Leggi il primo capitolo

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La mia vita carnale
A Paola, Nicola Giordano
e Pietro Trancredi.
(Meglio sarebbe stato se avessi
avuto un figlio per ogni libro.)
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Quasi una premessa
«Nessuno mi conosce per quel che sono,
tutti credono che il mio libertinaggio mi sminuisca,
mentre esso mi serve ad avere ancora più sete della mia arte.»
Gabriele d’Annunzio a Aélis Mazoyer, il 24 giugno 1929
La citazione non permette dubbi sulla volontà di d’Annunzio
che la sua vita venisse conosciuta intera. Per questo ci ha lasciato il Vittoriale e per questo si compiaceva che Aélis, la donna che più di tutte e più a lungo assistette alle sue imprese erotiche, tenesse un diario.
Che si raccontino anche le sue cadute – le manie, la droga –
può sembrare irrispettoso, ma non credo lo sia, e certo non è mia
intenzione. Perché lui, che non aveva il concetto di vizio né tanto
meno quello di peccato, anche dei suoi «vizi» e dei suoi «peccati»
volle fare, come di tutta la sua vita, «un’opera d’arte». Raccontarlo, al di fuori della leggenda, è un modo per rendergli omaggio.
Le lettere di Gabriele d’Annunzio a Eleonora Duse sono andate perdute, però se ne è salvata una del 17 luglio 1904, poco tempo dopo la fine della relazione: «Il bisogno imperioso della vita
violenta – della vita carnale, del piacere, del pericolo fisico, dell’allegrezza – mi hanno tratto lontano. E tu – che talvolta ti sei commossa fino alle lacrime dinanzi a un mio movimento istintivo come
ti commuovi dinanzi alla fame di un animale o dinanzi allo sforzo
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d’una pianta per superare un muro triste – tu puoi farmi onta di
questo bisogno?». La risposta gli giunge pochi giorni dopo: «Non
ti difendere, figlio, perché io non ti accuso. Così è. Così sia». E se
lei conclude con una domanda retorica – «Quale amore potrai tu
trovare, degno e profondo, che vive solo di gaudio?» – lui proseguirà imperterrito con il suo bisogno «della vita violenta, della vita
carnale, del piacere, del pericolo fisico, dell’allegrezza».
Quanto scrive, Gabriele. E quando non lo fa lui, ci pensano
le sue donne, malate volontarie di grafomania pur di entrare in
sintonia emotiva con il Vate che si è «condannato all’acqua dolce del lago». Ogni giorno d’Annunzio verga decine di messaggi con cui inonda di esigenze, capricci, richieste e confessioni
il variegato esercito di dipendenti e ospiti femminili. Non c’è
minuto di requie, come se il Poeta avesse l’esigenza di fermare il secondo nella sua ordinaria straordinarietà, nel correre di
un’esistenza da sottrarre all’usura del tempo. Per questo, anche
l’intimità va trascritta nel grande libro dove si danno convegno
gli infiniti frammenti di un accumulatore di emozioni. Immortalando ogni scintilla della propria mente, Gabriele racconta le
inquietudini della sua vita interiore, il travaglio e le esigenze
di uno spirito incontinente. Poco importa che i suoi interlocutori non siano degni di lui, per condizione, sensibilità, cultura:
l’atto di scrivere, e insieme descrivere, risponde a un suo indispensabile bisogno.
Ecco perché avventurarsi nell’immenso epistolario di d’Annunzio non comporta alcuna violazione. Da quando ho iniziato a pensarne la vita, ho avuto la certezza che non chiedesse altro agli studiosi destinati a garantirne la memoria. Messaggi, lettere, biglietti
sono una monumentale sezione della sua opera letteraria. Ogni
epistola rappresenta una parte di sé, una tessera del mosaico, un
altro generoso frammento da collazionare accanto alle poesie e ai
romanzi, ma anche a ciascun oggetto che costruisce e insieme custodisce forma e spirito del Vittoriale, ultima, amatissima dimora.
Questo autentico luogo dell’anima pretende di essere esplorato, qui non esistono profanazioni. Il Vittoriale è un tempio aper-
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to, un libro di pietre vive dove le mie titubanze iniziali sono svanite presto e la mia temuta condizione di ospite indesiderato si
è convertita in un sodalizio con l’artefice della casa.
Anno dopo anno, giorno dopo giorno, ho assorbito la sua presenza nei luoghi ora percorsi da migliaia di suoi anonimi adepti
e da milioni di semplici visitatori. Vivendo i suoi spazi, unendo
le confidenze sue e quelle dell’amica-servitrice Aélis, ho potuto
capirlo più a fondo, per poterlo raccontare meglio.
So che non si può conoscere del tutto il labirinto di significati
che è la sua vita, ma piano piano lascio che si srotoli il mio personale filo d’Arianna. L’ambizioso intento è ricavare una più fedele immagine dell’uomo, prima ancora che del genio. E, insieme
alla sua, riscoprire la vita, le gioie e le sofferenze delle donne che
con lui condivisero – per decenni o anche soltanto per poche ore
– l’entusiasmo di essere d’Annunzio.
Vittoriale degli Italiani, Gardone Riviera, 16 gennaio 2013
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Aélis
Aélis è – anche, ma non soprattutto – una generosa dispensatrice di orgasmi eccellenti. Sfoglio l’album delle sue fotografie:
non è bella. La vedo a gambe accavallate su un muretto del Vittoriale, sfoggia un abito candido, calze e scarpette basse bianche,
un’espressione comune, l’occhio fisso sulla macchina. Gabriele
la ritiene elegante, perfino raffinata, benché di origini modeste.
Quando il Poeta la elegge cameriera di fiducia negli anni
dell’«esilio» francese, Amélie Mazoyer ha già alle spalle un’onesta
carriera di guardarobiera dell’impresario teatrale Maurice Schurmann. Siamo nel 1911: lei ha appena ventiquattro anni e pochi,
disordinati studi, ma conosce le voci sulle eccentricità del letterato italiano, protagonista del bel mondo parigino. Viene a sapere che d’Annunzio cerca una guardarobiera per seguirlo nello
Châlet Saint-Dominique, affittato a Arcachon, nel Sud atlantico
della Francia. Lì Gabriele vuole lavorare lontano dalle distrazioni della metropoli.
Convocata il 26 giugno 1911 all’Hotel d’Iéna, dal segretario
Tom Antongini, al cospetto del Vate – che ha il doppio dei suoi
anni – non spiccica parola. Pallida e timida, si sente squadrata
da capo a piedi, arrossisce. Quando d’Annunzio la congeda, le
fa regalare da Antongini un gruzzolo di franchi inaspettato: denaro per i vestiti. La campagnola incerta sarà l’ennesima creatura dell’instancabile pigmalione: l’atteggiamento remissivo della
ragazza rappresenta una garanzia della futura fedeltà e soprattutto di una complice, definitiva acquiescenza.
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Nella villa di Arcachon una frotta di operai allestisce i saloni
tappezzati di verde e illuminati da candele disposte ovunque.
Amélie scopre di avere a disposizione una intera camera da non
spartire con nessuno della servitù. Il trattamento di favore la mette a disagio: impacciata e maldestra, soffre il confronto con la sicurezza degli altri domestici. C’è anche chi ride di lei, come la
cameriera della splendida Nathalie de Goloubeff.
È una contessa russa di stanza a Parigi, sposata a un ricchissimo
nobile conterraneo, appassionato di archeologia e di studi classici,
da cui ha avuto due figli. Donatella – questo il nome ricevuto da
d’Annunzio, che ribattezza tutte le sue donne, come fossero rinate per lui – era da tempo l’amante ufficiale e la favorita del Poeta.
Bella e generosa, colta e disinibita nei comportamenti mondani,
neanche il più celebrato scultore del tempo, Auguste Rodin, aveva resistito al suo fascino, chiedendole di posare come modella.
Per Amélie è un’atmosfera eccitante quanto nuova. Oltre ai
vestiti, le vengono proposte ciprie e essenze originali. Viene
sottoposta, malleabile e docile come la desidera il Signore, alle
estenuanti prove di una modella prima della sfilata: indossa un
vestito, poi un altro, sperimenta un’acconciatura, prova bluse
di colore diverso, sete, velluti, collane di perle e cappelli. Capisce che il primo grado del proprio apprendistato consiste nel cominciare a cambiare.
Gli indizi di ciò che l’aspetta non mancano, a partire dagli «innumerevoli fazzoletti trovati nel letto, senza avere la minima idea
del loro uso». Al ritorno da una trasferta di tre giorni, d’Annunzio la convoca nella propria stanza:
«Come, vi siete messa una blusa bianca?»
Poi, avvicinatosi, mi attirò d’improvviso a sé per baciarmi. Rimasi così confusa che subito gli chiesi se mi avrebbe licenziato.
«Ma no, sarà proprio il contrario.»
Scese a parlare con il suo segretario, ordinandomi:
«Dopo venite ad aiutarmi a vestirmi, devo montare a cavallo.»
Quanto attesero i cavalli, quel pomeriggio! Comunque, non mi
concessi a lui, sperando di poterlo evitare anche in séguito. Quan-
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do partì a cavallo ero alla finestra della stessa camera in cui avevo appena trascorso momenti dolcissimi. Mi sorrise e mi fece capire che avremmo ricominciato: l’amica era andata a passare due
giorni a Parigi, accompagnata dal suo levriere favorito.
La sera, quando tutti furono a letto, mi regalò una bella vestaglia, dei guanti per massaggi, dei profumi. Tentai invano di fargli
capire che volevo assolutamente evitare di essere sua. Mi disse:
«Non sapete che io sono un dio, e che tutti debbono ubbidirmi? Non mi obbligate a salire per cercarvi.»
Dopo una toilette forse meno accurata di quella che avrei imparato a farmi in séguito, non essendo abituata a tante raffinatezze, scesi da lui e dovetti cedere a ciò che non mi piace e non mi è
mai piaciuto. Mi stupì la bellezza del suo corpo, bianco e delicato come quello di una donna. Capii, quella sera, perché trovavo
sempre nel letto tanti fazzoletti.
Lo scopriremo anche noi, per ora basti chiarire che non le piace
la penetrazione. Il destino di Amélie, che presto diventerà Aélis,
sta in quel «prendere o lasciare». Decide di prendere, ora e per
sempre. Asseconda i desideri di Gabriele, forse ancora per convenienza. Poi lo farà per devozione e venerazione, più che per
amore: è abbastanza intelligente da capire che nessuna donna
potrà dirsi «unica e sola», figuriamoci lei.
Adeguarsi alle regole, su questo d’Annunzio non transige, meglio togliersi di testa strane idee, per primo l’insopportabile gelosia. Ma Aélis è gelosa:
L’indomani tornò l’amica. Pranzarono insieme e sùbito dopo
li vidi andare nella camera verde. Io non lo amavo ancora: perché, allora, provavo un sentimento di gelosia? Perché mi turbava saperli insieme?
Mi toccò rifare il letto e trovare i fazzoletti fra le lenzuola.
Ero sulle scale quando salì a rivestirsi: la sua bocca, ancora umida di quella dell’amica che sentivamo farsi la toilette, si incollò alla
mia. Fu quello il momento in cui accettai tutto ciò che avrei dovuto sopportare, con tanta sofferenza, per stargli accanto: tutto indovinare, tutto vedere, sentire «il grido terribile», poiché la mia
camera era posta sopra la sua.
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La notte, quando tutto era silenzio, udivo il minimo movimento, le parole che le diceva, i sospiri di lei. Non mi risparmiava mai.
La mattina mi mettevo in ascolto nel piccolo corridoio che portava alla camera verde, sperando che uscisse. Volevo sapere che
cosa aveva fatto, se aveva pensato un po’ a me tenendo lei fra le
braccia. Talvolta rimanevamo in quel corridoio mentre cercava
di consolarmi. Ma ero piena di gelosia e di rancore. Mi sembrava sempre che le tempie stessero per scoppiarmi, che il cuore mi
battesse in maniera diversa.
Un giorno non trattiene la rabbia: fischia, canta a squarciagola davanti alla porta della camera da letto di Gabriele.
«Avevo bisogno di soffocare il dolore con il chiasso» si giustifica.
«Se non potete fare a meno di cantare e di gridare così in casa
mia, è meglio che ve ne andiate» risponde lui, spazientito.
Aélis prepara i bagagli, sicura di essere stata licenziata; va a
salutarlo, e esulta quando Gabriele le dice: «Dovreste vergognarvi di mettermi in una simile condizione. Spero che sarete più docile». Aélis gli bacia le mani: «Quante altre volte, ahimè, avrei
dovuto implorare il suo perdono» annoterà sul diario. Oltre che
amante, diventerà complice, ruffiana e all’occorrenza terza di
un triangolo. La prima donna con la quale va a letto – per compiacere Gabriele, e presto anche se stessa – è proprio Donatella, che li aveva già spiati mentre facevano l’amore, naturalmente d’accordo con lui.
La straordinaria arma di Aélis, aggiunta alla devozione, è
una caratteristica che d’Annunzio apprezza moltissimo, e tanto più con il passare degli anni: un’abilità non comune nella fellatio, che le merita anche il nome Aélis. Un richiamo al francese
hélice, elica. Ha «una bocca meravigliosa» dice Gabriele, oltre a
«una mano donatrice d’oblio». Già a Arcachon ogni pomeriggio
la invita a prendere il tè insieme, con una fetta di torta, e esige
in «pagamento» quel servizio che, scrive Aélis, le dà «un piacere
violentissimo» perché sente Gabriele sotto il suo «dominio assoluto»: «Lui era cosa mia. Lo sapeva così bene che si lasciava languorosamente dominare».
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Un giorno Donatella la scopre in ginocchio davanti al Poeta e –
offesa per essere stata esclusa – gli chiede di licenziarla: «Quando
mi farai ciò che mi fa Aélis» è la risposta che ottiene, «allora potrò
separarmene». La guardarobiera, ormai governante, adesso dispone anche di una piccola sala da pranzo personale accanto alla camera di Gabriele. Deve essere sempre a portata di mano: «Qualche
rara volta mi sbatteva sul letto (lui lo chiamava colpo del gatto)».
Aélis ha capito che, per continuare a stargli vicina, deve «superare tutte le altre nella capacità di dargli piacere», anche procacciandogli amanti. Nel 1915, mentre d’Annunzio sta preparando il discorso di Quarto per portare l’Italia nella Prima guerra
mondiale, Aélis passeggia nella pineta e si imbatte «in una magnifica giovane donna», Magali Faure, figlia di un famoso chirurgo: «Pensai che gli sarebbe piaciuta. Era a cavallo; montava
un magnifico stallone. Rientrando gli riferii l’incontro. Uscì sùbito per vederla. Le parlò anche; e mi informò di averla invitata a cena per la sera dopo». Invita anche Aélis, che accetta, a suo
dire, «soltanto per soffrire meno di gelosia». Gli piacque.
Il suo diventare sempre più importante per d’Annunzio viene
tollerato da Donatella, e da molte altre, perché è una stipendiata,
e non tutte capiscono quanto sia necessaria al Poeta. Neanche la
nobildonna russa, che diventa «ferocemente gelosa» delle altre
durante un soggiorno di Gabriele a Parigi, in Rue de Bassano:
Talvolta passava la notte sulle scale. Lui mi faceva mettere del
cotone intorno al campanello per non sentirlo.
Una notte aveva nel suo letto la Contessa de Mar; verso il mattino, credendo che l’amica non fosse più sulle scale, aprii la porta d’ingresso. Quella entrò a precipizio e piombò nella camera
dov’era la Contessa, sollevò i lenzuoli e, passandole la mano sul
corpo, disse:
«Mio caro, che bella vacca avete!».
Riuscì a cacciarla fuori soltanto frustandola, e ricevetti anch’io
qualche colpo nel tentativo di separarli. Lei non voleva tornarsene a casa, ma aspettare la partenza della Contessa per prenderne il posto nel letto.
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Fu così ogni sera, per tutto il tempo che restammo in Rue de
Bassano. Avevo talmente sofferto per colpa di lei che provavo
quasi piacere nel vedere che non ero più la sola a essere infelice.
La gelosia ha ruoli importanti anche nella vita quotidiana al
Vittoriale, dove attorno alla dispotica ape regina d’Annunzio si
indaffarano decine e decine – centinaia – di amanti più o meno
durature, oltre alle tre donne ospiti fisse della casa.
Gabriele, come molti infedeli, è geloso, di una gelosia intollerante. Ricorda Aélis: «Le scene che ci faceva in proposito erano spaventose. Si sarebbe disamorato di non importa quale donna bella
e quanto si voglia conturbante che avesse tentato di tenerlo eccitandone la gelosia. Allora non provava che il più profondo disgusto, non pensando ad altro e non vedendo altro che la possessione
dell’altro maschio». Gabriele le confida che, secondo lui, una frase toglie a una donna ogni fascino: «Non potrei più stare con un
altro», perché sono «le parole di una puttana in un casino al fronte». Detesta persino che un’amante, Fiammadoro, porti via «tutti
gli accappatoi che le avevo regalato»: «Per metterli con chi? Con
suo marito? Con i suoi amanti?». Già nel Piacere Gabriele aveva
scritto che l’ideale per un uomo è essere infedele a una donna fedele, e a questo semplice principio si attenne sempre.
Aélis rischia una sola volta la carta della gelosia, nel 1929,
e riesce a sorprenderlo. Lui sta aspettando un’amante e lei gli
chiede se ne è contento:
«Niente affatto. Preferirei una donna nuova.»
«Ecco la sola cosa in cui vi capisco e sono della vostra stessa
opinione» gli ho detto. «Il cambiamento ha qualcosa di meglio: il
primo bacio, i primi toccamenti... In questo genere di cose, oso dirvelo molto francamente, se non fossi un cerotto e fossi più giovane cambierei in continuazione.»
Ho visto la sua espressione mutare. Mai si sarebbe aspettato
tanta franchezza poiché pretendeva di piacere soltanto lui e che
solo le sue carezze valessero qualcosa (forse era la verità). Non
parlava mai degli altri maschi, considerandoli noiosi. Mai sarebbe riuscito a concepire l’esistenza di un’altra virilità. Era restato
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certamente sbalordito di sentirmi parlare in quel modo. Ho visto
in effetti il suo viso cambiare espressione; mi ha detto:
«Sì, ma bisogna sapere con chi si ha a che fare. Potreste incappare in un cafone invece che in un Principe fascinoso».
«È quello che succede a voi» ho ribattuto. «Non subìte spesso le
più amare disillusioni? Eppure sostenete il cambiamento, perché
quello che desiderate è la tensione che la cosa nuova vi procura.»
Mi sono resa conto che era restato ancora più male e gli ho
augurato la buona notte.
A Arcachon, Aélis è già in grado di guidare la casa. Diventa la
vera attendente del Comandante a Venezia, nella Casetta Rossa,
durante la Prima guerra mondiale. Le affida incarichi delicatissimi, come svuotare le case francesi per riportare tutto in Italia: al
ritorno, scrive Aélis, «mi prese fra le braccia e fui di nuovo sua:
ciò che non mi è mai piaciuto mi dette quel giorno una felicità tale
che per la prima e unica volta lui dovette soffocare le mie grida».
A Venezia d’Annunzio riesce a convincere Olga Levi Brunner,
Venturina, a farsi amante anche di Aélis: insieme a lui o anche
da sole. La francese è ormai abituata a questi ménage, e li tollera
meglio di certe avventure passeggere. Quando Gabriele si diverte a far impazzire di gelosia Olga, passando in gondola con una
nuova donna davanti alla sua finestra, Aélis la consola; d’Annunzio si infuria, ma non può più farne a meno, e lei lo sa: gli
consegna il passaporto, perché organizzi il suo ritorno in Francia, e la sera lo ritrova sul letto, coperto da un grande mazzo di
violette: «Lo amai più di sempre, ahimè, e finii per amare anche
colei che gli apparteneva, poiché ci trovavo comunque qualcosa
di lui. Ben pochi, tuttavia, sono in grado di capire queste cose».
All’inizio del Novecento, aggiungo, meno di oggi.
Nel Notturno, scritto durante un periodo di cecità assoluta
per un incidente aereo che gli costò la vista da un occhio, d’Annunzio definì Aélis «Pietà senza peso»; e nei Taccuini: «È forse la
sola che mi ami con una devozione esclusiva e senza limiti. Povera buona creatura!».
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Aélis entra nel proprio ruolo soprattutto al Vittoriale. Non semplice cameriera o governante, ma ancella in servizio continuo
delle passioni e dei capricci del magister, geisha, complice, confidente che sa stare anche sullo stesso piano del signore, sovente prevenendone necessità e desideri.
Conosce i gusti del signore, l’harem non può essere aperto a
tutte, occorre una giudice nei provini. Quando l’esame è superato, pensa lei ai preparativi, a suggerire (o imporre) vestiti e
calzature, a spruzzare effluvi e a predisporre bagni purificatori,
a sondare se l’eletta di turno sia «abbastanza lontana dalla fase
lunare». Nel febbraio 1927, Gabriele confida a Tamara de Lempicka: «Ma lo sapete chi è la direttrice Aélis, quella che è venuta
a portarvi il mio buon giorno? È la guardiana dei “capitoli”» così
Gabriele chiama i suoi orgasmi, «terrorizza tutte le mie donne.
Ultimamente avevo qui un’amichetta, una romana. Quando ho
detto a Aélis che non volevo più vederla per via dei “capitoli” –
tre in una notte! – lei non ha fatto né più né meno che andarla a
trovare per chiederle se era quello il modo di comportarsi e se
credeva di tenere fra le braccia un facchino».
Il servitium amoris, cantato dai poeti e dai trovatori provenzali,
al Vittoriale viene rovesciato: è la donna a garantire protezione,
a rassicurare, a dare prove della propria virtù all’amato, oggetto di venerazione e spettatore compiaciuto della fedeltà dell’innamorata. In cambio Aélis viene trattata con un rispetto, da pari
a pari, mai toccato a nessun’altra. Non le verrà mai meno neppure l’incondizionato sostegno economico del suo Principe. La
donna riceveva un compenso fisso di duemila lire al mese, oltre vitto e alloggio. Erano circa 1600€ di oggi: molto, se si pensa
che ancora nel 1939, un anno dopo la morte di d’Annunzio, gli
italiani avrebbero cantato «Se potessi avere mille lire al mese...»
(Per i calcoli futuri, chi volesse farli, basta pensare che, grosso
modo, una lira dell’epoca valeva quasi un euro). In più c’erano
i doni straordinari (ma frequentissimi): erano un premio davvero generoso. Viaggi pagati (le visite in treno ai suoi parenti, a Salornay-sur-Guy), abiti preziosi e moneta sonante. Non mancava,
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tra le varie voci, neanche il rimborso delle spese epistolari: Gabriele voleva sapere tutto degli spostamenti e delle attività della donna: il 2 settembre 1928, per esempio, le invia 200 franchi
per i telegrammi che la governante-amante gli deve spedire nonostante la sua «avarizia ben nota».
Colei che Gabriele aveva definito alla prima vista «bruttina
assai», al Vittoriale poteva ben dirsi «l’essere più indispensabile
della casa». In mezzo alla folla di donne dalla fortuna incostante, destinate tutte a passare dai trionfi notturni all’oblio definitivo, lei rimane sempre al centro della scena, capace di convivere
con le sue rivali non come subordinata, ma come una prima inter
pares. Riesce a reprimere l’invidia per le altre amanti di Gabriele,
o almeno a non mostrarla, rivelandosi anche in questo abilissima nel simulare e dissimulare i sentimenti.
Tollera l’asfissiante controllo con cui Luisa Baccara – convivente-rivale-superiora – sulle prime tenta di soffocare gli appetiti di d’Annunzio, tiranneggiandolo con una gelosia improduttiva e anzi autolesionistica. Solo nei confronti della morta
venerata, Eleonora Duse, la francese non sa trattenere sempre
una sorta di gelosia retroattiva. La infastidisce il piedistallo su
cui viene tenuta la «divina». «Perché parlare sempre delle sofferenze della Duse?» scrive con risentimento: «Che cosa ha sofferto lei più delle altre? Non ha avuto la sua vita prima di conoscerlo? Le sofferenze della Duse consistevano in ciò che tutte le
altre donne hanno accettato: amarlo tanto da sopportare le rivali. Non lo hanno fatto tutte?».
Forse anche perché ha colto il suo punto debole, Gabriele parla spesso di Eleonora a Aélis. A parte questa gelosia postuma che
trova sfogo soltanto nel diario, la piccola borgognona è «silenziosa, fedele, incorruttibile», così la giudica Tom Antongini, e diventa la vera Richelieu del complesso regime erotico instaurato
al Vittoriale, dove però una regola è chiara, semplice e immutabile: il Comandante vuole che le donne vicine a lui siano addette al suo piacere. Schiave.
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