L`oriente e l`occidente. Il caso delle imprese coreane in Lombardia
Transcript
L`oriente e l`occidente. Il caso delle imprese coreane in Lombardia
L’ORIENTE IN OCCIDENTE IL CASO DELLE IMPRESE COREANE IN LOMBARDIA 1 Giampietro Gobo Dipartimento di Sociologia Università degli Studi di Milano Keywords: multiculturalismo aziendale, culture d’impresa, schemi cognitivi 1. Globalizzazione e differenze Nell’ultimo decennio il dibattito sui temi delle diseguaglianze e delle differenze è stato influenzato dall’emergere del fenomeno della globalizzazione della vita sociale. L’intensificarsi delle connessioni e degli scambi, e la crescente interdipendenza delle diverse parti della società mondiale (Wallerstein1979, Axford 1995) hanno introdotto, e stanno tuttora introducendo, cambiamenti profondi sul piano politico, sociale ed economico. Se da una parte alcuni economisti ritengono ottimisticamente che la globalizzazione porterà a un aumento della produttività, a un’omogeneizzazione mondiale delle preferenze, dei consumi, degli stili e della qualità della vita (Levitt 1983, Ohmae 1991, Latouche 1998), dall'altra i critici prevedono un accrescimento delle iniquità nella distribuzione della ricchezza, una competizione al ribasso sul mercato del lavoro, un aumento del divario tra paesi ricchi e paesi poveri (Kubalkova e Cruickshank 1981). Inoltre le economie dei paesi meno sviluppati diverranno sempre più precarie perché dipendenti dalle fluttuazioni delle economie dei paesi più industrializzati (Stavrianos 1981, Warren 1981, Goldthorpe 1984). Per quanto concerne le differenze e le diversità uno degli effetti della globalizzazione dei mercati e della produzione è il multiculturalismo aziendale. La globalizzazione economica ha comportato lo sviluppo di imprese transnazionali che, con propri plants, uffici commerciali e reti di fornitori, operano oltre i confini nazionali del Paese di origine. In seguito a questo processo di internazionalizzazione diversi dipendenti delle imprese transnazionali (managers, tecnici, professionals) sono stati inviati a operare sui mercati locali. Dal punto di vista antropologico si è trattato di un vero e proprio incontro tra culture: in alcuni casi esso è avvenuto tra culture moderatamente diverse; in altri casi, come quello tra culture occidentali e orientali, il divario è risultato notevole. Gli effetti a lungo termine e i mutamenti che il multiculturalismo produrrà nel mondo del lavoro sono ancora difficili da prevedere. 1 I dati relativi alla presenza delle aziende sudcoreane in Lombardia si riferiscono all’aprile del 1998. Il fenomeno delle imprese coreane in Lombardia, di cui si occupa questo saggio, si colloca all’interno di questa prospettiva. Attraverso lo studio di un caso empirico di multiculturalismo aziendale il saggio si propone di discutere se nelle aziende sovranazionali, al seguito di una globalizzazione dell’economia, si stia creando o meno una cultura globale. Ci si può infatti chiedere se l’incontro tra culture radicalmente differenti, come quella italiana e coreana, conduca alla formazione di un unico sistema di valori e norme aziendali, di significati e di identità. Per rispondere a questo interrogativo analizzeremo in dettaglio l’evolversi della presenza coreana in Italia. 2. La scoperta della Corea Poco tempo fa la Corea del Sud era un paese quasi del tutto sconosciuto. Gli unici ricordi di un italiano di cultura media erano la guerra tra le due Coree dell’inizio degli anni Cinquanta e la sonora sconfitta subita dalla nazionale italiana ai Mondiali del 1966. Ancora adesso la maggior parte delle persone forse non sarebbe in grado di localizzare questo Paese. Due eventi recenti, balzati all’onore delle cronache, hanno però nuovamente portato al centro dell’attenzione la Corea del Sud. Il primo, accaduto nel gennaio del 1997, è stato lo scontro tra studenti e polizia in seguito all’occupazione delle università. Il secondo, a novembre dello stesso anno, ha reso noto la grossa crisi finanziaria che ha sconvolto l’economia. Infatti a novembre già cinque dei trenta maggiori gruppi industriali del Paese avevano dichiarato bancarotta. Nonostante le nostre scarse conoscenze dal 1995 la Corea del Sud è, in base al suo PIL, l’undicesimo paese del mondo (cfr. TAB. 1) e, per quanto riguarda la sua capacità produttiva, si attesta a posizioni ancor superiori. Infatti le nostre case e i luoghi di lavoro, anche se non lo sappiamo perché li confondiamo con i marchi giapponesi e cinesi, sono invasi da prodotti coreani: televisori, videoregistratori, forni a microonde, climatizzatori, aspirapolvere, frigoriferi, videocamere, monitor per computer, display di calcolatrici, di autoradio o di bancomat, sono prodotti da Samsung (azienda grande una volta e mezzo la FIAT), da Goldstar, da Daewoo; computer da LG; auto da Hyundai, Daewoo e Kia; motorini coloratissimi da Kymko Kwang e da MBK che soltanto in Italia vende quasi un terzo di quanto vende la Piaggio. TAB. 1: PIL pro capite 1988 1989 1990 1991 ITALIA 13.350 15.120 16.850 18.580 COREA DEL SUD 4.295 5.210 5.883 6.757 2 STATI UNITI 19.820 20.850 21.700 22.340 1992 1993 1994 20.790 19.840 19.270 7.007 7.513 8.508 23.830 24.780 25.860 Fonte: National Statistical Office, International Statistics Year Book, Seul, 1996 Tra il 1988 e il 1994, mentre l’Italia e gli Stati Uniti hanno aumentato di un terzo il suo PIL pro capite, la Corea del Sud lo ha addirittura raddoppiato. 3. L’immigrazione sudcoreana in Lombardia All’inizio del 1997 gli stranieri residenti legalmente a Milano erano quasi 70.000, cioè il 5% dell’intera popolazione cittadina. Anche se nella percezione comune gli extracomunitari sono quasi sempre identificati con i nordafricani, la comunità milanese legale più numerosa è quella asiatica (cfr. TAB 2). TAB. 2: Provenienza geografica della comunità asiatica residente a Milano e dintorni AFRICA ASIA di cui: Cina Srilanka Corea del Sud Giappone da altri Paesi 18.800 21.600 7.550 2.676 2.300 circa 2 2.078 7.000 La comunità sudcoreana in Milano è una comunità particolare, nel senso che è fortemente coesa e ha riprodotto in città i riti e le cerimonie proprie della sua tradizione. I coreani non sono dislocati uniformemente o casualmente in città, ma hanno prediletto alcune aree dell’hinterland: un nucleo di 15 famiglie vive a Opera, altri gruppi risiedono a Milano 2 e Milano 3, un altro gruppo a Sesto San Giovanni. La comunità coreana, così come quella giapponese, rappresentano un caso atipico di immigrazione, in contro tendenza rispetto agli stereotipi circolanti sugli extracomunitari. Innanzitutto è formata da soggetti di ceto sociale economicamente e culturalmente elevato. Inoltre essi non hanno raggiunto l’Italia alla ricerca di un lavoro, di un generale benessere economico oppure di un miglioramento della propria condizione sociale. Le ragioni che hanno portato i coreani a lasciare il proprio Paese sono essenzialmente tre: 2 Altri duemila coreani vivono a Roma. Altri ancora a Perugia dove giungono come studenti per imparare la lingua italiana. La prima immigrazione coreana in Italia è avvenuta a metà degli anni Cinquanta in seguito alla guerra tra le due Coree. Molti orfani di guerra furono adottati da famiglie italiane. La seconda ondata migratoria ha avuto luogo agli inizi degli anni Settanta in seguito alla nascita delle prime multinazionali coreane. La terza ondata è iniziata nella seconda metà degli anni Ottanta. 3 • commerciale • formativa • di studio Queste tre ragioni producono tre gruppi sociali distinti. Il primo gruppo, quello meno numeroso, è costituito da imprenditori oppure da dipendenti (manager, quadri e impiegati) delle grandi conglomerate sudcoreane (i noti chaebol) con le relative famiglie. Il secondo gruppo (circa 1.000 unità) è formato da giovani stilisti, studenti e, in senso lato, apprendisti che sono giunti in Italia per imparare i metodi, le tecniche di lavoro, il modo di fare business della moda italiana. Infine il terzo gruppo (circa 1.000 unità) è rappresentato da studenti di musica lirica, altro settore in cui l’Italia vanta una lunga e prestigiosa tradizione. Contrariamente alle apparenze, l’appartenere a un ceto sociale abbiente non li preserva dal subire pesanti discriminazioni. Dalle interviste realizzate sono emersi diversi episodi: incidenti automobilistici dove la colpa viene sempre attribuita al conducente coreano; fermi prolungati e interrogatori agli aeroporti; scortesie e sgarbi da parte di commessi e negozianti. L’essere vestiti elegantemente oppure guidare un’auto di lusso non preserva dal subire questi atti. Anche perché un osservatore non specializzato incontra un’intrinseca difficoltà nel distinguere un cinese (sui cui esistono da tempo a Milano pregiudizi molto radicati) da un coreano o giapponese. Le differenze estetiche (l’arco ciliare, il taglio di capelli, il tipo di abbigliamento, etc.) sono impercettibili al famoso “uomo della strada”. In conclusione, dal punto di vista sociologico, la variabile ‘etnia’ risulta più importante della variabile ‘status socioeconomico’. Questi esempi rappresentano, per certi versi, dei casi “puri” dove l’effetto delle due variabili è facilmente isolabile. In altri termini ci troviamo di fronti a veri e propri casi di razzismo. 4. La presenza delle aziende sud-coreane in Lombardia Dopo aver brevemente descritto il contesto sociale locale in cui i coreani si trovano ad agire, possiamo inoltrarci ad analizzare il contesto lavorativo all’interno del quale operano. Allo stato attuale sono attive in Milano e dintorni una trentina di aziende classificabili prevalentemente in quattro categorie: • una decina di piccolissime società di intermediazione (trading). • una decina di piccole società di rappresentanza • una decina di uffici commerciali delle conglomerate • un transplant di prodotti chimico-farmaceutici . 4 Le società di intermediazione operano principalmente nel campo dell’abbigliamento e delle calzature. Sono delle micro-società, generalmente composte dal titolare e da pochi dipendenti. Il titolare solitamente è un ex-manager, che ha lavorato in una conglomerata e poi ha deciso di aprire un’attività in proprio. Egli svolge un’attività di intermediazione tra, ad esempio, una nota firma italiana e i negozi della Corea del Sud (principalmente a Seul 3 ) che vendono beni di lusso. Inoltre il titolare va alla ricerca di tessuti, stoffe, scarpe prodotte da artigiani e pellettieri italiani, che godono di un’ottima fama proprio per la loro capacità di lavorazione e per creatività dei prodotti. Queste società sono state le prime a risentire della crisi finanziaria scoppiata nella Corea del Sud che ha avuto come effetto immediato la contrazione dei consumi interni. Le piccole società di rappresentanza sono il ponte tra il cliente e la sede in Corea. La globalizzazione dei mercati ha imposto anche alla media impresa di essere presente direttamente con un proprio ufficio. Le conglomerate come Daewoo, LG, Samsung e le relative divisioni (auto ed elettronica) hanno sedi commerciali e magazzini nell’hinterland al fine di essere più vicini ai mercati italiani ed evadere con tempestività ordini e richieste. Infine, come vedremo meglio successivamente, in Italia esiste soltanto 1 transplant 4 della Chong Kun Dang, un’impresa che opera nel settore chimico producendo antibiotici e vaccini. La mancanza di fabbriche coreane nel nostro Paese è un esempio estremo di una generale riluttanza, condivisa soprattutto dalle multinazionali giapponesi: come sottolinea Abo (1994) il top management giapponese si trova costretto ad affrontare il dilemma se arrestare la costruzione all’estero di nuovi plants (per la difficoltà di riprodurre la cultura d’impresa giapponese) e quindi rinunciare alla presenza sui mercati locali, oppure proseguire sulla strada della globalizazione e accettare l’inevitabile snaturamento (definito dall’autore ibridazione) del loro modello aziendale. 5. Valori e schemi culturali della società coreana Per capire il divario tra la cultura locale e quella coreana e per comprendere il tipo di problemi che il multiculturalismo pone all’interno delle aziende, ci sembra utile fornire un quadro dei valori e delle norme che caratterizzano la cultura coreana. 3 Nella capitale risiedono oltre 10 milioni di persone, poco meno di un quarto dell’intera popolazione della Corea del Sud. 4 Con questo termine si intende “un’unità produttiva dislocata dalle multinazionali in varie parti del mondo sia per avvicinarsi ai mercati locali sia per approfittare dei vantaggi differenziali che una data regione può offrire al processo produttivo” (Botti 1996, 134). 5 5.1. La religione Il caso coreano è particolarmente interessante perché rappresenta contemporaneamente una smentita e una conferma della teoria weberiana sulla nascita del capitalismo. Com’è noto Weber (1904), analizzando il rapporto tra spirito del capitalismo e credenze religiose, inserisce il confucianesimo nella lista delle religioni incompatibili con lo spirito del capitalismo. L’inclinazione del confuciano alla sottomissione, all’armonia, al rispetto dello status quo, all’adesione alle gerarchie patriarcali (fra cui il rispetto per gli anziani) erano secondo Weber qualità lontane dalle caratteristiche che avevano fatto del calvinismo, del puritanesimo e della riforma protestante un terreno favorevole al capitalismo moderno. Invece nell’Asia orientale è avvenuto (sebbene qualche secolo più tardi) l’esatto contrario: il Giappone, la Corea del Sud, la Cina e le cosiddette “Tigri asiatiche” come Taiwan, Singapore, Hong Kong e Thailandia affondano le loro radici nel confucianesimo (ad eccezione della Malaysia che è un paese di religione musulmana) e inoltre sono cresciute, altro aspetto in contraddizione con la teoria weberiana, in un clima autoritario anziché democratico. Per quanto riguarda la Corea del Sud, ad esempio, lo straordinario sviluppo economico e industriale innescatosi all’inizio dalla seconda metà degli anni Sessanta è avvenuto sotto la guida di governi autoritari. Soltanto alla fine degli anni ‘80 si è affermato un regime democratico. Le prime elezioni libere con la conseguente creazione di partiti di opposizione legalmente riconosciuti si sono tenute nel 1992. Inoltre con le elezioni del 1997, vinte da Kim Dae Jung, per la prima volta dopo trent’anni è accaduto che un leader del partito di opposizione divenisse presidente. Contrariamente alle tesi che ipotizzano un legame inscindibile tra democrazia e sviluppo economico, in Corea la crescita è avvenuta all’interno di un modello autoritario delle relazioni sociali. Nonostante ciò Weber non ha del tutto torto, almeno nel caso coreano, dal momento che delle quattro maggiori religioni presenti in Corea del Sud (sciamanesimo, buddismo, confucianesimo e cristianesimo) quella cristiana è la religione attualmente più praticata, nonostante sia stata introdotta soltanto alla fine del ‘700. Inoltre ad avvalorare la tesi weberiana interviene un altro fattore: la maggior parte di coloro che hanno lasciato il loro Paese, per aprire un’attività o seguire un’azienda in Italia, sono in prevalenza evangelici. I buddisti sono una minoranza. Come sottolinea Lee “nel caso della Corea, il buddismo è considerata la religione tradizionale. Il cristianesimo, invece, essendo stato importato dall’occidente, viene associato alla modernità, ai valori occidentali” (1998, 10). 6 La chiesa evangelica coreana milanese 5 svolge anche il ruolo di catalizzatore dell’intera comunità coreana, proponendo iniziative religiose, culturali e sociali a tutti i coreani, al di là delle fedi o religioni di appartenenza. 5.2. Ruoli sociali di genere Il confucianesimo, da sempre ritenuto la religione dominante nei Paesi dell’Est Asia, in realtà non viene considerato dai coreani una vera e propria religione bensì una filosofia di base, una Weltanschauung, che pervade un po’ tutti comportamenti e le aspettative di ruolo. Inoltre le religioni come quella cristiana, più che modificare il sistema dei valori dei suoi membri, si sono innestate nella filosofia confuciana creando un mix culturale in cui nuovo e vecchio hanno trovato un accomodamento. Il modello confuciano, che plasma anche le relazioni lavorative, si fonda su una visione del mondo dove la gerarchia dell’anzianità prevale sia su quella di status che di ruolo. Questo schema mentale, oltre che nelle aziende coreane, è diffuso anche in quelle giapponesi e, in generale nella società nipponica (Nakane 1970). Recenti panel (cfr. Lee 1998) sul mutamento dei valori nella società coreana testimoniano che ancor oggi, nonostante i cambiamenti significativi verso una morale meno tradizionalista, esiste una forte deferenza nei confronti degli adulti: sia nel 1982 che nel 1990, il 90% degli intervistati dichiara che i genitori devono essere comunque sempre rispettati (Lee 1998, 6) e i desideri dei più anziani devono essere seguiti senza discutere. Inoltre le indagini evidenziano un’adesione ai valori autoritari sia da parte dei buddisti che dei cristiani (protestanti e cattolici). Anche i ruoli di genere rimangono confinati all’interno dei principi dettati dal confucianesimo tradizionale, provocando non poche inquietudini e frustrazioni: agli uomini compete il mantenimento economico della famiglia, mentre le donne per sentirsi realizzate devono sposarsi e mettere al mondo figli. Le ricerche sulla qualità della vita (Lee 1998) mettono in luce l’esistenza di un forte contrasto tra la concezione occidentale e quella orientale relativamente ai ruoli di genere. Nonostante la partecipazione femminile 6 abbia dato un’enorme contributo allo sviluppo economico della Corea, il lavoro femminile è ancora fortemente marginalizzato (Cho H(young)1986) e le opportunità di lavoro per le donne sono ancora molto limitate. Inoltre alle persone sposate viene assegnata una rispettabilità maggiore che ai celibi e alle nubili. 5 Attualmente esistono due chiese: una cattolica (con circa 100 praticanti) e una evangelica (con cira 500 praticanti). 6 Nel 1995 le donne rappresentavano più del 48% degli occupati. 7 I conflitti di ruolo all’interno del genere sono molto legati alla tradizione confuciana, che divide nettamente la sfera privata da quella pubblica. Questa tradizione ha però fornito modelli di comportamento soltanto per le donne che vivono in casa in quanto Confucio non prevedeva un ruolo pubblico per la donna. In questo modo, essendo quello precedente al matrimonio il periodo più proficuo per una donna per cercare un impiego, esso è anche il periodo di maggior frustrazione dal momento che non esistono schemi mentali e convenzioni codificate sul comportamento di genere al di fuori della sfera famigliare 7 . La mancanza di queste convenzioni è dovuta anche al fatto che lo stato di nubile era, agli inizi del ‘900, praticamente inesistente (TAB. 3). TAB. 3: Percentuale di donne nubili nella prima metà del XX secolo PAESE Italia (1901) Corea (1901) 25-29 ANNI 30% 1% 45-49 ANNI 11% 0 Fonte: Hajnal (1965) Se il ruoli femminili faticano a cambiare, la recente crisi economica invece sta repentinamente modificando quelli maschili. Le indagini sulla percezione soggettiva delle condizioni di vita (Lee 1998; Lew e Park 1998) mettono in rilievo che, mentre le donne sposate manifestano maggiori livelli di soddisfazione delle nubili, gli uomini sposati si dichiarano meno contenti dei celibi. Infatti il ruolo dell’uomo sposato si trova minacciato su due versanti. Da una parte i crescenti tassi di disoccupazione stanno incrinando lo stereotipo che vede in lui una “macchina per guadagnare” (Ahn 1995); dall’altra nemmeno il ruolo di padre/marito non può trovare espressione nella famiglia perché secondo Confucio essa è il luogo dove domina la figura femminile. Lo sposato, contrariamente al celibe, si trova quindi in crisi su entrambi i fronti: quello pubblico e quello privato. 5.3. Il lavoro Sui luoghi di lavoro (come nelle area della salute, del welfare, della scuola, della cultura e dell’ambiente) la qualità della vita è una delle più basse fra i 25 Paesi dell’OCSE (Lew e Park 1998). Nel 1986, nell’industria manifatturiera, l’orario medio era di quasi 55 ore settimanali, mentre nel 1996 è scesa a 48. Sempre nello stesso anno la crescita economica del 7.1% ha mantenuto la disoccupazione intorno al 2% (nel 1998 invece è salita al 6.7%, la più alta mai vista dall’inizio dell’industrializzazione). La presenza sindacale è in costante calo, mentre quella delle donne sui 7 Dato il tasso di divorzi molto basso (1% nel 1995) alle donne vengono riconosciuti socialmente soltanto 8 luoghi di lavoro è ancora bassa (Lee 1987, 293; Park 1998, 3). Dal punto di vista della percezione soggettiva la soddisfazione sui luoghi di lavoro è bassa specie tra i dipendenti dei settori industriali e agricoli. Lo stress lavorativo è inoltre maggiormente sentito dai professional (ingegneri, disegnatori, informatici, analisti, esperti, progettisti, programmatori, etc.), mentre coloro che sono impiegati nei servizi lamentano una ripetitività nelle mansioni. La richiesta di creatività e di apprendimento costante, e l’autonomia lavorativa sono più alte fra i professional. 6. L’incontro tra culture aziendali Dopo aver delineato i tratti principali della cultura coreana passiamo ora ad affrontare gli aspetti relativi alle interazioni industriali tra coreani e italiani. Come sottolineato nell’introduzione, uno degli effetti della globalizzazione è stato l’incontro tra culture aziendali a volte profondamente diverse. L’incontro può dar esito, idealtipicamente, a tre situazioni: a) il prevalere della cultura provieniente dall’esterno che impone nuovi modi di produzione e organizzazione del lavoro; b) l’ibridazione, cioè il compromesso culturale tra diverse istanze; c) il prevalere della cultura aziendale locale nei confronti di quella straniera. Da tempo gli studiosi delle organizzazioni, in particolare coloro che si rifanno alla tradizione degli “studi organizzativi” e che concepiscono le imprese come culture (Pettigrew 1979; Smirtich 1983a, 1983b; Shein 1984; Ouchi e Wilkins 1985; Gagliardi 1986) hanno sottolineato la necessità di utilizzare il concetto di ‘cultura’ per spiegare processi e comportamenti aziendali finora interpretati con paradigmi razionalistici, ingegneristici ed economici (Morgan 1986). L’importanza delle culture d’impresa è nuovamente riemersa relativamente alle M&A, cioè le fusioni (mergers) tra aziende e le acquisizioni (acquisitions), dove colossi transnazionali si fondono oppure inglobano altre grandi società di settore. Dopo l’iniziale euforia di queste grandi operazioni economico-finanziarie, gli effetti sinergici sperati non si realizzano. Le differenti culture si scontrano frontalmente oppure la cultura aziendale perdente inizia una sotterranea resistenza nel tentativo di non lasciarsi armonizzare. Le lotte ai vertici s’inaspriscono, le gerarchie e le complicazioni amministrative interne aumentano e ritardano i tempi per le decisioni più urgenti, mentre il risanamento delle imprese in difficoltà si fa attendere (Bonanni 1998). Tant’è che negli ultimi anni, come ha osservato Frederic Scherer, il 70% di queste grandi operazioni è risultato pressoché fallimentare. Gli studi organizzativi hanno analizzato appronditamente i conflitti cognitivi e comunicativi che intervengono nelle aziende multiculturali oppure bi-culturali, come nel caso dei transplants giapponesi disseminati nel mondo occidentale (Bonazzi 1995, 1996). Per quanto riguarda l’Italia, i pochi studi empirici pubblicati (Signorelli 1993 e Botti 1996) rilevano che anche il nostro Paese due ruoli: nubile o sposata. 9 non si discosta dalla tendenza generale di una progressiva ibridazione della cultura d’impresa giapponese. Inoltre, nonostante molte riserve, le imprese giapponesi proseguono nel processo di localizzazione della produzione sia in Europa che in Italia. Diversamente dai giapponesi (che nel 1992 ne avevano 47) attualmente in Italia esiste soltanto 1 transplant coreano che opera nel settore chimico producendo antibiotici e vaccini. Eppure i coreani hanno costruito (o rilevato) impianti in Spagna, Portogallo, Francia, Germania, Inghilterra, Irlanda, Polonia, Romania e in altri paesi europei. Le ragioni di questo mancato “impegno” sono prevalentemente economiche e culturali. Per quanto concerne i fattori economici, espressi nelle interviste, nel nostro Paese “il costo del lavoro è 1,5/1,6 volte più alto che in altri Paesi”. Al contrario il Regno Unito è considerato il Paese dove vengono ammortizzati più in fretta gli investimenti. L’Italia non offre sufficienti incentivi o sgravi fiscali per la collocazione di impianti di produzione. Come commenta un imprenditore: “in Irlanda offrono il terreno gratuito per costruire la fabbrica, fanno pagare meno tasse e il salario dei dipendenti è inizialmente pagato metà dall’azienda e metà dal governo”. In Italia, quando gli incentivi ci sono, non giungono nei tempi concordati mettendo in difficoltà l’azienda (cfr. il caso della Honda di Atessa in Signorelli 1993). Inoltre i servizi offerti dal nostro Paese (burocrazia, infrastrutture, procedure per l’ottenimento di licenze, servizi postali e bancari, etc.) sono ritenuti inferiori agli standard europei. Infine gli scioperi sono un altro elemento che non incentiva un maggior impegno da parte delle aziende coreani. Queste ragioni economiche sono ben note non solo agli operatori ma anche a chi, più semplicemente, sfoglia un quotidiano qualsiasi. Tuttavia non spiegano il motivo per cui i giapponesi si siano “impegnati” in misura molto maggiore dei coreani dato che gli svantaggi economici sono simili per entrambi. Nemmeno il fatto che il Giappone abbia una capacità produttiva superiore a quella coreana fornisce una spiegazione del tutto esaustiva. Infine anche i fattori culturali contribuiscono solo in parte a spiegare questa riluttanza perché dovrebbero incidere allo stesso modo su entrambe le etnie. Il motivo principale del disimpegno coreano sembra più propriamente di tipo psicologico e risiede in un evento molto doloroso che ha segnato, quasi come un imprinting, l’immaginario degli imprenditori coreani: il fallimento della prima joint-venture contrattuale 8 tra coreani e italiani. Come vedremo successivamente (nel paragrafo dedicato all’etica del lavoro) agli inizi degli anni Novanta la Goldstar (ora LG) era entrata come socio di minoranza nell’Iberna, società italiana di elettrodomestici. Dopo una serie di vicissitudini, in cui il divario tra culture d’impresa giocò un 8 Si defiiscono joint ventures contrattuali quelle forme di cooperazione tra imprese che “pur senza dar luogo alla costittuzione di una nuova e distinta società, pongono in essere una serie di rapporti contrattuali, tra loro collegati, volti a regolametnare nel tempo l’andamento della loro collaborazione e gli obiettivi comuni che i partner si attendono” (Bianchi e Saluzzo 1991, 145). 10 ruolo rilevante, i coreani decisero di abbandonare la loro presenza con notevoli perdite sia sul piano finanziario che d’immagine. 7. Interazioni aziendali e risorse umane: come i coreani vedono i dipendenti italiani Precedentemente abbiamo descritto i principali schemi mentali e le convenzioni più diffuse presenti nella società coreana. Un imprenditore, un manager oppure un professional giungono nel nostro paese con quel bagaglio di stereotipi, pregiudizi e convinzioni. Infine le aspettative di ruolo completano il loro corredo cognitivo e comunicativo: “all’inizio ci sono molti problemi perché è una cultura completamente diversa nel modo di vivere, di lavorare, di ragionare... totalmente diversa... allora inizialmente tutti quanti hanno uno shock... poi piano piano si capiscono, si adeguano. Da noi c’è un diverso rapporto tra marito e moglie, i vecchi vengono rispettati, davanti ai genitori si usa un certo linguaggio e soprattutto non si fuma... qui è tutto diverso” (imprenditore). Allo stesso modo l’impatto con le culture aziendali presenti nelle imprese italiane non è facile. Dalle interviste emergono tre aree di tensione: l’etica del lavoro, il linguaggio e la comunicazione nonverbale. 7.1. Etica del lavoro. Gli imprenditori coreani notano nei dipendenti italiani uno “scarso attaccamento” aziendale. Secondo gli imprenditori i dipendenti dovrebbero “sacrificare di più la propria vita per l’azienda”. Uno di loro sottolinea in modo particolare: “noi viviamo per lavorare mentre gli italiani lavorano per vivere. Per noi il lavoro è la prima priorità... il lavoro è sacrosanto, può rappresentare tutta la vita. Noi siamo un paese in transizione, economicamente più arretrato del vostro per cui pensiamo solo a lavorare e c’è poco spazio per il privato. In Italia invece la vita privata è più importante del lavoro” (imprenditore). Gli imprenditori e i direttori intervistati raccontano diversi eventi che possono essere considerati come degli indicatori del concetto di “scarso attaccamento” all’azienda e al lavoro. Allo stesso tempo questi indicatori rappresentano delle componenti stabili delle loro mappe cognitive. Il primo indicatore sono le assenze per malattia e le ferie: “da noi un’influenza dura 2-3 giorni (dice un direttore) qui se uno prende l’influenza sta a casa dai 3 ai 6 giorni!” 9 . Inoltre la legislazione coreana aggancia i giorni di malattia ai giorni spettanti per ferie. Per contratto un dipendente ha diritto a 12 giorni di ferie da sommarsi a un 1 giorno di ferie per ogni anno di lavoro passato nella stessa azienda. Se però si ammala, i giorni di assenza dal lavoro vengono 9 Come parallelo è interessante notare come in Giappone le persone nei mezzi pubblici calzano una mascherina al viso per non trasmettere l’influenza agli altri passeggeri. 11 recuperati (da parte dell’azienda) scalandoli dalle ferie. Quindi il diritto, previsto dal contratto italiano, a 24 giorni di ferie (dopo il primo anno di lavoro) ai coreani appare come una concessione esagerata. Un secondo indicatore è rappresentato dal grado di apprensione per il posto di lavoro, considerato poco elevato: “qui non sono molto preoccupati per il fallimento dell’azienda perché in ogni caso c’è la cassa integrazione (formula non prevista in Corea) ... quando siamo subentrati nel ‘94 questa azienda aveva un grosso deficit. A quel tempo 48 dipendenti erano troppi per il fatturato che avevamo... non potendo licenziare perché in Italia non si può 10 , abbiamo chiesto collaborazione ai dipendenti (operai, tecnici, quadri) per rientrare in tempi brevi dal deficit anche perché eravamo molto preoccupati di non farcela... abbiamo proposto, a seconda dei casi, di abbassare il salario per un periodo di tempo ... i sindacati e il personale hanno detto che non si poteva fare per cui abbiamo impiegato tre anni per raggiungere la parità di bilancio e avremo bisogno di ancora altro tempo per rientrare definitivamente dal debito. Sono così saltati tutti i tempi preventivati quando abbiamo preso in mano l’azienda” (direttore generale). Un terzo aspetto riguarda il concetto di responsabilità. Secondo i coreani gli italiani “non si prendono mai la responsabilità”. Con questa espressione essi indicano la tendenza del dipendente italiano a rimanere rigidamente confinato nelle proprie mansioni. Questo rilievo si inserisce in una fenomeno più vasto: la difficoltà di passare da una concezione tayloristica del lavoro, incentrata sulla netta distinzione delle funzioni e delle mansioni, a una concezione più dinamica imperniata sul concetto di responsabilità in cui si chiede al soggetto di prendersi cura di tutto ciò che “arriva dalla sua parte”, di occuparsi globalmente dei problemi che incontra nello svolgimento del suo ruolo, sia che faccia la centralinista, l’addetto alla manutenzione di una macchina o il direttore del personale. Il concetto di responsabilità, nella cultura aziendale coreana, racchiude anche un altro aspetto ben sottolineato nelle parole di un altro imprenditore: “gli italiani non riconoscono mai i propri errori, non li ammettono mai... sono sempre i coreani che sbagliano!”. Infine responsabilità significa anche anteporre le priorità lavorative a quelle personali: “un coreano lavora anche fino alle nove di sera finché non ha finito il lavoro... qui invece alle cinque vanno a casa” nonostante la pratica non sia ancora terminata... “gli italiani sono puntuali solo per andare a casa” (manager). Parallelamente i coreani considerano l’individualismo una componenti fondamentale del carattere italico: 10 Un oggetto particolarmente oscuro per gli imprenditori coreani è la legislazione italiana sulle assunzioni e i licenziamenti, con particolare riferimento al concetto di “giusta causa”. Nelle interviste essi hanno raccontato diversi casi di assenteismo, incapacità lavorativa, comportamenti giudicati non corretti, a cui non hanno potuto opporre nulla. 12 “gli impiegati italiani sono più individuali... sempre io... il punto di vista è sempre il mio... cosa succede a me, cosa accadrà a me, cosa è favorevole a me. Anche i coreani sono un po’ così ma la percentuale è molto più alta tra gli italiani” (imprenditore). Infine un’altra qualità che i manager coreani vorrebbero maggiormente sviluppata nei dipendenti italiani è una “maggior attenzione nei confronti dei clienti”. L’etica del lavoro viene considerata uno dei principali fattori che ha causato il primo grande fallimento degli investimenti coreani in Italia che pare aver profondamente segnato l’imprenditoria coreana. Lo si evince chiaramente dal racconto degli imprenditori: “Qualche anno fa la Goldstar aveva creato una joint-venture con l’Iberna, che produceva frigoriferi vicino a Caserta. Dopo qualche tempo l’Iberna scorrettamente si ritira e la Goldstar deve decidere se ritirarsi anche lei, perdendo però tutti i capitali investiti, oppure comperare anche la quota di maggioranza dell’Iberna. Noi decidiamo di comperare e continuiamo a far funzionare la fabbrica. Le cose però non vanno bene perché prima di tutto il marchio non convinceva... nessuno credeva che un frigorifero made in Naples fosse un prodotto di qualità... poi ci sono stati diversi problemi: il management coreano e quello italiano non erano mai d’accordo; quando c’erano degli sbagli la colpa era sempre nostra; gli operai italiani non seguivano i metodi di lavoro che noi insegnavano... non capivano; poi c’era tanto assenteismo: loro non vogliono lavorare ma solo passare il tempo e poi guadagnare... e anche minacce alla sera (cioè fuori dalla fabbrica) a chi gridava durante il giorno (cioè i capireparto coreani)... così alla fine la produzione era così bassa che abbiamo chiuso la fabbrica”. Questi eventi (insieme a ragioni più prettamente economiche) spiegano la riluttanza, recentemente riproposta dal mancato accordo tra Ansaldo e Daewoo, delle imprese coreane ad aprire fabbriche in Italia. Riluttanza di gran lunga maggiore che nelle imprese giapponesi. 7.2. La comunicazione verbale. Uno degli ostacoli alla comunicazione interculturale, come sottolinea Barna (1994), è rappresentato dalle differenze linguistiche. Esse rendono difficile l’uso di metafore, analogie, eufemismi, sfumature, che sono l’asse portante di una lingua. Le lingue usate dagli imprenditori e dai i tecnici coreani, per comunicare con i propri dipendenti oppure con i consulenti, sono principalmente due: l’italiano e l’inglese. Nelle piccole imprese prevale l’italiano 11 mentre nelle altre è maggiormente usato l’inglese 12 . Nel primo caso le incomprensioni linguistiche sono ridotte anche se non del tutto annullate; non solo perché il loro italiano non è sempre facilmente comprensibile ma perché le espressioni linguistiche racchiudono modi di pensare che non sono immediatamente percepibili dal dipendente. 11 Contrariamente ai giapponesi che non imparano l’italiano, non si integrano nelle comunità locale e sviluppano rapporti esclusivamente tra connazionali anche durante il tempo libero, i coreani mostrano una maggiore flessibilità mentale e adattabilità. 13 Quando la comunicazione si svolge in inglese le difficoltà risultano letteralmente quadruplicate. Oltre alle note carenze dovute al fatto che molti italiani non capiscono l’inglese (e tanto meno il coreano) e che i coreani (inseriti nelle aziende più grandi) non comprendono l’italiano, abbiamo due ulteriori difficoltà: da una parte gli italiani parlano male l’inglese, dall’altra anche i coreani non lo parlano bene, specialmente per un problema di pronuncia essendo la lingua coreana di origine uralo-altaica, quindi foneticamente molto lontana da quelle indoeuropee. In queste aziende il direttore comunica in inglese con una ristretta cerchia di collaboratori italiani a lui più vicini, i quali poi traducono i messaggi ai loro subalterni. Inoltre egli richiede ai dipendenti “messaggi scritti in stampatello perché i corsivi sono sempre di difficile lettura”. Allo stesso modo, non essendo l’inglese molto conosciuto in Corea, gli italiani hanno difficoltà a comunicare in inglese con la sede coreana. A tal fine nelle uffici commerciali italiani ci sono équipe composte da 4/5 coreani che fungono da interfaccia con la casa-madre in Corea. Queste procedure introducono inevitabilmente lungaggini, ridondanza di informazioni e incomprensioni. 7.3. La comunicazione nonverbale I lavori dell’antropologo Hall (1959, 1976), degli psicolinguisti Miller (1973), Belluggi e Brown (1964), del sociologo Cicourel (1968), degli psicologi Ricci Bitti e Zani (1983) hanno messo in luce come la maggior parte delle informazioni scambiate in un’interazione faccia-a-faccia vengano veicolate attraverso il canale nonverbale. Questo vale particolarmente per gli orientali che nella conversazione fanno largo uso del silenzio sotto forma di lunghe pause. Il silenzio è un’azione fondamentale della vita quotidiana di un coreano. Ad esempio non è educato parlare troppo durante il pasto. Peraltro in questa circostanza soffiarsi il naso è segno di maleducazione oppure di non rispetto verso i commensali. Nella cultura latina, invece, la pausa viene vissuta con imbarazzo, come un comportamento che precede una sanzione oppure come un vuoto da riempire al più presto come se la conversazione stesse languendo. Nasce spontaneo quindi, per un italiano, rubare il turno all’interlocutore che compie una pausa. Questo tentativo di gestire le situazioni di imbarazzo sociale, di “salvare la faccia” del nostro interlocutore (Goffman 1956), di mostrare partecipazione, viene vissuto dagli orientali come un comportamento aggressivo. A tal proposito, gli intervistati sono concordi e lapidari: “agli italiani piace parlare molto e ascoltare poco... sono impazienti” oppure “in Italia tanti parlano... in Corea tanti scrivono”. 12 La maggior confidenza con la lingua inglese è una delle ragioni che spinge le multinazionali coreane a 14 In generale i coreani non apprezzano un comportamento eccessivamente espansivo. Come già Hall (1959) aveva indicato nel concetto di ‘distanza personale’ proprio di ogni cultura, nelle conversazioni i coreani limitano il contatto fisico diretto a una cortese stretta di mano. Per loro è molto importante salutare e ringraziare. In Corea entrambe le azioni vengono accompagnate da un lieve cenno della testa e la profondità dell’inchino dipende dalla differenza d’età degli interlocutori. La sfera prossemica della distanza personale (il space body bubble), essendo quella più influenzata dalla differenze culturali, è quindi maggiormente soggetta a controversie e incomprensioni. 8. Interazioni aziendali e risorse umane: come i dipendenti italiani vedono il management coreano. Come tutte le multinazionali anche le conglomerate coreane si stanno attrezzando per affrontare le conseguenze che la globalizzazione pone alle risorse umane e alle identità personali. In particolare le aziende sono impegnate nel dotare i propri dipendenti di schemi cognitivi e competenze comunicative che li rendano capaci di interagire con le altre culture. Come osserva il direttore della sede italiana di una multinazionale: “dal momento che i progetti che sviluppiamo non vengono realizzati in un unico luogo ma un pezzo viene fatto in paese, un altro pezzo in un altro ancora... oggigiorno un ingegnere deve saper dialogare con il suo collega greco piuttosto che turco... devono collaborare perché i pezzi realizzati vanno poi a integrarsi, e se non si sono capiti prima, poi è un disastro... buttiamo via tempo, denaro e perdiamo competitività”. A tal proposito l’inchiesta di Hofstede (1990), che ha confrontato un centinaio di culture nazionali raccogliendo 20.000 questionari rispetto a cinque proprietà, mette in luce differenze significative tra italiani e coreani. PDI Distanza gerarchica ITALIA COREA del Sud 50 13 60 IND MAS WAI Individualismo Rapporto Mascolinità vs. vs. con il tempo femminilità collettivismo 76 18 70 39 75 85 CDI Mancanza vs. eccesso di regole 85 75 Per comprendere le difficoltà e gli ostacoli che sorgono nella comunicazione multiculturale è quindi opportuno ricostruire anche gli schemi mentali che i dipendenti utilizzano per classificare, costruire transplant preferibilmente in Inghilterra, Irlanda e USA. 13 L’ampiezza della scala numerica usata da Hofstede per “misurare” gli stati degli intervistati sulle cinque proprietà è di 100 unità. 15 codificare, riconoscere, interpretare il comportamento e i discorsi della direzione. Intervistando i dipendenti italiani emergono principalmente due argomenti di tensione: il carattere dei datori di lavoro e la loro etica lavorativa. 8.1. Il carattere coreano I dipendenti italiani considerano i coreani come delle persone “testarde”, difficili da convincere e persuadere. Come sottolinea un dipendente: “sono duri... finché non battono la testa non si convincono che stanno sbagliando”. Il pregiudizio della testardaggine, come ogni pregiudizio (Rokeach 1960, Tajfel 1969, Allport 1973), diviene allo stesso tempo totalizzante e de-contestualizzato. Esso si trasforma in uno schema interpretativo che viene usato in tutte le situazioni; inoltre, pur nascendo in una situazione particolare, viene presto trasferito a contesti del tutto differenti. Analogamente accade per la credenza che “i coreani sono diffidenti”. I silenzi e le pause (cfr. la comunicazione nonverbale nel paragrafo precedente) così come il guardare fisso l’interlocutore durante la conversazione (“ti scrutano” dice una dipendente) vengono interpretati come segni di diffidenza. A tal proposito un direttore coreano racconta un episodio illuminante: “io sono un ingegnere, mi occupo dei processi di lavorazione, dei metodi di produzione e non so nulla di contabilità e amministrazione. Quindi quando insieme al ragioniere analizziamo i bilanci... io, proprio perché non me ne intendo, chiedo molti cose, particolari che per il ragioniere sono cose normali... lui si insospettisce e pensa che gli faccia dei trabocchetti, che lo stia controllando, che non mi fidi di lui”. Il ragioniere, in difficoltà nell’esplicitare le sue conoscenze tacite relative alla procedure di contabilità o di previsione, interpreta queste domande ovvie come segnali di diffidenza nei confronti del suo operato. Un altro schema mentale diffuso tra i dipendenti italiani, e sviluppatosi in seguito alla crisi finanziaria coreana che ha avuto effetti anche sulle aziende locali, considera i coreani come soggetti poco dotati di capacità predittiva. A questo proposito una dipendente intervistata ne sottolinea l’aspetto consumistico: “loro sono dei spendaccioni... sono sempre ben vestiti, hanno macchine di lusso e finiscono per fare il passo più lungo della gamba..... vivono al di sopra delle loro possibilità.... vanno a vivere a Milano 3 dove tutto è carissimo mentre potrebbero benissimo abitare in un’altra zona di Milano; ma siccome Milano 3 fa status loro ci vanno”. In campo più prettamente amministrativo vengono poi notati diversi comportamenti: “i coreani (dice un contabile) pensano solo a produrre, a guadagnare in fretta... guardano solo ad accrescere il fatturato senza rendersi conto che utili e fatturato non sono necessariamente correlati”. 16 Questo rilievo viene mosso anche da un’altra contabile: “quando c’è un aumento della domanda i coreani tendono a farvi fronte assumendo nuovo personale. Non si rendono conto che questo diventerà un costo fisso per l’azienda che peserà sui bilanci soprattutto quando avremo un calo della domanda... in Italia non si può assumere e licenziare a seconda della domanda e loro fanno fatica a capirlo... a volte sono proprio poco previdenti perché potevano cogliere i segnali che ci sarebbe stata una crisi... ma loro continuano ad assumere anche se le previsioni sono incerte”. Da questi commenti si può desumere che le diverse analisi economiche nascono da una differente concezione del futuro 14 . Gli imprenditori coreani (che sono per la maggior parte di religione evangelica), forse in conformità al concetto di ascesi intramondana messo in luce da Weber (1904), concepiscono il futuro come una risorsa, come il luogo per l’affermazione. Il futuro è uno spazio per la crescita e il progresso. In generale gli italiani, e le giovani generazioni in particolare (cfr. Cavalli e de Lillo 1993, Leccardi 1996), invece considerano il futuro come un vincolo, un periodo di incertezza e insicurezza, come uno spazio temporale molto ravvicinato anziché un vuoto da colmare, modellare e soprattutto programmare per tempo. 8.2. Etica del lavoro I diversi modi di ragionare e di agire si acuiscono se confrontiamo le differenti etiche lavorative. I dipendenti italiani sono concordi nel ritenere che i coreani “hanno una diversa concezione del lavoro... loro si buttano, sono ambiziosi e lo trasmettono... hanno una capacità di contagiare l’azienda”. Gli imprenditori, il management e i professional coreani vengono considerati “grandi lavoratori, molto disciplinati”. Queste caratteristiche non vengono però sempre vissute positivamente dal personale italiano. Dichiara un’impiegata: “sono molto precisi fino all’esagerazione... pretendono molto dalle persone... non sono mai contenti del lavoro che una persona svolge... chiedono sempre di più”. Il modello confuciano di concepire il lavoro e le relazioni sociali assume nell’immaginario dei dipendenti una valenza ben diversa dalle intenzioni dei coreani, portando così a profondi fraintendimenti. Infatti le richieste della direzione vengono considerate frutto di una “concezione schiavistica del lavoro” e i modelli interazionali basati sul rispetto degli anziani e dei superiori sono classificati come “servilismo”. Questo produce inevitabilmente un radicale contrasto difficilmente sanabile, come hanno già rilevato gli studi sui transplant giapponesi in Europa e Usa. Consapevoli di queste difficoltà i manager coreani avevano tentato in precedenza di percorrere altre strade: 14 Ringrazio Anna Lisa Tota per il suggerimento. 17 “ci siamo chiesti, racconta un imprenditore, come potevano organizzare il lavoro nelle fabbriche in modo diverso dai giapponesi. Il loro modello è quello del watch-dog, cioè mettere un giapponese a controllare se gli operai fanno giusto. Noi abbiamo provato a dare responsabilità, a discutere assieme le decisioni ma il fallimento dell’Iberna ci ha fatto molto riflettere se questo sia mai possibile”. 9. Considerazioni finali In passato diversi economisti hanno teorizzato che la globalizzazione conduce ineluttabilmente a una generale omogeneizzazione nei modi di produrre e consumare (Levitt 1983, Ohmae 1991, Latouche 1998) e, di conseguenza a un appiattimento delle differenze. Secondo questi teorici il mondo verrebbe popolato da “prodotti globali”, “attori globali” e “clienti globali”. Altri autori, invece, hanno sottolineato il prevalere di un progressivo dualismo tra globalizzazione e regionalizzazione sia in campo economico (Bartelett e Ghoshal 1987, Veltz 1996, Martelli 1997, Nacamulli 1998), politico (Bell 1973) e culturale (Giddens 1990; Hannerz 1992). Altri ancora, come lo psicologo Bergquist (1994), hanno sostenuto che nell’epoca della globalizzazione i fenomeni che si manifestano localmente possono avere un forte impatto sull’intero sistema. Proprio perché nell’epoca della globalizzazione il tempo e lo spazio diventano simultanei (Giddens 1994, 4), un piccolo evento locale può esercitare un impatto inaspettato a livello mondiale 15 . Lo studio delle aziende coreane in Lombardia rivela, ancora una volta, l’eccessivo ottimismo delle teorie dell’omogeneizzazione: in nessuna delle aziende contattate sono state relevate casi in cui la cultura d’impresa coreana si sia imposta su quella italiana. Le situazioni invece oscillano tra una diffusa ibridazione (i casi più frequenti) e il prevalere della cultura aziendale locale su quella proveniente dall’esterno (il caso Iberna) affermando ripetutamente l’ineludibilità del tema delle culture d’impresa anche se esso rischia di essere nuovamente frainteso. Se in passato le dimensioni culturali dell’organizzazione del lavoro sono state a lungo marginalizzate 16 dagli approcci ingegneristici 15 Bergquist (1994) parla di “effetto farfalla”, termine introdotto per la prima volta dai metereologi per descrivere gli sconvolgimenti atmosferici provocato da El Niño, una variazione nella circolazione delle correnti dell’Oceano Pacifico che si manifesta ogni 4-7 anni. In questo caso il riscaldamento di una relativamente piccola massa di acqua al largo della Costa Occidentale dell’America Centrale provoca effetti (disatrosi) in regioni anche molto lontane dal luogo dove il fenomeno è originato. La metafora richiama l’immagine del battito d’ali della farfalla, un’azione quasi impercettibile che invece può influenzare il mondo circostante. 16 In questi approcci la cultura era identificata principalmente con il carattere nazionale, per cui era considerata una costante, una sorta di prerequisito universale e necessario di ogni contesto, anziché una variabile del mondo imprenditoriale. In questo modo sono state trascurate le diverse culture organizzative presenti in una stessa azienda, tra i suoi reparti o all’interno delle medesime categorie professionali (Gherardi 1990) 18 ed economici (Morgan 1986), attualmente gli stessi approcci considerano la cultura come un ostacolo, un inciampo alle innovazioni e alla realizzazione di nuove forme organizzative. Ma dato che tutte le organizzazioni sono dotate “naturalmente” di una cultura, considerarla banalmente come un impedimento significa fraintenderne il ruolo e negarsi la possibilità di pensarla come una risorsa per il miglioramento delle performance aziendali. Bibliografia Abo, T. (1994), a cura di, Hybrid Factory. The Japanise Production System in the United States, Oxford University Press. Ahn, B. (1995) The College Admission and the Family: Centering on the Role of the Father, in Korean Journal, 35(2): 74-88. Allport, Gordon W. (1973), tr. it. La natura del pregiudizio, La Nuova Italia, Firenze. Axford, B. (1995) The Global System. Economics, Politics and Culture, Polity Press, Cambridge. Barba La Ray, (1994) Strumbling Blocks in Intercultural Communication, in L.A. Samovar e R.E. Porter, Intercultural Communication, Belmont (CA), Wadsworth. Bartelett, C.A. e Ghoshal, S. (1987) Managing Across Borders: New Strategic Requirements, in Sloan Mangement Review, 1987 (estate) Bell, Daniel (1973) The Coming of Post-Industrial Society: A Venture in Social Forecasting, Heinemann, London. Belluggi, Ursula e Brown Roger (1964), The Acquisition of Language, Monograph of the Society for the Child Development, 29, 1. Bergquist, W. (1994), L’organizzazione postmoderna, Baldini & Castoldi, Milano. Bianchi, M. e Saluzzo, D. (1991) I contratti internazionali, in Centro Estero Camere Commercio Piemontesi (a cura di), Guida al commercio internazionale, Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano. Bonanni, Andreina (1998) Europa, sale la febbre delle acquisizioni, in Espansione, 9, 50-3. Bonazzi, Giuseppe (1995), La scoperta del modello giapponese: processi cognitivi nella sociologia europea e americana, in Bacharach S.B, Gagliardi P. e Mundell B. (a cura di), Il pensiero organizzativo europeo, Guerini e Associati, Milano. ------- (1996), Nuovi sviluppi del dibattito sul modello giapponese, Rassegna Italiana di Sociologia, XXXVII, 1, pp. 169-76. Botti, Hope (1996), «Doni malintesi. Aspettative asimmetriche in un transplant giapponese in Italia», Rassegna Italiana di Sociologia, XXXVII, 1, pp. 133167. 19 Cavalli, Alessandro e de Lillo, Antonio (1993), Giovani anni 90. Terzo rapporto Iard condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna. sulla Cho, H(aejeong) (1986), Male Dominance and Mother Power: The Two Sides of Confucian Patriarchy in Korea, in W.H. Slote (a cura di), The Psycho-Cultural Dynamics of the Confucian Family: Past and Present, International Cultural Society of Korea. Cho, H(young) (1986), Labor Force Partecipation of Women in Korea, in Chung Sei-wha (a cura di), Challenges for Women: Women’s Studies in Korea, Seul, Ewha Womans University Press. Cicourel, Aaron V. (1968), L’acquisizione della struttura sociale, Rassegna Italiana di Sociologia, IX, 2, pp. 211-58. Gagliardi, Pasquale (1986), (a cura di) Le imprese come culture, Torino, Isedi. Gherardi, Silvia (1990), Le micro-decisioni nelle organizzazioni, Il Mulino, Bologna. Giddens, Anthony (1990) The Consequences of Modernity, Polity Press, Cambridge. -------------- (1994) Beyond Left and Right, Polity Press, Cambridge. Goffman, Erving (1956), Embarrassment and Social Organization, in “American Journal of Sociology”, LXII, 3, 264-274, trad. it. Imbarazzo e organizzazione sociale', in `Modelli di interazione sociale, Bologna: Il Mulino, 1971. Goldthorpe, J.E. (1984), The Sociology of the Third World: Disparity and Development, Cambridge University Press, Cambridge. Hajnal, John (1965), tr. it. Modelli europei di matrimonio in prospettiva, in Barbagli M., Famiglia e mutamento sociale, Il Mulino, Bologna, pp. 267-316. Hall, Edward T. (1959) The Silent Language, Doubleday & Company, Garden City, N.Y. ---------- (1976) Beyond Culture, Anchor Press/Doubleday, Garden City, N.Y. Hannerz, U. (1992) Cultural Complexity. Studies in the Social Organization of Meaning, Columbia University Press, New York. Hofstede, G., Nevijen B., Daval Ohavy D. e Sanders G. (1990), Measuring organizational cultures:a qualitative and quantitative study across twenty cases, Administrative Science Quarterly, 35, pp. 286-316. ---------- (1991), Cultures and Organizations: Software of the Mind, London, Mc Graw-Hill. Kubalkova, V. e Cruickshank, A.A. (1981) International Inequality, Croom Helm, London. Latouche, S. (1998) Il mondo ridotto a mercato, Edizioni Lavoro, Roma. Leccardi, Carmen (1996), Futuro breve. Le giovani donne e il futuro, Rosenberg & Sellier, Torino. 20 Lee, Hyun-Song (1997) Objective Aspects of Quality Life of Korea, in Journal of Korean Sociology, vol. 31, Summer, 269-301. Lee, Suni (1998) Marital Status, Gender, and the Subjective Quality of Life in Korea, paper presentato al XIV Congresso Mondiale della ISA, 26 luglio - 1 agosto. Levitt, Theodor (1983) The globalization of markets, in Harvard Business Review, maggio-giugno. Lew, Seok-Choon e Park, Hae-Kwang (1998) Economic Development, Housing Standard, and Quality of Life in S. Korea, paper presentato al XIV Congresso Mondiale dell’ISA, 26 luglio - 1 agosto. Martelli, A. (1997) Il mondo nel 2010. Le mappe del cambiamento, Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano. Melucci, Alberto (1995) Individualisation and Globalisation: New Frontiers for Collective Action and Personal Identity, Hitotsubashi Journal of Social Studies, 27 (August), pp. 129-42. ------ (1996), Individual Experience and Global Issues in a Planetary Society, Social Science Information, 35, 3, 485-509. Merton, Robert K. (1949), Social Theory and Social Structure, The Free Press, Glencoe, Ill. Miller George A. (1973), Nonverbal Communication, Communication, Language, and Meaning, Basic Book. Morgan, Gareth (1986) Images of Organization, Sage, London, tr. it. Images. Le metafore dell’organizzazione, Angeli, Milano. Nacamulli, R. C. D. (1998) Il giardiniere di Ohmae, in Sviluppo e Organizzazione, n. 168, (luglio-agosto). Nakane, Chie (1970), tr. it. La società giapponese, Cortina, Milano, 1992. Ohmae K. (1991) Il mondo senza confini. Lezioni di management nella nuova logica del mercato, Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano. Ouchi, WilliamG. e Wilkins Alan L. (1985), Organizational culture, Annual Review of Sociology, 11, pp. 457-83. Park, Joon-Shik (1996) Politics of Production and Workplace Democracy, Seoul: Hanul. ----------(1998) Work and Quality of Life in the Perception of the Korean People: Focusing on the differences among occupational Groups, paper presentato al XIV Congresso Mondiale dell’ISA, 26 luglio - 1 agosto. Pettigrew, Andrew M. (1979), On studying organizational cultures, Administrative Science Quarterly, 24, 570-581. 21 Ricci Bitti, Pio E. e Zani, Bruna (1983), La omunicazione come processo sociale, Il Mulino, Bologna. Rokeach, M. (1960), The open and the closed mind, Basic Book, New Nork. Signorelli , Adriana (1993), Un caso di ibridazione del modello giapponese: lo stabilimento Honda in Italia, Sociologia del lavoro, 51-2, pp. 160-85. Shein, Edgar H. (1984), «Coming to a New Awareness of Organizational Culture», Sloan Management Review, 25, 4, pp. 3-16. Smirtich, Linda (1983a), «Concepts of cultures and organizational analysis», Administrative Science Quarterly, 28, pp. 339-358. --------(1983b), Studying organizations as cultures, in G. Morgan (a cura di), Beyond Method, Newbury Park, Sage. Stavrianos, L.S. (1981), Global Rift: The Third World Comes of Age, Marrow, New York. Tajfel, Henri (1969), «Cognitive Aspects of Prejudice», Journal of Social Issues, 25, pp. 27-79. Thomas, W. I. e Thomas D. S. (1928), The Child in America, Knopf, New York. Veltz, P. (1996) Mondialisation, Villes et Territoires. L’économie d’Archipel, Presses Universitaires de France, Paris. Wallerstein, Immanuel (1979) The Capitalist World Economy, Academic Press, San Diego, tr. it. Il sistema mondo dell'economia moderna, Il Mulino, Bologna, 1982. Warren, Bill (1981), Imperialism: Pioneer of Capitalism, Verso, London. Weber, M. (1904), Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus in Gesammelle Aufsätze zur Religionssoziologie, tr. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze, 1945. 22