L`anticolonialismo di Gilbert Bovay e la sua filmografia per Eni

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L`anticolonialismo di Gilbert Bovay e la sua filmografia per Eni
L’anticolonialismo di Gilbert Bovay e la sua filmografia per Eni
Gilbert Bovay, nato al Cairo e di nazionalità francese, è una delle figure più
rappresentative della produzione audiovisiva svizzera francese e alla stesso tempo, fin
dalla prima metà degli anni Sessanta, autore di una delle più importanti produzioni a
carattere documentario per conto di Eni.
Interessato e sensibile ai grandi temi di politica e attualità del mondo, aveva
conosciuto e incontrato, ad Atlanta, Martin Luther King e si era occupato del
segregazionismo americano. Era stato a Cuba per la crisi legata ai missili russi ed
aveva realizzato documentari sulla Cina della rivoluzione di Mao.
È un autore di pellicole dalla forte validità linguistica, intrecciata ad una profonda
sensibilità documentale. Ricordiamo, in particolare, lavori come Harlem sur Seine
(1962), reportage in bianco e nero sui jazzisti americani che vivono a Parigi,
Impressions d'un voyage en Chine (1965), accurata ricognizione sul paesaggio umano
e sociale della Cina di Mao, proprio nel momento in cui il presidente cinese sta per
essere messo in minoranza e reagisce con la proclamazione, nel 1966, della
“rivoluzione culturale”, Le reflux de la Vague (1968), esemplare reportage che segue
da vicino i processi evolutivi ed involutivi del “maggio francese”, compresa
l’imponente manifestazione gollista della maggioranza silenziosa del 30 maggio a
Champs Elysées.
Per Eni Bovay realizza film non convenzionali, e proprio per questo pregevoli, di
riflessione e analisi sul tema delle caratteristiche d’impresa negli anni sessanta.
Nel novembre 1962 per TSR, la Televisione Svizzera Romanda, aveva prodotto Morte
d’un condottiero sulla scomparsa prematura di Enrico Mattei. Si trattava di un ritratto
interessante del fondatore dell’impresa energetica italiana. Questo gli aveva permesso
di entrare sempre più in rapporto con la realtà produttiva ed economica di Eni e di
effettuare quel lavoro che ha compreso oltre ad Oduroh (1964), pellicole come Da
Palma e Gela (1965), Gli uomini del petrolio (1965), La valle delle balene (1965) e la
trilogia Africa: nascita di un continente (1968).
I documentari per Eni, in 35 o 16 mm, vengono girati da Bovay tra Italia, Iran, Egitto,
Libia, Nigeria, Tunisia, Ghana, Kenya, Zambia, Guinea, Senegal, Tanzania, Costa
d’Avorio e rappresentano uno dei risultati più significativi a livello internazionale della
tipologia filmica d’impresa.
I documentari dal punto di vista narrativo danno conto, sullo sfondo di un’aperta
riflessione politico-sociale, dei segni tangibili dell’estensione internazionale
dell’iniziativa industriale promossa da Eni negli anni sessanta verso i paesi nord
africani e nel vicino e medio oriente. Al centro del suo interesse ci sono infatti le
modalità dell’incontro con il mondo “altro”, nelle terre in cui si opera, e la capacità di
creare comunità da parte degli uomini Eni. Nello stesso tempo il regista svizzero non
si sottrae a quelle che erano le esperienze filmiche e documentarie (in particolare del
cinema verità) che si realizzavano nelle contemporanee cinematografie francesi,
inglesi e americane. L’esperienza dell’impresa in questo caso si radica molto bene in
un contesto espressivo e comunicativo ampio e complesso sia in termini politico-
economici che antropologico- sociologici. Sono lavori, a partire da Oduroh, nei quali è
rilevante il clima storico-politico della cosiddetta decolonizzazione e la vocazione
terzomondista dell’autore.
In tutti questi film, e in particolare in Oduroh, la macchina da presa, dalla parte
dell’uomo e della dignità del suo operato, dilata la durata delle inquadrature per il
necessario conseguimento del senso al di là del dato oggettivo.
Oduroh, realizzato nel 1964, è un mediometraggio in bianco e nero di 38 minuti, che
viene proposto dal regista svizzero a Pasquale Ojetti, il responsabile dell’ufficio cinema
Eni creato da Mattei, da realizzare in collaborazione con la Televisione Svizzera. Il film
è destinato alla messa in onda, ma anche a essere sottoposto alla Commissione
Internazionale Svizzera per l’Unesco come candidato al Prix Calinga du cinéma 1964,
il cui regolamento prevede che “il soggetto del film debba essere una realizzazione
eccezionale nel campo dell’educazione, della scienza o della cultura, ottenuta grazie
alla cooperazione internazionale”. Dal momento che il film doveva essere ambientato
in “un paese tipo del Terzo mondo” viene scelto lo stato africano del Ghana. Il
responsabile del Dipartimento dell’informazione della Tsr, Alexandre Burger, formula
sinteticamente così il tema: il film deve “mettere in evidenza alcuni aspetti della
cooperazione internazionale ed evidenziare con la presenza di un giovane ganese e
con l’esperienza della vostra istituzione, i problemi posti dall’assistenza al terzo
mondo. Non è quindi un film di propaganda, ma una rendicontazione umana e
sociale”.
Oduroh racconta la storia del viaggio di formazione del giovane Harold K. Oduroh che
vola da Accra (Ghana) a Milano, grazie a una borsa di studio per frequentare la scuola
di studi superiori sugli idrocarburi di Eni di Metanopoli a San Donato Milanese. Lo
scopo è poi quello di ritornare nel proprio paese per lavorare nel campo dell’energia e
costruirsi la propria realtà lavorativa e personale. Bovay segue con la telecamera
Oduroh da vicino fin dal suo arrivo all’aeroporto di Linate, nel suo incontro con un
“mondo duro e preciso”, dove scopre anche “l’amore dell’inutile”, l’arte di Firenze, il
David di Michelangelo e il gruppo di Ercole e Caco, l’architettura della città, le sue
vetrine alla moda.
Dopo un anno di permanenza il giovane africano apprende un “metodo di
conoscenza”, “il nostro universo, i suoi simboli, i suoi modi, Metanopoli, le strade lisce,
la solitudine, l’indifferenza”, spiega la voice over. Ma soprattutto lo vediamo seguire,
con le cuffie per la traduzione simultanea, le lezioni che si tengono alla Scuola di Studi
Superiori sugli Idrocarburi di Metanopoli a San Donato Milanese. La voce fuori campo
continua: “Oduroh è a Milano per questo: per una borsa di studio. Non gli si chiede
nulla in cambio. E questo lo deve a un uomo che egli non ha neppure conosciuto,
Enrico Mattei, per il quale il mondo del benessere poteva, doveva sostenere, senza
secondi fini, uomini come Oduroh, aiutandoli a costruirsi un proprio mondo”.
Bovay segue poi il protagonista nel suo ritorno ad Accra, nel campo petrolifero di
Tema (raffineria della Gaip, Ghananian Italian Petroleum, società di Eni), quindi a
Niassé, nell’Ashanti, il villaggio di paglia e di fango dove Oduroh è nato e dove
incontra i suoi familiari e l’Africa comunitaria e solidale che in nessun modo intende
ripudiare. Un’Africa tradizionale dei canti e balli della cerimonia funebre che
sopravvive, in modo parallelo, all’Africa della pianificazione e dell’elettrificazione. Ci si
congeda poi dal mondo Ashanti tornando nella moderna Accra dove si assiste alle
corse di cavalli con fantini africani, eredità della colonizzazione inglese, ma dove ora
ad assistere ci sono i ghanesi in prima fila. Poi la boxe, l’altro sport amato in Ghana, e
l’arrivo ad Accra del campione del mondo, fresco di titolo, Cassius Clay. Nel
documentario troviamo anche il riferimento a Kwame Nkrumah, l’interprete più
acclamato dell’idea panafricana che ha convocato ad Accra nel 1958 due storiche
conferenze con i capi di stato dei paesi allora indipendenti, ma anche con i leader dei
paesi ancora in lotta. Nkrumah è colui che trasforma, dal 1° luglio 1960, il Ghana (ex
Costa d’Oro) in repubblica tramite un referendum, dopo l’indipendenza raggiunta nel
1957 dal regno Unito.
All’Università di Accra il regista ha poi l’opportunità di riprendere l’intervento di
Malcom X arrivato in Ghana, “alla sorgente dell’idea panafricana”, per tenere una
conferenza sulla condizione dei neri in America e nel continente, e sulla necessità di
“ritornare in Africa per sviluppare una vera unità nell’ambito dell’idea panafricana”.
Alla conferenza partecipa attento anche Oduroh.
Bovay filma l’intervento, registrando così una delle ultime testimonianze del leader dei
Musulmani Neri che verrà assassinato il 25 febbraio del 1965.
Oduroh in questo film diventa il simbolo, l’effigie di 230 milioni di africani, un “Un
pezzetto”, come fa dire Bovay alla voce fuori campo “di un più grande blocco che si
chiama il terzo mondo, un miliardo di uomini che vogliono parlare in prima persona
brandendo il filtro magico del neutralismo”. Il film si chiude con un primissimo piano
della figura del giovane che avanza, simbolo di “un mondo forte e fragile, solo come
l’Africa, come un mondo da rifare”. Lo accompagnano le sonorità di un levare di
tamburo, la cui metafora chiude, senza concludere, questo viaggio di formazione e di
rientro nelle terre nelle quali collaborano anche gli uomini di Eni. Si tratta di una
prima, ma esemplare fermata, di questo percorso di ricostruzione nel continente.
Un’evoluzione che Bovay continuerà magistralmente a seguire per Eni con il film
inchiesta “Africa nascita di un continente” (1967), una delle radiografie di maggiore
interesse e spessore comunicativo, storico, politico e sociologico, realizzate sul
continente africano in quegli anni.