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Il cinema dell’Africa tra colonizzazione e indipendenza. Aspetti sociali e politici del cinema nell’area sub-sahariana francofona 28 ABSTRACT The aim of this work is to outline the most important features of Sub-Saharan African cinema, from the early beginnings to nowadays. Films produced in this area of Africa are here analysed from several viewpoints: the aesthetic, technical and stylistic features, as well as the August 2014 social ones and the political message conveyed by movies, without overlooking the important Author: anthropologic dimension that cinema has as an art form. Marco Ferretti Cinema has certainly a considerable anthropologic Editing: Maria Pia Ester Cristaldi dimension: if cinema can be considered as a cultural Language: Italian manifest, this is due to the strong connection between Keywords: film reflects and expresses its own reality, this is the Film production in Africa Influence of European cinema Souleymane Cissé films and the social context they are produced in. Each main reason why many of the cinematographic productions analysed focus on ancient rites and traditions of African societies, here operating as film settings. © Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie MARCO FERRETTI MA in Political, Historical and Diplomatic Studies (University of Rome III). He is an alumnus of the “Massimo Baldini” school of journalism. [email protected] MARIA PIA ESTER CRISTALDI MA in Communication Science (University of Calabria). She is freelance translator and journalist. [email protected] Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 2 Prima parte 1. Introduzione Il cinema giunse in Africa negli anni immediatamente successivi alla sua invenzione. Nel 1896, un illusionista portava in Sudafrica un proiettore che aveva sottratto al teatrografo dell'Alhambra Palace di Londra. A più di un secolo di distanza da quegli inizi pionieristici, il cinema, e con esso la letteratura, il teatro e la musica, ha contribuito a creare un movimento di rinnovamento africano capace anche di superare i confini e di influenzare artisti e generi di altri Paesi. Il cinema si è adoperato affinché le popolazioni africane recuperassero la loro storia, le loro immagini, le loro identità. Si tratta di una cinematografia ancora poco conosciuta eppure carica di grandi valori democratici, anticoloniale, critica di ciò che è nuovo quanto del vecchio tribale e fuorviante, progressista e al tempo stesso tradizionalista, didattica e a volte retorica nell’uso del linguaggio, ma anche alla scoperta di nuove estetiche. Specchio di una società in continuo sviluppo, il cinema africano ha mostrato le manifestazioni politiche più dirompenti e le lotte per i diritti del popolo nero, delle donne, dei giovani e dei lavoratori; l’incontro tra le religioni tradizionali e la modernizzazione; l’espandersi delle città con enormi periferie, dove regna il degrado a pochi passi da villaggi rurali sempre più minacciati; la nuova borghesia nera assoggettata agli interessi stranieri, corrotta e arrogante, giacente in un mare di problemi e senza idee né voglia di superarli; il mito, i racconti, l’energia del cosmo e della natura, ossia il patrimonio culturale tramandato oralmente per migliaia di anni, raccontato ora per immagini. Per far tutto questo, i cineasti africani hanno dovuto organizzare quasi dal nulla la struttura cinematografica necessaria alla realizzazione dei loro film, cercare continuamente i fondi per finanziarli, lottare nel corso degli anni www.istituto-geopolitica.eu contro ogni forma di colonialismo, per poi scontrarsi con una classe dirigente – il più delle volte rimasta legata all'amministrazione coloniale – poco interessata al cinema quale mezzo di diffusione culturale e confrontarsi allo stesso tempo con una società in continuo cambiamento, abbagliata da una modernità male intesa e in antitesi con i valori tradizionali, in grado di condurre all’alienazione intere masse urbanizzate, ma che si faceva sentire anche nella brousse, laddove uomini e donne non sognavano altro che il viaggio verso la città. In questa realtà, la prima generazione di registi ha dovuto fare i conti con un’incongruenza fondamentale: l'essere obbligato il più delle volte ad accogliere gli aiuti degli Stati europei, Francia e Gran Bretagna in particolare, spesso gli unici garanti per un cinema che non rinuncia a venire a galla a tutti i costi. Gaston Kaboré, uno dei principali registi africani, oltre che Segretario Generale della Fédération Panafricaine des Cinéastes (FEPACI) fino al 1996, non ha mai smesso di ribadire che l’Africa deve dotarsi, con la massima urgenza, delle capacità endogene di produrre le sue immagini se non vuole essere condannata a perdere la sua identità culturale e, nello stesso tempo, la possibilità di ideare e gestire il suo sviluppo secondo modelli autonomi. Negli ultimi anni, insieme a numerosi registi, ha continuato a battersi affinché questo cinema, ormai divenuto più maturo, con alcune cinematografie nazionali già tracciate, con un buon numero di autori affermati che hanno superato l’empasse dell’opera prima, possa ottenere una promozione più vasta in tutto il mondo, non solo attraverso i principali festival, ma con un maggiore interessamento da parte della stampa e, soprattutto, dei distributori. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 3 2. Il problema della distribuzione nel cinema africano La distribuzione perdura come “grande problema” che ha impedito, a tutt’oggi, una vera e propria possibilità di sviluppo attivo in Africa (nel settore del cinema, e non solo). Nel 1970 si costituì la già citata FEPACI, che riunì trentatré Paesi africani con l'intento di spingere i Governi a prendere misure di protezione e far sì che il cinema africano si sviluppasse e prendesse provvedimenti contro la massiccia distribuzione delle compagnie straniere. La lotta, ancora in corso, per l'affermazione del cinema in Africa ha caratterizzato la sua storia con un alternarsi di vittorie e sconfitte. Le compagnie straniere boicottarono i primi tentativi di monopolio nazionale della distribuzione cinematografica di alcuni Governi africani come il Burkina Faso, ciò nonostante alcuni Paesi (Benin, Madagascar, Sudan, Somalia) realizzarono la nazionalizzazione del mercato cinematografico che permise loro il controllo della distribuzione nelle sale nazionali. Anche la questione dei media ha suscitato le critiche dei cineasti africani che, spesso, non hanno condiviso il modo in cui i mezzi di comunicazione occidentali hanno descritto il loro lavoro. Lo spazio sui giornali europei dedicato ai film africani era esiguo, se ne parlava solo dietro l'eco delle riprese di qualche nuovo film dei registi ormai più affermati, senza una riflessione critica approfondita. D'altronde, anche la stampa africana, che generalmente non ha avuto un'adeguata preparazione, deve assumersi le sue responsabilità sullo stato delle cose. In mancanza di una politica continentale di distribuzione dei film africani, le televisioni sembrano essere state più che mai la migliore strada per accedere al pubblico africano e permettere ai realizzatori di produrre a minor costo senza trascurare il supporto video. Con la fine degli anni '90, resta immutato il rapporto numerico preesistente tra le produzioni francofone e quelle anglofone: più dei tre quarti della produzione africana conosciuta a livello internazionale appartiene tuttora agli Stati francofoni che, inizialmente, www.istituto-geopolitica.eu non avevano alcuna politica di produzione di film destinati alle popolazioni locali. Per capire le origini di un simile squilibrio, occorre tornare indietro nel tempo e analizzare le politiche in campo cinematografico messe in atto dalle due potenze coloniali. In tale maniera è possibile anche comprendere meglio le eredità lasciate da questo sistema alla debole industria cinematografica africana. Dal 1934, nelle colonie francesi era entrato in vigore il decreto Laval, emanato dallo stesso Ministro delle Colonie, che prevedeva un controllo sul contenuto dei film realizzati nelle colonie. In realtà, tale provvedimento fu maggiormente indirizzato ai sovversivi anticolonialisti francesi che a vere e proprie realizzazioni di Africani i quali - allo stesso modo- non erano certamente incoraggiati. La Francia modificò il suo atteggiamento politico nei confronti del cinema dei Paesi dell'Africa sub-sahariana soltanto a seguito del raggiungimento della loro indipendenza. Dal 1961, su iniziativa del Bureau du Cinéma del Ministère de la Coopération, ogni Stato francofono fu dotato di un'unità di cinema equipaggiata dei mezzi di produzione base. Nel 1963, attraverso propri fondi, il Département du Cinéma permise l'acquisto di diritti non commerciali dei film realizzati da africani. Più tardi, invece di acquistare i diritti dopo la realizzazione dei film, il Ministère de la Coopération accettò di acquistarli a determinate condizioni, prima delle riprese, prefinanziando così i progetti che presentavano delle serie garanzie tecniche e artistiche. Tenendo presente le costrizioni e imposizioni di ordine estetico e di contenuto, si stima che fra il 1963 e il 1975 siano stati realizzati qualcosa come centottantacinque film di cineasti di area francofona grazie a questi aiuti. L'arrivo al potere del Presidente Valéry Giscard d'Estaing nel 1974 portò la grande rottura dei rapporti privilegiati fra il cinema francofono d'Africa e il Ministère de la Coopération, poiché il Governo francese decise di mettere fine alla produzione. Un www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 4 nuovo impulso alla politica di aiuto alla produzione cinematografica si ebbe con i socialisti a partire dagli anni '80. Ciò consistette soprattutto nell'apportare un sostegno alla creazione di strutture interafricane di produzione e di postproduzione come il Consortium Interafricain de Production de Films (CIProFilm) nel 1979 e il Consortium Interafricain de Distribution Cinématographique (CIDC) nel 1980. Con essi, per la prima volta, un mercato comune di distribuzione fu gestito sotto il controllo degli africani, che cercavano di inserirvi normalmente una cinquantina di produzioni continentali. Nel 1982 a Niamey, in Niger, numerosi cineasti appartenenti alla FEPACI organizzarono, dietro iniziativa di Ousmane Sembène e Paulin Soumanou Vieyra, un seminario con l'obiettivo di fare un bilancio sulla FEPACI e il cinema africano in generale. Il dibattito fu incentrato sulla produzione e distribuzione, cioè su come produrre dei film in Paesi in cui erano inesistenti fondi per il cinema. Una risposta a ciò fu individuata, in parte, nel detassamento dei film africani. I registi, inoltre, si pronunciarono contro il rischio che il cinema divenisse troppo strumento di propaganda dei Governi. In effetti, in molti casi, la nazionalizzazione dell'apparato cinematografico aveva portato a una burocratizzazione eccessiva, rischiando di bloccare qualsiasi possibilità creativa o, quantomeno, di imporle i limiti della censura. I cineasti africani proposero il raggiungimento di un equilibrio tra pubblico e privato, affidando allo Stato il compito di controllare il mercato della distribuzione e la creazione di uno Statuto per il sostegno delle produzioni nazionali di tipo culturale. Ai produttori privati, invece, che spesso erano gli stessi registi, la possibilità di scegliere i soggetti dei film in piena libertà, in un sistema che permettesse l'ammortamento dei costi. Nel 1985, dopo una crisi interna causata dalla mancanza degli adempimenti economici derivanti dalla distribuzione dei film degli Stati membri (Senegal, Mali, Mauritania, Guinea, Costa d'Avorio, Burkina Faso, Niger, www.istituto-geopolitica.eu Togo, Benin, Camerun, Gabon, Ciad, Centrafrica), il CIDC lasciò, in sostanza, di nuovo il campo aperto alle compagnie straniere come la Socofilm, società svizzera che approfitterà della situazione vacillante per invadere il mercato africano con film americani di cui era distributrice. Successivamente, il Centre National de la Cinématographie (CNC), l'ente sovvenzionato dal Ministère de la Culture abilitato a stringere accordi di produzione con i Paesi stranieri, nel caso di quelli africani, ne firmò alcuni di coproduzione che diedero discreti vantaggi alle cinematografie dei Paesi firmatari, come l'anticipo sugli incassi riservato ai soli film girati in versione originale in lingua francese. Per accedere a quelli che si definiscono Fonds Sud Cinéma (1984) bisogna avere una sceneggiatura pronta. Se quest'ultima ha la necessità di essere migliorata, il cineasta può beneficiare dell'aiuto per la riscrittura e dei consigli di uno sceneggiatore professionista a sua scelta. La commissione dei Fonds Sud Cinéma si riunisce quattro volte l'anno e può intervenire con cospicui aiuti: dai 110.000 ai 152.000 €. Dal 1991, sono stati portati a termine più di trecento progetti e, a tutt'oggi, la produzione cinematografica dell'Africa nera più conosciuta e, senz'altro, anche la più consistente, porta la firma di autori francofoni. Per quanto riguarda l'ex-Africa anglofona, la politica britannica nel campo del cinema ha debuttato in Africa con la creazione del Bantu Educational Cinema Experiment (1935). Il programma di questa struttura cinematografica aspirava a realizzare film di inglesi per gli africani. Nel 1939 fu invece creata la Colonial Film Unit (soppressa nel 1955), con il ruolo di coordinare le attività della produzione cinematografica nelle colonie. Con questa disposizione, gli inglesi intendevano sottolineare l’intento di non attuare una politica assimilazionista nei confronti dei coloni, scegliendo di occuparsi esclusivamente degli affari derivanti dall'industria del cinema. Ogni colonia, infatti, fu così dotata d’infrastrutture www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 5 autonome di produzione che includevano anche il trattamento in laboratorio dei film e il montaggio. La Colonial Film Unit produsse, fino agli anni '50, circa cinquanta ore di proiezione e distribuì quasi 200.000 metri di pellicola in 16mm, allestendo in Africa venti camion di cinema itinerante. I prodotti della Colonial Film Unit suscitarono sempre interesse negli ambienti europei, mentre presso il pubblico africano (cui erano appunto destinati) il successo fu relativamente scarso. Alcune inchieste rilevarono i problemi inerenti a questo genere di realizzazioni, di cui il principale era l'ignoranza dell'ambiente in cui il film era stato girato. Nel 1951, un'équipe trascorse un lungo periodo in Nigeria per studiare il problema delle reazioni del pubblico verso il cinema. L'équipe, composta da tecnici cinematografici e antropologi, concluse che l'unica soluzione possibile era quella di girare film in cui lo spaesamento del pubblico fosse il più limitato possibile, intravedendo così la necessità di far girare dei film da africani per gli africani. Quasi nello stesso periodo, la Colonial Film Unit pose fine alla sua attività in favore delle Film Units (1945-1950) dei vari territori – sezioni di produzione cinematografica nei territori britannici dell'Africa occidentale e quella orientale. Il motivo principale era di ordine economico: il Governo britannico riteneva non fosse più compito suo realizzare film per l'educazione di base in Paesi ormai prossimi all'indipendenza e che toccava al budget di questi territori assicurare il funzionamento dei servizi cinematografici. Nel 1955 si decise che ognuna delle quattordici colonie doveva prendere in carico i finanziamenti delle proprie produzioni cinematografiche. In seguito all'indipendenza, nell'area dell'Africa anglofona, deboli tracce di fiction cinematografica emersero quasi esclusivamente dal Ghana e dalla Nigeria. Esperti di cinema e cinefili hanno dato varie spiegazioni a questa mancanza di produzione cinematografica locale. Alcuni hanno ricondotto le cause alla colonizzazione inglese, che non adottò la politica di www.istituto-geopolitica.eu assimilazione dei francesi, quella che faceva dire agli africani «nos ancêtres le Gaulois», ma praticò un'occupazione strettamente commerciale, senza mai tentare una politica culturale. Secondo un'altra argomentazione, il cinema non avrebbe costituito una priorità per i Paesi africani in via di sviluppo. Raccogliendo l'eredità del pragmatismo britannico, i Paesi dell'Africa anglofona, con la chiusura della Colonial Film Unit, abbandonarono la produzione locale e diressero le loro energie verso problemi più pressanti. Accettarono di produrre dei documentari che avevano a che fare con la realtà, in altre parole con i fatti nudi e crudi, ma evitarono la fiction, la simulazione e la metafisica. Altri hanno posto l’accento su come gli africani anglofoni non abbiano avuto contatti con la cultura cinematografica. Nei Paesi francofoni, ad esempio, le ambasciate hanno conservato delle cineteche, dove tutti hanno avuto l'opportunità di vedere film contemporanei che provenivano dall'Europa o dagli Stati Uniti e di partecipare ai dibattiti animati da moderatori francesi. Le ambasciate britanniche in Africa non hanno per nulla promosso questo genere di attività culturali. L'amministrazione culturale inglese è stata più incline alla produzione di documentari didattici, spesso di non rilevante interesse artistico. La distribuzione cinematografica rimase, inoltre, appannaggio delle case di distribuzione straniere (americane e libanesi), che dettavano legge in materia di cinema, traendo maggiori vantaggi dall'acquisto a basso prezzo di vecchi film americani, inglesi e indiani, adottando così una politica che scoraggiò qualsiasi tentativo di avviare una produzione nazionale. Nell'Africa occidentale, le proiezioni cinematografiche risalgono al 1905, quando i cinema ambulanti portarono i primi cartoni animati a Dakar e dintorni. Negli stessi anni, pionieri ed esportatori iniziarono a usare la cinepresa e alla Cinémathèque Française si trovano ancora alcuni cataloghi Méliès relativi ai primi film girati in Africa. Dopo questo primo periodo, il cinema francofono www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 6 dell'Africa sub-sahariana conobbe un notevole sviluppo, anche se nel 1960, sessantacinque anni dopo l'invenzione del cinema, non era stato ancora prodotto un solo lungometraggio davvero africano, vale a dire interpretato, fotografato, scritto, ideato, montato da africani e, naturalmente, parlato in una lingua africana. A milioni di persone rimase, per vari decenni, preclusa una tra le forme più avanzate dell'arte moderna. I primi film girati nell'Africa sub-sahariana francofona da registi non africani possono essere definiti come film "esotici". Erano la logica conseguenza della letteratura coloniale che tendeva a creare un effetto di "spaesamento". Dai titoli dei primi documentari e film muti diretti da Georges Méliès quali La prise de Tournavos (1897), Cléopâtre (1899), Infortunes d'un explorateur (1900), si evince un desiderio di "estraneità", di "cannibalismo", di "barbarie": il nero era un animale singolare, il cui comportamento doveva preferibilmente far ridere, se non sfiorare il limite del patologico, nel ruolo del selvaggio misterioso o del servo devoto. La presenza delle colonie spinse la nuova generazione di registi francesi, poco interessati a documentare quanto accadeva in Patria, a lasciare il proprio studio cinematografico al fine di sviluppare una singolare forma d'arte cinematografica, girata direttamente sul campo, in grado di catturare su pellicola i più disparati aspetti di realtà così lontane e della vita degli indigeni, veicolando spesso, attraverso tali immagini, un messaggio paternalistico. 3. Il cinema dell’Africa sub-sahariana francofona. Dagli inizi al dopoguerra Il primo film esemplare sull'Africa subsahariana francofona fu La croisière noire (1926), girato da Léon Poirier durante la prima traversata automobilistica dell'Africa dal nord al sud (da Timbuctu al Madagascar), effettuata su autocingolati Citroën, tra l'ottobre 1924 e il giugno 1925. Il tema principale del film era l'avventura automobilistica, ma, parallelamente a questa epica impresa, si colgono alcuni aspetti www.istituto-geopolitica.eu caratteristici delle popolazioni incontrate nel corso del viaggio: il nobile contegno degli indigeni, le loro danze, le loro case. Pur andando di fretta, attraverso giungle e paludi, i viaggiatori scelsero e fotografarono con cura i loro soggetti: cascate mozzafiato (quelle di M'Bali nella Repubblica Centrafricana), tramonti nel deserto, trofei di caccia (ippopotami, leoni, rinoceronti ed elefanti) e il vasto assortimento di oggetti d'arte trafugati, trionfalmente immortalati nella scena finale e consegnati al Musée d'Ethnographie du Trocadéro. Tale “bottino”, oggi invecchiato, è materiale d'archivio di valore inestimabile per la conoscenza dell'Africa e dello sviluppo delle culture africane. Nei film successivi, l'Africa sub-sahariana cinematografica continuò a essere il continente dell'esotico e del pittoresco. In realtà, anche l'Asia, il Sudamerica, persino la Groenlandia e, in genere, tutti i territori colonizzati erano spesso rappresentati sullo schermo attraverso immagini di danze selvagge, di suonatori di chitarra o di cacce primitive. Tra la prima e la seconda guerra mondiale, il semi-documentario Caïn, Aventures des mers exotiques [Caino] (1930) e Brazza, ou l'Epopée du Congo (1939) entrambi di Léon Poirier, Bouboule 1ère, le roi nègre (1933) di Léon Mathot e L'homme du Niger [L'uomo del Niger] (1939) di Jacques de Baroncelli (1881-1951) furono i primi lavori a servirsi dell'ambiente naturale e umano dell'Africa sub-sahariana francofona in film di finzione. In Brazza, ou l'Epopée du Congo, girato tra Congo e Gabon, Poirer ripercorreva alcune vicende – a cominciare dagli accordi raggiunti con il re Makoko di Mbe dei Bateke per porre il suo regno sotto la protezione della Francia – occorse all'esploratore italiano di origine ma francese d'adozione Pierre Savorgnan de Brazzà, fondatore della città di Brazzaville, futura capitale prima dell'Africa Equatoriale Francese e poi dell'attuale Repubblica del Congo. Il regista francese si serviva del personaggio di Savorgnan de Brazzà, liberatore di schiavi, per muovere una severa critica all'imperialismo francese, perché la www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 7 condotta tenuta dall'ex ufficiale di marina si era rivelata essere lontana da quella tenuta da altri esploratori bianchi, a cominciare dal suo contemporaneo inglese Henry Morton Stanley, per i suoi metodi non violenti e la sua repulsione verso lo sfruttamento coloniale, divenendo presto “scomodo” ai politici della Terza Repubblica che lo congedarono nel 1898. In Bouboule 1ère, le Roi negre, ambientato invece in Senegal, il personaggio di Bouboule, interpretato da Georges Milton, era costretto alla fuga perché accusato di aver trafugato dei gioielli da un gruppo di banditi dediti al contrabbando di diamanti tra la colonia e la madrepatria francese. Rifugiatosi in un villaggio di cannibali, sfuggiva alla morte accettando di sposare la figlia del capo. Improvvisamente, ritrovatosi re, Bouboule riusciva a sfruttare a suo vantaggio l'aiuto della tribù, seminando i banditi e tornando in Francia con i gioielli, accompagnato dal suo figlio adottivo Toto, di sei anni. Meravigliosa fantasia coloniale, il film di Mathot ribaltava la tradizionale sceneggiatura di numerosi film dell'epoca, poiché non era il colonizzato di turno ad assimilare la cultura francese, raggiungendo così i propri scopi, bensì il supposto colonizzatore a servirsi della collaborazione d’individui spesso ritratti come soushommes per sottrarsi alla cattura da parte dei suoi connazionali bianchi. Sempre nel periodo tra le due guerre mondiali, cominciarono ad apparire in Africa veri e propri documentari. Marc Allégret, che aveva accompagnato lo scrittore André Gide nel Congo per dieci mesi, ne riportò alcune incontaminate immagini nel film Voyage au Congo (1928), dove l'estetismo prevaleva spesso sull'interesse etnologico e sociale, non riprendendo del tutto il contenuto del famoso omonimo libro di Gide Voyage au Congo (1927) – violento pamphlet contro gli eccessi di un colonialismo in piena espansione. Nell'ambito del cinema documentario, l'esperienza del primo dopoguerra fu importante. Alcuni pionieri, come il professore Marcel Griaule, realizzarono i primi film etnografici africani nel corso della www.istituto-geopolitica.eu spedizione Dakar/Gibuti (1931), che portò lo stesso Griaule, oltre al musicologo André Schäffner e lo scrittore ed etnologo Michel Leiris, dall'Oceano Atlantico all'Oceano Indiano. I primi tentativi erano stati fatti in particolare presso i Dogon, sulla scogliera di Bandiagara, e nel 1938 Griaule, nel corso di una seconda spedizione, girò due film etnografici sonori in 35 mm: Au pays Dogon (1938), che in quindici minuti mostrava la vita quotidiana, la tecnica e la religione dei Dogon, e soprattutto Sous les masques noirs (1938), che riprendeva le cerimonie funebri in un villaggio della scogliera, spiegando il ruolo, la fabbricazione e l'uso delle grandi maschere che, indossate durante le danze rituali, consentono all'anima del defunto di raggiungere nell'aldilà la dimora degli antenati. In quegli stessi anni, Jean d'Esmé girò in Niger orientale La Grande Carovane (1936), 35 mm sonoro, che mostrava il viaggio di una carovana di sale da Agadez a Bilma, dove si trovavano le miniere di sale. Purtroppo, nonostante le immagini avvincenti, l'autore non riuscì a evitare i limiti dei primi documentari sonori, vale a dire un commento eccessivo e irritante e una musica inappropriata. Fu il medesimo difetto che impedì a Coulibaly à l'aventure (1936), un piccolo film completamente dimenticato, girato in Guinea da G. H. Blanchon, di imporsi come il primo film sulla società africana. Nonostante la puerilità della sua sceneggiatura, questo film aveva come soggetto proprio uno dei fenomeni più importanti dell'Africa occidentale: il movimento migratorio dei giovani della savana verso le città costiere. La storia di Coulibaly, partito dall'entroterra della Guinea per trovare il denaro necessario a comprarsi la fidanzata, facendo lo scaricante a Conakry e poi il minatore a Siguiri, resta un documento di valore inestimabile, nonostante il commento di propaganda sui presunti benefici effetti della colonizzazione. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 8 4. Gli anni del dopoguerra Bisogna attendere il dopoguerra per vedere crescere il cinema dell'Africa sub-sahariana (film girati da registi europei in Africa), tanto nell'ambito della fiction quanto in quello del documentario etnografico. Supportati da buone registrazioni audio, che permisero un salto di qualità in termini di colonna sonora, Danses congolaises (1947), Au pays des Pygmées (1947), Pirogues sur l'Ogooué (1947) di Jacques Dupont costituirono un materiale di prim'ordine sulle danze tradizionali del Congo, sulla vita dei pigmei Babinga, sui trasporti in piroga dalle cascate di Lastourville fino a Lambaréné, lungo il fiume Ogooué. Contemporaneamente alla missione Ogooué-Congo (1946), l'etnografo Jean Rouch discese il fiume Niger in piroga in compagnia degli amici Pierre Ponty e Jean Sauvy, girando alcuni film in 16 mm bianco e nero. Dopo la seconda guerra mondiale, gli addetti ai servizi cinematografici dell'esercito cominciarono a utilizzare attrezzature portatili ben più maneggevoli delle pesanti cineprese, sempre più perfezionate e ingombranti, che non potevano uscire dagli studi. Fu così che fece i primi passi il 16 mm. La scelta di questo formato era dunque un ripiego: anche se i risultati furono un po' deludenti (a causa della pellicola negativa molto veloce e in assenza di mezzi per lottare contro il calore e l'umidità). Le Actualités Françaises fecero un ingrandimento di 35 mm di questi documentari (il primo ingrandimento in Francia, in bianco e nero) e montarono un film di una decina di minuti, intitolato Au pays des images noirs (1946). Risale a questo periodo la distinzione del cinema africano in due categorie: film in 35 mm con tutte le garanzie tecniche e commerciali, e film in 16 mm, all'occorrenza ingranditi o usati in occasione di conferenze. All'inizio, tutte queste esperienze documentarie di matrice etnografica non furono molto ben accolte negli ambienti scientifici, e quando al Musée de l'Homme fu creato un Comitato del Film Etnografico, col compito di preparare soprattutto corsi di www.istituto-geopolitica.eu specializzazione per tecnici cinematografici e per studenti di etnografia, un certo numero di etnografi rimproverò i registi di privilegiare il gusto per l'immagine rispetto alla ricerca propriamente detta. 5. Gli anni cinquanta e sessanta nel cinema dell’Africa sub-sahariana Dal 1948 il numero di produzioni cinematografiche realizzate nell'Africa subsahariana francofona cominciò a crescere. Paysans noirs (1949) di Georges Régnier, intitolato in Africa Famoro, le Tyran, fu il primo film di fiction prodotto nell'immediato dopoguerra. Il film fu un lavoro importante, perché girato con il contributo degli stessi tecnici della missione Ogooué-Congo e il medesimo produttore. Paysans noirs metteva in luce le povere condizioni di vita dei coltivatori di arachidi (per i grossi oleifici europei) dell'Alto Volta (cioè l'attuale Burkina Faso), oppressi da un despota nero, laddove solo l'accurato intervento dell'amministrazione coloniale portava loro felicità e benessere. Al di là della discutibile storia, con forza emergevano le immagini dell'Africa vera, attraverso paesaggi, uomini e soprattutto dialoghi autentici. Dopo Paysans noirs, i film girati in studio risultarono decisamente datati. Il 1950 segnò una svolta importante nello sviluppo del cinema africano: i tentativi degli anni precedenti avevano decretato la fine dell'esotismo dei film d'anteguerra, evidenziando la necessità di scoprire e di comprendere la civiltà africana per poterla raccontare a un pubblico con diverse radici culturali. Dal punto di vista storico, inoltre, il 1950 rappresentò anche l'inizio della crisi del colonialismo, con i primi moti per l'indipendenza dei Paesi africani. Da quel momento, lo sviluppo del cinema africano continuerà nell'ambito di questi generi: l'Africa esotica e l'Africa etnografica. Nel primo caso, un certo numero di registi continuerà a sfruttare il filone del cannibalismo e dei balli degli stregoni, laddove l'Africa farà solo da sfondo e i suoi www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 9 abitanti saranno ridotti a misere comparse, vestite con abiti sintetici prodotti al di là dell'Atlantico o dipinte da non appropriati tatuaggi per rendere meglio il folklore indigeno. Nel secondo caso, i registi e gli etnografi, non sempre in modo corretto, cercarono di mostrare gli aspetti più autentici delle culture africane. All'interno del genere dei film “educativi”, il cinema si scontrò principalmente con l'ignoranza delle culture tradizionali che, invece, erano in corso di trasformazione. Si trattò di un limite grave, che risultò più evidente nei film a tendenza propagandistica in cui gli autori preferivano mettere in ridicolo la cultura africana minacciata, piuttosto che cercare di capirla. Il primo di questi film è il già citato Coulibaly à l'aventure, ma il problema fu affrontato sia con Afrique 50 (1950) di René Vautier – girato in 16 mm bianco e nero e sonorizzato con mezzi di fortuna – vietato in Africa e in Francia e rimasto confinato nel circuito delle cineteche in virtù del decreto Laval – che prevedeva soprattutto che nessuno potesse filmare senza essere stato identificato e verificato il copione e le persone coinvolte – sia con l'altrettanto vietato Les Statues meurent aussi (1953), realizzato da Alain Resnais e Chris Marker, nome d'arte di Christian François Bouche- Villeneuve, nei musei africani in Europa, montando materiali d'archivio sull'Africa. Interdetto dalla censura, il documentario d'impatto non poté essere programmato sino al 1963, quando ne furono proiettate le prime due parti (su tre). Attraverso le immagini girate clandestinamente in Costa d'Avorio da René Vautier, giovane studente dell'IDHEC parigino, il cinema affrontò con franchezza, se non con imparzialità, il problema principale dell'Africa del XX secolo: il rapporto con il mondo dei bianchi. Primo film anticolonialista francese, Afrique 50 era duramente critico contro la politica coloniale francese, le sue forze armate che mantenevano l'ordine e la sua economia di sfruttamento. Vautier filmò le azioni commesse dai militari francesi e le umilianti www.istituto-geopolitica.eu condizioni di vita di gran parte della popolazione locale, mettendo in luce la lotta del giovane partito RDA (acronimo di Rassemblement Démocratique Africain) – federazione dei partiti politici dell'Africa francese sorta nel 1946 in occasione del congresso di Bamako – allora nel mirino dell'amministrazione coloniale. Dedicato al processo di repressione e di degradazione dell’arte e dell’artigianato africano durante la colonizzazione europea, Les Statues meurent aussi rappresentò un efficace atto di accusa nei confronti del colonialismo (e delle stesse responsabilità della Francia). La denuncia della politica di sterminio culturale delle popolazioni colonizzate costituiva una testimonianza imbarazzante per la Francia, impegnata in una fase delicata dei rapporti con l’Africa. Partendo da una corretta domanda sul perché l'arte africana si trovasse all'interno dei musei etnografici mentre quella egizia o greca al Louvre, l’analisi di Resnais e di Marker rivelò la pratica sistematica di annullamento e di distruzione del patrimonio culturale della civiltà africana attuata dalla colonizzazione. Nello stesso periodo, i primi studenti africani dell'IDHEC, che non potevano ottenere l'autorizzazione governativa per girare nel proprio Paese, tentarono di aggirare il problema girando film africani in Europa. Se i ventitré minuti di Mouramani (1953) realizzato da Mamadou Touré, cortometraggio su un breve racconto folkloristico della Guinea, non destarono particolare interesse, Paulin Soumanou Vieyra, Jacques Melokane, Mamadou Sarr e l'operatore Robert Caristan realizzarono quello che è possibile considerare il film d'esordio della cinematografia dell'Africa nera: il cortometraggio Afrique-sur-Seine (1955), una fiction di venti minuti che aveva per set la capitale francese e per personaggi giovani immigrati africani, ma che significativamente iniziava con un prologo in Africa. Parigi era attraversata dallo sguardo di un gruppo di immigrati. I bambini, i monumenti, la gente che passeggiava, come in un'inversione del documentario etnologico. Le attività della www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 10 città e i tentativi d'integrazione. Una coppia mista si aggirava per le strade della capitale a bordo di uno scooter e una ragazza africana aspettava il fidanzato francese. Accanto a questo interessante tentativo di mostrare uno spaccato della vita degli africani fuor d'Africa e ad altri film più o meno di non facile fruizione degli anni '50, in tutti i Paesi africani furono girati un gran numero di film "educativi" che ignoravano o disprezzavano le culture tradizionali in via di sviluppo. Nella maggior parte di questi film, come già in Paysans noirs, L'homme du Niger, le culture africane erano considerate particolarmente arcaiche e indegne di sopravvivere alla civiltà occidentale, identificata per lo più con il progresso. Sebbene molti film commerciali non andassero oltre lo stadio dell'esotismo, alcuni registi francesi cercarono di spingersi oltre, superando le barriere culturali per mettere lo spettatore a confronto diretto con il mondo dell'Africa qualunque fosse stato: tradizionale o evoluto. Tali opere caratterizzeranno le prime tappe del vero cinema africano. Seguendo le orme di Robert Flaherty, Jean Rouch aveva girato Les Fils de l'eau da un punto di vista etnografico ma, per evitare la trappola dell'esotismo in cui altri registi erano caduti, Rouch diede la parola agli africani, chiedendo di commentare loro stessi i loro comportamenti, le loro azioni e le loro reazioni. Con Jaguar (1954, distribuito nel 1967), invece, Rouch narrò la storia di tre giovani nigeriani che lasciavano il fiume per emigrare nel Ghana (già indipendente). Questo viaggio, ricco di affascinanti avventure picaresche, ebbe un seguito con Moi, un Noir (1957), dove tre giovani neri – non a caso soprannominati Tarzan, Lemmy Caution e Edward Robinson perché, per evadere dalla loro dura vita, loro stessi immaginavano di essere gli “eroi” del cinema commerciale – lasciavano il loro Paese sulle rive del Niger per cercare fortuna nella metropoli di Abidjan, finendo per vivacchiare nel povero quartiere di Treichville tra lavori precari, bagni in laguna, sbornie e contatti con una prostituta. A una prima parte di taglio www.istituto-geopolitica.eu documentaristico, seguiva una seconda dove, mescolando finzione e realtà, Rouch lasciò la parola agli abitanti della bidonville ivoriana, puntando ad approfondire la loro psicologia, facendoli parlare dei loro problemi, sogni e delle loro preoccupazioni e disillusioni. In seguito, con un film tecnicamente ancora in bilico tra fiction e documentario quale fu La Pyramide Humaine (1961), Rouch affrontò la possibile amicizia e convivenza tra studenti neri e bianchi in un collegio della Costa d'Avorio al tempo dell'indipendenza. Il pretesto per la narrazione era costituito dall'arrivo di una nuova ragazza francese nella classe, Nadine, stupita dalla barriera d'ignoranza e di silenzio che divideva le due comunità, che mostrava un atteggiamento disponibile nei confronti dei ragazzi africani che scatenava le gelosie dei bianchi. Tra rivalità adolescenziali, danze tribali africane, problemi borghesi dei ragazzi europei, discussioni sulla segregazione razziale, i due gruppi finivano per confrontarsi culturalmente, condividendo alcuni punti di vista. L'immediatezza e la sincerità raggiunta attraverso le registrazioni di incontri non preparati, caratterizzò quella particolare tendenza del cinema contemporaneo che prese il nome di “cinema-verità” e che avrebbe assunto una più precisa configurazione con l'introduzione di macchine da presa leggerissime e silenziose e di magnetofoni portatili per penetrare nell'intimità della vita quotidiana come la si viveva veramente. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 11 Seconda parte 1960: l'Africa sub-sahariana francofona verso un cinema nazionale 1. Dagli anni Sessanta alla nascita di un cinema “africano” Nel 1960, con l'indipendenza politica, i nuovi Stati dell'Africa sub-sahariana si ritrovarono spesso privi degli strumenti necessari per avviare una propria cinematografia, a eccezione di un laboratorio di sviluppo e stampa cinematografica e di uno studio per registrare la musica e il sonoro dislocati in Nigeria (35mm) e in Guinea (16mm). Gli imperativi economici spinsero subito i nuovi Governi verso un pronto ammodernamento delle proprie apparecchiature video. In generale, le società di produzione erano tutte a carattere governativo. Di private ne esistevano solo tre, in Senegal, Angola e Congo-Brazzaville. Esistevano anche due società di distribuzione nell'area dell'Africa francofona. Erano la Compagnie Marciane Cinématographique et Commerciale (COMACICO), che si era appena associata alla tedesca Universum-Film AG (UFA) attraverso la sua filiale francese, e la Societé d'Exploitation Cinématographique Africaine (SECMA), società appoggiata dalla Banca dell'Africa occidentale. Per i Paesi africani anglofoni, invece, era la società Film Units, legata alle altre società britanniche, che distribuì la maggior parte dei film programmati nelle sale. Per quanto riguardò i cinegiornali, i Paesi che disponevano sul loro territorio di laboratori, studi e sale di montaggio, li confezionarono sul posto in 35 mm o in 16 mm. Gli altri Stati, soprattutto quelli francofoni, si appoggiarono al CAI, che riuniva tutte le case francesi di produzione di cinegiornali, cioè le Actualités Françaises, Eclair-Journal, Gaumont-Actualités e PathéActualités. Nei primi anni dell'indipendenza, il cinema divenne così uno strumento d’informazione più che di divertimento. Al seguito dei cinegiornali nacque una produzione di www.istituto-geopolitica.eu documentari, perché erano film che richiedevano budget ristretti e che potevano essere ammortizzati sul mercato interno di ogni Paese. Il numero particolarmente ristretto di sale cinematografiche e di spettatori rappresentarono ulteriori ostacoli che, inizialmente, frenarono un possibile rapido sviluppo della produzione africana. Ciò nonostante, l'educazione degli Africani all'arte cinematografica fu un importante momento di crescita nella storia del cinema dell'Africa. Negli anni '50 e '60, alcuni futuri registi provenienti da Paesi dell'Africa occidentale di area francofona riuscirono a entrare nelle scuole di cinema europee (a Parigi, Berlino Est, Mosca). Queste ultime si trovarono così ad assumere un ruolo guida nello sviluppo del cinema africano. Gli aspiranti registi africani volevano fare della loro percezione dell'Africa – dai secoli dell'oppressione coloniale agli anni della repressione neocoloniale – il tema delle loro opere. Avevano inoltre imparato, dagli esempi della produzione coloniale, che il mezzo cinematografico aveva un potenziale enorme e che nella situazione dell'Africa postcoloniale, in una società ancora prevalentemente analfabeta, il cinema avrebbe costituito, grazie alle sue potenzialità a livello comunicativo e alle opportunità che poteva offrire, il mezzo per presentare un’immagine nuova e diversa del continente. Fu a partire da questa prospettiva che i registi africani difesero, sin dall'indipendenza, la necessità di lavorare per la cultura africana in un'ottica che fosse africana. Paulin Soumanou Vieyra girò Une nation est née (1961), documentario di venti minuti che commemorava il primo anniversario dell'indipendenza senegalese. Yves Badara Diagne realizzò L'Afrique noire en piste www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 12 (1961), un film di venti minuti che celebrava l'entrata ufficiale del Senegal nella gerarchia della competizione sportiva internazionale in vista delle future Olimpiadi di Tokyo (1964). Un altro importante passo nello sviluppo del cinema dell'Africa fu la creazione del Bureau du Cinéma, diretto da Jean-René Débrix, che funzionava sotto gli auspici del Ministère de la Coopération. Nell'ambito del CAI, i registi e i tecnici cinematografici erano prevalentemente francesi e avevano il compito di soprintendere al miglioramento della comunicazione audiovisiva, mentre il Bureau du Cinéma incoraggiava la partecipazione africana a tutte le fasi della realizzazione di un film. I registi africani potevano scegliere tra due possibilità: il Ministère de la Coopération poteva produrre film diretti da africani fornendo il sostegno tecnico-finanziario necessario; oppure il regista africano poteva scegliere di portare a termine il film con mezzi propri e accettare che il Ministère de la Coopération pagasse i costi di post-produzione in cambio dei diritti di distribuzione non-commerciale del film. Questo tipo di accordo fu aspramente criticato dai cineasti africani alla luce di alcune pretese ministeriali che imponevano sceneggiature conformi a standard cinematografici francesi, insistendo per avere il controllo della diffusione tramite acquisto dei diritti per una distribuzione non-commerciale del film per un periodo anche di cinque anni. 2. L’importanza del Ministère de la Coopération per il cinema di area francofona e l’attività cinematografica di Ousmane Sembène Tra il 1962 e la fine del 1980, la grande maggioranza dei film realizzati in area francofona furono parzialmente finanziati tramite i pacchetti di assistenza del Ministère de la Coopération. Tuttavia, i più noti tra i film realizzati grazie all'aiuto francese furono Borom Sarret (1963) e La Noire de… (1966) di Ousmane Sembène, tra i più grandi autori e cineasti della storia della cultura africana. Con la proiezione di una vera produzione www.istituto-geopolitica.eu cinematografica africana quale fu Borom Sarret all’Internazionale Tours Film Festival del 1963, il film passò alla storia come prima opera cinematografica africana vista da un pubblico pagante di spettatori di tutto il mondo e vinse il Premio Opera Prima, facendo breccia a livello internazionale (sebbene il primo film africano a ottenere lo stesso premio fu comunque Aouré). Girato a Dakar, Borom Sarret, di soli diciannove minuti di durata, era indiscutibilmente un piccolo capolavoro, che aveva il respiro delle immagini nouvelle vague ovunque filmate in quegli anni e del neorealismo più profondo e senza tempo. Emergeva con forza, attraverso l'uso della voce off, l'appello all'indignazione dello spettatore affinché prendesse coscienza delle condizioni degli sfruttati. Il film anticipò la futura linea e il futuro intento della poetica cinematografica di Ousmane Sembène, che individuò nel cinema il mezzo per risvegliare i popoli, uno strumento d'azione politica per rendere coscienti le masse. Borom Sarret affrontava, in forma embrionale, temi importanti che avrebbero, in seguito, caratterizzato il cinema dell'Africa e sarebbero stati ulteriormente approfonditi dallo stesso Sembène e da altri registi. Nella sua rappresentazione filmica di un microcosmo, Borom Sarret era deliberatamente allegorico, con una struttura che evocava specificità nazionali (e implicitamente continentali) attraverso l'introduzione di "frammenti di discorso" che rivelavano messaggi politici in codice. Il contrasto tra poveri e ricchi nel contesto urbano di Dakar servì come argomento base, ma Sembène intrecciò una serie di bozzetti che diedero uno spaccato della vita africana sullo sfondo della realtà neocoloniale, laddove l'élite africana aveva sostituito l'amministrazione coloniale bianca in un clima di alienazione culturale e di sfruttamento sociale ed economico. Il mondo descritto da Sembène in questo cortometraggio di finzione rifletteva specificatamente la storia senegalese e quella africana. Un rivoluzionario in fieri. Egli era www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 13 convinto che il testo dovesse risvegliare la coscienza politica dell'individuo e così si trovò sempre più scontento della letteratura come mezzo di comunicazione delle proprie idee e cominciò a interrogarsi sull'efficacia della parola scritta in un continente in cui la maggioranza della gente era analfabeta. Da qui il passaggio al cinema, che sarebbe potuto diventare il veicolo par excellence della creazione di una forma moderna di cultura africana, in grado di trascendere i confini artificiali e le barriere linguistiche. Nel 1963, Sembène girò per il Governo del Mali un documentario, L'Empire Songhai (1963), che tentava di ricostruire la storia del vecchio Impero di Songhai nell'Africa precoloniale. Questo saggio storico ruotava attorno agli abitanti islamizzati che occuparono l'area oggi nota come Mali: la lotta del Songhai contro l'invasione straniera, il colonialismo francese e il dissenso, tutti eventi che contribuirono alla decadenza e alla caduta dell'Impero. La ricostruzione del passato fu anche il tema di Sarzan (1963) di Momar Thiam – film in parte finanziato dallo stesso regista con il sostegno tecnico-finanziario del Ministero dell'Informazione del Senegal – ritratto di un Ufficiale dell'esercito coloniale che tornava al villaggio dopo aver prestato servizio tra le fila dell'esercito francese. Nel film veniva affrontato con vigore anche il tema dell'acculturazione, poiché dopo quindici anni di servizio militare, il sergente Moussa, occidentalizzato e alienato, non riusciva a riadattarsi al contesto tradizionale della società d'origine, decidendo così di imbarcarsi in una missione "civilizzatrice" della sua gente. Sarzan mise in luce l'inevitabile rifiuto della tradizione che la modernità comporta, affermando, al tempo stesso, la necessità di una trasformazione graduale, allo scopo di proteggere la società dai traumi psicologici e sociali associati ai cambiamenti improvvisi. La ricerca delle tradizioni africane attraverso le sue leggende fu un punto importante anche per la realtà cinematografica, unica nel suo genere, del Niger. www.istituto-geopolitica.eu 3. Il cinema di Moustapha Alassane Uno dei registi locali più stimati fu Moustapha Alassane, formatosi in autonomia frequentando solo qualche stage al Service Cinéma du Film Ethnographique di Parigi e all'Office National du Film di Montréal. Con Aouré, girato in un villaggio djerma, cominciò una filmografia splendidamente artigianale, sviluppando un'idea di cinema che riportava agli spettacoli delle lanterne magiche. Con il suo cinebus fece conoscere agli abitanti dei villaggi la magia del cinema, creando le prime animazioni, facendo sfilare personaggi ritagliati nel cartoncino e animati sui muri come ombre cinesi: elementi rinvenibili nelle sue opere in pellicola, per racconti spesso immersi nella favola e nell'ironia. Quando gli interessi di Alassane si spostarono sulla narrazione cinematografica, il regista scoprì che la struttura narrativa occidentale poteva unirsi alla fiaba della tradizione africana per dar vita a una corrosiva denuncia politica: ne risultò Le Retour d'un aventurier, un film inscritto in un'ossessione intima che superava ogni contatto con il reale, che rendeva gli attori “intrappolati” nel mito e nei codici di genere, al fine di denunciare i pericoli della contaminazione culturale derivanti dall'impatto dei western sulla vita degli africani. Un giovane nigerino scendeva dall'aereo, rientrava al villaggio dopo un viaggio negli Stati Uniti e portava con sé oggetti della tradizione culturale e cinematografica occidentale, e più precisamente del West: cappelli, pistole, stivali che distribuiva agli amici, ricreando così nella brousse il set di un western e sconvolgendo la vita di tutti gli abitanti chiamati a far parte di quella rappresentazione in forma di parodia, su un set naturale in cui si manifestava l'esplosione dell'artificio e dell'invenzione, della rilettura appassionata di luoghi dell'immaginario. Alassane mostrò in che misura, parodiando i valori importati, i giovani avevano sviluppato nuove forme di emarginazione. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 14 4. Alla ricerca di un linguaggio cinematografico propriamente “africano”. L’eredità e l’influenza di Sembène Tra il 1965 e il 1970, i resoconti di africani espatriati per studiare o di veterani di guerra continuarono ad attirare l'attenzione dei registi. Mentre alcuni film raccontavano esperienze individuali o di gruppo all'estero, altri si concentravano sui problemi di riadattamento al momento del ritorno in Patria. Quest'ultimo tema fu al centro dei film camerunesi Aventure en France (1962) di Jean-Paul N'Gassa, Point de vue 1 di Urbain Dia-Mokouri e del film senegalese Et la neige n'était plus (1965) di Ababacar SambMakharam. Toccò a La Noire de… [La Nera di...] di Sembène annunciare un grande slancio, seppur appena agli inizi, dell'arte cinematografica dell'Africa nera. Il film era tratto da uno dei racconti del suo romanzo Voltaïque (1962), a sua volta ispirato a un fatto di cronaca. Mentre Borom Sarret era stato girato con lucidità, La Noire de… mostrava inizialmente una qualche ingenuità scenografica, perché venivano nuovamente sfruttati i quartieri natali di Dakar, ma stavolta Sembène si servì di un personaggio femminile, Diouana, e ne propose uno studio psicologico che rifletteva, in realtà, la sua personale posizione anti-establishment. Gli imperativi politici del film ebbero ampiezza storica e profondità sociologica. La sua scontata struttura binaria ne fece però un saggio chiave sui conflitti tra bianchi e neri. La Noire de… affrontava il tema dei maltrattamenti subiti da un'analfabeta donna senegalese da parte di una famiglia francese che la portava via dall'Africa – in una scena che rimandava ampiamente a un'asta di schiavi – per farne la propria cameriera. Il viaggio stesso di avvicinamento e il soggiorno-reclusione nella sua nuova dimora costituivano il segno di una libertà negata, sognata, immaginata in rapporto a un passato e a una cultura che non poteva coesistere con la nuova realtà. Una volta "prigioniera" nell’“inferno” della Costa Azzurra di Antibes in Francia, Diouana era, infatti, esclusa da www.istituto-geopolitica.eu ogni contatto sociale. Sensi di privazione e d’isolamento conducevano Diouana, dopo aver messo i suoi effetti personali in una valigia, essendosi spogliata dei suoi abiti “occidentali” e legatasi i capelli, al suicidio. La descrizione dei fatti e la caratterizzazione dei personaggi erano approfondite; il discorso critico sui conflitti generazionali e sociali, sui problemi del colonialismo e dello scontro fra due civiltà apparve complesso e stimolante, attraverso uno stile non privo d'un sottile fascino formale. Il passato si ripresentava dalla valigia della protagonista, da una fotografia in essa contenuta e che ritraeva la donna abbracciata a un uomo, dalla maschera – che Diouana acquistava a credito dal fratello per regalarla ai padroni – simbolo dell'Africa e della sua cultura tribale, indossata da lei stessa, da un popolo costretto a celare emozioni, sensazioni e culture di fronte al padrone occidentale. Il sogno andava in frantumi. Come già in Borom Sarret, non esisteva possibilità di fuga. Considerato il primo lungometraggio drammatico del cinema africano, La Noire de… vinse il Premio Jean Vigo per il miglior regista (1966), il Tanit d'Oro di Cartagine (1966) e il primo premio (1966) al Festival Mondial des Arts Nègres di Dakar. Il 1966 fu un anno importante per il cinema africano. Fu un periodo di eccezionale produttività che annunciò la nascita del cinema di fiction nel continente. I film Mandabi (1968) ancora di Sembène e Cabascabo di Ganda furono distribuiti a livello internazionale, ottenendo un riconoscimento da parte del mondo intero e contribuendo alla diffusione del cinema africano all'estero. Da tutta l'area francofona emersero film che affrontavano temi simili a quelli trattati con successo da Sembène. Il cineasta della Costa d'Avorio Désiré Écaré, ex studente dell'IDHEC, dimostrò un considerevole talento con le due opere realizzate a Parigi, www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 15 Concerto pur un exil (1968) e À nous deux, France! (1969), ribattezzato Femme noire, femme nue dai distributori francesi, contenente uno splendido inserto dedicato alla bellezza delle donne. In Mon stage en France (1968), il regista camerunese Thomas Makoulet Manga raccontò, invece, la propria esperienza di formazione in Francia. Altri film della categoria furono Âme perdue (1968) – storia di una giovane africana, Natou, sedotta e abbandonata dall'amico di suo cugino, Soriba – di Sekou Amadou Camara dalla Guinea e, soprattutto, Soleil Ô (1971) [Sole O] di Med Hondo, cineasta della Mauritania, uno dei più rigorosi assertori di un cinema politico, vero animatore di quel movimento d’integrazione cinematografica africana che, sulla base delle differenze nazionali e culturali ma all'interno di un unico impegno di progresso politico e sociale, si andava diffondendo nel continente africano. Lo sfortunato Oumarou Ganda, morto prematuramente nel 1981 all'età di quarant'anni, fu il secondo pioniere del cinema del Niger dopo Alassane. Lavorò anche come aiuto-regista nell'unità cinematografica del Centre Culturel Français de Niamey. Ganda fu uno dei pochi cineasti africani a trarre beneficio dalla cooperazione francese, che permise di rettificare l'immagine esclusivamente etnografica proposta in passato da Rouch e duramente criticata da Sembène. Il mediometraggio d'esordio di Ganda, Cabascabo, era un film autobiografico nel quale Ganda riprendeva proprio il personaggio da lui interpretato in Moi, un noir e ricostruiva la sua esperienza indocinese riflettendo sulle conseguenze del ritorno a casa. Ganda consegnò ai flashback i ricordi visivi della guerra, dei combattimenti, del fronte, e sviluppò al presente il difficile reinserimento nella vita quotidiana in Niger. Il protagonista vi tornava da bullo, frequentando il bar dei reduci, portando doni a tutti, dilapidando i soldi fra bevute e regali per una prostituta che lo sfruttava, cercando lavoro e alla fine decidendo di tornare dai genitori e www.istituto-geopolitica.eu recarsi, come molti altri, a coltivare la terra. A differenza di Ganda, Med Hondo indagò la situazione critica del popolo africano con uno stile innovativo e un orientamento teorico. I suoi film saranno dei ritratti a tutto tondo, un riflesso della sua rabbia di fronte alla decadenza di una società che vorrebbe veder cambiare. Si rivolse allora al cinema, proprio come Sembène, nella speranza di raggiungere un pubblico più vasto. Balade aux sources (1967), riflessione disincantata di un immigrato africano sulle proprie condizioni di vita, e Partout ailleurs peut-être nulle part (1969), film su due coppie di bianchi viste attraverso gli occhi di un africano, furono girati entrambi nel 1967 mentre Hondo si stava già preparando alla realizzazione di Soleil Ô. Quest’ultimo fu un meticoloso attacco all'imperialismo straniero in Africa, dai tempi della schiavitù a quelli successivi all'indipendenza. Il paradosso della continuità tra colonialismo e postcolonialismo costituì il fulcro della sua complessa struttura, per un affresco storico confezionato come un saggio d'avanguardia sul razzismo e il profondo senso di straniamento e di alienazione, cui furono sottoposti il regista e intere comunità di immigrati di colore in Francia. Nel corso del film, le lenti panoramiche di Hondo abbracciavano uno spettro del paesaggio coloniale e di quello neocoloniale abbastanza vasto da poter catturare il dualismo strutturale (Occidente e tradizione) dell'emancipazione africana. Lo spettatore imparava dal film che i dogmi educativi, civili e religiosi, inculcati dai colonizzatori francesi, erano circa superficiali, soprattutto nel momento in cui il sistema basato sul pregiudizio gerarchico della Francia teneva a bada i benefattori. Proprio come la protagonista dell'opera di Sembène La Noire de… - Diouana - era identificata dai padroni coloniali come la ragazza nera, la domestica, l'africana, così il ragioniere di Soleil Ô era identificato soltanto per il colore della sua pelle. Il personaggio, che rappresentava l'ondata di africani delle ex colonie andati a cercare una vita migliore www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 16 nell'ex madrepatria, non aveva nome ed era il simbolo dell'emarginazione. Figura simbolica e, in virtù dell'educazione ricevuta, ponte tra passato e presente, il ragioniere del film di Hondo diveniva ancora un cronista in grado di capire gli aspetti coloniali e neocoloniali. Man mano che il film procedeva, dal punto di vista intellettuale si passava a uno di caratterizzazione più proletaria, partendo dai cenni sullo status culturale e sociale del protagonista, per arrivare alla sua imponente discussione sul capitalismo con un executive francese, al lavoro di spazzino e alla sua identificazione con i propri compatrioti neri, alcuni dei quali arrivavano persino a evitarlo. Il film riaffermava così che, a prescindere dallo status sociale, la situazione, finché si era neri, rimaneva la stessa. L'aspetto riflessivo di Soleil Ô richiamava inoltre lo sguardo sul suo status di costrutto evocativo e, più in generale, di prodotto politico e ideologico. L'interesse dialettico lo avvicinava, sul piano delle idee, al contesto politico del cinema africano prospettato da Sembène, la cui opera è altrettanto pervasa di dialettica marxista. Eppure Soleil Ô non era un documentario, né un film di fiction: non raccontava necessariamente una storia, era costruito, piuttosto, a segmenti, come se ogni scena fosse stata per Hondo un'opportunità creativa di scuotere il pubblico con un'affermazione politica in parte celata. 5. Lo scontro tra cultura tradizionale e le influenze europee Verso la fine degli anni '60, quando il concetto di panafricanismo andava politicizzandosi sempre più e permeava la struttura sociale africana, anche i registi si spostarono verso un'indagine più profonda delle questioni sociali e dei problemi dell'epoca: la dicotomia città/mondo rurale, la disoccupazione, la corruzione, la posizione della donna all'interno di una società dominata dal maschio e la poligamia. Djibril Diop-Mambéty, già famoso attore senegalese, girò Contras City (1968), caotico viaggio nelle vie di Dakar, oltre che studio www.istituto-geopolitica.eu satirico dell'imponente realtà cosmopolita della capitale senegalese. Ritenuto il primo film comico africano, Contras City esplorava alcuni luoghi pubblici della capitale senegalese (il municipio, il teatro, il Ministero dell'Informazione, oltre alle strade, ai mercati, ai quartieri poveri). Così, i dettagli sui particolari del corpo del cavallo si facevano inserti che depistavano, che conducevano il film oltre il documentario, che testimoniavano la soggettività dell'operazione, immersa negli spazi della memoria del cinema – fra il Dziga Vertov di L'uomo con la macchina da presa (1929), l'Alain Resnais di L'anno scorso a Marienbad (1961) e un altro carretto portato in giro per Dakar da Ousmane Sembène in Borom Sarret – e in quelli di una città da trasferire sempre più, nel corso del film, in una dimensione atemporale. Infatti, se le prime sequenze di Contras City individuavano aspetti legati all'attualità (le donne che sfogliavano le riviste femminili, la preghiera in strada), a comportamenti sociali da affrontare con humour – commentati con ironia dalla voce fuori campo (come anche in altri momenti del film), le immagini finali contenevano ancora il viaggio nella città, ma più spostato nella percezione, vissuto dall'interno di un vecchio autobus, proveniente da un altro tempo. In seguito, sarà ancora Sembène a dare al cinema africano l'ennesima nuova dimensione. In Mandabi, il regista senegalese esaminò con maggior vigore e in modo più critico e ampio la questione dell'ingiustizia sociale, concentrandosi sullo sfruttamento degli analfabeti da parte di gente istruita, brillante e corrotta (con un'educazione ricevuta di solito oltremare). Le difficoltà d'adattamento di un giovane nigerino nel mondo in evoluzione che lo circondava e, soprattutto, l'analfabetismo erano i temi portanti di La Réussite de MeïThebre (1970) di Yaya Kossoko mentre, col suo primo lungometraggio, Moustapha Alassane ricorse alla propria abilità cinematografica, ora più matura, per illustrare, in un saggio sullo sciovinismo del maschio africano, intitolato F.V.V.A. (Femmes, Villa, www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 17 Voiture, Argent) (1972), la corruzione, il nepotismo e la cattiva gestione che caratterizzavano la borghesia africana. F.V.V.A. (Femmes, Villa, Voiture, Argent) ribadì i tratti dell'opera di Alassane: ambientato nella società contemporanea, era una satira rivolta a quelle persone che dall'indipendenza avevano pensato solo a conquistare potere e benessere, attraverso abusi racchiusi nelle quattro parole le cui iniziali formavano il titolo del film. In un contesto soggetto a rapidi cambiamenti come quello africano, in cui le culture tradizionali si mischiavano a quelle importate, i cineasti cominciarono a esaminare sempre più il ruolo della donna in maniera realistica rispetto allo stereotipo femminile del cinema occidentale, che proponeva una donna sensuale, a seno nudo, oggetto del desiderio sottomesso ai voleri del maschio, con un ruolo minimo o inesistente all'interno della società. Realizzato con grande difficoltà, Visages de femmes trattò, con toni anche sdrammatizzanti, la condizione della donna africana e i suoi destini, contrapponendo a una contadina un personaggio femminile più emancipato. Nella prima parte, ambientata in un piccolo villaggio, si svolgevano le relazioni amorose di una giovane donna con il fratello del marito venuto dalla città e poi coinvolto in una scena di sesso in acqua, lunga, sensuale e ai limiti dell'hard, con un'altra donna del villaggio. Écaré ruppe un tabù per un cinema come quello africano dove, raramente, il sesso era presente, neppure in maniera soft. L'immancabile intervento della censura ivoriana contribuì, però, in misura notevole, al suo successo. D'altro canto, i film a sfondo sociale andavano a toccare tasti dolenti e i leader africani cercarono di limitare la diffusione del materiale audiovisivo. Critiche a costumi quali la poligamia erano considerate contro la tradizione. In Burkina Faso, Mandabi e Deela ou Albarka le conteur (1969) di Alassane fecero scoccare tra i registi la scintilla del dibattito su uno dei principali problemi del cinema africano: quello della lingua. Prima di www.istituto-geopolitica.eu girare Mandabi, Sembène si era posto l'obiettivo di servirsi dei film per rivolgersi alle comunità contadine, in larga parte analfabete, in una lingua che fosse comprensibile. Ma, a causa delle restrizioni imposte dai dipartimenti francesi che finanziavano la produzione cinematografica africana, i suoi film, girati in francese, non erano riusciti nell'intento. Queste restrizioni esistevano ancora ai tempi in cui girò Mandabi, ma Sembène riuscì a realizzarne due versioni: una in francese e una in wolof. Se i temi di attualità sociale di Mandabi andarono a toccare le corde sensibili del pubblico, Deela ou Albarka le conteur recuperò vecchie tradizioni africane ancora presenti nelle varie società tradizionali, per poi scoprire che l'universalità del messaggio era compromessa dal problema della lingua. Sembène e Alassane furono entrambi sensibili al problema di un cinema africano indipendente che rispondesse alle esigenze e ai desideri, anch'esso, di un pubblico africano. In Senegal, la lingua wolof è parlata dall'85% degli abitanti. Solo una piccola parte della popolazione non è quindi in grado di capire i film girati in quella lingua (la situazione è molto più critica in altri Stati africani dove abbondano dialetti diversi fra loro). L'uso del francese sarebbe stato inibitorio e avrebbe ridotto la portata del messaggio. In Deela ou Albarka le conteur, dove il griot parlava nella lingua locale, per il commento si utilizzò il francese. Dalla fine degli anni '60, sono stati girati film che hanno affrontato il tema dell'evoluzione del continente in ogni Paese africano. Le opere di questo periodo si sono presentate non come dei prodotti con un'estetica particolare, ma come impetuosi tentativi di dialogo politico. Le immagini, lo stile, la struttura, i temi hanno esplorato le risposte politiche e culturali evocate dai film stessi. Nel contempo, s'è affermato il tentativo di creare un cinema risoluto, in grado di affrontare vari modelli culturali e politici africani. L'epoca è stata segnata dall'esplorazione di modelli di espressione e di formulazione www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 18 ideologica saldamente radicati nello spirito del panafricanismo, con un appello alla riformulazione della storia africana distorta dalle ideologie coloniali. Sulla base di contesti nazionali - a volte ideologicamente, politicamente e culturalmente diversi - una tradizione è stata fondata, una tradizione cinematografica africana che riconosce la necessità di dare colore alle strutture narrative convenzionali con le forme della narrazione orale tipica del continente. In questo modo, il cinema africano ha messo in piedi una struttura che unisce cultura tradizionale e tecnologia occidentale (caratterizzata dalle forme di produzione tecnologicamente dominanti). 6. Le caratteristiche del cinema africano fra tradizione e modernità: i problemi principali per la produzione e la distribuzione cinematografica Quello africano, come tutto il cinema del Terzo mondo, è un cinema “povero” che, costretto da grosse limitazioni materiali, mira all'essenziale. Tuttavia, i cineasti africani hanno saputo avviare un processo di revisione critica degli strumenti di cui solitamente si avvalgono i prodotti della grande industria cinematografica: se alti budget di produzione hanno spinto anche grandi e originali registi a sostituire l'immaginazione con la messa in scena, le limitazioni dei periodi di difficoltà e di crisi hanno liberato la loro fantasia artistica e condotto a una maggiore intensità, talvolta a un proprio linguaggio cinematografico. Elementi specifici del cinema dell'Africa sub-sahariana francofona sono stati il tono epico della narrazione, il gesto didattico e la rappresentazione non psicologica dei personaggi, i cui comportamenti derivano da ruoli sociali. In effetti, questi mezzi stilistici si sono ricollegati direttamente alla tradizione popolare dei griot, che ancora si ascoltano la sera nella piazza del villaggio sotto l'albero delle riunioni. In questo cinema non c'è stato nessun inganno, nessuna tecnica di pressione psicologica in atto, ma solo un invito ad aprire www.istituto-geopolitica.eu gli occhi, a seguire una storia. Gli spettatori non sono stati indotti a una passiva identificazione, sono altresì posti innanzi ai fatti raccontati attraverso le immagini in qualità di osservatori dotati di giudizio critico. Lo sguardo rivolto alle cose meno appariscenti, agli avvenimenti del quotidiano e alla vita della gente comune ha reso visibile quella realtà sociale, altrimenti negata o nascosta dietro una maschera folkloristica. Il livello artistico raggiunto da queste pellicole è stato sorprendente per più di una ragione: per la brevità della sua storia, per il non elevato numero di film finora prodotti e, soprattutto, in considerazione delle condizioni materiali in cui tale cinematografia è nata e, in larga misura, persino oggi, opera. Quasi dal nulla la produzione è giunta in un solo balzo a un livello che altre produzioni cinematografiche nazionali, come per esempio quelle del sud-est europeo, nate dopo la seconda guerra mondiale in condizioni tecniche insufficienti e senza esperienza professionale, hanno raggiunto solo dopo lunghi e faticosi tentativi. Ciò nonostante, fino a oggi, la cinematografia dell'Africa sub-sahariana è stata la meno sviluppata nell'ambito dei Paesi terzomondisti. Mentre l’India, il Paese dalla seconda economia a più rapida crescita, ha superato con circa seicento film all'anno, anche se solo nella produzione e non nella distribuzione, persino Hollywood, nei Paesi a sud del Sahara, alla fine degli anni '90, si sono girati complessivamente circa quattrocento lungometraggi. Ciò significa che, a fronte di una produzione annua molto modesta – in rapporto alla grandezza del continente – esiste una percentuale straordinariamente elevata di film di qualità. Se si tiene conto delle condizioni vigenti, la comparsa di ogni nuovo film è stata un piccolo evento. La maggior parte degli Stati africani non ha avuto né la disponibilità finanziaria, né l'interesse per una produzione cinematografica indipendente. A spese dello Stato sono stati prodotti solo film didattici e cinegiornali, che spesso non sono stati altro che veicoli celebrativi della politica del www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 19 Governo in carica. Inoltre, ricorrendo ai finanziamenti a favore dei Paesi in via di sviluppo, è stata promossa la creazione di una rete televisiva nazionale, sebbene in alcuni siano mancate le premesse per trasformare quest’oggetto prestigioso in un mezzo di comunicazione realmente utile. Fino agli anni '90 è stato spesso mandato in onda un unico programma al giorno, che ha raggiunto solo poche migliaia di spettatori nelle città. Un altro limite è stato dato dalla mancanza d’imprese con capitali d'esercizio sufficienti, l'infrastruttura tecnica e personale specializzato esperto. I pochi imprenditori privati hanno perciò lavorato in vista del profitto, manifestando tanto poco interesse per l'arte quanto per la realtà sociale. In questa situazione è stato più facile per i registi emergenti riuscire a realizzare le loro opere di quanto non accadesse negli anni post-indipendenza, ma difficilmente è riuscita a svilupparsi un'industria cinematografica indipendente. Numerosi cineasti hanno perciò creato in proprio piccole case di produzione, in cui sono, al tempo stesso, autore, regista e produttore. Di norma, sono stati costretti a iscrivere ipoteche, a ricorrere al credito bancario e a procurarsi il resto del capitale facendosi prestare piccole somme. Per produrre un solo film, nonostante il loro lavoro precedente avesse ottenuto buone critiche e premi a festival internazionali, spesso questi registi si sono indebitati per anni. Solo giocando d'astuzia, alcuni di loro sono riusciti a ottenere sovvenzioni statali e poi a evitare che, una volta terminato, il film, spesso molto diverso dal progetto autorizzato, fosse censurato. Se la produzione è avvenuta in circostanze tanto difficili, il problema principale è stato comunque la distribuzione. Per diverse ragioni, la maggior parte dei film è rimasta sconosciuta proprio a quelle masse africane per cui è stata pensata e cui si è rivolta: innanzitutto, in rapporto alla popolazione, per lo scarso numero di cinema presenti sul territorio, nella maggior parte dei casi sale all'aperto male attrezzate, localizzate esclusivamente nelle città più grandi, che www.istituto-geopolitica.eu hanno raggiunto solo una minuscola frazione di un mercato potenzialmente vastissimo. Il numero esiguo di sale è stato altresì dominato, quasi ovunque, dai monopoli di distribuzione stranieri e inondato dai prodotti di scarto dell'industria internazionale dell'intrattenimento. Alla fine degli anni '80, la programmazione era ancora costituita da film di seconda, terza e quarta mano, provenienti da Hollywood, Cinecittà e Hong Kong, integrati con melodrammi prodotti al Cairo e a Calcutta. Al momento, l'Africa subsahariana importa più di mille film all'anno. Si tratta in massima parte di vecchi film, che hanno già da tempo ammortizzato i costi di produzione e che sono offerti a prezzo di svendita. Di solito non è stata prevista una partecipazione del produttore sulle vendite. I distributori hanno certamente fatto un grande affare, ma anche per chi vende si è trattato sempre ancora di un guadagno supplementare. In questi casi non c'è stato spazio per il giovane cinema dei registi africani, impegnato sul piano artistico e sociale. Malgrado ciò, se trovassero una buona posizione nelle programmazioni, i film dei registi africani potrebbero cogliere un qualche successo almeno nel mercato dell'home video. Di fatto, il pubblico africano ha abitualmente amato i film dei suoi connazionali, che hanno risposto molto di più al suo ritmo e al suo senso della vita. Dove questi film sono entrati nella programmazione, le sale cinematografiche hanno registrato di frequente il tutto esaurito. Nel 1980, i diciassette Stati (Benin, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Ciad, Costa d'Avorio, Camerun, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Madagascar, Mauritania, Mauritius, Niger, Rwanda, Senegal, Seychelles, Togo) dell'Organizzazione internazionale regionale per la cooperazione in varie regioni dell'Africa, istituita a Nouakchott, in Mauritania, il 12 febbraio 1965 e scioltasi il 23 marzo 1985, chiamata Organisation Commune Africaine Malgache e Mauricienne (OCAM), hanno cercato di creare insieme un consorzio per la produzione e la distribuzione nell'intera regione, ma il www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 20 tentativo è fallito dopo pochi anni. Ciò nonostante, in alcuni Paesi (ad esempio, il Burkina Faso) che hanno nazionalizzato la produzione cinematografica, si sono intravisti incoraggianti sviluppi, tuttavia è ancora assente quell’auspicata collaborazione interafricana che sola potrebbe offrire una radicale e duratura soluzione agli attuali problemi, creando un comune mercato per la distribuzione dei film e finanziando la produzione. Negli ultimi anni, il tratto comune che caratterizza numerosi film dei nuovi registi dell'Africa sub-sahariana francofona, proprio perché ambientati nella contemporaneità, è il ripensamento della propria storia, tradizione e identità in una riflessione che si ricollega al presente. La crisi e lo sviluppo del cinema africano del nostro tempo si sono articolati attraverso strutture in movimento che occorre analizzare brevemente. Nel ventennio tra gli anni '50 e '70 si è assistito in Africa alla caduta delle strutture coloniali e alla nascita, varia e tumultuosa, delle nuove Nazioni emergenti. Per quel che concerne gli aspetti socio-culturali, una delle urgenze maggiori di questi nuovi Paesi è stata l'affermazione dell’“identità culturale” e cioè l'appello energico e costante, rivolto ai creatori d'ogni forma d'arte, dal teatro al cinema, dalla pittura alla poesia, di svincolarsi da tutti i modelli d'imitazione passiva e fare, invece, appello alle profonde risorse della tradizione e delle storie endogene. Ciò ha fatto sì che il cinema africano del 2000 non sia stato costruito attorno al solo e continuo ritorno alle origini, ma ispirato da un insieme di idee culturali autenticamente universali. La questione cruciale ha quindi riguardato la possibilità se una commistione di generi e temi abbia potuto offrire, ai giorni nostri, il profilo di una modernità nascente. Negli anni scorsi, la minaccia più grave allo sviluppo del cinema africano è stata la semplice assunzione di modelli altrui, compresi quelli della tecnica. Persino nel campo cinematografico, la modernizzazione non deve costituire un continuo dilemma storico, ma deve piuttosto realizzarsi nella www.istituto-geopolitica.eu volontà dei popoli di rappresentarsi, nelle loro motivazioni profonde d'identità e di speranze, semmai coniugando la tradizione orale, mobile e imprevedibile, con un'evidente integrazione tecnica. Sebbene le masse lo abbiano maggiormente ritenuto più un mezzo di comunicazione che una vera e propria arte contemporanea, il cinema africano è stato un fenomeno inscritto negli ultimi sessant'anni, che non si è potuto sviluppare in simbiosi con le pregresse forme di comunicazione e di arte quali la letteratura o la musica, costituendo, però, l'ovvio riflesso della continuità della specificità culturale tradizionale e, quindi, originale del popolo africano già espressa in forme differenti nel racconto orale così come nella musica, nel teatro e nella danza. Nello specifico dell'Africa sub-sahariana francofona, la concezione di arte intesa nel rapporto uomo/cosmo e i temi comunemente affrontati hanno indotto a lungo e, in linea generale, a scelte stilistiche diverse da quelle generalmente usate da altre cinematografie, come il ricorso a campi medi fino al campo lungo o lunghissimo, poi a un montaggio generalmente non serrato o di tipo analogico e a poche azioni veloci per privilegiare il tempo del dialogo. Non diversamente da molte altre culture narrative e cinematografiche del mondo, il cinema dell'Africa sub-sahariana francofona è stato caratterizzato da un grado relativamente consistente di intertestualità. Ciò significa che le modalità in cui i film che costituiscono l'odierno corpus cinematografico africano sono rapportabili gli uni agli altri e, in particolare, nel modo in cui alcune opere recenti hanno riecheggiato alcune più vecchie, tramite ripetizione, revisione, saggio, parodia, trasgressione o mediante una combinazione di questi elementi. Numerosi film attuali, pur mostrando caratteristiche (in termini di problematica del soggetto, tema, stile e linguaggio) che evocano l'etichetta di “nuovo”, entrano analogamente in risonanza con elementi dei film che li hanno preceduti. Negli ultimi anni, rare sono state le produzioni davvero nuove, senza riferimenti www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 21 più o meno consapevoli con quelle antecedenti, laddove anche il mondo dell'intero cinema africano possiede ugualmente logiche di riferimento, risonanze e relazioni proprie. Nel frattempo, una nuova generazione di registi si è affacciata sui palcoscenici nazionali ma, nella maggior parte dei casi, ha dimostrato di possedere minore impegno sociale e forza artistica, caratteristiche che in passato avevano connotato la generazione dei pionieri, creando dal nulla la fama del cinema francofona. dell'Africa sub-sahariana www.istituto-geopolitica.eu L'interesse commerciale degli imprenditori privati e l'ambizione delle autorità pubbliche che si sono risvegliati nell'ultimo decennio permettono, talvolta, ai giovani registi di trovare più facilmente fondi, spingendoli anche al compromesso. Il risultato di questo è stato spesso rappresentato da una produzione conformista e, non di rado, di più bassa fattura. Tuttavia, nello stesso tempo, sono nati anche nuovi talenti, che hanno dato prova della loro indipendenza e integrità, unendo all'impegno sociale la serietà artistica. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 22 Terza parte La cinematografia di Souleymane Cissé: aspetti stilistici, sociali e politici 1. Introduzione La complessa opera di Souleymane Cissé è stata soprattutto una cinematografia militante, testimonianza politica che di film in film si è affinata in uno sguardo meno faticoso, sempre più libero e poetico, in una complessità figurativa e di forte impatto emozionale, che ha raggiunto punti elevati di ricerca negli ultimi lungometraggi. Souleymane Cissé, Solo per gli amici, nasce il 21 aprile 1940 a Bamako, in quello che veniva chiamato Sudan Francese. La sua umile famiglia, di etnia soninké, viveva nel quartiere di Bozola, fra i più antichi della capitale, dalla metà circa degli anni '20, ma il nonno Sékou era originario dell'antico villaggio di Nyamina, situato a duecento chilometri a nord-est della capitale, sulle rive del Niger. Il giovanissimo cinefilo vide un po' di tutto quello che arrivava nelle sale di Bamako, con una preferenza per i film popolari in lingua hindi e i drammi sociali; niente però lo commosse come Mezzogiorno di fuoco (1952) di Fred Zinneman. Rievoca Cissé: «la prima volta che ho potuto vedere un film avevo, penso, cinque anni. Già a quell'età c'era in me una gran voglia di vedere film, una grande curiosità che mi spingeva ad andare al cinema». Dopo aver compiuto gli studi superiori a Dakar, dove si era trasferita la famiglia, rientrò a Bamako nel 1960, all'indomani della rottura della federazione fra Senegal e Mali. La mai dimenticata passione cinefila spingeva il ventenne Cissé ad aderire ad alcuni movimenti giovanili dell'Unione sudanese SRD, gruppo studentesco multietnico, progressista e federalista (l'ex Sudan Francese comprendeva gli attuali Benin, Burkina Faso, Guinea, Mali e Senegal) e a organizzare un www.istituto-geopolitica.eu cineclub nella Maison des Jeunes. L'eco del suo talento di animatore gli valse una prima borsa di tre mesi nel 1961 per seguire una formazione tecnica da proiezionista a Mosca, dove scoprì anche la fotografia. Ottenne, pertanto, una seconda borsa annuale a Mosca per approfondire gli studi cinematografici, che nel 1963 gli venne prolungata fino al 1969. In questi anni, venne a conoscenza dei classici della cinematografia mondiale, dai maestri sovietici del montaggio come Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e Vsevolod Illarionovič Pudovkin al neorealismo italiano di Roberto Rossellini e Vittorio De Sica. Cissé, che si diplomò in regia il 22 settembre 1969, durante gli anni di corso realizzò i suoi primi tre cortometraggi. Il primo si intitolava L'homme et les idoles (1965); Sources d'inspiration (1966), sempre in 35 mm ma in bianco e nero, era dedicato all'opera del pittore maliano Mamadou Somé Coulibaly, mostrato al lavoro nel suo studio, e mescolava immagini di repertorio relative ai movimenti di liberazione nazionale e i leader neri (Martin Luther King, Patrice Lumumba). Di ritorno a Bamako, Cissé si ritrovò a essere l'unico maliano ad avere avuto una formazione completa in regia, mentre altri avevano seguito solo stages. Tranquillizzato dal padre, che gli lasciò la possibilità di fare la propria strada, mettendo a frutto gli anni di formazione, venne ben presto assunto come regista-operatore presso il SCINFOMA (Service cinématographique du Ministère de l'Information du Mali). Forte del successo ottenuto, Cissé cominciò a lavorare a diversi progetti di lungometraggio, tra cui uno dal titolo Bi déou (Les enfants d'aujourd'hui). Le sue proposte, regolarmente sottoposte al ministro dell'Informazione, non vennero prese in considerazione, secondo Cissé a causa del www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 23 clima di invidia e ostracismo creato da alcuni suoi colleghi in seno al SCINFOMA e dalla tendenza neocolonialistica ad aprire canali privilegiati per registi e maestranze straniere. Anche quando presentò il progetto di Den Muso (1975) nel 1974, si scontrò contro un muro di diffidenza, dovuta proprio a questo clima prima ancora che alla spinosità dell'argomento, vale a dire la condizione di emarginazione delle ragazze rimaste incinte fuori dal matrimonio. Le resistenze caddero quando Cissé decise di rivolgersi al circolo culturale Ciné-Club Askia Nouh, avendo compreso di poter ottenere l'autorizzazione alle riprese solo associandosi a esso, cui aderivano già circa metà dei membri del Governo. Il cineclub investì nel film circa trecento franchi, una cifra simbolica, che costrinse il regista a lavorare in condizioni dure. Rientrato a Bamako, il regista venne arrestato, portato via in manette e condotto in carcere con l'accusa di appropriazione indebita. I soci del CinéClub Askia Nouh lo accusarono di aver realizzato il film con i loro soldi e di aver intascato i proventi della vendita dei diritti commerciali del film a un fantomatico distributore italiano. Grazie al loro attivismo, il regista venne rilasciato in libertà provvisoria con l'obbligo di firma settimanale e l'ingiunzione di non lasciare il Mali. Vedendo a rischio la propria reputazione e la sopravvivenza stessa del film, il cui negativo fu sequestrato, Cissé decise di rivolgersi direttamente al Presidente della Repubblica. Grazie all'intervento di Moussa Traoré, riuscì a rientrare in possesso del negativo, ma il contenzioso circa i diritti del film rimase aperto per tre anni, fino al settembre 1978, quando l'eco dei premi ricevuti a Locarno e alle JCC dal film successivo, Baara (1977), spinse il Presidente a sbloccare la situazione, consentendo finalmente la distribuzione di Den Muso nelle sale, dove suscitò entusiasmi, anche perché si trattò del primo lungometraggio in bambara. Nel 1976, Cissé prese un'aspettativa dal suo lavoro di funzionario al SCINFOMA per lavorare alla sceneggiatura di Baara, un film www.istituto-geopolitica.eu che, per la prima volta, descriveva i problemi della classe operaia di Bamako in una società in cui era in atto l'instaurazione del modello capitalistico. Segnato dagli ostacoli incontrati per il film d'esordio, Cissé si mise in proprio e fondò la società Les Films Cissé (Sisé Filimu), con l'apporto decisivo della famiglia. Presentato in concorso al trentunesimo Festival di Locarno, Baara si impose all'attenzione della critica, aggiudicandosi il Premio della Giuria Ecumenica OCIC, mentre ai due operatori andò il Premio Ernest Artaria per la fotografia. Il film si impose anche al secondo Festival du Film et des Échanges Francophones di Namur (Gran Prix du Jury) e alle JCC (Tanit d'argento e premio per l'attore a Boubacar Keïta) ma, soprattutto, al sesto Festival Panafricain du Cinéma di Ouagadougou (FESPACO) e al primo Festival des Trois Mondes di Nantes, dove si portò a casa il massimo premio. Il successivo 26 agosto, Cissé conquistò, stavolta con Baara, anche il pubblico televisivo francese, che assistette incuriosito alla prima volta di un film africano sul piccolo schermo, addirittura in prima visione. Presentato sull'emittente FR3 nella trasmissione “Cinéma sans Visa”, Baara venne visto da un milione e seicentomila spettatori. Due mesi dopo, toccò nuovamente a Finyé mietere successi, stavolta a Tunisi, dove Cissé si portò a casa il Tanit d'oro, massimo riconoscimento, e il Gran Premio della Critica Araba. Nel contempo, Cissé lavorava già al progetto del nuovo film, Yeelen, che il regista stesso definisce come «un'opera profondamente politica, dove è necessario superare la superficie dell'immagine». Cissé aveva cominciato a mettere a fuoco il soggetto di Yeelen nel giugno 1982, di ritorno a Bamako dopo la prima mondiale di Finyé. Nel marzo, quando Cissé era pronto a riprendere la lavorazione di Yeelen, Ismaïla Sarr, sul quale era stato modellato il personaggio del padre Soma, morì improvvisamente d’infarto. Per il regista fu un vero trauma, che superò solo girando in lungo e in largo il Mali in cerca di un nuovo www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 24 protagonista, finché scoprì il vecchio Niamanto Sanogo, ma decise di aspettare altri due mesi, perché barba e capelli crescessero a sufficienza, permettendogli di entrare al meglio nel ruolo. Nel frattempo, il regista aveva praticamente esaurito i diecimila metri di pellicola Fuji messi a disposizione dal coproduttore giapponese. A ottobre, Cissé riuscì a strappare un finanziamento importante da parte del Governo francese e decise di ingaggiare un nuovo direttore della fotografia, Jean-Noël Ferragut. A novembre ripartirono le riprese nel nord della regione dogon, non lontana dal Monte Hombori, infestata di insetti e priva di acqua potabile e, sei settimane dopo, Ferragut fu colpito da un giradito che si infettò. Riportato in tutta fretta a Bamako e rispedito a Parigi, l'operatore venne sottoposto a intervento chirurgico in modo da scongiurare la cancrena, ma dovette trascorrere due mesi di convalescenza. A quel punto, Cissé decise di realizzare un premontato sulla base del materiale, per trovare nuovi produttori e linee di credito, che ottenne in Francia, Germania e in Mali. Nell'ottobre 1986, la troupe tornò a Bamako per terminare le riprese. Realizzata la sequenza finale nei pressi della famosa falesia di Bandiagara, la troupe si spostò nell'inospitale regione nel nord-est dominata dal Monte Hombori, dove furono girati gli ultimi raccordi. Yeelen fu dunque un viaggio in un'Africa senza tempo. Le immagini sarebbero state sempre più universali, portatrici di un'estetica contaminata con i generi e di un'attenzione politica profonda, confermata dalle stesse parole di Cissé: «il terreno della politica non lo abbandonerò mai. Trattare la cultura africana è fare in ogni modo opera politica. È per questo che credo che, di tutti i miei film, Yeelen sia quello che va più lontano politicamente. Yeelen è veramente l'esito di tutto ciò che ho fatto da quando ho iniziato»1. Di lì a breve, Cissé ottenne riconoscimenti importanti in Italia (la Rosa Camusa d'Oro a Bergamo Film Meeting del 1987), in Gran Bretagna (il Sutherland Trophy al British Film Institute Awards nel 1987), in Svizzera (un aiuto alla distribuzione dal Festival International de Film di Friburgo). L'eco dei successi rimbalzò in Mali, dove, a metà ottobre, Yeelen venne distribuito nelle sale, in cui totalizzò circa cinquantamila spettatori. A dicembre, il film cominciò la sua carriera sui grandi schermi europei, a partire dalla Francia, dove in ventisei settimane di programmazione raccolse quasi trecentocinquantamila spettatori, di cui centotrentottomila solo a Parigi. Era la prima volta in assoluto che un film dell'Africa sub-sahariana veniva distribuito commercialmente secondo gli standard promozionali del tempo, in Francia, ma anche in Italia (dove il film uscì nel marzo 1989), in diversi altri Paesi europei e persino in Giappone. Mentre Cissé volava a Londra nel dicembre 1988, a Berlino nel febbraio 1989 e a Washington nell'aprile 1989 per presentare Yeelen. Nel frattempo, il regista cambogiano Rithy Panh, incaricato di realizzare un ritratto di Cissé per la serie “Cinéma de notre temps”, sbarcò nel gennaio 1991 a Bamako con una cinepresa super16 e soggiornò nel Paese per tre settimane, trovando le strade della capitale piene di studenti in agitazione contro un regime sempre più dispotico. Fare film, filmare, posare lo sguardo sulle condizioni sociali e politiche sono state per Cissé questioni primarie, necessità assolute, urgenze. E dialogo con il pubblico. Il regista maliano ritiene, infatti, che «un film deve essere accessibile per la comprensione di chi lo vedrà. Bisogna fare delle immagini che resistano a lungo nella memoria e rivivano negli occhi, nel cuore e nello spirito». Selezionato in concorso a Cannes, otto anni dopo Yeelen, Waati venne presentato in anteprima mondiale il 17 maggio 1995. Se la 1 Elhem P., Waldmann C., loc. cit., p. 6, cit. in Gariazzo G., Poetiche del cinema africano, cit., p. 58. www.istituto-geopolitica.eu www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 25 stampa internazionale si divise, la presenza in giuria della scrittrice sudafricana Nadine Gordimer giocò clamorosamente a sfavore del film, la cui trama era ritenuta non “al passo con i tempi”, lasciando Cissé deluso dopo il duro lavoro portato a termine tra tante difficoltà. Intervistato nel 1997, il regista non nascose il suo disappunto a quest’episodio, precisando che: «in questo mondo, ci sono sempre persone che vogliono avere un monopolio. Questo è il caso di Nadine Gordimer. Non ho nulla contro questa donna. Tuttavia, lei deve tenere a mente che il mondo gira. Ciò significa che la vita sulla Terra non si ferma, ma va oltre. Ogni singolo individuo ha il diritto di esprimere sé stesso. Non vedo come si possa condannare Waati al punto da sostenere che questo non sia il Sudafrica. Nessuno ha il monopolio sul Sudafrica. Nessuno! Nadine Gordimer ha il diritto di dire quello che ha da dire, ma ognuno ha il diritto di girare film su ciò che pensano le persone, su un particolare argomento»2. La stanchezza e la delusione subentrate dopo l'accoglienza controversa a Waati, unitamente alla sempre più matura consapevolezza della situazione di crisi e abbandono in cui giaceva il cinema degli Stati dello scacchiere sub-sahariano, spinsero Cissé a moltiplicare i propri sforzi, all'estero e in Africa, per favorire la nascita di un nuovo soggetto associativo, in grado di dare una scossa a un quadro d'insieme statico. Tra il 1984 e il 2002, come membro dell'Haut Conseil de la Francophonie, il regista maliano fu infatti sollecitato, nella doppia veste di autore e produttore, a rappresentare gli interessi di categoria dei cineasti africani, a seguito della decisione del Governo francese di diminuire progressivamente le misure di sostegno alle cinematografie della sua Africa sub-sahariana. 2 Ukadike F.N., op. cit., p. 28. www.istituto-geopolitica.eu La volontà di portare avanti la battaglia per un rafforzamento delle politiche culturali e delle strutture dell'audiovisivo, in Mali e negli altri Paesi dell'Africa sub-sahariana, spinsero Cissé a viaggiare molto, cercando consensi e appoggi, ma non mancarono le occasioni di intervento su questioni di natura politica. Il 29 marzo 1997, per esempio, il regista lanciò pubblicamente un “appello alla ragione”- a nome di un centinaio d’intellettuali - per superare la grave crisi in atto in Mali. La maggior parte delle energie dispiegate dal regista nella sfera pubblica nell'ultimo quindicennio ha dunque riguardato le sorti del cinema locale, ma si è trattato di uno sforzo teso a favorire la nascita di rapporti più dinamici e fattivi con attori pubblici e privati dell'audiovisivo, europeo e non solo. In più occasioni, Cissé è stato persino interpellato dal Parlamento o dal Governo del Mali, riguardo a provvedimenti di legge allo studio o per fornire un punto di vista competente sulla politica culturale del Governo stesso. La sua costante pressione nei confronti del potere politico ha prodotto anche l'acquisizione, a titolo gratuito, di oltre un ettaro di terreno edificabile a Ngolonina, sulle rive del fiume Niger, dove realizzare una Casa dell'Immagine (Jaa sô), comprendente un complesso multisala, una videoteca, una sala conferenze e una scuola di cinema, iniziativa rilanciata a più riprese, ma rimasta allo stadio progettuale. Nonostante i molti anni d'assenza dal set, Cissé non ha smesso di essere considerato dalla critica maliana e internazionale come uno dei principali autori di cinema viventi non solo in Africa, come ha dimostrato, ad esempio, l'uscita nel novembre 1998 del numero 476 dell’«Avant-Scène du Cinéma», consacrato interamente a Yeelen. Se l'attività pubblica dell'impegnato Cissé è facile da ricostruire, assai più difficile è dar conto di un'attività registica, i cui caratteri di episodicità, precarietà produttiva e sostanziale invisibilità ne rendono problematica la stessa repertoriazione: con l'eccezione di Min yé, si è trattato, in buona sostanza, di film brevi o brevissimi, girati in digitale e a costo minimo, www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 26 mostrati esclusivamente in Mali, pensati più come esercizi artistici per continuare a esprimersi attraverso le immagini, sperimentando tecnologie leggere, che come vere e proprie opere compiute. A settantuno anni, Souleymane Cissé, inserito nel dicembre 2006 dal quotidiano inglese «The Indipendent» fra i cinquanta maggiori artisti africani viventi, sembra tutt'altro che intenzionato a farsi da parte, non rinunciando affatto alle numerose battaglie che lo vedono protagonista, come quelle per il rilancio di un'industria dell'audiovisivo in Mali e nell'Africa sub-sahariana e per la salvaguardia della memoria del cinema africano. La forza dei cinema di Cissé è derivata, senza dubbio, dal fatto che egli è stato uno dei primi cineasti africani a non aver conti da regolare con l'Europa. Quest'ultima è stata assente in tutti i suoi film, che sono stati un faccia a faccia con la società in cui il regista ha lavorato e vissuto. Cissé non ha sentito l'obbligo di dimostrare nulla, ma ha tentato di penetrare, con la sua sensibilità di africano, tutti i complessi aspetti dell'Africa poiché, per il regista «la macchina da presa va al di là della testimonianza; essa rappresenta tutta la mia esperienza, l'ispirazione. È con essa che mi sento meglio ed è attraverso essa che esisto veramente»3. 2. Analisi di alcuni lungometraggi di Soulemayne Cissé 2.1 Den Muso (1975): la condizione della donna in Africa Con il suo primo lungometraggio, Cissé sembra voler da subito alzare la posta della sua scommessa stilistica e tematica, perché dal bianco e nero dei corti moscoviti passa al colore e decide di affrontare una questione 3 Senga J.F., Souleymane Cissé, cinéaste malien in «Présence Africaine», a. 30 : n. 144, 1987, p. 135, cit. in Gariazzo G., Poetiche del cinema africano, cit., p. 51. www.istituto-geopolitica.eu sociale e culturale problematica, vale a dire la condizione della donna nella società maliana. Den Muso è, inoltre, il primo film maliano in lingua bambara, caratteristica che ha fatto sì che il suo messaggio fosse recepito sia dagli intellettuali locali che, come il regista, avvertivano l'esigenza di avviare un'autentica cinematografia a carattere nazionale, sia dalle masse, attratte dall'elemento “popolare” della vicenda narrata. La propensione di Cissé per un cinema politico e insieme poetico è presente fin da Den Muso, dove i rapporti di classe si dipanano alle spalle di quelli umani e la storia semplice e quotidiana di una ragazza muta, vittima della violenza fisica e morale del suo ambiente sociale, diviene esemplare di tutto il continente, vittima a sua volta di un sistema politico e culturale che non faceva che riproporre, sotto la facciata della modernità, la subordinazione economica, politica e culturale alle ex potenze coloniali e alle nuove classi dirigenti africane, spesso loro alleate. Den Muso è la storia di Ténin Diaby, figlia di un industriale, muta fin da piccola a causa della meningite. La ragazza vive in una villa con il padre (Malamine), la madre (Fanta) e una cugina della sua età. Durante una passeggiata con quest'ultima, conosce Sékou, un operaio della fabbrica del padre, che si è appena licenziato per non aver ricevuto un aumento di stipendio, nonostante l'invito alla pazienza rivoltogli da Malamine in un colloquio privato. Dopo alcuni appuntamenti, il ragazzo la invita a trascorrere una giornata in riva al fiume, con altri amici. Qui, però, la violenta. Nonostante ciò, i due finiscono comunque per avere una breve relazione, ma quando i medici diagnosticano a Ténin di essere incinta, Sékou nega immediatamente la paternità. Alla notizia della gravidanza, il padre reagisce con violenza al disonore e decide di cacciare Ténin di casa. La ragazza, rifugiatasi dai nonni, è colta di sorpresa dal padre che, scosso dalla sua presenza, muore colto da infarto durante una corsa tra le affollate vie del mercato. La madre di Ténin cerca comunque di far riconoscere a Sékou la paternità, portandolo al commissariato. Sékou www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 27 cerca di discolparsi, dichiarando il falso sulla fedeltà di Ténin nei suoi confronti, ma ciò non basta per fargli evitare lo stato di fermo. Fanta decide comunque di non denunciare più l'accaduto e, piuttosto, accusa la figlia per essersi data a un delinquente, invitandola a sparire dalla sua vista. Dopo aver vagabondato per la città, Ténin si reca alla capanna di Sékou, dove solitamente si ritrovava con il giovane. Qui lo scopre in compagnia di un'altra ragazza e, accecata dalla rabbia e dalla disperazione, sbarra l'ingresso della capanna e le dà fuoco. Ritornata a casa, Ténin si suicida ingerendo barbiturici. Mentre i titoli di coda si sovrappongono alle immagini finali, è il nonno a ritrovarla in bagno e ad avvolgere il suo corpo in una coperta. Il film testimonia gli sconvolgimenti sociali del Mali in un'epoca in continua trasformazione e dimostra come siano soprattutto le giovani donne, spesso ingenue e passive, a pagare il prezzo di un’ancora irrisolto contrasto tra vecchio e nuovo. Den Muso fa luce su un fenomeno diffuso, quello delle molte ragazze che, per amore, si ritrovano condannate senza appello dalle famiglie e in balia di se stesse, in una società ostile che censura fortemente il loro comportamento. 2.2 Baara (1978): lo scontro tra vecchi schiavi e nuovi padroni Girato in 16 mm e poi portato a 35 mm, Baara è il primo film a portare il nome di Cissé fuori dai confini nazionali: i premi ottenuti a Locarno e a Namur nel 1978 hanno permesso al regista di vedere finalmente riconosciuto in patria il proprio status di artista e intellettuale, mettendo fine alla querelle scatenata per Den Muso. Baara illustra la storia di un giovane di nome Balla Diarra che, emigrato dalla campagna in una grande città dell'Africa (presumibilmente, Bamako), trova lavoro come facchino. Con il suo carretto, dall'alba al tramonto, percorre le strade di corsa, trasportando le merci dei suoi clienti. Un giorno il giovane incontra un suo coetaneo, un ingegnere che lavora in un www.istituto-geopolitica.eu grande impianto industriale. Questi ha bisogno dell'aiuto del facchino per portare alla moglie, M'Batoma, due grossi sacchi di riso. Il caso vuole che anche l'ingegnere si chiami Balla, ma appartiene alla facoltosa famiglia dei Traoré, ha studiato e la sua carriera è in rapida ascesa, poiché il padrone della fabbrica, Makan Sissoko, un ricco imprenditore tessile senza scrupoli, ha deciso di affidargli la direzione dell'intero impianto. Contemporaneamente, Balla Traoré si prende a cuore il suo omonimo e, dopo averlo aiutato con la polizia per un permesso di lavoro, gli offre un impiego meglio retribuito. Balla Diarra viene, dunque, assunto nella fabbrica e qui fa conoscenza con Tiekour, uno dei veterani, che gli spiega quali sono le sue mansioni. Il vecchio operaio gli confida anche di nutrire la speranza che il giovane ingegnere, una volta a capo dell'impianto, possa migliorare le disumane e precarie condizioni di lavoro cui tutti gli addetti sono costretti. Quando Makan viene a sapere che il suo pupillo si è schierato a favore delle istanze degli operai e, anzi, ne è stato il promotore, ne commissiona subito l'assassinio da parte di due sicari, i quali, avvicinatisi con un pretesto al giovane ingegnere, lo pestano a morte sul luogo del lavoro. La diffusione della notizia della sua morte via radio suscita reazioni diverse: M'Batoma, moglie di Balla Traoré, si precipita all'uscita della fabbrica in tempo per vedere gli operai portare fuori il cadavere del suo uomo avvolto in un lenzuolo, divenendo testimone dell'inizio della loro rivolta; Djénéba, quinta moglie del già divorziato Makan, conscia di quanto ordito dal consorte, è stroncata da un improvviso malore. Come sottolinea Bruno De Marchi, Baara affronta, dunque, alcuni temi inediti per la cinematografia africana: quello della condizione della nascente classe operaia africana e del suo rapporto con chi detiene il potere economico. In una società essenzialmente contadina, anche se in via di rapida urbanizzazione, la scelta di Cissé di descrivere la formazione di una consapevolezza di classe va letta come chiaro www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 28 indizio dell'importanza che il regista attribuisce alle dinamiche sociali per il processo di sviluppo dell'intero continente. 2.3 Finyé (1982): l'amore al tempo della rivoluzione Il film ruota intorno alle vicende di due studenti liceali che si amano, pur appartenendo a due opposti mondi sociali. Bâ è il nipote di Kansaye, discendente degli antichi capi tradizionali, mentre Batrou è la figlia del governatore militare Sangaré, rappresentante del nuovo potere politico postcoloniale, padre severo e marito poligamo. La loro relazione è disapprovata dai familiari di entrambi: Kansaye disapprova la famiglia di Batrou e in particolare il padre della ragazza che, ebbro di potere, sta portando il Paese sull'orlo della guerra civile, mentre Sangaré diffida del fidanzato di sua figlia perché lo ritiene troppo compromesso con l'opposizione studentesca. I due giovani devono sostenere le prove dell'esame per il diploma di Stato, ma i risultati di queste sembrano contribuire ad allontanarli ancora di più, perché Batrou consegue ottimi voti, mentre Bâ non le supera e si chiude sempre più in se stesso, cominciando a far uso di droghe. Solo la sollevazione della scuola contro il potere militare riunisce i due giovani e fa prendere coraggio a Bâ: sembra, infatti, che gli esami siano stati truccati per favorire figli e nipoti di alcuni appartenenti alla giunta militare e, dunque, la sua bocciatura non è altro che un espediente ordito da Sangaré per allontanarlo dalla figlia. Quando la notizia rapidamente comincia a girare tra gli studenti della città, questi dispongono l'occupazione degli edifici scolastici e universitari. La manipolazione dei risultati degli esami fa esplodere il malcontento studentesco, con manifestazioni di massa, cui partecipano Bâ e Batrou, che vengono represse dall'esercito. Gli edifici scolastici occupati vengono assaliti, i dimostranti dispersi e i capi della rivolta arrestati. Bâ viene catturato durante gli scontri, mentre Batrou riesce a fuggire, rifugiandosi presso una casa popolare (come quella dei nonni di Bâ), accolta da alcune www.istituto-geopolitica.eu donne impegnate a pestare il miglio nei mortai, che non esitano a scagliarsi contro i militari che, di fronte alla loro resistenza, le arrestano. Batrou, per farle rilasciare, si consegna spontaneamente. In prigione, i due protagonisti, come gli altri studenti e studentesse arrestati, sperimentano la sofferenza e l'umiliazione, ma resistono con forza e dignità. Nel frattempo, Sangaré promette la libertà a tutti quegli studenti che firmeranno una confessione e che ammetteranno la loro colpa. Alcuni, convinti dal governatore, firmano, mentre i due giovani sono tra quelli che non cedono al ricatto. Bâ viene deportato in un campo di lavoro e Batrou, che accusa i compagni di vigliaccheria, con un breve ma incisivo discorso, arriva a rinnegare il padre, distaccandosene definitivamente. La ragazza viene scarcerata solo per l'intercessione della madre e delle altre mogli del governatore e si reca a colloquio da Kansaye, cercando e ottenendo una riconciliazione con il vecchio uomo. Quest'ultimo, preoccupato per la sorte del nipote, ancora detenuto, e ormai sempre più insofferente allo strapotere e alla violenza di Sangaré, indossa il vestito tradizionale e vaga per la savana per invocare gli dèi e chiedere il loro aiuto. Questi appaiono, ma predicano al vecchio l'arrivo di una nuova epoca, in cui le forze e i loro poteri magici non avranno più valore. Turbato, Kansaye torna a casa, dove trova la moglie in lacrime a seguito della retata dei militari che hanno messo a soqquadro la loro abitazione. In preda all'ira, il vecchio uomo getta le vesti e i feticci in una cassa di legno, dopodiché gli dà fuoco. Dall'esterno si odono le grida dei giovani: Kansaye, incuriosito, esce, acclamato dalla folla e, dopo averla incitata, si accoda alla manifestazione. Intanto, nel suo ufficio, Sangaré riceve una telefonata dal ministro degli Interni, che si lamenta dei disordini e dà ordine di liberare tutti gli studenti. La sequenza finale mostra Bâ che, finalmente, esce dalla prigione. Con Finyé, Cissé ha inteso proporre una riflessione sugli abusi dei nuovi poteri africani, che si curano poco del consenso e www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 29 della partecipazione popolare; ha voluto, però, anche indicare una possibile soluzione del problema delle dittature, individuando nell'alleanza tra i giovani – il vento nuovo dell'Africa – e gli anziani custodi delle antiche tradizioni, la chiave per il nuovo orizzonte del continente. Ciò che trova spazio nel film, dunque, è esclusivamente la complessa realtà africana vista attraverso gli occhi e la sensibilità di un africano. L'indispensabile commistione d’impegno politico e identità culturale, considerata dal regista come possibile strada verso un futuro migliore, trova piena conferma nel linguaggio filmico di Cissé perché, come ha fatto notare Ferid Boughedir, è la cultura a divenire uno strumento per intervenire nella sfera politica. Secondo il critico tunisino, le vicende di Finyé dimostrano che l'azione politica non può avere successo se gli individui investiti del cambiamento risultano essere tagliati fuori dalla propria cultura; il film mette altresì in luce i limiti di tale cultura, che può forse preservare i suoi elementi (come l'abito magico e i feticci), ma non più influire sulla realtà quotidiana. 2.4 Yeelen (1987): una favola politica degli stregoni del Komo Yeelen narra la storia di Nyanankoro Diarra, un ragazzo di etnia bambara, destinato a divenire il depositario del sapere che gli assicurerà il dominio sugli altri iniziati, conoscenza trasmessa da sempre di generazione in generazione. Il padre del giovane, Soma Diarra, è però geloso delle sue conoscenze e ha maturato un odio violento nei suoi confronti, soprattutto perché ha scoperto che il figlio è deciso a condividere le sue capacità con tutti, senza più farne un uso egoistico come gli anziani, che da sempre l’hanno utilizzato per il mantenimento del potere. La madre di Nyanankoro, Banyeba, anche lei iniziata alla magia, mette in guardia il figlio sulle intenzioni del padre e lo incoraggia a partire alla ricerca di Djigui Diarra, suo zio (fratello gemello del padre), affinché questo lo aiuti a portare a termine la sua iniziazione. Prima di partire per recarsi www.istituto-geopolitica.eu «oltre il Paese dei peul», Banyeba consegna a Nyanankoro un amuleto per proteggerlo dal padre e un feticcio da dare allo zio. Durante il suo itinerario attraverso le aride terre saheliane, all'ombra delle acacie Nyanankoro incontra l'uomo dalla maschera del giaguaro (ovvero l'incarnazione dello spirito degli antenati), che gli profetizza «un fausto cammino, una felice meta, un grande futuro, una vita radiosa e una morte luminescente». Raggiunta la destinazione indicatagli da sua madre Banyeba, Nyanankoro è involontariamente scambiato per un ladro di bestiame e, catturato, cade nelle mani dei peul. Nel frattempo, sua madre compie un rito di purificazione all'interno del fiume: immergendosi e bagnandosi ripetutamente invoca l'intervento della dea delle acque per propiziare i suoi favori nei confronti del figlio, tenendolo «lontano dal male» e impedendo che «le erbacce invadano la casa dei Diarra». Presso i peul, Nyanankoro riesce a liberarsi grazie alla paralisi dei movimenti del corpo dei soldati che lo trattenevano e si guadagna la simpatia del loro re, Ruma Boly, sconfiggendo – dopo aver compiuto un rito con l'osso della gamba destra di un cavallo che solleva le polveri della savana e scatena dapprima uno sciame di api e poi degli incendi a catena – i bellicosi invasori che infestano le sue terre. Ruma Boly chiede un altro favore a Nyanankoro: far sì che la sterile Atou, la più giovane tra le sue mogli, possa avere un figlio. Al culmine del rito di fecondazione, Nyanankoro seduce Atou e, consapevolmente reo di aver violato la tradizione bambara, invoca la morte per mano del re; ma Ruma Boly gli concede il perdono e lo lascia andare con Atou. L'indomani, il re dei peul affronta, senza successo, l'altro zio di Nyanankoro (un altro fratello del padre), Bafing Diarra, anche lui sulle tracce del nipote grazie al potere del Kolonkalanni trasportato dai suoi (buffi) servitori, deciso a punirlo per ciò che è intenzionato a compiere attraverso la sua magia. Il mai domo Ruma Boly viene però paralizzato e Bafing riprende senza sosta la sua personale caccia al fuggiasco. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 30 Contemporaneamente, all'interno del rettangolo sacro, si riuniscono giovani e vecchi membri del Komo, tra cui Soma, che decidono di punire suo figlio che ha tradito la società segreta e ne ha rubato i feticci. Dopo aver scalato la falesia di Bandiagara, ormai accompagnato da Atou nel suo viaggio, Nyanankoro incontra i dogon e chiede di suo zio Djigui. Purificatisi con la limpida acqua che sgorga direttamente dalla roccia, i due giovani vengono condotti dal saggio Djigui e, dal tramonto all'alba, ne ascoltano le profezie: se la gravidanza di Atou, incinta di un maschio, lascia ben sperare, il futuro dei bambara è in dubbio, perché: «dall'alba dei tempi, i Diarra sono stati la placenta e il cordone ombelicale del popolo bambara. Per lungo tempo la nostra famiglia è stata maledetta. Non conosco il perché [...], ma stanotte ho visto una lucente stella in cielo fermarsi davanti ai miei occhi, che mi ha detto 'Djigui, la minaccia in bilico sui bambara colpirà il Paese, pur risparmiando la tua famiglia'. Ciò mi ha restituito la speranza. Nella stessa visione, mi è stato detto che 'la tua discendenza subirà un grande cambiamento, perché diverranno schiavi e negheranno la loro razza e la loro fede' […]». Il cieco Djigui, in possesso dell'ala del Kôré da quando ne è stato accecato dalla sua luce che l’ha indotto a vagare senza meta, dopo aver litigato con Soma sulla possibilità di condividere con altri i segreti del Komo, consegna al nipote l'occhio magico del Kôré inviatogli dalla madre, cioè una pietra preziosa cuspidata, da inserire nell'ala del Kôré, che gli viene altrettanto affidata prima di incontrare il padre. A questo punto non può che avvenire lo scontro finale tra il padre e il figlio e i rispettivi simboli: il tronco magico e l'ala sacra. Attraversato il villaggio dove risiede lo zio, Nyanankoro si ritrova finalmente faccia a faccia con Soma e, dato che è la prima volta che si parlano da figlio a padre, lo saluta. Soma, sprezzante, replica che lui è stato suo figlio finché non ha lasciato il ventre di sua madre. Nyanankoro è www.istituto-geopolitica.eu soddisfatto da queste parole, perché temeva che Soma negasse tale realtà dei fatti, in quanto esser rinnegati dal proprio padre è la più grande paura, vergogna e umiliazione per i bambara. Il giovane non ha paura della morte, che «non è altro che un coltello alla cintura», ma prima di subirla interroga il vecchio sul perché lo voglia uccidere. Soma si limita a ricordargli che lo scoprirà quando le iene e i vermi lo mangeranno. Nyanankoro, allora, ribatte: «un serpente può mutare la propria pelle. Il figlio di un pitone può rivaleggiare con suo padre. Voglio morire come un vero Diarra. Preparati!». Un istante prima di essere abbagliati entrambi da una luce sprigionatasi dai propri simboli, che non lascia spazio alla vita, è la voce di Dio a rivelare a Soma perché lo abbandona: «i tuoi antenati erano sacerdoti del Komo, ma per secoli hanno abusato dei loro poteri. Ho lasciato solo rovine sulla mia scia. Sono stato fedele alla famiglia Diarra. Ora è finita. Il tuo desiderio di vendetta, il tuo disprezzo e il tuo odio nei confronti dell'umanità sono andati troppo lontano. Sto per scomparire. Non sopravviverai, Soma, perché tu sei tra coloro che utilizzano il loro potere solo per fini malefici e ingiusti»4. Dalle macerie del villaggio, andato distrutto, emerge Atou, che indossa l'abito che Nyanankoro le ha affidato come dono per il nascituro. Di fronte a lei si staglia, immobile, 4 Come già in Finyé (e più avanti in Waati), la divinità si chiama fuori dalla scena della storia, inchiodando gli uomini alle loro scelte e responsabilità. In ragione di ciò, l'eroe tragico, Nyanankoro, può anche essere considerato come una sorta di agnello sacrificale che si carica le colpe della famiglia Diarra, convinto di dover rispondere alle proprie azioni (come quando si scusa con Ruma Boly per aver approfittato di Atou), mentre invece la sua traiettoria obbedisce a un disegno divino inesplicabile perché, alla sua morte, suo figlio diverrà il capostipite di una nuova dinastica che raccoglierà un'eredità multietnica, cit. in De Franceschi L., Coletti M., op. cit., p. 91. www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 31 l’ala del Kôré. In un mondo nuovo, il figlio di Nyanankoro dissotterra, tra le due dune di sabbia, due uova di struzzo, simboli magici della vita, e ne consegna uno ad Atou. A questo punto, la madre copre il figlio con la veste del padre, deposita l'uovo, come tributo, al cospetto dell'ala magica e, infine, consegna anch'essa tra le mani del bambino, che può così intraprendere il suo cammino. 2.5 Waati (1995): un'odissea nel tempo dell'Africa che cambia La storia di Waati ha inizio in Sudafrica. Seduta attorno al focolare, Nandi Ntuli, insieme ai fratellini Themba e Pitsu, ascolta un'antica leggenda sulla genesi raccontata dalla nonna. Al di là della gioiosa vita alla fattoria, la realtà quotidiana è dominata dalle atrocità dell'apartheid, a cominciare dagli screzi con il padrone dello stabile, Baas Hendricks, che spara per gioco ad alcuni polli mentre Nandi è sul prato. L'indomani, Baas costringe il figlio Ian a frustare il padre di Nandi, Nduma, reo di aver criticato il suo precedente comportamento. Nel frattempo, Nandi viene mandata a studiare in città, dove frequenta le elementari. Adolescente, Nandi si trova alle superiori, mentre la scuola è posta sotto assedio dai poliziotti contro gli studenti che protestano per il regime d'apartheid. Spaventata dall'accaduto, rientra alla fattoria e, dato che il padre non riceve la paga da settimane, osa parlarne al padrone, ma senza esito. Una volta in spiaggia, accompagnata dal padre e Themba, è fermata da un poliziotto, colpevole di aver messo piede su una spiaggia riservata ai bianchi. Ne nasce un diverbio che sfocia in tragedia: i suoi cari vengono uccisi dal poliziotto, mentre lei lo ferisce a morte: questa sua reazione va oltre la lotta politica e trascende la crisi, perché deriva da un semplice diritto a vivere. Nandi è costretta a fuggire e, grazie a Solly (un amico della nonna), riesce a passare il confine, oltre il fiume Limpopo. Al di là, l'aspetta un viaggio in Costa d'Avorio. Nel nuovo Paese, la ragazza studia le antiche civiltà africane, le danze e le maschere, espressioni di culture millenarie, e s’innamora di Solofa, un giovane www.istituto-geopolitica.eu di buona famiglia. Per qualche tempo, i due soggiornano in un villaggio tuareg alle porte di Timbuctu, dove lei adotta un'orfana, Aïcha. Dopo aver portato ai genitori di Solofa notizie del figlio rimasto in Mali, Nandi rientra in Sudafrica, pronta ad affrontare il futuro, conscia che l'apartheid è stato sconfitto solo in apparenza. In aeroporto, rifiuta l'amicizia della figlia dell'ex padrone, incontrata per caso, e lotta strenuamente per impedire che Aïcha le venga strappata per una questione burocratica e costretta al rimpatrio forzato. Il film si chiude, poi, così com'era iniziato, vale a dire con la voce della nonna di Nandi che interroga la sua terra, ancora in cerca di pace. Dopo Baara, Finyé e Yeelen, sostanzialmente articolati sulla dialettica di due direttrici che segnano l'andamento narrativo (Balla Traoré vs. Makan, Bâ e Batrou vs. Sangaré, Nyanankoro vs. Soma), Waati, come invece Den Muso, torna a essere incentrato su un unico personaggio-guida, Nandi, che traina l'azione con la sua crescita personale, da bambina a donna, e scolastica, dalle elementari all'università. In verità, anche la presenza della nonna di Nandi - seppur in maniera marginale - agisce in funzione di perno del sistema narrativo, apparendo talvolta nella mente della nipote, sottolineandone la vicinanza e configurando per lei una sorta di status di onniscienza. Precisa Cissé: «L'intreccio del film ha un andamento lineare, pur se irregolare, contrassegnato da una serie di ellissi, che hanno ovviamente l'effetto di accelerare il tempo della storia». Sul piano spaziale, l'itinerario di Nandi presenta una leggibilità assai generica, dato che i riferimenti geografici non sono sempre segnalati da dialoghi o informazioni visive immediate o da alcuni personaggi. Dopo il prologo, girato in Namibia, la prima porzione del racconto si svolge nella regione del KwaZulu-Natal, come si desume dalla vicinanza al mare e alla seconda città del Sudafrica per numero di abitati dopo Johannesburg, Durban, dove Nandi studia. È attraverso il Limpopo, e dunque sconfinando oltre la regione nordorientale, che Nandi www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 32 lascia il Sudafrica. Il biglietto aereo che gli consegna Solly è per l'“Africa occidentale” e, solo ricorrendo ai titoli di coda, si scopre che l'intermezzo universitario è ambientato fra Abidjan e Yamoussoukro, attuale capitale amministrativa della Costa d'Avorio. Espliciti sono invece i riferimenti alla città di Timbuctu, crocevia di arrivi e partenze delle popolazioni locali da e verso il Sahara e antico polo culturale del mondo arabo. 3. Conclusioni Il cinema africano, in generale, e quello di Cissé, in particolare, ha fra le sue caratteristiche un ritmo lento simile a quello del racconto orale, che fa continuo ricorso alla metafora, al gesto quotidiano e alle tre unità di tempo: partenza, arrivo, ritorno. Il racconto orale tradizionale tende, nel suo movimento lineare, verso una risoluzione finale in cui l'ordine sociale e l'armonia siano restaurati e riaffermati. Anche i lungometraggi di Cissé mantengono questa struttura circolare, in cui la stessa costruzione del racconto giunge a concludersi, nella maggior parte dei casi, in una sfida, in una lotta nei confronti dell'ordine costituito. Ebbene, in questo caso, la linearità del racconto non viene più usata per restaurare l'ordine bensì per sovvertirlo o, quanto meno, per combattere e rifiutare l'immobilismo, la staticità. Al di là delle specifiche cinematografie nazionali, coesiste nella produzione continentale una trasversalità di sguardi attraverso analogie magari ardite, accostamenti generati dalla casualità, inquadrature che, ripercorse a distanza, si pongono come precedenti per film futuri che da esse sembrano re-iniziare. Immagini non chiuse in se stesse o in un tempo unico, ma quasi costruite per rigenerarsi altrove. Capolavori degli anni '60 e '70 come Borom Sarret (1963) di Ousmane Sembène, Contras City (1968) di Djibril Diop-Mambéty, Soleil Ô (1971) di Med Hondo e Visages de femmes (1973) di Désire Écaré sono proiettati in avanti, non si fermano nel loro periodo, perché raccontano l'urgenza del sopravvivere in una grande città documentandola, del www.istituto-geopolitica.eu ribellarsi alle repressioni dei padroni, della religione, dei militari, del colonialismo, dell'innamorarsi scontrandosi contro le regole della tradizione con sguardo complice. Film o autori degli anni '80 e '90 hanno poi trovato radici in quel primo periodo oppure si sono spinti in una rigorosa riflessione politicosociale, attraverso un limpido procedere nel tempo e nello spazio: si pensi appunto all'opera di Cissé. I suoi film affrontano questioni sociali e politiche attuali nel Mali e in tutto il continente africano, chiamando in causa conflitti di classe e di genere. Le responsabilità politiche sono analizzate dal regista da un punto di vista interno: la colpa viene data, non più e non solo, al colonialismo europeo, vecchio e nuovo, ma anche agli uomini di potere africani, che tradiscono la tradizione e i bisogni del proprio Paese, prendendo il peggio dall'Europa o abusando della propria autorità per fini personali. I personaggi femminili, al contrario, spesso incarnano la resistenza e la speranza in un futuro migliore, indicando, così, la via per una nuova strategia relazionale tra uomini e donne in Africa. Anche a livello stilistico c'è una progressione nel cinema di Cissé: dalla scrittura più semplice e realistica dei primi due lungometraggi, che quasi pedinano “neorealisticamente” i personaggi, si passa a una dimensione più simbolica e astratta nei due ultimi film, passando attraverso la felice sintesi di Finyé, che rappresenta così un'opera spartiacque tra le due fasi. La propensione di Cissé per un cinema politico e insieme poetico è presente fin dal suo primo lungometraggio, Den Muso, dove i rapporti di classe si dipanano alle spalle di quelli umani e la storia semplice e quotidiana di una ragazza muta, Ténin, vittima della violenza fisica e morale del suo ambiente sociale, diviene esemplare di tutto il continente, vittima a sua volta di un sistema politico e culturale che non faceva che riproporre, sotto la facciata della modernità, la subordinazione economica, politica e culturale alle ex potenze coloniali e alle nuove www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 33 classi dirigenti africane, spesso loro alleate. Il film testimonia gli sconvolgimenti sociali del Mali in un'epoca in continua trasformazione e dimostra come siano soprattutto le giovani donne, spesso ingenue e passive, a pagare il prezzo di un’ancora irrisolto contrasto tra tradizione e modernità. La morte di una giovane donna muta allude, dunque, metaforicamente, a quella dell'Africa nella difficile lotta per la propria esistenza. La rivolta degli operai, a seguito dell'assassinio dell'ingegnere-capo di una fabbrica tessile, ordito dal proprietario contrario a un piano di miglioramento delle condizioni di lavoro proposto dal giovane dirigente, è invece la conclusione del secondo lungometraggio di Cissé. Baara affronta il tema della condizione della nascente classe operaia africana e del suo rapporto con chi detiene il potere economico. In una società essenzialmente contadina, anche se in via di rapida urbanizzazione, Cissé descrive la formazione di una consapevolezza di classe, che va letta come chiaro indizio dell'importanza che il regista attribuisce alle dinamiche sociali per il processo di sviluppo dell'intero continente. Nella sua prospettiva, l'armonica intesa di operai, contadini e dirigenti di tutte le parti sociali della società africana è la condizione indispensabile per una parziale risoluzione dei tanti, endemici, problemi che assillano l'Africa contemporanea. Tale intesa tra le classi sociali è, di fatto, simboleggiata dalle figure del facchino e dell'ingegnere, Balla Diarra e Balla Traoré, sostanzialmente coetanei ma di diversa istruzione ed estrazione sociale. La scelta di due personaggi dallo stesso nome è, inoltre, funzionale al rifiuto di Cissé di scegliere, come protagonisti dei suoi racconti in immagini, degli eroi. Questo perché è tutta la cultura africana a mancare totalmente di culto della personalità, di glorificazione dell'individuo: al contrario, è il gruppo, familiare o tribale, la classe d'età o la zona di provenienza ad avere importanza. Il singolo non è che uno dei membri della comunità, qualunque essa sia, e all'interno di questa è necessario che si fonda e che agisca. www.istituto-geopolitica.eu Non a caso, al di là delle schermaglie fra studenti ed esercito generate dalla manipolazione degli esami di Stato per favorire figli e nipoti di alcuni appartenenti alla giunta militare, in Finyé si ha un intreccio di più storie e personaggi, i quali possono essere anch'essi ricondotti nell'ambito di due opposizioni fondamentali: da un lato, quella tra figli e genitori (Bâ vs. Kansaye, Batrou vs. Sangaré) o, più in generale, tra giovani e adulti (gli studenti vs. i militari); dall'altro, quella tra il potere tradizionale (incarnato da Kansaye) e il potere moderno (rappresentato da Sangaré). Se il vecchio ordine è ormai incapace di agire attivamente nel presente, e il nuovo, corrotto e violento, ha perso ogni contatto con la propria identità culturale, il futuro, verso cui tende utopisticamente la rivolta degli studenti, si fonda su un ordine basato sulla libertà e sulla democrazia, in aperta contestazione delle regole e delle costrizioni, ormai superate, appartenenti alla vecchia tradizione, non rinunciando tuttavia alle proprie radici culturali. Cissé ha così inteso proporre una riflessione sugli abusi dei nuovi poteri africani, che si curano poco del consenso e della partecipazione popolare; ha voluto, però, anche indicare una possibile soluzione del problema delle dittature, individuando nell'alleanza tra i giovani – il vento nuovo dell'Africa – e gli anziani custodi delle antiche tradizioni, la chiave per il nuovo orizzonte del continente. Il cinema del regista maliano si configura come un invito a seguire una storia, aprendo gli occhi e la mente. Lo spettatore non viene indotto a una passiva identificazione, è bensì posto di fronte alla vicenda come osservatore pensante. Il livello artistico raggiunto dalle sue pellicole è stato sorprendente, per la vigorosa capacità di intervento sulla realtà sociale e per una grande abilità a racchiuderla in immagini. La forza di Yeelen risiede nella sicurezza con cui Cissé riesce a restituire al suo film l'atemporalità del mito, che va oltre le vicende concrete e la profondità storica di un'allegoria politica. Il regista mette in scena quanto non aveva potuto far vedere in Finyé, cioè lo www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 34 scontro titanico e apocalittico fra Nyanankoro e Soma, padre e figlio depositari dell'antico e magico sapere, che produce un cataclisma di dimensioni cosmiche e apre la porta a una nuova era in cui un ibrido capostipite, di padre bambara e madre peul, dovrà far fronte a nuove sfide, avvalendosi di una conoscenza aperta a tutti e, forse, moderna. Yeelen non è altro che un'amara riflessione sull'inadeguatezza di una classe politica e intellettuale post-indipendenza, che non ha saputo mettersi al servizio del proprio popolo e si è opposta, con tutte le sue forze, a un passaggio di consegne. Il riferimento al potere, allora declinante ma violento, dell'ex presidente della Repubblica Moussa Traoré, non sminuisce comunque quello della società iniziatica del Komo, né quello alla storia antica del Mali. Nonostante gli aspetti magici all'interno della vicenda, Cissé ha insistito sul potere derivante dalla conoscenza, concepita come dominio dell'universo, poiché Nyanankoro, eroe tragico di turno, simboleggia infatti un popolo alla ricerca di un'identità, un'Africa disorientata alla riscoperta della sua origine. In Waati, invece, si manifesta, in maniera forse più stratificata rispetto agli altri lungometraggi, l'urgenza di filmare, per denunciare situazioni di oppressione e repressione (in questo caso l'apartheid, ma anche la tragedia della siccità che colpisce i popoli del Sahel), e la ricerca estetica aperta a una profonda visionarietà. Waati, come Den Muso, torna a essere incentrato su un unico personaggio-guida, la sudafricana Nandi. Il regista maliano conferisce nuovamente allo sguardo un potere tanto sovversivo quanto fantastico: affiora, dunque, l'urgenza di cercare uno spiraglio di luce e di dialogo nella società sudafricana del post-apartheid e la riflessione sulla forma da usare per rappresentare lo stato delle cose. In questo modo, Cissé pone ancora nelle mani della donna, depositaria della speranza, il futuro dell'Africa perché, in quanto madre, deve lottare per i suoi figli. Il regista ha caricato di un evidente simbolismo la figura di una ragazza analfabeta che diventa donna sapiente www.istituto-geopolitica.eu e partecipativa (come Nandi, così l'intera Africa può fare se vuole trovare la sua identità), insistendo così su uno tra i motivi dominanti del suo cinema: gli Africani devono prendere il destino del continente nelle proprie mani e mettere fine ai guasti del colonialismo, senza più pretendere indennizzi per giustificare le proprie inerzie. La cinematografia di Cissé è, dunque, testimonianza soprattutto politica, che di film in film si è affinata in uno sguardo meno faticoso, sempre più libero e poetico, in una complessità figurativa e di forte impatto emozionale, che ha raggiunto punti elevati di ricerca negli ultimi lungometraggi, Yeelen e Waati. L'intera opera del regista appare, perciò, come un vero e proprio viaggio nello spazio e nel tempo, sospeso fra geografia e storia, un'opera ancora in fase di elaborazione, che finisce per lasciare allo spettatore il compito di immaginare cosa possa nascere dalla luce, dal vento, dall'acqua, dal fuoco. In parallelo, e in sintonia con la propria attività di regista da sempre consideratosi “impegnato”, Cissé ha avviato numerose iniziative a carattere politico-sociale, tese a sensibilizzare tanto i giornalisti europei, quanto gli spettatori e i cineasti del Mali e quelli di tutti i Paesi dell'Africa, sui dilemmi connessi al cinema e all'industria cinematografica africana. Secondo Giuseppe Gariazzo, per sostenere veramente il cinema dell'Africa sub-sahariana francofona, e, al tempo stesso, Cissé e gli altri vecchi e nuovi registi, i Governi locali dovrebbero non soltanto ridurre le tasse sul cinema, ma soprattutto provvedere affinché i mezzi impiegati siano riutilizzati in nuove produzioni, farsi carico della creazione di centri di produzione regionali e della costruzione di più sale cinematografiche, controllare la quantità e la qualità dei film importati e fissare una quota per i film di produzione nazionale, oltre che abolire la censura e garantire la libertà dell'arte, senza la quale non può svilupparsi nessuna cultura cinematografica. Bisognerà perciò attendere per vedere se il cinema africano riuscirà realmente a procurarsi non solo un'autonomia www.geopolitica-rivista.org Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie 35 nazionale, ma anche quella economica e politica, tale da imporsi davvero all'attenzione dei circuiti internazionali. Cineasti della memoria, memoria del cinema perduto, memoria del territorio usurpato, memoria della cultura dimenticata; registi di brandelli d'identità, manovalanza dell'immagine, che prendono soldi qua e là, che girano in Africa e altrove, come mercanti ambulanti, da un festival all'altro, confinati in cerchi sempre più stretti, poco visti, visti male o non visti del tutto a casa loro: la loro nuova sfida sarà forse quella di ri-fabbricare i propri territori, reinventarsi un'identità singolare. Per uscire dall'oblio. Perché nel mondo ultramoderno nulla esiste se non viene sancito dai media. Drammatizzare l'immagine dell'Africa e ridurla a pura compassione per una fatale miseria è facile. Descriverne gli autentici usi e costumi è difficile, perché non si tratta soltanto di danze e maschere tribali. Eppure, parlare genericamente di “cinema africano” ha oggi meno senso che mai, perché all'accresciuta attenzione a esso rivolta a metà degli anni '80, nella ribalta dei grandi festival internazionali, non è stata corrisposta un'adeguata distribuzione delle, comunque poco numerose, pellicole locali. Sfumata l'illusione di più di un ventennio fa, ridotto il sostegno che la Francia ha sempre garantito alla cultura delle sue ex colonie e che ha permesso ai registi di girare i loro film, rimangono gli autori, con uno stile che sempre di più non è solo loro, con una padronanza tecnica che non cerca affatto alibi nella povertà dei mezzi, con sceneggiature che non sono più unicamente tese alla denuncia sociale e che lasciano spazio a una storia da sempre negata, alle emozioni personali. AA.VV. (2005). Mali-France. Regards sur une histoire partagée, Éditions DonniyaKarthala, Bamako-Paris. Armes, R. (2006). African film-making: North and South of the Sahara, Indiana University Press, Bloomington (IN). Bachy, V. (1983). Le cinéma au Mali, OCIC, Bruxelles, 1983. Ballerini, M.C. (1997). Cinema del Mali, Quaderni di Cooperazione Associativa FICCFEDIC, Roma. Barlet, O. (1998). Il cinema africano: lo sguardo in questione, L’Harmattan, Torino. Bertetto, P. (1981). 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