UNA STORIA DI LEGALITÀ: I DIRITTI NON SONO IN APPALTO
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UNA STORIA DI LEGALITÀ: I DIRITTI NON SONO IN APPALTO
UNA STORIA DI LEGALITÀ: I DIRITTI NON SONO IN APPALTO Intervento di Mario Colleoni, segretario generale Filcams CGIL Bergamo In questa fase storica tanto quanto ieri è necessario educare alla legalità. Oggi ci troviamo qui, in questa scuola, luogo simbolo della crescita umana oltre che professionale, luogo dal quale deve partire in modo forte e chiaro il messaggio che la legalità include, l’illegalità no. Educare alla legalità è fondamentale, dinanzi a fenomeni gravi e preoccupanti di corruzione, spesso presenti nel sistema degli appalti, non possiamo rimanere silenti, ma dobbiamo combattere con tutti i mezzi possibili questa deriva costante e perdurante. Si stima che cattiva gestione, illegalità e corruzione facciano lievitare la spesa degli appalti pubblici per beni e servizi del 20%. Costi che ricadono costantemente sui lavoratori e cittadini. Infatti questa inaccettabile dinamica viene scaricata sui lavoratori in termini di bassi salari,evasione contributiva, mancanza di valorizzazione professionale e discontinuità occupazionale. Nei settori che rappresentiamo è spesso utopico pensare di dare continuità occupazionale e d’orario ai lavoratori in caso di cambio d’appalto, spesso, dopo l’aggiudicazione ci troviamo di fronte aziende che decidono di definire unilateralmente le condizioni contrattuali riducendo drasticamente le ore lavorative a lavoratori e lavoratrici. Il continuo cambio d’appalto tra cooperative che offrono servizi di pulizie in ospedali,uffici e locali pubblici e privati mette alla prova le lavoratrici impiegate, spesso costrette, ad ogni passaggio di testimone, a cambi di turno improvvisi, ad una drastica riduzione dell'orario di lavoro, mancanza di scatti di anzianità, oltre che a costante riduzione dei salari. Vittime dei ribassi, nati sull’onda di una spending review esasperata, sono sempre i lavoratori e i cittadini utenti finali di servizi di pubblica utilità”. Tutto ciò, è già oggi assolutamente incomprensibile, visto che le riduzioni di spesa sono spesso operate dall’alto, dato che le gare vengono gestite dalla Consip che è per l’appunto una società del Ministero dell’economia che determina le condizioni per le gare. È utile ricordare che lo scopo per cui è nata è evitare le disparità di prezzo e conseguire risparmi giusti e leciti, non quello sicuramente di scaricare sulla pelle dei lavoratori in appalto i costi sociali della spending review. In questo caso, l’impatto sociale è altissimo, sia per il fatto che la crisi colpisce prevalentemente le donne occupate nel settore, sia per il fatto che già, allo stato attuale, il livello dei salari è reso insufficiente dalla quantità di ore lavorate, decisamente inferiori al tempo pieno. Spesso assistiamo poi a disparità di trattamento fra lavoratori con medesima funzione ma occupati dall’appaltante rispetto all’appaltatore. Con la legislazione del 2003 il principio della parità di trattamento è stato archiviato. I lavoratori, anche nell’appalto interno all’impresa, non hanno più il diritto ad avere il medesimo trattamento dei lavoratori dell’appaltante. Questo principio rende quindi attraente ed appetitoso il sistema della esternalizzazione dei servizi e della produzione dei beni poiché assicura la contrazione dei costi potendosi produrre gli stessi servizi o beni pagando di meno le maestranze dell’appaltatore a cui ci si rivolge. E da qui il diffondersi delle cooperative di produzione e lavoro (ce ne sono anche diverse assolutamente autentiche) che cominciano ad aumentare negli anni 70 spesso con l’obiettivo di aggirare il divieto assoluto di interposizione di manodopera. Con l’avvento del lavoro interinale, prima, e della somministrazione di lavoro, poi, perdono questa caratteristica principale, anche se continuano anche oggi a rivestire in parte questa ignobile ed illegittima funzione. Organizzate, oggi, per lo più in consorzi le cooperative definite spurie (quelle che non hanno una reale funzione mutualistica a favore dei propri soci-lavoratori) vengono oggi usate più o meno come contenitori di manodopera in forza della flessibilità perversa (da leggersi come perdita di considerevoli tutele comuni agli altri lavoratori) che a vario titolo permettono di fruire. I soci, come detto, non hanno alcun poter gestionale effettivo, potere e utile economico che è invece concentrato nelle mani dei gestori dei consorzi, in qualche caso veri centri di malaffare. Queste cooperative gestiscono vari ed estesi settori produttivi, n particolare nei servizi. Ma non è solo la flessibilità negativa, cioè un insieme di tutele perse per strada a caratterizzare alcune cooperative, vi sono anche contratti collettivi che prevedono stipendi da fame e fuori da ogni realtà economica concreta (parliamo di netti mensili fra i 500 e i 600 euro). È evidente che vengono collocati in queste sacche varie tipologie di lavoratori: extracomunitari, lavoratori che la crisi ha portato all’ultima spiaggia, oppure lavoratori più o meno normali che vengono compensati in buona parte con compensi in nero. Insomma condizioni di evasione, elusione, carenza di tutela e di diritti; tutto questo spesso accade qui nella civilissima Bergamo. Da non dimenticare ci sono poi contratti improbabili di lavoratori apparentemente autonomi (false partite Iva), soci di società artigiani e para-artigiani. Realtà di questo genere, malgrado una normativa nominalmente più stringente che nel settore privato, operano con una certa tranquillità anche nel pubblico. Ma quale è il principale risultato di questa situazione di fatto? Che, soprattutto in tempi di crisi come quella attuale, con questi comportamenti si rovinano intere catene di lavoro se non estremamente vantaggiose, quanto meno dignitose per i lavoratori, il tutto a favore di politiche di ribasso senza mezzi termini e verso organizzazioni senza scrupoli. In tutto ciò una grossa responsabilità, a mio parere, appartiene anche ai committenti, spesso fautori di politiche nominali e di facciata illuminate e progressiste nella bel mezzo della loro organizzazione economica definita “core-business“, ma insensibilmente incuranti della perdita di chances che impongono ai poveri lavoratori che agiscono in tutta la filiera dei servizi sottostanti. Altrettanto responsabili sono talvolta i dirigenti dei committenti, i quali quando non sono caratterizzati da una sensibile ignoranza dei rischi che fanno correre alle organizzazioni che dirigono, dimostrano soprattutto una sensibilità ai propri bonus di fine anno, ma si dimostrano incuranti delle anomalie che creano alla struttura produttiva, alla qualità del lavoro ed alla fidelizzazione ed affidabilità del personale. Anche per questi motivi è buona cosa ripristinare la responsabilità solidale in capo alle amministrazioni pubbliche. La responsabilità sociale di un’impresa non può poi essere esercitata a corrente alternata, deve garantire la stessa dignità a tutti i soggetti che direttamente o indirettamente contribuiscono alla crescita aziendale e deve assolutamente essere resa strutturale. Un ultima riflessione la dedico all’effetto di sistema che il contratto a tutele crescenti potrebbe provocare in alcuni settori. Il fatto che la legge ha favorito le nuove assunzioni prevedendo un doppio vantaggio, uno normativo con un costo molto più basso e un secondo vantaggio legato agli incentivi avrà un sistema devastante sulle clausole sociali, mi spiego, quale impresa non sarà tenuta a sottrarsi al sistema delle clausole sociali. Se l’impresa le dovesse rispettare, quale livello di concorrenza avrà? Ad esempio una Start Up che assumerà dipendenti con contratto a tutele crescenti avrà un costo del lavoro molto inferiore rispetto alle aziende già strutturate che faranno più fatica a partecipare alle gare d’appalto. Una delle nostre richieste al fine di provare a limitare queste storture è quella di essere interpellati prima della stipula di bandi pubblici relativi a nuovi appalti per poter inserire clausole che assicurino l’applicazione di quelli che sono gli obblighi previsti dai CCNL. Per questo serve una netta inversione di tendenza. Dato che le nuove norme europee consentono, in riferimento alla norma sulle ‘condizioni di esecuzione dell’appalto’, che le amministrazioni aggiudicatrici possano esigere condizioni particolari in materia sociale, occupazionale, ambientale, occorre lavorare su queste nuove regole per arrivare, nel percorso di recepimento, a vere e proprie clausole sociali da introdurre nei bandi di gara. Questo contratto, da siglare prima che vengano date le concessioni edili, deve avere il sostegno dell’amministrazione pubblica che svolgerebbe un ruolo fondamentale a livello preventivo. La CGIL chiede fortemente che si dia corso a quel sistema di monitoraggio e di vigilanza sul sistema degli appalti pubblici che più volte a livello sindacale abbiamo sollecitato. In conclusione possiamo affermare che la questione della regolamentazione del lavoro negli appalti è quindi oggi tema di grande attualità, perché ci fa comprendere come spesso e volentieri la condizione di precarietà nella quale vivono molti lavoratori, non deriva da fenomeni quali la globalizzazione o l’eccesso di competitività, ma da scelte politiche discutibili, da una corruzione che non ha pari in Europa e da rapporti di forza che oggi sostengono queste scelte.