StoneButchBlues IntrAduzione

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StoneButchBlues IntrAduzione
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Il Dito e La Luna Edizioni
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Date: 2004.11.23 19:17:40 +01'00'
IntrAduzione
Sì, avete letto giusto, intraduzione e non introduzione. Anzi, in-traduzione. Dall’interno della traduzione.
Stone Butch Blues è il primo libro di una collana di traduzioni che l’editrice Francesca Polo e io abbiamo voluto chiamare ‘Officine T - Parole in
corso’ e che raccoglierà testi finora non ancora tradotti in italiano. Sono
testi necessari, nel senso in cui è necessario tutto ciò che ci arricchisce, ci
libera dai preconcetti e mette in movimento le idee; sono testi che lasciano
un segno nella cultura lesbica - e non solo lesbica, perché ricordiamo che
dire ‘cultura lesbica’ è solo una definizione di comodo, che individua un’area di interesse, ma non separa ciò che non è separabile, il testo a tematica
lesbica da altri testi letterari del suo tempo.
Lasciare il titolo in lingua originale (naturalmente quando questo è possibile, o addirittura, come nel caso di Stone Butch Blues, inevitabile) non è soltanto una cifra stilistica, è un’affermazione sull’importanza del linguaggio e
della traduzione, e su quanto vi è di intraducibile nei testi. Non si tratta semplicemente di trasportare di peso parole e concetti nella nostra lingua, ma
di ricavare altri spazi di significato in quel sistema aperto che è ogni lingua,
innescando il cambiamento e il processo di creazione. È quello che ci piacerebbe fare: contribuire a cambiare, a creare il linguaggio che parliamo, per
dire quanto più possibile di quello che non è stato ancora detto, per far parlare soggettività che non si sono ancora espresse e per rendere sempre più
ricco e complesso il concetto di persona, di umanità. È un intento molto
ambizioso, in un’epoca in cui volare basso in fatto di ideali non monetari
sembra un must, ma noi - Francesca e io, e siamo sicure di non essere le
sole - preferiamo raccogliere l’invito che Jess, la/il protagonista di questo
libro, esprime nelle ultime righe: lanciare in alto i nostri sogni.
Aprire la collana con Stone Butch Blues significa esordire con un libro ad
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alto potenziale esplosivo. È uno di quei libri forti, che tolgono il fiato e
arieggiano la mente, spazzando via un po’ delle ragnatele che tendono ad
accumularsi negli angoli meno frequentati. Io ci ho messo cinque anni a leggere questo libro. O meglio: cinque anni a non leggerlo, a tenerlo a bada,
ma in questo tempo evidentemente il libro ha fatto il suo lavoro nella mia
testa pur restando chiuso, e pian piano è nata in me la curiosità di sapere
una volta per tutte cos’era questo personaggio esotico e difficilmente accettabile, la butch, e senza accorgermene devo aver superato la paura dell’ignoto, del diverso, del dolore inscindibile da una storia dura. E così un giorno
di colpo ho sentito il bisogno di leggerlo, e poi ci ho messo ancora settimane a finirlo, perché ogni tanto dovevo fare una pausa. Per riassorbire l’intensità delle emozioni provocate dalla lettura e per dare tempo alle idee di
lavorare. Per riassestare la prospettiva: perché questo libro, che in apparenza racconta di tempi e luoghi, di persone ed eventi lontani da me e dal mio
mondo di adesso, in realtà mi tocca da vicino, nelle mie emozioni profonde, nel mio coraggio e nella mia paura, nelle mie domande sul maschile e il
femminile in rapporto a quel che io sono.
Stone Butch Blues racconta una storia insolita e spesso durissima, parla di
una condizione umana esposta e vulnerabile, e al tempo stesso estremamente forte e tenace. La violenza è, ovviamente, l’elemento più evidente e
terribile: violenza fisica, che segna il corpo e la mente allo stesso tempo. Ma
se fosse tutto qui, ne avremmo già sentito parlare. Quello che fa la differenza di Stone Butch Blues è la dignità, il coraggio, la forza di Jess e delle altre
butch e femme: qui non si parla di vittime, ma di guerriere.
Non fatevi un’idea sbagliata: Stone Butch Blues è una storia dura e violenta, ma è anche tenera e dolce. La violenza, siccome è vista dalla parte di chi
la subisce, è raccontata con infinita delicatezza, pur nel suo estremo realismo. E soprattutto, questo libro, se lo leggerete come l’ho letto io, vi riporterà a quella che è la condizione più desiderabile per un lettore: la lettura a
occhi sgranati e cuore aperto con cui da bambini si entra nelle favole. Non
le favole di evasione e rassicurazione che vanno di moda oggi, ma le favole
che insegnano a vivere ai bambini, che li fanno piangere e ridere, li spaventano e li confortano; e vi ritroverete a soffrire con Jess, a innamorarvi insieme a lei, a fare il tifo per lei contro il mostro dalle mille teste che le tocca
combattere. Insomma vi regalerà quella lettura ingenua, totale, che è la
grande infrequente gioia di chi legge.
E, dopo, verranno le domande e le riflessioni. E vi accorgerete che nella
vostra mente si sono aperti spazi che prima non c’erano, o c’erano ma aspettavano di essere scoperti. Perlomeno, questo è quello che è successo a me.
quella parola recentemente importata anche da noi, butch, e però ancora un
po’ ammantata di mistero e di fonetiche incertezze (si pronuncia con la
stessa ‘u’ di put, dice il dizionario). L’ambiente naturale della butch è la working class USA, la classe operaia degli anni ’50-’60, ma si è continuato, o
ripreso, a parlare di butch e femme anche in anni molto più recenti. Alla
voce ‘butch’ il mio dizionario Merriam Webster dice: “nomignolo per indicare un ragazzo, soprattutto un ragazzo tosto (tough)”…ma anche “un
taglio di capelli a spazzola”. Gli elementi fondamentali sono già qui: ragazzo tosto, capelli cortissimi. Un maschiaccio, insomma.
(E ripenso a certe facce toste, certi tagli di capelli, e mi chiedo: ma allora esistono anche in Italia, le butch? E ce l’hanno un modo di chiamarsi,
tra loro, tra sé?)
La nostra butch, inoltre, è stone, ovvero di pietra. Questo la distingue e la
contrappone ad altri tipi di butch che troverete nel romanzo: va da sé che
una stone butch è molto più tosta, almeno esteriormente, di una soft butch, che
si colloca invece su quel terreno liminare in cui può essere ancora quasi
accettabile come donna; per non parlare della differenza abissale che separa la stone butch da una butch del sabato sera; ed è intuitivo che una baby butch è
una butch in erba, che deve ancora crescere.
Cosa sia una stone butch non ho intenzione di spiegarlo, perché è detto
nel testo che state per leggere, e non potrei certo dire di meglio io. Leggere
questo testo significa infatti esplorare un mondo di frontiera, in cui le parole butch, femme, drag queen, transgender diventano concrete, le si capisce nel
modo migliore: non grazie al dizionario, ma grazie a una storia.
In quanto ai blues, è noto che la parola indica sia l’umore triste, depresso, malinconico, sia le canzoni “cantate o composte in uno stile creato dai
neri d’America, e che… esprime nostalgia, desiderio, malinconia, tristezza”
(sempre dal mio dizionario MW). E qui ci sono entrambi i sensi, tanto il
primo - la tristezza - quanto il secondo, il lamento, il canto di un popolo
oppresso, di tutti i popoli oppressi: si veda il capitolo sette, dove Jess si
ritrova a lavorare in fabbrica con un gruppo di donne native americane, che
cantano in coro durante il lavoro invitando Jess a unirsi a loro. E si veda l’attrazione che Jess prova verso i nativi americani, nel cui calore e accoglienza
è stata immersa durante la prima infanzia, e la sua grande amicizia per Ed,
che è nera, e il desiderio di capire e conoscere l’ambiente e la cultura della
sua amica. E le visioni, i sogni di una comunità di diversi (“diversi come
me” dice Jess) che nello stare insieme ritrovano appartenenza, dignità e linguaggio. I blues sono il lamento, il canto, la poesia di tutte le comunità che
non trovano voce in quella che Audre Lorde definì la “lingua comune bianca americana”.
Stone butch blues è, quindi, un composto, una contaminazione di intradu-
Stone Butch Blues è un titolo intraducibile e complesso. Nel mezzo c’è
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cibili sensi - intraducibili ma comprensibilissimi.
Se c’è una parola ancora più intraducibile di butch, è femme. “Essere
femme, per me, è un modo consapevole di essere femminile - non significa semplicemente accettare i confini prestabiliti della ‘naturale’ femminilità
e vivere all’interno di essi”, dice Amber Hollybaugh in My dangerous desires (I
miei pericolosi desideri, USA 2000). Per Hollybaugh, attivista lesbo-femminista e queer, l’essere femme, come l’essere butch o drag queen o il passing
(‘passare’ da uomo, per una donna), sono ‘identità erotiche’. “Sensazione e
desiderio vengono prima del pensiero”, sostiene, affermando il primato dell’eros nel definire quell’identità “che non è una semplice attività specifica o
‘stile di vita’... ma è tanto più ricca e profonda, pericolosa, esplosiva e unica
quanto più noi osiamo essere, o diventare.” L’identità erotica si definisce
quindi a partire dal desiderio, e in relazione all’oggetto del desiderio stesso,
nonché alla propria immaginazione. “Che tipo di donna fanno di me i miei
desideri?” è una domanda a cui non si può rispondere che vivendoli, quei
desideri; il che, in una società che Hollybaugh definisce “erotofoba”, è pericoloso.
“La mia amante ideale” dice ancora Hollybaugh , offrendoci uno sguardo innamorato sulla nostra protagonista, la butch, “non è una donna ordinaria, una lesbica ‘normale’… è una persona che è un uomo che è una
donna. È un’identità incompatibile con la biologia maschio/femmina e i
suoi attributi, è qualcuno che porta con sé nel corpo tanto l’autorità quanto la sua sovversione… che non ha paura di esibire differenze di segno
maschile né di mostrare il suo desiderio per la mia forma di donna…” E
conclude: “Una persona così non esiste nell’ambito del puramente femminile.” La butch presenta quindi, agli occhi della teorica femme, uno spiccato lato transgender, tant’è vero che a volte può essere accostata al ‘finocchio’, all’uomo gay, perché possiede “gli occhi e le speranze di un ragazzo”.
Insomma, una cosa è chiara: butch e femme, insieme alle loro amiche drag
queen e ai loro amici ‘froci’ ci riportano nel disordine creativo e pericoloso
del desiderio non ‘normalizzato’, in quella zona d’ombra tra il giorno e la
notte che non si lascia catturare né definire (proprio come la penombra
indefinita dipinta da Ruth, nel capitolo ventiquattro.)
Altre parole hanno posto difficoltà di traduzione. È noto che in inglese
l’enfasi del genere sessuale non risiede nelle finali di parola, ma nei pronomi personali. Nel capitolo due, la piccola Jess vede per strada un adulto di
cui non riesce a identificare il sesso, e chiede ai genitori se quello è un he/she,
(lett. ‘lui/lei’), usando senza saperlo un’espressione gergale esistente che
indica un omosessuale uomo. In altri luoghi, Feinberg usa he/she per indicare Jess e le altre butch. Noi abbiamo tradotto con ‘uomo/donna’ e
‘donna/uomo’, rispettando il binomio e la contrapposizione.
Tanto he/she quanto butch esprimono una differenza di genere, non di
scelta sessuale, e le due cose non vanno confuse, come spiega Jess a Duffy
nel capitolo otto: esistono anche delle butch che sono etero, hanno marito
e figli, e… devono affrontare la stessa ostilità. Nella scala della trasgressione, quella di genere viene al primo posto perché rompe visibilmente la dicotomia donna/uomo, crea confusione, mette disordine nell’ordine (gerarchico) sociale e linguistico.
Le butch si autodefiniscono tali con orgoglio. Butch è per loro una parola positiva, densa di significati e di valori. Al contrario, il negativo della
butch, il suo lato d’ombra, risiede tutto nella parola bulldagger (donna
mascolina, lesbica mascolina), usata come insulto o peggiorativo dalle
butch stesse e dai loro aggressori. In italiano, per povertà lessicale, abbiamo tradotto ora con bulla, quando a parlarne sono le butch stesse e il contesto lo consente, ora con lesbicona, parola un po’ ridicola ma ancora usata
come insulto e da mantenersi ben distinta da lesbica, che nel testo appare
solo come traduzione di lesbian. Nei paesi anglosassoni, la parola lesbian ha
sempre avuto uno status più elevato; fino agli anni ’60, le lesbian sono bianche e borghesi, mentre le bulldagger, o bulldiker, le butch e le dyke sono preferibilmente non-bianche, e/o di classe operaia; lo stesso dicasi, al maschile,
per la distinzione tra homosexual e faggot. Negli anni ’60 e ’70 la parola lesbian
partecipa da protagonista a quel grande evento politico sociale e di costume che è il femminismo (un evento che, insieme ai cambiamenti produttivi ed economici, travolge e inabissa il mondo di Jess e della sua comunità).
E se lesbian era già una parola bianca di per sé, dopo il candeggio e la centrifuga femminista diventa vessillo politico (un po’ la stessa sorte tocca
anche a dyke), al punto da indicare più una serie di assunti e prese di posizione che non un orientamento sessuale. Ecco perché in Stone Butch Blues la
parola lesbian, al suo primo apparire in bocca a Theresa, suscita in Jess diffidenza e quasi ostilità.
Niente di tutto questi in Italia, dove la candeggina femminista non ha
toccato, o ben poco, la parola lesbica che rimane ad oggi difficilmente pronunciabile, soprattutto da un certo femminismo.
E infine, si è voluto rendere con ragazzo il neutro kid, usato dalle amiche
butch come termine d’affetto nei confronti della più giovane Jess. Dal
momento che la nostra lingua ci imponeva di usare più femminili di quanti
ne comparissero nell’originale, abbiamo voluto controbilanciare con un
maschile. Ragazzo è, qui, un termine quasi mimetico: copia, riproduce, insinua quella continua nota di disorientamento di genere, quel continuo rompere certezze che sono gabbie e creare nuovi, diversi equilibri, che è l’intento costante del libro.
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“Abbiamo bisogno”, dice Monique Wittig, “in un mondo in cui non esistiamo se non passate sotto silenzio… di essere leggenda a noi stesse…
abbiamo bisogno, in un’epoca in cui gli eroi sono passati di moda, di diventare eroiche nella realtà, epiche nei libri”. Il ‘noi’ a cui si riferisce sono le
lesbiche (non dimentichiamo che per Wittig il lesbismo “è molto di più dell’omosessualità… è un’apertura su un’altra dimensione dell’umano”).
Anch’io vado cercando nei libri le eroi di cui parla Wittig: coraggiose e
intraprendenti nel vivere la loro avventura di vita, fantasiose, ironiche e
soprattutto non perbene.
Questo libro ha arricchito il mio immaginario di nuove eroi. A chi ancora obietti che butch e femme non fanno altro che ricalcare i ruoli eterosessuali, consiglio di leggere con attenzione la scena erotica del capitolo sedici, che si conclude con una splendida battuta: “La magia è sempre fatta di
illusione”. Quello che fanno butch e femme (a differenza del loro antiquato prototipo, la coppia uomo-donna) è giocare consapevolmente, per scelta e controcorrente, con i ruoli sessuali e l’armamentario del desiderio: dagli
oggetti feticcio come giacche di pelle, dildi, tacchi alti e cravatte, ai gesti
codificati dell’eros (come quello, più volte evocato con struggimento, in cui
la femme fa scivolare le lunghe unghie laccate sulla nuca e sulla schiena della
butch). Insomma, la coppia butch-femme ha su quella etero uno sguardo
antropologico, sovrappone strati e strati di allusioni, evocazioni e provocazioni a quello che per il ‘vero uomo’ e la ‘vera donna’ è tragicamente ‘naturale’. È vero che anche butch e femme corrono l’umanissimo rischio di
scambiare per ‘naturale’ il gioco del desiderio, come dimostra l’incomprensione iniziale di Jess nei confronti di Frankie, una butch a cui piacciono le
altre butch. Ma che non si tratti di imitazione bensì della creazione di qualcosa di diverso ce lo dice benissimo Theresa, quando orgogliosamente
afferma: “io non sto con un uomo finto, sto con una vera butch”.
L’avventura di Stone Butch Blues parte dal corpo, il corpo di una bambina
che non ha niente di femminile e di carino a cui appigliarsi; e prosegue con
il corpo di una quasi adolescente rinchiuso in una serie di sia pur temporanee prigioni: l’ospedale psichiatrico, gli psicofarmaci, la scuola di grazia e
portamento. Corpo giovane che ritrova se stesso in giacche maschili e capelli cortissimi, corpo ferocemente aggredito e umiliato, corpo e mente che
devono diventare fortezza per non soccombere. Ma non solo: in Stone Butch
Blues il linguaggio del corpo è pervasivo, gesti che parlano, atteggiamenti,
sguardi, sorrisi, scrollate di spalle che dicono più delle parole. Il sangue,
questo sacro dono del corpo, macchia le pagine di questo libro; è il sangue
del dolore e della vulnerabilità, che impregna di sofferenza e impotenza l’amore. E la paura: la paura emerge come confessione continua, sottofondo
musicale di ogni azione e pensiero, e si accompagna a quell’altro leit-motiv
che è la frustrazione, il senso di non poter reagire se non in modo perdente non perché le proprie ragioni non sono valide, ma perché il nemico è
tanto più forte. Solo, verso la fine, questo sottofondo vira verso i toni più
liberatori della rabbia e della decisione di riprendere in mano la propria vita.
Jess cerca la propria verità, sé stessa/o, prima come butch, poi come
uomo, quindi come transgender. Nella ricerca arriva in vicoli ciechi, cambia
strada, non smette di muoversi. Non si accontenta della sopravvivenza,
vuole tutto, vuole l’interezza, il senso della propria vita. E sa che questo
senso non si può trovare se non in rapporto agli altri, nel contatto, nel calore. Tra le tante cose toccanti e vere di questo libro c’è il modo in cui è evocato il desiderio struggente del contatto fisico: una stretta di mano, una
carezza, un abbraccio diventano regali da ricevere con gratitudine profonda, fanno vibrare il corpo e la mente di piacere. Altrettanto importante è la
ricerca della bellezza e della poesia, necessarie soprattutto in condizioni di
povertà e privazione; e bellezza e poesia si trovano sempre, e gratis, nella
natura e nei suoi eventi, dal temporale alle foglie gialle dell’autunno, dagli
animali (quelli dello zoo sono per Jess dei naturali compagni di prigionia),
ai capelli rossi di Ruth, al mimo improvvisato da un sordomuto, in un parco
di New York…
Insomma il percorso di Jess è un percorso umanamente ricchissimo. Lo
è anche nella sua scelta finale di transgenderismo, dove essere trans-gender
significa vivere in permanenza in quella zona pericolosa e non codificata
che si situa oltre le certezze altrui, essere sempre in movimento, alla ricerca, per restituire a se stessa/o e agli altri quell’attributo irrinunciabile della
verità e della bellezza che è la complessità.
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Margherita Giacobino