Omelia per la solennità dell`Invenzione della S. Croce

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Omelia per la solennità dell`Invenzione della S. Croce
Omelia per la solennità dell’Invenzione della S. Croce Gerusalemme, 7 maggio 2013
Num. 21: 4 – 9
Ps 95
Phil 2: 5 – 11
Giov 3: 13 – 17
Anche quest’anno siamo invitati a fermarci qui, al Sepolcro, per riflettere insieme,
pregare e piegare le ginocchia davanti a quel pezzettino di legno, che la Tradizione
vuole che sia un resto di quel legno che è stato testimone dell’atto di amore di Dio
per tutta la creazione, la croce di Cristo, alla quale rivolgiamo oggi il nostro
sguardo. In questo atto di riverenza non vi è nulla di idolatrico o di esagerato: nella croce di Cristo, infatti, c’è tutto ciò in cui crediamo.
Quest’anno celebriamo anche il 1700 anniversario dell’editto di Costantino, che
ha segnato la storia dell’Oriente e dell’Occidente, e che ha marcato l’inizio della
costruzione di questa basilica, come abbiamo ascoltato questa notte, proprio qui
a Gerusalemme, dove ci troviamo oggi e proprio a causa del ritrovamento dei resti
di quella croce. Vi è un legame chiaro tra l’Editto dell’Imperatore di 1700 anni fa e
la celebrazione di oggi: entrambe segnano l’inizio del culto pubblico dei cristiani
nel mondo e in Terra Santa, con la costruzione della Basilica dell’Anastasis. Ed è
giusto che sia così, che il ritrovamento della croce sia anche il riferimento per la
decisione di erigere la Basilica nel Luogo dove ci troviamo. Nella croce, infatti, noi
ci ritroviamo; essa è la misura dell’amore con il quale Dio ci ha amati. Amore di
cui siamo testimoni fino ad oggi. Nel tempo, essere testimoni di quell’amore e portare pubblicamente quel segno, la croce, proprio qui in Terra Santa, è diventato
meno scontato e facile. Il simbolo della croce, in questa terra e, come vediamo dai
media quasi ogni giorno, anche in tante altre parti del mondo, non è amato e accolto da tutti e spesso è oggetto di rifiuto categorico. Ma l’amore di cui la croce è
la misura, nessuno ci può impedire di testimoniarlo. E questo è quanto celebriamo oggi, qui, nella grotta del ritrovamento della Croce di Cristo: il trionfo
dell’amore di Dio.
Dopo avere passato in rassegna un po’ tutte le letture, negli anni passati e anche
le letture che abbiamo ascoltato questa notte, rimane da contemplare il brano
della lettera ai Filippesi, ascoltato nella seconda lettura. È il bellissimo inno cristologico che cantiamo nei vespri settimanalmente e che conosciamo a memoria.
Forse proprio per questo non prestiamo attenzione alla sua profondità. La teologia lo prende in considerazione come fondamento per argomentazioni teologiche
importanti: il Verbo preesistente, le sue due nature e l’incarnazione.
Ma noi non vogliamo qui in questa sede fare speculazioni teologiche, bensì ascoltare il brano biblico con semplicità. Nell’inno, infatti, è possibile vedere la figura
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di Gesù sullo sfondo di quella di Adamo. Gesù qui (come altrove nel NT) è presentato come nuovo Adamo. Questi fu creato a immagine e somiglianza di Dio, ma
cedendo alla tentazione di Satana, volle farsi come Dio e, nella disobbedienza,
perse la dignità ricevuta, e con lui tutta la creazione.
Il Nuovo Adamo, Cristo, che viene presentato in questo inno, invece, fa esattamente il contrario. Egli era non solo a immagine e somiglianza di Dio, ma era “in
forma di Dio”, eppure non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente. Svuotò se stesso, prese forma di servo, divenendo simile agli
uomini. L’obbedienza di Gesù è arrivata fino alla morte, e, non una morte qualunque, ma quella dei peggiori, morte di croce. La croce, in definitiva, testimonia
l’obbedienza e la fedeltà assoluta di Gesù al Padre. Svuotando se stesso, in
quell’obbedienza, Gesù annulla, rende vuota la disobbedienza del primo Adamo.
L’uomo, si dice nell’inno, era in forma di servo, perché il vecchio Adamo con la disobbedienza aveva negato la sua figliolanza con Dio. L’obbedienza di Gesù sulla
croce, ha restituito all’uomo la forma di figlio. Quell’obbedienza, in definitiva, ci
ha consegnato una relazione nuova con il Padre.
La tradizione lega la figura di Gesù sulla croce anche a quella di Isacco sul Monte
Moria. Quando andremo sul Monte Calvario, tra poco, vedremo che una delle
immagini è proprio quella del legamento di Isacco. Anche in quel caso
l’obbedienza di Abramo è totale e tramite quell’obbedienza Abramo ritrova in maniera nuova la sua relazione con Dio. Non è più un’obbedienza in prospettiva di
una ricompensa, ma un’obbedienza totalmente libera da funzioni e/o attese.
Per questo (dιὸ καὶ), per quest’obbedienza (torniamo all’inno), Egli è stato poi innalzato ed è divenuto Kurios, Signore, al quale tutta la creazione è sottomessa.
Obbedienza diventa insomma sinonimo di libertà. Non vi è più nulla che si frappone tra me e Dio. Nella croce, Gesù ha cancellato tutto: sete di potere e desiderio
di farsi come Dio, ogni forma di menzogna e tutto il resto, non hanno più potere.
Ma anche le attese legittime, i desideri sinceri, i progetti e le prospettive che cerchiamo di costruirci, tutto viene tolto. Non c’è più nulla. Rimane solo la relazione
con Dio.
La croce è tutto questo. Portare la croce non significa solo accogliere la sofferenza,
ma entrare in un nuovo modo di relazionarsi con il Padre, che è quello di colui
che è disposto, anzi vuole rinunciare a tutto, svuotarsi – come Cristo – per accogliere la relazione rinnovata con il Padre, che ci riempie di vita nuova.
La croce ci dice che, se siamo nuova creazione in Cristo e abbiamo assunto dunque la Sua croce, le nostre relazioni, non possono più essere improntate sulla falsariga del vecchio Adamo, cioè nella ricerca della gloria e del potere, del desiderio
di farci come Dio o peggio, di non avere bisogno di Lui. La croce ci dice che di tutto possiamo fare a meno, anche della vita, tranne che di Lui e in Lui ritrovare tutto: se stessi, il mondo e la creazione rinnovata, relazioni nuove, libere e piene. È il
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dinamismo del cristianesimo che Gesù ha inaugurato sulla croce: perdere significa guadagnare, nel consegnare totalmente la vita, la ritroviamo rinnovata.
Nell’obbedienza otteniamo la libertà, ma non come la da il mondo (che al contrario considera l’obbedienza una negazione della libertà!), ma come ce l’ha consegnata Lui per primo, proprio dalla croce.
La croce è segno dell’umanità redenta, di cui siamo testimoni e spero veri annunciatori: la violenza, le ingiustizie e i soprusi che sono conseguenza del desiderio di
potere e che non raramente si annidano nelle nostre comunità, come pure al di
fuori di essa; come anche nella nostra Terra, martoriata e ferita, lacerata e divisa;
in tutto ciò noi cristiani, con le relazioni nuove, toccate e bagnate dal sangue della croce di Cristo, vogliamo dire con la vita che tutto questo è passato e appartiene al vecchio Adamo. Tutto questo non ci coinvolge più. Non siamo più figli della
disobbedienza e del desiderio di farci come Dio, della ricerca del potere. Siamo figli dell’obbedienza, desiderosi di vivere semplicemente della vita di Dio e di confessare che “Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 11). Amen.
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