Isola di risparmio per finanziare ovest della Francia
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Isola di risparmio per finanziare ovest della Francia
IL RUOLO DEL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE NEL PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE DEI MERCATI Di Angela Maria Scullica Il 23 aprile 2010 l’allora primo ministro greco George Papandreu parlò dal porto di Mefisto di Castelrosso nell’isola di Megisti. Era una bellissima giornata di sole, c’era tanta gente ad ascoltare, i bambini giocavano felici e nessuno avrebbe mai potuto immaginare quel che sarebbe accaduto in seguito a quel discorso. Papandreu stava chiedendo all’Europa di intervenire per evitare il fallimento del Paese. La preghiera, nonostante i dubbi e le numerose reticenze, fu alla fine accolta e la Grecia ricevette 200 miliardi per scongiurare la sua uscita dall’Euro. Da allora successe di tutto, drammi, suicidi, povertà. La Grecia insomma si ritrovò in brevissimo tempo sull’orlo del precipizio. E anche se a decidere l’intervento fu la troika formata da Commissione europea, Banca centrale e Fondo monetario internazionale, nella memoria collettiva dei Greci quel fatidico giorno restò impresso come quello in cui Papandreu consegnò il Paese nelle mani del Fondo monetario internazionale. Dopo la Grecia la stessa sorte toccò al Portogallo e alla Spagna. Anche l’Italia rischiò grosso nel novembre 2011, dopo che le agenzie di rating, nell’estate, peggiorarono i loro giudizi sul nostro Paese, scatenando la speculazione internazionale. L’Italia se la cavò cambiando il Governo e dando il via ad una politica di austerity che, alla luce di quel che avvenne dopo, allontanò ulteriormente la ripresa. Ma è riuscita ad evitare l’intervento del Fondo monetario internazionale con tutte le drammatiche conseguenze che ne sarebbero potute derivare. Ed oggi in piena crisi dell’euro in molti avanzano seri dubbi sull’operato del Fondo e sugli interessi che lo muovono. Una delle accuse che si rivolgono a questo organismo è che possa essere stato utilizzato dagli americani, insieme alle agenzie di rating, come cavallo di Troia per scardinare l’euro e consentire al dollaro di mantenere il ruolo di valuta dominante che ha avuto dal dopoguerra ad oggi, nonostante la perdita di terreno degli Stati Uniti nei confronti della Cina. Un’accusa infondata? Per alcuni economisti sì, per altri no. Vero è che si tratta di una istituzione controversa che ha permesso 1 con i suoi prestiti di ottenere liquidità immediata ai Paesi che ne avevano bisogno ma che ha anche provocato danni irreparabili alle economie più fragili. Esaminiamo dunque la sua storia e quali sono state le idee che ne hanno fino ad oggi guidato l’azione. La nascita del Fmi con gli accordi di Bretton Woods Nel 1942 quando, in seguito all’entrata in guerra degli americani, le sorti del conflitto volgevano ormai a favore degli alleati, Stati Uniti e Gran Bretagna iniziarono a pensare di costruire insieme un nuovo ordine monetario internazionale che impedisse il formarsi di quegli squilibri economici e finanziari che avevano portato il mondo alla grande depressione del 1929 e poi alla guerra. Ci vollero due anni di discussione prima di approdare nel luglio del 1944 allo storico incontro di Bretton Woods. Nella ridente cittadina montana del New Hempshire si diedero appuntamento al Mount Washington Hotel 400 delegati di 44 paesi. Era la prima volta che un numero così elevato di Stati indipendenti si trovavano insieme per decidere e condividere un sistema monetario che avrebbe dovuto dare, in modo duraturo, ordine, disciplina e benessere a un mondo che usciva devastato dallo scontro. La situazione era però ben diversa rispetto a cinque anni prima. La guerra aveva infatti profondamente stravolto i rapporti di forza tra le Nazioni. L’Europa continentale e il Giappone ne uscivano distrutti mentre ad Est iniziava a brillare il faro dell’Unione Sovietica. Ma l’avvenimento sicuramente più importante era il sorpasso ai vertici del potere mondiale degli Stati Uniti, che assurgevano al ruolo di potenza dominante, sull’Inghilterra che si avviava verso un lento ma inesorabile declino. A Bretton Woods i lavori si concentrarono in tre commissioni: una presieduta dall’americano Dexter White, una che faceva capo all’economista inglese Jon Maynard Keines e infine la terza capeggiata dallo spagnolo Eduardo Suarez. Ma a determinarne il risultato fu l’esito dello scontro tra White e Keynes. L’americano poneva il dollaro al centro del sistema monetario ancorandolo all’oro e assegnava al Fmi il ruolo di superbanca che erogasse solo prestiti agevolati in caso di squilibri della bilancia dei pagamenti, da restituirsi nel tempo. L’inglese invece puntava su una stanza di compensazione all’interno della quale i paesi 2 membri partecipavano con quote rapportate al volume del loro commercio internazionale, in base alla media dell’ultimo triennio. La compensazione tra debiti e crediti sarebbe avvenuta tramite una moneta, il Bancor. Nel progetto di Keynes, che aveva in mente la positiva esperienza del New Deal, il Fondo sarebbe stato solidaristico in quanto avrebbe dovuto sostenere l’azione degli stati membri durante le crisi periodiche dell’economia. Alla fine vinsero gli americani, che avevano dalla loro un’economia forte e in grande espansione, e il dollaro divenne la moneta di riferimento internazionale, l’unica convertibile con l’oro. Le altre dovettero ancorarsi al dollaro, fissando il cambio con la moneta americana. Il nuovo sistema fu chiamato Gold exchange standard e i Paesi che vi aderirono si impegnarono ad adottare politiche monetarie tese a mantenere fissi i tassi di cambio al dollaro e, di conseguenza, all’oro. Cominciava già allora ad essere chiaro a tutti che le economie erano interdipendenti e che la stabilità monetaria e finanziaria avrebbe avuto ripercussioni positive sulla crescita mondiale. Il Gold exchange standard e la nascita del Fmi Per garantire questa stabilità occorreva un meccanismo che fosse allo stesso tempo in grado di incoraggiare la crescita del commercio e di rendere i requisiti dell’equilibrio esterno sufficientemente flessibili da poterli soddisfare senza sacrificare l’equilibrio interno. Nacque così il Fondo monetario internazionale. Esso avrebbe dovuto da un lato supervisionare e garantire la parità tra le monete dei diversi Paesi e, dall’altro, fornire un aiuto finanziario a breve termine (3-5 anni) ai Paesi membri in disavanzo. L’idea originale fu dunque quella di creare una sorta di stanza di compensazione degli scambi monetari derivanti dal commercio internazionale che poteva disporre di ammortizzatori per pareggiare gli scompensi delle partite correnti senza ricorrere a immediati aggiustamenti dei cambi. Il Fondo monetario internazionale venne costituito con i versamenti degli Stati membri le cui entità determinarono il loro potere decisionale, gli obblighi e i diritti finanziari nei confronti del Fondo stesso. Le quote maggiori spettarono agli Stati Uniti: 2750 milioni di dollari (28,03% del potere di voto); Cina: 550 milioni di dollari (5,81% del potere 3 di voto); Francia: 450 milioni di dollari (4,80% del potere di voto). Oggi aderiscono al Fmi 178 Paesi, il loro potere decisionale è proporzionale alle quote versate. Le nazioni più industrializzate del mondo (Usa, Germania, Inghilterra e Francia) controllano da sole il 39% dei voti. Ma per completare l’architettura istituzionale dell’ordine economico concepito a Bretton Woods, accanto al Fondo monetario internazionale fu istituta anche la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (conosciuta come Banca Mondiale) e un’organizzazione mondiale per il Commercio (World trade Organisation - WTO) che cominciò ad operare a partire dal 1995. L’egemonia americana e l’assenza della speculazione Lo statuto del Fondo monetario internazionale, ratificato nel luglio 1944, entrò in vigore nel dicembre 1945 ma effettivamente in funzione a partire dal marzo 1947. Quell’anno fu molto importante per l’Europa perché segnò l’inizio di un periodo molto florido e ricco di opportunità per la ripresa. A condurre il gioco erano gli Stati Uniti che ormai avevano saldamente in mano la leadership indiscussa del mondo Occidentale. Tre mesi dopo l’avvio del Fmi, e precisamente il 5 giugno, l’allora segretario di Stato americano George Marshall, annunciò al mondo, dall’Università di Harvard, la decisione del suo Paese di lanciare un piano di aiuti economicofinanziari per l'Europa, che sarebbe diventato noto a tutti con il suo nome. Nel suo discorso Marshall disse che l'Europa aveva bisogno, per almeno altri 3-4 anni, di ingenti aiuti da parte degli Stati Uniti e che, senza di essi, avrebbe imboccato inesorabilmente la strada del declino. Sempre in quell’anno, il 30 ottobre, 23 paesi firmarono il Trattato Generale sulle Tariffe e il Commercio (General Agreements on Tariffs and Trade-Gatt) per promuovere il commercio internazionale. Insieme al piano Marhall, questo accordo, che durò sino al 1994, anno in cui fu sostituito dal Wto, contribuì a portare i Paesi Occidentali sul binario della crescita. In quegli anni anche l’economia statunitense spiccò il volo. Le esportazioni crebbero in modo esponenziale favorite anche dai prestiti del piano Marshall che vincolavano le linee di credito in dollari all’acquisto di prodotti americani. La forte domanda estera consentì agli Stati Uniti di 4 riconvertire l’industria bellica, diversificare la produzione e imporre il made in Usa in tutto il mondo. In un contesto in cui gli Stati Uniti erano al centro del commercio internazionale, il mantenimento di un sistema monetario di cambi fissi che faceva perno sul dollaro, appariva semplice e di facile gestione. Le istituzioni di Bretton Woods svolgevano un ruolo molto marginale, limitandosi a correggere squilibri circoscritti e di breve durata. La speculazione non solo non era ammessa, ma neppure possibile. Gli scambi monetari erano esclusivamente la contropartita di quelli commerciali. Erano vietati i movimenti di capitale destabilizzanti da un Paese all’altro, e nei singoli Stati vigevano divieti sugli investimenti in capitali esteri e sul collocamento di titoli del debito pubblico che non fossero i propri. Non esisteva un sistema bancario e finanziario privato sovranazionale e le borse valori operavano entro i confini dello Stato di appartenenza. In altre parole l’assetto e la regolamentazione dei mercati finanziari escludevano alla base movimenti di capitali monetari speculativi. Il sistema monetario del gold exchange standard poteva infatti funzionare solo in un ristretto spazio di manovra della circolazione monetaria. La Cee e la rinascita dell’Europa Ma a partire dal 1958 l’equilibrio raggiunto nel dopoguerra cominciò a scricchiolare. Nel decennio precedente, grazie agli aiuti del piano Marshall, e al sistema dei cambi fissi, gli Stati europei conobbero uno sviluppo a due cifre che li portò a ragionare in termini più indipendenti e competitivi nei confronti degli Stati Uniti. E a incontrarsi per portare avanti l’idea una più ampia area di libero scambio e circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali. Ma non furono principalmente le ragioni economiche a spingere i Paesi europei verso l’unione, quanto l’idea di costruire una pace duratura in Europa dopo le enormi sofferenze patite con la guerra. A fare il primo passo in tal senso fu il Ministro francese degli Affari esteri, Robert Schuman che propose alla Germania di riunire in un mercato comune le industrie del carbone e dell'acciaio, le più strategiche dal punto di vista bellico, sottoponendole al controllo di un'autorità sovranazionale. Poi, per rendere, come disse Schuman il 9 maggio 1950, "una qualsiasi guerra tra la 5 Francia e la Germania non solo impensabile, ma materialmente impossibile", nel 1951 la Francia e la Germania istituirono con Belgio, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi, la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA) Il passo decisivo e più importante fu però compiuto sei anni dopo, quando il 25 marzo 1957 Francia, Belgio, Germania ovest, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, firmarono a Roma due trattati (detti appunto i Trattati di Roma) che entrarono in vigore il 1º gennaio 1958, dando vita alla Comunità europea dell'energia atomica (Euratom) e alla Comunità economica europea (Cee o CE in seguito al Trattato di Maastricht del 1992) o Mercato Comune, la cui sede politica e burocratica fu fissata a Bruxelles. La Cee, che nacque con l’idea di favorire l'unione economica dei suoi membri, fino ad arrivare a un'eventuale unione politica, aveva tra i suoi obiettivi quello di favorire il libero movimento di beni, servizi, persone e capitali, abolire i cartelli e sviluppare politiche congiunte e reciproche nel campo del lavoro, dello stato sociale, dell'agricoltura, dei trasporti, del commercio estero, era però circosrcitta solo ai sei paesi europei che l’avevano proposta. Si trattava quindi, almeno inizialmente, di un patto ristretto a pochi, tant’è che alla richiesta del Regno Unito di allargare il Mec, la Francia si oppose nel novembre 1958. Ciò spinse il Regno Unito ad allearsi con la Svezia per promuovere l'Associazione europea di libero scambio (EFTA) che si concretizzò nel 1960, con l’adesione di altri paesi non membri della Cee (Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svizzera). Pertanto, alla fine degli anni cinquanta, il difficile processo di integrazione europea aveva insomma già iniziato il suo cammino, pur con una visione soggetta a logiche ed equilibri di potere nazionale. In particolare all’inizio fu la Francia il paese che più determinò, a livello strategico, la direzione. Il 21 dicembre 1958 il generale Charles De Gaulle fu nominato con una votazione plebiscitaria presidente della Repubblica e governò la Francia per dieci anni. De Gaulle era favorevole a un’integrazione economica europea ma credeva anche che i singoli Stati dovessero mantenere la loro individualità e responsabilità. (“Non ci può essere altra Europa che quella degli Stati, tutto il resto è mito, discorsi, sovrastrutture”). Il resto, e cioè la creazione di un’impalcatura politica fatta 6 di sovrastrutture e authority, erano per lui solo chiacchiere destinate al fallimento. In sintesi la sua idea era quella di una Europa confederale da raggiungere attraverso accordi e trattati tra Paesi. Così, pur contrario alla burocrazia di Bruxelles, da un lato spinse gli Stati europei a firmare regole comuni e pemanenti con l’obiettivo principale di avviare una politica agricola comunitaria di cui la Francia ne avrebbe beneficiato, dall’altro lavorò per formare in Europa un asse franco- tedesco e, nello stesso tempo, trafficò in segreto per costituire un direttorio con gli inglesi e gli americani a capo dell’alleanza atlantica. Il secco no che ricevette da Washington e da Londra lo portò a cambiare disegno politico puntando su un’Europa a guida francese che si ponesse in concorrenza con le due potenze mondiali: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. La Francia aveva tutte le carte in regola per giocarsi la partita da protagonista. Anche perché con la fine del Commonwealth e il disastroso esito della crisi di Suez, la Gran Bretagna venne a perdere tutta la sua forza e iniziò a premere per entrare anch’essa nella Comunità europea che nel frattempo stava conoscendo uno straordinario successo. Nel decennio 1958-1967 lo scambio tra i sei Paesi della Cee era infatti passato da 6,7 miliardi di dollari a 24,1 aumentando del 260% circa. Gli americani perdono terreno A partire dal 1958 il deflusso di capitali verso l’Europa, non compensato a sufficienza dalle esportazioni portò per la prima volta in deficit la bilancia di pagamenti degli Stati Uniti. Fu il primo segnale serio di allarme per gli americani. La forte ripresa del commercio in Europa rischiava di fare saltare gli accordi di Bretton Woods. Così, dopo un periodo di relativo immobilismo, gli Usa, presieduti da John Fitgerald Kennedy, reagirono dando il via da un lato a una stretta integrazione del potenziale militare all’interno della Nato e rilanciando dall’altro l’iniziativa americana in Europa con un programma di liberalizzazioni spinte. E per far fronte al deficit valutario, la Banca centrale americana (Fed) iniziò a stampare dollari. Questa politica, definita con l’espressione di “benign neglect”, portò inevitabilmente nel tempo a diminuire la capacità americana di convertire i dollari in circolazione in oro, aprendo le prime crepe nel 7 sistema. Queste si allargarono a partire dal 1962 quando scoppiò la guerra del Vietnam e l’amministrazione democratica del presidente Lyndon Johnson diede inizio ad una politica economica espansiva per finanziare l’aumento delle spese sociali e l’impegno militare in Asia. Le banche abbassarono i tassi d'interesse sui prestiti e numerosi governi dei Paesi in Via di Sviluppo, incentivati anche dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, videro l'occasione favorevole per il loro sviluppo. Il momento sembrava perfetto per chiedere prestiti per sostenere i piani di crescita e far fronte ai bisogni di popolazioni stremate dalla fame. Nella pratica però, molto spesso i soldi andarono nelle mani di dittatori che se ne servirono per armarsi e rafforzare il loro potere favorendo l’accumulo del debito dei Paesi del Sud del mondo. La fine di Bretton Woods Con le liberalizzazioni e la politica monetaria espansiva portata avanti dagli Stati Uniti negli anni Sessanta iniziarono i processi di globalizzazione dell’economia con la formazione di potentissime imprese multinazionali. Con il risultato che i dollari fuori dal controllo della Federal Reserve Bank usati nelle transazioni europee (eurodollari) e quelli riciclati e investiti dai produttori di petrolio (petrodollari) crebbero enormemente (da 14 miliardi nel 1964 a 160 nel 1973 e a 500 miliardi nel 1978). Alla fine di quel decennio c’era una sovrabbondanza di biglietti verdi in giro per il mondo. Nel 1971 per la prima volta anche il conto corrente degli Stati Uniti andò in deficit e da più parti si iniziò a ipotizzare una possibile svalutazione del dollaro nei confronti dell’oro. I francesi e gli inglesi, spaventati dalle possibili conseguenze, minacciarono di convertire tutte le loro riserve di dollari in oro. Ma così dicendo, fecero peggiorare la situazione. La reazione degli americani fu infatti immediata. Il 15 agosto 1971 con un atto unilaterale, il presidente americano Richard Nixon annunciò di sospendere temporaneamente la convertibilità del dollaro in oro e in altre riserve accompagnando il tutto con un blocco dei salari di 90 giorni, una tassa del 10% sulle importazioni e una tassa del 10% sul credito per gli investimenti. Immediatamente dopo la divisa americana perse il 20% del proprio valore 8 rispetto allo yen e quasi il 15% nei confronti del marco tedesco. La caduta del dollaro trascinò nel caos l'intero sistema monetario internazionale. Le monete deboli come la sterlina inglese, la lira italiana, la peseta spagnola e in parte il franco francese, registrarono pesanti perdite rispetto al marco e allo yen. E, nel terremoto valutario, i capitali di tutto il mondo s'orientarono sempre di più verso la moneta nipponica e tedesca, mettendo in discussione il ruolo stesso del dollaro nel sistema monetario internazionale. Nella testa di Nixon la sospensione della convertibilità del dollaro avrebbe dovuto essere solo un atto di forza temporaneo in attesa di stabilire un nuovo rapporto di cambio ma gli eventi la trasformarono in una mossa definitiva che inaugurò un periodo di estrema volatilità per le valute. La svalutazione rese di fatto il dollaro inconvertibile e la sua circolazione accrebbe l'inflazione e la situazione debitoria di molti paesi produttori e consumatori di petrolio. I dollari vennero investiti solo in piccola parte negli stessi Stati produttori. Il resto si riversò nel sistema economico e finanziario mondiale con effetti destabilizzanti che portarono gli Stati Uniti, nel marzo del 1973, ad abbandonare per sempre l’ancoraggio con l’oro chiudendo definitivamente un’epoca “felice” in cui tutto era stato regolato in modo semplice e chiaro. Le crisi energetiche e la liberalizzazione dei mercati La volatilità dei cambi aumentò i rischi di ulteriori tonfi del dollaro mentre all’orizzonte le nubi si facevano minacciose. Stava infatti per scoppiare il fronte arabo israeliano. Il 6 ottobre 1973 con l’attacco di Egitto e Siria contro Israele iniziò la guerra dello Yom Kippur. La guerra, che durò 16 giorni (finì ufficialmente il 22 ottobre), ebbe pesanti ripercussioni sulle economie dei Paesi europei e degli Stati Uniti che perdurarono fino alla fine degli anni Settanta. Il prezzo del petrolio aumentò più del triplo rispetto alle tariffe precedenti causando una pesante inflazione in Giappone e nei paesi europei industrializzati carenti di petrolio come l’Italia. Questi, per evitare peggiori conseguenze, furono costretti a sostenere il mondo arabo e a favorire la causa palestinese, anche dinanzi ad atti terroristici e violenti. La crisi petrolifera colpì duramente la Comunità Europea, che non riuscì, negli anni successivi alla guerra, a predisporre un comune piano 9 economico di ripresa per gli Stati membri. Ma l’aumento dei prezzi del petrolio riversò un ampio flusso di denaro (petrodollari) nelle tasche dei petrolieri che lo fecero confluire verso le banche internazionali. Una mina vagante per gli Stati Uniti. Se i petrodollari in circolazione fossero stati investiti in valute più stabili, come il marco o lo yen, il dollaro non solo avrebbe subito una ulteriore, pesante, caduta ma sarebbe diventato anche una delle divise utilizzate negli scambi internazionali. E non più l’unica. La paura di perdere la centralità della propria moneta, spinse gli Stati Uniti ad accelerare la liberalizzazione dei mercati dando una ulteriore spinta al processo di globalizzazione in atto. Nel 1974 il fallimento (26 giugno) di una banca tedesca, la Bankhaus Herstatt, causò enormi difficoltà anche alle banche degli altri Paesi che ebbero pesanti ripercussioni sul sistema dei pagamenti. Per migliorare la collaborazione internazionale ed evitare incidenti analoghi a quello di Herstatt il Governatore della Banca d’Inghilterra Peter Cooke, insieme agli altri rappresentanti delle banche centrali dei paesi cosiddetti G-10 diede vita a un Comitato sotto l’egida della Banca dei Regolamenti Internazionali, situata a Basilea. L’obiettivo era quello di coordinare i processi di deregolamentazione dei mercati finanziari tra gli Stati aderenti e di promuovere una regolamentazione leggera nel sistema bancario. Intorno al Comitato, che fu inizialmente chiamato “Comitato Cooke” dal nome del suo primo presidente, cominciò a raccogliersi una specie di forum finanziario aperto. In esso le banche centrali e i maggiori istituti di credito della sfera occidentale e in particolare dell’anglosfera ebbero un ruolo strategico molto importante nel promuovere e indirizzare la deregolamentazione. Cambia la mission del Fmi La fine di un sistema di cambi fissi come quello di Bretton Woods e l’eliminazione dei controlli sui movimenti dei capitali resero non solo ardua ma inutile la missione per la quale il Fmi era stato istituito: promuovere il commercio internazionale in un quadro di stabilità monetaria. In uno scenario di volatilità sistemica dei mercati finanziari che fomentava la 10 speculazione internazionale e di forte liquidità circolante in dollari occorreva ripensare la funzione del Fondo e stabilire nuovi obiettivi che vennero individuati nel finanziamento degli squilibri della bilancia dei pagamenti dei paesi in via di sviluppo con prestiti vincolati al rispetto di specifiche condizioni e a piani di rigorosa stabilizzazione. L’attenzione del Fondo si spostò pertanto sulle politiche macroeconomiche dei paesi membri e sugli squilibri interni dei loro mercati. Ciò lo portò a trasformarsi da prestatore a breve termine in prestatore a lungo termine. Il 13 giugno 1974 fu creato un nuovo meccanismo di credito che avrebbe aiutato i paesi membri le cui bilance dei pagamenti fossero state sostanzialmente squilibrate dall'aumento del costo del petrolio a superare il difficile periodo di transizione. La dotazione di questo nuovo strumento creditizio, equivalente a 3 miliardi in diritti speciali di prelievo, fu sottoscritta dai paesi OPEC e dal Canada. Nel triennio successivo le bilance dei pagamenti dei paesi industrializzati migliorarono notevolmente. Le migliori condizioni di scambio, la crescita delle importazioni manifatturiere da parte deli paesi dell’Opec avevano riportato i conti delle economie occidentali a posto. Ma anche i Paesi in via di sviluppo, grazie al riciclaggio dei petrodollari favorito dal Fondo monetario erano in netta ripresa. Purtroppo però la nuova crisi orientale frenò il positivo trend di sviluppo che si era venuto a creare. Nel 1976 anche l’Italia, con l’allora Governo di Unità nazionale presieduto da Giulio Andreotti, fu costretta a chiedere un prestito di circa cinquecentomilioni al Fondo monetario internazionale sottoponendosi, in cambio, a una rigida disciplina e ai controlli sui bilanci e sulle spese. Nel gennaio 1979 l’Aiatollah Khomeini guidò in Iran la rivoluzione contro lo scia Reza Palevi e nell’aprile dello stesso anno un referendum popolare decretò l’instaurazione di una Repubblica Islamica con a capo Khomeini. Immediatamente dopo il dittatore irakeno Saddam Ussein lanciò una escalation propagandistica contro il fondamentalismo sciita dell’Iran proponendosi ai paesi arabi e a quelli occidentali come il baluardo contro il possibile dilagare del komeinismo. La guerra che scoppiò nel settembre 1980 fu inevitabile. Gli aumenti dei prezzi del petrolio che ne seguirono resero di nuovo rilevanti i meccanismi di riciclaggio dei surplus dei paesi OPEC ed ebbe ripercussioni negative sulla ripresa dei Paesi in via di 11 sviluppo. Questa infatti dipese sempre di più dalle operazioni di riciclaggio dei petrodollari effettuate dal Fondo monetario internazionale che mutarono profondamente i rapporti tra economie industrializzate e paesi OPEC, conferendo a questi ultimi un maggior peso politico. La svolta monetarista Ma l’aumento del prezzo del petrolio fece anche crescere notevolmente in Europa e negli Stati Uniti il rischio di una nuova ondata di inflazione incontrollata e di un conseguente tonfo del dollaro seguito da una serie di svalutazioni a catena delle altre valute. Con la guerra tra l’Iran e l’Irak gli Stati Uniti avvertirono sempre più forte la paura di perdere il privilegio di possedere la valuta di riferimento mondiale. Da qui cominciò a farsi strada negli Usa l’idea di una politica monetaria che mettesse al primo posto la stabilizzazione del cambio del dollaro a prescindere dell’equilibrio della bilancia commerciale. L’idea aprì la strada a scenari sino ad allora inesplorati. Innanzitutto per dare stabilità al dollaro indipendentemente dai rapporti economici reali sottostanti, gli Usa dovevano attirare capitali dall’estero. E per farlo occorreva rendere il più attrattivo possibile il mercato finanziario interno. In questa nuova prospettiva divenne inevitabile la liberalizzazione completa dei movimenti dei capitali. Una strada che comportò anche la fine del protezionismo. Senza liberalizzare gli scambi commerciali non sarebbe infatti stato possibile liberalizzare i movimenti dei capitali. Ma per ridare al dollaro quel ruolo egemonico di moneta di riferimento mondiale occorreva anche pensare a un nuovo sistema monetario che potesse di fatto sostituirsi al gold standard in modo non traumatico: il cosiddetto dollar standard. Per questo serviva una nuova teoria. E Milton Friedman la formulò con il monetarismo. Secondo i principi della teoria monetarista, per mantenere il dollaro come moneta di riserva, bisognava preservarlo dalla svalutazione indotta dall’inflazione. Sarebbe stata dunque quest’ultima la “bestia nera” da combattere a tutti i costi regolando la circolazione monetaria in virtù della crescita dell’economia. La teoria di Friedman fissò pertanto una stretta correlazione tra massa monetaria (M1) e prodotto interno lordo (PIL) e attribuì a una autorità monetaria (la Fed nel caso degli Usa), indipendente dal potere 12 politico, il compito di dosare la liquidità del sistema, tramite la manovra sul tasso di interesse. Per gli Stati Uniti e l’Europa il monetarismo, nonostante un’ avvio tranquillo, senza cioè particolari traumi, fu una grande rivoluzione. Negli Usa la sua introduzione fu preceduta da una attenta strategia di comunicazione politica. Già nell’agosto del 1979 il presidente americano Jimmy Carter nominò Paul Volcker a capo della Fed. Volker, che proveniva dalla Federal Reserve di New York, dal 1969 al 1974 aveva ricoperto l’incarico di sottosegretario del Ministero del Tesoro per gli affari monetari internazionali. E qui si era fatto conoscere per il ruolo importante che aveva avuto nelle decisioni di sospendere nel 1971 la convertibilità dell'oro. Volker mise subito la lotta all’inflazione in cima alle priorità degli americani. Egli disse che senza un attento controllo e contenimento dell’inflazione l’economia americana non sarebbe ripartita, facendo capire che, per rilanciare gli investimenti e l’occupazione, avrebbe dovuto tirare il freno con forza. Il concetto passò velocemente all’opinione pubblica e, alla fine del 1979, la Fed innalzò fortemente i tassi di interesse. La manovra ebbe successo, fermò l’inflazione e evitò la svalutazione del dollaro. Ad essa si affiancò la liberalizzazione dei movimenti di capitali, il cui via fu dato dal Depository Institutions Deregulation and Monetary Control Act, approvato dal Governo degli Stati Uniti nel 1980. La deregulation degli anni Ottanta Gli anni Ottanta si aprirono all’insegna del liberalismo spinto. Due furono gli statisti chiave del nuovo movimento che guidò le scelte del mondo occidentale. Ronald Reagan negli Usa e Margaret Tatcher in Inghilterra. Essi presentarono il liberalismo e la svolta monetarista come una battaglia per la libertà, contro il dilagare dello statalismo sia interno che esterno. La caduta delle barriere finanziarie apriva la scena su quella che venne vista fin dall’inizio come la nuova frontiera dell’economia mondiale. Un grande spazio dove i capitali erano liberi di circolare senza limiti. Facilitati in questo dalle scoperte tecnologiche di quegli anni che annullarono gli intervalli temporali e spaziali delle transazioni finanziarie spianando la via all’ingegneria finanziaria dei derivati. E scatenando, in assenza di regole, movimenti speculativi su larga scala che posero le loro basi in paradisi 13 fiscali, protettorati, porti franchi, isole, atolli indipendenti. Il processo di globalizzazione passò così nelle mani delle istituzioni finanziarie private che, in ogni paese sollecitarono la deregolamentazione statale imponendola di fatto, con il ricorso ai centri finanziari offshore. Le forze globalizzanti si identificarono nel cosiddetto “consenso di Washington”, espressione coniata nel 1989 dall'economista John Williamson per indicare le 10 direttive di politica economica promosse dalle organizzazioni internazionali con sede a Washington come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d'America per risolvere le crisi dei Paesi in via di sviluppo che ricorrevano al loro aiuto. Le direttive, che prendevano spunto dalla scuola di Chicago di cui Friedman era l’esponente di spicco, consistevano in riforme di stabilizzazione macroeconomica e apertura dei mercati ai capitali e al commercio internazionale. Dalla sua accezione originaria, il termine “Consensus di Washington” venne in seguito utilizzato per indicare un generale orientamento verso un approccio economico fortemente orientato al mercato. Una sorta di manifesto neoliberista attorno al quale si raccolse una vasta galassia di banche, organizzazioni finanziarie e gruppi transnazionali occidentali, pubblici e privati che ne condividevano principi e metodi. Incontri come quello di Davos divennero il palcoscenico di questo nuovo assetto di potere. Tra gli invitati c’erano anche i rappresentanti degli Stati e delle istituzioni finanziarie nazionali che venivano sollecitati a non ostacolare le spinte globalizzanti e a dare risposte tempestive e conformi alle esigenze di deregolamentazione. La scuola di Chicago e i PAS L’aumento dei tassi di interesse americani e la rivalutazione del dollaro fecero lievitare il debito pubblico che i Paesi invia di sviluppo avevano ricevuto a tasso variabile negli anni precedenti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. In quegli anni gran parte di essi, anche per effetto degli eccessivi squilibri della bilancia commerciale provocati dalla libera circolazione dei capitali, finì in amministrazione controllata e chiese l’aiuto del Fondo. Sollecitato da più Stati membri, il Fondo, per mantenere il suo ruolo, dovette riconvertirsi in uno strumento di 14 politica economica internazionale specializzato nella ristrutturazione dei debiti degli Stati sovrani. In sintonia con il pensiero dominante, la dottrina che guidò i suoi interventi fu quella del libero mercato, interpretata su scala globale secondo gli insegnamenti della scuola di Chicago. In sintesi: liberalizzare i movimenti di capitale, privatizzare i pubblici servizi e le risorse naturali economiche in mano pubblica, come miniere e fonti di energia, applicare una severa politica monetaria antinflazionista per arrivare a un bilancio pubblico in pareggio. Una visione che di fatto favoriva la penetrazione economica finanziaria dei grandi conglomerati finanziari e commerciali stravolgendo profondamente la struttura economica finanziaria del Paese in questione. Il primo caso si ebbe con il Messico. Nel 1982 il Messico dichiarò al mondo intero che non ce l’avrebbe fatta a restituire il suo debito. Per evitare il collasso del Paese e la reazione a catena che si sarebbe potuta scatenare nel sistema economico e finanziario mondiale, il Fondo e la Banca Mondiale subentrarono nei crediti delle banche commerciali, permettendo il flusso di nuovi capitali. Ma così facendo aumentarono l’entità del debito e costrinsero il Messico, in cambio dell’urgente salvataggio, ad accettare i cosiddetti Pas, piani di aggiustamento strutturali, impostati secondo i dettami della scuola di Chicago. L’obiettivo dei Pas era quello di stabilizzare la bilancia dei pagamenti. Per farlo il Messico doveva da un lato incrementare nel più breve tempo possibile le esportazione attuando tutte le misure necessarie anche a scapito di cambiare radicalmente produzione e metodi lavorativi, dall’altro attirae capitali mettendo in atto tutte le manovre necessarie allo scopo tra cui l’aumento dei tassi di interesse. Secondo il Fondo monetario i PAS avrebbero spianato la via in Messico per rilanciare nuovamente l’economia a partire dagli anni '90. In realtà non fu così e ancora oggi il Messico fa molta fatica a riprendersi. Le ricette del Fmi furono seguite da numerosi paesi, dall'America Latina all'Africa al Sud Est Asiatico. E dappertutto le privatizzazioni causarono licenziamenti, l’eliminazione dei dazi favorì l’ingresso delle merci straniere più competitive, la riduzione dei vincoli sociali, le politiche deflattive, la svendita delle risorse naturali ed umane e impoverirono la popolazione. Tanto che lo stesso Fondo dovette prendere atto del mancato raggiungimento dei risultati sperati. Il dato di 15 fatto era infatti che i Paesi soccorsi dal Fmi facevano tutti molta fatica a rimborsare i prestiti ricevuti. Per migliorarne la situazione il Tesoro americano pensò di spostare in avanti le scadenze e di rifinanziare gli arretrati. A partire dal 1985 con il Piano Baker, nel 1988 con l’iniziativa di Toronto e nel 1989 con il Piano Brady il Governo promosse una serie di nuove misure mirate a ridurre il debito per i Paesi altamente indebitati. La loro realizzazione fu affidata al Club di Parigi, l'organizzazione che mette insieme i 19 Governi che vantano maggiori crediti (gestisce il 70% di tutti i crediti bilaterali ufficiali, che a loro volta costituiscono la metà dei debiti esteri). In particolare il piano Baker aveva l’obiettivo di stimolare le banche a fornire nuovi crediti per sostenere le politiche di aggiustamento proposte dal fondo. Ma gli istituti di credito non si si dimostrarono disponibili a investire in aree deboli e il piano fallì. L’anno dopo, a Toronto, vennero proposte nuove scadenze diluite in 25 anni dopo un periodo di 14 a tassi limitati per i crediti agevolati. Esperimento che dopo pochi mesi fu accantonato. Visto l’insuccesso delle precedenti manovre di riduzione del debito il piano Brady puntò a coinvolgere il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale e i governi in forma bilaterale. Non fu un gran successo ma nacquero le prime forme di conversione del debito estero interno in valuta locale. Solo alla fine degli anni Ottanta, quando divenne chiaro che il posticipare le scadenze nel tempo faceva da un lato guadagnare molto in interessi ma dall’altro, aumentare il debito totale, a causa della capitalizzazione dei tassi, i creditori si resero conto che alla lunga ci avrebbero perso, perché alcuni debiti non si sarebbero mai estinti. Gli anni dell’euforia e la crisi aisiatica Nel 1989 crolla il muro di Berlino. E’ la fine della guerra fredda. E’ il trionfo degli Stati Uniti sull’Unione Sovietiva, della democrazia sul comunismo, del modello americano su quello sovietico. Gli Usa sono i padroni del mondo. Si apre un decennio dove gli investimenti privati spiccano il volo e la deregulation si manifesta in tutti i settori. 16 Negli anni Novanta il Fmi contribuisce a spingere l’acceleratore sulla rapida liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali coinvolgendo molti Paesi in via di sviluppo che si lasciano trascinare nel clima generale di grande euforia. A parte alcune importanti eccezioni tra cui l’India e la Cina che rimasero sorde agli appelli liberistici, la maggior parte dei Paesi in via di sviluppo aprirono le loro economie agli scambi di capitali con l’estero. Anche se ormai i rischi connessi alla completa mobilità dei capitali non erano più sconosciuti, in molti ambienti politici e accademici regnava la convinzione che le liberalizzazioni avrebbero portato maggiore efficienza e sarebbero state utili alla crescita dell’economia globale. Ma in molti Paesi in via di sviluppo nei quali il Fmi promosse le liberalizzazioni, le crisi degli anni Novanta superarono quelle del decennio precedente e, anche per via del collegamento tecnologico sempre più stretto tra gli operatori e i mercati di tutto il mondo, ebbero delle ripercussioni molto forti dappertutto. Ne fu un esempio la crisi finanziaria del Sud est asiatico che colpì i paesi asiatici, ma fece sentire per diverso tempo i suoi contraccolpi ovunque. A lungo il Fondo monetario internazionale aveva incoraggiato gli investitori internazionali a convogliare capitali sui Paesi di nuova industrializzazione, in forte crescita e dotati di istituti finanziari, apparentemente, solvibili e affiancati da garanzie pubbliche facendosi in ultima istanza garante, insieme ai Governi coinvolti, della loro restituzione. Gli investitori, che tra l’altro non conoscevano bene i mercati asiatici, confidavano anche nel fatto che questi Paesi fossero troppo grandi e importanti per essere lasciati fallire. Il rischio che si presero fu quindi, spesso inconsapevolmente, troppo elevato. Bastò infatti il peggioramento della congiuntura internazionale per provocare una reazione a catena di dimensioni eccezionali. Le economie dei Paesi indebitati smisero di crescere e gli speculatori internazionali presero posizione cercando di forzare la svalutazione delle loro valute. Cosa che alla fine avvenne. Le autorità nazionali, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, furono infatti costrette a ritirarsi in quanto le riserve valutarie limitate e l’eventuale costo di un’operazione di salvataggio, non permisero loro di tenere duro. Ma il deprezzamento spinse le banche e i creditori internazionali a richiedere indietro i prestiti 17 scaricando così i loro problemi di liquidità sulle imprese. Quelle locali, soprattutto, ne soffrirono moltissimo. Erano indebitate in dollari e non potevano rimborsarli a causa del drammatico calo della domanda interna che lasciava invenduta la produzione. Scoppiò così una crisi gravissima che dalle banche e dalle imprese si propagò all’economia reale. I due paesi più colpiti furono l’ Indonesia e la Thailandia dove i tassi di accumulazione del capitale caddero violentemente e mai più raggiunsero le elevate vette del decennio precedente. Il movimento no global e le accuse al Fondo La crisi fu talmente profonda che economisti, scienziati, politici e autorità internazionali misero in seria discussione la natura, le funzioni, i compiti e le politiche delle grandi istituzioni finanziarie internazionali. Le pesanti conseguenze in Asia e la rigidità con la quale il Fondo monetario internazionale applicò gli insegnamenti della scuola di Chicago e il paradigma del Washington Consensus contribuirono al diffondersi di una parte del movimento no global, quella avversa al Fmi. Le maggiori accuse rivolte al Fondo riguardavano il fatto che esso agisse più per preservare il suo credito e quello degli investitori istituzionali che per favorire la ripresa dei Paesi in difficoltà, che prestasse più attenzione alla tenuta del processo di globalizzazione che alle drammatiche conseguenze della crisi sulle economie locali, che salvaguardasse gli interessi degli speculatori piuttosto che delle popolazioni interessate. Sembrava inoltre non dare affatto peso al principio che tutti coloro che avessero partecipato alla formazione di una bolla speculativa dovessero caricarsi parte dei costi qualora essa esplodesse. Ad avvalorare le accuse c’erano studi e ricerche come .un rapporto prodotto dalla Banca mondiale nel 1996 che analizzava l’impatto sociale dei PAS sui Paesi che li avevano adottati. Dall’indagine emerse che in 8 dei 23 Paesi esaminati che ci fu un aumento della povertà, mentre in 11 dei rimanenti 15 paesi la povertà è diminuì meno del 2%. Mentre i tagli alle spese sociali portarono ad un incremento della mortalità infantile e alla diminuzione del livello scolare. Ma c’era anche l’esempio virtuoso della Malesia, l’unico paese che per non seguire le raccomandazioni del Fmi, impose restrizioni ai movimenti di 18 capitale in uscita. Una decisione che permise a Mahathir , leader del partito unico, di traghettare il paese fuori dalla crisi senza spargere sangue. Ma anche Cina e India se l’erano cavata riducendo al minimo le liberalizzazioni del mercato dei capitali. Al di là di tutto la crisi asiatica fece comprendere al mondo intero come l’elevata integrazione finanziaria dei paesi legasse i destini degli uni agli altri ben oltre quanto preventivato e osservato in passato. E i dubbi sul fatto che i mercati lasciati a se stessi potessero garantire l’ordinato funzionamento dell’economia globale, si fecero sempre più varco nell’opinione pubblica. Da più parti si sollevò l’idea che fosse ormai giunto il momento di ragionare su una gestione graduale del processo di integrazione mondiale che prevedesse un meccanismo di governo del sistema finanziario globale, la supervisione e regolamentazione dei mercati finanziari e un intervento oculato degli Stati nella soluzione dei problemi macroeconomici. Queste idee alimentarono e diedero forza al movimento no global che da allora divenne una corrente di opinione internazionale imprescidibile. La crisi Argentina e la riforma del Fondo Con l’inizio del nuovo millennio lo scenario economico e politico americano mutò rapidamente. Nel novembre del 2000 venne eletta una nuova amministrazione guidata dal presidente George Bush e quasi contemporaneamente scoppiò la bolla speculativa legata ai titoli della new economy. Nonostante la recessione che ne seguì fosse di lieve entità, Bush decise ugualmente di agire in modo massiccio tagliando le tasse per rilanciare i consumi interni. Anche la Fed, guidata da Alan Greenspan, si orientò verso una politica monetaria espansiva abbassando i tassi. In breve tempo, grazie alle due mosse congiunte sulle tasse e sul costo del denaro, la finanza pubblica degli Stati Uniti passò da una situazione di sostanziale equilibrio ad una di accentuato deficit mentre il denaro a tassi bassi spinse le famiglie americane a diminuire il risparmio in maniera consistente e a ricorrere sempre più al debito per finanziare l’acquisto dei beni. Il tragico attentato alle torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001, che fece precipitare gli indici in Borsa, spinse il Governo Usa a pigiare ancora di 19 più sul pedale della ripresa. Ma la politica monetaria e fiscale sempre più espansiva e gli interventi militari in Afghanistan prima e in Iraq poi, peggiorarono portarono alla crisi dell’America latina. Gli effetti recessivi dell’economia che si erano manifestati in seguito all’attacco terroristico dell’11 settembre e il crollo dei titoli di Borsa, unito alle incertezze sul futuro dei mercati emergenti, spinsero gli investitori a ridurre il loro impegno in Argentina. Il Paese in grave difficoltà chiese aiuto ma l’amministrazione Bush non rispose e il Fondo monetario internazionale non solo non volle intervenire ma bloccò anche l’erogazione di quella parte di prestito che era già preventivata perchè, fece sapere, non erano ancora stati ottenuti risultati soddisfacenti sul piano fiscale. Ciò spinse il Governo argentino a sospendere i pagamenti verso l’estero e, per evitare che si prosciugassero le riserve di dollari del sistema bancario in seguito alle richieste di conversione della valuta locale, a sbarrare ai cittadini l’ingresso in banca. Fu il disastro. Dall’Argentina la crisi si estese a Turchia, Brasile e Uruguay e questo rese molto difficile per gli economisti sostenere con entusiasmo come negli anni passati che gli interventi del fondo monetario internazionale nei Paesi in via di sviluppo dovessero accompagnarsi a una politica di rapida liberalizzazione dei mercati e di privatizzazione altrettanto veloce del settore pubblico. Ancora una volta la storia insegnava che occorreva molta cautela e attenzione soprattutto in presenza di economie fragili e di mercati poco sviluppati. E anche lo stesso Fondo cominciò a ripensare a una riformulazione della sua strategia che fosse più adeguata alle emergenze e in linea con una visione meno invasiva dei suoi interventi. Il problema di una revisione dei metodi e delle modalità di azione del Fondo fu sollevato nel 2004 dall’ex direttore Rodrigo De Rato. Per quest’ultimo il Fondo era andato oltre la sua funzione e aveva agito, sulla base delle esperienze passate, in modo poco ponderato. Occorreva quindi ridefinire strategie, strumenti e compiti anche alla luce dei nuovi scenari internazionali come l’espansione della globalizzazione finanziaria e l’asumento delle interconnessioni tra sistemi economici e finanziari. Le strategie del fondo non potevano inoltre prescindere dalle conseguenze che avevano la cancellazione del debito e il conseguimento degli obiettivi nei paesi poveri. Ma anche le quote di partecipazione dei Paesi membri 20 andavano riviste in funzione del peso economico che nel frattempo avevano raggiunto. A questo proposito in un un primo momento venne promosso un aumento di capitale che accrebbe il peso di Cina, Turchia, Corea del Sud e Messico. Poi, nel 2006 a Singapore fu avviato un progetto, approvato nel marzo 2008, che rivedeva il meccanismo del calcolo delle quote e del numero dei voti base in modo da dare voce nelle decisioni anche ai paesi più piccoli e arretrati. La crisi finanziaria globale Mentre si discuteva sulla riforma del Fondo, la forte deregolamentazione degli anni Novanta, l’eccessiva finanziarizzazione del sistema e il prolungato abbassamento dei tassi condussero il mondo occidentale alla più grave crisi finanziaria dal 1929 ad oggi. Essa iniziò negli Stati Uniti in seguito alla facilità con cui le banche avevano dato i mutui, dividendo i rischi in prodotti strutturati e derivati. E scoppiò in tutta la sua violenza, con il fallimento della Lehman Brothers, avvenuto nell’ottobre 2008 che ebbe, tra le più gravi conseguenze, quella di contrarre fortemente la liquidità dell’intero sistema bancario occidentale. Da allora, il Fondo Monetario Internazionale, aumentò notevolmente il suo impegno e il suo peso anche in Europa dove fino a quel momento non c’erano stati problemi. Anzi con l’euro, le economie europee stavano conoscendo un periodo di crescita degli scambi e delle transazioni finanziarie molto positivo ma in Europa la crisi di liquidità si trasformò ben presto in crisi del debito pubblico mettendo a rischio gli Stati più indebitati, a partire dalla Grecia. Così, dopo aver incrementato nel 2008 sensibilmente la propria capacità di prestito il Fondo monetario internazionale si dotò di strumenti d’intervento più flessibili che gli avrebbero consentito di aiutare i paesi membri a prevenire improvvisi crolli di fiducia da parte degli investitori internazionali. Crolli che avrebbero innescato ulteriori pericolose crisi di liquidità. Con il rinnovato peso politico del Fondo monetario sulla scena internazionale hanno ripreso vigore le critiche alle modalità di intervento del fondo che, come nel caso della Grecia, sarebbero arrivate a compromettere lo sviluppo del Paese invece di risollevarlo e permettergli in 21 modo adeguato di ripagare i suoi debiti nel tempo. Finora nelle decisioni e nelle modalità di intervento del Fondo un ruolo rilevante lo hanno giocato gli Stati Uniti e i paesi del G7 che si sono mossi preoccupati più a curare i propri interessi politici ed economici in un’ottica di breve termine e spesso miope che orientati a una reale ripresa delle economie soccorse. Ora però, e questa crisi insegna, non è più possibile pensare in modo particolaristico e circoscritto alle proprie necessità. Le tecnologie stanno collegando tutte le economie in modo molto stretto e interdipendente trasformando il mondo in un villaggio globale nel quale le debolezze di un paese si propagano velocemente su tutti gli altri. Il ripensamento sulle politiche di intervento del Fondo diventa quindi una strada obbligata della quale lo stesso Fondo sembra esserne ormai consapevole. Contrariamente a quanto ha sostenuto (e fatto) per trent’anni, di imporre ai paesi salvati misure drastiche e celeri per recuperare velocemente il prestito, il Fondo monetario internazionale si è espresso di recente per un intervento più graduale che consentisse alle economie di riprendersi senza stravolgere la loro situazione e il loro mercato. Prova ne è il caso della Grecia alla quale, dopo la constatazione del disastro, è stata concessa una dilazione dei tempi per rimborsare il debito. La strategia che il Fondo vorrebbe mettere a punto oggi, è pertanto quella di avviare nei Paesi che ne richiedessero l’intervento una politica monetaria accomodante che porti in modo ragionevole e progressivo al risanamento dei conti, al riordino del sistema bancario e a riforme strutturali. Ma il dibattito sul ruolo che il Fondo monetario internazionale dovrà giocarsi in un’economia che ormai a tutti gli effetti è diventata globalizzata, è molto acceso. Soprattutto in virtù del fatto che le strette interconnessioni tra i Paesi sotto l’influenza della enorme velocità degli scambi informatici, hanno azzerato la possibilità di circoscrivere danni. 22 Bibliografia Krugman Paul (2009), Il ritorno dell’economia della depressione,Garzanti, Milano Di Gaspare Giuseppe (2011), Teoria e critica della globalizzazione finanziaria, Cedam, Lavis (TN) Di Nolfo Ennio (2008), Storia delle relazioni internazionali, Editori Laterza, Bari Held David, McGrew Antony (2001), Globalismo e antiglobalismo, il Mulino, Bologna Li Vigni Benito (2009), I predatori dell’oro nero e della finanza globale, Baldini Castoldi Dalai, Milano Latouche Serge (2000), La fine del sogno occidentale. 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