Isola di risparmio per finanziare ovest della Francia

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Isola di risparmio per finanziare ovest della Francia
IL RUOLO DEL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE
NEL PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE DEI MERCATI
Di Angela Maria Scullica
Il 23 aprile 2010 l’allora primo ministro greco George Papandreu parlò dal
porto di Mefisto di Castelrosso nell’isola di Megisti. Era una bellissima
giornata di sole, c’era tanta gente ad ascoltare, i bambini giocavano felici e
nessuno avrebbe mai potuto immaginare quel che sarebbe accaduto in
seguito a quel discorso. Papandreu stava chiedendo all’Europa di
intervenire per evitare il fallimento del Paese. La preghiera, nonostante i
dubbi e le numerose reticenze, fu alla fine accolta e la Grecia ricevette 200
miliardi per scongiurare la sua uscita dall’Euro. Da allora successe di tutto,
drammi, suicidi, povertà. La Grecia insomma si ritrovò in brevissimo
tempo sull’orlo del precipizio. E anche se a decidere l’intervento fu la
troika formata da Commissione europea, Banca centrale e Fondo monetario
internazionale, nella memoria collettiva dei Greci quel fatidico giorno restò
impresso come quello in cui Papandreu consegnò il Paese nelle mani del
Fondo monetario internazionale. Dopo la Grecia la stessa sorte toccò al
Portogallo e alla Spagna. Anche l’Italia rischiò grosso nel novembre 2011,
dopo che le agenzie di rating, nell’estate, peggiorarono i loro giudizi sul
nostro Paese, scatenando la speculazione internazionale. L’Italia se la cavò
cambiando il Governo e dando il via ad una politica di austerity che, alla
luce di quel che avvenne dopo, allontanò ulteriormente la ripresa. Ma è
riuscita ad evitare l’intervento del Fondo monetario internazionale con tutte
le drammatiche conseguenze che ne sarebbero potute derivare. Ed oggi in
piena crisi dell’euro in molti avanzano seri dubbi sull’operato del Fondo e
sugli interessi che lo muovono. Una delle accuse che si rivolgono a questo
organismo è che possa essere stato utilizzato dagli americani, insieme alle
agenzie di rating, come cavallo di Troia per scardinare l’euro e consentire
al dollaro di mantenere il ruolo di valuta dominante che ha avuto dal
dopoguerra ad oggi, nonostante la perdita di terreno degli Stati Uniti nei
confronti della Cina. Un’accusa infondata? Per alcuni economisti sì, per
altri no. Vero è che si tratta di una istituzione controversa che ha permesso
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con i suoi prestiti di ottenere liquidità immediata ai Paesi che ne avevano
bisogno ma che ha anche provocato danni irreparabili alle economie più
fragili. Esaminiamo dunque la sua storia e quali sono state le idee che ne
hanno fino ad oggi guidato l’azione.
La nascita del Fmi con gli accordi di Bretton Woods
Nel 1942 quando, in seguito all’entrata in guerra degli americani, le sorti
del conflitto volgevano ormai a favore degli alleati, Stati Uniti e Gran
Bretagna iniziarono a pensare di costruire insieme un nuovo ordine
monetario internazionale che impedisse il formarsi di quegli squilibri
economici e finanziari che avevano portato il mondo alla grande
depressione del 1929 e poi alla guerra. Ci vollero due anni di discussione
prima di approdare nel luglio del 1944 allo storico incontro di Bretton
Woods. Nella ridente cittadina montana del New Hempshire si diedero
appuntamento al Mount Washington Hotel 400 delegati di 44 paesi. Era la
prima volta che un numero così elevato di Stati indipendenti si trovavano
insieme per decidere e condividere un sistema monetario che avrebbe
dovuto dare, in modo duraturo, ordine, disciplina e benessere a un mondo
che usciva devastato dallo scontro. La situazione era però ben diversa
rispetto a cinque anni prima. La guerra aveva infatti profondamente
stravolto i rapporti di forza tra le Nazioni. L’Europa continentale e il
Giappone ne uscivano distrutti mentre ad Est iniziava a brillare il faro
dell’Unione Sovietica. Ma l’avvenimento sicuramente più importante era il
sorpasso ai vertici del potere mondiale degli Stati Uniti, che assurgevano al
ruolo di potenza dominante, sull’Inghilterra che si avviava verso un lento
ma inesorabile declino. A Bretton Woods i lavori si concentrarono in tre
commissioni: una presieduta dall’americano Dexter White, una che faceva
capo all’economista inglese Jon Maynard Keines e infine la terza
capeggiata dallo spagnolo Eduardo Suarez. Ma a determinarne il risultato
fu l’esito dello scontro tra White e Keynes. L’americano poneva il dollaro
al centro del sistema monetario ancorandolo all’oro e assegnava al Fmi il
ruolo di superbanca che erogasse solo prestiti agevolati in caso di squilibri
della bilancia dei pagamenti, da restituirsi nel tempo. L’inglese invece
puntava su una stanza di compensazione all’interno della quale i paesi
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membri partecipavano con quote rapportate al volume del loro commercio
internazionale, in base alla media dell’ultimo triennio. La compensazione
tra debiti e crediti sarebbe avvenuta tramite una moneta, il Bancor. Nel
progetto di Keynes, che aveva in mente la positiva esperienza del New
Deal, il Fondo sarebbe stato solidaristico in quanto avrebbe dovuto
sostenere l’azione degli stati membri durante le crisi periodiche
dell’economia. Alla fine vinsero gli americani, che avevano dalla loro
un’economia forte e in grande espansione, e il dollaro divenne la moneta di
riferimento internazionale, l’unica convertibile con l’oro. Le altre dovettero
ancorarsi al dollaro, fissando il cambio con la moneta americana. Il nuovo
sistema fu chiamato Gold exchange standard e i Paesi che vi aderirono si
impegnarono ad adottare politiche monetarie tese a mantenere fissi i tassi di
cambio al dollaro e, di conseguenza, all’oro. Cominciava già allora ad
essere chiaro a tutti che le economie erano interdipendenti e che la stabilità
monetaria e finanziaria avrebbe avuto ripercussioni positive sulla crescita
mondiale.
Il Gold exchange standard e la nascita del Fmi
Per garantire questa stabilità occorreva un meccanismo che fosse allo stesso
tempo in grado di incoraggiare la crescita del commercio e di rendere i
requisiti dell’equilibrio esterno sufficientemente flessibili da poterli
soddisfare senza sacrificare l’equilibrio interno. Nacque così il Fondo
monetario internazionale. Esso avrebbe dovuto da un lato supervisionare e
garantire la parità tra le monete dei diversi Paesi e, dall’altro, fornire un
aiuto finanziario a breve termine (3-5 anni) ai Paesi membri in disavanzo.
L’idea originale fu dunque quella di creare una sorta di stanza di
compensazione degli scambi monetari derivanti dal commercio
internazionale che poteva disporre di ammortizzatori per pareggiare gli
scompensi delle partite correnti senza ricorrere a immediati aggiustamenti
dei cambi. Il Fondo monetario internazionale venne costituito con i
versamenti degli Stati membri le cui entità determinarono il loro potere
decisionale, gli obblighi e i diritti finanziari nei confronti del Fondo stesso.
Le quote maggiori spettarono agli Stati Uniti: 2750 milioni di dollari
(28,03% del potere di voto); Cina: 550 milioni di dollari (5,81% del potere
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di voto); Francia: 450 milioni di dollari (4,80% del potere di voto). Oggi
aderiscono al Fmi 178 Paesi, il loro potere decisionale è proporzionale alle
quote versate. Le nazioni più industrializzate del mondo (Usa, Germania,
Inghilterra e Francia) controllano da sole il 39% dei voti. Ma per
completare l’architettura istituzionale dell’ordine economico concepito a
Bretton Woods, accanto al Fondo monetario internazionale fu istituta anche
la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (conosciuta
come Banca Mondiale) e un’organizzazione mondiale per il Commercio
(World trade Organisation - WTO) che cominciò ad operare a partire dal
1995.
L’egemonia americana e l’assenza della speculazione
Lo statuto del Fondo monetario internazionale, ratificato nel luglio 1944,
entrò in vigore nel dicembre 1945 ma effettivamente in funzione a partire
dal marzo 1947. Quell’anno fu molto importante per l’Europa perché segnò
l’inizio di un periodo molto florido e ricco di opportunità per la ripresa. A
condurre il gioco erano gli Stati Uniti che ormai avevano saldamente in
mano la leadership indiscussa del mondo Occidentale. Tre mesi dopo
l’avvio del Fmi, e precisamente il 5 giugno, l’allora segretario di Stato
americano George Marshall, annunciò al mondo, dall’Università di
Harvard, la decisione del suo Paese di lanciare un piano di aiuti economicofinanziari per l'Europa, che sarebbe diventato noto a tutti con il suo nome.
Nel suo discorso Marshall disse che l'Europa aveva bisogno, per almeno
altri 3-4 anni, di ingenti aiuti da parte degli Stati Uniti e che, senza di essi,
avrebbe imboccato inesorabilmente la strada del declino. Sempre in
quell’anno, il 30 ottobre, 23 paesi firmarono il Trattato Generale sulle
Tariffe e il Commercio (General Agreements on Tariffs and Trade-Gatt)
per promuovere il commercio internazionale. Insieme al piano Marhall,
questo accordo, che durò sino al 1994, anno in cui fu sostituito dal Wto,
contribuì a portare i Paesi Occidentali sul binario della crescita.
In quegli anni anche l’economia statunitense spiccò il volo. Le esportazioni
crebbero in modo esponenziale favorite anche dai prestiti del piano
Marshall che vincolavano le linee di credito in dollari all’acquisto di
prodotti americani. La forte domanda estera consentì agli Stati Uniti di
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riconvertire l’industria bellica, diversificare la produzione e imporre il
made in Usa in tutto il mondo.
In un contesto in cui gli Stati Uniti erano al centro del commercio
internazionale, il mantenimento di un sistema monetario di cambi fissi che
faceva perno sul dollaro, appariva semplice e di facile gestione. Le
istituzioni di Bretton Woods svolgevano un ruolo molto marginale,
limitandosi a correggere squilibri circoscritti e di breve durata. La
speculazione non solo non era ammessa, ma neppure possibile. Gli scambi
monetari erano esclusivamente la contropartita di quelli commerciali. Erano
vietati i movimenti di capitale destabilizzanti da un Paese all’altro, e nei
singoli Stati vigevano divieti sugli investimenti in capitali esteri e sul
collocamento di titoli del debito pubblico che non fossero i propri. Non
esisteva un sistema bancario e finanziario privato sovranazionale e le borse
valori operavano entro i confini dello Stato di appartenenza. In altre parole
l’assetto e la regolamentazione dei mercati finanziari escludevano alla base
movimenti di capitali monetari speculativi. Il sistema monetario del gold
exchange standard poteva infatti funzionare solo in un ristretto spazio di
manovra della circolazione monetaria.
La Cee e la rinascita dell’Europa
Ma a partire dal 1958 l’equilibrio raggiunto nel dopoguerra cominciò a
scricchiolare. Nel decennio precedente, grazie agli aiuti del piano Marshall,
e al sistema dei cambi fissi, gli Stati europei conobbero uno sviluppo a due
cifre che li portò a ragionare in termini più indipendenti e competitivi nei
confronti degli Stati Uniti. E a incontrarsi per portare avanti l’idea una più
ampia area di libero scambio e circolazione delle persone, dei servizi, delle
merci e dei capitali. Ma non furono principalmente le ragioni economiche a
spingere i Paesi europei verso l’unione, quanto l’idea di costruire una pace
duratura in Europa dopo le enormi sofferenze patite con la guerra. A fare il
primo passo in tal senso fu il Ministro francese degli Affari esteri, Robert
Schuman che propose alla Germania di riunire in un mercato comune le
industrie del carbone e dell'acciaio, le più strategiche dal punto di vista
bellico, sottoponendole al controllo di un'autorità sovranazionale. Poi, per
rendere, come disse Schuman il 9 maggio 1950, "una qualsiasi guerra tra la
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Francia e la Germania non solo impensabile, ma materialmente
impossibile", nel 1951 la Francia e la Germania istituirono con Belgio,
Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi, la Comunità europea del carbone e
dell'acciaio (CECA)
Il passo decisivo e più importante fu però compiuto sei anni dopo, quando
il 25 marzo 1957 Francia, Belgio,
Germania ovest, Italia,
Lussemburgo, Paesi Bassi, firmarono a Roma due trattati (detti appunto i
Trattati di Roma) che entrarono in vigore il 1º gennaio 1958, dando vita
alla Comunità europea dell'energia atomica (Euratom) e alla Comunità
economica europea (Cee o CE in seguito al Trattato di Maastricht del
1992) o Mercato Comune, la cui sede politica e burocratica fu fissata a
Bruxelles. La Cee, che nacque con l’idea di favorire l'unione economica dei
suoi membri, fino ad arrivare a un'eventuale unione politica, aveva tra i
suoi obiettivi quello di favorire il libero movimento di beni, servizi,
persone e capitali, abolire i cartelli e sviluppare politiche congiunte e
reciproche nel campo del lavoro, dello stato sociale, dell'agricoltura, dei
trasporti, del commercio estero, era però circosrcitta solo ai sei paesi
europei che l’avevano proposta. Si trattava quindi, almeno inizialmente, di
un patto ristretto a pochi, tant’è che alla richiesta del Regno Unito di
allargare il Mec, la Francia si oppose nel novembre 1958. Ciò spinse il
Regno Unito ad allearsi con la Svezia per promuovere l'Associazione
europea di libero scambio (EFTA) che si concretizzò nel 1960, con
l’adesione di altri paesi non membri della Cee (Austria,
Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svizzera). Pertanto, alla fine degli anni
cinquanta, il difficile processo di integrazione europea aveva insomma già
iniziato il suo cammino, pur con una visione soggetta a logiche ed equilibri
di potere nazionale.
In particolare all’inizio fu la Francia il paese che più determinò, a livello
strategico, la direzione. Il 21 dicembre 1958 il generale Charles De Gaulle
fu nominato con una votazione plebiscitaria presidente della Repubblica e
governò la Francia per dieci anni. De Gaulle era favorevole a
un’integrazione economica europea ma credeva anche che i singoli Stati
dovessero mantenere la loro individualità e responsabilità. (“Non ci può
essere altra Europa che quella degli Stati, tutto il resto è mito, discorsi,
sovrastrutture”). Il resto, e cioè la creazione di un’impalcatura politica fatta
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di sovrastrutture e authority, erano per lui solo chiacchiere destinate al
fallimento. In sintesi la sua idea era quella di una Europa confederale da
raggiungere attraverso accordi e trattati tra Paesi.
Così, pur contrario alla burocrazia di Bruxelles, da un lato spinse gli Stati
europei a firmare regole comuni e pemanenti con l’obiettivo principale di
avviare una politica agricola comunitaria di cui la Francia ne avrebbe
beneficiato, dall’altro lavorò per formare in Europa un asse franco- tedesco
e, nello stesso tempo, trafficò in segreto per costituire un direttorio con gli
inglesi e gli americani a capo dell’alleanza atlantica. Il secco no che
ricevette da Washington e da Londra lo portò a cambiare disegno politico
puntando su un’Europa a guida francese che si ponesse in concorrenza con
le due potenze mondiali: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. La Francia
aveva tutte le carte in regola per giocarsi la partita da protagonista. Anche
perché con la fine del Commonwealth e il disastroso esito della crisi di
Suez, la Gran Bretagna venne a perdere tutta la sua forza e iniziò a premere
per entrare anch’essa nella Comunità europea che nel frattempo stava
conoscendo uno straordinario successo. Nel decennio 1958-1967 lo
scambio tra i sei Paesi della Cee era infatti passato da 6,7 miliardi di dollari
a 24,1 aumentando del 260% circa.
Gli americani perdono terreno
A partire dal 1958 il deflusso di capitali verso l’Europa, non compensato a
sufficienza dalle esportazioni portò per la prima volta in deficit la bilancia
di pagamenti degli Stati Uniti. Fu il primo segnale serio di allarme per gli
americani. La forte ripresa del commercio in Europa rischiava di fare
saltare gli accordi di Bretton Woods. Così, dopo un periodo di relativo
immobilismo, gli Usa, presieduti da John Fitgerald Kennedy, reagirono
dando il via da un lato a una stretta integrazione del potenziale militare
all’interno della Nato e rilanciando dall’altro l’iniziativa americana in
Europa con un programma di liberalizzazioni spinte. E per far fronte al
deficit valutario, la Banca centrale americana (Fed) iniziò a stampare
dollari. Questa politica, definita con l’espressione di “benign neglect”,
portò inevitabilmente nel tempo a diminuire la capacità americana di
convertire i dollari in circolazione in oro, aprendo le prime crepe nel
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sistema. Queste si allargarono a partire dal 1962 quando scoppiò la guerra
del Vietnam e l’amministrazione democratica del presidente Lyndon
Johnson diede inizio ad una politica economica espansiva per finanziare
l’aumento delle spese sociali e l’impegno militare in Asia.
Le banche abbassarono i tassi d'interesse sui prestiti e numerosi governi
dei Paesi in Via di Sviluppo, incentivati anche dal Fondo Monetario
Internazionale e dalla Banca Mondiale, videro l'occasione favorevole per il
loro sviluppo. Il momento sembrava perfetto per chiedere prestiti per
sostenere i piani di crescita e far fronte ai bisogni di popolazioni stremate
dalla fame. Nella pratica però, molto spesso i soldi andarono nelle mani di
dittatori che se ne servirono per armarsi e rafforzare il loro potere
favorendo l’accumulo del debito dei Paesi del Sud del mondo.
La fine di Bretton Woods
Con le liberalizzazioni e la politica monetaria espansiva portata avanti dagli
Stati Uniti negli anni Sessanta iniziarono i processi di globalizzazione
dell’economia con la formazione di potentissime imprese multinazionali.
Con il risultato che i dollari fuori dal controllo della Federal Reserve Bank
usati nelle transazioni europee (eurodollari) e quelli riciclati e investiti dai
produttori di petrolio (petrodollari) crebbero enormemente (da 14 miliardi
nel 1964 a 160 nel 1973 e a 500 miliardi nel 1978). Alla fine di quel
decennio c’era una sovrabbondanza di biglietti verdi in giro per il mondo.
Nel 1971 per la prima volta anche il conto corrente degli Stati Uniti andò in
deficit e da più parti si iniziò a ipotizzare una possibile svalutazione del
dollaro nei confronti dell’oro. I francesi e gli inglesi, spaventati dalle
possibili conseguenze, minacciarono di convertire tutte le loro riserve di
dollari in oro. Ma così dicendo, fecero peggiorare la situazione. La
reazione degli americani fu infatti immediata. Il 15 agosto 1971 con un atto
unilaterale, il presidente americano Richard Nixon annunciò di sospendere
temporaneamente la convertibilità del dollaro in oro e in altre riserve
accompagnando il tutto con un blocco dei salari di 90 giorni, una tassa del
10% sulle importazioni e una tassa del 10% sul credito per gli investimenti.
Immediatamente dopo la divisa americana perse il 20% del proprio valore
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rispetto allo yen e quasi il 15% nei confronti del marco tedesco. La caduta
del dollaro trascinò nel caos l'intero sistema monetario internazionale. Le
monete deboli come la sterlina inglese, la lira italiana, la peseta spagnola e
in parte il franco francese, registrarono pesanti perdite rispetto al marco e
allo yen. E, nel terremoto valutario, i capitali di tutto il mondo s'orientarono
sempre di più verso la moneta nipponica e tedesca, mettendo in discussione
il ruolo stesso del dollaro nel sistema monetario internazionale. Nella testa
di Nixon la sospensione della convertibilità del dollaro avrebbe dovuto
essere solo un atto di forza temporaneo in attesa di stabilire un nuovo
rapporto di cambio ma gli eventi la trasformarono in una mossa definitiva
che inaugurò un periodo di estrema volatilità per le valute.
La svalutazione rese di fatto il dollaro inconvertibile e la sua circolazione
accrebbe l'inflazione e la situazione debitoria di molti paesi produttori e
consumatori di petrolio. I dollari vennero investiti solo in piccola parte
negli stessi Stati produttori. Il resto si riversò nel sistema economico e
finanziario mondiale con effetti destabilizzanti che portarono gli Stati
Uniti, nel marzo del 1973, ad abbandonare per sempre l’ancoraggio con
l’oro chiudendo definitivamente un’epoca “felice” in cui tutto era stato
regolato in modo semplice e chiaro.
Le crisi energetiche e la liberalizzazione dei mercati
La volatilità dei cambi aumentò i rischi di ulteriori tonfi del dollaro mentre
all’orizzonte le nubi si facevano minacciose. Stava infatti per scoppiare il
fronte arabo israeliano. Il 6 ottobre 1973 con l’attacco di Egitto e Siria
contro Israele iniziò la guerra dello Yom Kippur. La guerra, che durò 16
giorni (finì ufficialmente il 22 ottobre), ebbe pesanti ripercussioni sulle
economie dei Paesi europei e degli Stati Uniti che perdurarono fino alla
fine degli anni Settanta. Il prezzo del petrolio aumentò più del triplo
rispetto alle tariffe precedenti causando una pesante inflazione in Giappone
e nei paesi europei industrializzati carenti di petrolio come l’Italia. Questi,
per evitare peggiori conseguenze, furono costretti a sostenere il mondo
arabo e a favorire la causa palestinese, anche dinanzi ad atti terroristici e
violenti. La crisi petrolifera colpì duramente la Comunità Europea, che non
riuscì, negli anni successivi alla guerra, a predisporre un comune piano
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economico di ripresa per gli Stati membri. Ma l’aumento dei prezzi del
petrolio riversò un ampio flusso di denaro (petrodollari) nelle tasche dei
petrolieri che lo fecero confluire verso le banche internazionali. Una mina
vagante per gli Stati Uniti.
Se i petrodollari in circolazione fossero stati investiti in valute più stabili,
come il marco o lo yen, il dollaro non solo avrebbe subito una ulteriore,
pesante, caduta ma sarebbe diventato anche una delle divise utilizzate negli
scambi internazionali. E non più l’unica. La paura di perdere la centralità
della propria moneta, spinse gli Stati Uniti ad accelerare la liberalizzazione
dei mercati dando una ulteriore spinta al processo di globalizzazione in
atto.
Nel 1974 il fallimento (26 giugno) di una banca tedesca, la Bankhaus
Herstatt, causò enormi difficoltà anche alle banche degli altri Paesi che
ebbero pesanti ripercussioni sul sistema dei pagamenti.
Per migliorare la collaborazione internazionale ed evitare incidenti analoghi
a quello di Herstatt il Governatore della Banca d’Inghilterra Peter Cooke,
insieme agli altri rappresentanti delle banche centrali dei paesi cosiddetti
G-10 diede vita a un Comitato sotto l’egida della Banca dei Regolamenti
Internazionali, situata a Basilea. L’obiettivo era quello di coordinare i
processi di deregolamentazione dei mercati finanziari tra gli Stati aderenti e
di promuovere una regolamentazione leggera nel sistema bancario. Intorno
al Comitato, che fu inizialmente chiamato “Comitato Cooke” dal nome del
suo primo presidente, cominciò a raccogliersi una specie di forum
finanziario aperto. In esso le banche centrali e i maggiori istituti di credito
della sfera occidentale e in particolare dell’anglosfera ebbero un ruolo
strategico molto importante nel promuovere e indirizzare la
deregolamentazione.
Cambia la mission del Fmi
La fine di un sistema di cambi fissi come quello di Bretton Woods e
l’eliminazione dei controlli sui movimenti dei capitali resero non solo ardua
ma inutile la missione per la quale il Fmi era stato istituito: promuovere il
commercio internazionale in un quadro di stabilità monetaria. In uno
scenario di volatilità sistemica dei mercati finanziari che fomentava la
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speculazione internazionale e di forte liquidità circolante in dollari
occorreva ripensare la funzione del Fondo e stabilire nuovi obiettivi che
vennero individuati nel finanziamento degli squilibri della bilancia dei
pagamenti dei paesi in via di sviluppo con prestiti vincolati al rispetto di
specifiche condizioni e a piani di rigorosa stabilizzazione. L’attenzione del
Fondo si spostò pertanto sulle politiche macroeconomiche dei paesi
membri e sugli squilibri interni dei loro mercati. Ciò lo portò a trasformarsi
da prestatore a breve termine in prestatore a lungo termine. Il 13 giugno
1974 fu creato un nuovo meccanismo di credito che avrebbe aiutato i paesi
membri le cui bilance dei pagamenti fossero state sostanzialmente
squilibrate dall'aumento del costo del petrolio a superare il difficile periodo
di transizione. La dotazione di questo nuovo strumento creditizio,
equivalente a 3 miliardi in diritti speciali di prelievo, fu sottoscritta dai
paesi OPEC e dal Canada.
Nel triennio successivo le bilance dei pagamenti dei paesi industrializzati
migliorarono notevolmente. Le migliori condizioni di scambio, la crescita
delle importazioni manifatturiere da parte deli paesi dell’Opec avevano
riportato i conti delle economie occidentali a posto. Ma anche i Paesi in via
di sviluppo, grazie al riciclaggio dei petrodollari favorito dal Fondo
monetario erano in netta ripresa. Purtroppo però la nuova crisi orientale
frenò il positivo trend di sviluppo che si era venuto a creare. Nel 1976
anche l’Italia, con l’allora Governo di Unità nazionale presieduto da Giulio
Andreotti, fu costretta a chiedere un prestito di circa cinquecentomilioni al
Fondo monetario internazionale sottoponendosi, in cambio, a una rigida
disciplina e ai controlli sui bilanci e sulle spese.
Nel gennaio 1979 l’Aiatollah Khomeini guidò in Iran la rivoluzione contro
lo scia Reza Palevi e nell’aprile dello stesso anno un referendum popolare
decretò l’instaurazione di una Repubblica Islamica con a capo Khomeini.
Immediatamente dopo il dittatore irakeno Saddam Ussein lanciò una
escalation propagandistica contro il fondamentalismo sciita dell’Iran
proponendosi ai paesi arabi e a quelli occidentali come il baluardo contro il
possibile dilagare del komeinismo. La guerra che scoppiò nel settembre
1980 fu inevitabile. Gli aumenti dei prezzi del petrolio che ne seguirono
resero di nuovo rilevanti i meccanismi di riciclaggio dei surplus dei paesi
OPEC ed ebbe ripercussioni negative sulla ripresa dei Paesi in via di
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sviluppo. Questa infatti dipese sempre di più dalle operazioni di riciclaggio
dei petrodollari effettuate dal Fondo monetario internazionale che mutarono
profondamente i rapporti tra economie industrializzate e paesi OPEC,
conferendo a questi ultimi un maggior peso politico.
La svolta monetarista
Ma l’aumento del prezzo del petrolio fece anche crescere notevolmente in
Europa e negli Stati Uniti il rischio di una nuova ondata di inflazione
incontrollata e di un conseguente tonfo del dollaro seguito da una serie di
svalutazioni a catena delle altre valute. Con la guerra tra l’Iran e l’Irak gli
Stati Uniti avvertirono sempre più forte la paura di perdere il privilegio di
possedere la valuta di riferimento mondiale. Da qui cominciò a farsi strada
negli Usa l’idea di una politica monetaria che mettesse al primo posto la
stabilizzazione del cambio del dollaro a prescindere dell’equilibrio della
bilancia commerciale. L’idea aprì la strada a scenari sino ad allora
inesplorati. Innanzitutto per dare stabilità al dollaro indipendentemente dai
rapporti economici reali sottostanti, gli Usa dovevano attirare capitali
dall’estero. E per farlo occorreva rendere il più attrattivo possibile il
mercato finanziario interno. In questa nuova prospettiva divenne
inevitabile la liberalizzazione completa dei movimenti dei capitali. Una
strada che comportò anche la fine del protezionismo. Senza liberalizzare gli
scambi commerciali non sarebbe infatti stato possibile liberalizzare i
movimenti dei capitali. Ma per ridare al dollaro quel ruolo egemonico di
moneta di riferimento mondiale occorreva anche pensare a un nuovo
sistema monetario che potesse di fatto sostituirsi al gold standard in modo
non traumatico: il cosiddetto dollar standard. Per questo serviva una nuova
teoria. E Milton Friedman la formulò con il monetarismo. Secondo i
principi della teoria monetarista, per mantenere il dollaro come moneta di
riserva, bisognava preservarlo dalla svalutazione indotta dall’inflazione.
Sarebbe stata dunque quest’ultima la “bestia nera” da combattere a tutti i
costi regolando la circolazione monetaria in virtù della crescita
dell’economia. La teoria di Friedman fissò pertanto una stretta correlazione
tra massa monetaria (M1) e prodotto interno lordo (PIL) e attribuì a una
autorità monetaria (la Fed nel caso degli Usa), indipendente dal potere
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politico, il compito di dosare la liquidità del sistema, tramite la manovra sul
tasso di interesse. Per gli Stati Uniti e l’Europa il monetarismo, nonostante
un’ avvio tranquillo, senza cioè particolari traumi, fu una grande
rivoluzione. Negli Usa la sua introduzione fu preceduta da una attenta
strategia di comunicazione politica. Già nell’agosto del 1979 il presidente
americano Jimmy Carter nominò Paul Volcker a capo della Fed. Volker,
che proveniva dalla Federal Reserve di New York, dal 1969 al 1974 aveva
ricoperto l’incarico di sottosegretario del Ministero del Tesoro per gli affari
monetari internazionali. E qui si era fatto conoscere per il ruolo importante
che aveva avuto nelle decisioni di sospendere nel 1971 la convertibilità
dell'oro. Volker mise subito la lotta all’inflazione in cima alle priorità degli
americani. Egli disse che senza un attento controllo e contenimento
dell’inflazione l’economia americana non sarebbe ripartita, facendo capire
che, per rilanciare gli investimenti e l’occupazione, avrebbe dovuto tirare il
freno con forza. Il concetto passò velocemente all’opinione pubblica e, alla
fine del 1979, la Fed innalzò fortemente i tassi di interesse. La manovra
ebbe successo, fermò l’inflazione e evitò la svalutazione del dollaro. Ad
essa si affiancò la liberalizzazione dei movimenti di capitali, il cui via fu
dato dal Depository Institutions Deregulation and Monetary Control Act,
approvato dal Governo degli Stati Uniti nel 1980.
La deregulation degli anni Ottanta
Gli anni Ottanta si aprirono all’insegna del liberalismo spinto. Due furono
gli statisti chiave del nuovo movimento che guidò le scelte del mondo
occidentale. Ronald Reagan negli Usa e Margaret Tatcher in Inghilterra.
Essi presentarono il liberalismo e la svolta monetarista come una battaglia
per la libertà, contro il dilagare dello statalismo sia interno che esterno. La
caduta delle barriere finanziarie apriva la scena su quella che venne vista
fin dall’inizio come la nuova frontiera dell’economia mondiale. Un grande
spazio dove i capitali erano liberi di circolare senza limiti. Facilitati in
questo dalle scoperte tecnologiche di quegli anni che annullarono gli
intervalli temporali e spaziali delle transazioni finanziarie spianando la via
all’ingegneria finanziaria dei derivati. E scatenando, in assenza di regole,
movimenti speculativi su larga scala che posero le loro basi in paradisi
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fiscali, protettorati, porti franchi, isole, atolli indipendenti. Il processo di
globalizzazione passò così nelle mani delle istituzioni finanziarie private
che, in ogni paese sollecitarono la deregolamentazione statale imponendola
di fatto, con il ricorso ai centri finanziari offshore.
Le forze globalizzanti si identificarono nel cosiddetto “consenso di
Washington”, espressione coniata nel 1989
dall'economista John
Williamson per indicare le 10 direttive di politica economica promosse
dalle organizzazioni internazionali con sede a Washington come il Fondo
Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e il Dipartimento del Tesoro
degli Stati Uniti d'America per risolvere le crisi dei Paesi in via di sviluppo
che ricorrevano al loro aiuto. Le direttive, che prendevano spunto dalla
scuola di Chicago di cui Friedman era l’esponente di spicco, consistevano
in riforme di stabilizzazione macroeconomica e apertura dei mercati ai
capitali e al commercio internazionale. Dalla sua accezione originaria, il
termine “Consensus di Washington” venne in seguito utilizzato per indicare
un generale orientamento verso un approccio economico fortemente
orientato al mercato. Una sorta di manifesto neoliberista attorno al quale si
raccolse una vasta galassia di banche, organizzazioni finanziarie e gruppi
transnazionali occidentali, pubblici e privati che ne condividevano principi
e metodi. Incontri come quello di Davos divennero il palcoscenico di
questo nuovo assetto di potere. Tra gli invitati c’erano anche i
rappresentanti degli Stati e delle istituzioni finanziarie nazionali che
venivano sollecitati a non ostacolare le spinte globalizzanti e a dare risposte
tempestive e conformi alle esigenze di deregolamentazione.
La scuola di Chicago e i PAS
L’aumento dei tassi di interesse americani e la rivalutazione del dollaro
fecero lievitare il debito pubblico che i Paesi invia di sviluppo avevano
ricevuto a tasso variabile negli anni precedenti dal Fondo Monetario
Internazionale e dalla Banca Mondiale. In quegli anni gran parte di essi,
anche per effetto degli eccessivi squilibri della bilancia commerciale
provocati dalla libera circolazione dei capitali, finì in amministrazione
controllata e chiese l’aiuto del Fondo. Sollecitato da più Stati membri, il
Fondo, per mantenere il suo ruolo, dovette riconvertirsi in uno strumento di
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politica economica internazionale specializzato nella ristrutturazione dei
debiti degli Stati sovrani. In sintonia con il pensiero dominante, la dottrina
che guidò i suoi interventi fu quella del libero mercato, interpretata su scala
globale secondo gli insegnamenti della scuola di Chicago. In sintesi:
liberalizzare i movimenti di capitale, privatizzare i pubblici servizi e le
risorse naturali economiche in mano pubblica, come miniere e fonti di
energia, applicare una severa politica monetaria antinflazionista per arrivare
a un bilancio pubblico in pareggio. Una visione che di fatto favoriva la
penetrazione economica finanziaria dei grandi conglomerati finanziari e
commerciali stravolgendo profondamente la struttura economica finanziaria
del Paese in questione. Il primo caso si ebbe con il Messico.
Nel 1982 il Messico dichiarò al mondo intero che non ce l’avrebbe fatta a
restituire il suo debito. Per evitare il collasso del Paese e la reazione a
catena che si sarebbe potuta scatenare nel sistema economico e finanziario
mondiale, il Fondo e la Banca Mondiale subentrarono nei crediti delle
banche commerciali, permettendo il flusso di nuovi capitali. Ma così
facendo aumentarono l’entità del debito e costrinsero il Messico, in cambio
dell’urgente salvataggio, ad accettare i cosiddetti Pas, piani di
aggiustamento strutturali, impostati secondo i dettami della scuola di
Chicago. L’obiettivo dei Pas era quello di stabilizzare la bilancia dei
pagamenti. Per farlo il Messico doveva da un lato incrementare nel più
breve tempo possibile le esportazione attuando tutte le misure necessarie
anche a scapito di cambiare radicalmente produzione e metodi lavorativi,
dall’altro attirae capitali mettendo in atto tutte le manovre necessarie allo
scopo tra cui l’aumento dei tassi di interesse. Secondo il Fondo monetario i
PAS avrebbero spianato la via in Messico per rilanciare nuovamente
l’economia a partire dagli anni '90. In realtà non fu così e ancora oggi il
Messico fa molta fatica a riprendersi. Le ricette del Fmi furono seguite da
numerosi paesi, dall'America Latina all'Africa al Sud Est Asiatico. E
dappertutto le privatizzazioni causarono licenziamenti, l’eliminazione dei
dazi favorì l’ingresso delle merci straniere più competitive, la riduzione dei
vincoli sociali, le politiche deflattive, la svendita delle risorse naturali ed
umane e impoverirono la popolazione. Tanto che lo stesso Fondo dovette
prendere atto del mancato raggiungimento dei risultati sperati. Il dato di
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fatto era infatti che i Paesi soccorsi dal Fmi facevano tutti molta fatica a
rimborsare i prestiti ricevuti.
Per migliorarne la situazione il Tesoro americano pensò di spostare in
avanti le scadenze e di rifinanziare gli arretrati.
A partire dal 1985 con il Piano Baker, nel 1988 con l’iniziativa di Toronto e
nel 1989 con il Piano Brady il Governo promosse una serie di nuove misure
mirate a ridurre il debito per i Paesi altamente indebitati. La loro
realizzazione fu affidata al Club di Parigi, l'organizzazione che mette
insieme i 19 Governi che vantano maggiori crediti (gestisce il 70% di tutti i
crediti bilaterali ufficiali, che a loro volta costituiscono la metà dei debiti
esteri). In particolare il piano Baker aveva l’obiettivo di stimolare le banche
a fornire nuovi crediti per sostenere le politiche di aggiustamento proposte
dal fondo. Ma gli istituti di credito non si si dimostrarono disponibili a
investire in aree deboli e il piano fallì. L’anno dopo, a Toronto, vennero
proposte nuove scadenze diluite in 25 anni dopo un periodo di 14 a tassi
limitati per i crediti agevolati. Esperimento che dopo pochi mesi fu
accantonato.
Visto l’insuccesso delle precedenti manovre di riduzione del debito il
piano Brady puntò a coinvolgere il Fondo monetario internazionale, la
Banca Mondiale e i governi in forma bilaterale. Non fu un gran successo
ma nacquero le prime forme di conversione del debito estero interno in
valuta locale. Solo alla fine degli anni Ottanta, quando divenne chiaro che il
posticipare le scadenze nel tempo faceva da un lato guadagnare molto in
interessi ma dall’altro, aumentare il debito totale, a causa della
capitalizzazione dei tassi, i creditori si resero conto che alla lunga ci
avrebbero perso, perché alcuni debiti non si sarebbero mai estinti.
Gli anni dell’euforia e la crisi aisiatica
Nel 1989 crolla il muro di Berlino. E’ la fine della guerra fredda. E’ il
trionfo degli Stati Uniti sull’Unione Sovietiva, della democrazia sul
comunismo, del modello americano su quello sovietico. Gli Usa sono i
padroni del mondo. Si apre un decennio dove gli investimenti privati
spiccano il volo e la deregulation si manifesta in tutti i settori.
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Negli anni Novanta il Fmi contribuisce a spingere l’acceleratore sulla
rapida liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali
coinvolgendo molti Paesi in via di sviluppo che si lasciano trascinare nel
clima generale di grande euforia. A parte alcune importanti eccezioni tra
cui l’India e la Cina che rimasero sorde agli appelli liberistici, la maggior
parte dei Paesi in via di sviluppo aprirono le loro economie agli scambi di
capitali con l’estero. Anche se ormai i rischi connessi alla completa
mobilità dei capitali non erano più sconosciuti, in molti ambienti politici e
accademici regnava la convinzione che le liberalizzazioni avrebbero
portato maggiore efficienza e sarebbero state utili alla crescita
dell’economia globale.
Ma in molti Paesi in via di sviluppo nei quali il Fmi promosse le
liberalizzazioni, le crisi degli anni Novanta superarono quelle del decennio
precedente e, anche per via del collegamento tecnologico sempre più stretto
tra gli operatori e i mercati di tutto il mondo, ebbero delle ripercussioni
molto forti dappertutto. Ne fu un esempio la crisi finanziaria del Sud est
asiatico che colpì i paesi asiatici, ma fece sentire per diverso tempo i suoi
contraccolpi ovunque. A lungo il Fondo monetario internazionale aveva
incoraggiato gli investitori internazionali a convogliare capitali sui Paesi di
nuova industrializzazione, in forte crescita e dotati di istituti finanziari,
apparentemente, solvibili e affiancati da garanzie pubbliche facendosi in
ultima istanza garante, insieme ai Governi coinvolti, della loro restituzione.
Gli investitori, che tra l’altro non conoscevano bene i mercati asiatici,
confidavano anche nel fatto che questi Paesi fossero troppo grandi e
importanti per essere lasciati fallire. Il rischio che si presero fu quindi,
spesso inconsapevolmente, troppo elevato. Bastò infatti il peggioramento
della congiuntura internazionale per provocare una reazione a catena di
dimensioni eccezionali.
Le economie dei Paesi indebitati smisero di crescere e gli speculatori
internazionali presero posizione cercando di forzare la svalutazione delle
loro valute. Cosa che alla fine avvenne. Le autorità nazionali, dopo alcuni
tentativi andati a vuoto, furono infatti costrette a ritirarsi in quanto le
riserve valutarie limitate e l’eventuale costo
di un’operazione di
salvataggio, non permisero loro di tenere duro. Ma il deprezzamento spinse
le banche e i creditori internazionali a richiedere indietro i prestiti
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scaricando così i loro problemi di liquidità sulle imprese. Quelle locali,
soprattutto, ne soffrirono moltissimo. Erano indebitate in dollari e non
potevano rimborsarli a causa del drammatico calo della domanda interna
che lasciava invenduta la produzione. Scoppiò così una crisi gravissima che
dalle banche e dalle imprese si propagò all’economia reale. I due paesi più
colpiti furono l’ Indonesia e la Thailandia dove i tassi di accumulazione del
capitale caddero violentemente e mai più raggiunsero le elevate vette del
decennio precedente.
Il movimento no global e le accuse al Fondo
La crisi fu talmente profonda che economisti, scienziati, politici e autorità
internazionali misero in seria discussione la natura, le funzioni, i compiti e
le politiche delle grandi istituzioni finanziarie internazionali. Le pesanti
conseguenze in Asia e la rigidità con la quale il Fondo monetario
internazionale applicò gli insegnamenti della scuola di Chicago e il
paradigma del Washington Consensus contribuirono al diffondersi di una
parte del movimento no global, quella avversa al Fmi.
Le maggiori accuse rivolte al Fondo riguardavano il fatto che esso agisse
più per preservare il suo credito e quello degli investitori istituzionali che
per favorire la ripresa dei Paesi in difficoltà, che prestasse più attenzione
alla tenuta del processo di globalizzazione che alle drammatiche
conseguenze della crisi sulle economie locali, che salvaguardasse gli
interessi degli speculatori piuttosto che delle popolazioni interessate.
Sembrava inoltre non dare affatto peso al principio che tutti coloro che
avessero partecipato alla formazione di una bolla speculativa dovessero
caricarsi parte dei costi qualora essa esplodesse. Ad avvalorare le accuse
c’erano studi e ricerche come .un rapporto prodotto dalla Banca mondiale
nel 1996 che analizzava l’impatto sociale dei PAS sui Paesi che li avevano
adottati. Dall’indagine emerse che in 8 dei 23 Paesi esaminati che ci fu un
aumento della povertà, mentre in 11 dei rimanenti 15 paesi la povertà è
diminuì meno del 2%. Mentre i tagli alle spese sociali portarono ad un
incremento della mortalità infantile e alla diminuzione del livello scolare.
Ma c’era anche l’esempio virtuoso della Malesia, l’unico paese che per non
seguire le raccomandazioni del Fmi, impose restrizioni ai movimenti di
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capitale in uscita. Una decisione che permise a Mahathir , leader del partito
unico, di traghettare il paese fuori dalla crisi senza spargere sangue. Ma
anche Cina e India se l’erano cavata riducendo al minimo le liberalizzazioni
del mercato dei capitali.
Al di là di tutto la crisi asiatica fece comprendere al mondo intero come
l’elevata integrazione finanziaria dei paesi legasse i destini degli uni agli
altri ben oltre quanto preventivato e osservato in passato. E i dubbi sul
fatto che i mercati lasciati a se stessi potessero garantire l’ordinato
funzionamento dell’economia globale, si fecero sempre più varco
nell’opinione pubblica. Da più parti si sollevò l’idea che fosse ormai giunto
il momento di ragionare su una gestione graduale del processo di
integrazione mondiale che prevedesse un meccanismo di governo del
sistema finanziario globale, la supervisione e regolamentazione dei mercati
finanziari e un intervento oculato degli Stati nella soluzione dei problemi
macroeconomici. Queste idee alimentarono e diedero forza al movimento
no global che da allora divenne una corrente di opinione internazionale
imprescidibile.
La crisi Argentina e la riforma del Fondo
Con l’inizio del nuovo millennio lo scenario economico e politico
americano mutò rapidamente. Nel novembre del 2000 venne eletta una
nuova amministrazione guidata dal presidente George Bush e quasi
contemporaneamente scoppiò la bolla speculativa legata ai titoli della new
economy. Nonostante la recessione che ne seguì fosse di lieve entità, Bush
decise ugualmente di agire in modo massiccio tagliando le tasse per
rilanciare i consumi interni. Anche la Fed, guidata da Alan Greenspan, si
orientò verso una politica monetaria espansiva abbassando i tassi. In breve
tempo, grazie alle due mosse congiunte sulle tasse e sul costo del denaro,
la finanza pubblica degli Stati Uniti passò da una situazione di sostanziale
equilibrio ad una di accentuato deficit mentre il denaro a tassi bassi spinse
le famiglie americane a diminuire il risparmio in maniera consistente e a
ricorrere sempre più al debito per finanziare l’acquisto dei beni. Il tragico
attentato alle torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001, che fece
precipitare gli indici in Borsa, spinse il Governo Usa a pigiare ancora di
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più sul pedale della ripresa. Ma la politica monetaria e fiscale sempre più
espansiva e gli interventi militari in Afghanistan prima e in Iraq poi,
peggiorarono portarono alla crisi dell’America latina. Gli effetti recessivi
dell’economia che si erano manifestati in seguito all’attacco terroristico
dell’11 settembre e il crollo dei titoli di Borsa, unito alle incertezze sul
futuro dei mercati emergenti, spinsero gli investitori a ridurre il loro
impegno in Argentina. Il Paese in grave difficoltà chiese aiuto ma
l’amministrazione Bush non rispose e il Fondo monetario internazionale
non solo non volle intervenire ma bloccò anche l’erogazione di quella parte
di prestito che era già preventivata perchè, fece sapere, non erano ancora
stati ottenuti risultati soddisfacenti sul piano fiscale. Ciò spinse il Governo
argentino a sospendere i pagamenti verso l’estero e, per evitare che si
prosciugassero le riserve di dollari del sistema bancario in seguito alle
richieste di conversione della valuta locale, a sbarrare ai cittadini l’ingresso
in banca. Fu il disastro. Dall’Argentina la crisi si estese a Turchia, Brasile e
Uruguay e questo rese molto difficile per gli economisti sostenere con
entusiasmo come negli anni passati che gli interventi del fondo monetario
internazionale nei Paesi in via di sviluppo dovessero accompagnarsi a una
politica di rapida liberalizzazione dei mercati e di privatizzazione
altrettanto veloce del settore pubblico. Ancora una volta la storia insegnava
che occorreva molta cautela e attenzione soprattutto in presenza di
economie fragili e di mercati poco sviluppati. E anche lo stesso Fondo
cominciò a ripensare a una riformulazione della sua strategia che fosse più
adeguata alle emergenze e in linea con una visione meno invasiva dei suoi
interventi.
Il problema di una revisione dei metodi e delle modalità di azione del
Fondo fu sollevato nel 2004 dall’ex direttore Rodrigo De Rato. Per
quest’ultimo il Fondo era andato oltre la sua funzione e aveva agito, sulla
base delle esperienze passate, in modo poco ponderato. Occorreva quindi
ridefinire strategie, strumenti e compiti anche alla luce dei nuovi scenari
internazionali come l’espansione della globalizzazione finanziaria e
l’asumento delle interconnessioni tra sistemi economici e finanziari. Le
strategie del fondo non potevano inoltre prescindere dalle conseguenze che
avevano la cancellazione del debito e il conseguimento degli obiettivi nei
paesi poveri. Ma anche le quote di partecipazione dei Paesi membri
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andavano riviste in funzione del peso economico che nel frattempo avevano
raggiunto. A questo proposito in un un primo momento venne promosso
un aumento di capitale che accrebbe il peso di Cina, Turchia, Corea del Sud
e Messico. Poi, nel 2006 a Singapore fu avviato un progetto, approvato nel
marzo 2008, che rivedeva il meccanismo del calcolo delle quote e del
numero dei voti base in modo da dare voce nelle decisioni anche ai paesi
più piccoli e arretrati.
La crisi finanziaria globale
Mentre si discuteva sulla riforma del Fondo, la forte deregolamentazione
degli anni Novanta, l’eccessiva finanziarizzazione del sistema e il
prolungato abbassamento dei tassi condussero il mondo occidentale alla più
grave crisi finanziaria dal 1929 ad oggi. Essa iniziò negli Stati Uniti in
seguito alla facilità con cui le banche avevano dato i mutui, dividendo i
rischi in prodotti strutturati e derivati. E scoppiò in tutta la sua violenza,
con il fallimento della Lehman Brothers, avvenuto nell’ottobre 2008 che
ebbe, tra le più gravi conseguenze, quella di contrarre fortemente la
liquidità dell’intero sistema bancario occidentale. Da allora, il Fondo
Monetario Internazionale, aumentò notevolmente il suo impegno e il suo
peso anche in Europa dove fino a quel momento non c’erano stati problemi.
Anzi con l’euro, le economie europee stavano conoscendo un periodo di
crescita degli scambi e delle transazioni finanziarie molto positivo ma in
Europa la crisi di liquidità si trasformò ben presto in crisi del debito
pubblico mettendo a rischio gli Stati più indebitati, a partire dalla Grecia.
Così, dopo aver incrementato nel 2008 sensibilmente la propria capacità di
prestito il Fondo monetario internazionale si dotò di strumenti d’intervento
più flessibili che gli avrebbero consentito di aiutare i paesi membri a
prevenire improvvisi crolli di fiducia da parte degli investitori
internazionali. Crolli che avrebbero innescato ulteriori pericolose crisi di
liquidità.
Con il rinnovato peso politico del Fondo monetario sulla scena
internazionale hanno ripreso vigore le critiche alle modalità di intervento
del fondo che, come nel caso della Grecia, sarebbero arrivate a
compromettere lo sviluppo del Paese invece di risollevarlo e permettergli in
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modo adeguato di ripagare i suoi debiti nel tempo. Finora nelle decisioni e
nelle modalità di intervento del Fondo un ruolo rilevante lo hanno giocato
gli Stati Uniti e i paesi del G7 che si sono mossi preoccupati più a curare i
propri interessi politici ed economici in un’ottica di breve termine e spesso
miope che orientati a una reale ripresa delle economie soccorse. Ora però, e
questa crisi insegna, non è più possibile pensare in modo particolaristico e
circoscritto alle proprie necessità. Le tecnologie stanno collegando tutte le
economie in modo molto stretto e interdipendente trasformando il mondo in
un villaggio globale nel quale le debolezze di un paese si propagano
velocemente su tutti gli altri. Il ripensamento sulle politiche di intervento
del Fondo diventa quindi una strada obbligata della quale lo stesso Fondo
sembra esserne ormai consapevole.
Contrariamente a quanto ha sostenuto (e fatto) per trent’anni, di imporre ai
paesi salvati misure drastiche e celeri per recuperare velocemente il
prestito, il Fondo monetario internazionale si è espresso di recente per un
intervento più graduale che consentisse alle economie di riprendersi senza
stravolgere la loro situazione e il loro mercato. Prova ne è il caso della
Grecia alla quale, dopo la constatazione del disastro, è stata concessa una
dilazione dei tempi per rimborsare il debito. La strategia che il Fondo
vorrebbe mettere a punto oggi, è pertanto quella di avviare nei Paesi che ne
richiedessero l’intervento una politica monetaria accomodante che porti in
modo ragionevole e progressivo al risanamento dei conti, al riordino del
sistema bancario e a riforme strutturali. Ma il dibattito sul ruolo che il
Fondo monetario internazionale dovrà giocarsi in un’economia che ormai a
tutti gli effetti è diventata globalizzata, è molto acceso. Soprattutto in virtù
del fatto che le strette interconnessioni tra i Paesi sotto l’influenza della
enorme velocità degli scambi informatici, hanno azzerato la possibilità di
circoscrivere danni.
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