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Il cinema dell’Africa tra colonizzazione e indipendenza.
Aspetti sociali e politici del cinema nell’area sub-sahariana francofona
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ABSTRACT
The aim of this work is to outline the most important
features of Sub-Saharan African cinema, from the early
beginnings to nowadays. Films produced in this area of
Africa are here analysed from several viewpoints: the
aesthetic, technical and stylistic features, as well as the
August 2014
social ones and the political message conveyed by
movies,
without
overlooking
the
important
Author:
anthropologic dimension that cinema has as an art form.
Marco Ferretti
Cinema has certainly a considerable anthropologic
Editing:
Maria Pia Ester Cristaldi
dimension: if cinema can be considered as a cultural
Language:
Italian
manifest, this is due to the strong connection between
Keywords:
film reflects and expresses its own reality, this is the
Film production in Africa
Influence of European cinema
Souleymane Cissé
films and the social context they are produced in. Each
main reason why many of the cinematographic
productions analysed focus on ancient rites and
traditions of African societies, here operating as film
settings.
© Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
MARCO FERRETTI
MA in Political, Historical and Diplomatic Studies (University of Rome III).
He is an alumnus of the “Massimo Baldini” school of journalism.
[email protected]
MARIA PIA ESTER CRISTALDI
MA in Communication Science (University of Calabria).
She is freelance translator and journalist.
[email protected]
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
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Prima parte
1. Introduzione
Il cinema giunse in Africa negli anni
immediatamente
successivi
alla
sua
invenzione. Nel 1896, un illusionista portava
in Sudafrica un proiettore che aveva sottratto
al teatrografo dell'Alhambra Palace di
Londra. A più di un secolo di distanza da
quegli inizi pionieristici, il cinema, e con esso
la letteratura, il teatro e la musica, ha
contribuito a creare un movimento di
rinnovamento africano capace anche di
superare i confini e di influenzare artisti e
generi di altri Paesi. Il cinema si è adoperato
affinché le popolazioni africane recuperassero
la loro storia, le loro immagini, le loro
identità. Si tratta di una cinematografia ancora
poco conosciuta eppure carica di grandi valori
democratici, anticoloniale, critica di ciò che è
nuovo quanto del vecchio tribale e fuorviante,
progressista e al tempo stesso tradizionalista,
didattica e a volte retorica nell’uso del
linguaggio, ma anche alla scoperta di nuove
estetiche.
Specchio di una società in continuo
sviluppo, il cinema africano ha mostrato le
manifestazioni politiche più dirompenti e le
lotte per i diritti del popolo nero, delle donne,
dei giovani e dei lavoratori; l’incontro tra le
religioni tradizionali e la modernizzazione;
l’espandersi delle città con enormi periferie,
dove regna il degrado a pochi passi da
villaggi rurali sempre più minacciati; la nuova
borghesia nera assoggettata agli interessi
stranieri, corrotta e arrogante, giacente in un
mare di problemi e senza idee né voglia di
superarli; il mito, i racconti, l’energia del
cosmo e della natura, ossia il patrimonio
culturale tramandato oralmente per migliaia di
anni, raccontato ora per immagini. Per far
tutto questo, i cineasti africani hanno dovuto
organizzare quasi dal nulla la struttura
cinematografica necessaria alla realizzazione
dei loro film, cercare continuamente i fondi
per finanziarli, lottare nel corso degli anni
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contro ogni forma di colonialismo, per poi
scontrarsi con una classe dirigente – il più
delle volte rimasta legata all'amministrazione
coloniale – poco interessata al cinema quale
mezzo di diffusione culturale e confrontarsi
allo stesso tempo con una società in continuo
cambiamento, abbagliata da una modernità
male intesa e in antitesi con i valori
tradizionali,
in
grado
di
condurre
all’alienazione intere masse urbanizzate, ma
che si faceva sentire anche nella brousse,
laddove uomini e donne non sognavano altro
che il viaggio verso la città.
In questa realtà, la prima generazione di
registi ha dovuto fare i conti con
un’incongruenza
fondamentale:
l'essere
obbligato il più delle volte ad accogliere gli
aiuti degli Stati europei, Francia e Gran
Bretagna in particolare, spesso gli unici
garanti per un cinema che non rinuncia a
venire a galla a tutti i costi. Gaston Kaboré,
uno dei principali registi africani, oltre che
Segretario
Generale
della Fédération
Panafricaine des Cinéastes (FEPACI) fino al
1996, non ha mai smesso di ribadire che
l’Africa deve dotarsi, con la massima urgenza,
delle capacità endogene di produrre le sue
immagini se non vuole essere condannata a
perdere la sua identità culturale e, nello stesso
tempo, la possibilità di ideare e gestire il suo
sviluppo secondo modelli autonomi. Negli
ultimi anni, insieme a numerosi registi, ha
continuato a battersi affinché questo cinema,
ormai divenuto più maturo, con alcune
cinematografie nazionali già tracciate, con un
buon numero di autori affermati che hanno
superato l’empasse dell’opera prima, possa
ottenere una promozione più vasta in tutto il
mondo, non solo attraverso i principali
festival, ma con un maggiore interessamento
da parte della stampa e, soprattutto, dei
distributori.
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2. Il problema della distribuzione nel
cinema africano
La distribuzione perdura come “grande
problema” che ha impedito, a tutt’oggi, una
vera e propria possibilità di sviluppo attivo in
Africa (nel settore del cinema, e non solo).
Nel 1970 si costituì la già citata FEPACI, che
riunì trentatré Paesi africani con l'intento di
spingere i Governi a prendere misure di
protezione e far sì che il cinema africano si
sviluppasse e prendesse provvedimenti contro
la massiccia distribuzione delle compagnie
straniere. La lotta, ancora in corso, per
l'affermazione del cinema in Africa ha
caratterizzato la sua storia con un alternarsi di
vittorie e sconfitte. Le compagnie straniere
boicottarono i primi tentativi di monopolio
nazionale della distribuzione cinematografica
di alcuni Governi africani come il Burkina
Faso, ciò nonostante alcuni Paesi (Benin,
Madagascar, Sudan, Somalia) realizzarono la
nazionalizzazione
del
mercato
cinematografico che permise loro il controllo
della distribuzione nelle sale nazionali.
Anche la questione dei media ha suscitato
le critiche dei cineasti africani che, spesso,
non hanno condiviso il modo in cui i mezzi di
comunicazione occidentali hanno descritto il
loro lavoro. Lo spazio sui giornali europei
dedicato ai film africani era esiguo, se ne
parlava solo dietro l'eco delle riprese di
qualche nuovo film dei registi ormai più
affermati, senza una riflessione critica
approfondita. D'altronde, anche la stampa
africana, che generalmente non ha avuto
un'adeguata preparazione, deve assumersi le
sue responsabilità sullo stato delle cose.
In mancanza di una politica continentale di
distribuzione dei film africani, le televisioni
sembrano essere state più che mai la migliore
strada per accedere al pubblico africano e
permettere ai realizzatori di produrre a minor
costo senza trascurare il supporto video. Con
la fine degli anni '90, resta immutato il
rapporto numerico preesistente tra le
produzioni francofone e quelle anglofone: più
dei tre quarti della produzione africana
conosciuta a livello internazionale appartiene
tuttora agli Stati francofoni che, inizialmente,
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non avevano alcuna politica di produzione di
film destinati alle popolazioni locali.
Per capire le origini di un simile squilibrio,
occorre tornare indietro nel tempo e
analizzare
le
politiche
in
campo
cinematografico messe in atto dalle due
potenze coloniali. In tale maniera è possibile
anche comprendere meglio le eredità lasciate
da questo sistema alla debole industria
cinematografica africana. Dal 1934, nelle
colonie francesi era entrato in vigore il
decreto Laval, emanato dallo stesso Ministro
delle Colonie, che prevedeva un controllo sul
contenuto dei film realizzati nelle colonie. In
realtà, tale provvedimento fu maggiormente
indirizzato ai sovversivi anticolonialisti
francesi che a vere e proprie realizzazioni di
Africani i quali - allo stesso modo- non erano
certamente incoraggiati. La Francia modificò
il suo atteggiamento politico nei confronti del
cinema dei Paesi dell'Africa sub-sahariana
soltanto a seguito del raggiungimento della
loro indipendenza. Dal 1961, su iniziativa del
Bureau du Cinéma del Ministère de la
Coopération, ogni Stato francofono fu dotato
di un'unità di cinema equipaggiata dei mezzi
di produzione base.
Nel 1963, attraverso propri fondi, il
Département du Cinéma permise l'acquisto di
diritti non commerciali dei film realizzati da
africani. Più tardi, invece di acquistare i diritti
dopo la realizzazione dei film, il Ministère de
la Coopération accettò di acquistarli a
determinate condizioni, prima delle riprese,
prefinanziando
così
i
progetti
che
presentavano delle serie garanzie tecniche e
artistiche. Tenendo presente le costrizioni e
imposizioni di ordine estetico e di contenuto,
si stima che fra il 1963 e il 1975 siano stati
realizzati qualcosa come centottantacinque
film di cineasti di area francofona grazie a
questi aiuti. L'arrivo al potere del Presidente
Valéry Giscard d'Estaing nel 1974 portò la
grande rottura dei rapporti privilegiati fra il
cinema francofono d'Africa e il Ministère de
la Coopération, poiché il Governo francese
decise di mettere fine alla produzione. Un
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nuovo impulso alla politica di aiuto alla
produzione cinematografica si ebbe con i
socialisti a partire dagli anni '80. Ciò
consistette soprattutto nell'apportare un
sostegno alla creazione di strutture
interafricane di produzione e di postproduzione come il Consortium Interafricain
de Production de Films (CIProFilm) nel 1979
e il Consortium Interafricain de Distribution
Cinématographique (CIDC) nel 1980.
Con essi, per la prima volta, un mercato
comune di distribuzione fu gestito sotto il
controllo degli africani, che cercavano di
inserirvi normalmente una cinquantina di
produzioni continentali. Nel 1982 a Niamey,
in Niger, numerosi cineasti appartenenti alla
FEPACI organizzarono, dietro iniziativa di
Ousmane Sembène e Paulin Soumanou
Vieyra, un seminario con l'obiettivo di fare un
bilancio sulla FEPACI e il cinema africano in
generale. Il dibattito fu incentrato sulla
produzione e distribuzione, cioè su come
produrre dei film in Paesi in cui erano
inesistenti fondi per il cinema. Una risposta a
ciò fu individuata, in parte, nel detassamento
dei film africani. I registi, inoltre, si
pronunciarono contro il rischio che il cinema
divenisse troppo strumento di propaganda dei
Governi. In effetti, in molti casi, la
nazionalizzazione
dell'apparato
cinematografico aveva portato a una
burocratizzazione eccessiva, rischiando di
bloccare qualsiasi possibilità creativa o,
quantomeno, di imporle i limiti della censura.
I cineasti africani proposero il raggiungimento
di un equilibrio tra pubblico e privato,
affidando allo Stato il compito di controllare
il mercato della distribuzione e la creazione di
uno Statuto per il sostegno delle produzioni
nazionali di tipo culturale. Ai produttori
privati, invece, che spesso erano gli stessi
registi, la possibilità di scegliere i soggetti dei
film in piena libertà, in un sistema che
permettesse l'ammortamento dei costi.
Nel 1985, dopo una crisi interna causata
dalla mancanza degli adempimenti economici
derivanti dalla distribuzione dei film degli
Stati membri (Senegal, Mali, Mauritania,
Guinea, Costa d'Avorio, Burkina Faso, Niger,
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Togo, Benin, Camerun, Gabon, Ciad,
Centrafrica), il CIDC lasciò, in sostanza, di
nuovo il campo aperto alle compagnie
straniere come la Socofilm, società svizzera
che approfitterà della situazione vacillante per
invadere il mercato africano con film
americani
di
cui
era
distributrice.
Successivamente, il Centre National de la
Cinématographie
(CNC),
l'ente
sovvenzionato dal Ministère de la Culture
abilitato a stringere accordi di produzione con
i Paesi stranieri, nel caso di quelli africani, ne
firmò alcuni di coproduzione che diedero
discreti vantaggi alle cinematografie dei Paesi
firmatari, come l'anticipo sugli incassi
riservato ai soli film girati in versione
originale in lingua francese. Per accedere a
quelli che si definiscono Fonds Sud Cinéma
(1984) bisogna avere una sceneggiatura
pronta. Se quest'ultima ha la necessità di
essere migliorata, il cineasta può beneficiare
dell'aiuto per la riscrittura e dei consigli di
uno sceneggiatore professionista a sua scelta.
La commissione dei Fonds Sud Cinéma si
riunisce quattro volte l'anno e può intervenire
con cospicui aiuti: dai 110.000 ai 152.000 €.
Dal 1991, sono stati portati a termine più di
trecento progetti e, a tutt'oggi, la produzione
cinematografica
dell'Africa
nera
più
conosciuta e, senz'altro, anche la più
consistente, porta la firma di autori
francofoni.
Per quanto riguarda l'ex-Africa anglofona,
la politica britannica nel campo del cinema ha
debuttato in Africa con la creazione del Bantu
Educational Cinema Experiment (1935). Il
programma
di
questa
struttura
cinematografica aspirava a realizzare film di
inglesi per gli africani. Nel 1939 fu invece
creata la Colonial Film Unit (soppressa nel
1955), con il ruolo di coordinare le attività
della produzione cinematografica nelle
colonie. Con questa disposizione, gli inglesi
intendevano sottolineare l’intento di non
attuare una politica assimilazionista nei
confronti dei coloni, scegliendo di occuparsi
esclusivamente
degli
affari
derivanti
dall'industria del cinema. Ogni colonia,
infatti, fu così dotata d’infrastrutture
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autonome di produzione che includevano
anche il trattamento in laboratorio dei film e il
montaggio. La Colonial Film Unit produsse,
fino agli anni '50, circa cinquanta ore di
proiezione e distribuì quasi 200.000 metri di
pellicola in 16mm, allestendo in Africa venti
camion di cinema itinerante. I prodotti della
Colonial Film Unit suscitarono sempre
interesse negli ambienti europei, mentre
presso il pubblico africano (cui erano appunto
destinati) il successo fu relativamente scarso.
Alcune inchieste rilevarono i problemi
inerenti a questo genere di realizzazioni, di
cui il principale era l'ignoranza dell'ambiente
in cui il film era stato girato. Nel 1951,
un'équipe trascorse un lungo periodo in
Nigeria per studiare il problema delle reazioni
del pubblico verso il cinema. L'équipe,
composta da tecnici cinematografici e
antropologi, concluse che l'unica soluzione
possibile era quella di girare film in cui lo
spaesamento del pubblico fosse il più limitato
possibile, intravedendo così la necessità di far
girare dei film da africani per gli africani.
Quasi nello stesso periodo, la Colonial
Film Unit pose fine alla sua attività in favore
delle Film Units (1945-1950) dei vari territori
– sezioni di produzione cinematografica nei
territori britannici dell'Africa occidentale e
quella orientale. Il motivo principale era di
ordine economico: il Governo britannico
riteneva non fosse più compito suo realizzare
film per l'educazione di base in Paesi ormai
prossimi all'indipendenza e che toccava al
budget di questi territori assicurare il
funzionamento dei servizi cinematografici.
Nel 1955 si decise che ognuna delle
quattordici colonie doveva prendere in carico
i finanziamenti delle proprie produzioni
cinematografiche.
In seguito all'indipendenza, nell'area
dell'Africa anglofona, deboli tracce di fiction
cinematografica
emersero
quasi
esclusivamente dal Ghana e dalla Nigeria.
Esperti di cinema e cinefili hanno dato varie
spiegazioni a questa mancanza di produzione
cinematografica locale. Alcuni hanno
ricondotto le cause alla colonizzazione
inglese, che non adottò la politica di
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assimilazione dei francesi, quella che faceva
dire agli africani «nos ancêtres le Gaulois»,
ma praticò un'occupazione strettamente
commerciale, senza mai tentare una politica
culturale.
Secondo un'altra argomentazione, il
cinema non avrebbe costituito una priorità per
i Paesi africani in via di sviluppo.
Raccogliendo l'eredità del pragmatismo
britannico, i Paesi dell'Africa anglofona, con
la chiusura della Colonial Film Unit,
abbandonarono la produzione locale e
diressero le loro energie verso problemi più
pressanti. Accettarono di produrre dei
documentari che avevano a che fare con la
realtà, in altre parole con i fatti nudi e crudi,
ma evitarono la fiction, la simulazione e la
metafisica. Altri hanno posto l’accento su
come gli africani anglofoni non abbiano avuto
contatti con la cultura cinematografica. Nei
Paesi francofoni, ad esempio, le ambasciate
hanno conservato delle cineteche, dove tutti
hanno avuto l'opportunità di vedere film
contemporanei che provenivano dall'Europa o
dagli Stati Uniti e di partecipare ai dibattiti
animati da moderatori francesi. Le ambasciate
britanniche in Africa non hanno per nulla
promosso questo genere di attività culturali.
L'amministrazione culturale inglese è stata
più incline alla produzione di documentari
didattici, spesso di non rilevante interesse
artistico. La distribuzione cinematografica
rimase, inoltre, appannaggio delle case di
distribuzione straniere (americane e libanesi),
che dettavano legge in materia di cinema,
traendo maggiori vantaggi dall'acquisto a
basso prezzo di vecchi film americani, inglesi
e indiani, adottando così una politica che
scoraggiò qualsiasi tentativo di avviare una
produzione nazionale.
Nell'Africa occidentale, le proiezioni
cinematografiche risalgono al 1905, quando i
cinema ambulanti portarono i primi cartoni
animati a Dakar e dintorni. Negli stessi anni,
pionieri ed esportatori iniziarono a usare la
cinepresa e alla Cinémathèque Française si
trovano ancora alcuni cataloghi Méliès relativi
ai primi film girati in Africa. Dopo questo
primo periodo, il cinema francofono
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dell'Africa sub-sahariana conobbe un notevole
sviluppo, anche se nel 1960, sessantacinque
anni dopo l'invenzione del cinema, non era
stato ancora prodotto un solo lungometraggio
davvero africano, vale a dire interpretato,
fotografato, scritto, ideato, montato da
africani e, naturalmente, parlato in una lingua
africana. A milioni di persone rimase, per vari
decenni, preclusa una tra le forme più
avanzate dell'arte moderna.
I primi film girati nell'Africa sub-sahariana
francofona da registi non africani possono
essere definiti come film "esotici". Erano la
logica conseguenza della letteratura coloniale
che tendeva a creare un effetto di
"spaesamento". Dai titoli dei primi
documentari e film muti diretti da Georges
Méliès quali La prise de Tournavos (1897),
Cléopâtre (1899), Infortunes d'un explorateur
(1900), si evince un desiderio di "estraneità",
di "cannibalismo", di "barbarie": il nero era
un animale singolare, il cui comportamento
doveva preferibilmente far ridere, se non
sfiorare il limite del patologico, nel ruolo del
selvaggio misterioso o del servo devoto.
La presenza delle colonie spinse la nuova
generazione di registi francesi, poco
interessati a documentare quanto accadeva in
Patria, a lasciare il proprio studio
cinematografico al fine di sviluppare una
singolare forma d'arte cinematografica, girata
direttamente sul campo, in grado di catturare
su pellicola i più disparati aspetti di realtà così
lontane e della vita degli indigeni, veicolando
spesso, attraverso tali immagini, un
messaggio paternalistico.
3. Il cinema dell’Africa sub-sahariana
francofona. Dagli inizi al dopoguerra
Il primo film esemplare sull'Africa subsahariana francofona fu La croisière noire
(1926), girato da Léon Poirier durante la
prima traversata automobilistica dell'Africa
dal nord al sud (da Timbuctu al Madagascar),
effettuata su autocingolati Citroën, tra
l'ottobre 1924 e il giugno 1925. Il tema
principale
del
film
era
l'avventura
automobilistica, ma, parallelamente a questa
epica impresa, si colgono alcuni aspetti
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caratteristici delle popolazioni incontrate nel
corso del viaggio: il nobile contegno degli
indigeni, le loro danze, le loro case. Pur
andando di fretta, attraverso giungle e paludi,
i viaggiatori scelsero e fotografarono con cura
i loro soggetti: cascate mozzafiato (quelle di
M'Bali nella Repubblica Centrafricana),
tramonti nel deserto, trofei di caccia
(ippopotami, leoni, rinoceronti ed elefanti) e il
vasto assortimento di oggetti d'arte trafugati,
trionfalmente immortalati nella scena finale e
consegnati al Musée d'Ethnographie du
Trocadéro. Tale “bottino”, oggi invecchiato, è
materiale d'archivio di valore inestimabile per
la conoscenza dell'Africa e dello sviluppo
delle culture africane.
Nei film successivi, l'Africa sub-sahariana
cinematografica continuò a essere il
continente dell'esotico e del pittoresco. In
realtà, anche l'Asia, il Sudamerica, persino la
Groenlandia e, in genere, tutti i territori
colonizzati erano spesso rappresentati sullo
schermo attraverso immagini di danze
selvagge, di suonatori di chitarra o di cacce
primitive. Tra la prima e la seconda guerra
mondiale, il semi-documentario Caïn,
Aventures des mers exotiques [Caino] (1930)
e Brazza, ou l'Epopée du Congo (1939)
entrambi di Léon Poirier, Bouboule 1ère, le
roi nègre (1933) di Léon Mathot e L'homme
du Niger [L'uomo del Niger] (1939) di
Jacques de Baroncelli (1881-1951) furono i
primi lavori a servirsi dell'ambiente naturale e
umano dell'Africa sub-sahariana francofona in
film di finzione.
In Brazza, ou l'Epopée du Congo, girato tra
Congo e Gabon, Poirer ripercorreva alcune
vicende – a cominciare dagli accordi raggiunti
con il re Makoko di Mbe dei Bateke per porre
il suo regno sotto la protezione della Francia –
occorse all'esploratore italiano di origine ma
francese d'adozione Pierre Savorgnan de
Brazzà, fondatore della città di Brazzaville,
futura capitale prima dell'Africa Equatoriale
Francese e poi dell'attuale Repubblica del
Congo. Il regista francese si serviva del
personaggio di Savorgnan de Brazzà,
liberatore di schiavi, per muovere una severa
critica all'imperialismo francese, perché la
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condotta tenuta dall'ex ufficiale di marina si
era rivelata essere lontana da quella tenuta da
altri esploratori bianchi, a cominciare dal suo
contemporaneo inglese Henry Morton
Stanley, per i suoi metodi non violenti e la sua
repulsione verso lo sfruttamento coloniale,
divenendo presto “scomodo” ai politici della
Terza Repubblica che lo congedarono nel
1898.
In Bouboule 1ère, le Roi negre, ambientato
invece in Senegal, il personaggio di
Bouboule, interpretato da Georges Milton, era
costretto alla fuga perché accusato di aver
trafugato dei gioielli da un gruppo di banditi
dediti al contrabbando di diamanti tra la
colonia e la madrepatria francese. Rifugiatosi
in un villaggio di cannibali, sfuggiva alla
morte accettando di sposare la figlia del capo.
Improvvisamente, ritrovatosi re, Bouboule
riusciva a sfruttare a suo vantaggio l'aiuto
della tribù, seminando i banditi e tornando in
Francia con i gioielli, accompagnato dal suo
figlio adottivo Toto, di sei anni. Meravigliosa
fantasia coloniale, il film di Mathot ribaltava
la tradizionale sceneggiatura di numerosi film
dell'epoca, poiché non era il colonizzato di
turno ad assimilare la cultura francese,
raggiungendo così i propri scopi, bensì il
supposto colonizzatore a servirsi della
collaborazione d’individui spesso ritratti
come soushommes per sottrarsi alla cattura da
parte dei suoi connazionali bianchi.
Sempre nel periodo tra le due guerre
mondiali, cominciarono ad apparire in Africa
veri e propri documentari. Marc Allégret, che
aveva accompagnato lo scrittore André Gide
nel Congo per dieci mesi, ne riportò alcune
incontaminate immagini nel film Voyage au
Congo (1928), dove l'estetismo prevaleva
spesso sull'interesse etnologico e sociale, non
riprendendo del tutto il contenuto del famoso
omonimo libro di Gide Voyage au Congo
(1927) – violento pamphlet contro gli eccessi
di un colonialismo in piena espansione.
Nell'ambito del cinema documentario,
l'esperienza del primo dopoguerra fu
importante. Alcuni pionieri, come il
professore Marcel Griaule, realizzarono i
primi film etnografici africani nel corso della
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spedizione Dakar/Gibuti (1931), che portò lo
stesso Griaule, oltre al musicologo André
Schäffner e lo scrittore ed etnologo Michel
Leiris, dall'Oceano Atlantico all'Oceano
Indiano. I primi tentativi erano stati fatti in
particolare presso i Dogon, sulla scogliera di
Bandiagara, e nel 1938 Griaule, nel corso di
una seconda spedizione, girò due film
etnografici sonori in 35 mm: Au pays Dogon
(1938), che in quindici minuti mostrava la
vita quotidiana, la tecnica e la religione dei
Dogon, e soprattutto Sous les masques noirs
(1938), che riprendeva le cerimonie funebri in
un villaggio della scogliera, spiegando il
ruolo, la fabbricazione e l'uso delle grandi
maschere che, indossate durante le danze
rituali, consentono all'anima del defunto di
raggiungere nell'aldilà la dimora degli
antenati.
In quegli stessi anni, Jean d'Esmé girò in
Niger orientale La Grande Carovane (1936),
35 mm sonoro, che mostrava il viaggio di una
carovana di sale da Agadez a Bilma, dove si
trovavano le miniere di sale. Purtroppo,
nonostante le immagini avvincenti, l'autore
non riuscì a evitare i limiti dei primi
documentari sonori, vale a dire un commento
eccessivo e irritante e una musica
inappropriata. Fu il medesimo difetto che
impedì a Coulibaly à l'aventure (1936), un
piccolo film completamente dimenticato,
girato in Guinea da G. H. Blanchon, di
imporsi come il primo film sulla società
africana. Nonostante la puerilità della sua
sceneggiatura, questo film aveva come
soggetto proprio uno dei fenomeni più
importanti
dell'Africa
occidentale:
il
movimento migratorio dei giovani della
savana verso le città costiere. La storia di
Coulibaly, partito dall'entroterra della Guinea
per trovare il denaro necessario a comprarsi la
fidanzata, facendo lo scaricante a Conakry e
poi il minatore a Siguiri, resta un documento
di valore inestimabile, nonostante il
commento di propaganda sui presunti benefici
effetti della colonizzazione.
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4. Gli anni del dopoguerra
Bisogna attendere il dopoguerra per vedere
crescere il cinema dell'Africa sub-sahariana
(film girati da registi europei in Africa), tanto
nell'ambito della fiction quanto in quello del
documentario etnografico. Supportati da
buone registrazioni audio, che permisero un
salto di qualità in termini di colonna sonora,
Danses congolaises (1947), Au pays des
Pygmées (1947), Pirogues sur l'Ogooué
(1947) di Jacques Dupont costituirono un
materiale di prim'ordine sulle danze
tradizionali del Congo, sulla vita dei pigmei
Babinga, sui trasporti in piroga dalle cascate
di Lastourville fino a Lambaréné, lungo il
fiume Ogooué. Contemporaneamente alla
missione Ogooué-Congo (1946), l'etnografo
Jean Rouch discese il fiume Niger in piroga in
compagnia degli amici Pierre Ponty e Jean
Sauvy, girando alcuni film in 16 mm bianco e
nero.
Dopo la seconda guerra mondiale, gli
addetti ai servizi cinematografici dell'esercito
cominciarono a utilizzare attrezzature portatili
ben più maneggevoli delle pesanti cineprese,
sempre più perfezionate e ingombranti, che
non potevano uscire dagli studi. Fu così che
fece i primi passi il 16 mm. La scelta di
questo formato era dunque un ripiego: anche
se i risultati furono un po' deludenti (a causa
della pellicola negativa molto veloce e in
assenza di mezzi per lottare contro il calore e
l'umidità). Le Actualités Françaises fecero un
ingrandimento di 35 mm di questi
documentari (il primo ingrandimento in
Francia, in bianco e nero) e montarono un
film di una decina di minuti, intitolato Au
pays des images noirs (1946). Risale a questo
periodo la distinzione del cinema africano in
due categorie: film in 35 mm con tutte le
garanzie tecniche e commerciali, e film in 16
mm, all'occorrenza ingranditi o usati in
occasione di conferenze.
All'inizio,
tutte
queste
esperienze
documentarie di matrice etnografica non
furono molto ben accolte negli ambienti
scientifici, e quando al Musée de l'Homme fu
creato un Comitato del Film Etnografico, col
compito di preparare soprattutto corsi di
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specializzazione per tecnici cinematografici e
per studenti di etnografia, un certo numero di
etnografi rimproverò i registi di privilegiare il
gusto per l'immagine rispetto alla ricerca
propriamente detta.
5. Gli anni cinquanta e sessanta nel
cinema dell’Africa sub-sahariana
Dal 1948 il numero di produzioni
cinematografiche realizzate nell'Africa subsahariana francofona cominciò a crescere.
Paysans noirs (1949) di Georges Régnier,
intitolato in Africa Famoro, le Tyran, fu il
primo film di fiction prodotto nell'immediato
dopoguerra. Il film fu un lavoro importante,
perché girato con il contributo degli stessi
tecnici della missione Ogooué-Congo e il
medesimo produttore. Paysans noirs metteva
in luce le povere condizioni di vita dei
coltivatori di arachidi (per i grossi oleifici
europei) dell'Alto Volta (cioè l'attuale Burkina
Faso), oppressi da un despota nero, laddove
solo
l'accurato
intervento
dell'amministrazione coloniale portava loro
felicità e benessere. Al di là della discutibile
storia, con forza emergevano le immagini
dell'Africa vera, attraverso paesaggi, uomini e
soprattutto dialoghi autentici. Dopo Paysans
noirs, i film girati in studio risultarono
decisamente datati.
Il 1950 segnò una svolta importante nello
sviluppo del cinema africano: i tentativi degli
anni precedenti avevano decretato la fine
dell'esotismo
dei
film
d'anteguerra,
evidenziando la necessità di scoprire e di
comprendere la civiltà africana per poterla
raccontare a un pubblico con diverse radici
culturali. Dal punto di vista storico, inoltre, il
1950 rappresentò anche l'inizio della crisi del
colonialismo, con i primi moti per
l'indipendenza dei Paesi africani. Da quel
momento, lo sviluppo del cinema africano
continuerà nell'ambito di questi generi:
l'Africa esotica e l'Africa etnografica. Nel
primo caso, un certo numero di registi
continuerà a sfruttare il filone del
cannibalismo e dei balli degli stregoni,
laddove l'Africa farà solo da sfondo e i suoi
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abitanti saranno ridotti a misere comparse,
vestite con abiti sintetici prodotti al di là
dell'Atlantico o dipinte da non appropriati
tatuaggi per rendere meglio il folklore
indigeno. Nel secondo caso, i registi e gli
etnografi, non sempre in modo corretto,
cercarono di mostrare gli aspetti più autentici
delle culture africane.
All'interno del genere dei film “educativi”,
il cinema si scontrò principalmente con
l'ignoranza delle culture tradizionali che,
invece, erano in corso di trasformazione. Si
trattò di un limite grave, che risultò più
evidente nei film a tendenza propagandistica
in cui gli autori preferivano mettere in
ridicolo la cultura africana minacciata,
piuttosto che cercare di capirla. Il primo di
questi film è il già citato Coulibaly à
l'aventure, ma il problema fu affrontato sia
con Afrique 50 (1950) di René Vautier –
girato in 16 mm bianco e nero e sonorizzato
con mezzi di fortuna – vietato in Africa e in
Francia e rimasto confinato nel circuito delle
cineteche in virtù del decreto Laval – che
prevedeva soprattutto che nessuno potesse
filmare senza essere stato identificato e
verificato il copione e le persone coinvolte –
sia con l'altrettanto vietato Les Statues
meurent aussi (1953), realizzato da Alain
Resnais e Chris Marker, nome d'arte di
Christian François Bouche- Villeneuve, nei
musei africani in Europa, montando materiali
d'archivio sull'Africa. Interdetto dalla censura,
il documentario d'impatto non poté essere
programmato sino al 1963, quando ne furono
proiettate le prime due parti (su tre).
Attraverso
le
immagini
girate
clandestinamente in Costa d'Avorio da René
Vautier, giovane studente dell'IDHEC
parigino, il cinema affrontò con franchezza, se
non con imparzialità, il problema principale
dell'Africa del XX secolo: il rapporto con il
mondo
dei
bianchi.
Primo
film
anticolonialista francese, Afrique 50 era
duramente critico contro la politica coloniale
francese, le sue forze armate che
mantenevano l'ordine e la sua economia di
sfruttamento. Vautier filmò le azioni
commesse dai militari francesi e le umilianti
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condizioni di vita di gran parte della
popolazione locale, mettendo in luce la lotta
del giovane partito RDA (acronimo di
Rassemblement Démocratique Africain) –
federazione dei partiti politici dell'Africa
francese sorta nel 1946 in occasione del
congresso di Bamako – allora nel mirino
dell'amministrazione coloniale.
Dedicato al processo di repressione e di
degradazione dell’arte e dell’artigianato
africano durante la colonizzazione europea,
Les Statues meurent aussi rappresentò un
efficace atto di accusa nei confronti del
colonialismo (e delle stesse responsabilità
della Francia). La denuncia della politica di
sterminio
culturale
delle
popolazioni
colonizzate costituiva una testimonianza
imbarazzante per la Francia, impegnata in una
fase delicata dei rapporti con l’Africa.
Partendo da una corretta domanda sul perché
l'arte africana si trovasse all'interno dei musei
etnografici mentre quella egizia o greca al
Louvre, l’analisi di Resnais e di Marker rivelò
la pratica sistematica di annullamento e di
distruzione del patrimonio culturale della
civiltà africana attuata dalla colonizzazione.
Nello stesso periodo, i primi studenti africani
dell'IDHEC, che non potevano ottenere
l'autorizzazione governativa per girare nel
proprio Paese, tentarono di aggirare il
problema girando film africani in Europa. Se i
ventitré minuti di Mouramani (1953)
realizzato da Mamadou Touré, cortometraggio
su un breve racconto folkloristico della
Guinea, non destarono particolare interesse,
Paulin Soumanou Vieyra, Jacques Melokane,
Mamadou Sarr e l'operatore Robert Caristan
realizzarono quello che è possibile
considerare
il
film
d'esordio
della
cinematografia
dell'Africa
nera:
il
cortometraggio Afrique-sur-Seine (1955), una
fiction di venti minuti che aveva per set la
capitale francese e per personaggi giovani
immigrati africani, ma che significativamente
iniziava con un prologo in Africa. Parigi era
attraversata dallo sguardo di un gruppo di
immigrati. I bambini, i monumenti, la gente
che passeggiava, come in un'inversione del
documentario etnologico. Le attività della
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città e i tentativi d'integrazione. Una coppia
mista si aggirava per le strade della capitale a
bordo di uno scooter e una ragazza africana
aspettava il fidanzato francese.
Accanto a questo interessante tentativo di
mostrare uno spaccato della vita degli africani
fuor d'Africa e ad altri film più o meno di non
facile fruizione degli anni '50, in tutti i Paesi
africani furono girati un gran numero di film
"educativi" che ignoravano o disprezzavano le
culture tradizionali in via di sviluppo. Nella
maggior parte di questi film, come già in
Paysans noirs, L'homme du Niger, le culture
africane erano considerate particolarmente
arcaiche e indegne di sopravvivere alla civiltà
occidentale, identificata per lo più con il
progresso.
Sebbene molti film commerciali non
andassero oltre lo stadio dell'esotismo, alcuni
registi francesi cercarono di spingersi oltre,
superando le barriere culturali per mettere lo
spettatore a confronto diretto con il mondo
dell'Africa qualunque fosse stato: tradizionale
o evoluto. Tali opere caratterizzeranno le
prime tappe del vero cinema africano.
Seguendo le orme di Robert Flaherty, Jean
Rouch aveva girato Les Fils de l'eau da un
punto di vista etnografico ma, per evitare la
trappola dell'esotismo in cui altri registi erano
caduti, Rouch diede la parola agli africani,
chiedendo di commentare loro stessi i loro
comportamenti, le loro azioni e le loro
reazioni. Con Jaguar (1954, distribuito nel
1967), invece, Rouch narrò la storia di tre
giovani nigeriani che lasciavano il fiume per
emigrare nel Ghana (già indipendente).
Questo viaggio, ricco di affascinanti
avventure picaresche, ebbe un seguito con
Moi, un Noir (1957), dove tre giovani neri –
non a caso soprannominati Tarzan, Lemmy
Caution e Edward Robinson perché, per
evadere dalla loro dura vita, loro stessi
immaginavano di essere gli “eroi” del cinema
commerciale – lasciavano il loro Paese sulle
rive del Niger per cercare fortuna nella
metropoli di Abidjan, finendo per vivacchiare
nel povero quartiere di Treichville tra lavori
precari, bagni in laguna, sbornie e contatti con
una prostituta. A una prima parte di taglio
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documentaristico, seguiva una seconda dove,
mescolando finzione e realtà, Rouch lasciò la
parola agli abitanti della bidonville ivoriana,
puntando ad approfondire la loro psicologia,
facendoli parlare dei loro problemi, sogni e
delle loro preoccupazioni e disillusioni. In
seguito, con un film tecnicamente ancora in
bilico tra fiction e documentario quale fu La
Pyramide Humaine (1961), Rouch affrontò la
possibile amicizia e convivenza tra studenti
neri e bianchi in un collegio della Costa
d'Avorio al tempo dell'indipendenza. Il
pretesto per la narrazione era costituito
dall'arrivo di una nuova ragazza francese nella
classe, Nadine, stupita dalla barriera
d'ignoranza e di silenzio che divideva le due
comunità, che mostrava un atteggiamento
disponibile nei confronti dei ragazzi africani
che scatenava le gelosie dei bianchi. Tra
rivalità adolescenziali, danze tribali africane,
problemi borghesi dei ragazzi europei,
discussioni sulla segregazione razziale, i due
gruppi
finivano
per
confrontarsi
culturalmente, condividendo alcuni punti di
vista. L'immediatezza e la sincerità raggiunta
attraverso le registrazioni di incontri non
preparati, caratterizzò quella particolare
tendenza del cinema contemporaneo che prese
il nome di “cinema-verità” e che avrebbe
assunto una più precisa configurazione con
l'introduzione di macchine da presa
leggerissime e silenziose e di magnetofoni
portatili per penetrare nell'intimità della vita
quotidiana come la si viveva veramente.
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Seconda parte
1960: l'Africa sub-sahariana francofona verso un cinema nazionale
1. Dagli anni Sessanta alla nascita di un
cinema “africano”
Nel 1960, con l'indipendenza politica, i
nuovi Stati dell'Africa sub-sahariana si
ritrovarono spesso privi degli strumenti
necessari
per
avviare
una
propria
cinematografia, a eccezione di un laboratorio
di sviluppo e stampa cinematografica e di uno
studio per registrare la musica e il sonoro
dislocati in Nigeria (35mm) e in Guinea
(16mm). Gli imperativi economici spinsero
subito i nuovi Governi verso un pronto
ammodernamento
delle
proprie
apparecchiature video. In generale, le società
di produzione erano tutte a carattere
governativo. Di private ne esistevano solo tre,
in Senegal, Angola e Congo-Brazzaville.
Esistevano anche due società di distribuzione
nell'area dell'Africa francofona. Erano la
Compagnie Marciane Cinématographique et
Commerciale (COMACICO), che si era
appena associata alla tedesca Universum-Film
AG (UFA) attraverso la sua filiale francese, e
la Societé d'Exploitation Cinématographique
Africaine (SECMA), società appoggiata dalla
Banca dell'Africa occidentale. Per i Paesi
africani anglofoni, invece, era la società Film
Units, legata alle altre società britanniche, che
distribuì la maggior parte dei film
programmati nelle sale. Per quanto riguardò i
cinegiornali, i Paesi che disponevano sul loro
territorio di laboratori, studi e sale di
montaggio, li confezionarono sul posto in 35
mm o in 16 mm. Gli altri Stati, soprattutto
quelli francofoni, si appoggiarono al CAI, che
riuniva tutte le case francesi di produzione di
cinegiornali, cioè le Actualités Françaises,
Eclair-Journal, Gaumont-Actualités e PathéActualités.
Nei primi anni dell'indipendenza, il cinema
divenne così uno strumento d’informazione
più che di divertimento. Al seguito dei
cinegiornali nacque una produzione di
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documentari, perché erano film che
richiedevano budget ristretti e che potevano
essere ammortizzati sul mercato interno di
ogni Paese. Il numero particolarmente
ristretto di sale cinematografiche e di
spettatori rappresentarono ulteriori ostacoli
che, inizialmente, frenarono un possibile
rapido sviluppo della produzione africana.
Ciò nonostante, l'educazione degli Africani
all'arte cinematografica fu un importante
momento di crescita nella storia del cinema
dell'Africa. Negli anni '50 e '60, alcuni futuri
registi provenienti da Paesi dell'Africa
occidentale di area francofona riuscirono a
entrare nelle scuole di cinema europee (a
Parigi, Berlino Est, Mosca). Queste ultime si
trovarono così ad assumere un ruolo guida
nello sviluppo del cinema africano. Gli
aspiranti registi africani volevano fare della
loro percezione dell'Africa – dai secoli
dell'oppressione coloniale agli anni della
repressione neocoloniale – il tema delle loro
opere. Avevano inoltre imparato, dagli esempi
della produzione coloniale, che il mezzo
cinematografico aveva un potenziale enorme
e
che
nella
situazione
dell'Africa
postcoloniale, in una società ancora
prevalentemente analfabeta, il cinema avrebbe
costituito, grazie alle sue potenzialità a livello
comunicativo e alle opportunità che poteva
offrire, il mezzo per presentare un’immagine
nuova e diversa del continente.
Fu a partire da questa prospettiva che i
registi africani difesero, sin dall'indipendenza,
la necessità di lavorare per la cultura africana
in un'ottica che fosse africana. Paulin
Soumanou Vieyra girò Une nation est née
(1961), documentario di venti minuti che
commemorava
il
primo
anniversario
dell'indipendenza senegalese. Yves Badara
Diagne realizzò L'Afrique noire en piste
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(1961), un film di venti minuti che celebrava
l'entrata ufficiale del Senegal nella gerarchia
della competizione sportiva internazionale in
vista delle future Olimpiadi di Tokyo (1964).
Un altro importante passo nello sviluppo
del cinema dell'Africa fu la creazione del
Bureau du Cinéma, diretto da Jean-René
Débrix, che funzionava sotto gli auspici del
Ministère de la Coopération. Nell'ambito del
CAI, i registi e i tecnici cinematografici erano
prevalentemente francesi e avevano il
compito di soprintendere al miglioramento
della comunicazione audiovisiva, mentre il
Bureau du Cinéma incoraggiava la
partecipazione africana a tutte le fasi della
realizzazione di un film. I registi africani
potevano scegliere tra due possibilità: il
Ministère de la Coopération poteva produrre
film diretti da africani fornendo il sostegno
tecnico-finanziario necessario; oppure il
regista africano poteva scegliere di portare a
termine il film con mezzi propri e accettare
che il Ministère de la Coopération pagasse i
costi di post-produzione in cambio dei diritti
di distribuzione non-commerciale del film.
Questo tipo di accordo fu aspramente criticato
dai cineasti africani alla luce di alcune pretese
ministeriali che imponevano sceneggiature
conformi a standard cinematografici francesi,
insistendo per avere il controllo della
diffusione tramite acquisto dei diritti per una
distribuzione non-commerciale del film per
un periodo anche di cinque anni.
2. L’importanza del Ministère de la
Coopération per il cinema di area
francofona
e
l’attività
cinematografica
di
Ousmane
Sembène
Tra il 1962 e la fine del 1980, la grande
maggioranza dei film realizzati in area
francofona furono parzialmente finanziati
tramite i pacchetti di assistenza del Ministère
de la Coopération. Tuttavia, i più noti tra i
film realizzati grazie all'aiuto francese furono
Borom Sarret (1963) e La Noire de… (1966)
di Ousmane Sembène, tra i più grandi autori e
cineasti della storia della cultura africana. Con
la proiezione di una vera produzione
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cinematografica africana quale fu Borom
Sarret all’Internazionale Tours Film Festival
del 1963, il film passò alla storia come prima
opera cinematografica africana vista da un
pubblico pagante di spettatori di tutto il
mondo e vinse il Premio Opera Prima,
facendo breccia a livello internazionale
(sebbene il primo film africano a ottenere lo
stesso premio fu comunque Aouré).
Girato a Dakar, Borom Sarret, di soli
diciannove
minuti
di
durata,
era
indiscutibilmente un piccolo capolavoro, che
aveva il respiro delle immagini nouvelle
vague ovunque filmate in quegli anni e del
neorealismo più profondo e senza tempo.
Emergeva con forza, attraverso l'uso della
voce off, l'appello all'indignazione dello
spettatore affinché prendesse coscienza delle
condizioni degli sfruttati. Il film anticipò la
futura linea e il futuro intento della poetica
cinematografica di Ousmane Sembène, che
individuò nel cinema il mezzo per risvegliare
i popoli, uno strumento d'azione politica per
rendere coscienti le masse. Borom Sarret
affrontava, in forma embrionale, temi
importanti che avrebbero, in seguito,
caratterizzato il cinema dell'Africa e
sarebbero stati ulteriormente approfonditi
dallo stesso Sembène e da altri registi. Nella
sua rappresentazione filmica di un
microcosmo,
Borom
Sarret
era
deliberatamente allegorico, con una struttura
che evocava specificità nazionali (e
implicitamente
continentali)
attraverso
l'introduzione di "frammenti di discorso" che
rivelavano messaggi politici in codice. Il
contrasto tra poveri e ricchi nel contesto
urbano di Dakar servì come argomento base,
ma Sembène intrecciò una serie di bozzetti
che diedero uno spaccato della vita africana
sullo sfondo della realtà neocoloniale,
laddove l'élite africana aveva sostituito
l'amministrazione coloniale bianca in un
clima di alienazione culturale e di
sfruttamento sociale ed economico.
Il mondo descritto da Sembène in questo
cortometraggio
di
finzione
rifletteva
specificatamente la storia senegalese e quella
africana. Un rivoluzionario in fieri. Egli era
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convinto che il testo dovesse risvegliare la
coscienza politica dell'individuo e così si
trovò sempre più scontento della letteratura
come mezzo di comunicazione delle proprie
idee e cominciò a interrogarsi sull'efficacia
della parola scritta in un continente in cui la
maggioranza della gente era analfabeta. Da
qui il passaggio al cinema, che sarebbe potuto
diventare il veicolo par excellence della
creazione di una forma moderna di cultura
africana, in grado di trascendere i confini
artificiali e le barriere linguistiche.
Nel 1963, Sembène girò per il Governo del
Mali un documentario, L'Empire Songhai
(1963), che tentava di ricostruire la storia del
vecchio Impero di Songhai nell'Africa
precoloniale. Questo saggio storico ruotava
attorno agli abitanti islamizzati che
occuparono l'area oggi nota come Mali: la
lotta del Songhai contro l'invasione straniera,
il colonialismo francese e il dissenso, tutti
eventi che contribuirono alla decadenza e alla
caduta dell'Impero.
La ricostruzione del passato fu anche il
tema di Sarzan (1963) di Momar Thiam –
film in parte finanziato dallo stesso regista
con il sostegno tecnico-finanziario del
Ministero dell'Informazione del Senegal –
ritratto di un Ufficiale dell'esercito coloniale
che tornava al villaggio dopo aver prestato
servizio tra le fila dell'esercito francese. Nel
film veniva affrontato con vigore anche il
tema dell'acculturazione, poiché dopo
quindici anni di servizio militare, il sergente
Moussa, occidentalizzato e alienato, non
riusciva a riadattarsi al contesto tradizionale
della società d'origine, decidendo così di
imbarcarsi in una missione "civilizzatrice"
della sua gente. Sarzan mise in luce
l'inevitabile rifiuto della tradizione che la
modernità comporta, affermando, al tempo
stesso, la necessità di una trasformazione
graduale, allo scopo di proteggere la società
dai traumi psicologici e sociali associati ai
cambiamenti improvvisi. La ricerca delle
tradizioni africane attraverso le sue leggende
fu un punto importante anche per la realtà
cinematografica, unica nel suo genere, del
Niger.
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3. Il cinema di Moustapha Alassane
Uno dei registi locali più stimati fu
Moustapha Alassane, formatosi in autonomia
frequentando solo qualche stage al Service
Cinéma du Film Ethnographique di Parigi e
all'Office National du Film di Montréal. Con
Aouré, girato in un villaggio djerma,
cominciò una filmografia splendidamente
artigianale, sviluppando un'idea di cinema che
riportava agli spettacoli delle lanterne
magiche. Con il suo cinebus fece conoscere
agli abitanti dei villaggi la magia del cinema,
creando le prime animazioni, facendo sfilare
personaggi ritagliati nel cartoncino e animati
sui muri come ombre cinesi: elementi
rinvenibili nelle sue opere in pellicola, per
racconti spesso immersi nella favola e
nell'ironia.
Quando gli interessi di Alassane si
spostarono sulla narrazione cinematografica,
il regista scoprì che la struttura narrativa
occidentale poteva unirsi alla fiaba della
tradizione africana per dar vita a una
corrosiva denuncia politica: ne risultò Le
Retour d'un aventurier, un film inscritto in
un'ossessione intima che superava ogni
contatto con il reale, che rendeva gli attori
“intrappolati” nel mito e nei codici di genere,
al fine di denunciare i pericoli della
contaminazione
culturale
derivanti
dall'impatto dei western sulla vita degli
africani. Un giovane nigerino scendeva
dall'aereo, rientrava al villaggio dopo un
viaggio negli Stati Uniti e portava con sé
oggetti della tradizione culturale e
cinematografica
occidentale,
e
più
precisamente del West: cappelli, pistole,
stivali che distribuiva agli amici, ricreando
così nella brousse il set di un western e
sconvolgendo la vita di tutti gli abitanti
chiamati a far parte di quella rappresentazione
in forma di parodia, su un set naturale in cui si
manifestava l'esplosione dell'artificio e
dell'invenzione, della rilettura appassionata di
luoghi dell'immaginario. Alassane mostrò in
che misura, parodiando i valori importati, i
giovani avevano sviluppato nuove forme di
emarginazione.
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4. Alla ricerca di un linguaggio
cinematografico
propriamente
“africano”. L’eredità e l’influenza di
Sembène
Tra il 1965 e il 1970, i resoconti di africani
espatriati per studiare o di veterani di guerra
continuarono ad attirare l'attenzione dei
registi. Mentre alcuni film raccontavano
esperienze individuali o di gruppo all'estero,
altri si concentravano sui problemi di
riadattamento al momento del ritorno in
Patria. Quest'ultimo tema fu al centro dei film
camerunesi Aventure en France (1962) di
Jean-Paul N'Gassa, Point de vue 1 di Urbain
Dia-Mokouri e del film senegalese Et la neige
n'était plus (1965) di Ababacar SambMakharam. Toccò a La Noire de… [La Nera
di...] di Sembène annunciare un grande
slancio, seppur appena agli inizi, dell'arte
cinematografica dell'Africa nera. Il film era
tratto da uno dei racconti del suo romanzo
Voltaïque (1962), a sua volta ispirato a un
fatto di cronaca. Mentre Borom Sarret era
stato girato con lucidità, La Noire de…
mostrava inizialmente una qualche ingenuità
scenografica, perché venivano nuovamente
sfruttati i quartieri natali di Dakar, ma stavolta
Sembène si servì di un personaggio
femminile, Diouana, e ne propose uno studio
psicologico che rifletteva, in realtà, la sua
personale posizione anti-establishment. Gli
imperativi politici del film ebbero ampiezza
storica e profondità sociologica. La sua
scontata struttura binaria ne fece però un
saggio chiave sui conflitti tra bianchi e neri.
La Noire de… affrontava il tema dei
maltrattamenti subiti da un'analfabeta donna
senegalese da parte di una famiglia francese
che la portava via dall'Africa – in una scena
che rimandava ampiamente a un'asta di
schiavi – per farne la propria cameriera. Il
viaggio stesso di avvicinamento e il
soggiorno-reclusione nella sua nuova dimora
costituivano il segno di una libertà negata,
sognata, immaginata in rapporto a un passato
e a una cultura che non poteva coesistere con
la nuova realtà. Una volta "prigioniera"
nell’“inferno” della Costa Azzurra di Antibes
in Francia, Diouana era, infatti, esclusa da
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ogni contatto sociale. Sensi di privazione e
d’isolamento conducevano Diouana, dopo
aver messo i suoi effetti personali in una
valigia, essendosi spogliata dei suoi abiti
“occidentali” e legatasi i capelli, al suicidio.
La
descrizione
dei
fatti
e
la
caratterizzazione dei personaggi erano
approfondite; il discorso critico sui conflitti
generazionali e sociali, sui problemi del
colonialismo e dello scontro fra due civiltà
apparve complesso e stimolante, attraverso
uno stile non privo d'un sottile fascino
formale. Il passato si ripresentava dalla
valigia della protagonista, da una fotografia in
essa contenuta e che ritraeva la donna
abbracciata a un uomo, dalla maschera – che
Diouana acquistava a credito dal fratello per
regalarla ai padroni – simbolo dell'Africa e
della sua cultura tribale, indossata da lei
stessa, da un popolo costretto a celare
emozioni, sensazioni e culture di fronte al
padrone occidentale. Il sogno andava in
frantumi. Come già in Borom Sarret, non
esisteva possibilità di fuga.
Considerato il primo lungometraggio
drammatico del cinema africano, La Noire
de… vinse il Premio Jean Vigo per il miglior
regista (1966), il Tanit d'Oro di Cartagine
(1966) e il primo premio (1966) al Festival
Mondial des Arts Nègres di Dakar. Il 1966 fu
un anno importante per il cinema africano. Fu
un periodo di eccezionale produttività che
annunciò la nascita del cinema di fiction nel
continente. I film Mandabi (1968) ancora di
Sembène e Cabascabo di Ganda furono
distribuiti a livello internazionale, ottenendo
un riconoscimento da parte del mondo intero
e contribuendo alla diffusione del cinema
africano all'estero.
Da tutta l'area francofona emersero film
che affrontavano temi simili a quelli trattati
con successo da Sembène. Il cineasta della
Costa d'Avorio Désiré Écaré, ex studente
dell'IDHEC, dimostrò un considerevole
talento con le due opere realizzate a Parigi,
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Concerto pur un exil (1968) e À nous deux,
France! (1969), ribattezzato Femme noire,
femme nue dai distributori francesi,
contenente uno splendido inserto dedicato alla
bellezza delle donne.
In Mon stage en France (1968), il regista
camerunese Thomas Makoulet Manga
raccontò, invece, la propria esperienza di
formazione in Francia. Altri film della
categoria furono Âme perdue (1968) – storia
di una giovane africana, Natou, sedotta e
abbandonata dall'amico di suo cugino, Soriba
– di Sekou Amadou Camara dalla Guinea e,
soprattutto, Soleil Ô (1971) [Sole O] di Med
Hondo, cineasta della Mauritania, uno dei più
rigorosi assertori di un cinema politico, vero
animatore di quel movimento d’integrazione
cinematografica africana che, sulla base delle
differenze nazionali e culturali ma all'interno
di un unico impegno di progresso politico e
sociale, si andava diffondendo nel continente
africano.
Lo sfortunato Oumarou Ganda, morto
prematuramente nel 1981 all'età di
quarant'anni, fu il secondo pioniere del
cinema del Niger dopo Alassane. Lavorò
anche
come
aiuto-regista
nell'unità
cinematografica del Centre Culturel Français
de Niamey. Ganda fu uno dei pochi cineasti
africani a trarre beneficio dalla cooperazione
francese, che permise di rettificare l'immagine
esclusivamente etnografica proposta in
passato da Rouch e duramente criticata da
Sembène.
Il mediometraggio d'esordio di Ganda,
Cabascabo, era un film autobiografico nel
quale
Ganda
riprendeva
proprio
il
personaggio da lui interpretato in Moi, un noir
e ricostruiva la sua esperienza indocinese
riflettendo sulle conseguenze del ritorno a
casa. Ganda consegnò ai flashback i ricordi
visivi della guerra, dei combattimenti, del
fronte, e sviluppò al presente il difficile
reinserimento nella vita quotidiana in Niger. Il
protagonista vi tornava da bullo, frequentando
il bar dei reduci, portando doni a tutti,
dilapidando i soldi fra bevute e regali per una
prostituta che lo sfruttava, cercando lavoro e
alla fine decidendo di tornare dai genitori e
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recarsi, come molti altri, a coltivare la terra.
A differenza di Ganda, Med Hondo indagò
la situazione critica del popolo africano con
uno stile innovativo e un orientamento
teorico. I suoi film saranno dei ritratti a tutto
tondo, un riflesso della sua rabbia di fronte
alla decadenza di una società che vorrebbe
veder cambiare.
Si rivolse allora al cinema, proprio come
Sembène, nella speranza di raggiungere un
pubblico più vasto. Balade aux sources
(1967), riflessione disincantata di un
immigrato africano sulle proprie condizioni di
vita, e Partout ailleurs peut-être nulle part
(1969), film su due coppie di bianchi viste
attraverso gli occhi di un africano, furono
girati entrambi nel 1967 mentre Hondo si
stava già preparando alla realizzazione di
Soleil Ô. Quest’ultimo fu un meticoloso
attacco all'imperialismo straniero in Africa,
dai tempi della schiavitù a quelli successivi
all'indipendenza. Il paradosso della continuità
tra colonialismo e postcolonialismo costituì il
fulcro della sua complessa struttura, per un
affresco storico confezionato come un saggio
d'avanguardia sul razzismo e il profondo
senso di straniamento e di alienazione, cui
furono sottoposti il regista e intere comunità
di immigrati di colore in Francia.
Nel corso del film, le lenti panoramiche di
Hondo abbracciavano uno spettro del
paesaggio coloniale e di quello neocoloniale
abbastanza vasto da poter catturare il
dualismo strutturale (Occidente e tradizione)
dell'emancipazione africana. Lo spettatore
imparava dal film che i dogmi educativi, civili
e religiosi, inculcati dai colonizzatori francesi,
erano circa superficiali, soprattutto nel
momento in cui il sistema basato sul
pregiudizio gerarchico della Francia teneva a
bada i benefattori.
Proprio come la protagonista dell'opera di
Sembène La Noire de… - Diouana - era
identificata dai padroni coloniali come la
ragazza nera, la domestica, l'africana, così il
ragioniere di Soleil Ô era identificato soltanto
per il colore della sua pelle. Il personaggio,
che rappresentava l'ondata di africani delle ex
colonie andati a cercare una vita migliore
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nell'ex madrepatria, non aveva nome ed era il
simbolo dell'emarginazione. Figura simbolica
e, in virtù dell'educazione ricevuta, ponte tra
passato e presente, il ragioniere del film di
Hondo diveniva ancora un cronista in grado di
capire gli aspetti coloniali e neocoloniali. Man
mano che il film procedeva, dal punto di vista
intellettuale si passava a uno di
caratterizzazione più proletaria, partendo dai
cenni sullo status culturale e sociale del
protagonista, per arrivare alla sua imponente
discussione sul capitalismo con un executive
francese, al lavoro di spazzino e alla sua
identificazione con i propri compatrioti neri,
alcuni dei quali arrivavano persino a evitarlo.
Il film riaffermava così che, a prescindere
dallo status sociale, la situazione, finché si era
neri, rimaneva la stessa.
L'aspetto riflessivo di Soleil Ô richiamava
inoltre lo sguardo sul suo status di costrutto
evocativo e, più in generale, di prodotto
politico e ideologico. L'interesse dialettico lo
avvicinava, sul piano delle idee, al contesto
politico del cinema africano prospettato da
Sembène, la cui opera è altrettanto pervasa di
dialettica marxista. Eppure Soleil Ô non era
un documentario, né un film di fiction: non
raccontava necessariamente una storia, era
costruito, piuttosto, a segmenti, come se ogni
scena fosse stata per Hondo un'opportunità
creativa di scuotere il pubblico con
un'affermazione politica in parte celata.
5. Lo scontro tra cultura tradizionale e
le influenze europee
Verso la fine degli anni '60, quando il
concetto
di
panafricanismo
andava
politicizzandosi sempre più e permeava la
struttura sociale africana, anche i registi si
spostarono verso un'indagine più profonda
delle questioni sociali e dei problemi
dell'epoca: la dicotomia città/mondo rurale, la
disoccupazione, la corruzione, la posizione
della donna all'interno di una società
dominata dal maschio e la poligamia.
Djibril Diop-Mambéty, già famoso attore
senegalese, girò Contras City (1968), caotico
viaggio nelle vie di Dakar, oltre che studio
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satirico dell'imponente realtà cosmopolita
della capitale senegalese. Ritenuto il primo
film comico africano, Contras City esplorava
alcuni luoghi pubblici della capitale
senegalese (il municipio, il teatro, il Ministero
dell'Informazione, oltre alle strade, ai mercati,
ai quartieri poveri). Così, i dettagli sui
particolari del corpo del cavallo si facevano
inserti che depistavano, che conducevano il
film oltre il documentario, che testimoniavano
la soggettività dell'operazione, immersa negli
spazi della memoria del cinema – fra il Dziga
Vertov di L'uomo con la macchina da presa
(1929), l'Alain Resnais di L'anno scorso a
Marienbad (1961) e un altro carretto portato
in giro per Dakar da Ousmane Sembène in
Borom Sarret – e in quelli di una città da
trasferire sempre più, nel corso del film, in
una dimensione atemporale. Infatti, se le
prime
sequenze
di
Contras
City
individuavano aspetti legati all'attualità (le
donne che sfogliavano le riviste femminili, la
preghiera in strada), a comportamenti sociali
da affrontare con humour – commentati con
ironia dalla voce fuori campo (come anche in
altri momenti del film), le immagini finali
contenevano ancora il viaggio nella città, ma
più spostato nella percezione, vissuto
dall'interno di un vecchio autobus,
proveniente da un altro tempo.
In seguito, sarà ancora Sembène a dare al
cinema
africano
l'ennesima
nuova
dimensione.
In Mandabi, il regista senegalese esaminò
con maggior vigore e in modo più critico e
ampio la questione dell'ingiustizia sociale,
concentrandosi sullo sfruttamento degli
analfabeti da parte di gente istruita, brillante e
corrotta (con un'educazione ricevuta di solito
oltremare). Le difficoltà d'adattamento di un
giovane nigerino nel mondo in evoluzione che
lo circondava e, soprattutto, l'analfabetismo
erano i temi portanti di La Réussite de MeïThebre (1970) di Yaya Kossoko mentre, col
suo primo lungometraggio, Moustapha
Alassane ricorse alla propria abilità
cinematografica, ora più matura, per illustrare,
in un saggio sullo sciovinismo del maschio
africano, intitolato F.V.V.A. (Femmes, Villa,
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Voiture, Argent) (1972), la corruzione, il
nepotismo e la cattiva gestione che
caratterizzavano la borghesia africana.
F.V.V.A. (Femmes, Villa, Voiture, Argent)
ribadì i tratti dell'opera di Alassane:
ambientato nella società contemporanea, era
una satira rivolta a quelle persone che
dall'indipendenza avevano pensato solo a
conquistare potere e benessere, attraverso
abusi racchiusi nelle quattro parole le cui
iniziali formavano il titolo del film.
In un contesto soggetto a rapidi
cambiamenti come quello africano, in cui le
culture tradizionali si mischiavano a quelle
importate, i cineasti cominciarono a
esaminare sempre più il ruolo della donna in
maniera realistica rispetto allo stereotipo
femminile del cinema occidentale, che
proponeva una donna sensuale, a seno nudo,
oggetto del desiderio sottomesso ai voleri del
maschio, con un ruolo minimo o inesistente
all'interno della società.
Realizzato con grande difficoltà, Visages
de femmes trattò, con toni anche
sdrammatizzanti, la condizione della donna
africana e i suoi destini, contrapponendo a
una contadina un personaggio femminile più
emancipato. Nella prima parte, ambientata in
un piccolo villaggio, si svolgevano le
relazioni amorose di una giovane donna con il
fratello del marito venuto dalla città e poi
coinvolto in una scena di sesso in acqua,
lunga, sensuale e ai limiti dell'hard, con
un'altra donna del villaggio. Écaré ruppe un
tabù per un cinema come quello africano
dove, raramente, il sesso era presente,
neppure in maniera soft. L'immancabile
intervento della censura ivoriana contribuì,
però, in misura notevole, al suo successo.
D'altro canto, i film a sfondo sociale
andavano a toccare tasti dolenti e i leader
africani cercarono di limitare la diffusione del
materiale audiovisivo. Critiche a costumi
quali la poligamia erano considerate contro la
tradizione. In Burkina Faso, Mandabi e Deela
ou Albarka le conteur (1969) di Alassane
fecero scoccare tra i registi la scintilla del
dibattito su uno dei principali problemi del
cinema africano: quello della lingua. Prima di
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girare Mandabi, Sembène si era posto
l'obiettivo di servirsi dei film per rivolgersi
alle comunità contadine, in larga parte
analfabete, in una lingua che fosse
comprensibile. Ma, a causa delle restrizioni
imposte dai dipartimenti francesi che
finanziavano la produzione cinematografica
africana, i suoi film, girati in francese, non
erano riusciti nell'intento. Queste restrizioni
esistevano ancora ai tempi in cui girò
Mandabi, ma Sembène riuscì a realizzarne
due versioni: una in francese e una in wolof.
Se i temi di attualità sociale di Mandabi
andarono a toccare le corde sensibili del
pubblico, Deela ou Albarka le conteur
recuperò vecchie tradizioni africane ancora
presenti nelle varie società tradizionali, per
poi scoprire che l'universalità del messaggio
era compromessa dal problema della lingua.
Sembène e Alassane furono entrambi sensibili
al problema di un cinema africano
indipendente che rispondesse alle esigenze e
ai desideri, anch'esso, di un pubblico africano.
In Senegal, la lingua wolof è parlata dall'85%
degli abitanti. Solo una piccola parte della
popolazione non è quindi in grado di capire i
film girati in quella lingua (la situazione è
molto più critica in altri Stati africani dove
abbondano dialetti diversi fra loro). L'uso del
francese sarebbe stato inibitorio e avrebbe
ridotto la portata del messaggio. In Deela ou
Albarka le conteur, dove il griot parlava nella
lingua locale, per il commento si utilizzò il
francese.
Dalla fine degli anni '60, sono stati girati
film che hanno affrontato il tema
dell'evoluzione del continente in ogni Paese
africano. Le opere di questo periodo si sono
presentate non come dei prodotti con
un'estetica particolare, ma come impetuosi
tentativi di dialogo politico. Le immagini, lo
stile, la struttura, i temi hanno esplorato le
risposte politiche e culturali evocate dai film
stessi. Nel contempo, s'è affermato il tentativo
di creare un cinema risoluto, in grado di
affrontare vari modelli culturali e politici
africani.
L'epoca è stata segnata dall'esplorazione di
modelli di espressione e di formulazione
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ideologica saldamente radicati nello spirito
del panafricanismo, con un appello alla
riformulazione della storia africana distorta
dalle ideologie coloniali. Sulla base di
contesti nazionali - a volte ideologicamente,
politicamente e culturalmente diversi - una
tradizione è stata fondata, una tradizione
cinematografica africana che riconosce la
necessità di dare colore alle strutture narrative
convenzionali con le forme della narrazione
orale tipica del continente. In questo modo, il
cinema africano ha messo in piedi una
struttura che unisce cultura tradizionale e
tecnologia occidentale (caratterizzata dalle
forme di produzione tecnologicamente
dominanti).
6. Le caratteristiche del cinema africano
fra tradizione e modernità: i
problemi
principali
per
la
produzione e la distribuzione
cinematografica
Quello africano, come tutto il cinema del
Terzo mondo, è un cinema “povero” che,
costretto da grosse limitazioni materiali, mira
all'essenziale. Tuttavia, i cineasti africani
hanno saputo avviare un processo di revisione
critica degli strumenti di cui solitamente si
avvalgono i prodotti della grande industria
cinematografica: se alti budget di produzione
hanno spinto anche grandi e originali registi a
sostituire l'immaginazione con la messa in
scena, le limitazioni dei periodi di difficoltà e
di crisi hanno liberato la loro fantasia artistica
e condotto a una maggiore intensità, talvolta a
un proprio linguaggio cinematografico.
Elementi specifici del cinema dell'Africa
sub-sahariana francofona sono stati il tono
epico della narrazione, il gesto didattico e la
rappresentazione
non
psicologica
dei
personaggi, i cui comportamenti derivano da
ruoli sociali. In effetti, questi mezzi stilistici si
sono ricollegati direttamente alla tradizione
popolare dei griot, che ancora si ascoltano la
sera nella piazza del villaggio sotto l'albero
delle riunioni.
In questo cinema non c'è stato nessun
inganno, nessuna tecnica di pressione
psicologica in atto, ma solo un invito ad aprire
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gli occhi, a seguire una storia. Gli spettatori
non sono stati indotti a una passiva
identificazione, sono altresì posti innanzi ai
fatti raccontati attraverso le immagini in
qualità di osservatori dotati di giudizio critico.
Lo sguardo rivolto alle cose meno
appariscenti, agli avvenimenti del quotidiano
e alla vita della gente comune ha reso visibile
quella realtà sociale, altrimenti negata o
nascosta dietro una maschera folkloristica.
Il livello artistico raggiunto da queste
pellicole è stato sorprendente per più di una
ragione: per la brevità della sua storia, per il
non elevato numero di film finora prodotti e,
soprattutto, in considerazione delle condizioni
materiali in cui tale cinematografia è nata e, in
larga misura, persino oggi, opera. Quasi dal
nulla la produzione è giunta in un solo balzo a
un
livello
che
altre
produzioni
cinematografiche nazionali, come per
esempio quelle del sud-est europeo, nate dopo
la seconda guerra mondiale in condizioni
tecniche insufficienti e senza esperienza
professionale, hanno raggiunto solo dopo
lunghi e faticosi tentativi.
Ciò nonostante, fino a oggi, la
cinematografia dell'Africa sub-sahariana è
stata la meno sviluppata nell'ambito dei Paesi
terzomondisti. Mentre l’India, il Paese dalla
seconda economia a più rapida crescita, ha
superato con circa seicento film all'anno,
anche se solo nella produzione e non nella
distribuzione, persino Hollywood, nei Paesi a
sud del Sahara, alla fine degli anni '90, si sono
girati complessivamente circa quattrocento
lungometraggi. Ciò significa che, a fronte di
una produzione annua molto modesta – in
rapporto alla grandezza del continente – esiste
una percentuale straordinariamente elevata di
film di qualità.
Se si tiene conto delle condizioni vigenti,
la comparsa di ogni nuovo film è stata un
piccolo evento. La maggior parte degli Stati
africani non ha avuto né la disponibilità
finanziaria, né l'interesse per una produzione
cinematografica indipendente. A spese dello
Stato sono stati prodotti solo film didattici e
cinegiornali, che spesso non sono stati altro
che veicoli celebrativi della politica del
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Governo in carica. Inoltre, ricorrendo ai
finanziamenti a favore dei Paesi in via di
sviluppo, è stata promossa la creazione di una
rete televisiva nazionale, sebbene in alcuni
siano mancate le premesse per trasformare
quest’oggetto prestigioso in un mezzo di
comunicazione realmente utile. Fino agli anni
'90 è stato spesso mandato in onda un unico
programma al giorno, che ha raggiunto solo
poche migliaia di spettatori nelle città. Un
altro limite è stato dato dalla mancanza
d’imprese con capitali d'esercizio sufficienti,
l'infrastruttura
tecnica
e
personale
specializzato esperto. I pochi imprenditori
privati hanno perciò lavorato in vista del
profitto, manifestando tanto poco interesse
per l'arte quanto per la realtà sociale.
In questa situazione è stato più facile per i
registi emergenti riuscire a realizzare le loro
opere di quanto non accadesse negli anni
post-indipendenza, ma difficilmente è riuscita
a svilupparsi un'industria cinematografica
indipendente. Numerosi cineasti hanno perciò
creato in proprio piccole case di produzione,
in cui sono, al tempo stesso, autore, regista e
produttore. Di norma, sono stati costretti a
iscrivere ipoteche, a ricorrere al credito
bancario e a procurarsi il resto del capitale
facendosi prestare piccole somme. Per
produrre un solo film, nonostante il loro
lavoro precedente avesse ottenuto buone
critiche e premi a festival internazionali,
spesso questi registi si sono indebitati per
anni. Solo giocando d'astuzia, alcuni di loro
sono riusciti a ottenere sovvenzioni statali e
poi a evitare che, una volta terminato, il film,
spesso molto diverso dal progetto autorizzato,
fosse censurato.
Se la produzione è avvenuta in circostanze
tanto difficili, il problema principale è stato
comunque la distribuzione. Per diverse
ragioni, la maggior parte dei film è rimasta
sconosciuta proprio a quelle masse africane
per cui è stata pensata e cui si è rivolta:
innanzitutto, in rapporto alla popolazione, per
lo scarso numero di cinema presenti sul
territorio, nella maggior parte dei casi sale
all'aperto
male
attrezzate,
localizzate
esclusivamente nelle città più grandi, che
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hanno raggiunto solo una minuscola frazione
di un mercato potenzialmente vastissimo.
Il numero esiguo di sale è stato altresì
dominato, quasi ovunque, dai monopoli di
distribuzione stranieri e inondato dai prodotti
di
scarto
dell'industria
internazionale
dell'intrattenimento. Alla fine degli anni '80,
la programmazione era ancora costituita da
film di seconda, terza e quarta mano,
provenienti da Hollywood, Cinecittà e Hong
Kong, integrati con melodrammi prodotti al
Cairo e a Calcutta. Al momento, l'Africa subsahariana importa più di mille film all'anno.
Si tratta in massima parte di vecchi film, che
hanno già da tempo ammortizzato i costi di
produzione e che sono offerti a prezzo di
svendita. Di solito non è stata prevista una
partecipazione del produttore sulle vendite. I
distributori hanno certamente fatto un grande
affare, ma anche per chi vende si è trattato
sempre ancora di un guadagno supplementare.
In questi casi non c'è stato spazio per il
giovane cinema dei registi africani, impegnato
sul piano artistico e sociale. Malgrado ciò, se
trovassero una buona posizione nelle
programmazioni, i film dei registi africani
potrebbero cogliere un qualche successo
almeno nel mercato dell'home video. Di fatto,
il pubblico africano ha abitualmente amato i
film dei suoi connazionali, che hanno risposto
molto di più al suo ritmo e al suo senso della
vita. Dove questi film sono entrati nella
programmazione, le sale cinematografiche
hanno registrato di frequente il tutto esaurito.
Nel 1980, i diciassette Stati (Benin,
Burkina Faso, Repubblica Centrafricana,
Repubblica del Congo, Ciad, Costa d'Avorio,
Camerun, Repubblica Democratica del
Congo, Gabon, Madagascar, Mauritania,
Mauritius,
Niger,
Rwanda,
Senegal,
Seychelles,
Togo)
dell'Organizzazione
internazionale regionale per la cooperazione
in varie regioni dell'Africa, istituita a
Nouakchott, in Mauritania, il 12 febbraio
1965 e scioltasi il 23 marzo 1985, chiamata
Organisation Commune Africaine Malgache e
Mauricienne (OCAM), hanno cercato di
creare insieme un consorzio per la produzione
e la distribuzione nell'intera regione, ma il
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tentativo è fallito dopo pochi anni. Ciò
nonostante, in alcuni Paesi (ad esempio, il
Burkina Faso) che hanno nazionalizzato la
produzione cinematografica, si sono intravisti
incoraggianti sviluppi, tuttavia è ancora
assente
quell’auspicata
collaborazione
interafricana che sola potrebbe offrire una
radicale e duratura soluzione agli attuali
problemi, creando un comune mercato per la
distribuzione dei film e finanziando la
produzione.
Negli ultimi anni, il tratto comune che
caratterizza numerosi film dei nuovi registi
dell'Africa sub-sahariana francofona, proprio
perché ambientati nella contemporaneità, è il
ripensamento della propria storia, tradizione e
identità in una riflessione che si ricollega al
presente. La crisi e lo sviluppo del cinema
africano del nostro tempo si sono articolati
attraverso strutture in movimento che occorre
analizzare brevemente. Nel ventennio tra gli
anni '50 e '70 si è assistito in Africa alla
caduta delle strutture coloniali e alla nascita,
varia e tumultuosa, delle nuove Nazioni
emergenti. Per quel che concerne gli aspetti
socio-culturali, una delle urgenze maggiori di
questi nuovi Paesi è stata l'affermazione
dell’“identità culturale” e cioè l'appello
energico e costante, rivolto ai creatori d'ogni
forma d'arte, dal teatro al cinema, dalla pittura
alla poesia, di svincolarsi da tutti i modelli
d'imitazione passiva e fare, invece, appello
alle profonde risorse della tradizione e delle
storie endogene.
Ciò ha fatto sì che il cinema africano del
2000 non sia stato costruito attorno al solo e
continuo ritorno alle origini, ma ispirato da un
insieme di idee culturali autenticamente
universali. La questione cruciale ha quindi
riguardato la possibilità se una commistione
di generi e temi abbia potuto offrire, ai giorni
nostri, il profilo di una modernità nascente.
Negli anni scorsi, la minaccia più grave allo
sviluppo del cinema africano è stata la
semplice assunzione di modelli altrui,
compresi quelli della tecnica. Persino nel
campo cinematografico, la modernizzazione
non deve costituire un continuo dilemma
storico, ma deve piuttosto realizzarsi nella
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volontà dei popoli di rappresentarsi, nelle loro
motivazioni profonde d'identità e di speranze,
semmai coniugando la tradizione orale,
mobile e imprevedibile, con un'evidente
integrazione tecnica.
Sebbene
le
masse
lo
abbiano
maggiormente ritenuto più un mezzo di
comunicazione che una vera e propria arte
contemporanea, il cinema africano è stato un
fenomeno inscritto negli ultimi sessant'anni,
che non si è potuto sviluppare in simbiosi con
le pregresse forme di comunicazione e di arte
quali la letteratura o la musica, costituendo,
però, l'ovvio riflesso della continuità della
specificità culturale tradizionale e, quindi,
originale del popolo africano già espressa in
forme differenti nel racconto orale così come
nella musica, nel teatro e nella danza. Nello
specifico
dell'Africa
sub-sahariana
francofona, la concezione di arte intesa nel
rapporto uomo/cosmo e i temi comunemente
affrontati hanno indotto a lungo e, in linea
generale, a scelte stilistiche diverse da quelle
generalmente usate da altre cinematografie,
come il ricorso a campi medi fino al campo
lungo o lunghissimo, poi a un montaggio
generalmente non serrato o di tipo analogico e
a poche azioni veloci per privilegiare il tempo
del dialogo.
Non diversamente da molte altre culture
narrative e cinematografiche del mondo, il
cinema dell'Africa sub-sahariana francofona è
stato caratterizzato da un grado relativamente
consistente di intertestualità. Ciò significa che
le modalità in cui i film che costituiscono
l'odierno corpus cinematografico africano
sono rapportabili gli uni agli altri e, in
particolare, nel modo in cui alcune opere
recenti hanno riecheggiato alcune più vecchie,
tramite ripetizione, revisione, saggio, parodia,
trasgressione o mediante una combinazione di
questi elementi. Numerosi film attuali, pur
mostrando caratteristiche (in termini di
problematica del soggetto, tema, stile e
linguaggio) che evocano l'etichetta di
“nuovo”, entrano analogamente in risonanza
con elementi dei film che li hanno preceduti.
Negli ultimi anni, rare sono state le
produzioni davvero nuove, senza riferimenti
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più o meno consapevoli con quelle
antecedenti, laddove anche il mondo
dell'intero
cinema
africano
possiede
ugualmente logiche di riferimento, risonanze
e relazioni proprie.
Nel frattempo, una nuova generazione di
registi si è affacciata sui palcoscenici
nazionali ma, nella maggior parte dei casi, ha
dimostrato di possedere minore impegno
sociale e forza artistica, caratteristiche che in
passato avevano connotato la generazione dei
pionieri, creando dal nulla la fama del cinema
francofona.
dell'Africa
sub-sahariana
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L'interesse commerciale degli imprenditori
privati e l'ambizione delle autorità pubbliche
che si sono risvegliati nell'ultimo decennio
permettono, talvolta, ai giovani registi di
trovare più facilmente fondi, spingendoli
anche al compromesso. Il risultato di questo è
stato spesso rappresentato da una produzione
conformista e, non di rado, di più bassa
fattura.
Tuttavia, nello stesso tempo, sono nati
anche nuovi talenti, che hanno dato prova
della loro indipendenza e integrità, unendo
all'impegno sociale la serietà artistica.
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Terza parte
La cinematografia di Souleymane Cissé: aspetti stilistici, sociali e politici
1. Introduzione
La complessa opera di Souleymane Cissé è
stata soprattutto una cinematografia militante,
testimonianza politica che di film in film si è
affinata in uno sguardo meno faticoso, sempre
più libero e poetico, in una complessità
figurativa e di forte impatto emozionale, che
ha raggiunto punti elevati di ricerca negli
ultimi lungometraggi.
Souleymane Cissé, Solo per gli amici,
nasce il 21 aprile 1940 a Bamako, in quello
che veniva chiamato Sudan Francese. La sua
umile famiglia, di etnia soninké, viveva nel
quartiere di Bozola, fra i più antichi della
capitale, dalla metà circa degli anni '20, ma il
nonno Sékou era originario dell'antico
villaggio di Nyamina, situato a duecento
chilometri a nord-est della capitale, sulle rive
del Niger.
Il giovanissimo cinefilo vide un po' di tutto
quello che arrivava nelle sale di Bamako, con
una preferenza per i film popolari in lingua
hindi e i drammi sociali; niente però lo
commosse come Mezzogiorno di fuoco (1952)
di Fred Zinneman. Rievoca Cissé: «la prima
volta che ho potuto vedere un film avevo,
penso, cinque anni. Già a quell'età c'era in me
una gran voglia di vedere film, una grande
curiosità che mi spingeva ad andare al
cinema».
Dopo aver compiuto gli studi superiori a
Dakar, dove si era trasferita la famiglia,
rientrò a Bamako nel 1960, all'indomani della
rottura della federazione fra Senegal e Mali.
La mai dimenticata passione cinefila spingeva
il ventenne Cissé ad aderire ad alcuni
movimenti giovanili dell'Unione sudanese
SRD, gruppo studentesco multietnico,
progressista e federalista (l'ex Sudan Francese
comprendeva gli attuali Benin, Burkina Faso,
Guinea, Mali e Senegal) e a organizzare un
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cineclub nella Maison des Jeunes. L'eco del
suo talento di animatore gli valse una prima
borsa di tre mesi nel 1961 per seguire una
formazione tecnica da proiezionista a Mosca,
dove scoprì anche la fotografia. Ottenne,
pertanto, una seconda borsa annuale a Mosca
per approfondire gli studi cinematografici, che
nel 1963 gli venne prolungata fino al 1969. In
questi anni, venne a conoscenza dei classici
della cinematografia mondiale, dai maestri
sovietici del montaggio come Sergej
Michajlovič
Ėjzenštejn
e
Vsevolod
Illarionovič Pudovkin al neorealismo italiano
di Roberto Rossellini e Vittorio De Sica.
Cissé, che si diplomò in regia il 22 settembre
1969, durante gli anni di corso realizzò i suoi
primi tre cortometraggi.
Il primo si intitolava L'homme et les idoles
(1965); Sources d'inspiration (1966), sempre
in 35 mm ma in bianco e nero, era dedicato
all'opera del pittore maliano Mamadou Somé
Coulibaly, mostrato al lavoro nel suo studio, e
mescolava immagini di repertorio relative ai
movimenti di liberazione nazionale e i leader
neri (Martin Luther King, Patrice Lumumba).
Di ritorno a Bamako, Cissé si ritrovò a
essere l'unico maliano ad avere avuto una
formazione completa in regia, mentre altri
avevano seguito solo stages. Tranquillizzato
dal padre, che gli lasciò la possibilità di fare
la propria strada, mettendo a frutto gli anni di
formazione, venne ben presto assunto come
regista-operatore presso il SCINFOMA
(Service cinématographique du Ministère de
l'Information du Mali).
Forte del successo ottenuto, Cissé
cominciò a lavorare a diversi progetti di
lungometraggio, tra cui uno dal titolo Bi déou
(Les enfants d'aujourd'hui). Le sue proposte,
regolarmente
sottoposte
al
ministro
dell'Informazione, non vennero prese in
considerazione, secondo Cissé a causa del
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clima di invidia e ostracismo creato da alcuni
suoi colleghi in seno al SCINFOMA e dalla
tendenza neocolonialistica ad aprire canali
privilegiati per registi e maestranze straniere.
Anche quando presentò il progetto di Den
Muso (1975) nel 1974, si scontrò contro un
muro di diffidenza, dovuta proprio a questo
clima prima ancora che alla spinosità
dell'argomento, vale a dire la condizione di
emarginazione delle ragazze rimaste incinte
fuori dal matrimonio.
Le resistenze caddero quando Cissé decise
di rivolgersi al circolo culturale Ciné-Club
Askia Nouh, avendo compreso di poter
ottenere l'autorizzazione alle riprese solo
associandosi a esso, cui aderivano già circa
metà dei membri del Governo. Il cineclub
investì nel film circa trecento franchi, una
cifra simbolica, che costrinse il regista a
lavorare in condizioni dure. Rientrato a
Bamako, il regista venne arrestato, portato via
in manette e condotto in carcere con l'accusa
di appropriazione indebita. I soci del CinéClub Askia Nouh lo accusarono di aver
realizzato il film con i loro soldi e di aver
intascato i proventi della vendita dei diritti
commerciali del film a un fantomatico
distributore italiano. Grazie al loro attivismo,
il regista venne rilasciato in libertà
provvisoria con l'obbligo di firma settimanale
e l'ingiunzione di non lasciare il Mali.
Vedendo a rischio la propria reputazione e
la sopravvivenza stessa del film, il cui
negativo fu sequestrato, Cissé decise di
rivolgersi direttamente al Presidente della
Repubblica. Grazie all'intervento di Moussa
Traoré, riuscì a rientrare in possesso del
negativo, ma il contenzioso circa i diritti del
film rimase aperto per tre anni, fino al
settembre 1978, quando l'eco dei premi
ricevuti a Locarno e alle JCC dal film
successivo, Baara (1977), spinse il Presidente
a sbloccare la situazione, consentendo
finalmente la distribuzione di Den Muso nelle
sale, dove suscitò entusiasmi, anche perché si
trattò del primo lungometraggio in bambara.
Nel 1976, Cissé prese un'aspettativa dal
suo lavoro di funzionario al SCINFOMA per
lavorare alla sceneggiatura di Baara, un film
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che, per la prima volta, descriveva i problemi
della classe operaia di Bamako in una società
in cui era in atto l'instaurazione del modello
capitalistico. Segnato dagli ostacoli incontrati
per il film d'esordio, Cissé si mise in proprio e
fondò la società Les Films Cissé (Sisé
Filimu), con l'apporto decisivo della famiglia.
Presentato in concorso al trentunesimo
Festival di Locarno, Baara si impose
all'attenzione della critica, aggiudicandosi il
Premio della Giuria Ecumenica OCIC, mentre
ai due operatori andò il Premio Ernest Artaria
per la fotografia. Il film si impose anche al
secondo Festival du Film et des Échanges
Francophones di Namur (Gran Prix du Jury)
e alle JCC (Tanit d'argento e premio per
l'attore a Boubacar Keïta) ma, soprattutto, al
sesto Festival Panafricain du Cinéma di
Ouagadougou (FESPACO) e al primo Festival
des Trois Mondes di Nantes, dove si portò a
casa il massimo premio.
Il successivo 26 agosto, Cissé conquistò,
stavolta con Baara, anche il pubblico
televisivo francese, che assistette incuriosito
alla prima volta di un film africano sul
piccolo schermo, addirittura in prima visione.
Presentato
sull'emittente
FR3
nella
trasmissione “Cinéma sans Visa”, Baara
venne visto da un milione e seicentomila
spettatori. Due mesi dopo, toccò nuovamente
a Finyé mietere successi, stavolta a Tunisi,
dove Cissé si portò a casa il Tanit d'oro,
massimo riconoscimento, e il Gran Premio
della Critica Araba.
Nel contempo, Cissé lavorava già al
progetto del nuovo film, Yeelen, che il regista
stesso
definisce
come
«un'opera
profondamente politica, dove è necessario
superare la superficie dell'immagine».
Cissé aveva cominciato a mettere a fuoco il
soggetto di Yeelen nel giugno 1982, di ritorno
a Bamako dopo la prima mondiale di Finyé.
Nel marzo, quando Cissé era pronto a
riprendere la lavorazione di Yeelen, Ismaïla
Sarr, sul quale era stato modellato il
personaggio del padre Soma, morì
improvvisamente d’infarto. Per il regista fu un
vero trauma, che superò solo girando in lungo
e in largo il Mali in cerca di un nuovo
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protagonista, finché scoprì il vecchio
Niamanto Sanogo, ma decise di aspettare altri
due mesi, perché barba e capelli crescessero a
sufficienza, permettendogli di entrare al
meglio nel ruolo. Nel frattempo, il regista
aveva praticamente esaurito i diecimila metri
di pellicola Fuji messi a disposizione dal
coproduttore giapponese.
A ottobre, Cissé riuscì a strappare un
finanziamento importante da parte del
Governo francese e decise di ingaggiare un
nuovo direttore della fotografia, Jean-Noël
Ferragut. A novembre ripartirono le riprese
nel nord della regione dogon, non lontana dal
Monte Hombori, infestata di insetti e priva di
acqua potabile e, sei settimane dopo, Ferragut
fu colpito da un giradito che si infettò.
Riportato in tutta fretta a Bamako e rispedito
a Parigi, l'operatore venne sottoposto a
intervento chirurgico in modo da scongiurare
la cancrena, ma dovette trascorrere due mesi
di convalescenza. A quel punto, Cissé decise
di realizzare un premontato sulla base del
materiale, per trovare nuovi produttori e linee
di credito, che ottenne in Francia, Germania e
in Mali.
Nell'ottobre 1986, la troupe tornò a
Bamako per terminare le riprese. Realizzata la
sequenza finale nei pressi della famosa falesia
di Bandiagara, la troupe si spostò
nell'inospitale regione nel nord-est dominata
dal Monte Hombori, dove furono girati gli
ultimi raccordi. Yeelen fu dunque un viaggio
in un'Africa senza tempo. Le immagini
sarebbero state sempre più universali,
portatrici di un'estetica contaminata con i
generi e di un'attenzione politica profonda,
confermata dalle stesse parole di Cissé:
«il terreno della politica non lo
abbandonerò mai. Trattare la cultura africana
è fare in ogni modo opera politica. È per
questo che credo che, di tutti i miei film,
Yeelen sia quello che va più lontano
politicamente. Yeelen è veramente l'esito di
tutto ciò che ho fatto da quando ho iniziato»1.
Di lì a breve, Cissé ottenne riconoscimenti
importanti in Italia (la Rosa Camusa d'Oro a
Bergamo Film Meeting del 1987), in Gran
Bretagna (il Sutherland Trophy al British Film
Institute Awards nel 1987), in Svizzera (un
aiuto alla distribuzione dal Festival
International de Film di Friburgo). L'eco dei
successi rimbalzò in Mali, dove, a metà
ottobre, Yeelen venne distribuito nelle sale, in
cui totalizzò circa cinquantamila spettatori. A
dicembre, il film cominciò la sua carriera sui
grandi schermi europei, a partire dalla
Francia, dove in ventisei settimane di
programmazione
raccolse
quasi
trecentocinquantamila spettatori, di cui
centotrentottomila solo a Parigi.
Era la prima volta in assoluto che un film
dell'Africa sub-sahariana veniva distribuito
commercialmente secondo gli standard
promozionali del tempo, in Francia, ma anche
in Italia (dove il film uscì nel marzo 1989), in
diversi altri Paesi europei e persino in
Giappone. Mentre Cissé volava a Londra nel
dicembre 1988, a Berlino nel febbraio 1989 e
a Washington nell'aprile 1989 per presentare
Yeelen.
Nel frattempo, il regista cambogiano Rithy
Panh, incaricato di realizzare un ritratto di
Cissé per la serie “Cinéma de notre temps”,
sbarcò nel gennaio 1991 a Bamako con una
cinepresa super16 e soggiornò nel Paese per
tre settimane, trovando le strade della capitale
piene di studenti in agitazione contro un
regime sempre più dispotico. Fare film,
filmare, posare lo sguardo sulle condizioni
sociali e politiche sono state per Cissé
questioni primarie, necessità assolute,
urgenze. E dialogo con il pubblico. Il regista
maliano ritiene, infatti, che «un film deve
essere accessibile per la comprensione di chi
lo vedrà. Bisogna fare delle immagini che
resistano a lungo nella memoria e rivivano
negli occhi, nel cuore e nello spirito».
Selezionato in concorso a Cannes, otto
anni dopo Yeelen, Waati venne presentato in
anteprima mondiale il 17 maggio 1995. Se la
1
Elhem P., Waldmann C., loc. cit., p. 6, cit. in
Gariazzo G., Poetiche del cinema africano, cit., p. 58.
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stampa internazionale si divise, la presenza in
giuria della scrittrice sudafricana Nadine
Gordimer giocò clamorosamente a sfavore del
film, la cui trama era ritenuta non “al passo
con i tempi”, lasciando Cissé deluso dopo il
duro lavoro portato a termine tra tante
difficoltà. Intervistato nel 1997, il regista non
nascose il suo disappunto a quest’episodio,
precisando che:
«in questo mondo, ci sono sempre persone
che vogliono avere un monopolio. Questo è il
caso di Nadine Gordimer. Non ho nulla contro
questa donna. Tuttavia, lei deve tenere a
mente che il mondo gira. Ciò significa che la
vita sulla Terra non si ferma, ma va oltre.
Ogni singolo individuo ha il diritto di
esprimere sé stesso. Non vedo come si possa
condannare Waati al punto da sostenere che
questo non sia il Sudafrica. Nessuno ha il
monopolio sul Sudafrica. Nessuno! Nadine
Gordimer ha il diritto di dire quello che ha da
dire, ma ognuno ha il diritto di girare film su
ciò che pensano le persone, su un particolare
argomento»2.
La stanchezza e la delusione subentrate
dopo l'accoglienza controversa a Waati,
unitamente alla sempre più matura
consapevolezza della situazione di crisi e
abbandono in cui giaceva il cinema degli Stati
dello scacchiere sub-sahariano, spinsero Cissé
a moltiplicare i propri sforzi, all'estero e in
Africa, per favorire la nascita di un nuovo
soggetto associativo, in grado di dare una
scossa a un quadro d'insieme statico. Tra il
1984 e il 2002, come membro dell'Haut
Conseil de la Francophonie, il regista
maliano fu infatti sollecitato, nella doppia
veste di autore e produttore, a rappresentare
gli interessi di categoria dei cineasti africani, a
seguito della decisione del Governo francese
di diminuire progressivamente le misure di
sostegno alle cinematografie della sua Africa
sub-sahariana.
2
Ukadike F.N., op. cit., p. 28.
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La volontà di portare avanti la battaglia per
un rafforzamento delle politiche culturali e
delle strutture dell'audiovisivo, in Mali e negli
altri Paesi dell'Africa sub-sahariana, spinsero
Cissé a viaggiare molto, cercando consensi e
appoggi, ma non mancarono le occasioni di
intervento su questioni di natura politica. Il 29
marzo 1997, per esempio, il regista lanciò
pubblicamente un “appello alla ragione”- a
nome di un centinaio d’intellettuali - per
superare la grave crisi in atto in Mali.
La maggior parte delle energie dispiegate
dal regista nella sfera pubblica nell'ultimo
quindicennio ha dunque riguardato le sorti del
cinema locale, ma si è trattato di uno sforzo
teso a favorire la nascita di rapporti più
dinamici e fattivi con attori pubblici e privati
dell'audiovisivo, europeo e non solo. In più
occasioni, Cissé è stato persino interpellato
dal Parlamento o dal Governo del Mali,
riguardo a provvedimenti di legge allo studio
o per fornire un punto di vista competente
sulla politica culturale del Governo stesso. La
sua costante pressione nei confronti del potere
politico ha prodotto anche l'acquisizione, a
titolo gratuito, di oltre un ettaro di terreno
edificabile a Ngolonina, sulle rive del fiume
Niger,
dove
realizzare
una
Casa
dell'Immagine (Jaa sô), comprendente un
complesso multisala, una videoteca, una sala
conferenze e una scuola di cinema, iniziativa
rilanciata a più riprese, ma rimasta allo stadio
progettuale.
Nonostante i molti anni d'assenza dal set,
Cissé non ha smesso di essere considerato
dalla critica maliana e internazionale come
uno dei principali autori di cinema viventi non
solo in Africa, come ha dimostrato, ad
esempio, l'uscita nel novembre 1998 del
numero 476 dell’«Avant-Scène du Cinéma»,
consacrato interamente a Yeelen.
Se l'attività pubblica dell'impegnato Cissé
è facile da ricostruire, assai più difficile è dar
conto di un'attività registica, i cui caratteri di
episodicità, precarietà produttiva e sostanziale
invisibilità ne rendono problematica la stessa
repertoriazione: con l'eccezione di Min yé, si è
trattato, in buona sostanza, di film brevi o
brevissimi, girati in digitale e a costo minimo,
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mostrati esclusivamente in Mali, pensati più
come esercizi artistici per continuare a
esprimersi
attraverso
le
immagini,
sperimentando tecnologie leggere, che come
vere e proprie opere compiute.
A settantuno anni, Souleymane Cissé,
inserito nel dicembre 2006 dal quotidiano
inglese «The Indipendent» fra i cinquanta
maggiori artisti africani viventi, sembra
tutt'altro che intenzionato a farsi da parte, non
rinunciando affatto alle numerose battaglie
che lo vedono protagonista, come quelle per il
rilancio di un'industria dell'audiovisivo in
Mali e nell'Africa sub-sahariana e per la
salvaguardia della memoria del cinema
africano.
La forza dei cinema di Cissé è derivata,
senza dubbio, dal fatto che egli è stato uno dei
primi cineasti africani a non aver conti da
regolare con l'Europa. Quest'ultima è stata
assente in tutti i suoi film, che sono stati un
faccia a faccia con la società in cui il regista
ha lavorato e vissuto. Cissé non ha sentito
l'obbligo di dimostrare nulla, ma ha tentato di
penetrare, con la sua sensibilità di africano,
tutti i complessi aspetti dell'Africa poiché, per
il regista «la macchina da presa va al di là
della testimonianza; essa rappresenta tutta la
mia esperienza, l'ispirazione. È con essa che
mi sento meglio ed è attraverso essa che
esisto veramente»3.
2. Analisi di alcuni lungometraggi di
Soulemayne Cissé
2.1 Den Muso (1975): la condizione della
donna in Africa
Con il suo primo lungometraggio, Cissé
sembra voler da subito alzare la posta della
sua scommessa stilistica e tematica, perché
dal bianco e nero dei corti moscoviti passa al
colore e decide di affrontare una questione
3
Senga J.F., Souleymane Cissé, cinéaste malien in
«Présence Africaine», a. 30 : n. 144, 1987, p. 135, cit.
in Gariazzo G., Poetiche del cinema africano, cit., p.
51.
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sociale e culturale problematica, vale a dire la
condizione della donna nella società maliana.
Den Muso è, inoltre, il primo film maliano in
lingua bambara, caratteristica che ha fatto sì
che il suo messaggio fosse recepito sia dagli
intellettuali locali che, come il regista,
avvertivano l'esigenza di avviare un'autentica
cinematografia a carattere nazionale, sia dalle
masse, attratte dall'elemento “popolare” della
vicenda narrata. La propensione di Cissé per
un cinema politico e insieme poetico è
presente fin da Den Muso, dove i rapporti di
classe si dipanano alle spalle di quelli umani e
la storia semplice e quotidiana di una ragazza
muta, vittima della violenza fisica e morale
del suo ambiente sociale, diviene esemplare di
tutto il continente, vittima a sua volta di un
sistema politico e culturale che non faceva
che riproporre, sotto la facciata della
modernità, la subordinazione economica,
politica e culturale alle ex potenze coloniali e
alle nuove classi dirigenti africane, spesso
loro alleate.
Den Muso è la storia di Ténin Diaby, figlia
di un industriale, muta fin da piccola a causa
della meningite. La ragazza vive in una villa
con il padre (Malamine), la madre (Fanta) e
una cugina della sua età. Durante una
passeggiata con quest'ultima, conosce Sékou,
un operaio della fabbrica del padre, che si è
appena licenziato per non aver ricevuto un
aumento di stipendio, nonostante l'invito alla
pazienza rivoltogli da Malamine in un
colloquio privato. Dopo alcuni appuntamenti,
il ragazzo la invita a trascorrere una giornata
in riva al fiume, con altri amici. Qui, però, la
violenta. Nonostante ciò, i due finiscono
comunque per avere una breve relazione, ma
quando i medici diagnosticano a Ténin di
essere incinta, Sékou nega immediatamente la
paternità. Alla notizia della gravidanza, il
padre reagisce con violenza al disonore e
decide di cacciare Ténin di casa. La ragazza,
rifugiatasi dai nonni, è colta di sorpresa dal
padre che, scosso dalla sua presenza, muore
colto da infarto durante una corsa tra le
affollate vie del mercato. La madre di Ténin
cerca comunque di far riconoscere a Sékou la
paternità, portandolo al commissariato. Sékou
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cerca di discolparsi, dichiarando il falso sulla
fedeltà di Ténin nei suoi confronti, ma ciò non
basta per fargli evitare lo stato di fermo. Fanta
decide comunque di non denunciare più
l'accaduto e, piuttosto, accusa la figlia per
essersi data a un delinquente, invitandola a
sparire dalla sua vista. Dopo aver
vagabondato per la città, Ténin si reca alla
capanna di Sékou, dove solitamente si
ritrovava con il giovane. Qui lo scopre in
compagnia di un'altra ragazza e, accecata
dalla rabbia e dalla disperazione, sbarra
l'ingresso della capanna e le dà fuoco.
Ritornata a casa, Ténin si suicida ingerendo
barbiturici. Mentre i titoli di coda si
sovrappongono alle immagini finali, è il
nonno a ritrovarla in bagno e ad avvolgere il
suo corpo in una coperta.
Il film testimonia gli sconvolgimenti
sociali del Mali in un'epoca in continua
trasformazione e dimostra come siano
soprattutto le giovani donne, spesso ingenue e
passive, a pagare il prezzo di un’ancora
irrisolto contrasto tra vecchio e nuovo. Den
Muso fa luce su un fenomeno diffuso, quello
delle molte ragazze che, per amore, si
ritrovano condannate senza appello dalle
famiglie e in balia di se stesse, in una società
ostile che censura fortemente il loro
comportamento.
2.2 Baara (1978): lo scontro tra vecchi
schiavi e nuovi padroni
Girato in 16 mm e poi portato a 35 mm,
Baara è il primo film a portare il nome di
Cissé fuori dai confini nazionali: i premi
ottenuti a Locarno e a Namur nel 1978 hanno
permesso al regista di vedere finalmente
riconosciuto in patria il proprio status di
artista e intellettuale, mettendo fine alla
querelle scatenata per Den Muso. Baara
illustra la storia di un giovane di nome Balla
Diarra che, emigrato dalla campagna in una
grande città dell'Africa (presumibilmente,
Bamako), trova lavoro come facchino. Con il
suo carretto, dall'alba al tramonto, percorre le
strade di corsa, trasportando le merci dei suoi
clienti. Un giorno il giovane incontra un suo
coetaneo, un ingegnere che lavora in un
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grande impianto industriale. Questi ha
bisogno dell'aiuto del facchino per portare alla
moglie, M'Batoma, due grossi sacchi di riso.
Il caso vuole che anche l'ingegnere si chiami
Balla, ma appartiene alla facoltosa famiglia
dei Traoré, ha studiato e la sua carriera è in
rapida ascesa, poiché il padrone della
fabbrica, Makan Sissoko, un ricco
imprenditore tessile senza scrupoli, ha deciso
di affidargli la direzione dell'intero impianto.
Contemporaneamente, Balla Traoré si prende
a cuore il suo omonimo e, dopo averlo aiutato
con la polizia per un permesso di lavoro, gli
offre un impiego meglio retribuito. Balla
Diarra viene, dunque, assunto nella fabbrica e
qui fa conoscenza con Tiekour, uno dei
veterani, che gli spiega quali sono le sue
mansioni. Il vecchio operaio gli confida anche
di nutrire la speranza che il giovane
ingegnere, una volta a capo dell'impianto,
possa migliorare le disumane e precarie
condizioni di lavoro cui tutti gli addetti sono
costretti. Quando Makan viene a sapere che il
suo pupillo si è schierato a favore delle
istanze degli operai e, anzi, ne è stato il
promotore, ne commissiona subito l'assassinio
da parte di due sicari, i quali, avvicinatisi con
un pretesto al giovane ingegnere, lo pestano a
morte sul luogo del lavoro. La diffusione della
notizia della sua morte via radio suscita
reazioni diverse: M'Batoma, moglie di Balla
Traoré, si precipita all'uscita della fabbrica in
tempo per vedere gli operai portare fuori il
cadavere del suo uomo avvolto in un
lenzuolo, divenendo testimone dell'inizio
della loro rivolta; Djénéba, quinta moglie del
già divorziato Makan, conscia di quanto
ordito dal consorte, è stroncata da un
improvviso malore.
Come sottolinea Bruno De Marchi, Baara
affronta, dunque, alcuni temi inediti per la
cinematografia
africana:
quello
della
condizione della nascente classe operaia
africana e del suo rapporto con chi detiene il
potere
economico.
In
una
società
essenzialmente contadina, anche se in via di
rapida urbanizzazione, la scelta di Cissé di
descrivere
la
formazione
di
una
consapevolezza di classe va letta come chiaro
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indizio dell'importanza che il regista
attribuisce alle dinamiche sociali per il
processo di sviluppo dell'intero continente.
2.3 Finyé (1982): l'amore al tempo della
rivoluzione
Il film ruota intorno alle vicende di due
studenti liceali che si amano, pur
appartenendo a due opposti mondi sociali. Bâ
è il nipote di Kansaye, discendente degli
antichi capi tradizionali, mentre Batrou è la
figlia del governatore militare Sangaré,
rappresentante del nuovo potere politico
postcoloniale, padre severo e marito
poligamo. La loro relazione è disapprovata
dai familiari di entrambi: Kansaye disapprova
la famiglia di Batrou e in particolare il padre
della ragazza che, ebbro di potere, sta
portando il Paese sull'orlo della guerra civile,
mentre Sangaré diffida del fidanzato di sua
figlia perché lo ritiene troppo compromesso
con l'opposizione studentesca. I due giovani
devono sostenere le prove dell'esame per il
diploma di Stato, ma i risultati di queste
sembrano contribuire ad allontanarli ancora di
più, perché Batrou consegue ottimi voti,
mentre Bâ non le supera e si chiude sempre
più in se stesso, cominciando a far uso di
droghe. Solo la sollevazione della scuola
contro il potere militare riunisce i due giovani
e fa prendere coraggio a Bâ: sembra, infatti,
che gli esami siano stati truccati per favorire
figli e nipoti di alcuni appartenenti alla giunta
militare e, dunque, la sua bocciatura non è
altro che un espediente ordito da Sangaré per
allontanarlo dalla figlia. Quando la notizia
rapidamente comincia a girare tra gli studenti
della città, questi dispongono l'occupazione
degli edifici scolastici e universitari. La
manipolazione dei risultati degli esami fa
esplodere il malcontento studentesco, con
manifestazioni di massa, cui partecipano Bâ e
Batrou, che vengono represse dall'esercito.
Gli edifici scolastici occupati vengono
assaliti, i dimostranti dispersi e i capi della
rivolta arrestati. Bâ viene catturato durante gli
scontri, mentre Batrou riesce a fuggire,
rifugiandosi presso una casa popolare (come
quella dei nonni di Bâ), accolta da alcune
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donne impegnate a pestare il miglio nei
mortai, che non esitano a scagliarsi contro i
militari che, di fronte alla loro resistenza, le
arrestano. Batrou, per farle rilasciare, si
consegna spontaneamente. In prigione, i due
protagonisti, come gli altri studenti e
studentesse arrestati,
sperimentano la
sofferenza e l'umiliazione, ma resistono con
forza e dignità. Nel frattempo, Sangaré
promette la libertà a tutti quegli studenti che
firmeranno
una
confessione
e
che
ammetteranno la loro colpa. Alcuni, convinti
dal governatore, firmano, mentre i due
giovani sono tra quelli che non cedono al
ricatto. Bâ viene deportato in un campo di
lavoro e Batrou, che accusa i compagni di
vigliaccheria, con un breve ma incisivo
discorso, arriva a rinnegare il padre,
distaccandosene definitivamente. La ragazza
viene scarcerata solo per l'intercessione della
madre e delle altre mogli del governatore e si
reca a colloquio da Kansaye, cercando e
ottenendo una riconciliazione con il vecchio
uomo. Quest'ultimo, preoccupato per la sorte
del nipote, ancora detenuto, e ormai sempre
più insofferente allo strapotere e alla violenza
di Sangaré, indossa il vestito tradizionale e
vaga per la savana per invocare gli dèi e
chiedere il loro aiuto. Questi appaiono, ma
predicano al vecchio l'arrivo di una nuova
epoca, in cui le forze e i loro poteri magici
non avranno più valore. Turbato, Kansaye
torna a casa, dove trova la moglie in lacrime a
seguito della retata dei militari che hanno
messo a soqquadro la loro abitazione. In
preda all'ira, il vecchio uomo getta le vesti e i
feticci in una cassa di legno, dopodiché gli dà
fuoco. Dall'esterno si odono le grida dei
giovani: Kansaye, incuriosito, esce, acclamato
dalla folla e, dopo averla incitata, si accoda
alla manifestazione. Intanto, nel suo ufficio,
Sangaré riceve una telefonata dal ministro
degli Interni, che si lamenta dei disordini e dà
ordine di liberare tutti gli studenti. La
sequenza finale mostra Bâ che, finalmente,
esce dalla prigione.
Con Finyé, Cissé ha inteso proporre una
riflessione sugli abusi dei nuovi poteri
africani, che si curano poco del consenso e
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della partecipazione popolare; ha voluto, però,
anche indicare una possibile soluzione del
problema delle dittature, individuando
nell'alleanza tra i giovani – il vento nuovo
dell'Africa – e gli anziani custodi delle antiche
tradizioni, la chiave per il nuovo orizzonte del
continente. Ciò che trova spazio nel film,
dunque, è esclusivamente la complessa realtà
africana vista attraverso gli occhi e la
sensibilità di un africano. L'indispensabile
commistione d’impegno politico e identità
culturale, considerata dal regista come
possibile strada verso un futuro migliore,
trova piena conferma nel linguaggio filmico
di Cissé perché, come ha fatto notare Ferid
Boughedir, è la cultura a divenire uno
strumento per intervenire nella sfera politica.
Secondo il critico tunisino, le vicende di
Finyé dimostrano che l'azione politica non
può avere successo se gli individui investiti
del cambiamento risultano essere tagliati fuori
dalla propria cultura; il film mette altresì in
luce i limiti di tale cultura, che può forse
preservare i suoi elementi (come l'abito
magico e i feticci), ma non più influire sulla
realtà quotidiana.
2.4 Yeelen (1987): una favola politica
degli stregoni del Komo
Yeelen narra la storia di Nyanankoro
Diarra, un ragazzo di etnia bambara,
destinato a divenire il depositario del sapere
che gli assicurerà il dominio sugli altri
iniziati, conoscenza trasmessa da sempre di
generazione in generazione. Il padre del
giovane, Soma Diarra, è però geloso delle sue
conoscenze e ha maturato un odio violento nei
suoi confronti, soprattutto perché ha scoperto
che il figlio è deciso a condividere le sue
capacità con tutti, senza più farne un uso
egoistico come gli anziani, che da sempre
l’hanno utilizzato per il mantenimento del
potere. La madre di Nyanankoro, Banyeba,
anche lei iniziata alla magia, mette in guardia
il figlio sulle intenzioni del padre e lo
incoraggia a partire alla ricerca di Djigui
Diarra, suo zio (fratello gemello del padre),
affinché questo lo aiuti a portare a termine la
sua iniziazione. Prima di partire per recarsi
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«oltre il Paese dei peul», Banyeba consegna a
Nyanankoro un amuleto per proteggerlo dal
padre e un feticcio da dare allo zio.
Durante il suo itinerario attraverso le aride
terre saheliane, all'ombra delle acacie
Nyanankoro incontra l'uomo dalla maschera
del giaguaro (ovvero l'incarnazione dello
spirito degli antenati), che gli profetizza «un
fausto cammino, una felice meta, un grande
futuro, una vita radiosa e una morte
luminescente». Raggiunta la destinazione
indicatagli da sua madre Banyeba,
Nyanankoro è involontariamente scambiato
per un ladro di bestiame e, catturato, cade
nelle mani dei peul. Nel frattempo, sua madre
compie un rito di purificazione all'interno del
fiume:
immergendosi
e
bagnandosi
ripetutamente invoca l'intervento della dea
delle acque per propiziare i suoi favori nei
confronti del figlio, tenendolo «lontano dal
male» e impedendo che «le erbacce invadano
la casa dei Diarra». Presso i peul, Nyanankoro
riesce a liberarsi grazie alla paralisi dei
movimenti del corpo dei soldati che lo
trattenevano e si guadagna la simpatia del loro
re, Ruma Boly, sconfiggendo – dopo aver
compiuto un rito con l'osso della gamba destra
di un cavallo che solleva le polveri della
savana e scatena dapprima uno sciame di api e
poi degli incendi a catena – i bellicosi
invasori che infestano le sue terre. Ruma Boly
chiede un altro favore a Nyanankoro: far sì
che la sterile Atou, la più giovane tra le sue
mogli, possa avere un figlio. Al culmine del
rito di fecondazione, Nyanankoro seduce
Atou e, consapevolmente reo di aver violato
la tradizione bambara, invoca la morte per
mano del re; ma Ruma Boly gli concede il
perdono e lo lascia andare con Atou.
L'indomani, il re dei peul affronta, senza
successo, l'altro zio di Nyanankoro (un altro
fratello del padre), Bafing Diarra, anche lui
sulle tracce del nipote grazie al potere del
Kolonkalanni trasportato dai suoi (buffi)
servitori, deciso a punirlo per ciò che è
intenzionato a compiere attraverso la sua
magia. Il mai domo Ruma Boly viene però
paralizzato e Bafing riprende senza sosta la
sua
personale
caccia
al
fuggiasco.
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Contemporaneamente,
all'interno
del
rettangolo sacro, si riuniscono giovani e
vecchi membri del Komo, tra cui Soma, che
decidono di punire suo figlio che ha tradito la
società segreta e ne ha rubato i feticci. Dopo
aver scalato la falesia di Bandiagara, ormai
accompagnato da Atou nel suo viaggio,
Nyanankoro incontra i dogon e chiede di suo
zio Djigui. Purificatisi con la limpida acqua
che sgorga direttamente dalla roccia, i due
giovani vengono condotti dal saggio Djigui e,
dal tramonto all'alba, ne ascoltano le profezie:
se la gravidanza di Atou, incinta di un
maschio, lascia ben sperare, il futuro dei
bambara è in dubbio, perché:
«dall'alba dei tempi, i Diarra sono stati la
placenta e il cordone ombelicale del popolo
bambara. Per lungo tempo la nostra famiglia
è stata maledetta. Non conosco il perché [...],
ma stanotte ho visto una lucente stella in cielo
fermarsi davanti ai miei occhi, che mi ha detto
'Djigui, la minaccia in bilico sui bambara
colpirà il Paese, pur risparmiando la tua
famiglia'. Ciò mi ha restituito la speranza.
Nella stessa visione, mi è stato detto che 'la
tua
discendenza
subirà
un
grande
cambiamento, perché diverranno schiavi e
negheranno la loro razza e la loro fede' […]».
Il cieco Djigui, in possesso dell'ala del
Kôré da quando ne è stato accecato dalla sua
luce che l’ha indotto a vagare senza meta,
dopo aver litigato con Soma sulla possibilità
di condividere con altri i segreti del Komo,
consegna al nipote l'occhio magico del Kôré
inviatogli dalla madre, cioè una pietra
preziosa cuspidata, da inserire nell'ala del
Kôré, che gli viene altrettanto affidata prima
di incontrare il padre. A questo punto non può
che avvenire lo scontro finale tra il padre e il
figlio e i rispettivi simboli: il tronco magico e
l'ala sacra. Attraversato il villaggio dove
risiede lo zio, Nyanankoro si ritrova
finalmente faccia a faccia con Soma e, dato
che è la prima volta che si parlano da figlio a
padre, lo saluta. Soma, sprezzante, replica che
lui è stato suo figlio finché non ha lasciato il
ventre di sua madre. Nyanankoro è
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soddisfatto da queste parole, perché temeva
che Soma negasse tale realtà dei fatti, in
quanto esser rinnegati dal proprio padre è la
più grande paura, vergogna e umiliazione per
i bambara.
Il giovane non ha paura della morte, che
«non è altro che un coltello alla cintura», ma
prima di subirla interroga il vecchio sul
perché lo voglia uccidere. Soma si limita a
ricordargli che lo scoprirà quando le iene e i
vermi lo mangeranno. Nyanankoro, allora,
ribatte: «un serpente può mutare la propria
pelle. Il figlio di un pitone può rivaleggiare
con suo padre. Voglio morire come un vero
Diarra. Preparati!». Un istante prima di essere
abbagliati entrambi da una luce sprigionatasi
dai propri simboli, che non lascia spazio alla
vita, è la voce di Dio a rivelare a Soma perché
lo abbandona:
«i tuoi antenati erano sacerdoti del Komo,
ma per secoli hanno abusato dei loro poteri.
Ho lasciato solo rovine sulla mia scia. Sono
stato fedele alla famiglia Diarra. Ora è finita.
Il tuo desiderio di vendetta, il tuo disprezzo e
il tuo odio nei confronti dell'umanità sono
andati troppo lontano. Sto per scomparire.
Non sopravviverai, Soma, perché tu sei tra
coloro che utilizzano il loro potere solo per
fini malefici e ingiusti»4.
Dalle macerie del villaggio, andato
distrutto, emerge Atou, che indossa l'abito che
Nyanankoro le ha affidato come dono per il
nascituro. Di fronte a lei si staglia, immobile,
4
Come già in Finyé (e più avanti in Waati), la divinità
si chiama fuori dalla scena della storia, inchiodando gli
uomini alle loro scelte e responsabilità. In ragione di
ciò, l'eroe tragico, Nyanankoro, può anche essere
considerato come una sorta di agnello sacrificale che si
carica le colpe della famiglia Diarra, convinto di dover
rispondere alle proprie azioni (come quando si scusa
con Ruma Boly per aver approfittato di Atou), mentre
invece la sua traiettoria obbedisce a un disegno divino
inesplicabile perché, alla sua morte, suo figlio diverrà il
capostipite di una nuova dinastica che raccoglierà
un'eredità multietnica, cit. in De Franceschi L., Coletti
M., op. cit., p. 91.
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l’ala del Kôré. In un mondo nuovo, il figlio di
Nyanankoro dissotterra, tra le due dune di
sabbia, due uova di struzzo, simboli magici
della vita, e ne consegna uno ad Atou. A
questo punto, la madre copre il figlio con la
veste del padre, deposita l'uovo, come tributo,
al cospetto dell'ala magica e, infine, consegna
anch'essa tra le mani del bambino, che può
così intraprendere il suo cammino.
2.5 Waati (1995): un'odissea nel tempo
dell'Africa che cambia
La storia di Waati ha inizio in Sudafrica.
Seduta attorno al focolare, Nandi Ntuli,
insieme ai fratellini Themba e Pitsu, ascolta
un'antica leggenda sulla genesi raccontata
dalla nonna. Al di là della gioiosa vita alla
fattoria, la realtà quotidiana è dominata dalle
atrocità dell'apartheid, a cominciare dagli
screzi con il padrone dello stabile, Baas
Hendricks, che spara per gioco ad alcuni polli
mentre Nandi è sul prato. L'indomani, Baas
costringe il figlio Ian a frustare il padre di
Nandi, Nduma, reo di aver criticato il suo
precedente comportamento. Nel frattempo,
Nandi viene mandata a studiare in città, dove
frequenta le elementari. Adolescente, Nandi si
trova alle superiori, mentre la scuola è posta
sotto assedio dai poliziotti contro gli studenti
che protestano per il regime d'apartheid.
Spaventata dall'accaduto, rientra alla fattoria
e, dato che il padre non riceve la paga da
settimane, osa parlarne al padrone, ma senza
esito. Una volta in spiaggia, accompagnata
dal padre e Themba, è fermata da un
poliziotto, colpevole di aver messo piede su
una spiaggia riservata ai bianchi. Ne nasce un
diverbio che sfocia in tragedia: i suoi cari
vengono uccisi dal poliziotto, mentre lei lo
ferisce a morte: questa sua reazione va oltre la
lotta politica e trascende la crisi, perché deriva
da un semplice diritto a vivere. Nandi è
costretta a fuggire e, grazie a Solly (un amico
della nonna), riesce a passare il confine, oltre
il fiume Limpopo. Al di là, l'aspetta un
viaggio in Costa d'Avorio. Nel nuovo Paese,
la ragazza studia le antiche civiltà africane, le
danze e le maschere, espressioni di culture
millenarie, e s’innamora di Solofa, un giovane
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di buona famiglia. Per qualche tempo, i due
soggiornano in un villaggio tuareg alle porte
di Timbuctu, dove lei adotta un'orfana, Aïcha.
Dopo aver portato ai genitori di Solofa notizie
del figlio rimasto in Mali, Nandi rientra in
Sudafrica, pronta ad affrontare il futuro,
conscia che l'apartheid è stato sconfitto solo
in apparenza. In aeroporto, rifiuta l'amicizia
della figlia dell'ex padrone, incontrata per
caso, e lotta strenuamente per impedire che
Aïcha le venga strappata per una questione
burocratica e costretta al rimpatrio forzato. Il
film si chiude, poi, così com'era iniziato, vale
a dire con la voce della nonna di Nandi che
interroga la sua terra, ancora in cerca di pace.
Dopo
Baara,
Finyé
e
Yeelen,
sostanzialmente articolati sulla dialettica di
due direttrici che segnano l'andamento
narrativo (Balla Traoré vs. Makan, Bâ e
Batrou vs. Sangaré, Nyanankoro vs. Soma),
Waati, come invece Den Muso, torna a essere
incentrato su un unico personaggio-guida,
Nandi, che traina l'azione con la sua crescita
personale, da bambina a donna, e scolastica,
dalle elementari all'università. In verità, anche
la presenza della nonna di Nandi - seppur in
maniera marginale - agisce in funzione di
perno del sistema narrativo, apparendo
talvolta
nella
mente
della
nipote,
sottolineandone la vicinanza e configurando
per lei una sorta di status di onniscienza.
Precisa Cissé: «L'intreccio del film ha un
andamento lineare, pur se irregolare,
contrassegnato da una serie di ellissi, che
hanno ovviamente l'effetto di accelerare il
tempo della storia».
Sul piano spaziale, l'itinerario di Nandi
presenta una leggibilità assai generica, dato
che i riferimenti geografici non sono sempre
segnalati da dialoghi o informazioni visive
immediate o da alcuni personaggi. Dopo il
prologo, girato in Namibia, la prima porzione
del racconto si svolge nella regione del
KwaZulu-Natal, come si desume dalla
vicinanza al mare e alla seconda città del
Sudafrica per numero di abitati dopo
Johannesburg, Durban, dove Nandi studia. È
attraverso il Limpopo, e dunque sconfinando
oltre la regione nordorientale, che Nandi
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lascia il Sudafrica. Il biglietto aereo che gli
consegna Solly è per l'“Africa occidentale” e,
solo ricorrendo ai titoli di coda, si scopre che
l'intermezzo universitario è ambientato fra
Abidjan e Yamoussoukro, attuale capitale
amministrativa della Costa d'Avorio. Espliciti
sono invece i riferimenti alla città di
Timbuctu, crocevia di arrivi e partenze delle
popolazioni locali da e verso il Sahara e
antico polo culturale del mondo arabo.
3. Conclusioni
Il cinema africano, in generale, e quello di
Cissé, in particolare, ha fra le sue
caratteristiche un ritmo lento simile a quello
del racconto orale, che fa continuo ricorso alla
metafora, al gesto quotidiano e alle tre unità
di tempo: partenza, arrivo, ritorno. Il racconto
orale tradizionale tende, nel suo movimento
lineare, verso una risoluzione finale in cui
l'ordine sociale e l'armonia siano restaurati e
riaffermati. Anche i lungometraggi di Cissé
mantengono questa struttura circolare, in cui
la stessa costruzione del racconto giunge a
concludersi, nella maggior parte dei casi, in
una sfida, in una lotta nei confronti dell'ordine
costituito. Ebbene, in questo caso, la linearità
del racconto non viene più usata per
restaurare l'ordine bensì per sovvertirlo o,
quanto meno, per combattere e rifiutare
l'immobilismo, la staticità.
Al di là delle specifiche cinematografie
nazionali,
coesiste
nella
produzione
continentale una trasversalità di sguardi
attraverso
analogie
magari
ardite,
accostamenti
generati dalla casualità,
inquadrature che, ripercorse a distanza, si
pongono come precedenti per film futuri che
da esse sembrano re-iniziare. Immagini non
chiuse in se stesse o in un tempo unico, ma
quasi costruite per rigenerarsi altrove.
Capolavori degli anni '60 e '70 come Borom
Sarret (1963) di Ousmane Sembène, Contras
City (1968) di Djibril Diop-Mambéty, Soleil
Ô (1971) di Med Hondo e Visages de femmes
(1973) di Désire Écaré sono proiettati in
avanti, non si fermano nel loro periodo,
perché raccontano l'urgenza del sopravvivere
in una grande città documentandola, del
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ribellarsi alle repressioni dei padroni, della
religione, dei militari, del colonialismo,
dell'innamorarsi scontrandosi contro le regole
della tradizione con sguardo complice. Film o
autori degli anni '80 e '90 hanno poi trovato
radici in quel primo periodo oppure si sono
spinti in una rigorosa riflessione politicosociale, attraverso un limpido procedere nel
tempo e nello spazio: si pensi appunto
all'opera di Cissé.
I suoi film affrontano questioni sociali e
politiche attuali nel Mali e in tutto il
continente africano, chiamando in causa
conflitti di classe e di genere. Le
responsabilità politiche sono analizzate dal
regista da un punto di vista interno: la colpa
viene data, non più e non solo, al
colonialismo europeo, vecchio e nuovo, ma
anche agli uomini di potere africani, che
tradiscono la tradizione e i bisogni del proprio
Paese, prendendo il peggio dall'Europa o
abusando della propria autorità per fini
personali. I personaggi femminili, al
contrario, spesso incarnano la resistenza e la
speranza in un futuro migliore, indicando,
così, la via per una nuova strategia relazionale
tra uomini e donne in Africa. Anche a livello
stilistico c'è una progressione nel cinema di
Cissé: dalla scrittura più semplice e realistica
dei primi due lungometraggi, che quasi
pedinano “neorealisticamente” i personaggi,
si passa a una dimensione più simbolica e
astratta nei due ultimi film, passando
attraverso la felice sintesi di Finyé, che
rappresenta così un'opera spartiacque tra le
due fasi.
La propensione di Cissé per un cinema
politico e insieme poetico è presente fin dal
suo primo lungometraggio, Den Muso, dove i
rapporti di classe si dipanano alle spalle di
quelli umani e la storia semplice e quotidiana
di una ragazza muta, Ténin, vittima della
violenza fisica e morale del suo ambiente
sociale, diviene esemplare di tutto il
continente, vittima a sua volta di un sistema
politico e culturale che non faceva che
riproporre, sotto la facciata della modernità, la
subordinazione economica, politica e
culturale alle ex potenze coloniali e alle nuove
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classi dirigenti africane, spesso loro alleate. Il
film testimonia gli sconvolgimenti sociali del
Mali in un'epoca in continua trasformazione e
dimostra come siano soprattutto le giovani
donne, spesso ingenue e passive, a pagare il
prezzo di un’ancora irrisolto contrasto tra
tradizione e modernità. La morte di una
giovane donna muta allude, dunque,
metaforicamente, a quella dell'Africa nella
difficile lotta per la propria esistenza.
La rivolta degli operai, a seguito
dell'assassinio dell'ingegnere-capo di una
fabbrica tessile, ordito dal proprietario
contrario a un piano di miglioramento delle
condizioni di lavoro proposto dal giovane
dirigente, è invece la conclusione del secondo
lungometraggio di Cissé. Baara affronta il
tema della condizione della nascente classe
operaia africana e del suo rapporto con chi
detiene il potere economico. In una società
essenzialmente contadina, anche se in via di
rapida urbanizzazione, Cissé descrive la
formazione di una consapevolezza di classe,
che va letta come chiaro indizio
dell'importanza che il regista attribuisce alle
dinamiche sociali per il processo di sviluppo
dell'intero continente. Nella sua prospettiva,
l'armonica intesa di operai, contadini e
dirigenti di tutte le parti sociali della società
africana è la condizione indispensabile per
una parziale risoluzione dei tanti, endemici,
problemi
che
assillano
l'Africa
contemporanea. Tale intesa tra le classi sociali
è, di fatto, simboleggiata dalle figure del
facchino e dell'ingegnere, Balla Diarra e Balla
Traoré, sostanzialmente coetanei ma di
diversa istruzione ed estrazione sociale.
La scelta di due personaggi dallo stesso
nome è, inoltre, funzionale al rifiuto di Cissé
di scegliere, come protagonisti dei suoi
racconti in immagini, degli eroi. Questo
perché è tutta la cultura africana a mancare
totalmente di culto della personalità, di
glorificazione dell'individuo: al contrario, è il
gruppo, familiare o tribale, la classe d'età o la
zona di provenienza ad avere importanza. Il
singolo non è che uno dei membri della
comunità, qualunque essa sia, e all'interno di
questa è necessario che si fonda e che agisca.
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Non a caso, al di là delle schermaglie fra
studenti
ed
esercito
generate
dalla
manipolazione degli esami di Stato per
favorire figli e nipoti di alcuni appartenenti
alla giunta militare, in Finyé si ha un intreccio
di più storie e personaggi, i quali possono
essere anch'essi ricondotti nell'ambito di due
opposizioni fondamentali: da un lato, quella
tra figli e genitori (Bâ vs. Kansaye, Batrou vs.
Sangaré) o, più in generale, tra giovani e
adulti (gli studenti vs. i militari); dall'altro,
quella tra il potere tradizionale (incarnato da
Kansaye) e il potere moderno (rappresentato
da Sangaré). Se il vecchio ordine è ormai
incapace di agire attivamente nel presente, e il
nuovo, corrotto e violento, ha perso ogni
contatto con la propria identità culturale, il
futuro, verso cui tende utopisticamente la
rivolta degli studenti, si fonda su un ordine
basato sulla libertà e sulla democrazia, in
aperta contestazione delle regole e delle
costrizioni, ormai superate, appartenenti alla
vecchia tradizione, non rinunciando tuttavia
alle proprie radici culturali. Cissé ha così
inteso proporre una riflessione sugli abusi dei
nuovi poteri africani, che si curano poco del
consenso e della partecipazione popolare; ha
voluto, però, anche indicare una possibile
soluzione del problema delle dittature,
individuando nell'alleanza tra i giovani – il
vento nuovo dell'Africa – e gli anziani custodi
delle antiche tradizioni, la chiave per il nuovo
orizzonte del continente.
Il cinema del regista maliano si configura
come un invito a seguire una storia, aprendo
gli occhi e la mente. Lo spettatore non viene
indotto a una passiva identificazione, è bensì
posto di fronte alla vicenda come osservatore
pensante. Il livello artistico raggiunto dalle
sue pellicole è stato sorprendente, per la
vigorosa capacità di intervento sulla realtà
sociale e per una grande abilità a racchiuderla
in immagini.
La forza di Yeelen risiede nella sicurezza
con cui Cissé riesce a restituire al suo film
l'atemporalità del mito, che va oltre le vicende
concrete e la profondità storica di un'allegoria
politica. Il regista mette in scena quanto non
aveva potuto far vedere in Finyé, cioè lo
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scontro titanico e apocalittico fra Nyanankoro
e Soma, padre e figlio depositari dell'antico e
magico sapere, che produce un cataclisma di
dimensioni cosmiche e apre la porta a una
nuova era in cui un ibrido capostipite, di
padre bambara e madre peul, dovrà far fronte
a nuove sfide, avvalendosi di una conoscenza
aperta a tutti e, forse, moderna. Yeelen non è
altro
che
un'amara
riflessione
sull'inadeguatezza di una classe politica e
intellettuale post-indipendenza, che non ha
saputo mettersi al servizio del proprio popolo
e si è opposta, con tutte le sue forze, a un
passaggio di consegne. Il riferimento al
potere, allora declinante ma violento, dell'ex
presidente della Repubblica Moussa Traoré,
non sminuisce comunque quello della società
iniziatica del Komo, né quello alla storia
antica del Mali. Nonostante gli aspetti magici
all'interno della vicenda, Cissé ha insistito sul
potere derivante dalla conoscenza, concepita
come
dominio
dell'universo,
poiché
Nyanankoro, eroe tragico di turno,
simboleggia infatti un popolo alla ricerca di
un'identità, un'Africa disorientata alla
riscoperta della sua origine.
In Waati, invece, si manifesta, in maniera
forse più stratificata rispetto agli altri
lungometraggi, l'urgenza di filmare, per
denunciare situazioni di oppressione e
repressione (in questo caso l'apartheid, ma
anche la tragedia della siccità che colpisce i
popoli del Sahel), e la ricerca estetica aperta a
una profonda visionarietà. Waati, come Den
Muso, torna a essere incentrato su un unico
personaggio-guida, la sudafricana Nandi. Il
regista maliano conferisce nuovamente allo
sguardo un potere tanto sovversivo quanto
fantastico: affiora, dunque, l'urgenza di
cercare uno spiraglio di luce e di dialogo nella
società sudafricana del post-apartheid e la
riflessione sulla forma da usare per
rappresentare lo stato delle cose. In questo
modo, Cissé pone ancora nelle mani della
donna, depositaria della speranza, il futuro
dell'Africa perché, in quanto madre, deve
lottare per i suoi figli. Il regista ha caricato di
un evidente simbolismo la figura di una
ragazza analfabeta che diventa donna sapiente
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e partecipativa (come Nandi, così l'intera
Africa può fare se vuole trovare la sua
identità), insistendo così su uno tra i motivi
dominanti del suo cinema: gli Africani
devono prendere il destino del continente
nelle proprie mani e mettere fine ai guasti del
colonialismo, senza più pretendere indennizzi
per giustificare le proprie inerzie.
La cinematografia di Cissé è, dunque,
testimonianza soprattutto politica, che di film
in film si è affinata in uno sguardo meno
faticoso, sempre più libero e poetico, in una
complessità figurativa e di forte impatto
emozionale, che ha raggiunto punti elevati di
ricerca negli ultimi lungometraggi, Yeelen e
Waati. L'intera opera del regista appare,
perciò, come un vero e proprio viaggio nello
spazio e nel tempo, sospeso fra geografia e
storia, un'opera ancora in fase di elaborazione,
che finisce per lasciare allo spettatore il
compito di immaginare cosa possa nascere
dalla luce, dal vento, dall'acqua, dal fuoco.
In parallelo, e in sintonia con la propria
attività di regista da sempre consideratosi
“impegnato”, Cissé ha avviato numerose
iniziative a carattere politico-sociale, tese a
sensibilizzare tanto i giornalisti europei,
quanto gli spettatori e i cineasti del Mali e
quelli di tutti i Paesi dell'Africa, sui dilemmi
connessi
al
cinema
e
all'industria
cinematografica africana.
Secondo Giuseppe Gariazzo, per sostenere
veramente il cinema dell'Africa sub-sahariana
francofona, e, al tempo stesso, Cissé e gli altri
vecchi e nuovi registi, i Governi locali
dovrebbero non soltanto ridurre le tasse sul
cinema, ma soprattutto provvedere affinché i
mezzi impiegati siano riutilizzati in nuove
produzioni, farsi carico della creazione di
centri di produzione regionali e della
costruzione di più sale cinematografiche,
controllare la quantità e la qualità dei film
importati e fissare una quota per i film di
produzione nazionale, oltre che abolire la
censura e garantire la libertà dell'arte, senza la
quale non può svilupparsi nessuna cultura
cinematografica. Bisognerà perciò attendere
per vedere se il cinema africano riuscirà
realmente a procurarsi non solo un'autonomia
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nazionale, ma anche quella economica e
politica, tale da imporsi davvero all'attenzione
dei circuiti internazionali. Cineasti della
memoria, memoria del cinema perduto,
memoria del territorio usurpato, memoria
della cultura dimenticata; registi di brandelli
d'identità, manovalanza dell'immagine, che
prendono soldi qua e là, che girano in Africa e
altrove, come mercanti ambulanti, da un
festival all'altro, confinati in cerchi sempre
più stretti, poco visti, visti male o non visti del
tutto a casa loro: la loro nuova sfida sarà forse
quella di ri-fabbricare i propri territori, reinventarsi un'identità singolare. Per uscire
dall'oblio. Perché nel mondo ultramoderno
nulla esiste se non viene sancito dai media.
Drammatizzare l'immagine dell'Africa e
ridurla a pura compassione per una fatale
miseria è facile. Descriverne gli autentici usi e
costumi è difficile, perché non si tratta
soltanto di danze e maschere tribali. Eppure,
parlare genericamente di “cinema africano”
ha oggi meno senso che mai, perché
all'accresciuta attenzione a esso rivolta a metà
degli anni '80, nella ribalta dei grandi festival
internazionali, non è stata corrisposta
un'adeguata distribuzione delle, comunque
poco numerose, pellicole locali. Sfumata
l'illusione di più di un ventennio fa, ridotto il
sostegno che la Francia ha sempre garantito
alla cultura delle sue ex colonie e che ha
permesso ai registi di girare i loro film,
rimangono gli autori, con uno stile che
sempre di più non è solo loro, con una
padronanza tecnica che non cerca affatto alibi
nella povertà dei mezzi, con sceneggiature
che non sono più unicamente tese alla
denuncia sociale e che lasciano spazio a una
storia da sempre negata, alle emozioni
personali.
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