, e Messer Gentile lei e ’l figliuolo restituisce a Niccoluccio Caccianimico, marito di lei1. 2 Maravigliosa cosa parve a tutti che alcuno del propio sangue fosse liberale; e veramente affermaron Natan 1 Questa novella - i cui riflessi si allargarono enormemente anche per le celeberrime simili narrazioni di Ginevra degli Almieri e di Romeo e Giulietta - sembra rivelare nel testo stesso un’origine orientale (cfr. 24). Difatti un antecedente diretto si può trovare nel Tûti-nâmeh) di Nachshebi (ed. Rosen, Leipzig 1858, XX; P. RAJNA, L’episodio delle questioni d’amore ecc., in «Romania», XXXI, 1902); e spunti simili sono in raccolte narrative cinesi e indiane che forse riflettono motivi antichi (G. PUINI, Novelle cinesi, Piacenza 1871, p. 71) e nella novellistica popolare e tradizionale dei Ciuvasci (W. ANDERSON, La storia di Messer Gentile de’ Carisendi ecc., in «Lares», III, 1914). Ma anche nella letteratura d’occidente non mancano motivi propri a questa novella: da una narrazione di Apuleio (Metamorfosi, X 2 sgg.) e da motivi e cenni nei romanzi greci (cfr. Le avventure di Cherea e Calliroe a cura di A. Calderini cit., pp. 72 sgg., e 78 sgg.) all’Apollonio di Tiro, a un momento del Lai d’Eliduc (cfr. specie Landau, p. 327), a tradizioni popolaresche (Thompson e Rotunda, T 37). Ma naturalmente l’antecedente più diretto e più interessante è la simile narrazione che il B. aveva già inserita nella XIII «questione d’amore» del Filocolo (IV 67): eccezionale ripresa, questa, nel D. di un testo giovanile che sottolinea un’eccezionale adesione fantastica. Oltre le solite opere, soprattutto per il confronto fra le due versioni boccacciane, cfr. RAJNA, art. cit.; C. TRABALZA, Studi sul B., Città di Castello 1906, pp. 189 sgg.; R. FORNACIARI, Dal Filocolo al D., in «Miscellanea Storica della Valdelsa», XXI, 1913; F. MAZZONI, Una presunta fonte del B., in «Studi Danteschi», XXIX, 1950 (che insiste sull’Apollonio); Filocolo, ed. Quaglio cit., commento a IV 67-70. Letteratura italiana Einaudi 1341 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 3 4 5 aver quella2 del re di Spagna e dello abate di Clignì trapassata. Ma poi che assai e una cosa e altra detta ne fu, il re, verso Lauretta riguardando, le dimostrò che egli desiderava che ella dicesse; per la qual cosa Lauretta prestamente incominciò: – Giovani donne, magnifice3 cose e belle sono state le raccontate, né mi pare che alcuna parte restata sia a noi che abbiamo a dire, per la qual novellando vagar possiamo4, sì son tutte dall’altezza delle magnificenzie raccontate occupate5, se noi ne’fatti d’amore già non mettessimo mano6, li quali ad ogni materia prestano abbondantissima copia di ragionare; e per ciò, sì per questo e sì per quello a che la nostra età7 principalmente ci dee inducere, una magnificenzia da uno innamorato fatta mi piace di raccontarvi, la quale, ogni cosa considerata, non vi parrà per avventura minore che alcune delle mostrate, se quello è vero che i tesori si donino, le inimicizie si dimentichino, e pongasi la propia vita, l’onore e la fama, ch’è molto più, in mille pericoli, per potere la cosa amata possedere. Fu adunque in Bologna8, nobilissima città di Lom- 2 Cioè la liberalità da sottintendersi dal l i b e r a l e preceden- te. 3 Com’è noto nell’italiano antico si oscillava in questi casi al plurale tra forme non palatalizzate e palatalizzate (cfr. Rohlfs, 374): nel B. si alternano «magnifici» e «magnifichi», «poetici» e «poetichi»; anche in Dante ricor. rono «biece» (Inf., XXV 31), «piage» (Purg., XXV 30). E cfr. anche VII 3,2 n.; X 6,22 n. 4 Modo figurato che ricorre con una certa frequenza nel D.: per es. IV intr., 43; IX concl., 4. 5 dell’altezza ... piene, ricche (Marti). 6 VI 1,12: «il cavaliere ... mise mano in altre novelle». 7 Cioè: trattandosi di un tema verso il quale la nostra giovinezza ... 8 Una delle città più presenti nel D. (I 10, II 2, III 8, VII 7; VIII 9, X 10). Letteratura italiana Einaudi 1342 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 6 bardia9, un cavaliere per virtù e per nobiltà di sangue ragguardevole assai, il qual fu chiamato messer Gentil Carisendi10, il qual giovane d’una gentil donna chiamata madonna Catalina11, moglie d’un Niccoluccio Caccianimico12, s’innamorò; e perché male dello amor della donna era13, quasi disperatosene, podestà chiamato di Modona14, v’andò. In questo tempo, non essendo Niccoluccio a Bologna, e la donna ad una sua possessione, forse tre miglia alla terra vicina, essendosi, per ciò che gravida era, andata a stare, avvenne che subitamente un fiero accidente la soprapprese15, il quale fu tale e di tanta forza, che in 9 Così si usava chiamare genericamente l’Italia settentrionale: Benvenuto da Imola commentando Inf., XXVIII 74-75 ne fissa i confini: «civitas Vercellarum est in extremo Lombardiae et Marchabò quasi in fine fluminis Padi». Cfr. anche I 1,26 n.; Amorosa Visione, XL 40 sgg. e commento. 10 Nobile e notissima famiglia bolognese, da cui ebbe nome la famosa torre pendente: Inf., XXXI 136: «Qual pare a riguardar la Carisenda». Cfr. in gen. GOZZADINI, Delle torri gentilizie di Bologna cit., pp. 271 sgg. 11 Cioè Caterina, secondo una forma assai diffusa in Bologna. 12 Altra notissima e nobile famiglia bolognese di parte guelfa e geremea. Cfr. in gen. GOZZADINI, op. cit., p. 212; G. ZACCAGNINI, in «Giorn. Stor. Lett. It.», LXIV-V, 1914-15, e in «Atti ... Dep. Storia Patria ... Romagna», serie IV, XXIV, 1933-34 anche per le varie notizie riferite dai commentatori danteschi a proposito di Inf., XVIII 50 e di Venedico Caccianemico. I Caccianemico ebbero cariche e influenza a Modena: cfr. n. 2 p. sg. 13 Cioè: non era corrisposto dalla donna, non era in grazia della donna: cfr. II 7,32 n.; VIII 10,48 n. E vedi anche l’interessante Annotazione, CXIX. 14 Un Alberto Caccianemico fu podestà di Modena nel 1254 e 1255 (P. E. VICINI, I podestà di Modena, Roma 1913, I, pp. 106 sgg.); e Venedico Caccianemico fu ivi Capitano del popolo nel 1272 (ZACCAGNINI, art. cit.). Strana coincidenza e più strano rovesciamento. 15 la colse di sorpresa una violenta malattia, o un subitaneo terribile collasso: cfr. Intr., 13 n. e II 2,16 n. Letteratura italiana Einaudi 1343 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 7 8 9 lei spense ogni segno di vita, e per ciò eziandio da alcun medico morta giudicata fu; e per ciò che le sue più congiunte parenti dicevan sé avere avuto da lei16 non essere ancora di tanto tempo gravida, che perfetta potesse essere la creatura, senza altro impaccio darsi, quale ella era17, in uno avello d’una chiesa ivi vicina dopo molto pianto la sepellirono. La qual cosa subitamente da un suo amico fu significata a messer Gentile, il qual di ciò, ancora che della sua grazia fosse poverissimo18, si dolfe19 molto, ultimamente seco dicendo: «Ecco, madonna Catalina, tu se’morta; io, mentre che vivesti, mai un solo sguardo da te aver non potei; per che, ora che difender non ti potrai, convien per certo che, così morta come tu se’io alcun bacio li tolga20». E questo detto, essendo già notte, dato ordine come la sua andata occulta fosse, con un suo famigliare montato a cavallo, senza ristare21 colà pervenne dove sepellita era la donna, e aperta la sepoltura, in quella diligentemente22 entrò, e postolesi a giacere allato, il suo viso a quello della donna accostò, e più volte con molte lagri- 16 aver saputo da lei: IV 9,15 n. senza darsi altro pensiero, senza preoccuparsi altrimenti, come si trovava, nelle condizioni in cui era ... : il 2,14 n. 18 Variazione della espressione al par. 5. 19 dolse: II 7,37 n. 20 Senza cioè il consenso della donna: come già nella V 1,46: «Cimone perdé la sua Efigenia ... senza altro averle tolto che alcun bascio». Per questo desiderio e per tutta la scena seguente cfr. l’Elegia di Costanza (V. Branca, Tradizione delle opere cit., pp. 21617); e un passo dell’Historia Apollonii (XXV) esaminato dal Mazzoni (art. cit.). 21 senza mai fermarsi. 22 Con cura e cautela: cfr. I 2,2. 17 Letteratura italiana Einaudi 1344 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X me piagnendo il basciò23. Ma, sì come noi veggiamo l’appetito degli uomini a niun termine24 star contento, ma sempre più avanti desiderare, e spezialmente quello degli amanti, avendo costui seco diliberato di più non starvi, disse: «Deh! perché non le tocco io, poi che io son qui, un poco il petto? Io non la debbo mai più toccare, né mai più la toccai». Vinto adunque da questo appetito, le mise la mano 11 in seno, e per alquanto spazio tenutalavi, gli parve senti12 re alcuna cosa25 battere il cuore a costei. Il quale, poi che ogni paura ebbe cacciata da sé, con più sentimento cercando26, trovò costei per certo non esser morta, quantunque poca e debole estimasse la vita; per che soavemente27 quanto più potè, dal suo famigliare aiutato, del monimento28 la trasse, e davanti al caval messalasi, segretamente in casa sua la condusse in Bologna. 13 Era quivi la madre di lui, valorosa e savia donna, la qual, poscia che dal figliuolo ebbe distesamente ogni cosa udita, da pietà mossa, chetamente con grandissimi fuochi e con alcun bagno in costei rivocò la smarrita vi10 23 Purg., XXIII 55: «La faccia tua, ch’io lagrimai già morta» (verso riflesso più puntualmente nel Filocolo, IV 67,5). 24 limite. «Nota bene» (M.): e cfr. Esposizioni, V all. 82. 25 alcun poco, un poco: è detto avverbialmente, alla latina (aliquid): X 10,54 n.; Concl., 4 e 29; Guittone, Lettere, XIV, p. 177: «mitigando alcuna cosa suoie periglioze piaghe». 26 con più attenzione, con più diligenza tastando: II 8,44 n. «Uso singolare, ma non strano, della voce s e n t i m e n t o : anzi espressivo, perché la molta attenzione rende più forte la sensazione» (Fornaciari). E cfr. VI 5,4 n. 27 delicatamente, con cautela: VI 2,28 n. 28 sepolcro: III 8,68 n. Letteratura italiana Einaudi 1345 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 14 15 16 17 18 ta; la quale come rivenne29, così la donna gittò un gran sospiro e disse: «Ohimè! ora ove sono io?» A cui la valente donna rispose: «Confortati, tu se’in buon luogo». Costei, in sé tornata e dintorno guardandosi, non bene conoscendo dove ella fosse e veggendosi davanti messer Gentile, piena di maraviglia la madre di lui pregò che le dicesse in che guisa ella quivi venuta fosse; alla quale messer Gentile ordinatamente contò ogni cosa. Di che ella, dolendosi, dopo alquanto quelle grazie gli rendè che ella potè e appresso il pregò per quello amore il quale egli l’aveva già portato30, e per cortesia di lui, che in casa sua ella da lui non ricevesse cosa che fosse meno che onor di lei e del suo marito, e come il dì venuto fosse, alla sua propria casa la lasciasse tornare. Alla quale messer Gentile rispose: «Madonna, chente che31 il mio disiderio si sia stato ne’ tempi passati, io non intendo al presente né mai per innanzi32 (poi che Idio m’ha questa grazia conceduta che da morte a vita mi v’ha renduta, essendone cagione l’amore che io v’ho per addietro portato) di trattarvi né qui né altrove, se non come cara sorella33; ma questo mio beneficio, operato in voi34 questa notte, merita alcun guiderdone35; e 29 Più comune rinvenne: ma cfr. per es. San Bernardo, Opere penitenziali volg., Venezia 1842, p. 31: «Essendo la Vergine rivenuta alquanto»; Pulci, Morgante, VII 23. Oppure: come ritornò, essendo ritornata la quale [vita]. 30 Inf., V 77-78: «li priega | Per quello amor che i mena»: e cfr. IV 8,22; V 9,32 ecc. 31 qualunque, quale che: Intr., 55 n. 32 d’ora innanzi. 33 Cfr. X 5,22. 34 verso di voi, alla latina: III 6,14 n. 35 premio, ricompensa: con la sfumatura di tono cortese che ha generalmente nel D. (per es. II 8,95 e 96 e 99; III 5,15 e 21; III 9,23 ecc.) e che qui conviene all’atmosfera gentilesca della novella. Letteratura italiana Einaudi 1346 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 19 20 21 22 per ciò io voglio che voi non mi neghiate una grazia la quale io vi domanderò». Al quale la donna benignamente rispose sé essere apparecchiata, solo che ella potesse, e onesta fosse 36. Messer Gentile allora disse: «Madonna, ciascun vostro parente e ogni bolognese credono e hanno per certo voi esser morta, per che niuna persona è la quale più a casa v’aspetti; e per ciò io voglio di grazia da voi, che vi debbia piacere di dimorarvi tacitamente37 qui con mia madre infino a tanto che io da Modona torni, che sarà tosto. E la cagione per che io questo vi cheggio è per ciò che io intendo di voi, in presenzia de’migliori cittadini di questa terra, fare un caro e uno solenne dono al vostro marito». La donna, conoscendosi al cavaliere obbligata, e che la domanda era onesta, quantunque molto disiderasse di rallegrare della sua vita i suoi parenti, si dispose a far quello che messer Gentile domandava; e così sopra la sua fede38 gli promise. E appena erano le parole della sua risposta finite, che ella sentì il tempo del partorire esser venuto; per che, teneramente dalla madre di messer Gentile aiutata, non molto stante39 partorì un bel fi- 36 Riserva donnesca solita in casi simili: cfr. I 10,19 n. segretamente, nascostamente: II 2,20: «in casa di lei medesima tacitamente aveva fatto fare un bagno». 38 sulla sua parola d’onore, con giuramento. 39 di lì a poco, poco appresso: cfr. III 4,30: «poco stante». 37 Letteratura italiana Einaudi 1347 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X gliuol maschio; la qual cosa in molti doppi40 moltiplicò la letizia di messer Gentile e di lei. Messer Gentile ordinò che le cose opportune tutte vi fossero, e che così fosse servita costei come se sua propia moglie fosse, e a Modona segretamente se ne tornò. Quivi fornito41 il tempo del suo uficio e a Bologna 23 dovendosene tornare, ordinò, quella mattina che in Bologna entrar doveva, di molti e gentili uomini di Bologna, tra’quali fu Niccoluccio Caccianimico, un grande e bel convito42 in casa sua; e tornato e ismontato e con lor trovatosi, avendo similmente la donna ritrovata più bella e più sana che mai, e il suo figlioletto star bene, con allegrezza incomparabile i suoi forestieri43 mise a tavola, e quegli fece di più vivande magnificamente servire. 24 Ed essendo già vicino alla sua fine il mangiare, avendo egli prima alla donna detto quello che di fare intendeva e con lei ordinato il modo che dovesse tenere, così cominciò a parlare: «Signori, io mi ricordo avere alcuna volta inteso in Persia essere, secondo il mio giudicio, una piacevole usanza, la quale è che, quando alcuno vuole sommamente onorare il suo amico, egli lo ‘nvita a casa sua e quivi gli mostra quella cosa, o moglie o amica o figliuola o che che si sia, la quale egli ha più cara, affermando che, se egli potesse, così come questo gli mostra, 40 sommamente, grandissimamente (cioè raddoppiando continuamente il raddoppiato): cfr. III 7,30: «in ben mille doppi faceste l’amor raddoppiare». 41 finito, compiuto. 42 Cioè: un grande e bel convito con l’intervento di molti ecc. La costruzione c o l d i corrisponde a quella latina ex con l’ablativo. 43 convitati, ospiti: VI 4,10 n. Letteratura italiana Einaudi 1348 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 25 26 27 28 molto più volentieri gli mosterria il cuor suo; la quale44 io intendo di volere osservare in Bologna. Voi, la vostra mercé45, avete onorato il mio convito, e io intendo onorar voi alla persesca46, mostrandovi la più cara cosa che io abbia nel mondo o che io debbia aver mai. Ma prima che io faccia questo, vi priego mi diciate quello che sentite47 d’un dubbio il quale io vi moverò. Egli è alcuna persona48 la quale ha in casa un suo buono e fedelissimo servidore, il quale inferma gravemente; questo cotale, senza attendere il fine49 del servo infermo, il fa portare nel mezzo della strada, né più ha cura di lui; viene uno strano50, è mosso a compassione dello ‘nfermo, e sel reca a casa, e con gran sollicitudine e con ispesa il torna nella prima sanità. Vorrei io ora sapere se, tenendolsi e usando i suoi servigi, il primo signore si può a buona equità51 dolere o ramaricare del secondo, se egli, raddomandandolo52, rendere nol volesse». I gentili uomini, fra sé avuti vari ragionamenti, e tut- 44 Si riferisce a u s a n z a di sei righe innanzi: e cfr. X 9,27 sgg. per vostra grazia: V 9,35 n. Oggi: gentilmente. secondo l’usanza persiana: cfr. X 9,77: «alla guisa saracinesca» e 96: «in abito arabesco» (il suffisso -esco era usitatissimo negli aggettivi etnici). 47 pensate, giudicate. Rimane anche in questa narrazione del D. un riflesso di quell’elegante questionare, che nel Filocolo aveva offerta l’occasione alla prima versione di questa novella. Ma l’esempio del servo malato abbandonato dal suo signore e curato invece da un estraneo (che arieggia alla parabola del buon samaritano) è una novità rispetto alla narrazione del Filocolo. 48 Cioè: c’è un tale. 49 la fine cioè la morte. È più usata in questo senso la forma femminile: ma cfr. Petrarca, CXL 14; CCXLVI 8, CCCXII 13: «I’ chiamo il fine, per lo gran desire» ecc.; e cfr. anche qui II 5,80. 50 estraneo, cioè che non ha alcun legame con lui: Intr., 77 n. 51 a buon diritto. 52 qualora egli lo richiedesse, lo rivolesse. 45 46 Letteratura italiana Einaudi 1349 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X ti in una sentenzia concorrendo53, a Niccoluccio Caccianimico, per ciò che bello e ornato favellatore54 era, com29 misero la risposta. Costui, commendata primieramente l’usanza di Persia, disse sé con gli altri insieme essere in questa oppinione, che il primo signore niuna ragione avesse più nel55 suo servidore, poi che in sì fatto caso non solamente abbandonato, ma gittato l’avea; e che, per li benefici del secondo usati, giustamente parea di lui il servidore divenuto, per che, tenendolo, niuna noia, niuna forza, niuna ingiuria faceva al primiero. Gli altri tutti che alle tavole56 erano, ché v’avea di valenti57 uomini, tutti insieme dissono sé tener58 quello che da Niccoluccio era stato risposto. Il cavaliere, contento di tal risposta e che Niccoluc30 cio l’avesse fatta, affermò sé essere in quella oppinione altressì, e appresso disse: «Tempo è omai che io secondo la promessa v’onori.- E chiamati due de’suoi famigliari, gli mandò alla donna, la quale egli egregiamente avea fatta vestire e ornare, e mandolla pregando59 che le dovesse piacere di venire a far lieti i gentili uomini della 31 sua presenzia. La qual, preso in braccio il figliolin suo bellissimo, da’ due famigliari accompagnata, nella sala 53 essendo concordi in uno stesso parere: cfr. II 9,7: «Il terzo quasi in questa medesima sentenza parlando pervenne». 54 Come Bergamino: I 7,7: e cfr. VI 1,5 n.; X concl., 11. 55 diritto avesse più verso il, sul ...: Passavanti, Specchio, p. 32: «se noi abbiamo alcuna ragione in lui»: e cfr. III 6,14 n. 56 Per l’uso di disporsi a più tavole cfr. Intr., 106 n. 57 v’erano parecchi valenti ... (cfr. III 8,27 n.). 58 che pensavano, che giudicavano giusto (III 7,67 n.): sottinteso facilmente prima un d i s s e r o dal precedente d i s s e all’inizio del periodo. 59 La solita costruzione di m a n d a r e col gerundio (IV 2,23 n.). Letteratura italiana Einaudi 1350 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 32 33 34 35 venne, e come al cavalier piacque, appresso ad un valente uomo si pose a sedere; e egli disse: «Signori, questa è quella cosa che io ho più cara e intendo d’avere, che alcun’altra; guardate se egli vi pare che io abbia ragione». I gentili uomini, onoratola60 e commendatola molto, e al cavaliere affermato che cara la doveva avere, la cominciarono a riguardare; e assai ve n’eran che lei avrebbon detto colei chi ella era, se lei per morta non avessero avuta61. Ma sopra tutti la riguardava Niccoluccio, il quale, essendosi alquanto partito62 il cavaliere, sì come colui che ardeva di sapere chi ella fosse, non potendosene tenere, la domandò se bolognese fosse o forestiera. La donna, sentendosi al63 suo marito domandare, con fatica di risponder si tenne64; ma pur, per servare l’ordine postole, tacque. Alcun altro la domandò se suo era quel figlioletto, e alcuno se moglie fosse di messer Gentile, o in altra maniera sua parente; a’quali niuna risposta fece. Ma, sopravvegnendo messer Gentile, disse alcun de’ suoi forestieri: «Messere, bella cosa è questa vostra, ma ella ne par mutola; è ella così?» «Signori,» disse messer Gentile «il non avere ella al presente parlato è non piccolo argomento65 della sua virtù». 60 Una delle solite forme invariate del participio (cfr. Intr., 35 n.), qui posta eccezionalmente accanto alla femminile, come a X 10,31. 61 se non avessero stimato che lei fosse morta. 62 allontanato, scostato: II 8,82 n. 63 dal: Intr., 20 n. 64 si trattenne, si astenne dal rispondere: il 5,53 n. e qui due righe sopra. 65 prova, indizio. Letteratura italiana Einaudi 1351 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X «Diteci adunque voi,» seguitò colui «chi ella è». Disse il cavaliere: «Questo farò io volentieri, sol che voi mi promettiate, per cosa che io dica, niuno doversi muovere del luogo suo fino a tanto che io non ho la mia novella66 finita». 38 Al quale avendol promesso ciascuno, ed essendo già levate le tavole, messer Gentile allato alla donna sedendo, disse: «Signori, questa donna è quel leale e fedel servo, del quale io poco avanti vi fe’ la dimanda; la quale da’suoi poco avuta cara, e così come vile e più non utile nel mezzo della strada gittata, da me fu ricolta67, e con la mia sollicitudine e opera delle mani la68 trassi alla morte, e Iddio, alla mia buona affezion riguardando, di corpo 39 spaventevole69 così bella divenir me l’ha fatta. Ma acciò che voi più apertamente intendiate come questo avvenu40 to mi sia, brievemente vel farò chiaro70». E cominciatosi dal suo innamorarsi di lei, ciò che avvenuto era infino allora distintamente narrò con gran maraviglia degli ascoltanti, e poi soggiunse: «Per le quali cose, se mutata non avete sentenzia da poco in qua, e Niccoluccio spezialmente, questa donna meritamente è mia, né alcuno con giusto titolo71 me la può raddomandare». 36 37 66 racconto, narrazione. Il verbo ha forse anche qui quella sfumatura affettuosa che abbiamo visto altrove: IV 6,28 n. 68 Una delle solite riprese pleonastiche: la strappai dalle mani della morte. 69 dallo stato di cadavere spaventoso. 70 ve lo manifesterò, ve lo chiarirò: III 1,5: «mi piace ... di farvene più chiare con una piccola novelletta»; Par., VIII 91. 71 a buon diritto, legittimamente: e la frase è ripresa più sotto (48 «giusto titolo parendogli avere»): e cfr. II I,22 e IV 3,17 n. 67 Letteratura italiana Einaudi 1352 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 41 42 43 44 45 A questo niun rispose, anzi tutti attendevan quello che egli più avanti dovesse dire. Niccoluccio e degli altri che v’erano e la donna, di compassion lagrimavano72; ma messer Gentile, levatosi in piè e preso nelle sue braccia il picciol fanciullino e la donna per la mano73, e andato verso Niccoluccio, disse: «Leva sù74, compare, io non ti rendo tua mogliere, la quale i tuoi parenti e suoi gittarono via; ma io ti voglio donare questa donna mia comare con questo suo figlioletto, il quale io son certo che fu da te generato, e il quale io a battesimo tenni e nomina’lo75 Gentile; e priegoti che, perch76’ella sia nella mia casa vicin di tre mesi77 stata, che ella non ti sia men cara; ché io ti giuro per quello Iddio, che forse già di lei innamorar mi fece acciò che il mio amore fosse, sì come stato è, cagion della sua salute, che ella mai o col padre o con la madre o con teco più onestamente non visse, che ella appresso di mia madre ha fatto nella mia casa». E questo detto, si rivolse alla donna e disse: «Madonna, omai da ogni promessa fatami io v’assolvo, e libera vi lascio di Niccoluccio -; e rimessa la donna e ’l fanciul nelle braccia di Niccoluccio, si tornò a sedere». Niccoluccio disiderosamente78 ricevette la sua don- 72 Scena di agnizione che ricorda da vicino II 8,98; III 7,90: e nota la stessa espressione ripetuta al 45. 73 In segno di reverenza: X 2,17 n. 74 Orsù: cfr. III 7,93 n.; IV 10,14; V 10,52; Inf., XXIV 52: «E però leva sù; vinci l’ambascia». 75 e gli diedi il nome di ... Perché padrino del figlio, Gentile aveva prima chiamato i genitori compare e comare. 76 «Può avere valore semplicemente dichiarativo (per il fatto che ella); o potrebbe essere concessivo (per quanto ella)» (Marti). 77 da circa tre mesi: Guittone, Lettere, XXX, p. 353: «vicin fu che neiente…» 78 con gran piacere, con grande impeto di affetti: cfr. II 2,39; III 2,16. Letteratura italiana Einaudi 1353 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X na e ‘l figliuolo, tanto più lieto quanto più n’era di speranza lontano, e, come meglio potè e seppe, ringraziò il cavaliere; e gli altri che tutti di compassion lagrimavano, di questo il commendaron molto, e commendato fu da 46 chiunque l’udì. La donna con maravigliosa festa fu in casa sua ricevuta, e quasi risuscitata con ammirazione fu più tempo guatata da’ bolognesi79; e messer Gentile sempre amico visse di Niccoluccio e de’suoi parenti e di quei della donna. Che adunque qui, benigne donne, direte? Estimere47 te l’aver donato un re lo scettro e la corona, e uno abate senza suo costo80 aver riconciliato un malfattore al papa, o un vecchio porgere la sua gola al coltello del nimico, 48 essere stato da agguagliare al fatto di messer Gentile? Il quale giovane e ardente, e giusto titolo parendogli avere in ciò che la traccutaggine81 altrui aveva gittato via ed egli per la sua buona fortuna aveva ricolto, non solo temperò onestamente il suo fuoco, ma liberalmente quello che egli soleva con tutto il pensier disiderare e cercar di rubare, avendolo, restituì. Per certo niuna delle già dette a questa mi par simigliante. - 79 Conclusione che può ricordare quella della III 7,96 a proposito di Tedaldo redivivo: «Li fiorentini più giorni quasi come uno uomo risuscitato e maravigliosa cosa riguardaron Tedaldo» (e cfr. anche III 8,73 sgg.). 80 senza rimetterci nulla di suo: VIII 1,18. 81 trascuratezza: Intr., 65 n. Letteratura italiana Einaudi 1354 NOVELLA QUINTA 1 Madonna Dianora domanda a messer Ansaldo un giardino di gennaio bello come di maggio; messer Ansaldo con l’obligarsi a uno nigromante gliele dà; il marito le concede che ella faccia il piacere di messer Ansaldo, il quale, udita la liberalità del marito, l’assolve della promessa, e il nigromante, senza volere alcuna cosa del suo, assolve messer Ansaldo1. 1 La novella - anch’essa, come la precedente, già narrata nel Filocolo (IV questione d’amore: IV 31; per il confronto fra i due testi vedi in generale gli studi citati alla X 4,1 n.) - ha dei chiari antecedenti nelle letterature orientali. Notevoli i rapporti col Tûti-nâmeb di Nachshebi (ed. cit., I, pp. 248 sgg.), e con un’antica versione cinese di testi buddistici (S. DEBENEDETTI, Un’antica parente di Madonna Dianora, in «Italia», III, 1913): sono stati citati anche episodi simili del Dschami (Rosenöl, ed. Hammer, Leipzig 1813, II, p. 277), del Katbàsaritságara (ed. cit., II, p. 278), del Baitál Pachísi (ed. Oesterley, Leipzig 1873, p. 87), del Babár-i-Dánisch (ed. Ramchamdraji, Bombay 1870, p. 280), di vari racconti pali, persiani, turchi, ecc. (CLOUSTON, Chaucer Originals and Analogues, London 1887, pp. 291, 297, 305, 310, 315, 325 sgg.). Ma anche alla letteratura del Medioevo occidentale il tema non era ignoto: basti pensare a Le chevalier à la mance di Jean de Condé, alle possibili fonti comuni al B. e a Chaucer per il suo Franklin’s Tale (cfr. W. H. SCHOFIELD, Chaucer’s Franklin’s Tale, in «PMLA», XVI, 1901; e P. RAJNA, L’episodio delle questioni d’amore cit. e Le origini della novella narrata dal Frankeleyn, in «Romania», XXXI e XXXII, 1902 e 1903; R. H. LUMIANSKI, The character and performance of Chaucer’s Franklin, in «Toronto University Quarterly», XX, 1951), e alla estrema popolarità del motivo così prossimo a quello della IX 1 (cfr. ivi 1 n.; e Aarne, 976; Thompson D 961, 1664; F 971.5; H 1023.3; K 1231; M 261; Rotunda, D 961.1; F 971.5; H 352*; H 1552.1.1*; M 261.1*; M. P. GIARDINI, op. cit., p. 63). Si aggiunga anche, per quel che può valere, l’affermazione del Bottari (Lezioni sopra il D., II, pp. 100 sgg.) che questa novella «si legge antica altrove» (ma non dà altra indicazione); e si tengano presenti gli episodi analoghi narrati come storici (per es. RRII.SS., XIX, p. 398; Manni, p. 555). Cfr. anche E. LEVI, Il libro dei cinquanta miracoli della Vergine, Bologna 1917, p. XII. Letteratura italiana Einaudi 1355 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 2 3 4 Per ciascuno della lieta brigata era già stato messer Gentile con somme lode tolto2 infino al cielo, quando il re impose ad Emilia che seguisse, la qual baldanzosamente3, quasi di dire disiderosa, così cominciò4:. – Morbide5 donne, niun con ragione dirà messer Gentile non aver magnificamente operato, ma il voler dire che più non si possa, il più potersi non fia forse malagevole a mostrarsi6; il che io avviso in una mia novelletta di raccontarvi. In Frioli7, paese quantunque freddo8 lieto di belle 2 innalzato, levato (lat. tollere). lietamente, con nobile disinvoltura: proprio come Emilia stessa alla I 5,15 dice della Marchesana del Monferrato. 4 Cfr. V 3,2 n.; VIII 8,2 n. 5 Un aggettivo prediletto dal B. per le sue donne: IV 2,32 n. 6 ma se altri volesse dire che non si possa operar più magnificamente, non sarebbe malagevole a mostrarsi che si può (Fanfani). 7 Friuli. Notizie indirette o forse anche dirette di questa regione il B. poté avere o dai concittadini - e forse parenti - Lapo e Lodaringo da Certaldo che esercitavano la mercatura a Cividale, o durante il suo viaggio del 1351 nel Tirolo quale ambasciatore della Repubblica fiorentina a Ludovico di Baviera, marchese di Brandeburgo. Cfr. A. HORTIS, G. B. ambasciatore, Trieste 1875, e Studi sulle opere latine cit., pp. 237 e 948 (dove cita interessanti ricordi inediti di Marcantonio Nicoletti); G. GEROLA, Petrarca e B. nel Trentino, in «Tridentum», VI, 1903; V. BRANCA, Per il testo del D., I, pp. 108 e 114 sgg. anche per la fortuna del D. nel Friuli, e Profilo cit., pp. 86 sg. E per i mercanti toscani, anzi certaldesi, nel Friuli nel Due-Trecento: A. BATTISTELLA, I Toscani in Friuli, Udine 1903: G. BINI, in «Atti Soc. Colombaria», 1908-909; P. A. MEDIN, in «Atti R. Ist. Veneto», LXXXIII 1922-23; F. DAMIANI NERI, I commercianti fiorentini in Alto Adige, in «Arch. per l’Alto Adige», XLII e XLIII, 1948 e 1949; R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, VI, pp. 870 sgg. 8 «Se ne derivava il nome, Frigoli, da frigus» (Scherillo), ma indebitamente (Forum Julii, da cui deriva, è il nome latino di Cividale). 3 Letteratura italiana Einaudi 1356 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 5 6 montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è una terra chiamata Udine, nella quale fu già una bella e nobile donna, chiamata madonna Dianora, e moglie d’un gran ricco uomo nominato Gilberto, assai piacevole e di buona aria9. E meritò questa donna per lo suo valore d’essere amata sommamente da un nobile e gran barone10, il quale aveva nome messer Ansaldo Gradense 11, uomo d’alto affare, e per arme e per cortesia conosciuto per tutto. Il quale, ferventemente amandola e ogni cosa faccendo che per lui si poteva per essere amato da lei, e a ciò spesso per sue ambasciate sollicitandola, invano si faticava. Ed essendo alla donna gravi le sollicitazioni del cavaliere, e veggendo che, per negare12 ella ogni cosa da lui domandatole13, esso per ciò d’amarla né14 di sollicitarla si rimaneva, con una nuova e al suo giudicio impossibil domanda si pensò di volerlosi torre da dosso15. E a una femina che a lei da parte di lui spesse volte 9 di natura gaia, buona: III 4,27 n. signore, genericamente: IV 3,19 n. (al 5 e al 9 è detto c a v a l i e r e). 11 Anche questo, come i precedenti, è nome sconosciuto: ma è evidente nella sua formazione un riflesso della fama di Grado (in cui i mercatanti fiorentini avevano interessi: R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, VI, p. 586), come in quello di Dianora forse un ricordo angioino (Registri di Cancelleria, III, p. 54). Da notare l’oscillazione fra Gilberto e Giliberto. 12 per quanto, benché negasse: IV 6,2: e cfr. Mussafia, p. 503. 13 Uno dei soliti participi invariati (cfr. Intr., 35 n.). 14 Corrente l’omissione di un primo n é dove oggi si richiederebbe («né d’amarla ...»): cfr. II concl., 14; X 10,5 (e anche qui, più avanti, par. 14). 15 Situazione identica a quella iniziale della IX 1 (5 sgg.), fino a riprese quasi verbali («... operando cautamente ciascuno ciò che per lui si poteva a dovere l’amor di costei acquistare ... le venne, acciò che la loro seccaggine si levasse da dosso, un pensiero: e quel fu di volergli richiedere d’un servigio il quale ella pensò niuno dovergliele fare»). 10 Letteratura italiana Einaudi 1357 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 7 8 veniva, disse indi16 così: «Buona femina, tu m’hai molte volte affermato che messer Ansaldo sopra tutte le cose m’ama e maravigliosi doni m’hai da sua parte proferti, li quali voglio che si rimangano a lui, per ciò che per quegli mai ad amar lui né a compiacergli mi recherei17; e se io potessi esser certa che egli cotanto m’amasse quanto tu di’, senza fallo io mi recherei ad amar lui e a far quello che egli volesse; e per ciò, dove di ciò mi volesse far fede18 con quello che io domanderò, io sarei a’suoi comandamenti presta». Disse la buona femina: «Che è quello, madonna, che voi disiderate che el faccia?» Rispose la donna: «Quello che io disidero è questo. Io voglio del mese di gennaio che viene, appresso di questa terra19 un giardino pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti albori20, non altrimenti fatto che se di maggio fosse; il quale21 dove egli non faccia, né te né altri mi mandi mai più; per ciò che, se più mi stimolasse22, come io infino a qui del tutto al mio marito e a’miei parenti tenuto ho nascoso23, così dolendomene loro, di levarlomi da dosso m’ingegnerei». 16 poi, appresso. mi indurrei: VII 9,27 n. 18 dare prova certa: Par., VIII 14. 19 vicino a questa città. 20 alberi: espressione quasi canonica in simili casi: Intr., 90; III intr., 2. 21 Si riferisce a g i a r d i n o . 22 Nel solito senso amoroso: II 8,41 n. e III 3,23 n. 23 La frase va intesa o sottintendendo assai facilmente la cosa, l’affare; o interpretando: come ... ho tenuto silenzio di ogni cosa al mio marito ecc. Anche questa affermazione ha precedenti puntuali nella III 3,28 e IX 1,5. 17 Letteratura italiana Einaudi 1358 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X Il cavaliere, udita la domanda e la proferta della sua donna, quantunque grave cosa e quasi impossibile a dover fare gli paresse e conoscesse per niun’altra cosa ciò essere dalla donna addomandato, se non per torlo dalla sua speranza, pur seco propose di voler tentare quantunque fare se ne potesse24; e in più parti per lo mondo mandò cercando se in ciò alcun si trovasse che aiuto o consiglio gli desse; e vennegli uno alle mani il quale, dove ben salariato fosse, per arte nigromantica profereva 10 di farlo25. Col quale messer Ansaldo per grandissima quantità di moneta convenutosi, lieto aspettò il tempo postogli. Il qual venuto, essendo i freddi grandissimi e ogni cosa piena di neve e di ghiaccio, il valente uomo in un bellissimo prato vicino alla città con sue arti26 fece sì, la notte alla quale il calendi gennaio27 seguitava, che la mattina apparve, secondo che color che ‘l vedevan testimoniavano, un de’più be’giardini che mai per alcun fosse stato veduto, con erbe e con alberi e con frutti d’ogni 11 maniera. Il quale come messere Ansaldo lietissimo ebbe veduto, fatto cogliere de’più be’frutti e de più be’fior che v’erano, quegli occultamente fe’presentare alla sua donna, e lei invitare a vedere il giardino da lei addomandato, acciò che per quel potesse lui amarla conoscere, e 9 24 quanto mai, tutto quello che si potesse fare in questa materia: cfr. Intr., 2 n. 25 Per le posizioni del B. verso la negromanzia cfr. VIII 7,47 n. e X 9,70 n. 26 Speditivo accenno al posto delle intere pagine dedicate nel Filocolo (IV 31, 22-37) agli incantesimi, secondo il modello delle Metamorfosi ovidiane (VII 179 sgg.: cfr. N. ZINGARELLI, La fonte classica d’un episodio del Filocolo, in «Romania», XIV, 1885; V. USSANI, Alcune imitazioni ovidiane del B., in «Maia», I, 1948). 27 primo di gennaio: c a l e n è troncamento corrente di c a l e n d i (ilI 8,70 n.) specialmente in posizioni simili. Letteratura italiana Einaudi 1359 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X ricordarsi della promission fattagli e con saramento28 fermata, e come leal donna poi procurar d’attenergliele. 12 La donna, veduti i fiori e’ frutti, e già da molti del maraviglioso giardino avendo udito dire, s’incominciò a pentere della sua promessa. Ma, con tutto il pentimento29, sì come vaga di veder cose nuove30, con molte altre donne della città andò il giardino a vedere, e non senza maraviglia commendatolo assai, più che altra femina dolente a casa se ne tornò, a quel pensando a che 13 per quello era obbligata. E fu il dolore tale, che non potendol ben dentro nascondere, convenne che, di fuori apparendo, il marito di lei se n’accorgesse, e volle del tutto da lei di quello saper la cagione. La donna per vergogna il tacque molto31; ultimamente, costretta, ordinatamente gli aperse ogni cosa32». Gilberto primieramente, ciò udendo, si turbò forte; 14 poi, considerata la pura33 intenzion della donna, con miglior consiglio, cacciata via l’ira, disse: «Dianora, egli non è atto di savia né d’onesta donna d’ascoltare alcuna ambasciata delle così fatte né di pattovire34 sotto alcuna condizione con alcuno la sua castità35. Le parole per gli orecchi dal cuore ricevute hanno maggior forza che molti non stimano, e quasi ogni cosa diviene agli amanti 28 giuramento: I 1,11 n. nonostante il pentimento: Intr., 22 n. straordinarie, inconsuete. 31 per lungo tempo. 32 Cfr. Inf., X 44. 33 buona, non maliziosa. 34 pattuire, mettere a prezzo, a patto: cfr. V 1,25 n, 35 «Nota bene» (M. che segna a margine i due primi periodi del discorso). Anche nella IX 1,6: «avendo ella a esse [ambasciate] men saviamente più volte gli orecchi porti». 29 30 Letteratura italiana Einaudi 1360 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X possibile36. Male adunque facesti prima ad ascoltare e poscia a pattovire; ma per ciò che io conosco la purità dello animo tuo, per solverti dal legame della promessa, quello ti concederò che forse alcuno altro non farebbe; inducendomi ancora la paura del nigromante, al qual forse messer Ansaldo, se tu il beffassi, far ci farebbe do16 lenti37. Voglio io che tu a lui vada38, e, se per modo alcun puoi, t’ingegni di far che, servata la tua onestà, tu sii da questa promessa disciolta; dove altramenti non si potesse, per questa volta il corpo, ma non l’animo, gli concedi39». 17 La donna, udendo il marito, piagneva e negava sé cotal grazia voler da lui. A Gilberto, quantunque la donna il negasse molto40, piacque che così fosse. Per che, venuta la seguente mattina, in su l’aurora, senza troppo ornarsi41, con due suoi famigliari innanzi e con una cameriera appresso, n’andò la donna a casa messere Ansaldo. Il quale, udendo la sua donna a lui esser venuta, si 18 maravigliò forte, e levatosi e fatto il nigromante chiamare, gli disse: «Io voglio che tu vegghi42 quanto di bene la 15 36 Sentenza classica: «Nil difficile amanti» (Cicerone, Orat., 10); «Qui non zelat amare non potest» (A. Cappellano, De Amore, p. 310). Ed è programmaticamente ripresa o accennata di frequente nelle premesse alle novelle (cfr. per es. V 6,3; VI 4,3; VII 6,3 ecc.). 37 dal quale forse messer Ansaldo ... ci farebbe far cosa che ci renderebbe dolenti. Accenno umanissimo che mancava nel Filocolo. 38 «Ahi, bestion folle!» (M.). 39 Parole che forse riecheggiano quelle di Lucrezia riferite da Livio (I 58 «corpus est tantum violatum, animus insons ...»). 40 dicesse di no ostinatamente, vi si rifiutasse energicamente: IV 4,21. 41 Invece nel Filocolo (IV 31,47): «ornatasi e fattasi bella». 42 Per questa forma al congiuntivo cfr. V 6,38 n.; IX 5,36 e 52. Letteratura italiana Einaudi 1361 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 19 20 21 22 tua arte m’ha fatto acquistare»: e incontro andatile, senza alcun disordinato appetito43 seguire, con reverenza onestamente la ricevette44, e in una bella camera ad un gran fuoco se n’entrar tutti; e fatto lei porre a seder, disse: «Madonna, io vi priego, se il lungo amore il quale io v’ho portato merita alcun guiderdone, che non vi sia noia d’aprirmi la vera cagione che qui a così fatta ora v’ha fatta venire e con cotal compagnia». La donna, vergognosa e quasi con le lagrime sopra gli occhi, rispose: «Messere, né amor che io vi porti né promessa fede mi menan qui, ma il comandamento del mio marito; il quale, avuto più rispetto alle fatiche45 del vostro disordinato amore che al suo e mio onore, mi ci ha fatta venire; e per comandamento di lui disposta sono per questa volta ad ogni vostro piacere». Messer Ansaldo, se prima si maravigliava, udendo la donna molto più s’incominciò a maravigliare; e dalla liberalità di Gilberto commosso, il suo fervore46 in compassione cominciò a cambiare, e disse: «Madonna, unque a Dio non piaccia47, poscia che così è come voi dite, che io sia guastatore dello onore di chi ha compassione al mio amore; e per ciò l’esser qui sarà, quanto vi piacerà, non altramenti che se mia sorella foste48, e quando a grado vi sarà liberamente vi potrete partire, sì vera- 43 sregolato impeto passionale: II 10,36 e cfr. II 3,8 n. Può ricordare l’atteggiamento di Federigo degli Alberighi (V 9,20). 45 ai travagli e all’opere (Scherillo). 46 Cioè: il suo amore fervente. 47 Solita energica deprecazione (II 8,21 n.; IV 9,23 n. ecc.) ripresa poi dal negromante (24). 48 Cfr. X 4,17 n. 44 Letteratura italiana Einaudi 1362 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X mente49 che voi al vostro marito di tanta cortesia, quanta la sua è stata, quelle grazie renderete che convenevoli crederete, me sempre per lo tempo avvenire avendo per fratello e per servidore. La donna, queste parole udendo, più lieta che mai, 23 disse: «Niuna cosa mi potè mai far credere, avendo riguardo a’vostri costumi, che altro mi dovesse seguir della mia venuta che quello che io veggio che voi ne fate, di che io vi sarò sempre obbligata». E preso commiato, onorevolmente accompagnata si tornò a Gilberto e raccontogli ciò che avvenuto era; di che50 strettissima e leale amistà lui e messer Ansaldo congiunse. 24 Il nigromante, al quale messer Ansaldo di dare il promesso premio s’apparecchiava, veduta la liberalità di Gilberto verso messer Ansaldo e quella di messer Ansaldo verso la donna, disse: «Già51 Dio non voglia, poi che io ho veduto Gilberto liberale del suo onore e voi del vostro amore, che io similmente non sia liberale del mio guiderdone; e per ciò, conoscendo quello a voi star bene52, intendo che vostro sia». 25 Il cavaliere si vergognò e ingegnossi a suo potere di fargli o tutto o parte prendere; ma poi che in vano si faticava, avendo il nigromante dopo il terzo dì53 tolto via il 49 a questo patto: I 2,10 n. ecc. per la qual cosa. 51 Riempitivo, come in latino quidem, sane. 52 conoscendo che quel premio è giusto che rimanga a voi. 53 Dopo un periodo, cioè, commisurato sulle regole negromantiche più canoniche e caro alla novellistica (X 7,16 n.). 50 Letteratura italiana Einaudi 1363 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X suo giardino, e piacendogli di partirsi, il comandò a Dio54; e spento del cuore il concupiscibile amore verso la donna, acceso d’onesta carità55 si rimase. 26 Che direm qui, amorevoli donne? preporremo la quasi morta donna e il già rattiepidito amore per la spossata speranza56, a questa liberalità di messer Ansaldo, più ferventemente che mai amando ancora e quasi da più speranza acceso e nelle sue mani tenente la preda tanto seguita57? Sciocca cosa mi parrebbe a dover creder che quella liberalità a questa comparar si potesse. – 54 lo raccomandò a Dio, cioè l’accomiatò: X 9,37 n.: cfr. Annotazioni, XV. 55 affetto, alla latina, contrapposto all’espressione precedente solita a indicare la più prepotente sensualità (II 2,35 n.). Cfr. per analoga distinzione Petrarca, CCLXVI 9 sg.: «Carità di signore, amor di donna | Son le catene ecc.». 56 per la speranza quasi perduta: II 10,42 n. Allude all’amore di Gentile ormai in via di spegnersi per la creduta morte di Catalina. 57 desiderata e perseguita. Letteratura italiana Einaudi 1364 NOVELLA SESTA 1 Il re Carlo vecchio, vittorioso, d’una giovinetta innamoratosi, vergognandosi del suo folle pensiero, lei e una sua sorella onorevolmente marita1. 2 Chi potrebbe pienamente raccontare i vari ragionamenti tra le donne stati, qual maggior liberalità usasse o Gilberto o messer Ansaldo o il nigromante2, intorno a’fatti di madonna Dianora? troppo sarebbe lungo. Ma poi che il re alquanto disputare ebbe conceduto, alla Fiammetta guardando, comandò che novellando traesse lor di quistione3; la quale, niuno indugio preso, incominciò: – Splendide4 donne, io fui sempre in oppinione che nelle brigate, come la nostra è, si dovesse sì largamente 3 1 Nessun antecedente per questa novella, che, come accenneremo anche nelle note seguenti, appartiene alla aneddotica storica, fonte sempre fecondissima per la novellistica (cfr. in particolare G. DE BLASIIS, La dimora di G. B. a Napoli, in «Arch. Stor. Province Napoletane», VII, 1882, pp. 79 sgg.; F. TORRACA, art. cit., pp. 158 sgg.; F. NERI, La novella di Re Carlo il Vecchio, in «Fanfulla della Domenica», XXXIV, 27, 1912). Se mai qualche suggestione poté venire al B. dai numerosi esempi letterari di passioni illecite vinte, per i consigli di amici autorevoli, da grandi personaggi storici: da quello di David e Betsabea (Re, II 12) a quello di Massinissa e Sofonisba (Livio, XXX 12 sgg.) che commosse e ispirò il Petrarca dell’Africa. 2 È proprio la «questione» che si sviluppa nel Filocolo, fra IV 31,54 e IV 4,16. 3 ponesse fine alla loro disputa. 4 Aggettivo non usato di solito per le novellatrici, ma ben adatto all’atmosfera encomiastica e sfolgorante dell’ultima giornata: cfr. del resto III 6,4. Letteratura italiana Einaudi 1365 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 4 5 ragionare che la troppa strettezza della intenzion5 delle cose dette non fosse altrui materia di disputare. Il che molto più si conviene nelle scuole tra gli studianti6 che tra noi, le quali appena alla rocca e al fuso bastiamo7. E per ciò io, che in animo alcuna cosa dubbiosa forse8 avea, veggendovi per le già dette alla mischia9, quella lascerò stare, e una ne dirò, non mica d’uomo di poco affare, ma d’un valoroso re, quello che egli cavallerescamente operasse, in nulla mancando il suo onore10. Ciascuna di voi molte volte può avere udito ricordare il re Carlo vecchio, ovver primo11, per la cui magnifica 5 la troppa oscurità o sottigliezza del senso: Corbaccio, 176: «mostrando d’avere assai bene le mie parole raccolte e la intenzione di quelle»: e cfr. I concl., 20 n. 6 studiosi: forma analoga a «filsofanti» ecc.; Concl., 21 n.; Corbaccio, 250: «i miseri studianti». 7 Cfr. qui Proemio, 13; e Par., XV 124 sgg.; Petrarca, Tr. Fame, II 79. 8 Cioè un argomento, una novella che avrebbe forse potuto suscitare nuove discussioni. 9 in gara, in contesa. 10 non partendosi in nulla dall’onore, non alterandolo minimamente (Fanfani): cfr. Annotazioni, CXXI. Oppure non venendo meno per nulla il suo onore: cfr. Par., VII 68. 11 Fra tutti i principi angioini, la simpatia del B. si indirizzò massima al primo della dinastia regale: lo celebra già nel Filocolo come un eroe e un inviato di Dio (I 1,6 sgg.). Se nell’Amorosa Visione (XII 7 sgg.) l’esaltazione si compone in toni più misurati e non esenti da atteggiamenti critici (la prepotente fierezza XII 25; l’accusa per la morte di san Tommaso XLIII 54), ancora nel De casibus il B. magnificherà la grandezza di Carlo nella fortuna e nella sventura (IX 19). Anche il ritratto delineato in questa novella ha del resto un preciso valore morale e storico (NERI, art. cit.; e anche X 7,3 n.) nonostante le evidenti inesattezze e incongruenze (per es. Carlo non poteva esser vecchio se l’episodio si immagina subito dopo la conquista del Regno: cfr. 28; la sua magnanimità verso i nemici fu relativa: cfr. n. 7). Letteratura italiana Einaudi 1366 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 6 impresa e poi per la gloriosa vittoria avuta del re Manfredi furon di Firenze i ghibellin cacciati e ritornaronvi i guelfi12. Per la qual cosa un cavalier, chiamato messer Neri degli Uberti13, con tutta la sua famiglia e con molti denari uscendone, non si volle altrove che sotto le braccia14 del re Carlo riducere; e per essere in solitario luogo e quivi finire in riposo la vita sua, a Castello a mare di Stabia15 se n’andò; e ivi forse una balestrata rimosso16 dall’altre abitazioni della terra, tra ulivi e nocciuoli e castagni, de’quali la contrada è abondevole, comperò una possessione, sopra la quale un bel casamento e agiato fece, e allato a quello un dilettevole giardino, nel mezzo 12 Allude alla battaglia di Benevento (1266): cfr. in generale G. Villani, VII 15. 13 Non è identificabile con alcun personaggio storico: ma il Villani (VII 14-15) parla ampiamente dell’esilio degli Uberti, e fra i cacciati enumerati nel Libro detto del Chiodo, di Parte Guelfa (Archivio di Firenze), figurano vari Neri degli Uberti del Sestiere di San Piero Scheraggio: Neri Boccalata degli Uberti ebbe nel 1273 salvacondotto per recarsi a Firenze da Gregorio X e re Carlo: ma re Carlo fece imprigionare e uccidere crudelmente i figli di Farinata, e diede precise disposizioni per catturare i ghibellini toscani che fossero nel Regno (cfr. Registri di Cancelleria cit., I, pp. 18 e 305; De Blasiis, p. 79). «Gli Uberti più di quarant’anni erano stati ribelli di loro patria, né mai merzè né mai misericordia trovarono stando sempre fuori in grande stato e mai abbassarono il loro onore» (Compagni, II 29). 14 sotto la protezione: Purg., XXIV 22: «Ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia». Non ha «alcuna verisimiglianza la venuta e la tranquilla residenza nel Regno di un ghibellino (dell’odiatissima e perseguitatissima stirpe di Farinata» (Torraca: e cfr. 36 n.). 15 Castellammare di Stabia presso Napoli. Il B. doveva aver visto la Domus sana, costruita da Carlo II e Roberto: la Corte usava passarvi l’estate. 16 lontano un tiro di balestra: VIII 9,85 n.; Inf., XV 13. Letteratura italiana Einaudi 1367 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 7 8 9 del quale, a nostro modo17, avendo d’acqua viva copia, fece un bel vivaio e chiaro, e quello di molto pesce riempiè leggiermente18. E a niun’altra cosa attendendo che a fare ogni dì più bello il suo giardino, avvenne che il re Carlo, nel tempo caldo, per riposarsi alquanto, a Castello a mar se n’andò; dove udita la bellezza del giardino di messer Neri, disiderò di vederlo. E avendo udito di cui era, pensò che, per ciò che di parte avversa alla sua era il cavaliere, più familiarmente con lui si volesse fare19, e mandogli a dire che con quattro compagni chetamente20 la seguente sera con lui voleva cenare nel suo giardino. Il che a messer Neri fu molto caro, e magnificamente avendo apparecchiato e con la sua famiglia avendo ordinato ciò che far si dovesse, come più lietamente potè e seppe, il re nel suo bel giardino ricevette. Il qual, poi che il giardin tutto e la casa di messer Neri ebbe veduta e commendata, essendo le tavole messe allato al vivaio, ad una di quelle, lavato21, si mise a sedere, e al conte Guido di Monforte22, che l’un de’compagni era, comandò che dall’un de’ 17 secondo l’usanza nostra, cioè fiorentina: e cfr. difatti III intr., 8 sgg.; VI concl., 20 sgg 18 facilmente: I 1,78 n. 19 si dovesse trattare, cioè dare alla visita tono amichevole: I 1,26 n. 20 Cioè semplicemente e senza pompa, in incognito: II 6,57 n. 21 lavatosi le mani (alla latina). 22 Uno dei più fedeli e onorati signori della Corte di Carlo I e suo vicario proprio in Toscana nel 1270 (cfr. G. Villani, VII passim). Dante lo pone tra i vieolenti quale uccisore di Arrigo, nipote di Arrigo III d’Inghilterra (Inf., XII 118 sg.; G. Villani, VII 39; e cfr. F. TORRACA, in Nel VI centenario della visione dantesca, Palermo 1900, p. 160); il B. lo ricorda nel De casibus (IX 19) come massimo collaboratore di Carlo nella conquista del Regno. E cfr. S. ASPERTI, Carlo I d’Angiò e i trovatori, Ravenna 1995, pp. 181 sgg. e 206. Letteratura italiana Einaudi 1368 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X lati di lui sedesse, e messer Neri dall’altro, e ad altri tre, che con lui eran venuti, comandò che servissero secondo l’ordine posto da messer Neri. Le vivande vi vennero 10 dilicate, e i vini vi furono ottimi e preziosi, e l’ordine bello e laudevole molto senza alcun sentore23 e senza noia; il che il re commendò molto. E mangiando egli lietamente, e del luogo solitario 11 giovandogli24, e25 nel giardino entrarono due giovinette d’età forse di quattordici anni26 l’una, bionde come fila d’oro, e co’ capelli tutti inanellati e sopr’essi sciolti una leggiera ghirlandetta di provinca27, e nelli lor visi più tosto agnoli parevan che altra cosa, tanto gli avevan dilicati e belli28; ed eran vestite d’un vestimento di lino sottilissimo e bianco come neve in su le carni, il quale dalla cintura in su era strettissimo e da ’indi giù largo a guisa 12 d’un padiglione e lungo infino a’ piedi29. E quella che dinanzi veniva recava in su le spalle un paio di vangaiole30, le quali con la sinistra man tenea, e nella destra aveva un baston lungo. L’altra che veniva appresso aveva sopra la spalla sinistra una padella, e sotto quel braccio 23 rumore, strepito: Pucci, Centiloquio, XLVII 2: «raunò di piano | Domila cavalier senza sentore». Sapegno invece: «senza scalpore, senza che nulla trapelasse fuori di lì. Risponde al c h e t a m e n t e del par. 7». 24 avendo piacere, conforto: II 7,83; V 5,3 n.; e cfr. VII 5,52 n. 25 ed ecco, ecco che, come più sotto al 13 n.: Intr., 78 n. 26 La solita età canonica: Intr., 49 n. 27 pervinca: anche nella Comedia, XV 24: «La testa sua, con leggiadretta ghirlanda di provinca coperta ...» 28 Due endecasillabi sognanti al centro di questo quadro fiabesco. 29 Vesti a campana, cioè alla foggia del ciprese, usate largamente al tempo del B. (Epistola napoletana; C. MINIERI RlCCIO, Notizie storiche cit., pp. 145 sgg.). 30 Una varietà di reti da pesca. Letteratura italiana Einaudi 1369 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X 13 14 15 16 medesimo un fascetto di legne, e nella mano un treppiede, e nell’altra mano uno utel31 d’olio e una facellina accesa. Le quali il re vedendo si maravigliò, e32 sospeso attese quello che questo volesse dire. Le giovinette, venute innanzi onestamente e vergognose, fecero la reverenzia al re; e appresso là andatesene onde nel vivaio s’entrava, quella che la padella aveva, postala giù e l’altre cose appresso, prese il baston che l’altra portava e amendune nel vivaio, l’acqua del quale loro infino al petto aggiugnea, se n’entrarono. Uno de’famigliari di messer Neri prestamente quivi accese il fuoco, e posta la padella sopra il treppiè e dell’olio messovi, cominciò ad aspettare che le giovani gli gittasser del pesce. Delle quali, l’una frugando in quelle parti dove sapeva che i pesci si nascondevano e l’altra le vangaiole parando, con grandissimo piacere del re, che ciò attentamente guardava, in piccolo spazio di tempo presero pesce assai33; e al famigliar gittatine che quasi vivi34 nella padella gli metteva, sì come ammaestrate erano state, cominciarono a prendere de’più belli e a gittare su per la tavola davanti al re e al conte Guido e al padre. Questi pesci su per la mensa guizzavano, di che il re aveva maraviglioso piacere35, e similmente egli prendendo di questi, alle giovani cortesemente gli gittava indietro; e 31 Vasetto di terracotta invetriato (dall’arabo utàl, volg. utél). La solita congiunzione in ripresa dopo temporali narrative, come all’ 11 n. 33 Vaga scena di pesca già anticipata insistentemente altrove dal B. (VI concl., 31 n.; e Caccia, VIII 43 sgg.). 34 «Costruzione di pensiero, dacché il p e s c e a s s a i è frase collettiva, e quindi il relativo g i t t a t i e v i v i» (Colombo). 35 Il B. leggeva nel De officiis una scena simile (III 14). 32 Letteratura italiana Einaudi 1370 Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata X così per alquanto spazio cianciarono36, tanto che37 il famigliare quello ebbe cotto che dato gli era stato, il qual più per uno intramettere38, che per molto cara o dilettevol vivanda, avendol messer Neri ordinato, fu messo davanti al re. Le fanciulle, veggendo il pesce cotto e avendo assai 17 pescato, essendosi tutto il bianco vestimento e sottile loro appiccato alle carni, né quasi cosa alcuna del dilicato lor corpo celando39, usciron del vivaio, e ciascuna le cose recate avendo riprese, davanti al re vergognosamente 18 passando, in casa se ne tornarono. Il re e ’l conte e gli altri che servivano, avevano molto queste giovinette considerate, e molto in sé medesimo l’avea lodate ciascuno per belle e per ben fatte40, e oltre a ciò per piacevoli e per costumate41, ma sopra ad ogn’altro erano al re piaciute. Il quale sì attentamente ogni parte del corpo loro aveva considerata, uscendo esse dell’acqua, che chi allo19 ra l’avesse punto non si sarebbe sentito42. E più a loro ri- 36 scherzarono, si sollazzarono: non allude soltanto, come oggi, a parole: cfr. IV 5,8; VII 9,38 n. ecc. 37 fin che. 38 Intramessi (fr. entremets) erano quei piatti che si servivano fra vivanda e vivanda per stuzzicare l’appetito: Esposizioni, VI all. 24: