L`oriente e l`occidente. Il caso delle imprese coreane in Lombardia

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L`oriente e l`occidente. Il caso delle imprese coreane in Lombardia
L’ORIENTE IN OCCIDENTE
IL CASO DELLE IMPRESE COREANE IN LOMBARDIA 1
Giampietro Gobo
Dipartimento di Sociologia
Università degli Studi di Milano
Keywords: multiculturalismo aziendale, culture d’impresa, schemi cognitivi
1. Globalizzazione e differenze
Nell’ultimo decennio il dibattito sui temi delle diseguaglianze e delle differenze è stato influenzato
dall’emergere del fenomeno della globalizzazione della vita sociale. L’intensificarsi delle
connessioni e degli scambi, e la crescente interdipendenza delle diverse parti della società mondiale
(Wallerstein1979, Axford 1995) hanno introdotto, e stanno tuttora introducendo, cambiamenti
profondi sul piano politico, sociale ed economico. Se da una parte alcuni economisti ritengono
ottimisticamente che la globalizzazione porterà a un aumento della produttività, a
un’omogeneizzazione mondiale delle preferenze, dei consumi, degli stili e della qualità
della vita (Levitt 1983, Ohmae 1991, Latouche 1998), dall'altra i critici prevedono un
accrescimento delle iniquità nella distribuzione della ricchezza, una competizione al
ribasso sul mercato del lavoro, un aumento del divario tra paesi ricchi e paesi poveri
(Kubalkova e Cruickshank 1981). Inoltre le economie dei paesi meno sviluppati diverranno
sempre più precarie perché dipendenti dalle fluttuazioni delle economie dei paesi più
industrializzati (Stavrianos 1981, Warren 1981, Goldthorpe 1984).
Per quanto concerne le differenze e le diversità uno degli effetti della globalizzazione dei mercati e
della produzione è il multiculturalismo aziendale. La globalizzazione economica ha comportato lo
sviluppo di imprese transnazionali che, con propri plants, uffici commerciali e reti di fornitori,
operano oltre i confini nazionali del Paese di origine. In seguito a questo processo di
internazionalizzazione diversi dipendenti delle imprese transnazionali (managers, tecnici,
professionals) sono stati inviati a operare sui mercati locali. Dal punto di vista antropologico si è
trattato di un vero e proprio incontro tra culture: in alcuni casi esso è avvenuto tra culture
moderatamente diverse; in altri casi, come quello tra culture occidentali e orientali, il divario è
risultato notevole. Gli effetti a lungo termine e i mutamenti che il multiculturalismo produrrà nel
mondo del lavoro sono ancora difficili da prevedere.
1
I dati relativi alla presenza delle aziende sudcoreane in Lombardia si riferiscono all’aprile del 1998.
Il fenomeno delle imprese coreane in Lombardia, di cui si occupa questo saggio, si colloca
all’interno di questa prospettiva. Attraverso lo studio di un caso empirico di multiculturalismo
aziendale il saggio si propone di discutere se nelle aziende sovranazionali, al seguito di una
globalizzazione dell’economia, si stia creando o meno una cultura globale. Ci si può infatti chiedere
se l’incontro tra culture radicalmente differenti, come quella italiana e coreana, conduca alla
formazione di un unico sistema di valori e norme aziendali, di significati e di identità. Per
rispondere a questo interrogativo analizzeremo in dettaglio l’evolversi della presenza coreana in
Italia.
2. La scoperta della Corea
Poco tempo fa la Corea del Sud era un paese quasi del tutto sconosciuto. Gli unici ricordi di un
italiano di cultura media erano la guerra tra le due Coree dell’inizio degli anni Cinquanta e la
sonora sconfitta subita dalla nazionale italiana ai Mondiali del 1966. Ancora adesso la maggior
parte delle persone forse non sarebbe in grado di localizzare questo Paese.
Due eventi recenti, balzati all’onore delle cronache, hanno però nuovamente portato al centro
dell’attenzione la Corea del Sud. Il primo, accaduto nel gennaio del 1997, è stato lo scontro tra
studenti e polizia in seguito all’occupazione delle università. Il secondo, a novembre dello stesso
anno, ha reso noto la grossa crisi finanziaria che ha sconvolto l’economia. Infatti a novembre già
cinque dei trenta maggiori gruppi industriali del Paese avevano dichiarato bancarotta.
Nonostante le nostre scarse conoscenze dal 1995 la Corea del Sud è, in base al suo PIL,
l’undicesimo paese del mondo (cfr. TAB. 1) e, per quanto riguarda la sua capacità produttiva, si
attesta a posizioni ancor superiori. Infatti le nostre case e i luoghi di lavoro, anche se non lo
sappiamo perché li confondiamo con i marchi giapponesi e cinesi, sono invasi da prodotti coreani:
televisori, videoregistratori, forni a microonde, climatizzatori, aspirapolvere, frigoriferi,
videocamere, monitor per computer, display di calcolatrici, di autoradio o di bancomat, sono
prodotti da Samsung (azienda grande una volta e mezzo la FIAT), da Goldstar, da Daewoo;
computer da LG; auto da Hyundai, Daewoo e Kia; motorini coloratissimi da Kymko Kwang e da
MBK che soltanto in Italia vende quasi un terzo di quanto vende la Piaggio.
TAB. 1: PIL pro capite
1988
1989
1990
1991
ITALIA
13.350
15.120
16.850
18.580
COREA DEL SUD
4.295
5.210
5.883
6.757
2
STATI UNITI
19.820
20.850
21.700
22.340
1992
1993
1994
20.790
19.840
19.270
7.007
7.513
8.508
23.830
24.780
25.860
Fonte: National Statistical Office, International Statistics Year Book, Seul, 1996
Tra il 1988 e il 1994, mentre l’Italia e gli Stati Uniti hanno aumentato di un terzo il suo PIL pro capite, la Corea del Sud
lo ha addirittura raddoppiato.
3. L’immigrazione sudcoreana in Lombardia
All’inizio del 1997 gli stranieri residenti legalmente a Milano erano quasi 70.000, cioè il 5%
dell’intera popolazione cittadina. Anche se nella percezione comune gli extracomunitari sono quasi
sempre identificati con i nordafricani, la comunità milanese legale più numerosa è quella asiatica
(cfr. TAB 2).
TAB. 2: Provenienza geografica della comunità asiatica residente a Milano e dintorni
AFRICA
ASIA
di cui:
Cina
Srilanka
Corea del Sud
Giappone
da altri Paesi
18.800
21.600
7.550
2.676
2.300 circa 2
2.078
7.000
La comunità sudcoreana in Milano è una comunità particolare, nel senso che è fortemente coesa e
ha riprodotto in città i riti e le cerimonie proprie della sua tradizione. I coreani non sono dislocati
uniformemente o casualmente in città, ma hanno prediletto alcune aree dell’hinterland: un nucleo di
15 famiglie vive a Opera, altri gruppi risiedono a Milano 2 e Milano 3, un altro gruppo a Sesto San
Giovanni. La comunità coreana, così come quella giapponese, rappresentano un caso atipico di
immigrazione, in contro tendenza rispetto agli stereotipi circolanti sugli extracomunitari.
Innanzitutto è formata da soggetti di ceto sociale economicamente e culturalmente elevato. Inoltre
essi non hanno raggiunto l’Italia alla ricerca di un lavoro, di un generale benessere economico
oppure di un miglioramento della propria condizione sociale. Le ragioni che hanno portato i coreani
a lasciare il proprio Paese sono essenzialmente tre:
2
Altri duemila coreani vivono a Roma. Altri ancora a Perugia dove giungono come studenti per imparare la
lingua italiana. La prima immigrazione coreana in Italia è avvenuta a metà degli anni Cinquanta in seguito
alla guerra tra le due Coree. Molti orfani di guerra furono adottati da famiglie italiane. La seconda ondata
migratoria ha avuto luogo agli inizi degli anni Settanta in seguito alla nascita delle prime multinazionali
coreane. La terza ondata è iniziata nella seconda metà degli anni Ottanta.
3
• commerciale
• formativa
• di studio
Queste tre ragioni producono tre gruppi sociali distinti. Il primo gruppo, quello meno numeroso, è
costituito da imprenditori oppure da dipendenti (manager, quadri e impiegati) delle grandi
conglomerate sudcoreane (i noti chaebol) con le relative famiglie. Il secondo gruppo (circa 1.000
unità) è formato da giovani stilisti, studenti e, in senso lato, apprendisti che sono giunti in Italia per
imparare i metodi, le tecniche di lavoro, il modo di fare business della moda italiana. Infine il terzo
gruppo (circa 1.000 unità) è rappresentato da studenti di musica lirica, altro settore in cui l’Italia
vanta una lunga e prestigiosa tradizione.
Contrariamente alle apparenze, l’appartenere a un ceto sociale abbiente non li preserva dal subire
pesanti discriminazioni. Dalle interviste realizzate sono emersi diversi episodi: incidenti
automobilistici dove la colpa viene sempre attribuita al conducente coreano; fermi prolungati e
interrogatori agli aeroporti; scortesie e sgarbi da parte di commessi e negozianti. L’essere vestiti
elegantemente oppure guidare un’auto di lusso non preserva dal subire questi atti. Anche perché un
osservatore non specializzato incontra un’intrinseca difficoltà nel distinguere un cinese (sui cui
esistono da tempo a Milano pregiudizi molto radicati) da un coreano o giapponese. Le differenze
estetiche (l’arco ciliare, il taglio di capelli, il tipo di abbigliamento, etc.) sono impercettibili al
famoso “uomo della strada”. In conclusione, dal punto di vista sociologico, la variabile ‘etnia’
risulta più importante della variabile ‘status socioeconomico’. Questi esempi rappresentano, per
certi versi, dei casi “puri” dove l’effetto delle due variabili è facilmente isolabile. In altri termini ci
troviamo di fronti a veri e propri casi di razzismo.
4. La presenza delle aziende sud-coreane in Lombardia
Dopo aver brevemente descritto il contesto sociale locale in cui i coreani si trovano ad agire,
possiamo inoltrarci ad analizzare il contesto lavorativo all’interno del quale operano. Allo stato
attuale sono attive in Milano e dintorni una trentina di aziende classificabili prevalentemente in
quattro categorie:
• una decina di piccolissime società di intermediazione (trading).
• una decina di piccole società di rappresentanza
• una decina di uffici commerciali delle conglomerate
• un transplant di prodotti chimico-farmaceutici .
4
Le società di intermediazione operano principalmente nel campo dell’abbigliamento e delle
calzature. Sono delle micro-società, generalmente composte dal titolare e da pochi dipendenti. Il
titolare solitamente è un ex-manager, che ha lavorato in una conglomerata e poi ha deciso di aprire
un’attività in proprio. Egli svolge un’attività di intermediazione tra, ad esempio, una nota firma
italiana e i negozi della Corea del Sud (principalmente a Seul 3 ) che vendono beni di lusso. Inoltre il
titolare va alla ricerca di tessuti, stoffe, scarpe prodotte da artigiani e pellettieri italiani, che godono
di un’ottima fama proprio per la loro capacità di lavorazione e per creatività dei prodotti. Queste
società sono state le prime a risentire della crisi finanziaria scoppiata nella Corea del Sud che ha
avuto come effetto immediato la contrazione dei consumi interni.
Le piccole società di rappresentanza sono il ponte tra il cliente e la sede in Corea. La
globalizzazione dei mercati ha imposto anche alla media impresa di essere presente direttamente
con un proprio ufficio.
Le conglomerate come Daewoo, LG, Samsung e le relative divisioni (auto ed elettronica) hanno
sedi commerciali e magazzini nell’hinterland al fine di essere più vicini ai mercati italiani ed
evadere con tempestività ordini e richieste.
Infine, come vedremo meglio successivamente, in Italia esiste soltanto 1 transplant 4 della Chong
Kun Dang, un’impresa che opera nel settore chimico producendo antibiotici e vaccini.
La mancanza di fabbriche coreane nel nostro Paese è un esempio estremo di una generale riluttanza,
condivisa soprattutto dalle multinazionali giapponesi: come sottolinea Abo (1994) il top
management giapponese si trova costretto ad affrontare il dilemma se arrestare la costruzione
all’estero di nuovi plants (per la difficoltà di riprodurre la cultura d’impresa giapponese) e quindi
rinunciare alla presenza sui mercati locali, oppure proseguire sulla strada della globalizazione e
accettare l’inevitabile snaturamento (definito dall’autore ibridazione) del loro modello aziendale.
5. Valori e schemi culturali della società coreana
Per capire il divario tra la cultura locale e quella coreana e per comprendere il tipo di problemi che
il multiculturalismo pone all’interno delle aziende, ci sembra utile fornire un quadro dei valori e
delle norme che caratterizzano la cultura coreana.
3
Nella capitale risiedono oltre 10 milioni di persone, poco meno di un quarto dell’intera popolazione della
Corea del Sud.
4
Con questo termine si intende “un’unità produttiva dislocata dalle multinazionali in varie parti del mondo sia per
avvicinarsi ai mercati locali sia per approfittare dei vantaggi differenziali che una data regione può offrire al processo
produttivo” (Botti 1996, 134).
5
5.1. La religione
Il caso coreano è particolarmente interessante perché rappresenta contemporaneamente una
smentita e una conferma della teoria weberiana sulla nascita del capitalismo. Com’è noto Weber
(1904), analizzando il rapporto tra spirito del capitalismo e credenze religiose, inserisce il
confucianesimo nella lista delle religioni incompatibili con lo spirito del capitalismo. L’inclinazione
del confuciano alla sottomissione, all’armonia, al rispetto dello status quo, all’adesione alle
gerarchie patriarcali (fra cui il rispetto per gli anziani) erano secondo Weber qualità lontane dalle
caratteristiche che avevano fatto del calvinismo, del puritanesimo e della riforma protestante un
terreno favorevole al capitalismo moderno. Invece nell’Asia orientale è avvenuto (sebbene qualche
secolo più tardi) l’esatto contrario: il Giappone, la Corea del Sud, la Cina e le cosiddette “Tigri
asiatiche” come Taiwan, Singapore, Hong Kong e Thailandia affondano le loro radici nel
confucianesimo (ad eccezione della Malaysia che è un paese di religione musulmana) e inoltre sono
cresciute, altro aspetto in contraddizione con la teoria weberiana, in un clima autoritario anziché
democratico. Per quanto riguarda la Corea del Sud, ad esempio, lo straordinario sviluppo
economico e industriale innescatosi all’inizio dalla seconda metà degli anni Sessanta è avvenuto
sotto la guida di governi autoritari. Soltanto alla fine degli anni ‘80 si è affermato un regime
democratico. Le prime elezioni libere con la conseguente creazione di partiti di opposizione
legalmente riconosciuti si sono tenute nel 1992. Inoltre con le elezioni del 1997, vinte da Kim Dae
Jung, per la prima volta dopo trent’anni è accaduto che un leader del partito di opposizione
divenisse presidente. Contrariamente alle tesi che ipotizzano un legame inscindibile tra democrazia
e sviluppo economico, in Corea la crescita è avvenuta all’interno di un modello autoritario delle
relazioni sociali.
Nonostante ciò Weber non ha del tutto torto, almeno nel caso coreano, dal momento che delle
quattro maggiori religioni presenti in Corea del Sud (sciamanesimo, buddismo, confucianesimo e
cristianesimo) quella cristiana è la religione attualmente più praticata, nonostante sia stata introdotta
soltanto alla fine del ‘700. Inoltre ad avvalorare la tesi weberiana interviene un altro fattore: la
maggior parte di coloro che hanno lasciato il loro Paese, per aprire un’attività o seguire un’azienda
in Italia, sono in prevalenza evangelici. I buddisti sono una minoranza. Come sottolinea Lee
“nel caso della Corea, il buddismo è considerata la religione tradizionale. Il cristianesimo, invece,
essendo stato importato dall’occidente, viene associato alla modernità, ai valori occidentali” (1998,
10).
6
La chiesa evangelica coreana milanese 5 svolge anche il ruolo di catalizzatore dell’intera comunità
coreana, proponendo iniziative religiose, culturali e sociali a tutti i coreani, al di là delle fedi o
religioni di appartenenza.
5.2. Ruoli sociali di genere
Il confucianesimo, da sempre ritenuto la religione dominante nei Paesi dell’Est Asia, in realtà non
viene considerato dai coreani una vera e propria religione bensì una filosofia di base, una
Weltanschauung, che pervade un po’ tutti comportamenti e le aspettative di ruolo. Inoltre le
religioni come quella cristiana, più che modificare il sistema dei valori dei suoi membri, si sono
innestate nella filosofia confuciana creando un mix culturale in cui nuovo e vecchio hanno trovato
un accomodamento.
Il modello confuciano, che plasma anche le relazioni lavorative, si fonda su una visione del mondo
dove la gerarchia dell’anzianità prevale sia su quella di status che di ruolo. Questo schema mentale,
oltre che nelle aziende coreane, è diffuso anche in quelle giapponesi e, in generale nella società
nipponica (Nakane 1970). Recenti panel (cfr. Lee 1998) sul mutamento dei valori nella società
coreana testimoniano che ancor oggi, nonostante i cambiamenti significativi verso una morale meno
tradizionalista, esiste una forte deferenza nei confronti degli adulti: sia nel 1982 che nel 1990, il
90% degli intervistati dichiara che i genitori devono essere comunque sempre rispettati (Lee 1998,
6) e i desideri dei più anziani devono essere seguiti senza discutere. Inoltre le indagini evidenziano
un’adesione ai valori autoritari sia da parte dei buddisti che dei cristiani (protestanti e cattolici).
Anche i ruoli di genere rimangono confinati all’interno dei principi dettati dal confucianesimo
tradizionale, provocando non poche inquietudini e frustrazioni: agli uomini compete il
mantenimento economico della famiglia, mentre le donne per sentirsi realizzate devono sposarsi e
mettere al mondo figli.
Le ricerche sulla qualità della vita (Lee 1998) mettono in luce l’esistenza di un forte contrasto tra la
concezione occidentale e quella orientale relativamente ai ruoli di genere. Nonostante la
partecipazione femminile 6 abbia dato un’enorme contributo allo sviluppo economico della Corea, il
lavoro femminile è ancora fortemente marginalizzato (Cho H(young)1986) e le opportunità di
lavoro per le donne sono ancora molto limitate. Inoltre alle persone sposate viene assegnata una
rispettabilità maggiore che ai celibi e alle nubili.
5
Attualmente esistono due chiese: una cattolica (con circa 100 praticanti) e una evangelica (con cira 500
praticanti).
6
Nel 1995 le donne rappresentavano più del 48% degli occupati.
7
I conflitti di ruolo all’interno del genere sono molto legati alla tradizione confuciana, che divide
nettamente la sfera privata da quella pubblica. Questa tradizione ha però fornito modelli di
comportamento soltanto per le donne che vivono in casa in quanto Confucio non prevedeva un
ruolo pubblico per la donna. In questo modo, essendo quello precedente al matrimonio il periodo
più proficuo per una donna per cercare un impiego, esso è anche il periodo di maggior frustrazione
dal momento che non esistono schemi mentali e convenzioni codificate sul comportamento di
genere al di fuori della sfera famigliare 7 . La mancanza di queste convenzioni è dovuta anche al fatto
che lo stato di nubile era, agli inizi del ‘900, praticamente inesistente (TAB. 3).
TAB. 3: Percentuale di donne nubili nella prima metà del XX secolo
PAESE
Italia (1901)
Corea (1901)
25-29 ANNI
30%
1%
45-49 ANNI
11%
0
Fonte: Hajnal (1965)
Se il ruoli femminili faticano a cambiare, la recente crisi economica invece sta repentinamente
modificando quelli maschili. Le indagini sulla percezione soggettiva delle condizioni di vita (Lee
1998; Lew e Park 1998) mettono in rilievo che, mentre le donne sposate manifestano maggiori
livelli di soddisfazione delle nubili, gli uomini sposati si dichiarano meno contenti dei celibi. Infatti
il ruolo dell’uomo sposato si trova minacciato su due versanti. Da una parte i crescenti tassi di
disoccupazione stanno incrinando lo stereotipo che vede in lui una “macchina per guadagnare”
(Ahn 1995); dall’altra nemmeno il ruolo di padre/marito non può trovare espressione nella famiglia
perché secondo Confucio essa è il luogo dove domina la figura femminile. Lo sposato,
contrariamente al celibe, si trova quindi in crisi su entrambi i fronti: quello pubblico e quello
privato.
5.3. Il lavoro
Sui luoghi di lavoro (come nelle area della salute, del welfare, della scuola, della cultura e
dell’ambiente) la qualità della vita è una delle più basse fra i 25 Paesi dell’OCSE (Lew e Park
1998). Nel 1986, nell’industria manifatturiera, l’orario medio era di quasi 55 ore settimanali, mentre
nel 1996 è scesa a 48. Sempre nello stesso anno la crescita economica del 7.1% ha mantenuto la
disoccupazione intorno al 2% (nel 1998 invece è salita al 6.7%, la più alta mai vista dall’inizio
dell’industrializzazione). La presenza sindacale è in costante calo, mentre quella delle donne sui
7
Dato il tasso di divorzi molto basso (1% nel 1995) alle donne vengono riconosciuti socialmente soltanto
8
luoghi di lavoro è ancora bassa (Lee 1987, 293; Park 1998, 3). Dal punto di vista della percezione
soggettiva la soddisfazione sui luoghi di lavoro è bassa specie tra i dipendenti dei settori industriali
e agricoli. Lo stress lavorativo è inoltre maggiormente sentito dai professional (ingegneri,
disegnatori, informatici, analisti, esperti, progettisti, programmatori, etc.), mentre coloro che sono
impiegati nei servizi lamentano una ripetitività nelle mansioni. La richiesta di creatività e di
apprendimento costante, e l’autonomia lavorativa sono più alte fra i professional.
6. L’incontro tra culture aziendali
Dopo aver delineato i tratti principali della cultura coreana passiamo ora ad affrontare gli aspetti
relativi alle interazioni industriali tra coreani e italiani. Come sottolineato nell’introduzione, uno
degli effetti della globalizzazione è stato l’incontro tra culture aziendali a volte profondamente
diverse. L’incontro può dar esito, idealtipicamente, a tre situazioni: a) il prevalere della cultura
provieniente dall’esterno che impone nuovi modi di produzione e organizzazione del lavoro; b)
l’ibridazione, cioè il compromesso culturale tra diverse istanze; c) il prevalere della cultura
aziendale locale nei confronti di quella straniera. Da tempo gli studiosi delle organizzazioni, in
particolare coloro che si rifanno alla tradizione degli “studi organizzativi” e che concepiscono le
imprese come culture (Pettigrew 1979; Smirtich 1983a, 1983b; Shein 1984; Ouchi e Wilkins 1985;
Gagliardi 1986) hanno sottolineato la necessità di utilizzare il concetto di ‘cultura’ per spiegare
processi e comportamenti aziendali finora interpretati con paradigmi razionalistici, ingegneristici ed
economici (Morgan 1986). L’importanza delle culture d’impresa è nuovamente riemersa
relativamente alle M&A, cioè le fusioni (mergers) tra aziende e le acquisizioni (acquisitions), dove
colossi transnazionali si fondono oppure inglobano altre grandi società di settore. Dopo l’iniziale
euforia di queste grandi operazioni economico-finanziarie, gli effetti sinergici sperati non si
realizzano. Le differenti culture si scontrano frontalmente oppure la cultura aziendale perdente
inizia una sotterranea resistenza nel tentativo di non lasciarsi armonizzare. Le lotte ai vertici
s’inaspriscono, le gerarchie e le complicazioni amministrative interne aumentano e ritardano i tempi
per le decisioni più urgenti, mentre il risanamento delle imprese in difficoltà si fa attendere
(Bonanni 1998). Tant’è che negli ultimi anni, come ha osservato Frederic Scherer, il 70% di queste
grandi operazioni è risultato pressoché fallimentare.
Gli studi organizzativi hanno analizzato appronditamente i conflitti cognitivi e comunicativi che
intervengono nelle aziende multiculturali oppure bi-culturali, come nel caso dei transplants
giapponesi disseminati nel mondo occidentale (Bonazzi 1995, 1996). Per quanto riguarda l’Italia, i
pochi studi empirici pubblicati (Signorelli 1993 e Botti 1996) rilevano che anche il nostro Paese
due ruoli: nubile o sposata.
9
non si discosta dalla tendenza generale di una progressiva ibridazione della cultura d’impresa
giapponese. Inoltre, nonostante molte riserve, le imprese giapponesi proseguono nel processo di
localizzazione della produzione sia in Europa che in Italia. Diversamente dai giapponesi (che nel
1992 ne avevano 47) attualmente in Italia esiste soltanto 1 transplant coreano che opera nel settore
chimico producendo antibiotici e vaccini. Eppure i coreani hanno costruito (o rilevato) impianti in
Spagna, Portogallo, Francia, Germania, Inghilterra, Irlanda, Polonia, Romania e in altri paesi
europei. Le ragioni di questo mancato “impegno” sono prevalentemente economiche e culturali. Per
quanto concerne i fattori economici, espressi nelle interviste, nel nostro Paese “il costo del lavoro è
1,5/1,6 volte più alto che in altri Paesi”. Al contrario il Regno Unito è considerato il Paese dove
vengono ammortizzati più in fretta gli investimenti. L’Italia non offre sufficienti incentivi o sgravi
fiscali per la collocazione di impianti di produzione. Come commenta un imprenditore:
“in Irlanda offrono il terreno gratuito per costruire la fabbrica, fanno pagare meno tasse e il salario
dei dipendenti è inizialmente pagato metà dall’azienda e metà dal governo”.
In Italia, quando gli incentivi ci sono, non giungono nei tempi concordati mettendo in difficoltà
l’azienda (cfr. il caso della Honda di Atessa in Signorelli 1993). Inoltre i servizi offerti dal nostro
Paese (burocrazia, infrastrutture, procedure per l’ottenimento di licenze, servizi postali e bancari,
etc.) sono ritenuti inferiori agli standard europei. Infine gli scioperi sono un altro elemento che non
incentiva un maggior impegno da parte delle aziende coreani. Queste ragioni economiche sono ben
note non solo agli operatori ma anche a chi, più semplicemente, sfoglia un quotidiano qualsiasi.
Tuttavia non spiegano il motivo per cui i giapponesi si siano “impegnati” in misura molto maggiore
dei coreani dato che gli svantaggi economici sono simili per entrambi. Nemmeno il fatto che il
Giappone abbia una capacità produttiva superiore a quella coreana fornisce una spiegazione del
tutto esaustiva. Infine anche i fattori culturali contribuiscono solo in parte a spiegare questa
riluttanza perché dovrebbero incidere allo stesso modo su entrambe le etnie. Il motivo principale del
disimpegno coreano sembra più propriamente di tipo psicologico e risiede in un evento molto
doloroso che ha segnato, quasi come un imprinting, l’immaginario degli imprenditori coreani: il
fallimento della prima joint-venture contrattuale 8 tra coreani e italiani. Come vedremo
successivamente (nel paragrafo dedicato all’etica del lavoro) agli inizi degli anni Novanta la
Goldstar (ora LG) era entrata come socio di minoranza nell’Iberna, società italiana di
elettrodomestici. Dopo una serie di vicissitudini, in cui il divario tra culture d’impresa giocò un
8
Si defiiscono joint ventures contrattuali quelle forme di cooperazione tra imprese che “pur senza dar luogo
alla costittuzione di una nuova e distinta società, pongono in essere una serie di rapporti contrattuali, tra loro
collegati, volti a regolametnare nel tempo l’andamento della loro collaborazione e gli obiettivi comuni che i
partner si attendono” (Bianchi e Saluzzo 1991, 145).
10
ruolo rilevante, i coreani decisero di abbandonare la loro presenza con notevoli perdite sia sul piano
finanziario che d’immagine.
7. Interazioni aziendali e risorse umane: come i coreani vedono i dipendenti italiani
Precedentemente abbiamo descritto i principali schemi mentali e le convenzioni più diffuse presenti
nella società coreana. Un imprenditore, un manager oppure un professional giungono nel nostro
paese con quel bagaglio di stereotipi, pregiudizi e convinzioni. Infine le aspettative di ruolo
completano il loro corredo cognitivo e comunicativo:
“all’inizio ci sono molti problemi perché è una cultura completamente diversa nel modo di vivere,
di lavorare, di ragionare... totalmente diversa... allora inizialmente tutti quanti hanno uno shock...
poi piano piano si capiscono, si adeguano. Da noi c’è un diverso rapporto tra marito e moglie, i
vecchi vengono rispettati, davanti ai genitori si usa un certo linguaggio e soprattutto non si fuma...
qui è tutto diverso” (imprenditore).
Allo stesso modo l’impatto con le culture aziendali presenti nelle imprese italiane non è facile.
Dalle interviste emergono tre aree di tensione: l’etica del lavoro, il linguaggio e la comunicazione
nonverbale.
7.1. Etica del lavoro.
Gli imprenditori coreani notano nei dipendenti italiani uno “scarso attaccamento” aziendale.
Secondo gli imprenditori i dipendenti dovrebbero “sacrificare di più la propria vita per l’azienda”.
Uno di loro sottolinea in modo particolare:
“noi viviamo per lavorare mentre gli italiani lavorano per vivere. Per noi il lavoro è la prima
priorità... il lavoro è sacrosanto, può rappresentare tutta la vita. Noi siamo un paese in transizione,
economicamente più arretrato del vostro per cui pensiamo solo a lavorare e c’è poco spazio per il
privato. In Italia invece la vita privata è più importante del lavoro” (imprenditore).
Gli imprenditori e i direttori intervistati raccontano diversi eventi che possono essere considerati
come degli indicatori del concetto di “scarso attaccamento” all’azienda e al lavoro. Allo stesso
tempo questi indicatori rappresentano delle componenti stabili delle loro mappe cognitive.
Il primo indicatore sono le assenze per malattia e le ferie: “da noi un’influenza dura 2-3 giorni (dice
un direttore) qui se uno prende l’influenza sta a casa dai 3 ai 6 giorni!” 9 .
Inoltre la legislazione coreana aggancia i giorni di malattia ai giorni spettanti per ferie. Per contratto
un dipendente ha diritto a 12 giorni di ferie da sommarsi a un 1 giorno di ferie per ogni anno di
lavoro passato nella stessa azienda. Se però si ammala, i giorni di assenza dal lavoro vengono
9
Come parallelo è interessante notare come in Giappone le persone nei mezzi pubblici calzano una
mascherina al viso per non trasmettere l’influenza agli altri passeggeri.
11
recuperati (da parte dell’azienda) scalandoli dalle ferie. Quindi il diritto, previsto dal contratto
italiano, a 24 giorni di ferie (dopo il primo anno di lavoro) ai coreani appare come una concessione
esagerata.
Un secondo indicatore è rappresentato dal grado di apprensione per il posto di lavoro, considerato
poco elevato:
“qui non sono molto preoccupati per il fallimento dell’azienda perché in ogni caso c’è la cassa
integrazione (formula non prevista in Corea) ... quando siamo subentrati nel ‘94 questa azienda
aveva un grosso deficit. A quel tempo 48 dipendenti erano troppi per il fatturato che avevamo... non
potendo licenziare perché in Italia non si può 10 , abbiamo chiesto collaborazione ai dipendenti
(operai, tecnici, quadri) per rientrare in tempi brevi dal deficit anche perché eravamo molto
preoccupati di non farcela... abbiamo proposto, a seconda dei casi, di abbassare il salario per un
periodo di tempo ... i sindacati e il personale hanno detto che non si poteva fare per cui abbiamo
impiegato tre anni per raggiungere la parità di bilancio e avremo bisogno di ancora altro tempo per
rientrare definitivamente dal debito. Sono così saltati tutti i tempi preventivati quando abbiamo
preso in mano l’azienda” (direttore generale).
Un terzo aspetto riguarda il concetto di responsabilità. Secondo i coreani gli italiani “non si
prendono mai la responsabilità”. Con questa espressione essi indicano la tendenza del dipendente
italiano a rimanere rigidamente confinato nelle proprie mansioni. Questo rilievo si inserisce in una
fenomeno più vasto: la difficoltà di passare da una concezione tayloristica del lavoro, incentrata
sulla netta distinzione delle funzioni e delle mansioni, a una concezione più dinamica imperniata sul
concetto di responsabilità in cui si chiede al soggetto di prendersi cura di tutto ciò che “arriva dalla
sua parte”, di occuparsi globalmente dei problemi che incontra nello svolgimento del suo ruolo, sia
che faccia la centralinista, l’addetto alla manutenzione di una macchina o il direttore del personale.
Il concetto di responsabilità, nella cultura aziendale coreana, racchiude anche un altro aspetto ben
sottolineato nelle parole di un altro imprenditore:
“gli italiani non riconoscono mai i propri errori, non li ammettono mai... sono sempre i coreani che
sbagliano!”.
Infine responsabilità significa anche anteporre le priorità lavorative a quelle personali:
“un coreano lavora anche fino alle nove di sera finché non ha finito il lavoro... qui invece alle
cinque vanno a casa” nonostante la pratica non sia ancora terminata... “gli italiani sono puntuali
solo per andare a casa” (manager).
Parallelamente i coreani considerano l’individualismo una componenti fondamentale del carattere
italico:
10
Un oggetto particolarmente oscuro per gli imprenditori coreani è la legislazione italiana sulle assunzioni e i
licenziamenti, con particolare riferimento al concetto di “giusta causa”. Nelle interviste essi hanno raccontato
diversi casi di assenteismo, incapacità lavorativa, comportamenti giudicati non corretti, a cui non hanno
potuto opporre nulla.
12
“gli impiegati italiani sono più individuali... sempre io... il punto di vista è sempre il mio... cosa
succede a me, cosa accadrà a me, cosa è favorevole a me. Anche i coreani sono un po’ così ma la
percentuale è molto più alta tra gli italiani” (imprenditore).
Infine un’altra qualità che i manager coreani vorrebbero maggiormente sviluppata nei dipendenti
italiani è una “maggior attenzione nei confronti dei clienti”.
L’etica del lavoro viene considerata uno dei principali fattori che ha causato il primo grande
fallimento degli investimenti coreani in Italia che pare aver profondamente segnato l’imprenditoria
coreana. Lo si evince chiaramente dal racconto degli imprenditori:
“Qualche anno fa la Goldstar aveva creato una joint-venture con l’Iberna, che produceva frigoriferi
vicino a Caserta. Dopo qualche tempo l’Iberna scorrettamente si ritira e la Goldstar deve decidere
se ritirarsi anche lei, perdendo però tutti i capitali investiti, oppure comperare anche la quota di
maggioranza dell’Iberna. Noi decidiamo di comperare e continuiamo a far funzionare la fabbrica.
Le cose però non vanno bene perché prima di tutto il marchio non convinceva... nessuno credeva
che un frigorifero made in Naples fosse un prodotto di qualità... poi ci sono stati diversi problemi: il
management coreano e quello italiano non erano mai d’accordo; quando c’erano degli sbagli la
colpa era sempre nostra; gli operai italiani non seguivano i metodi di lavoro che noi insegnavano...
non capivano; poi c’era tanto assenteismo: loro non vogliono lavorare ma solo passare il tempo e
poi guadagnare... e anche minacce alla sera (cioè fuori dalla fabbrica) a chi gridava durante il
giorno (cioè i capireparto coreani)... così alla fine la produzione era così bassa che abbiamo chiuso
la fabbrica”.
Questi eventi (insieme a ragioni più prettamente economiche) spiegano la riluttanza, recentemente
riproposta dal mancato accordo tra Ansaldo e Daewoo, delle imprese coreane ad aprire fabbriche in
Italia. Riluttanza di gran lunga maggiore che nelle imprese giapponesi.
7.2. La comunicazione verbale.
Uno degli ostacoli alla comunicazione interculturale, come sottolinea Barna (1994), è
rappresentato dalle differenze linguistiche. Esse rendono difficile l’uso di metafore, analogie,
eufemismi, sfumature, che sono l’asse portante di una lingua. Le lingue usate dagli imprenditori e
dai i tecnici coreani, per comunicare con i propri dipendenti oppure con i consulenti, sono
principalmente due: l’italiano e l’inglese. Nelle piccole imprese prevale l’italiano 11 mentre nelle
altre è maggiormente usato l’inglese 12 . Nel primo caso le incomprensioni linguistiche sono ridotte
anche se non del tutto annullate; non solo perché il loro italiano non è sempre facilmente
comprensibile ma perché le espressioni linguistiche racchiudono modi di pensare che non sono
immediatamente percepibili dal dipendente.
11
Contrariamente ai giapponesi che non imparano l’italiano, non si integrano nelle comunità locale e
sviluppano rapporti esclusivamente tra connazionali anche durante il tempo libero, i coreani mostrano una
maggiore flessibilità mentale e adattabilità.
13
Quando la comunicazione si svolge in inglese le difficoltà risultano letteralmente quadruplicate.
Oltre alle note carenze dovute al fatto che molti italiani non capiscono l’inglese (e tanto meno il
coreano) e che i coreani (inseriti nelle aziende più grandi) non comprendono l’italiano, abbiamo due
ulteriori difficoltà: da una parte gli italiani parlano male l’inglese, dall’altra anche i coreani non lo
parlano bene, specialmente per un problema di pronuncia essendo la lingua coreana di origine
uralo-altaica, quindi foneticamente molto lontana da quelle indoeuropee. In queste aziende il
direttore comunica in inglese con una ristretta cerchia di collaboratori italiani a lui più vicini, i quali
poi traducono i messaggi ai loro subalterni. Inoltre egli richiede ai dipendenti “messaggi scritti in
stampatello perché i corsivi sono sempre di difficile lettura”. Allo stesso modo, non essendo
l’inglese molto conosciuto in Corea, gli italiani hanno difficoltà a comunicare in inglese con la sede
coreana. A tal fine nelle uffici commerciali italiani ci sono équipe composte da 4/5 coreani che
fungono da interfaccia con la casa-madre in Corea. Queste procedure introducono inevitabilmente
lungaggini, ridondanza di informazioni e incomprensioni.
7.3. La comunicazione nonverbale
I lavori dell’antropologo Hall (1959, 1976), degli psicolinguisti Miller (1973), Belluggi e Brown
(1964), del sociologo Cicourel (1968), degli psicologi Ricci Bitti e Zani (1983) hanno messo in luce
come la maggior parte delle informazioni scambiate in un’interazione faccia-a-faccia vengano
veicolate attraverso il canale nonverbale. Questo vale particolarmente per gli orientali che nella
conversazione fanno largo uso del silenzio sotto forma di lunghe pause. Il silenzio è un’azione
fondamentale della vita quotidiana di un coreano. Ad esempio non è educato parlare troppo durante
il pasto. Peraltro in questa circostanza soffiarsi il naso è segno di maleducazione oppure di non
rispetto verso i commensali.
Nella cultura latina, invece, la pausa viene vissuta con imbarazzo, come un comportamento che
precede una sanzione oppure come un vuoto da riempire al più presto come se la conversazione
stesse languendo. Nasce spontaneo quindi, per un italiano, rubare il turno all’interlocutore che
compie una pausa. Questo tentativo di gestire le situazioni di imbarazzo sociale, di “salvare la
faccia” del nostro interlocutore (Goffman 1956), di mostrare partecipazione, viene vissuto dagli
orientali come un comportamento aggressivo. A tal proposito, gli intervistati sono concordi e
lapidari:
“agli italiani piace parlare molto e ascoltare poco... sono impazienti” oppure “in Italia tanti
parlano... in Corea tanti scrivono”.
12
La maggior confidenza con la lingua inglese è una delle ragioni che spinge le multinazionali coreane a
14
In generale i coreani non apprezzano un comportamento eccessivamente espansivo. Come già Hall
(1959) aveva indicato nel concetto di ‘distanza personale’ proprio di ogni cultura, nelle
conversazioni i coreani limitano il contatto fisico diretto a una cortese stretta di mano. Per loro è
molto importante salutare e ringraziare. In Corea entrambe le azioni vengono accompagnate da un
lieve cenno della testa e la profondità dell’inchino dipende dalla differenza d’età degli interlocutori.
La sfera prossemica della distanza personale (il space body bubble), essendo quella più influenzata
dalla differenze culturali, è quindi maggiormente soggetta a controversie e incomprensioni.
8. Interazioni aziendali e risorse umane: come i dipendenti italiani vedono il management
coreano.
Come tutte le multinazionali anche le conglomerate coreane si stanno attrezzando per affrontare le
conseguenze che la globalizzazione pone alle risorse umane e alle identità personali. In particolare
le aziende sono impegnate nel dotare i propri dipendenti di schemi cognitivi e competenze
comunicative che li rendano capaci di interagire con le altre culture. Come osserva il direttore della
sede italiana di una multinazionale:
“dal momento che i progetti che sviluppiamo non vengono realizzati in un unico luogo ma un pezzo
viene fatto in paese, un altro pezzo in un altro ancora... oggigiorno un ingegnere deve saper
dialogare con il suo collega greco piuttosto che turco... devono collaborare perché i pezzi realizzati
vanno poi a integrarsi, e se non si sono capiti prima, poi è un disastro... buttiamo via tempo, denaro
e perdiamo competitività”.
A tal proposito l’inchiesta di Hofstede (1990), che ha confrontato un centinaio di culture nazionali
raccogliendo 20.000 questionari rispetto a cinque proprietà, mette in luce differenze significative tra
italiani e coreani.
PDI
Distanza
gerarchica
ITALIA
COREA
del Sud
50 13
60
IND
MAS
WAI
Individualismo
Rapporto
Mascolinità vs.
vs.
con il tempo
femminilità
collettivismo
76
18
70
39
75
85
CDI
Mancanza vs.
eccesso di regole
85
75
Per comprendere le difficoltà e gli ostacoli che sorgono nella comunicazione multiculturale è quindi
opportuno ricostruire anche gli schemi mentali che i dipendenti utilizzano per classificare,
costruire transplant preferibilmente in Inghilterra, Irlanda e USA.
13
L’ampiezza della scala numerica usata da Hofstede per “misurare” gli stati degli intervistati
sulle cinque proprietà è di 100 unità.
15
codificare, riconoscere, interpretare il comportamento e i discorsi della direzione. Intervistando i
dipendenti italiani emergono principalmente due argomenti di tensione: il carattere dei datori di
lavoro e la loro etica lavorativa.
8.1. Il carattere coreano
I dipendenti italiani considerano i coreani come delle persone “testarde”, difficili da convincere e
persuadere. Come sottolinea un dipendente: “sono duri... finché non battono la testa non si
convincono che stanno sbagliando”.
Il pregiudizio della testardaggine, come ogni pregiudizio (Rokeach 1960, Tajfel 1969, Allport
1973), diviene allo stesso tempo totalizzante e de-contestualizzato. Esso si trasforma in uno schema
interpretativo che viene usato in tutte le situazioni; inoltre, pur nascendo in una situazione
particolare, viene presto trasferito a contesti del tutto differenti.
Analogamente accade per la credenza che “i coreani sono diffidenti”. I silenzi e le pause (cfr. la
comunicazione nonverbale nel paragrafo precedente) così come il guardare fisso l’interlocutore
durante la conversazione (“ti scrutano” dice una dipendente) vengono interpretati come segni di
diffidenza. A tal proposito un direttore coreano racconta un episodio illuminante:
“io sono un ingegnere, mi occupo dei processi di lavorazione, dei metodi di produzione e non so
nulla di contabilità e amministrazione. Quindi quando insieme al ragioniere analizziamo i bilanci...
io, proprio perché non me ne intendo, chiedo molti cose, particolari che per il ragioniere sono cose
normali... lui si insospettisce e pensa che gli faccia dei trabocchetti, che lo stia controllando, che
non mi fidi di lui”.
Il ragioniere, in difficoltà nell’esplicitare le sue conoscenze tacite relative alla procedure di
contabilità o di previsione, interpreta queste domande ovvie come segnali di diffidenza nei
confronti del suo operato.
Un altro schema mentale diffuso tra i dipendenti italiani, e sviluppatosi in seguito alla crisi
finanziaria coreana che ha avuto effetti anche sulle aziende locali, considera i coreani come soggetti
poco dotati di capacità predittiva. A questo proposito una dipendente intervistata ne sottolinea
l’aspetto consumistico:
“loro sono dei spendaccioni... sono sempre ben vestiti, hanno macchine di lusso e finiscono per fare
il passo più lungo della gamba..... vivono al di sopra delle loro possibilità.... vanno a vivere a
Milano 3 dove tutto è carissimo mentre potrebbero benissimo abitare in un’altra zona di Milano; ma
siccome Milano 3 fa status loro ci vanno”.
In campo più prettamente amministrativo vengono poi notati diversi comportamenti:
“i coreani (dice un contabile) pensano solo a produrre, a guadagnare in fretta... guardano solo ad
accrescere il fatturato senza rendersi conto che utili e fatturato non sono necessariamente correlati”.
16
Questo rilievo viene mosso anche da un’altra contabile:
“quando c’è un aumento della domanda i coreani tendono a farvi fronte assumendo nuovo
personale. Non si rendono conto che questo diventerà un costo fisso per l’azienda che peserà sui
bilanci soprattutto quando avremo un calo della domanda... in Italia non si può assumere e
licenziare a seconda della domanda e loro fanno fatica a capirlo... a volte sono proprio poco
previdenti perché potevano cogliere i segnali che ci sarebbe stata una crisi... ma loro continuano ad
assumere anche se le previsioni sono incerte”.
Da questi commenti si può desumere che le diverse analisi economiche nascono da una differente
concezione del futuro 14 . Gli imprenditori coreani (che sono per la maggior parte di religione
evangelica), forse in conformità al concetto di ascesi intramondana messo in luce da Weber (1904),
concepiscono il futuro come una risorsa, come il luogo per l’affermazione. Il futuro è uno spazio
per la crescita e il progresso. In generale gli italiani, e le giovani generazioni in particolare (cfr.
Cavalli e de Lillo 1993, Leccardi 1996), invece considerano il futuro come un vincolo, un periodo
di incertezza e insicurezza, come uno spazio temporale molto ravvicinato anziché un vuoto da
colmare, modellare e soprattutto programmare per tempo.
8.2. Etica del lavoro
I diversi modi di ragionare e di agire si acuiscono se confrontiamo le differenti etiche lavorative. I
dipendenti italiani sono concordi nel ritenere che i coreani
“hanno una diversa concezione del lavoro... loro si buttano, sono ambiziosi e lo trasmettono...
hanno una capacità di contagiare l’azienda”.
Gli imprenditori, il management e i professional coreani vengono considerati “grandi lavoratori,
molto disciplinati”. Queste caratteristiche non vengono però sempre vissute positivamente dal
personale italiano. Dichiara un’impiegata:
“sono molto precisi fino all’esagerazione... pretendono molto dalle persone... non sono mai contenti
del lavoro che una persona svolge... chiedono sempre di più”.
Il modello confuciano di concepire il lavoro e le relazioni sociali assume nell’immaginario dei
dipendenti una valenza ben diversa dalle intenzioni dei coreani, portando così a profondi
fraintendimenti. Infatti le richieste della direzione vengono considerate frutto di una “concezione
schiavistica del lavoro” e i modelli interazionali basati sul rispetto degli anziani e dei superiori sono
classificati come “servilismo”. Questo produce inevitabilmente un radicale contrasto difficilmente
sanabile, come hanno già rilevato gli studi sui transplant giapponesi in Europa e Usa. Consapevoli
di queste difficoltà i manager coreani avevano tentato in precedenza di percorrere altre strade:
14
Ringrazio Anna Lisa Tota per il suggerimento.
17
“ci siamo chiesti, racconta un imprenditore, come potevano organizzare il lavoro nelle fabbriche in
modo diverso dai giapponesi. Il loro modello è quello del watch-dog, cioè mettere un giapponese a
controllare se gli operai fanno giusto. Noi abbiamo provato a dare responsabilità, a discutere
assieme le decisioni ma il fallimento dell’Iberna ci ha fatto molto riflettere se questo sia mai
possibile”.
9. Considerazioni finali
In passato diversi economisti hanno teorizzato che la globalizzazione conduce
ineluttabilmente a una generale omogeneizzazione nei modi di produrre e consumare
(Levitt 1983, Ohmae 1991, Latouche 1998) e, di conseguenza a un appiattimento delle
differenze. Secondo questi teorici il mondo verrebbe popolato da “prodotti globali”, “attori
globali” e “clienti globali”. Altri autori, invece, hanno sottolineato il prevalere di un
progressivo dualismo tra globalizzazione e regionalizzazione sia in campo economico
(Bartelett e Ghoshal 1987, Veltz 1996, Martelli 1997, Nacamulli 1998), politico (Bell 1973)
e culturale (Giddens 1990; Hannerz 1992). Altri ancora, come lo psicologo Bergquist
(1994), hanno sostenuto che nell’epoca della globalizzazione i fenomeni che si
manifestano localmente possono avere un forte impatto sull’intero sistema. Proprio perché
nell’epoca della globalizzazione il tempo e lo spazio diventano simultanei (Giddens 1994,
4), un piccolo evento locale può esercitare un impatto inaspettato a livello mondiale 15 .
Lo studio delle aziende coreane in Lombardia rivela, ancora una volta, l’eccessivo
ottimismo delle teorie dell’omogeneizzazione: in nessuna delle aziende contattate sono
state relevate casi in cui la cultura d’impresa coreana si sia imposta su quella italiana. Le
situazioni invece oscillano tra una diffusa ibridazione (i casi più frequenti) e il prevalere
della cultura aziendale locale su quella proveniente dall’esterno (il caso Iberna)
affermando ripetutamente l’ineludibilità del tema delle culture d’impresa anche se esso
rischia di essere nuovamente frainteso. Se in passato le dimensioni culturali
dell’organizzazione del lavoro sono state a lungo marginalizzate 16 dagli approcci ingegneristici
15
Bergquist (1994) parla di “effetto farfalla”, termine introdotto per la prima volta dai metereologi per
descrivere gli sconvolgimenti atmosferici provocato da El Niño, una variazione nella circolazione delle
correnti dell’Oceano Pacifico che si manifesta ogni 4-7 anni. In questo caso il riscaldamento di una
relativamente piccola massa di acqua al largo della Costa Occidentale dell’America Centrale provoca effetti
(disatrosi) in regioni anche molto lontane dal luogo dove il fenomeno è originato. La metafora richiama
l’immagine del battito d’ali della farfalla, un’azione quasi impercettibile che invece può influenzare il mondo
circostante.
16
In questi approcci la cultura era identificata principalmente con il carattere nazionale, per cui era
considerata una costante, una sorta di prerequisito universale e necessario di ogni contesto, anziché una
variabile del mondo imprenditoriale. In questo modo sono state trascurate le diverse culture organizzative
presenti in una stessa azienda, tra i suoi reparti o all’interno delle medesime categorie professionali (Gherardi
1990)
18
ed economici (Morgan 1986), attualmente gli stessi approcci considerano la cultura come un
ostacolo, un inciampo alle innovazioni e alla realizzazione di nuove forme organizzative. Ma dato
che tutte le organizzazioni sono dotate “naturalmente” di una cultura, considerarla banalmente
come un impedimento significa fraintenderne il ruolo e negarsi la possibilità di pensarla come una
risorsa per il miglioramento delle performance aziendali.
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