TUNISIA: GENESI E SVILUPPO DEL FENOMENO TERRORISTICO

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TUNISIA: GENESI E SVILUPPO DEL FENOMENO TERRORISTICO
TUNISIA: GENESI E SVILUPPO DEL
FENOMENO TERRORISTICO
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Tunisia: Genesi e sviluppo del fenomeno terroristico
di Andrea Falconi
Introduzione
Negli ultimi mesi, due distinti attacchi terroristici hanno sconvolto il quadro della sicurezza
tunisina. Il 18 marzo, tre miliziani hanno preso d’assalto il museo del Bardo nella capitale Tunisi,
uccidendo 24 persone e ferendone 45, la maggior parte dei quali turisti stranieri. Il 26 giugno,
invece, 38 persone hanno perso la vita a seguito dell’assalto al Riu Imperial Marhaba Hotel di Port
El Kantaoui (Sousse), a 130 km dalla capitale, da parte di Seifeddine Yacoubi Rezgui, studente
originario di Gaafour.
In entrambi i casi, nelle fasi immediatamente successive agli attacchi è stata resa pubblica la
rivendicazione da parte dell’ISIS (Islamic State of Iraq and ash-Sham). Tuttavia, la responsabilità degli
attacchi risulta riconducibile all’evoluzione del fenomeno del radicalismo religioso locale e alle
dinamiche conflittuali presenti nel Paese. La dichiarazione dell’ISIS, pertanto, appare come una
rivendicazione a posteriori, in linea con la strategia mediatica del gruppo di al-Baghdadi.
Nonostante la violenza radicale di matrice salafita non sia un fenomeno completamente nuovo in
Tunisia, gli attacchi del Bardo e di Sousse segnano un importante punto di svolta nel panorama
della sicurezza tunisina, sottolineandone la permeabilità alle pressioni provenienti dall’esterno e al
progressivo mutamento del quadro di sicurezza regionale.
Negli anni passati, la contemporanea presenza di alcuni fattori strutturali aveva permesso alla
Tunisia di godere di una relativa stabilità: la bassa posta in gioco derivante dall’assenza di materie
prime energetiche, la sostanziale elasticità del comparto politico tunisino, che ha saputo ricondurre
le spinte centrifughe delle fazioni salafite all’interno del dialettica istituzionale, e un assetto
burocratico funzionale al controllo della minaccia, dotato di un efficace apparato di sicurezza e di
istituzioni di carità islamica semi-pubbliche, entrambe eredità del passato regime.
La repressione governativa, ad esempio, aveva permesso di superare la fase più critica del
terrorismo tunisino, iniziata con l’attentato alla sinagoga al Ghriba di Djerba dell’aprile 2002 in cui
persero la vita 19 persone, e terminata con una vasta campagna di arresti mirante alla distruzione
del Gruppo Combattente Tunisino (GCT) legato ad al Qaeda.
Attualmente, l’intero contesto regionale nord africano risulta scosso da dinamiche conflittuali che
creano riverberi in tutti i Paesi dell’area. In Libia, la completa assenza di un effettivo potere di
controllo da parte del Governo centrale sta fomentando le istanze separatiste in tutto il Paese, che
tuttavia non mostrano alcun segno di polarizzazione su base regionale, mentre l’Algeria di
Bouteflika è paralizzata dallo scontro tra i due poteri forti del Paese, il Fronte di Liberazione
Nazionale (FLN) e il ramo militare del Département du Renseignement et de la Sécurité (DRS), e
da vecchi e nuovi problemi sociali e finanziari, quali la stagnazione economica, determinata dal
costante calo dei prezzi del petrolio e del gas nel 2014-2015, e l’aumento del tasso di disoccupazione.
L’improvvisa recrudescenza del fenomeno islamista tunisino, dunque, non può che essere
considerata tramite un’analisi che prenda in esame tanto le condizioni sociali, politiche ed
economiche proprie del Paese, quanto, soprattutto, la variazione del quadro strategico regionale,
all’interno del quale è maturato tale cambiamento.
Economia, società e identità salafita
Innanzi tutto, bisogna considerare come la Tunisia centro-occidentale, e in particolare il
Governatorato di Kasserine, rappresenti l’area più povera del Paese, nella quale l’assenza statale
risulta legata da un duplice rapporto di causa-effetto con l’arretratezza economica, la
disoccupazione e l’esistenza di una criminalità organizzata dedita alla gestione dei proventi di vari
tipi di commerci clandestini. Allo stesso tempo, la mancanza di alternative d’inclusione sociale,
scaturita dall’assenza delle istituzioni statali ha portato alla diffusione dell’ideologia salafita quale
forma di aggregazione e sostegno reciproco tra le frange più povere della popolazione.
Tale strategia è stata alla base della nascita di Ansar al Sharia, fondata nel 2011 da Abu ‘Ayyad alTunisi, anche noto come Sayf Allah Umar bin Hussayn, ex-membro del GCT graziato e scarcerato
proprio durante l’ondata di proteste popolari del 2011, e da al-Khatib al-Idrissi, clerico tunisino di
Sidi Bouzid formatosi nelle scuole wahabite della penisola arabica.
Fin dalla sua creazione, tale organizzazione si è posta quale elemento di coesione sociale, preposta
al mutuo aiuto dei membri della Umma tramite politiche assistenzialiste proprie dei movimenti
neosalafiti non violenti, analogamente alla strategia di conquista del consenso dal basso perseguita
dalla Fratellanza Musulmana.
La microeconomia garantita dalle comunità assistenziali religiose, tuttavia, non è riuscita a porsi
quale valida alternativa alle varie forme di contrabbando che, nel tempo, si sono venute a creare
nella zona, determinate in estrema istanza dalla porosità dei confini e dall’assenza di controllo
statale.
L’evoluzione dei traffici illegali tunisini
Tradizionalmente, il territorio centro-meridionale della Tunisia è stato impiegato come una terra di
transito per diversi traffici clandestini, dalle montagne berbere della Cabilia fino alle regioni
occidentali della Libia, per commerci che, tuttavia, non andavano oltre il contrabbando di generi di
prima necessità, sigarette e carburanti.
L’orografia del confine di Kasserine, caratterizzato da aree boschive, altopiani e piccoli villaggi a
cavallo della frontiera, infatti, ha da sempre favorito gli spostamenti umani e reso quasi nulla
l’incisività del controllo statale della frontiera. La stessa area del massiccio del Chambi costituisce
la propaggine orientale dell’Atlante Sahariano, in diretta comunicazione, dunque, con gli altri
territori berberi dell’Algeria, come le montagne dell’Awras e la Cabilia.
La principale rotta transitante per il territorio tunisino è quella che dal Governatorato di Kasserine
e dal deserto di al-Matrouha giunge a Gafsa, per poi proseguire verso il confine con la Libia e i
sebkha semi-paludosi compresi tra i due posti di frontiera di Ras Ajdir e Dehiba. Tale rotta ha
costituito a lungo un’importante diramazione della fitta rete di traffici clandestini procedenti da
Tamanrasset e collegati ad altri Paesi subsahariani, come il Mali e il Niger, che hanno fatto la
fortuna di trafficanti come Mokhtar Belmokhtar, Khalid al-Barnawi e Abdelmalek Droukdel, poi
divenuti leader di proprie milizie regionali e transnazionali. Nell’ottica del commercio clandestino,
infatti, l’identità islamista fornisce un fattore strumentale di trasformazione dei vari gruppi
criminali, che evolvendosi a milizie radicali acquisiscono prestigio, legami internazionali e capacità
di reclutare adepti.
Negli ultimi anni, due distinti fenomeni hanno contribuito ad alzare notevolmente la posta in gioco
nei vari traffici clandestini trans-sahariani: il sempre maggiore afflusso di cocaina dal sud America
e l’improvviso flusso di armi provenienti dagli arsenali libici, riversatesi nel continente africano a
seguito della caduta del regime di Gheddafi.
Per quanto riguarda il traffico di cocaina, la costante implementazione, da parte degli Stati Uniti,
del sistema di controllo dei traffici procedenti dal Golfo del Messico e diretti verso l’America
settentrionale ha reso più conveniente per i narcotrafficanti l’apertura della rotta atlantica, che
collega i grandi produttori sudamericani, Bolivia, Colombia e Perù, ai porti di Mauritania, Senegal,
Guinea, Sierra Leone e Nigeria, per poi continuare via terra verso l’Europa.
Fino ai primi mesi del 2014, la rotta tunisina era considerata di secondaria importanza per questo
tipo di traffici, impiegata solo raramente come via di raccordo tra le due principali rotte sud-nord,
quella del Mali-Algeria-Spagna, lungo l’asse Tamanrasset-Ouargla-Orano, e quella del Mali-NigerLibia-Italia, via Agadez-Sebha-Tripoli.
Proprio quest’ultima rotta, tuttavia, sconta attualmente gravi problemi nel suo terminale libico, tra
le montagne di Nafusa e le zone costiere, a causa del deterioramento dei rapporti tra distinte
fazioni, solo in parte riconducibili alle lotte tra le milizie di Zintan e Misurata per acquisire il pieno
controllo del territorio e del lucrativo settore dei traffici clandestini che lo interessano.
I vari scontri che hanno interessato la Tripolitania occidentale, infatti, sono giunti a uno stallo in
cui nessuna delle due fazioni è riuscita a prevalere. Ciò ha determinato l’impossibilità di una
gestione unitaria dei traffici, inficiati ora dalla contemporanea presenza di troppi intermediari e di
scarse garanzie di sicurezza per i carichi.
La rotta tunisina, dunque, ha acquisito in breve tempo una fondamentale importanza come asse di
congiungimento tra la via algerina e il terminale dei porti tripolitani, attraverso il già citato valico
di Ras Ajdir. Ciò ha incrementato notevolmente le risorse a disposizione delle milizie tunisine.
In tal senso, gli attacchi degli ultimi mesi, soprattutto a danno dei posti di frontiera algerinotunisini, come quello che, nel luglio del 2013, ha visto la morte di otto soldati tunisini nell’area del
Chambi, possono leggersi come un tentativo delle milizie tunisine di forzare la mano per l’apertura
del passaggio tra Ouargla e Tripoli attraverso Kasserine, e porsi dunque come una valida
alternativa ai signori del narcotraffico tripolitani.
É significativo, in tal senso, che l’attacco di Sousse sia stato perpetrato da un giovane, Seifeddine
Rezgui, la cui radicalizzazione è andata di pari passo con la progressiva dipendenza dall’uso di
cocaina, sempre più a buon mercato in varie zone della Tunisia.
Il commercio clandestino delle armi di Gheddafi, invece, dopo una prima fase di confluenza verso
il Mali, dove ha alimentato la guerra civile del 2012, sembra essere ora maggiormente orientato
verso il Sinai e il conflitto siriano. Tuttavia, il loro rapido ingresso nel mercato nordafricano ha
contribuito ad abbassarne il prezzo sui mercati neri, determinando così una maggiore facilità di
reperimento di armi di vario tipo, come le granate e gli AK-47 impiegati in entrambi gli attacchi di
Tunisi e Sousse.
Il radicalismo tunisino alla luce del quadro regionale
L’area del Kasserine si è dunque trovata al centro di un cambiamento degli assetti di sicurezza
dell’intera regione, che ha determinato una situazione di caos generalizzato e l’incapacità, da parte
delle forze di sicurezza tunisine, di prevederne lo sviluppo. Eppure, gli stessi cambiamenti in corso
nell’affiliazione delle milizie, da al Qaeda all’ISIS, contribuiscono a delineare un quadro chiaro delle
dinamiche in corso in un’ottica transnazionale.
Esemplare in tal senso è il caso della Brigata Uqbah Ibn Nafaa, ufficialmente indicata dal Governo
di Tunisi quale responsabile dell’attacco al museo del Bardo e il cui primo riconoscimento ufficiale
è giunto a seguito di un attacco contro un posto di frontiera sulle montagne del Chambi nel
dicembre del 2012.
Secondo le fonti di sicurezza tunisine, la milizia sarebbe nata come costola di Ansar al Sharia nella
zona del Djebel Chambi, dove ha gestito per anni alcuni campi di addestramento per conto di
milizie algerine riconducibili ad AQMI (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), come gli Jund al Khilafa
dell’allora comandante Abdelmalek Gouri (anche noto come Khaled Abou Slimane).
Proprio l’area del Chambi, infatti, è stata tradizionalmente impiegata da tali milizie come un
retroterra logistico al di fuori della portata dell’azione repressiva delle forze di sicurezza di Algeri,
nella quale costituire campi di addestramento per giovani provenienti dalla aree più povere dei
due Paesi, successivamente inviati a combattere all’estero.
Tale situazione ha portato nel tempo alla crescente presenza di combattenti tunisini anche in teatri
distanti dal Maghreb, come la guerra civile siriana e il conflitto iracheno, e ha contribuito ad
alimentare la percezione, da parte delle forze di sicurezza tunisine e di gran parte dell’opinione
pubblica internazionale, di un terrorismo tunisino rivolto solamente all’esterno del Paese. In
estrema istanza, è plausibile che tale convinzione abbia influito sull’attuale impreparazione del
comparto di sicurezza tunisino di fronte alla recrudescenza del fenomeno della violenza radicale.
Anche in questo caso, così come in quello della variazione delle rotte del narcotraffico, tuttavia, i
segnali di svolta erano ben chiari, profondamente connessi alla variazione dei rapporti di potere
tra i principali finanziatori della Katibat Uqbah Ibn Nafaa: i leader delle milizie algerine.
Nei primi anni 2000, la leadership di AQMI, rappresentata dagli eredi dell’Emirato Centrale del
GSPC (Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento) e guidata da Abdelmalek
Droukdel, ha cercato di porsi quale ombrello per tutte le milizie radicali dell’Africa nord
occidentale, soprattutto grazie al notevole afflusso di fondi ed expertise militare garantito dalla
sezione centrale di al-Qaeda. Negli anni, tuttavia, il forte giro di vite imposto dalle forze armate
algerine, seguito all’attacco alla sede delle Nazioni Unite di Algeri nel dicembre 2007, ha
determinato il progressivo arretramento dei miliziani di AQMI sulle montagne della Cabilia, alla
ricerca di una terra a scarso o nullo controllo governativo e in comunicazione geografica con il
retrovia tunisino del Jebel Chambi.
Allo stesso tempo, il sempre minore invio di risorse ai gruppi operanti sul campo, esacerbato da
vari contrasti interni sul controllo delle rotte dei traffici illegali di armi, droga ed esseri umani ha
portato a un progressivo sfaldamento del gruppo e all’abbandono da parte delle milizie di
estrazione sahariana, guidate da Mokhtar Belmokhtar e Abdelhamid Abou Zeid.
In Algeria, dunque, Droukdel ha gradualmente perso il controllo sulle bande criminali reclutate tra
gli sbandati e i disoccupati delle zone montuose e impiegate come milizie operative. Nel settembre
del 2014 il leader della sezione nordafricana di al Qaeda ha dovuto scontrarsi con l’abbandono da
parte degli Jund al Khilafa, l’ultimo braccio operativo di AQMI nella Cabilia.
Tramite un comunicato pubblico, infatti, il leader della milizia Abdelmalek Gouri ha giurato fedeltà
all’ISIS, nella speranza di ottenere dall’ISIS tutti quei fondi prima garantiti da AQMI in cambio
dell’adozione dei metodi di lotta del movimento di al-Baghdadi. Pertanto, il primo atto
dimostrativo della propria affiliazione ha riguardato il rapimento e la successiva uccisione di un
cittadino francese, Herve Gourdel.
Il quadro internazionale – tra ISIS e al Qaeda
É possibile ipotizzare, dunque, che le sempre maggiori evidenze dell’avvicinamento in corso tra la
Brigata Uqbah Ibn Nafaa e l’ISIS, riscontrabile in varie dichiarazioni pubbliche dei propri leader,
vadano di pari passo con la progressiva diminuzione dei fondi garantiti da AQMI alla milizia, in
maniera analoga a quanto successo con il gruppo algerino degli Jund al Khilafa.
In tale ottica è possibile spiegare sia il drastico cambiamento degli obiettivi colpiti dalla milizia
tunisina, dai posti di frontiera del Kasserine ai luoghi turistici di Tunisi e Sousse, sia la rapida
rivendicazione dei due attentati da parte dell’ISIS.
Allo stesso tempo, la conclamata nascita di una nuova milizia, denominata Ajnad al-Khilafa e
riconducibile alla galassia dell’ISIS, che ha rivendicato di essere dietro l’addestramento ricevuto
dagli attentatori del Bardo e di Sousse, testimonierebbe l’esistenza di una fazione interna ad Uqbah
Ibn Nafaa già disponibile alla definitiva affiliazione allo Stato Islamico.
Qualora la brigata tunisina decidesse di entrare a far parte stabilmente del gruppo di al Baghdadi,
i quadri della milizia vedrebbero riaffermato il proprio ruolo di gestori dei notevoli fondi esteri
nell’area del Jebel Chambi, in cambio della sottomissione ai metodi di lotta e alle linee di condotta
dell’ISIS. In particolare, nel caso della Tunisia, le condizioni richieste dall’ISIS sarebbero quelle
relative alla completa adesione alla cosiddetta “Strategia dell’Estero Vicino” (Near Abroad Ring
Strategy), che prevede che le milizie assoggettate, seppur impegnate in campagne regionali
indipendenti, debbano anteporre ad esse la tempestiva esecuzione delle direttive provenienti dalla
casa madre.
La casistica degli ultimi due anni aiuta a comprendere come tale strategia, applicata a scenari non
troppo lontani dalle terre dell’autoproclamato Califfato, sia spesso risultata funzionale per
controbilanciare gli effetti mediatici di alcuni eventi bellici negativi per l’ISIS nel “settore interno”
(Internal Ring), il teatro iracheno e siriano.
In tal senso, l’attacco al museo del Bardo del 18 marzo, al pari di quello perpetrato contro due
moschee sciite a Sanaa del 20 marzo e degli attentati di Bengasi del 25 marzo, sarebbero
inquadrabili come un tentativo di riaffermare la propria forza a livello internazionale, e far passare
in secondo piano la sconfitta nella battaglia di Tikrit (2 marzo – 17 aprile). Analogamente, l’attentato
del 26 giugno potrebbe essere considerato, assieme a quelli commessi il 25 a Kobane e Baghdad, e
lo stesso giorno in Kuwait, come una risposta alle voci fatte trapelare dalle forze di sicurezza
statunitensi, secondo le quali circa 10 mila miliziani sarebbero stati uccisi dall’inizio dei raid
internazionali in Siria e Iraq.
Conclusione
In ultima istanza, le dinamiche sociali ed economiche che hanno portato allo scoppio della
rivoluzione tunisina, e che fanno sentire maggiormente il proprio peso nelle aree più povere del
Paese sembrano destinate a durare a lungo.
Il deterioramento del panorama di sicurezza lascia presagire una brusca frenata nel settore del
turismo, vero e proprio motore trainante dell’economia tunisina. Allo stesso tempo, il sempre
maggior numero di miliziani di ritorno dal fronte siriano, richiamati nella regione dalla guerra
dichiarata in Libia contro la coalizione del Generale Khalifa Haftar, inasprisce ancora di più il
quadro della sicurezza, ingrossando le file delle milizie tunisine.
Anche in questo caso, è utile sottolineare come il fenomeno dei cosiddetti foreign fighters tunisini sia
determinato dallo sforzo costante di radicalizzazione portato avanti da gruppi salafiti nelle aree
più povere del Paese, che fa leva, dunque, sull’arretratezza economica e la mancanza di alternative:
senza l’esclusione sociale, la disoccupazione dilagante e l’attrattiva offerta della criminalità
organizzata, infatti, è probabile che molti giovani tunisini non considererebbero così allettante
l’eventualità di andare a combattere in Siria e Iraq in cambio di denaro per sé o per la propria
famiglia.
Per quanto riguarda lo sviluppo economico, l’incognita maggiore riguarda l’effettiva volontà
statale di impegnarsi nel sostegno delle aree più arretrate del Paese, Kasserine in primis, anche
laddove eventuali partner internazionali decidessero di fornire il supporto economico e la liquidità
necessari per l’implementazione di tali programmi. La recrudescenza del fenomeno radicale,
infatti, potrebbe di fatto alienare dall’elettorato moderato, riconducibile al partito di Governo
Nidaa Tounes, la disponibilità ad accettare investimenti statali per lo sviluppo di aree considerate
come il feudo del radicalismo islamico.
É molto più probabile, altresì, che gli organizzatori degli attuali attentati siano riusciti nel loro
intento di acuire il divario ideologico già esistente tra il partito di Beji Caid Essebsi e il fronte
islamico moderato di Annahda.
E’ dunque nelle forme dirette al contrasto del fenomeno radicale, infine, che si riscontrano i
principali margini di manovra del Governo. Rispetto ai propri partner regionali, infatti, il vantaggio
comparato della Tunisia risiede nella mancanza di sfide di natura convenzionale, come quelle che
impegnano l’Egitto sul fronte orientale o l’Algeria su quello occidentale.
In tal senso, a differenza dei propri partner regionali, il Governo di Tunisi potrà permettersi, nel
medio-lungo periodo, un’allocazione delle risorse per la sicurezza completamente orientata
all’implementazione delle capacità di guerra asimmetrica delle proprie Forze Armate, tralasciando
i costosi programmi di acquisizione di mezzi e capacità convenzionali che stanno dissanguando le
casse del Cairo.
8 Agosto 2015