Ash Amin e Nigel Thrift Riflessioni sulla competitività

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Ash Amin e Nigel Thrift Riflessioni sulla competitività
SOMMARIO
Pratiche e Culture
dell' Economia e del Territorio
Pag. 3
Presentazione
Numero Uno / Novembre 2000
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Pag. 5
Pag. 26
Pag. 40
Riflessioni sulla competitività della città di Ash Amin e Nigel Thrift
Il capitale come paesaggio di Antonio Calafati
Società e territorio, al plurale. Lo “spazio pubblico” – quale bene pubblico – come
esito eventuale dell’interazione sociale di Pier Luigi Crosta
Il faro
Pag. 54
La villa di Thomas Jefferson a Monticello e il governo scopico della territorialità
federale di Anthony Marasco
Passaggio a NordEst
Pag. 73
Domanda di regolazione e lavoro di rete: il caso delle piccole e medie imprese venete
in Romania di Patrizia Messina
Il sestante
Pag. 80
Pag. 88
Gli strumenti delle politiche: una rassegna di Davide Barella
Città-Arcipelago di Francesca Gelli
Mayday Mayday
Pag. 98
SILVIO TRENTIN, La Crise du Droit et de l’Etat di Giuseppe Gangemi
Asterischi
Pag. 102 DONATELLA DELLA PORTA, La politica locale; GRUPPO DI ANCONA, Trasformazioni
dell’economia e della società italiana. Studi e ricerche in onore di Giorgio Fuà;
ALESSANDRO ARRIGHETTI, GILBERTO SERRAVALLI, Istituzioni intermedie e sviluppo locale;
IDSE-CNR, Trasformazioni strutturali e competitività dei sistemi locali di
produzione. Rapporto sul cambiamento strutturale dell’economia italiana;
PAOLO PERULLI, La città delle reti. Forme di governo nel postfordismo;
ALBERTO MAGNAGHI, Il progetto locale; DAVID HARVEY, L’esperienza urbana - metropoli
e trasformazioni sociali; PAOLO JEDLOWSKI, Il sapere dell’esperienza; AMARTYA SEN,
Lo Sviluppo è Libertà; PIER LUIGI CROSTA, Politiche. Quale conoscenza per l’azione territoriale;
SASKIA SASSEN, Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa;0
STEFAN VOIGT, Explaining Constitutional Change - A Positive Economics Approach;
BARLUCCHI M. CHIARA, Il tipo ideale weberiano. Dalla identificazione alla operativizzazione;
PRESENTAZIONE
Foedus nasce come progetto di rivista quadrimestrale, per iniziativa di un gruppo di ricercatori che, provenienti da diversi ambiti disciplinari, hanno deciso di
raccogliersi intorno ad un luogo che renda possibile l’esperienza del dialogo,
costruendo occasioni di incontro e di confronto. Foedus è dunque usato nel
senso proprio di patto, nell’impegno di favorire la relazione tra le diverse dimensioni analitiche e d’indagine, ma anche per identificare il contesto di interazione
tra le differenti forme di conoscenza e le società locali.
Foedus intende dare spazio a riflessioni che possano accrescere la comprensione delle pratiche economiche, politiche e culturali che si sviluppano sul territorio, e degli eventi ad esso legati.
La rivista raccoglie riflessioni teoriche, ricerche empiriche e studi comparativi
centrati sui problemi dell’evoluzione economica, sull’analisi dell’interazione tra
processi economici, politici e sociali all’origine dello sviluppo, sul ruolo delle istituzioni nella strutturazione dei processi economici e politici, sulla regolazione
delle dinamiche di trasformazione del territorio, su ruolo, forma e natura dello
Stato, sulle relazioni tra livelli di governo, sui contesti che diventano sempre più
multiculturali, sul rapporto tra locale e globale, sulla storia sociale, economica e
politica, sui processi di governance urbana e territoriale e, infine, sui temi della
logica, della metodologia e dell’epistemologia: e la complessità che Foedus
vuole cogliere richiede lo sforzo di pensare senza chiudere i concetti.
Una particolare attenzione sarà rivolta ai processi di sviluppo locale, in particolare del NordEst, sulla base del presupposto che le politiche di sviluppo locale
coinvolgono – qui più che altrove – una pluralità di soggetti, che sono istituzioni pubbliche ma anche gruppi organizzati di artigiani, imprenditori, associazioni,
reti civiche, i quali partecipano alla produzione dei beni pubblici e, più in generale, svolgono un ruolo attivo nelle dinamiche di trasformazione del territorio.
Siamo convinti che il NordEst stia diventando un luogo in cui la dimensione economica, politica e culturale si fa sempre più complessa e interessante. Certo, non
è il solo: il NordEst – come altre realtà che vivono condizioni di analoga complessità – è invitato a raccontarsi e a rendersi visibile.
Foedus si propone come un osservatorio e come un laboratorio in cui si possono confrontare nuove conoscenze ed esperienze locali, e per questo esprime
l’intenzione di:
- pubblicare contributi di specialisti diversi intorno a uno stesso argomento;
- valorizzare ricerche empiriche in grado di misurarsi con la complessità del dato;
- ospitare riflessioni teoriche sulla definizione dei concetti e sulle forme argomentative;
- promuovere ricerche di giovani studiosi e lavori su saperi non ancora consolidati.
La rivista è strutturata in sezioni: Viaggiando nelle costellazioni del sapere ospita saggi e contributi teorici; Il faro presenta studi applicativi; Passaggio a NordEst
raccoglie interviste, presentazioni di ricerche e materiali vari; Il sestante propone note critiche; Mayday Mayday è la presentazione di un’opera dimenticata
(oppure ancor priva del successo che merita), che quindi proponiamo perché
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venga tradotta o ristampata; infine, Asterischi è lo spazio dedicato alle recensioni.
Un filo conduttore caratterizza tematicamente ogni numero, e la sezione dei
saggi teorici è quella in cui questo filo si rivela in modo più esplicito.
Questo primo numero è strutturato attorno alle possibili visioni del territorio, e
ospita alcuni contributi metodologici utili alla definizione dei concetti rilevanti.
Ash Amin e Nigel Thrift presentano una critica all’usuale concettualizzazione
della città come cluster di attività economiche caratterizzato da particolari vantaggi localizzativi, in cui la competitività dei fattori dell’offerta gioca il ruolo principale. Nella loro visione, le città sono luoghi di concentrazione di diversi ruoli
necessari per entrare a far parte di reti (translocali) di sistemi organizzativi e di
competenze. Gli autori pongono in rilievo il ruolo del consumo (in questo rifacendosi alla tradizione keynesiana), e in particolare della domanda locale, secondo una prospettiva in cui le interazioni personali, dirette, costituiscono il volano
di un processo di sviluppo autocentrato.
Il saggio di Antonio Calafati, che nasce dall’esperienza di analisi economica dei
problemi legati alla conservazione del territorio, si sviluppa dall’idea che ogni
processo economico – vale a dire ogni trasformazione di materia, di energia e di
informazione intenzionalmente realizzata dall’uomo – presuppone l’esistenza di
una aggregazione di elementi, ovvero di un “paesaggio”. Capitale e paesaggio
costituiscono allora due livelli di descrizione diversi dello stesso “oggetto”: ma il
primo è contenuto nel secondo. Le decisioni individuali e collettive che, come
l’innovazione e la manutenzione, sono alla base delle trasformazioni dei sistemi
locali richiedono, per essere spiegate, la ridefinizione del rapporto, più o meno
equilibrato, tra capitale e paesaggio.
Il saggio di Pier Luigi Crosta offre una riconcettualizzazione della nozione di
pubblico. In particolare problematizza la concezione urbanistica di “spazio pubblico” come spazio definito in funzione dell'uso collettivo, in opposizione ad un
“uso privato”; in realtà, è pubblico uno spazio che è costruito dall'interazione
sociale, anche come sottoprodotto di pratiche sociali finalizzate ad altro. La produzione dei beni pubblici e più in generale le dinamiche di trasformazione del
territorio sono viste come effetto delle azioni della pluralità di soggetti che partecipano alla costruzione delle politiche, dalle istituzioni pubbliche ai gruppi
organizzati di artigiani, imprenditori, associazioni, reti civiche. In tal senso questo saggio fa riflettere sulla realtà del NordEst.
Infine, Anthony Marasco compie un percorso analitico in cui si sottolinea l’uso
cognitivo che nel passato è stato fatto delle opere architettoniche per fini di
governo, mettendo in relazione il paesaggio così creato e la percezione collettiva che di esso si ha. L’autore esamina tre esempi salienti (la villa palladiana,
Versailles e la villa di Thomas Jefferson in Virginia) che collega ai tre regimi scopici della prospettiva razionale, del barocco, e della descrizione empirica. A partire da questa evidenza, Marasco conclude richiamando l’attualità del legame tra
la cura paesistica, la stabilizzazione della percezione dei luoghi e le forme che la
politica sta seguendo: in particolare, federalismo e globalizzazione.
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Ash Amin e Nigel Thrift
Riflessioni sulla
competitività della città
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Introduzione
In questo articolo, s’intende interpretare l’economia urbana partendo da una
nuova lettura che interpreta la città come un nodo, e non come un luogo, nelle
reti economiche di natura translocale. In parte questo lavoro è il frutto di una
crescente frustrazione e di una mancata condivisione con la geografia economica contemporanea che considera le città, o parti di città, motori della competitività economica internazionale prodotta dallo sfruttamento di una pluralità di
economie di prossimità. Questa visione enfatizza l’importanza della localizzazione della dotazione di esternalità alla quale le imprese possono accedere, associandola alla densità urbana e alla prossimità spaziale – rispettivamente economie di agglomerazione e economie locali di rete. Quindi le città sono concettualizzate come centri o cluster territoriali di attività economiche ed organizzazioni,
caratterizzate da particolari aspetti localizzativi come la vicinanza al mercato,
ridotti costi di informazione e transazione, pools di competenze specializzate,
tecnologie e know-how, convenzioni legate alla fiducia e cooperazione basata su
contatti faccia a faccia, ecc..
Al contrario, nella nostra prospettiva le città sono luoghi di localizzazione di
diversi ruoli necessari per entrare a far parte di un’economia strutturata attorno
alle reti translocali dei sistemi organizzativi e di competenze, che non si esaurisce dentro i confini della città. L’economia contemporanea è cresciuta molto in
termini di organizzazione industriale, e non è certo che le città restino le istituzioni centrali di tale organizzazione. I mercati non sono più spazialmente contigui o regolati localmente, la produzione è alimentata e organizzata globalmente,
contatti veloci e ravvicinati sono ora possibili anche in presenza di ampie distanze territoriali grazie a nuove forme di comunicazione, la regolazione economica
ha formalizzato regole, standards e leggi che si articolano sempre più attraverso
istituzioni nazionali ed internazionali, e la ricerca per la sicurezza e il controllo
accresce la concentrazione dell’organizzazione economica in imprese dominanti, cartelli, consorzi di business ed élites.
Quindi, la nostra tesi è che in primo luogo la vita economica è oggi organizzata
attorno ad una molteplicità di geografie entro la quale le città dovrebbero essere considerate come passaggi obbligati per una varietà di ruoli. Ad esempio, le
città potrebbero offrire conoscenza istituzionalizzata di vario genere attraverso le
scuole, le università e i centri di ricerca, cosa che contrasta con quanto viene oggi
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sostenuto riguardo al fatto che esse siano fonti di conoscenza tacita o contestuale. Oppure, in qualità di luoghi d’incontro sociale, le città hanno un ruolo nel
facilitare gli incontri, la socialità ed il contatto informale, fatto significativo dal
punto di vista economico ma che ha una valenza diversa dal concetto di convenzione e dalla fiducia insita in reti locali d’imprese.
In secondo luogo, ci sentiamo di sostenere che, data la crescita dell’organizzazione industriale e della sua progressiva concentrazione all’interno della vita economica, è fondamentale compiere uno sforzo teorico per definire il ruolo economico delle città in termini istituzionalisti. In questo lavoro si afferma che sono
le pratiche istituzionali specifiche associate alle città che sostengono l’attività
economica (per esempio, la fornitura di servizi collettivi, le istituzioni pubbliche
o di welfare, i luoghi d’incontro, le norme particolari di consumo) piuttosto che
la loro localizzazione spaziale. La nostra idea è che una tale prospettiva, a sua
volta, potrebbe contribuire a ridurre l’enfasi assegnata a priori all’importanza
dello spazio urbano per la competitività economica: lo sforzo è quello di identificare le istituzioni urbane dell’economia contemporanea, senza escludere le istituzioni che non presentano particolari caratteristiche territoriali.
In terzo luogo, inoltre, vorremmo condurre la discussione sull’economia delle
città al di là delle considerazioni sostenute dalle teorie dell’offerta. Occorre rivalutare il ruolo della domanda e del consumo, oggi scarsamente discusso a causa
dell’ossessione, ormai pervasiva nella letteratura economica, della competitività
quale condizione per la sopravvivenza e crescita delle imprese. La tradizione teorica dell’economia urbana non ha trascurato il ruolo di fattori quali la dimensione del mercato e i modelli locali della domanda, ma attualmente la loro discussione sembra fuori moda. Noi pensiamo, al contrario, che solo una modesta proporzione dell’imprenditorialità urbana, anche nelle città con importanti funzioni
economiche, è o sarà condizionata dalla competitività internazionale. Perciò tale
imprenditorialità locale non dovrebbe essere considerata marginale. L’economia
dei servizi alle imprese, personali, del commercio, pubblici e sicurezza sociale,
del tempo libero, del turismo, di quelle informali e non-profit – tutte basate sulla
domanda locale – costituiscono una fonte significativa dell’occupazione urbana
e del reddito e richiedono ancora una sistematizzazione teorica.
Queste tre argomentazioni saranno sviluppate qui di seguito attraverso una critica dell’attuale concezione del ruolo delle città intese come fonti territoriali
della competitività economica. In questo saggio proporremo un’altra prospettiva capace di inserire la città nel contesto economico globale e, al tempo stesso,
capace di cogliere l’importanza economica delle istituzioni urbane e non urbane.
Infine verrà proposta un’interpretazione dell’economia urbana legata ai ritmi
della vita quotidiana, basata quindi sulla domanda locale nonché su particolari
modelli di consumo.
Economie legate alla prossimità spaziale
Negli anni ’50 e ’60, la forte correlazione tra i fenomeni di industrializzazione e
di urbanizzazione aveva incoraggiato i ricercatori a cercare una spiegazione teorica del perché le industrie e le imprese tendono ad agglomerarsi e in che modo
il fenomeno di clustering influenzi la performance industriale e di concentrazio-
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Ash Amin e Nigel Thrift
Riflessioni sulla competitività della città
ne organizzativa. Famosi critici della teoria neoclassica dell’equilibrio quali
Hirschmann, Kaldor, Perroux e Myrdal spiegano che agglomerandosi nelle città
le imprese godono di rendimenti crescenti di scala legati alla dimensione del
mercato nonché nuove opportunità economiche associate alla crescente densità urbana e alla specializzazione. Questi autori sostengono inoltre che le economie esterne di agglomerazione aiutano le imprese ad accrescere il loro rendimento economico in molti modi, a partire dalla riduzione dei costi di trasporto
e di transazione e dalla disponibilità di una varietà di competenze specializzate,
input, servizi e conoscenze applicate. La città viene vista come luogo di molteplici opportunità di mercato, di vantaggi di prossimità spaziale e di benefici derivanti dalla specializzazione di prodotto.
Poiché la macchina urbana della crescita ha raggiunto notevoli dimensioni incorporando servizi commerciali, pubblici e privati, l’amministrazione pubblica, il
trasporto, l’ambiente edificato, e altri settori dell’economia, la città si trova ad
essere incapsulata in un’entità economica auto-riproduttiva (causazione cumulativa) e come centro di governance e di processo decisionale. Werner Hirsch
coglie questa interpretazione della città in molti libri di economia urbana scritti
fino alla fine degli anni ’70: “Per un’economista, una città è un sistema dinamico
di mercati interrelati e interdipendenti caratterizzati da grande densità e specializzazione degli agenti economici, come pure un sistema che offre le condizioni
iniziali capaci di influenzare il processo decisionale attraverso una diversità di
strutture amministrative, ognuna delle quali ha competenze e autorità limitate.
Questi mercati servono e sono serviti da un gran numero di persone ed imprese localizzate in una ristretta prossimità spaziale. Le città si specializzano in
maniera efficiente nel fornire alle famiglie e alle imprese contatti e flussi d’informazione a costi inferiori rispetto ad altre forme di organizzazione spaziale”
(Hirsch 1973, 2-3).
In quegli anni era frequente (usuale) tra gli economisti delle scienze urbane e
regionali descrivere lo spazio organizzato dell’economia nazionale ed internazionale come una catena o una gerarchia di sistemi economici urbani limitati,
dove le imprese ricavano le loro iniziali opportunità di mercato e le loro fonti
esterne di vantaggio competitivo all’interno di ogni sistema.
Questa interpretazione dell’economia urbana cominciò ad indebolirsi alla fine
degli anni ’70, con l’inizio della deindustrializzazione metropolitana, quando
alcuni aspetti della densità urbana (per es. la congestione da traffico, la scarsità
di alloggi, le alte rendite) e della vicinanza (per es. la militanza della classe lavoratrice) cominciarono ad essere considerati un costo economico, e quando la
dispersione delle industrie in regioni lontane e in aree non metropolitane
cominciò ad essere non solo possibile ma anche economicamente vantaggiosa
per le imprese (per es. disponibilità di manodopera a basso costo, forza lavoro
remissiva, nuovi mercati). La virtuosità della relazione tra legami locali e opportunità/performance economica fu messa in discussione.
Durante gli anni ’80, la produzione di testi di economia urbana subì una forte
diminuzione o, più precisamente, i testi che assumevano la città come sistema
economico sostenevano la necessità di spiegare l’urbanizzazione e le economie
urbane nel contesto di spazi più ampi dettati dell’imperativo economico e dall’organizzazione. In particolare ciò fu sostenuto dall’acutezza dei marxisti e dei
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weberiani nel sostituire il feticismo spaziale con un’analisi della varietà e non
omogeneità geografica dell’economia capitalista. Tra i più famosi Manuel Castells
(1977) e David Harvey (1985) illustrarono il ruolo dei processi urbani e delle istituzioni nell’accumulazione del capitale, enfatizzando, per esempio, la diminuzione di capitale nell’ambiente edificato, mentre Doreen Massey (1984) anticipò
la decentralizzazzione e l’internazionalizzazione della produzione nelle mani di
grandi imprese multinazionali e la risultante distribuzione non uniforme del lavoro e del potenziale di sviluppo in differenti localizzazioni. L’arena del capitale,
piuttosto che l’economia urbana, regionale o nazionale cominciò ad essere vista
come sistema economico.
Se negli anni ’90 con questo spostamento teorico era rimasto un qualche interesse nell’economia urbana, esso non prese in considerazione l’aspetto dei legami locali e dell’integrità sistemica locale. Al contrario, l’economia urbana cominciò ad essere trattata come un’entità perforata e disintegrata; una costellazione
di luoghi legati altrove ad altri luoghi che rispondono a diversi ruoli in una geografia più ampia. Il potere economico di alcune città, per esempio, viene spiegato rispetto al ruolo di centri d’affari - quali centri globali di comando e di controllo basati sulla localizzazione dei nuclei dirigenziali delle grandi corporation,
delle élite decisionali, dei potentati e dei professionisti, tutti trainanti i servizi
globalmente mobili (Friedmann 1986; Sassen 1994; Knox e Taylor 1995).
Similmente, Castells (1989; 1996) descrive le città come centri di produzione di
conoscenza oppure come luoghi di conversione e trasmissione di conoscenza
nell’era emergente dell’informatica; un nuovo “spazio capitalista dei flussi” basato sullo sviluppo dell’informatica e dell’informatizzazione che sostituisce un vecchio “spazio dei luoghi” basato sulla tangibilità e fissità del capitale. Anche là
dove emergono con evidenza agglomerazioni produttive (per es. servizi finanziari nella City di Londra, agglomerazioni high tech vicino alle università e centri
di ricerca, distretti di ingegneria leggera o tessile nelle aree urbane centrali) non
si ritiene che questi luoghi siano integrati in un sistema locale più ampio, e in
alcuni casi, sono stati interpretati come forze motrici delle reti internazionali
della produzione locale e dello scambio (Amin e Thrift 1992). Anche i malesseri
dell’economia urbana vengono ricondotti al di fuori delle città; la colpa ricade
sulla fuga del capitale, sullo sviluppo dipendente, sullo scambio ineguale, oppure sulle pratiche di sfruttamento degli investitori interni.
La parrocchia lascia spazio al vivere cosmopolita, e il locale diventa parte del globale. Uno tra i dibattiti derivanti da questo cambiamento e riguardante la comunità della politica urbana si è concentrato sulla questione se l’integrazione globale rappresenta la disintegrazione economica locale. Questo dibattito ha accresciuto il fervore attorno al tema della globalizzazione quale fenomeno rappresentante una pluralità di minacce, inclusa la crescita dei processi di scala globale
e delle istituzioni (per es. il consumismo globale, la produzione transnazionale,
le reti finanziarie, la governance internazionale attraverso organizzazioni come le
multinazionali e le istituzioni finanziarie globali); l’impatto locale in tempo reale
di eventi che si verificano in luoghi distanti, facilitato dalle comunicazioni dei
media digitali; l’accessibilità globale dei mercati e l’ideologia economica neoliberale. Rispetto alla dimensione spaziale di tutto ciò, mentre un’interpretazione
estrema vede nella globalizzazione la fine della geografia, della varietà locale e
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Riflessioni sulla competitività della città
dell’autonomia locale, e un’altra interpretazione evidenzia la crescente significatività della specificità locale e dell’azione locale tesa alla creazione di un vantaggio competitivo in uno spazio economico globale che si omogeneizza, la politica
per lo sviluppo economico locale enfatizza la necessità di un coinvolgimento globale attraverso attive politiche locali d’investimento, sforzi per costruire una base
per l’offerta, un supporto per creare industrie ed imprese d’esportazione competitive a livello internazionale, e politiche per incoraggiare l’imprenditorialità,
l’innovazione e l’apprendimento (vedi Begg 1999 per una descrizione dettagliata). È quest’ultimo punto, rassicurato dalla percezione che la globalizzazione può
non necessariamente minacciare il dinamismo economico urbano e regionale,
che sembra avere riacceso l’interesse concettuale nel potere dei luoghi per la
creazione della competitività economica, più specificatamente l’economia della
prossimità spaziale. In modo progressivo, una nuova ‘governabilità urbana’, basata ‘sull’idea “dell’economia locale”’ o un ‘nuovo “localismo” economico’
(Osborne e Rose 1999, 755) ha cominciato a maturare, per legittimare la commercializzazione dei luoghi quale fonte della prosperità economica nazionale.
La competitività urbana
Nel maggio 1999, per esempio, un intero numero della rivista Urban Studies è
stato dedicato al tema delle ‘città competitive’, in cui articolo dopo articolo venivano evocati Alfred Marshall, i classici degli anni ’50 già menzionati, Michael
Porter e Paul Krugman per identificare le potenziali fonti urbane di competitività economica. La lista presentata è vecchia e familiare: la prossimità contribuisce
alla produttività riducendo i costi di trasporto e di transazione per le merci, gli
attori e le idee (Glaeser 1998); l’agglomerazione e la densità urbana permettono
la concentrazione del fattore lavoro, della specializzazione produttiva, degli spillover tecnologici e della crescita attraverso il processo di causazione cumulativa
(Krugman 1991; 1995) oppure attraverso i benefici derivanti dal cluster di industrie interrelate (Porter 1995); lo spillover della conoscenza (Audretsch 1998)
viene incoraggiato dall’atmosfera industriale locale (Marshall 1890) che deriva
dalla specializzazione produttiva e dall’associata divisione del lavoro e cooperazione tra imprese. Riassumendo, la competitività delle imprese è accresciuta da
risparmi sui costi, da guadagni nella conoscenza e da complementarietà associate all’agglomerazione industriale. La localizzazione non è solo fonte di vantaggio
competitivo in un’economia globale, ma anche un impulso per un’ulteriore
espansione economica urbana.
Ma possiamo far quadrare il cerchio in questo modo? Quali prove possediamo
per mostrare che le imprese si localizzano nelle città per orientarsi all’esportazione o per accrescere la loro competitività? È vero che le imprese dipendono
innanzitutto dai legami locali per avere un vantaggio competitivo? Che cosa dobbiamo pensare della conclusione tratta sempre più di frequente per cui sono le
città piuttosto che le imprese a competere?
Paul Krugman è cauto nell’individuare il limite oltre il quale gli effetti della competitività possono essere attribuiti all’agglomerazione. Egli sottolinea, per esempio, come anche in un centro forte come Los Angeles, l’occupazione è comunemente concentrata in attività ‘non di base’ che consistono di beni e servizi forni-
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ti da imprese locali per il consumo locale, mentre le attività di ‘base d’esportazione’ sono confinate solo a poche industrie (Krugman 1997). Il legame tra
agglomerazione e competitività è debole: ‘quando si analizzano le economie
delle città moderne, si osserva un processo di localizzazione: una quota regolarmente crescente della forza lavoro produce servizi che vengono venduti solo
all’interno della stessa area metropolitana’ (Krugman 1997, 211, citato in Boddy
1999, 825). A supporto di ciò, uno studio basato su più di 4000 imprese di diverse dimensioni e settori produttivi a Londra ha rilevato che il 35% delle imprese
vede Londra come il loro mercato principale, il 32% considera mercato principale la Gran Bretagna, e solo il 16% dichiara di esportare oltre la Manica (Jones
2000; vedi anche Gordon 1999 per risultati simili sui servizi alle imprese a
Londra). Come fa notare Gordon, “… il successo di un luogo dipende dalla produttività, innovatività e dall’orientamento al mercato di tutti i settori dell’economia locale, e non semplicemente di quelli che sono più largamente rivolti all’export. La tentazione generale è quella di tralasciare quest’aspetto, caratterizzando
i luoghi rispetto alle attività cosmopolite posizionate ai livelli più elevati in cui
sono impegnati …” (1999, 1009).
Qual è il ruolo dei legami di prossimità per la competitività dell’impresa (per es.
benefici derivanti dalla cooperazione tra imprese, contatti faccia-a-faccia, transazioni locali, conoscenze condivise)? Uno studio recente ha cercato di rispondere empiricamente a quest’interrogativo misurando l’impatto sulla performance
esportativa di 10.000 imprese manifatturiere svedesi della prossimità a imprese
simili o in relazione tra loro (‘effetto localizzativo’); dell’accessibilità ai beni pubblici offerti dalle città (‘effetto di urbanizzazione’); della composizione settoriale;
delle economie di scala interne (Malmberg, Malmberg e Lundequist 2000). Lo
studio rileva che l’effetto di localizzazione sulla performance esportativa è 40-80
volte più piccolo dell’effetto di urbanizzazione e 50-100 volte più piccolo dell’effetto delle economie di scala. La conclusione è dunque che, mentre le imprese
riconoscono chiaramente il ruolo dei beni pubblici quali la qualità dei mercati
locali del lavoro, delle infrastrutture e dei servizi, “sono le caratteristiche tradizionali, oggi quasi estinte, della geografia economica che enfatizzano le economie di scala e la composizione settoriale, e che identificano con più precisione i
fattori importanti per la performance delle imprese” (Malmberg, Malmberg e
Lundequist 2000, 317). Non c’è ragione per non credere che tali risultati siano
solo caratteristici del sistema economico/urbano svedese.
Altri studi hanno messo in discussione gli effetti delle reti locali sull’innovazione
e la performance commerciale. Per esempio, il lavoro già citato su Londra (Jones
2000) rileva una scarsa evidenza empirica di reti commerciali all’interno di
Londra o di fenomeni di apprendimento e innovazione basata sulla fiducia e
cooperazione con altre imprese locali (per es. fornitori) o, ancora, di legami
sociali informali a livello locale (anche se il 40% delle imprese dichiara di essere
iscritta ad associazioni o club londinesi). Al contrario, le imprese hanno identificato come prime fonti d’innovazione di prodotto e di processo e stimoli chiave
per la performance commerciale, l’accesso alla conoscenza codificata esterna
all’impresa come la ricerca e sviluppo e i giornali commerciali, l’imitazione dei
competitori e i consigli dei clienti. Riguardo al potere dei luoghi, ‘la vicinanza dei
bisogni delle attività economiche non implica la necessità di un contatto fisico, e
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Riflessioni sulla competitività della città
tutti quei fattori diversi dal bisogno di mantenere tale contatto con i propri simili, i concorrenti, i fornitori oppure i clienti deve essere utilizzato per spiegare il
raggruppamento geografico apparente di alcuni tipi di attività economiche a
Londra’ (Jones 2000, 1). Per un particolare cluster – le imprese che offrono servizi professionali e commerciali nel cuore di Londra – la localizzazione è importante per la migliore accessibilità per i clienti, perché centro dei trasporti, e per
il prestigio che offre. Tutti questi fattori hanno poco in comune con le relazioni
locali basate sulla fiducia e i contatti faccia a faccia. Ad una conclusione simile è
giunto anche un altro studio condotto su 1800 imprese in 10 regioni europee,
secondo il quale le innovazioni di prodotto sono maggiormente influenzate da
variabili intra-impresa piuttosto che da variabili regionali. È emerso che anche in
una regione high-tech quale quella di Monaco, l’area metropolitana è rilevante
principalmente per la sua offerta di centri di ricerca e sviluppo e per le competenze tecniche altamente qualificate, piuttosto che per fonti informali di apprendimento (Sternberg e Arndt 2000).
In anticipo rispetto agli studi empirici, la letteratura teorica sulle virtù della prossimità ha rafforzato l’idea errata che sono le città, e non le imprese, che competono (Krugman 1997; Begg 1999). Ciò, a sua volta, ha alimentato l’idea che l’economia urbana è un’entità territoriale con ‘un ciclo di vita quasi organico al suo
interno’ (Osborne e Rose 1999, 756). Imperterriti e con una visione eccessivamente entusiastica, i nuovi convertiti alla competitività urbana raccontano ai
policymaker che l’economia locale esiste realmente e che necessita urgentemente della creazione di cluster d’imprese in relazione tra loro, per consentire
lo scambio e la cooperazione tra imprese locali, per incoraggiare le relazioni
basate sulla fiducia tra gli agenti economici, e per promuovere una cultura locale della responsabilità e della cittadinanza. A nostro avviso tale visione riporta
all’idea dell’economia quale catena di sistemi urbani, ora diventata economie
locali marshalliane inserite in una catena globale di connessioni e di flussi!
La città come base per la conoscenza
Esiste un secondo filone interpretativo sulle città che le colloca al centro dell’economia basata sulla conoscenza post-industriale (Amin 2000). È meno focalizzato sull’economia delle reti locali di produzione e considera le città fonti di
conoscenza formale ed informale o risorse culturali sulle quali operano i lavoratori “della conoscenza”. Tale approccio concepisce la città come dinamo di una
nuova forma di capitalismo, raccolta in forma sempre più crescente dai policymaker urbani negli USA, in Europa e in Australia ed Asia.
Il mantra sulla crescita del capitalismo della conoscenza è oramai familiare, e si
riversa nei libri che trattano l’economia del futuro. Si promette un’economia
senza peso basata su beni intangibili, sul terziario e l’informatica (Coyle 1997;
Quah 1997); l’integrazione dell’educazione, dell’apprendimento e dell’abilità
della conoscenza nei processi decisionali quotidiani nelle società riflessive
moderne (Giddens 1994); conoscenza e apprendimento in un capitalismo basato su un’intensa competizione globale, su mercati propensi al rischio, su standard variabili (Burton-Jones 1999), guidati da ‘nuovi fattori di produzione e fonti
di vantaggio competitivo – innovazione, design, branding, know-how’
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(Leadbeater 1999, 10); l’imprenditore della conoscenza che vende know-how
specializzato su diversi media (per es. abilità culinarie attraverso libri, show e
media) e il lavoratore della conoscenza con passo veloce senza un lavoro fisso o
un luogo di lavoro e senza impegno occupazionale di lunga durata (Leadbeater
1999; Sennett 1999); ed infine, la necessità di coesione sociale, collaborazione
basata sulla fiducia e sulla condivisione dei rischi nell’economia basata sull’innovazione, dove ‘idee per nuovi prodotti emergono normalmente da team di persone che insieme configurano una diversa competenza’ (Leadbeater 1999, 13).
Dato che la nostra attenzione è rivolta all’economia urbana, non si tratta di mettere in discussione l’iperbole sull’economia della conoscenza evidenziando l’importanza della persistenza della domanda e della competizione tra beni tangibili
e standardizzati; l’errore nel considerare la digitalizzazione delle transazioni economiche; il perdurare di un’occupazione stabile di lungo periodo e la relativa
ideologia del lavoro e dell’identificazione basata sul lavoro; la qualità di occupazioni, skill, competenze e esperienze che non possono essere ridotte all’imprenditore della conoscenza o al lavoratore della conoscenza (per es. nel commercio al
dettaglio e nella grande distribuzione, nei settori dell’assistenza, nella produzione
e nei servizi alla persona, e nei servizi della stessa economia della conoscenza); e
la pratica istituzionalizzata delle transazioni collusive, impersonali (a distanza) o
basate su contratto (vedi Amin, Massey e Thrift 2000, per un’ampia critica).
Si suppone che le città giochino un ruolo vitale nella nuova economia prima di
tutto come fonte di sicurezza, informazione e vitalità per l’imprenditore/lavoratore déraciné della conoscenza. Leadbeater, tipico esempio di giornalista-intelletuale-consulente-freelance, si dichiara fortunato di vivere a Londra nel nuovo
mondo della limitata sicurezza istituzionale perché, come per altre maggiori
città, essa è “il luogo dove le idee e le persone circolano a grande velocità”
(Leadbeater 1999, 13). La città, o più precisamente alcune città, sono luoghi per
acquisire conoscenze, grazie alla densità esistente di persone creative e ben
informate e al fatto che le città sono luoghi d’incontro. In un momento di sfogo,
uno studioso dichiara che la ‘tirannia della prossimità’ (Duranton, 1999, 2185) è
la sfida chiave che si affaccia alla città post-industriale, in cui le reti personali
diventano ‘l’istituzione principale’ a causa dell’importanza crescente delle connessioni tra individui dovuta al fatto che il commercio diviene sempre più basato su fenomeni di reputazione e sull’interazione ripetuta. Duranton commenta:
“Il concetto di reti di relazioni personali ci permette di comprendere che il termine “prossimità” è indicatore del fatto che “A desidera essere vicino a B il quale,
a sua volta, desidera essere vicino a C e D. Ad esempio, A è un collega vicino a
B. B e C giocano insieme a tennis, mentre C e D sono sposati tra loro e così via.
Questa serie d’interazioni personali, tutte richiedenti una prossimità fisica, è ciò
che li tiene tutti insieme nella città post-industriale” (1999, 2185).
La città quindi fornisce agli attori principali dell’economia della conoscenza i
contatti personali e gli spazi di socializzazione quali bar, ristoranti, tennis club,
teatri, associazioni, ecc.. Questa sembra tuttavia una caricatura delle reti relazionali di questi attori in quanto non è chiaro il significato del concetto di connessioni locali. Poiché tra i soggetti in stretta connessione e con grande mobilità,
queste relazioni durevoli si spostano con i lavori e tra i lavori e fanno affidamento sulle connessioni personali a distanza sostenute – a casa per le localizzazioni
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Ash Amin e Nigel Thrift
Riflessioni sulla competitività della città
rurali o mentre si viaggia – dal telefono, dal fax, dall’email, da internet, dalle teleconferenze, ecc.. Le loro relazioni sono una “serie di connessioni personali”
mobili e disperse nello spazio, che comunque richiedono interazioni frequenti e
ripetute, ma che non sono dipendenti dall’interazione locale faccia a faccia. Ed è
precisamente questa dilatazione e delocalizzazione delle relazioni personali (e la
disponibilità all’accesso globale dei media) che ha liberato l’imprenditore/lavoratore della conoscenza dalla singola localizzazione quale fonte di sicurezza ed
ispirazione. In un tale contesto ci si può chiedere quanto siano significativi i contatti locali e le reti d’amicizia per la creatività economica. Piuttosto, come in un
precedente dibattito sul ruolo dei fattori che definiscono lo stile di vita, quali la
qualità delle scuole e dei divertimenti, come incentivi di localizzazione per gli
investitori delle multinazionali, si trova che le reti locali hanno un’importanza
secondaria per la perfomance economica.
Guardando ad altre fonti riconosciute dell’economia della conoscenza, la discussione che si è delineata attorno al ruolo dei diversi tipi di conoscenza necessari alla competitività economica ha posto grande attenzione alla conoscenza
locale, specifica e tacita. L’idea prevalente tra i teorici dell’innovazione, sensibili
alla dimensione spaziale, è che l’ubiquità della conoscenza codificata, dovuta al
suo linguaggio formale, e la sua rapida diffusione, legata al fenomeno della globalizzazione, premia principalmente l’innovazione sviluppata in ambienti in cui
circola conoscenza tacita (Maskell e al. 1998; Nooteboom 1999) la quale facilita,
inter alia, la traduzione e l’interpretazione delle idee, il learning by doing, la condivisione di informazioni, la capitalizzazione delle esperienze e rafforza l’agilità
organizzativa e l’apertura al cambiamento. Se si condivide quest’idea, ispirata
dalla pratica corporativa giapponese, dai distretti industriali marshalliani, e dalle
regioni high tech come la Silicon Valley, si nota che gran parte di questa conoscenza tacita è il prodotto di legami di reciprocità e di scambio appartenenti a
reti produttive localizzate. I luoghi in cui tali legami offrono importanti “interdipendenze non legate agli scambi” (Storper 1997) producono spillover al di fuori
delle reti d’impresa ed investono l’intera fabbrica sociale di questi luoghi che
vengono interpretati come convenzioni collettive e pratiche sociali. Ciò è potenzialmente vero là dove la località riveste realmente una certa importanza. Perché,
come sottolinea Nancy Ettlinger, mentre le reti tacite possono anche funzionare
a distanza: “… l’intensità dell’instabilità associata alla ipercompetizione induce a
sostenere che l’ancoramento ai luoghi delle reti aperte può facilitare la produzione di capitale sociale grazie alle relazioni sociali locali preesistenti. I cluster
d’imprese hanno il vantaggio potenziale di creare frequenti interazioni faccia a
faccia e coesione sociale … fornendo in tal modo l’opportunità di trasferire
conoscenza tacita. (…) È la combinazione della coesione sociale e dell’apertura
a nuove conoscenze … seguita dall’abilità ad integrare tali conoscenze e dall’abilità nel riconfigurare la conoscenza esistente che definisce la competitività in
presenza di ipercompetizione” (2000, 27).
È lo spillover della conoscenza tacita dalle reti produttive locali verso la società
e la cultura che rende la dimensione locale una vitale fonte di competitività.
Quest’affermazione, tuttavia, è debole. In primo luogo perché la conoscenza
tacita non è isolata dalla conoscenza codificata e il vantaggio competitivo è normalmente il prodotto della combinazione delle due fonti di conoscenza (Amin e
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n.1 / 2000
Cohendet 1999). In secondo luogo, le reti locali non sono le uniche fonti di
conoscenza tacita. Come potrebbero esserlo nell’attuale era dominata dalle grandi organizzazioni e dalla creazione di conoscenza specifica aziendale? Per esempio, le multinazionali, le banche internazionali, le agenzie di consulenza commerciale globali, i distributori nazionali e i servizi pubblici non sono spazi di
conoscenza diffusa derivante dai centri di ricerca e sviluppo e dai centri dirigenziali, ma sono costellazioni di know-how distribuito e di riflessività all’interno di
comunità che adottano specifiche pratiche e che operano a diverse scale (dai
manager, scienziati e acquirenti legati alle loro controparti mondiali, ai lavoratori, professionisti e tecnici che lavorano in gruppi locali e nazionali). Queste organizzazioni, sia come un tutto sia come insieme di luoghi, combinano la conoscenza tacita e formale per ottenere il loro vantaggio competitivo. In terzo luogo,
nella nuova era del “capitalismo soft” (Thrift 2000) qualunque cosa conti come
conoscenza tacita, viene incorporata dalle imprese come asset organizzativo per
produrre un vantaggio competitivo, a partire dal sostegno dato dai legami familiari e dalle tradizioni nelle reti commerciali internazionali cinesi (Yeung 2000a),
fino alla mobilizzazione degli asset intangibili come le competenze, la proprietà
intellettuale e la reputazione per il consenso del mercato, lo sfruttamento della
cultura della competizione e della prestazione da parte delle “imprese veloci”
(Thrift 2000). Infine, le circostanze sopra descritte dalla Ettlinger, sono da considerarsi solo eccezionali, applicabili ad economie locali autocontenute in cui
industria e società coincidono, come avviene in quei luoghi specializzati legati ad
un singolo settore produttivo. La maggior parte delle città non hanno questa
forma. Infatti, ci si potrebbe chiedere, come Jane Jacobs (1969) fece trent’anni
fa, se la specializzazione produttiva sia un fine desiderabile, se al contrario è la
varietà che stimola l’innovazione e la creatività.
Tuttavia, altri teorici dell’economia della conoscenza, sostengono che la città è
una fonte ricca di conoscenza codificata – scienza, tecnologia e apprendimento
legato alle funzioni dirigenziali e agli istituti di ricerca, all’educazione di livello
superiore, alle organizzazioni culturali ed artistiche, alle industrie editoriali e di
comunicazione mediale, ecc.. Le città traggono così un beneficio dal costruire
“cluster territoriali di attività interrelate basate sulla conoscenza ” come sostiene
Richard Knight (1996, 9), l’utopista che ha realizzato per la Commissione
Europea il maggior studio orientato alle politiche per il futuro delle città
Europee, nel quale viene esplorato lo sviluppo basato sulla conoscenza in
Barcellona, Genova, Lille, Lione, Milano, Delft e Amsterdam.
Knight cita, dagli studi sul caso olandese, esempi di cluster che legano la ricerca
medica e biomedica con l’educazione e l’assistenza sanitaria, l’offerta e i servizi
medici; i centri finanziari internazionali e i servizi d’investimento con i connessi
servizi di produzione quali public relation, contabilità, management, consulenza;
arti creative ed espressive nonché culturali quali le arti visive, i teatri, il design, la
grafica, i media audiovisivi, la moda, i film; e i centri scientifici, di ricerca e sviluppo con l’engineering ed i servizi di produzione connessi. Tali cluster territoriali richiedono investimenti nella conoscenza formale e nelle infrastrutture culturali di supporto: “Le città possono giocare un ruolo significativo sia direttamente che indirettamente nel conservare le risorse che costituiscono la conoscenza. Direttamente, attraverso l’investimento in conoscenza grazie al quale
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Ash Amin e Nigel Thrift
Riflessioni sulla competitività della città
ottenere un miglioramento dell’infrastruttura intellettuale e costruire così un’infrastruttura per la conoscenza. Indirettamente, creando le condizioni e un
milieu stimolante e favorevole per i cittadini che vivono in una società basata sull’apprendimento, sull’innovazione e sullo sviluppo fondato sulla conoscenza.
Conservare la base della conoscenza, migliorare il milieu e l’attrattività della
‘città’, sono obiettivi che diventano sempre più critici; le città non consapevoli
del potenziale di sviluppo di conoscenza delle loro risorse e, al tempo stesso,
non impegnate a sviluppare politiche per rafforzare lo stock delle risorse stesse,
corrono il rischio di una “fuga di cervelli” oppure diventano incapaci di attrarre
e di trattenere i talenti, producendo in tal modo l’erosione delle loro risorse legate alla conoscenza” (Knight 1996, 10).
Nelle città fondate sulla conoscenza, i brutti sfregi delle città industriali devono
essere sostituiti con il fascino intellettuale ed estetico delle città Europee preindustriali, attraverso una combinazione di politiche rivolte alla scienza per stimolare l’innovazione e l’apprendimento, di politiche rivolte alla cultura per
migliorare l’ambiente urbano, e di politiche sociali per incoraggiare i legami locali e ‘la trasformazione delle culture dall’orientamento alla produzione alle culture della conoscenza’ (Knight 1996, 11). La città può essere riprogettata come
brain trust finalizzato alla creazione del vantaggio localizzativo dei cluster locali.
Le città che falliscono nel rispettare quest’imperativo sono destinate a morire.
Anche qui, come nella letteratura sulla conoscenza tacita locale, le più ampie
geografie della conoscenza codificata vengono limitate alle reti organizzate in
forma specifica, alle traiettorie istituzionali e quindi non sono adeguatamente
riconosciute. I luoghi urbani della conoscenza codificata (per es. laboratori di
R&S, centri di formazione, centri per i test di mercato) all’interno di organizzazioni del settore privato sono normalmente connessi a luoghi simili in altre parti
del mondo ed integrati in un progetto che non trova un ragionevole motivo per
generare ricadute esterne positive sul locale. Anche le attività d’eccellenza del
settore pubblico (per es. la ricerca universitaria) hanno pari riconoscimento e
impatto internazionale e non risulta facile individuare la relazione tra tale eccellenza ed i legami locali. Dunque, la conoscenza formale, una volta decontestualizzata e diventata di pubblico dominio, richiede una valutazione e un apprezzamento per diffondersi e vincolare le risorse della conoscenza delle città. Come
sostiene Leadbeater (1999), nella nuova economia si osserva una grande disponibilità di conoscenza codificata in artefatti quali ricette, giornali scientifici e software, che ha permesso la rapida diffusione globale e la loro manipolazione/replicazione anche in luoghi lontani, rimpiazzando “una vecchia e inefficiente divisione del lavoro che custodisce un modo tradizionale e tacito di apprendimento” (Leadbeater 1999, 33). Sebbene non condividiamo questa destituzione del
learning by doing, Leadbeater ha sicuramente ragione nel mettere in luce la rottura del legame tra il luogo in cui la conoscenza viene prodotta e il luogo dove
viene applicata e successivamente sviluppata.
Economie legate alla distanza
Se le città non sono sistemi economici locali, soggetti della competitività globale, o depositari delle forze del capitalismo legato alla conoscenza, qual è il loro
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n.1 / 2000
status economico? Quale ruolo giocano nell’economia delle relazioni economiche organizzate in nuove concentrazioni organizzative e, al tempo stesso, distribuite in uno spazio molto più esteso? Esse agiscono fondamentalmente come
luoghi o tappe di queste reti allargate; luoghi che raramente si agglomerano in
sistemi urbani oppure in insiemi di legami locali.
Le città come luoghi di reti
Per illustrare i diversi ruoli che i luoghi urbani possono assumere, consideriamo
tre spazi organizzativi: le reti delle imprese transnazionali; la geografia delle industrie creative; e lo spazio dell’elettronica.
Riguardo al primo esempio, esiste un’ampia letteratura che si occupa delle geografie organizzative delle odierne imprese transnazionali. A fianco delle gerarchie
tradizionali che vedono il coordinamento centralizzato e le attività specializzate
distribuite nello spazio globale, sono emerse una varietà di ‘gerarchie eterogenee’ che coinvolgono la decentralizzazione del management e della produzione.
In particolare, la struttura organizzativa di queste ‘gerarchie eterogenee’ è diventata estremamente complessa; le imprese sono impegnate in alleanze strategiche, accordi commerciali di distribuzione e accordi di coproduzione con numerose altre imprese, governano lunghe catene distributive organizzate a livello
mondiale, e utilizzano singole unità in grado di autogovernarsi virtualmente
lungo una serie di competenze distribuite, e infine sono in grado di negoziare
con i governi e altri decision-maker a diversi livelli della governance al fine d’influenzare le loro decisioni.
L’impresa è diventata una ‘costellazione di relazioni reticolari’ (Yeung 2000b)
che incorporano, e al tempo stesso condividono, i mondi sociali della produzione, commercializzazione, organizzazione, negoziazione e del gioco di potere.
Come evidenziato da Yeung, gli spazi di queste relazioni sono molteplici e non
dimostrano una facile connessione con luoghi dati: “Gli ‘spazi’ possono includere spazi localizzati (per es. i distretti finanziari nelle città globali) e spazi interurbani (per es. le reti delle istituzioni finanziarie e i media commerciali che legano insieme le città globali). L’impresa è costituita da attori sociali impegnati in
reti relazionali che appartengono ad una varietà di spazi. Le lenti analitiche che
noi adottiamo possono così variare moltissimo. Possono essere di tipo geografico, settoriale e organizzativo. Possono anche essere una combinazione di tutte
queste” (2000b, 26).
Si può considerare che in tale contesto le città si caratterizzino per qualche elemento di autonomia o di particolarità? È difficile dare una risposta positiva. In
una città un aeroporto o un ristorante potrebbero essere il centro di incontri
internazionali, in un’altra città potrebbe essere il distretto finanziario ad avere
tale ruolo. Altrove i servizi alla produzione potrebbero essere collegati al pendolarismo dei lavoratori residenti nella periferia urbana, mentre il collegamento
con una città lontana migliaia di chilometri potrebbe avvenire con un negozio
isolato, un tabellone pubblicitario o uno schermo cinematografico che ne pubblicizza il prodotto. Lo spazio della rete non mostra un modello particolare di
connessioni spaziali e non possiede nemmeno un ruolo generalizzabile, come
avveniva per le vecchie gerarchie urbane (per es. città capitali come centri ammi-
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Ash Amin e Nigel Thrift
Riflessioni sulla competitività della città
nistrativi e di ricerca, città intermedie come luoghi di produzione specializzata, e
città periferiche come luoghi di lavoro a basso costo per lavori non qualificati).
La città è dunque un nesso di nodi, luoghi e buchi nelle reti delle relazioni sociali che si estendono al di là della città (Allen, Massey e Pile 1999).
Riguardo al secondo esempio, anche le città capaci di attrarre il potenziale creativo delle industrie della conoscenza e della comunicazione trovano le loro connessioni più significative in una rete più allargata. Circola un mito sulle industrie
creative come le agenzie di pubblicità, l’editoria, i media, la moda e le arti visive
ed applicate per il quale queste città sono distretti marshalliani dell’economia
della conoscenza, che trovano le loro risorse, l’ispirazione, e i contatti nelle zone
urbane centrali più eleganti. Il caso dei media e dei pubblicitari nella zona centrale di Londra attorno a Soho è un esempio tipico. Questo nodo marshalliano
(Nachum e Keeble 1999) raccoglie gruppi di giovani di talento strutturandoli
attorno a progetti specifici mediante un’organizzazione lavorativa non ortodossa. Questi poi si riversano fino a tarda notte nei bar e nei ristoranti ad alimentare la loro creatività, scambiare idee, e cercare di fare il punto sullo stato dell’arte. A sua volta, a Soho, la miscela dei particolari prodotti mediali, la rapida creatività, e l’ipersociabilità attrae clienti, persone con talento e consumatori dello
stile di vita di Soho. Il forte senso della località proprio di Soho e le reti di creativi si rafforzano a vicenda per rendere il distretto uno spazio organizzativo locale con significativi risultati economici.
Queste osservazioni sono solo parziali in quanto escludono un altro spazio organizzativo irriducibile al localismo. Gernot Grabher (2000) mostra in modo convincente che le maggiori imprese che si trovano a Soho sono organizzazioni
internazionali costituite in ‘gerarchie eterogenee’, e composte da project team
appartenenti ad imprese consociate nonché individuali localizzate in vari centri
del mondo e legate tra loro virtualmente. Queste ‘gerarchie eterogenee’ sono
anche spazi di intensa rivalità, di cambiamenti di proprietà, di mobilità finanziaria, nonché spazi di creatività per realizzare prodotti, profitti e reputazione per il
proprio marchio. Soho senza tutto ciò non avrebbe senso dal punto di vista economico. Grabher si chiede anche se sia corretto interpretare luoghi come Soho
in termini di distretto industriale che come sappiamo si costituisce grazie ad economie di prossimità ed alla coerenza sistemica. Egli al contrario fa notare l’eterogeneità delle produzioni di Soho e la mancanza di qualsiasi legame sistemico
tra le imprese. In questi luoghi ciò che conta è l’intersezione dei raggi d’azione
delle organizzazioni globali ed il vantaggio in termini di tempo che la prossimità
fisica fornisce ai nuovi project teams. Inoltre, senza la forza delle organizzazioni
e la sfera d’influenza globale, il marketing territoriale ed i legami di prossimità
avrebbero un rendimento economico inferiore. Quest’aspetto è costantemente
dimenticato dai promotori della competitività delle città che basano le loro strategie d’investimento-promozione sull’ordinamento di una lista infinita di fattori
che influenzano la qualità della vita urbana (Rogerson 1999).
In terzo luogo, qual è il ruolo dei centri urbani nel contesto dello spazio mediato elettronicamente? I problemi associati alla telematica ossia l’erosione della
funzione della città a causa del crescere dei flussi d’informazione sono già stati
esplorati (Castells 1996), così come i problemi che nascono da omnipolis, la città
virtuale dello spazio-tempo globale dilatato (Virilio 1997). Tuttavia, come fa nota-
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n.1 / 2000
re Crang (2000, 303) gli elementi di novità legati a questa nuova dimensione spazio-temporale non devono essere dimenticati: ‘le interazioni telematiche non
hanno luogo negli spazi urbani o tra di essi ma producono nuove forme spaziotemporali. Mentre una volta la città esprimeva l’intensificazione dello spazio per
superare il tempo, ora lo spazio urbano non può più essere considerato uno spazio-tempo che contiene l’azione, bensì un paesaggio urbano interattivo in tempo
reale’. Questo paesaggio urbano dilatato nello spazio (che raggiunge le grandi
periferie e si estende anche oltre tali luoghi) è reso possibile dalle connessioni
telematiche che legano in tempo reale famiglie, uffici e parti delle città ad altri
luoghi del globo (possibilmente intermediati da call-centre situati in altri luoghi
ancora e da satelliti nello spazio). Si tratta di connessioni sostanziali, il cui senso
e significato non sono meno autentici o strettamente connessi alle relazioni faccia a faccia all’interno della città (Graham 1997).
Questo spazio dilatato ed istantaneo è anche uno spazio economico quotidiano,
composto da legami tra clienti e fornitori lontani tra loro nato dal flusso e riflusso dei diversi mercati monetari e reali, da decisioni e regole determinate da élite
che appartengono ad altri luoghi dalla circolazione globale di routine dell’informazione, dei dati, del know-how e dalle transazioni economiche e finanziarie.
Visto dalla prospettiva della città, tutto ciò rappresenta un allentamento delle
transazioni economiche e delle routine locali, poiché attori economici vicini l’un
l’altro o all’interno della stessa città non hanno relazioni tra loro. Questo ci riporta alla città come luogo, ma nella forma di una serie di comportamenti isolati.
Queste geografie virtuali rappresentano sempre più i nuovi circuiti economici
nella loro normalità, creati da transazioni di segni, immagini, informazioni e
conoscenze autoreferenziali. Come potremo altrimenti interpretare il crescere
dei mercati internet per la musica, per la valutazione delle imprese, per i mercati immobiliari, per i prezzi azionari, per le immagini e quant’altro? Che cos’è la
città in questi mercati, se non il molteplice terminale di connessione di produttori, intermediari e consumatori dei servizi e dei beni digitalizzati? Se la città
appare come un luogo, è probabilmente in veste di mappa immaginaria o digitalizzata, concepita per attrarre l’attenzione, per creare identità oppure per dare
un orientamento; si tratta insomma di un luogo virtuale, non di una composizione geografica reale.
Da tutti e tre gli esempi si evince che, se si prende in considerazione la crescita
dell’organizzazione economica, sia materiale che virtuale, la città scompare come
luogo di interdipendenze locali forti per rinascere come centro di reti nelle
nuove più ampie geografie economiche.
La densità delle istituzioni agili e leggere
Se le città, o parti di esse, non sono organismi competitivi che fanno uso di concentrazioni di industrie interrelate, di economie di prossimità, di fiducia radicata nel contatto faccia a faccia, di spillover di conoscenza tacita e dell’accessibilità
a persone ingegnose e tecnologie intelligenti, quale ruolo giocano nel sostenere
l’attività economica? (Analizzeremo il loro ruolo in termini di mercati locali del
lavoro nel prossimo paragrafo).
A nostro parere è importante affermare il primato delle risorse ‘leggere’ che si
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Ash Amin e Nigel Thrift
Riflessioni sulla competitività della città
trovano nelle pratiche istituzionalizzate specifiche delle città. Queste comprendono sia le istituzioni forti che offrono beni collettivi attraverso l’attività organizzata (per es. luoghi d’incontro, servizi condivisi, gruppi d’interesse e di governo)
sia istituzioni ‘di poca importanza’ senza costituzione formale o senza alcun
patrocinio (per es. reti di contatti informali che forniscono opportunità di mercato). Le consideriamo istituzioni ‘leggere’ nel senso che non rivestono un ruolo
centrale per le attività economiche, ma sono vantaggiose per sostenere tali attività e per inseguire nuove opportunità.
La città è ricca di attività organizzate di qualsiasi tipo. Infatti, si potrebbe ipotizzare che uno degli aspetti centrali dell’urbanizzazione è stata l’istituzionalizzazione della vita sociale ed economica. La ricca e varia ecologia della vita nelle città
che da sempre crescono, si allargano e cambiano, ha richiesto la sua istituzionalizzazione attraverso la necessità di un’organizzazione collettiva adeguata alla
dimensione ed alla densità, rapportata anche al bisogno di sicurezza, chiarezza e
ordine di un ambiente vario e complesso. Il risultato di questo processo è visibile nella concentrazione di istituzioni urbane custodite in regole e istituzioni relative all’amministrazione e al governo urbano, ai codici ed alle convenzioni di
comportamento pubblico, alle tecnologie di controllo, all’ordine e all’orientamento (segnali stradali, sorveglianza, sicurezza), ai gruppi d’interesse, ai partiti
politici, alle campagne elettorali e alle élites, ai servizi, al welfare e alle organizzazioni d’assistenza, ai club, ai gruppi di ricreazione e alle associazioni. La città è
un mix di istituzioni rivolte alla regolazione, al potere e alla socializzazione che si
tengono insieme solo perché appartenenti alla città; alcune in qualità di istituzioni urbane specifiche (per es. il governo locale, la pianificazione urbana) e altre
in qualità di istituzioni generali (per es. scuole, servizi di vigilanza, accordi sulle
relazioni industriali).
Alcune di queste organizzazioni facilitano o rafforzano l’attività economica. La
vicinanza ai servizi istituzionalizzati ne è un chiaro esempio. Le imprese possono
accedere a una completa e varia disponibilità di servizi commerciali e finanziari,
servizi di trasporto e comunicazione, opportunità di formazione, servizi al dettaglio, servizi amministrativi e legali, ecc.. E qui, la familiarità con organizzazioni
conosciute o di fiducia del settore pubblico o privato è molto importante, ma
conta anche la garanzia di trovare agevolmente delle alternative in altre parti
della città attraverso contatti personali, reputazione e disponibilità di elenchi
nominativi come ad es. le rubriche telefoniche.
Un altro esempio sono i luoghi d’incontro offerti dalle città. Ristoranti, bar, partite di calcio ed eventi musicali sono luoghi in cui si sviluppano le idee e si realizzano affari deliberatamente o attraverso la socializzazione casuale. Così come
le associazioni di imprenditori, le manifestazioni organizzate dalle aziende, le
fiere, le organizzazioni professionali e i gruppi d’interesse, esse sono luoghi in
cui vengono ricercati degli standards, si scambiano conversazioni amichevoli,
vengono riconosciuti i rivali e vengono rese pubbliche le controversie. Questi
luoghi d’incontro non sono tuttavia spazi marshalliani di interscambio tra membri della stessa comunità d’interesse che si conoscono (per es. i mobilieri nelle
piazze italiane). Al contrario, sono centri di socializzazione e/o raccolta di professionalità con una leggera impronta economica, alla quale si mescolano divertimento, discussioni, opportunità di ricerca e d’affari in forme emergenti. È pro-
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babile che in assenza di tali luoghi il business imprenditoriale non tenderebbe a
collassare, ma potrebbe crescere l’ansietà (...).
Un terzo esempio, rilevante per l’attuale riflessione sulla città intesa come motore dell’economia della conoscenza, è la sintesi e l’aggregazione di diversi tipi di
conoscenza formale in istituzioni urbane di diversa natura. La città non è una
fonte di conoscenza contestuale o tacita radicata in particolari forme di pratiche
imprenditoriali (per es. la fiducia nei cluster o nelle imprese familiari). Non è
neppure un serbatoio d’innovazione creato dai lavoratori della conoscenza e dai
centri di ricerca per la scienza e la tecnologia. Al contrario la città è un luogo con
una composizione molto varia della conoscenza. Quest’ultima si trova nelle
scuole, nelle università, nell’apprendistato, nelle esperienze e abilità lavorative,
nelle scuole serali, nelle associazioni di volontariato e nelle organizzazioni comunitarie, nei gruppi artistici, istituti culturali e club comunitari, nelle società che
apprendono, nelle agenzie di certificazione e nelle organizzazioni di accreditamento, ecc.. È difficile dire in che modo la conoscenza generata in ogni luogo si
traduca in capitale economico per la città, che è una questione mal formulata.
Ciò che appare rilevante è la pura e semplice varietà degli ambienti della conoscenza istituzionalizzata cittadina, che costituiscono un pool ricco e nutrito di
know-how con effetti strumentali e di sviluppo che variano nel tempo. Anche
qui, la conoscenza leggera diventa di cruciale importanza economica qualora si
consideri la varietà di competenze e know-how come fonte primaria per l’evoluzione economica.
La base istituzionale della città si estende anche alle attività non strutturate o di
minore importanza che supportano la vita economica. Sarà sufficiente un esempio per illustrare quest’aspetto. Le città sono piene di piccole imprese che competono l’un l’altra nei mercati locali, molte delle quali si affidano alle pratiche istituzionali informali per sopravvivere. Questo è il caso delle attività economiche
delle minoranze etniche, normalmente localizzate nelle aree in cui risiedono gli
immigrati, le quali fanno affidamento a specifiche norme di consumo (per es., la
preferenza per particolari cibi) e alle opportunità offerte dalla comunità o dalle
connessioni della diaspora cittadina (attraverso le relazioni di parentela, le scuole settarie, le associazioni di comunità, gli ordinamenti religiosi – vedi Kesteloot
e Meert 1999). Ciò risulta vero anche per le numerose attività informali e semilegali presenti nella città, a partire dai commerci di vicinato fino alle reti per il
credito immediato destinato alle riparazioni domestiche, il giardinaggio, la vendita di auto. Queste attività dipendono in modo cruciale dalle reti familiari, dai
contatti faccia a faccia, dalla reputazione locale, dai territorialismi e dai percorsi
familiari, nonché dai legami solidaristici che s’instaurano all’interno della città
(Mingione 1996; Duneier e Molotch 1998; Fleischer 1995). A tale riguardo la città
si riduce a istituzioni di familiarità tipiche dei villaggi. Ma conta anche l’affidabilità dell’anonimato urbano nel facilitare la fuga, la ricerca di nuove opportunità,
di nuove aziende. Infine anche l’importante economia delle piccole imprese
ricorre ad istituzioni urbane poco appariscenti. Ragionevolmente, il negozio
all’angolo della strada si basa sulle regolarità temporali istituzionalizzate, sui
modelli di acquisto familiare, sulle abitudini dell’ora di pranzo degli impiegati e
sull’invasione quotidiana degli scolari. Può anche basarsi sul desiderio di una
socializzazione superficiale dei residenti, per i quali una breve chiacchierata
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Ash Amin e Nigel Thrift
Riflessioni sulla competitività della città
all’angolo del negozio fa parte della caratterizzazione del territorio o della vita
umana in città.
Mercati, Consumo, Benessere
Questi ultimi esempi rivelano come la vita economica nelle città non sia riducibile alle attività di networking tipiche delle geografie costruite su ampie distanze. Le città sono agglomerazioni di persone, edifici, tecnologie, reti di comunicazione, servizi, uffici, case, istituzioni, parchi, discariche e molte altre attività
umane e non. Come abbiamo già detto, questa densa ecologia di presenze non
può essere spiegata in termini di economia (internazionale) della competitività,
né in termini di ambiente offerto, incluse le istituzioni. Al contrario, abbiamo
bisogno di considerare l’economia della domanda e dei diversi modelli di consumo e di soddisfazione di bisogni.
Krugman (1997) ha ragione quando allude alle città come luoghi di mercato che
sostengono la domanda di beni e forniscono servizi alle imprese locali. Occorre
prendere seriamente in considerazione l’evidenza empirica che mostra come la
maggior parte delle imprese di media e piccola dimensione nelle città soddisfino principalmente i bisogni della domanda locale. Il processo di causazione
cumulativa mette in evidenza come parte di questa domanda sia generata dalle
opportunità di mercato legate all’agglomerazione, alla crescita della domanda,
alla crescita della specializzazione e allo spin-off. In tal modo la densità della
popolazione garantisce la varietà dei mercati per i beni di consumo, le abitazioni, il tempo libero e la ricreazione; la proliferazione delle imprese e delle istituzioni genera una diversificazione dei mercati per i servizi alle imprese, mentre
l’ambiente edificato genera il suo stesso modello di domanda. A sua volta l’eterogeneità sociale e culturale della città, assieme alla sua espansione e suddivisione in parti distinte sostiene la straordinaria ampiezza dei mercati dei nuovi prodotti e servizi venduti nelle zone ricche di negozi, dei centri commerciali, dei
mercati all’aperto, delle bancarelle, nonché dei prodotti di seconda mano e riciclati scambiati attraverso un insieme variegato e simile di mercati. Queste sono
le attività commerciali che riempiono le Pagine Gialle in diverse città del mondo,
e che, incidentalmente, spiegano perché Krugman arriva alla conclusione che le
città sembrano tutte uguali sotto il loro profilo economico.
L’economia della vita quotidiana nella città è anche legata ai mercati relativi ai
servizi pubblici e privati. Esiste un’economia composta da un grande numero di
beni pubblici che i cittadini, le imprese e le istituzioni utilizzano e che produce i
suoi stessi mercati. Le città sono luoghi dove esiste una domanda in larga scala
per servizi, trasporto, comunicazioni, sistema di fognature, lavori pubblici,
biblioteche, spazi verdi, asili nido, scuole, ospedali, cliniche, centri medici. Ogni
settore, a sua volta, ricorre alla ricerca e sviluppo, al know-how, agli skill, alla progettazione, ai servizi, alla fornitura (approvvigionamento) e alle risorse di manutenzione, molti dei quali sono generati o commercializzati all’interno della città.
Si ritorna al modello economico della causazione cumulativa basato sul livello
della domanda locale e sui comportamenti locali di spesa, dove, come dimostra
il precedente esempio, non ha molto senso l’approvvigionamento attraverso
altre città (non ultimo perché una parte significativa è controllata dai fondi pub-
21
n.1 / 2000
blici erogati localmente e dallo stato locale).
Infine, negli interstizi dell’economia del settore privato e del settore pubblico, si
trova l’economia sociale o del non-profit, la quale trova la sua razionalità nei bisogni insufficientemente soddisfatti della città. Le città abbondano di terzo settore,
di volontariato e di organizzazioni comunitarie come pure di reti di microcredito e di schemi locali di commercio progettati per far fronte all’esclusione dall’economia formale e/o supportare stili di vita alternativi. Inoltre, le organizzazioni
religiose forniscono cibo o riparo per i poveri, i gruppi di volontariato si prendono cura dei bisogni degli anziani, i centri di beneficenza lavorano per i disoccupati, i tossicodipendenti e i disabili, le comunità si uniscono per pulire il quartiere o fornire servizi per l’infanzia, gli scolari formano doposcuola collettivi, gli
occupanti abusivi reclamano le case sfitte, i comuni si consorziano per garantirsi un supporto reciproco o per condividere risorse, i gruppi con basso reddito
stabiliscono reti di commercio non monetario, e la lista potrebbe continuare.
Tutte queste sono attività economiche, basate sulla produzione e redistribuzione delle risorse, che incontrano i bisogni di consumo e di benessere nonché la
costituzione di capacità. Anch’esse sono parte dell’economia urbana, e richiedono di essere prese in considerazione nella teorizzazione economica della città.
Conclusione
L’economia urbana non può essere spiegata solo considerando l’emergere di
una nuova forma di capitalismo o in termini di fonte di competitività basata sulla
vicinanza spaziale. Per fare ciò bisognerebbe assumere una nota caratteristica
dell’economia urbana, ossia la sua chiusura spaziale. Abbiamo evidenziato invece che la città deve essere vista come un momento nell’economia strutturata in
relazioni translocali con effetti locali che hanno a che fare più con la sociologia
‘leggera’ delle istituzioni urbane piuttosto che con la natura dei legami tra partner commerciali contigui. Si è anche discussa la necessità di cercare spiegazioni
più convenzionali dell’attività economica urbana, radicate nel riconoscimento
delle opportunità di mercato associate alla densità e diversità spaziale.
Queste differenze dalle spiegazioni ortodosse contemporanee hanno profonde
implicazioni in termini di politiche pubbliche. Primo, nella nostra prospettiva c’è
poco spazio per le politiche che ricercano una competitività urbana, poiché sono
le imprese e non le città a competere. Quindi l’impegno in campagne di marketing territoriale produrrebbe effetti inferiori alle politiche per lo sviluppo di un’economia auto-sostenuta quando la città viene intesa come un tutto, mentre le
politiche per rafforzare o cambiare la natura dei legami tra imprese potrebbero
non essere comprese, e le politiche per migliorare le risorse della conoscenza
formale e tacita di una città potrebbero in realtà alimentare le reti di concentrazione organizzativa o le nuove attività imprenditoriali con conseguenti limitati
effetti locali. Secondo, la nostra prospettiva è rivolta all’azione legata alla distanza, ed è focalizzata, per esempio, sulla base istituzionale della città che agisce sull’attività economica con modalità impreviste, sulle strategie che migliorano le
risorse di base delle imprese senza ricorrere unicamente alle azioni a livello urbano (per es. il credito nazionale o le riforme fiscali), e ai programmi di rinnovamento della domanda di base progettati per soddisfare i bisogni e le diverse
22
Ash Amin e Nigel Thrift
Riflessioni sulla competitività della città
norme degli stili di vita dei cittadini urbani.
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Ash Amin e Nigel Thrift
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La traduzione del testo dall’inglese é stata realizzata da Francesca Gambarotto.
________________
Il prof. Ash Amin insegna Geografia presso l’Università di Durham (UK). È membro del UK Economic and Social Research Council Research Priorities Board e
dal 1999 è stato eletto Corresponding Member dell’Associazione Italiana di
Geografia. Ha ricevuto l’Edward Heath Award dalla Royal Geographical
Society/Institute of British Geographers
È consigliere dell’OCSE e dell’UE per questioni relative alle politiche regionali ed
urbane.
Il prof. Nigel Thrift insegna Geografia presso l’Università di Bristol (UK). È coeditore di numerosi libri ed è editor di alcune tra le più importanti riviste internazionali di geografia economica: Environment and Planning A, Society and Space,
Third World Planning Review, Review of International Political Economy ,
European Planning Studies.
[email protected]
[email protected]
25
n.1 / 2000
Antonio Calafati
Il capitale come paesaggio*
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Introduzione
* Ringrazio Francesca
Mazzoni per i suoi
commenti alle precedenti versioni di questo lavoro.
I termini “capitale” e “paesaggio” sono descrizioni dello stesso oggetto così come
le espressioni “accumulazione di capitale” e “costruzione del paesaggio” si riferiscono allo stesso processo. Naturalmente, vi sono molte ragioni per tenere
distinti, come di norma accade, questi due livelli di descrizione. Tuttavia, vi sono
decisioni individuali e decisioni collettive che, per essere spiegate, sembrano in
tutta evidenza richiedere l’utilizzo di un sistema categoriale nel quale il capitale
sia interpretato come paesaggio e il paesaggio concettualizzato come capitale.
Nell’interpretazione e nella pianificazione urbanistica l’intersezione di questi due
livelli di descrizione è ricercata sia quando si interpreta e progetta il cambiamento di ambienti urbani sia quando oggetto di analisi e di intervento sono i
paesaggi rurali. Ma, anche in economia l’interpretazione del capitale come paesaggio sembra essere necessaria per spiegare le decisioni private e collettive
degli agenti in sfere importanti dell’agire economico. Ad esempio, l’intersezione
tra i concetti di capitale e paesaggio potrebbe contribuire a migliorare la spiegazione sostanziale della destinazione del sovrappiù, aprendo la strada ad una più
completa teoria dell’accumulazione di capitale. Purtroppo, in economia, i vantaggi analitici di interpretare il capitale come paesaggio sono stati oscurati dalla
singolare definizione del concetto di “bene capitale” correntemente utilizzato –
e che, ancora oggi, caratterizza i sistemi di contabilità sociale.
In questo saggio viene condotta una preliminare esplorazione, da una prospettiva economica, delle ragioni che giustificano un’interpretazione del capitale come
paesaggio e del paesaggio come capitale. Sul piano applicato, l’urgenza di porre
l’attenzione sulla “forma del capitale” – e non soltanto sulla sua “funzionalità tecnica” – è un riflesso del rilievo che il tema della “conservazione” ha assunto nella
sfera delle decisioni collettive in Italia e in Europa nell’ultimo decennio. Più in
generale, tuttavia, non appena con il termine capitale ci si riferisce all’insieme
degli elementi fondo utilizzati nel processo economico, la funzionalità formale
del capitale diventa un tema che appare decisivo per interpretare importanti
caratteri delle economie antiche e moderne.
Flussi e fondi nel processo economico
Le azioni economiche degli individui (e dei sistemi di individui) si svolgono sulla
26
Antonio Calafati
Il capitale come paesaggio
base di una rete di transazioni verticali ed orizzontali1. Una transazione può essere definita in questo contesto come un movimento nello spazio-tempo di materia/energia e informazione tra due livelli di descrizione del sistema. Questi flussi
di materia/energia e informazione hanno luogo attraverso una complessa infrastruttura – capitale fisico e capitale sociale –, la quale muta nel tempo in modo
discontinuo2.
Le transazioni verticali sono il fondamento delle azioni economiche: esse si riferiscono alla materia/energia e alla informazione estratte dallo spazio geografico
(e dal territorio) di riferimento dell’agente, manipolate e ri-immesse nello spazio
geografico (territorio)3.
Ogni azione economica implica un movimento di materia/energia e informazione dallo spazio fisico e sociale al sistema umano pertinente, sia esso di volta in
volta un individuo, un’organizzazione o un sistema locale – nonché dal sistema
umano allo spazio fisico e sociale. Senza questo movimento – e senza la degradazione di materia/energia che esso implica – il processo economico non sarebbe possibile (Georgescu-Roegen 1971, 1982).
Le transazioni orizzontali si riferiscono alle transazioni di materia organizzata tra
l’unità di riferimento (individuo, organizzazione, sistema locale) e le unità che
formano il suo “ambiente”. Le transazioni orizzontali tra l’agente e il suo ambiente sciolgono o allentano il legame tra spazio geografico sul quale l’agente ha un
diritto di proprietà e azioni economiche: la materia utilizzata nel processo economico può provenire da altri spazi, e i residui del processo economico possono essere ri-immessi in altri spazi. Naturalmente, l’enorme aumento delle transazioni orizzontali (scambi) che ha accompagnato il processo di industrializzazione ha permesso una concentrazione in un sottoinsieme di soggetti e spazi della
funzione di estrazione e immissione di materia (la concentrazione spaziale
riguarda il luogo di produzione o di stoccaggio dei residui ma non lo spazio dove
si esercitano gli effetti ecosistemici dei residui prodotti. Da una prospettiva ecologica, risulta evidente come i residui del processo economico si muovano nello
spazio e tra gli ecosistemi; cfr. Commoner 1986).
Il processo economico, vale a dire la sequenza (circolare) di trasformazione di
materia/energia e informazione, si fonda su una fondamentale dicotomia. Da una
parte, il processo economico è una trasformazione di “elementi flusso”: materia/energia e informazione. Dall’altra, tale trasformazione avviene utilizzando
“elementi fondo” che, in genere, sono una condizione necessaria per attuare la
trasformazione stessa (Georgescu-Roegen 1971, 1982). In ogni caso, gli elementi fondo – gli “strumenti” – determinano le condizioni alle quali la trasformazione di materia/energia e informazione ha luogo. In questo saggio, con il termine
“capitale (fisico)” ci si riferisce innanzitutto all’insieme di elementi fondo utilizzati nel processo economico.
La relazione tra flussi di materia/energia e spazio geografico è di fondamentale
importanza: la materia/energia manipolata proviene dallo spazio geografico e
ritorna nello spazio geografico, e questo ciclo, indotto dal processo economico,
interferisce con il funzionamento degli ecosistemi in esso presenti. Tale relazione dipende sia dalla scala che dalla struttura del processo economico.
Certamente, la scala del processo economico – cioè, la quantità di materia che
1
Cfr. Dematteis (1989).
2
Sui concetti di “canali” e “codici” come elementi dell’infrastruttura che rende possibili i flussi di informazioni tra gli individui
vedi Arrow (1974).
3
Sull’interpretazione
dell’informazione
come un flusso estratto dall’ambiente dell’unità mente-corpo
cfr. Devlin (1991).
4
Sul concetto di organizzazione e dis-organizzazione della
materia vedi Morin
(1993).
27
n.1 / 2000
viene organizzata (e dis-organizzata)4 nel corso dei processi di produzione e
auto-produzione finalizzati al raggiungimento degli stati desiderati degli agenti –
influenza in misura decisiva lo stato degli ecosistemi. Ma, anche la qualità della
materia organizzata (e dis-organizzata) attraverso il processo economico ha rilevanti implicazioni. Da una parte, la qualità della materia organizzata riflette i valori degli individui; dall’altra, la qualità della materia dis-organizzata (tipi di residui)
dipende non solo dalle merci prodotte ma anche dalle tecnologie utilizzate. Ad
entrambi i livelli si ha un’interferenza con il funzionamento degli ecosistemi (cfr.
Calafati 1997).
Il processo economico richiede elementi fondo per essere condotto. Essi possono essere visti come “strumenti esosomatici” (Georgescu-Roegen 1982), ovvero strumenti che amplificano la capacità di trasformazione della materia/energia
che l’unità mente-corpo può sviluppare. Queste aggregazioni di materia/energia
(e informazione) amplificano la originaria capacità del corpo umano di organizzare materia.
Si tratta di strumenti precedentemente progettati e realizzati attraverso atti di
investimento per essere più volte utilizzati nel corso del processo economico,
ovvero per essere di ausilio a determinate tipologie di azioni umane che l’agente ritiene di ripetere nel tempo. Il processo di accumulazione di strumenti esosomatici costituisce un carattere di fondamentale importanza – e distingue, certamente insieme ad altri fattori, la specie umana da tutte le altre specie. Da una
parte, esso permette di realizzare azioni economiche altrimenti irrealizzabili, e
ciò attraverso l’utilizzazione di materia ed energia disponibili nello spazio geografico di riferimento. Dall’altra, permette di utilizzare materia ed energia in
modo più efficiente.
Vi sono processi di organizzazione della materia che non possono essere né pensati né realizzati senza la disponibilità di determinati strumenti esosomatici. In
altri casi, senza la disponibilità dello strumento sarebbero scarsamente efficienti.
Da questo punto di vista, il processo di investimento è anche l’esito di un processo di esplorazione delle possibilità di organizzazione della materia.
Ponendo l’attenzione sull’infrastruttura sulla base della quale avvengono le transazioni verticali e orizzontali, e la trasformazione di materia/energia e informazione, il capitale (fisico) e lo spazio (geografico) nel quale è incastonato appaiono
come il punto di partenza di una descrizione dei sistemi sociali e del processo
economico. Ma, appena il capitale viene visto non come un aggregato ma come
un insieme di strumenti, appare evidente che gli elementi fondo privati e collettivi che gli individui - e le comunità nel loro complesso - utilizzano nei processi
di produzione e autoproduzione non hanno soltanto una funzione nell’ambito
del processo produttivo.
In economia, gli elementi fondo sono innanzitutto oggetto di analisi poiché
identificano (insieme alle conoscenze) la tecnologia della società. Tuttavia, essi
hanno anche una evidente funzionalità culturale, nel senso che riflettono dei
canoni formali. In effetti, ogni elemento fondo ha una forma (morfologia) e
occupa una regione nello spazio. Il fatto che in economia si utilizzi spesso l’ipotesi (euristica) dell’irrilevanza della forma e della collocazione spaziale del bene
capitale non significa che il campo d’indagine, che in questo modo si elimina,
non sia importante per la riflessione economica stessa. La forma e la spazialità dei
28
Antonio Calafati
Il capitale come paesaggio
beni capitali non sono caratteri che si sono determinati casualmente, ovvero
caratteri che non riflettono un’intenzionalità individuale e sociale.
Naturalmente, anche gli elementi flusso hanno una forma e occupano una posizione nello spazio. Per definizione, tuttavia, la loro forma e collocazione spaziale sono transitorie - e, per questa ragione, non altrettanto importanti della forma
e della collocazione degli elemento fondo. Tuttavia, quando la scala del processo aumenta, anche i flussi assumono un rilievo estetico-formale e territoriale. In
effetti, la “congestione”, per definizione determinata dai flussi di materia nello
spazio, contribuisce a determinare il valore soggettivo (e sociale) degli stati del
mondo pertinenti (cfr. Hirsch 1981).
Per definizione, ogni forma richiama un valore estetico attribuito dagli individui
e dalla collettività alla forma stessa (Bell 1999). Pertanto, ogni elemento fondo,
oltre ad avere una funzionalità (valenza) tecnica, per il fatto di avere una forma,
ha anche una funzionalità (o valenza) culturale. Esso ha una relazione con i valori estetico-formali (culturali) degli individui e della collettività. A sua volta, anche
la dimensione territoriale degli elementi fondo - vale a dire, la relazione spaziale
che si stabilisce tra tali elementi come conseguenza della loro collocazione nello
spazio (geografico) -, oltre ad avere una valenza economica, ha una valenza culturale. La valenza economica è data dall’energia e dal tempo (costo) necessari
per muoversi da un elemento fondo all’altro per coordinare i movimenti del
corpo (e degli altri elementi fondo mobili) con gli elementi fondo fissi utilizzati
nei singoli processi (nonché per far interagire gli elementi fondo con gli elementi flusso). La valenza culturale sta nel fatto che l’insieme degli elementi
fondo – e non soltanto i singoli elementi – ha una forma e, come tale, è oggetto di un processo di valutazione estetica. Si può considerare l’urbanistica come
la disciplina che si occupa della dimensione territoriale del capitale – spesso difficile da scindere dalla considerazione degli aspetti formali del capitale (cfr.
Secchi 1989).
Funzionalità tecnica e funzionalità formale sono due attributi intrinseci degli
strumenti esosomatici utilizzati nel processo economico. La relazione tra queste
due dimensioni è molto complessa, dato che la ricerca dell’autonomia (relativa)
della forma dalla funzionalità tecnica è un dato comune a tutte le comunità,
anche quelle con un processo economico ai limiti della sussistenza. In economia,
queste due dimensioni vengono separate. Tuttavia, la scelta della forma ha un
significato economico poiché ogni forma ha uno specifico costo-opportunità.
Per quanto possa essere utile separare la funzionalità tecnica da quella formale,
il perseguimento dell’obiettivo della conservazione del paesaggio, ad esempio,
costringe a considerare congiuntamente le due dimensioni nell’ambito della progettazione delle politiche di regolazione. In effetti, la pianificazione deve spiegare e, per quanto possibile, regolare la relazione dinamica che si stabilisce tra funzionalità tecnica e funzionalità formale.
I sistemi semi-naturali come capitale
Il concetto di “elemento fondo” deve essere esteso allo scopo di contenere
anche i “sistemi semi-naturali”. Oltre ad “oggetti” come un edificio, un tornio, un
divano o un coltello – e, anche, un robot – , il processo economico si basa sul
29
n.1 / 2000
5
Per questa interpretazione del concetto di
sistema vedi Miller
(1986).
6
La rilevanza dei cambiamenti dell’ambiente del sistema per il
funzionamento del
sistema stesso si può
esprimere attraverso il
concetto di auto-ecoorganizzazione (vedi
Morin 1993).
7
In eccesso rispetto
all’ammontare di
materia-energia specifica necessario per
mantenere l’organizzazione che il sistema
deve avere (per essere
la base del processo
economico di riferimento).
30
funzionamento di specifici sistemi semi-naturali.
Che la produzione si basi su “sistemi” e non solo su “oggetti” è un fatto evidente. Si deve tuttavia distinguere, almeno a questo livello di descrizione, tra sistemi artificiali come un robot – o qualsiasi altro sistema di controllo automatico –
e sistemi semi-naturali come un campo di grano o un prato-pascolo. Questa
distinzione permette di evidenziare come il processo economico debba essere
sincronizzato con l’attività di organizzazione della materia dei sistemi semi-naturali precedentemente creati attraverso atti di investimento. Un campo di grano,
un albero da frutto o un allevamento zootecnico generano materia organizzata
secondo una propria scansione temporale. Sono sistemi semi-naturali creati da
processi di investimento e stabilizzati da interventi di manutenzione (vedi
Bätzing 1987).
In quanto sistemi, essi si caratterizzano per la loro capacità di generare processi
di trasformazione di materia/energia e informazione5. Sono sistemi artificiali nel
senso che la loro organizzazione corrisponde ad un progetto e la loro esistenza
ad azioni umane di investimento (e manutenzione). Sono, tuttavia, sistemi seminaturali perché, una volta in essere, sono in grado di generare autonomamente
i processi di trasformazione di materia desiderati. Tuttavia, non sono capaci di
auto-organizzarsi dal punto di vista delle esigenze umane, vale a dire se valutati
in termini della funzionalità rispetto ai processi economici della materia che produrrebbero. Infatti, i processi che essi generano mantengono i caratteri desiderati soltanto attraverso a) una manutenzione dei loro elementi costitutivi e b)
una stabilizzazione dell’ambiente del sistema6. Interventi di manutenzione finalizzati alla stabilizzazione interna ed esterna devono essere effettuati su tali sistemi affinché essi mantengano l’organizzazione desiderata – e producano materia/energia nella quantità e qualità desiderata (cfr. Bätzing 1987). In assenza di
questi interventi essi evolvono, seguendo sentieri propri, verso il loro stato di climax (Odum 1988).
Analogamente agli altri elementi fondo, i sistemi semi-naturali contribuiscono al
processo di organizzazione della materia finalizzato al soddisfacimento dei desideri degli individui. Da questo punto di vista, sono elementi del capitale: il risultato, cioè, di un processo di investimento. In effetti, il processo di accumulazione (e de-accumulazione) non riguarda soltanto il capitale artificiale ma anche il
capitale semi-naturale. Per molti secoli, finché l’agricoltura è stata l’attività economica prevalente, l’accumulazione (e manutenzione) di capitale semi-naturale
ha costituito la quota maggiore dell’investimento.
Dalla prospettiva analitica del presente saggio, si deve sottolineare come anche
i sistemi semi-naturali abbiano una forma e occupino una regione nello spazio.
Da questo punto di vista, quindi, non si distinguono da altri elementi fondo
come una poltrona, un tornio o un robot: hanno, allo stesso tempo, una funzionalità tecnica - data dalla qualità e quantità della biomassa (o dell’informazione)
in eccesso che generano7 - e una funzionalità formale. Essi sono, evidentemente,
il riflesso di esigenze tecniche e di esigenze estetico-formali: la forma dei sistemi
semi-naturali è stata estesamente studiata da questa prospettiva (vedi, tra gli altri,
Hoskins 1955; Sereni 1987; Bell 1999).
Analogamente a qualsiasi altra categoria di elementi fondo artificiali, la relazione
che si stabilisce tra questi due livelli può avere un fondamento nei valori dell’in-
Antonio Calafati
Il capitale come paesaggio
dividuo oppure un fondamento normativo, vale a dire essere vincolata da norme
formali che sono scaturite da una decisione collettiva.
Il capitale come paesaggio
Il nostro sistema cognitivo percepisce “oggetti” e “insiemi di oggetti”; percepisce
unità e relazioni tra unità (Bell 1999). Ogni insieme di oggetti percepito nella sua
unitarietà - vale a dire, congiuntamente alle relazioni tra i singoli oggetti - può
essere definito un “paesaggio”. Il concetto di paesaggio ha una straordinaria
estensione di significato perché si può riferire ad ambiti spaziali che di volta in
volta il nostro sistema cognitivo percepisce come “una unità” o i nostri sistemi
categoriali identificano come “una unità”. Si tratta di una scelta che può avere un
fondamento cognitivo o un fondamento scientifico - e, come tale, essere il prodotto di una valutazione collettiva consapevole rispetto a criteri prescelti (come,
ad esempio, nella classificazione dei paesaggi che viene condotta nell’ambito dei
processi di decisione collettiva).
L’aggregato di elementi fisici che costituisce un laboratorio – il tavolo, la libreria,
la stampante e così via – è un paesaggio. Quando cambio la disposizione di tali
elementi o, attraverso l’investimento (e il dis-investimento), la forma e la quantità di tali elementi, cambio un paesaggio. Allo stesso modo, il reticolo dei campi,
i manufatti agricoli e gli alberi da frutto che si vedono attraverso la finestra del
laboratorio sono un paesaggio. E, quando un frutteto viene impiantato oppure
eliminato (o semplicemente abbandonato), il paesaggio cambia.
Il paesaggio emerge dalla forma degli oggetti e dalla loro disposizione spaziale,
la quale stabilisce una relazione tra forme. Come conseguenza della sua dimensione formale, il paesaggio è oggetto di un processo di valutazione – e attribuzione di valore – che è indipendente dalla sua funzionalità tecnica – quella dei
suoi singoli elementi. Naturalmente, tra funzionalità tecnica e funzionalità formale esiste un trade-off che concorre alla definizione del contesto della scelta.
Questa relazione complessa e aperta tra funzionalità tecnica e valore estetico-formale riferita agli elementi fondo e agli aggregati di elementi fondo sembra essere presente in tutte le culture e si manifesta anche nelle società che hanno un
processo economico appena sopra il livello di sussistenza. In molte società del
passato tale relazione è stata un elemento costitutivo dei meccanismi di utilizzazione del surplus (cfr. Pearson 1978). Benché in forme diverse, tale relazione è
fondamentale per spiegare la struttura del processo di accumulazione nelle
società contemporanee.
Partendo dal concetto di “paesaggio” si può affermare che ogni processo economico – vale a dire, ogni trasformazione di materia/energia (e informazione)
intenzionalmente realizzata dall’uomo – presuppone un paesaggio. Ogni azione
economica richiede la pre-esistenza di una aggregazione di elementi che, oltre
ad avere una funzione con riferimento alla tecnologia esistente, hanno una
forma e una disposizione spaziale – e, quindi, hanno un valore estetico8. Da questa prospettiva, il “paesaggio” e il “capitale” costituiscono due livelli di descrizione diversi dello stesso “oggetto” – ma il paesaggio contiene il concetto di capitale. A costituire la base di partenza del processo economico – e l’esito delle
decisioni di accumulazione – è un “paesaggio” e non semplicemente un insieme
8
La prospettiva funzionalista ha sottolineato
l’importanza della
funzione dell’oggetto
ma, certamente, non
ha negato la rilevanza della forma dell’oggetto stesso. Il movimento “Bauhaus”, ad
esempio, ha costituito
uno dei momenti più
alti della riflessione
sul rapporto tra funzione e forma dell’oggetto (cfr. Van de
Velde 1966).
31
n.1 / 2000
di beni capitali.
Relativamente ad un dato insieme di elementi fisici, il concetto di “capitale”
coglie, dunque, come affermato in precedenza, la sua funzionalità tecnica, mentre il concetto di “paesaggio” incorpora anche la sua funzionalità culturale, cioè
la sua capacità di soddisfare i bisogni estetici degli individui (cfr. Bell 1999). Di
conseguenza, si deve interpretare il “processo di investimento”, uno dei fenomeni economici fondamentali, non solo come “accumulazione di elementi
fondo” bensì anche come “costruzione del paesaggio”. Ogni atto di investimento, introducendo un nuovo elemento fondo o un nuovo sistema semi-naturale,
modifica il paesaggio – incrementando lo stock di capitale o sostituendo un elemento del capitale preesistente. Ogni atto di investimento modifica le relazioni
spaziali e, molto spesso, anche la varietà delle forme degli oggetti presenti in un
dato spazio. Pertanto, ogni atto di investimento viene effettuato sullo sfondo di
una costellazione di tecnologie, di prezzi relativi e di valori estetico-formali.
Analogamente, ogni atto di manutenzione, da una parte, è orientato a mantenere la funzionalità tecnica dell’elemento fondo e, dall’altra, agisce sulla funzionalità estetico-formale (mantenendola o alterandola).
Le economie, ovvero i processi di organizzazione della materia costituiti dalle
azioni economiche, presuppongono paesaggi e non solo materia/energia (e
informazione). E i paesaggi dell’economia hanno una funzione estetico-formale
che non è riconducibile alla loro funzione tecnologica. L’efficienza nella trasformazione di materia (sullo sfondo del sistema di equivalenze che vincola le transazioni) non costituisce il criterio generale nella scelta della forma (e della disposizione) degli elementi fondo e, quindi, nella costruzione del paesaggio. I valori
estetico-formali degli elementi del paesaggio hanno un grado (variabile ma spesso elevato) di autonomia dalla funzionalità tecnica (espressa in termini di efficacia e, in alcuni casi, di efficienza).
In molte società, la comparsa del surplus – la sua stessa definizione – è una
manifestazione individuale e collettiva di tale grado di autonomia. Le grandi cattedrali gotiche e i musei d’arte moderna sono due esempi eclatanti – per quanto lontani nel tempo l’uno dall’altro – dell’autonomia della funzionalità culturale dalla funzionalità tecnica. Ma, ogni atto di investimento si caratterizza per un
certo grado di autonomia. L’investimento e la manutenzione sono, in effetti,
momenti di transizione culturale e non solo tecnologica.
Da questo punto di vista, il concetto di “paesaggio” è dunque più utile, in molti
contesti di progettazione di politiche economiche, di quanto non lo sia il concetto di “capitale”. Esso permette di contemplare il significato di uno dei fenomeni sociali fondanti di ogni società: la rilevanza della forma e della disposizione
spaziale dei beni capitale utilizzati nei processi di produzione e auto-produzione.
Si tratta di una rilevanza che ha un significato economico anche perché le classi
di forme e disposizioni spaziali tra cui gli agenti scelgono - pur quando sono
opzioni neutrali in termini tecnologici - hanno un costo-opportunità molto
diverso.
Capitale, paesaggio, natura
Oltre alla dimensione formale, ogni paesaggio ha una dimensione naturale (o
32
Antonio Calafati
Il capitale come paesaggio
ecosistemica). Ogni paesaggio ha, allo stesso tempo, un valore formale e un valore ecosistemico (Naveh e Lieberman 1984; Odum 1988). Uno spazio geografico,
comunque delimitato, può ospitare sistemi umani – con il capitale e gli stock di
materia necessari per il processo economico. Ma, praticamente sempre ospita
sistemi biotici in genere. Ogni spazio geografico è quindi descrivibile in termini
della sua biocenosi che, a sua volta, può essere valutata nel suo significato culturale (o simbolico) o nel suo significato ecosistemico (ad esempio, con riferimento al grado di diversità biologica).
Lo spazio geografico – direttamente antropizzato o non – ha comunque una
dimensione naturale, poiché ospita comunità biotiche che si auto-organizzano e
che non sono risorse, vale a dire materia (vivente) utilizzata al momento dell’osservazione nei processi economici che avvengono nello spazio geografico di riferimento9. Ogni paesaggio ospita processi biologici (naturalità) che sono disconnessi - a volte solo apparentemente - dal processo economico che in quel paesaggio si svolge10. Queste comunità biotiche possono avere un valore culturale
(simbolico) o ecosistemico molto diverso – ma sono, comunque, natura.
I caratteri formali di un paesaggio costituiscono un rilevante punto di partenza
per valutare i caratteri ecosistemici del paesaggio stesso. Una siepe è una forma
e, allo stesso tempo, un ecosistema. Le informazioni sulla forma sono anche
informazioni sull’ecosistema contenuto nella parte di spazio geografico considerato. Tuttavia, dalla “forma” non si può passare alla “natura”. Vi sono, ad esempio, dei caratteri geo-fisici che non sono forma ma sono fattori causali delle biocenosi. Certamente, i cambiamenti (nella forma) del paesaggio, soprattutto per
quanto concerne i sistemi semi-naturali, hanno una connessione con lo stato e
l’evoluzione dei sistemi biotici presenti in quello spazio geografico. Un campo in
rotazione grano-erba medica che si rinaturalizza cambia non solo la sua forma e il suo valore estetico - ma anche la sua dimensione ecosistemica: appena inizia
la transizione, mutano le specie che in quello spazio si riproducono e si autoorganizzano.
In relazione alla dimensione ecosistemica del paesaggio, si deve considerare
anche un altro fondamentale aspetto. Data la forma dello spazio geografico e dati
i suoi caratteri geo-fisici generali (e la sua storia evolutiva), lo stato e l’evoluzione dei sistemi biotici in esso presenti sono influenzati anche dal flusso di materia/energia che per unità di tempo circola nello spazio di riferimento come conseguenza delle azioni economiche. La materia/energia estratta e immessa – con
riferimento alla sua quantità e alla sua qualità – interferisce con il funzionamento degli ecosistemi (o dei processi biologici in genere). Tale interferenza può
restare al di sotto della soglia critica per le capacità di resilienza e resistenza degli
ecosistemi, oppure determinare alterazioni irreversibili (Odum 1988). Ne consegue, quindi, che non si deve considerare soltanto il modo in cui il processo economico – attraverso l’investimento – cambia la forma del paesaggio, ma anche
come il processo economico – attraverso la manipolazione degli elementi flusso
che avviene nel corso del processo di produzione – trasforma (o pone sotto
stress) la natura del paesaggio.
Nell’ultimo decennio vi è stato un radicale cambiamento nell’interpretazione del
valore naturale (“grado di naturalità”) dello spazio geografico. Da un’iniziale
attenzione alla presenza (e stabilità) di determinate specie, conseguente al valo-
9
Il fatto che tale materia non sia utilizzata
al momento dell’osservazione non significa
che non lo possa essere in futuro, come
conseguenza di cambiamenti dei valori
e/o della tecnologia
prevalenti.
10
In effetti, i processi
biologici retroagiscono sul processo economico influenzando
direttamente il metabolismo degli uomini
(cfr. Commoner 1986).
33
n.1 / 2000
11
Spesso – e, forse, per
definizione – le specie
simboliche prosperano
negli spazi geografici
non antropizzati –
nelle aree di wilderness –, e la loro conservazione è garantita
dal mantenere (relativamente) inaccessibili
tali aree.
re simbolico (culturale) ad esse assegnato dalla collettività, si è passati ad attribuire un valore alla diversità biologica in quanto tale – e, quindi, all’obiettivo che
in un dato spazio geografico tale diversità perlomeno si mantenga nel tempo.
Ciò ha determinato un mutamento nel concetto di conservazione della natura e
ha modificato, accrescendola, la rilevanza della relazione tra azioni economiche
e paesaggio11. Lo spostamento di attenzione sulla diversità biologica rende un
prato-pascolo importante almeno quanto una foresta – e la zona di ecotono che
li separa più importante di entrambi – ai fini dell’obiettivo della conservazione
della natura.
L’interpretazione dello spazio geografico presenta, dunque, una complessità che
è data dall’intersezione tra dimensione formale e dimensione ecosistemica di
tale spazio. Sono proprio le relazioni tra le due dimensioni a suggerire l’utilizzazione di categorie interpretative che integrino i due livelli di analisi (e di intervento). Infatti, con riferimento ad un dato spazio geografico, l’obiettivo della
conservazione si esprime ad entrambi i livelli. Uno sguardo storico all’evoluzione del concetto di conservazione evidenzia come le strategie di conservazione
abbiano avuto come oggetto sia i caratteri ecosistemici che i caratteri formali del
paesaggio. Tuttavia, ponendo l’accento sul carattere della biodiversità, i due livelli di analisi possono essere logicamente trattati in modo separato. La biodiversità può essere infatti mantenuta anche sullo sfondo di un processo di degenerazione delle forme. Viceversa, si può distruggere una parte rilevante della biocenosi di un certo spazio geografico senza cambiarne la forma. Il grado di intersezione tra questi due livelli deve essere un importante argomento di scelta nell’ambito delle strategie di conservazione.
Agenti e paesaggio
L’interpretazione del paesaggio è un processo complesso che può essere condotto secondo un’ampia varietà di criteri (vedi, ad esempio, Bell 1999; TricartKilian 1989). Qualsiasi sia la categoria utilizzata per concettualizzare il paesaggio,
essa non è il punto di partenza di una spiegazione del paesaggio e dei suoi cambiamenti. Infatti, benché il cambiamento si manifesti a livello di paesaggio, esso
non ha origine a tale livello. Nel caso di paesaggi umani, i caratteri del paesaggio
ad un dato momento nel tempo non costituiscono un’informazione sufficiente
per ricostruirne la storia e per identificare le tendenze evolutive del paesaggio
stesso - come invece avviene, in genere, per gli spazi geografici naturali (gli spazi
geografici naturali possiedono una loro dinamica autonoma - implicita nel concetto di climax).
Per gli spazi geografici artificiali e semi-naturali è necessario partire dai caratteri
del processo economico che in esso si svolge e dai mutamenti che in tale processo si manifestano nel tempo. Ma, i caratteri del processo economico (locale)
dipendono dai caratteri del sistema (locale) che lo genera. A sua volta, l’analisi
dell’evoluzione dei sistemi locali - e degli effetti sul paesaggio di tale evoluzione
- deve partire dallo studio del processo economico degli agenti individuali. Con
riferimento al tema della conservazione, l’unità di analisi fondamentale è costituita dalla relazione tra agenti individuali e paesaggio al quale il loro processo
economico è ancorato attraverso la struttura dei diritti di proprietà. Tuttavia, le
34
Antonio Calafati
Il capitale come paesaggio
transazioni verticali sono interconnesse tramite la tecnologia, i prezzi, le metapreferenze, la conoscenza e altri fattori ancora, alle transazioni orizzontali. Non
si possono quindi analizzare le transazioni verticali – le relazioni, cioè, che
costruiscono il paesaggio – senza esaminare unitariamente il comportamento
degli agenti.
Un agente (o “unità antropica minima”) può essere definito come un’unità
mente-corpo o mente-organizzazione capace di generare processi finalizzati al
raggiungimento dei propri obiettivi (cfr. Bateson 1979). Pertanto, si può descrivere ogni agente sulla base degli stati desiderati che realizza o intende realizzare
per unità di tempo e per la tecnologia che utilizza per conseguire tali stati - compresi, quindi, la materia che trasforma nel processo di produzione e gli strumenti
che utilizza per effettuare tale trasformazione. Nei sistemi sociali moderni, tale
unità opera sulla base di un dato sistema di diritti di proprietà individuali (e collettivi), il quale identifica il capitale e i flussi di materia/energia e informazione
che essa può utilizzare nel processo economico. In effetti, quando un agente
svolge il processo economico in un contesto di interazione sociale, la scala e la
struttura delle trasformazioni di materia/energia e informazione che effettua
sono innanzitutto vincolate dal suo sistema di diritti di proprietà (e poi, certamente, dalla sua conoscenza). I diritti di proprietà pongono l’agente in condizione di decidere che tipo di transazioni verticali (e orizzontali) stabilire – sullo
sfondo del sistema di norme formali pertinenti.
I diritti di proprietà identificano anche le “unità territoriali (minime)” alle quali è
ancorato il processo economico degli agenti - e nell’ambito delle quali si manifesta, in primo luogo, il cambiamento della scala e della tecnologia. In effetti, i
diritti di proprietà individuali e collettivi12 articolano lo spazio geografico per
parti (“unità territoriali minime”) che sono l’ancoraggio delle transazioni verticali del processo economico.
L’identificazione tra diritti di proprietà e unità territoriali minime è un punto di
partenza fondamentale per spiegare i caratteri che il paesaggio presenta in un
dato momento. A questo scopo è infatti necessario considerare, in termini di
unità territoriali, il processo economico degli agenti che su quel territorio hanno
esercitato un diritto di proprietà nel periodo t-k. Per interpretare (e spiegare causalmente) i caratteri del paesaggio si deve quindi micro-fondare il paesaggio stesso, ovvero esprimerlo in termini del processo economico associato a quello spazio. Ma, poiché lo spazio geografico viene articolato attraverso le categorie utilizzate per interpretarlo, da una prospettiva analitica (e operativa) ciò che si deve
micro-fondare sono le partizioni dello spazio (ad esempio, le “unità di paesaggio” o le “unità ambientali”) di volta in volta utilizzate per descriverlo. Si devono,
cioè, connettere le unità territoriali minime alle unità di paesaggio.
Nel modificare – attraverso il processo economico o attraverso cambiamenti del
processo economico – l’unità spaziale che costituisce la base del processo economico stesso, l’agente modifica, per definizione, il paesaggio. In primo luogo,
modifica il suo paesaggio privato, quello sul quale si estendono i suoi diritti di
proprietà. Ma, di fatto, modifica anche il “paesaggio sociale” - così come emerge
dall’interpretazione individuale e collettiva. A livello di funzionalità formale del
paesaggio vi sono soltanto beni sociali. Anche i paesaggi che sembrano avere un
carattere eminentemente privato – come l’interno di un’abitazione – hanno
12
I diritti di proprietà
collettivi possono
appartenere all’intera
collettività di riferimento (lo Stato, il
comune, ecc.) oppure
ad un sottoinsieme di
essa (le “comunanze”). Questa seconda
categoria di diritti di
proprietà collettivi è
stata per secoli molto
rilevante sul piano
pratico e costituisce
una interessante via
di uscita ai problemi
posti dai “beni comuni” (Ostrom 1990).
Nelle aree montane
italiane, le comunanze hanno avuto in
passato una grande
rilevanza - e potrebbero tornare ad averla.
35
n.1 / 2000
comunque un carattere sociale.
I diritti di proprietà su una data unità spaziale implicano anche la possibilità dell’innovazione. Il sistema dei diritti di proprietà garantisce all’individuo (e ad ogni
altra organizzazione intermedia) la possibilità di introdurre delle innovazioni
nelle transazioni verticali. In effetti, il sistema delle norme formali che in ogni
società orienta l’azione degli individui lascia ampi margini all’innovazione individuale (cfr. Witt 1996). Innanzitutto, le norme formali nelle quali l’azione è incastonata sono spesso soltanto un contesto per la progettazione: all’interno di tale
contesto l’innovazione tecnologica e l’innovazione nelle forme si possono esprimere liberamente (cfr. Gambino 1997). In secondo luogo, il sistema normativo
non copre tutti gli ambiti dell’azione umana: esistono, quindi, azioni potenziali
per le quali non vi è un contesto normativo di riferimento.
L’innovazione nei processi economici degli agenti si manifesta in cambiamenti
nelle unità territoriali minime. Ma, la relazione tra innovazione individuale e paesaggio (sociale) ha un carattere emergente e non è riducibile alla somma delle
relazioni tra innovazioni individuali e paesaggi minimi. Le innovazioni individuali, infatti, oltre ad avere effetti diretti generano effetti indiretti - e ritardati - sul
paesaggio. Gli effetti indiretti sono dovuti alla propagazione e diffusione dell’innovazione iniziale. Propagandosi e diffondendosi, le innovazioni individuali
modificano il processo economico di altri agenti e, a loro volta, modificano le
corrispondenti unità di paesaggio.
Per determinare le modificazioni del paesaggio da una prospettiva dinamica, l’analisi deve spostarsi dal singolo agente al sistema locale di cui l’agente fa parte.
Infatti, soltanto a livello di sistema locale emergono gli effetti globali dei cambiamenti individuali, i quali si manifestano come conseguenza di processi di propagazione e diffusione delle innovazioni individuali e collettive.
I sistemi locali come sistemi progressivi
13
Sul concetto di sistema locale cfr.
Dematteis (1994,
1989).
36
L’evoluzione del sistema locale ha origine dall’interazione tra gli effetti delle
innovazioni dei singoli agenti. Una parte di queste innovazioni sono indotte dai
cambiamenti dell’ambiente del sistema locale, costituito dai sistemi locali con i
quali il sistema locale di riferimento mantiene relazioni orizzontali. Le interazioni tra gli agenti – qualunque sia la loro natura: transazioni di materia/energia,
scambio di informazione, interferenze – hanno una dimensione locale. In effetti, l’interazione sociale tende ad organizzarsi per “sistemi locali”, vale a dire per
sistemi umani ancorati ad uno specifico e delimitato territorio. La città è la manifestazione più evidente di questa tendenza. Ad una scala diversa lo è anche un
nucleo montano.
Un sistema locale è costituito da un insieme di agenti fra cui si stabilisce una corrispondenza tra contiguità spaziale dei loro processi economici e frequenza delle
interazioni sociali. In esso, una parte significativa delle interdipendenze è inscindibile dalla contiguità spaziale dei processi economici (e sociali in genere) dei
singoli agenti13.
Un sistema locale contiene, dunque, una rete di interdipendenze economiche
(oltre che sociali). Tale rete struttura la diffusione e la propagazione – in definitiva, gli effetti globali (emergenti) – delle innovazioni individuali e collettive.
Antonio Calafati
Il capitale come paesaggio
Sulla base di questa rete si diffondono e si propagano le innovazioni individuali
nei processi economici, e l’innovazione si trasforma in evoluzione del sistema
locale. L’innovazione individuale e collettiva rende un sistema locale un “sistema
progressivo” (vedi Waddington 1977): il sentiero evolutivo del sistema dipende
dalle modalità di diffusione e propagazione dell’innovazione che, a loro volta,
dipendono dalla rete di interdipendenze che caratterizza il sistema locale e delle
sue relazioni con l’ambiente.
In economia esistono due fondamentali coppie di categorie rispetto all’analisi
del cambiamento (e, quindi, al significato del tempo) nei modelli interpretativi.
La prima opposizione è tra “sistemi stazionari” e “sistemi dinamici”; la seconda utilizzata in questo saggio - è tra “sistemi stazionari” e “sistemi progressivi”. La
prima dicotomia è alla base della teoria della crescita economica standard; la
seconda è alla base della teoria dello sviluppo economico (o teoria dell’evoluzione economica se si preferisce).
Mentre i modelli dinamici in economia pongono l’attenzione quasi esclusivamente sul cambiamento della scala del processo economico (e sull’efficienza del
capitale), i modelli di sistemi progressivi pongono l’attenzione sui mutamenti
della “organizzazione” dei sistemi che generano il processo economico (cfr.
Boulding 1968; Dopfer 1991; Hirschman 1958).
Un sistema progressivo può mutare come conseguenza di cambiamenti che si
manifestano in uno qualsiasi degli elementi che lo compongono e per effetto di
sequenze causali orientate diversamente caso per caso (cfr. Boudon 1985;
Dopfer 1991; Hirschman 1958; Morin 1993). Non solo la scala e la tecnologia del
processo economico possono cambiare; cambiano anche i valori sui quali gli
agenti individuali e collettivi basano la loro valutazione dei caratteri formali del
paesaggio.
L’innovazione individuale - che necessariamente si esprime anche in termini di
cambiamento di paesaggio - è dunque rilevante in sé e per gli effetti emergenti
che essa genera propagandosi o diffondendosi nel sistema. Dati la rete delle
interdipendenze e il tempo necessario alla propagazione di ciascuna innovazione - e il fatto che ciascun agente è potenzialmente un innovatore -, in ogni
momento il sistema si muove sotto la spinta di sequenze causali diverse – alcune delle quali dominanti – che tengono il sistema costantemente lontano dalla
stazionarietà (Lindblom e Hirschman 1962).
L’analisi delle sequenze circolari di effetti causali (“causalità circolare cumulativa”) e delle sequenze lineari di effetti causali prodotti dagli interventi di regolazione sono fondamentali per interpretare l’evoluzione del comportamento degli
agenti e del sistema locale nel suo complesso. Ma, tale analisi può essere condotta soltanto assumendo un contesto relazionale spazialmente delimitato entro il quale ricostruire le reti di sequenze di effetti causali -, costituito, appunto, dal sistema locale di riferimento.
Conclusioni
Le nostre economie sono economie di paesaggi: processi economici che si alimentano e si basano sulla materia che viene organizzata dall’azione umana sia in
senso tecnologico che culturale e che si cristallizzano in “elementi fondo”.
37
n.1 / 2000
L’azione umana non è pensabile senza un paesaggio precedentemente costruito
dall’azione umana stessa. La territorializzazione – ovvero, la collocazione nello
spazio (geografico) degli elementi fondo – è un atto fondante, per ogni
Robinson Crusoe e per ogni comunità.
L’enfasi sulla sola funzionalità tecnica degli strumenti che utilizziamo per produrre e autoprodurre è un ostacolo alla comprensione dei processi di accumulazione del capitale e dei processi di costruzione del paesaggio. La tesi secondo
cui la territorializzazione si produca e si riproduca sulla base di un “calcolo economico ristretto” è il residuo di una concezione meccanicistica della vita sociale,
priva di ogni fondamento. Si tratta di una tesi che è di ostacolo alla comprensione dei meccanismi di funzionamento delle società e delle loro economie e che,
per questo, deve essere abbandonata.
L’equilibrio tra scelte private e scelte collettive nella sfera della funzionalità formale del capitale – e, quindi, i vincoli e le possibilità da assegnare alle decisioni
di accumulazione del capitale – è un tema centrale in tutte le società antiche e
moderne. La centralità del tema, naturalmente, è un riflesso dell’equilibrio che
gli individui ricercano tra funzionalità formale e funzionalità tecnica del capitale
(paesaggio) che pongono alla base dei loro processi economici. Che in molte
economie moderne questo equilibrio si sia infranto è un dato evidente alle stesse società prima che all’analista (in Italia l’equilibrio ha iniziato ad infrangersi a
partire dagli anni Cinquanta con una rapidità stupefacente). Ora che il tema assume un rilievo nei processi di decisione collettiva, l’economia e le altre discipline
sociali dovrebbero dedicare l’attenzione dovuta alla relazione tra capitale e paesaggio.
L’attenzione oggi posta sul tema dello sviluppo locale costringe ad ancorare ad
uno specifico territorio – ad un’economia e ad una cultura – la relazione tra funzionalità tecnologica e funzionalità culturale del capitale-paesaggio. Ma i sistemi
locali sono diversi anche in questo, ovvero nel grado di consapevolezza che essi
hanno della relazione tra dimensione tecnologica e dimensione culturale del
loro paesaggio – e dell’importanza che ad essa attribuiscono.
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_________________
Antonio Calafati dell’ Università degli Studi di Ancona - Dipartimento di
Economia - http://calafati.econ.unian.it
attualmente presso: Max Planck Institute for Research Into Economic Systems,
Jena (Germany) http://www.mpiew-jena-mpg.de)
[email protected]
39
n.1 / 2000
Pier Luigi Crosta
Società e territorio, al plurale. Lo “spazio pubblico” quale bene pubblico - come
esito eventuale dell’interazione sociale
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
I. INTRODUZIONE: COSA C’È NEL TITOLO (E NELLE NOTE CHE SEGUONO).
Il tema che mi propongo di trattare, è lo spazio pubblico. Il punto di partenza è
una critica della nozione “urbanistica” di spazio pubblico, che è diffusa tra tecnici, politici e amministratori locali (e che per questa via è diventata di senso comune). Per essa, “pubblico” è - sostanzialmente uno spazio per l’uso collettivo (in
opposizione a “privato”) che - proprio perché l’uso non ne presuppone l’appropriazione individualistica da parte di chi lo usa (com’è per lo spazio privato) - si
considera destinato (e predisposto) all’uso collettivo da una qualche autorità
pubblica.
È questa duplice connotazione pubblica, che rende attaccabile la nozione urbanistica di spazio pubblico. Su un doppio versante: da un lato, quello del rapporto tra territorio e società; dall’altro, quello del rapporto tra società e Stato.
La connessione territorio/società/Stato è stata esplorata - spesso per parti, a volte
con qualche significativa convergenza - da studiosi con tradizioni disciplinari differenti. Due paradigmi - l’uno relativo alla forma del rapporto tra territorio e
società, l’altro, alla forma del rapporto tra società e Stato - possono essere considerati indicativi della convergenza di approcci disciplinari diversi, in un’ottica
di “politiche pubbliche del territorio”.
Il primo paradigma - che qui chiamo “della domanda politica” - riguarda il rapporto tra società e Stato, assumendo (con riferimento più generale alle politiche
di welfare) che la società deve attendersi dall’intervento dello Stato la definizione, il trattamento e la soddisfazione di quelle tra le sue esigenze (rappresentate
allo Stato, appunto, nella forma di “domande”) che il sistema politico (che organizza e media queste rappresentazioni) riconosce, in un qualche modo, “di pubblico interesse”. Questo paradigma afferma dunque la dipendenza della società
dallo Stato (che riduce la società, a “domanda sociale”) (Crosta 1984), escludendo che la società possa attivarsi, in un qualche modo, per trattare da sé, i propri
40
Pier Luigi Crosta
Società e territorio, al plurale.
problemi. Più precisamente, il paradigma è caratterizzato dalla convinzione che
sia “scorretto” attribuire la soluzione di problemi “collettivamente percepiti” alla
“diretta interazione fra individui” (Dunn 1981 – citato da Giuliani 1996, 321).
La posizione espressa da questo paradigma è stata messa in crisi, inizialmente,
argomentando la “crisi di legittimazione” (Habermas 1979) dello Stato (e del
sistema politico) “ad agire in nome e per conto dell’intera società”. In discussione, quindi, è il ruolo dello Stato nella definizione e nella gestione dell’interesse
generale (pubblico) e non la problematicità della pretesa (comunque avanzata)
di definire in termini unitari o unificabili, l’interesse generale dell’intera società
(di qui, la proposta e la sperimentazione di forme “più partecipate” - meno autoritarie - di costruzione dell’interesse generale, con l’obbiettivo di restituire efficienza all’intervento dello Stato che - comunque - “vede e provvede” in relazione ai bisogni dell’intera società).
Non riducibile ad una crisi - in definitiva - di efficienza, è quella che investe il rapporto tra Stato e società “delle differenze”: che è se si vuole caratterizzata dalla
“pluralizzazione dei mondi vitali … (e dal) pluralismo di tutte le forme organizzative e istituzionali entro cui gli individui vivono” (Donolo 1992, 121). E nella
quale, di conseguenza, è centrale il problema della pluralizzazione della nozione
di pubblico, che mi sembra opportuno affrontare (così sostengo più avanti in
queste note) nella prospettiva della “Selfguiding society” (Lindblom l990).
Centrale in questa prospettiva, è l’ipotesi che la società provveda “da sé per sé”
al trattamento dei propri problemi, nella misura in cui essa stessa li percepisca
come “pubblici”.
Il secondo paradigma che mi propongo di discutere, è quello “dell’uso del territorio”, che in sostanza sostiene che “il territorio, è l’uso che se ne fa”. Questo
paradigma (nelle sue diverse varianti: fondamentale è quella “dell’uso capitalistico del territorio”) (Preteceille 1974; Calabi e Indovina 1973) si propone autorevolmente come base dell’orientamento pratico che considera il territorio in funzione dell’intervento di trasformazione del territorio. Si tratta di un approccio
non-naturalistico: il territorio non è considerato un dato (fisico-geografico) che
possa essere descritto indipendentemente dall’uso che se ne fa (e che se ne vuol
fare); bensì viene considerato un costrutto - un prodotto sociale (Lefebvre 1974) -.
È l’insieme delle relazioni d’uso, e delle regole (che sono sociali, economiche …
socialmente definite) che orientano, finalizzano, danno senso e governano tali
relazioni, e che sono incorporate nel territorio quale si presenta all’osservazione
empirica - il territorio è un dispositivo, ricorrendo ad un termine introdotto da
Foucault (1994) -.
Ciò che mi sembra da ritenere - riconsiderando questo paradigma (Soja 1985) è
l’assunto, in definitiva funzionalista, della produzione sociale dello spazio, se
però considerato nella sua dimensione strategica. Detto altrimenti, se le relazioni e le regole d’uso vengono riguardate come prodotto di pratiche sociali “storiche”: cioè, prodotte, riprodotte, cambiate e continuamente risignificate nel
corso del tempo, nei processi d’interazione sociale. E non sono viste come
espressione di logiche e principi astratti, rispondenti a logiche la cui determinazione è tipicamente posta fuori dalla portata dei soggetti delle pratiche sociali,
ridotti al ruolo di agenti supporto di relazioni che li trascendono (è questa la logica - nel paradigma dell’uso capitalistico del territorio - dei “rapporti di produzio-
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ne”).
Una tale connotazione astratta del paradigma, trova riscontro in una concezione
inevitabilmente unitarista - “al singolare” - del territorio come prodotto sociale:
mentre in una società delle differenze (sostengo ulteriormente in queste note)
non solo sono differenti gli usi, ma sono anche diverse e molteplici le logiche
d’uso, che non sono unificabili (in alcun modo, e da parte di alcuno) ma solo
parzialmente e temporaneamente - ed eventualmente - ricomponibili attraverso
processi d’interazione sociale che costruiscono e trattano una pluralità di territori. In una società “al plurale”, in cui la diversità viene a rappresentare il momento centrale per la definizione di ciò che è pubblico (e si hanno, di conseguenza,
più definizioni di pubblico) anche la nozione di territorio va “pluralizzata”: considerando i molteplici territori costruiti dalle diverse pratiche d’uso. A questo
fine, mi sembra, per cominciare, opportuno abbandonare l’idea che sia la stanzialità la condizione fondamentale perché si possa parlare di uso del territorio. E
considerare - invece - il ruolo delle diverse pratiche di mobilità nella costruzione
di “territori di circolazione” (Tarrius 1993) intesi come insiemi (costellazioni) di
spazi i cui tempi d’uso - di varia durata, misurata nell’arco della giornata, della
settimana, del mese, dell’anno, dell’esistenza - sono differenti per i diversi soggetti sociali che vi transitano, con cadenze diverse. E sono fattori quali la frequenza, la durata, il tipo di occasione dei passaggi - insieme con le modalità degli
spostamenti, e più che le caratteristiche delle attrezzature e infrastrutture di cui
sono dotati i luoghi che costituiscono le tappe degli spostamenti - a conferire
senso “all’uso del territorio”, in modo diverso per le diverse popolazioni mobili.
Sono, in definitiva, il tempo e le condizioni di compresenza in uno stesso luogo,
assai più che i caratteri intrinseci del luogo, i fattori rilevanti nel determinare la
qualità dell’interazione d’uso. E sono questi i fattori che sono maggiormente
influenzabili dal comportamento delle popolazioni utenti, e comunque sono
quelli che rinviano più direttamente alla loro eventuale diversità.
È evidente che questa descrizione si adatta particolarmente bene agli “spazi pubblici”: che perciò vengono proposti come “caso di studio” del ragionamento sviluppato in queste note.
Cosa fa di un luogo - ricapitolando - uno “spazio pubblico”? E in che senso è un
costrutto dell’interazione sociale? E perché il processo d’interazione sociale che
lo costruisce, può essere riguardato come “processo di politiche”?
“Pubblico” non è lo spazio stabilmente destinato all’uso collettivo. È riduttivo
considerare “pubblico” uno spazio utilizzato “in-comune”. L’uso in-comune
(anche quando si tratti di più usi diversi) non “fa” lo spazio pubblico. Il carattere pubblico non inerisce ad un luogo - detto altrimenti - solo che vi si svolgano
(o venga destinato) ad attività collettive. Bensì, “risulta” pubblico uno spazio in
quanto costruito dall’interazione sociale, a certe condizioni: è un costrutto sociale non necessario, eventuale. Quali sono le condizioni? Essenzialmente, uno spazio non diventa pubblico solo per effetto di un’azione intenzionale (non diventa, cioè, pubblico per progetto o per decreto). Anzi, più spesso costituisce il sottoprodotto di pratiche sociali finalizzate ad altro - e qualche volta rappresenta l’esito di comportamenti autointeressati -.
Il carattere “pubblico” viene conferito ad un luogo se e quando tutti coloro che
vi si trovano ad interagire in una situazione di compresenza, utilizzandolo in
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Pier Luigi Crosta
Società e territorio, al plurale.
modi diversi e con motivazioni differenti (e non condivise: la compresenza può
essere - e in genere lo è - caratterizzata da tensioni e da conflitti), apprendono,
attraverso l’esperienza concreta della diversità (di cui “provano” i problemi), la
compresenza in termini di convivenza. E attraverso questo processo di apprendimento, “si fanno” pubblico. Il processo d’interazione sociale in una situazione
di compresenza, è allora un processo nel quale (e attraverso il quale) popolazioni diverse costruiscono uno “spazio pubblico” e si costituiscono in Pubblico
(Dewey 1927, 1954). In questo senso, è un processo politico, ma anche “di politiche” - in ciò che produce beni pubblici -.
Lo “spazio pubblico” - a questo punto - diventa una metafora della città: della
città come “bene pubblico” (Ferraro 1990). E la costruzione dello spazio pubblico, proprio perché di esito eventuale (e perciò è “politica”), può in conclusione
essere riguardata come caso (studio) di produzione di “effetti di governo” per via
d’interazione sociale - come caso, quindi, di governance -. Attribuendo a questo
termine il significato (che è quello più interessante per orientare la ricerca sui
processi della società delle differenze) che rinvia contemporaneamente alle condizioni e all’esito di molteplici interazioni tra differenti pratiche (e i loro effetti)
di regolazione sociale (attività istituzionali e non, intenzionali e non) e gli effetti
di regolazione prodotti da pratiche che non si propongono obiettivi di regolazione, ma che per il fatto stesso di interagire tra loro in ambiti spazio-temporali
determinati, si scambiano mutuamente limitazioni, vincoli e opportunità.
II. ANNOTAZIONI
Le note che seguono, hanno essenzialmente il carattere di annotazioni ad alcuni
dei punti trattati nell’introduzione, con le quali intendo rendere conto, precisare e qualche volta approfondire quei contributi (in parte già riferiti nei rinvii
bibliografici) che mi sono stati di stimolo e di aiuto nell’elaborazione della linea
di ragionamento presentata nell’introduzione.
Oltre la “domanda politica”. Qual è l’interrogativo:
chi è vs cos’è pubblico?
Lo schema o modello della domanda politica, tende a trattare il rapporto tra
Stato e società, “dalla parte” dello Stato. Innanzitutto, viene definita “domanda
politica qualsiasi richiesta di provvedimenti pubblici, cioè vincolanti per l’intera
collettività; da chiunque e in qualsiasi modo essa venga formulata.” (Pizzorno
1980, 15). Con l’aggiunta che “la domanda politica non è funzione dei bisogni in
genere di una data società, bensì soltanto di quei bisogni che possono venire
soddisfatti da provvedimenti pubblici” (Pizzorno 1980, 20).
Coerentemente, l’attenzione viene quindi concentrata sulla trasmissione della
domanda politica: “Le strutture (le organizzazioni, le associazioni, i gruppi vari,
ecc.) che trasmettono la domanda politica possono essere diverse; i partiti non
sono i soli. E diverse possono essere le loro relazioni reciproche. Oltre ai partiti,
altre strutture per mezzo delle quali le forze sociali fanno conoscere i loro bisogni e premono affinché vengano soddisfatti, sono i gruppi d’interesse o di pres-
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sione. Ma anche la stampa; gli organismi tecnici e di studio e ricerca, indipendenti o variamente collegati con la pubblica amministrazione; la pubblica amministrazione, nella misura in cui opera come canale di trasmissione di domande
che vengono presentate in questo o quell’ufficio; o i vari settori della pubblica
amministrazione come presentatori delle proprie domande corporative; e così
via” (Pizzorno 1980, 23). Blumer (1971) presenta uno schema per analizzare i
processi di “definizione collettiva” dei problemi, come processi d’interazione tra
queste strutture.
Gli interrogativi sollevati riguardano, di conseguenza, la rappresentatività degli
attori - così definiti - del sistema politico, e il carattere selettivo e mediatorio (e
la funzione canalizzatrice) dei canali di trasmissione della domanda politica, allo
Stato.
Forse perché il riferimento per queste attività di costruzione della domanda politica, è l’interesse generale - il bene pubblico - (anche quando, realisticamente, si
dichiara che esso è indefinibile ovvero impraticabile) definito al singolare, non
viene considerato il caso che dall’interno della società sia possibile attivarsi e
produrre beni pubblici (al plurale), direttamente o non, senza “farne domanda”
allo Stato, passando attraverso il sistema politico.
È in questo quadro che si spiega la persistenza dell’idea che il carattere pubblico
derivi alle politiche (per fare un esempio che non è un esempio qualsiasi) essenzialmente dal fatto che sono inevitabilmente pubblici i soggetti che ne sono gli
autori: per cui per politiche non si può che intendere l’azione dello Stato (l’attributo “pubblico” è pleonastico).
Quest’idea è da qualche tempo fatta oggetto di (caute) contestazioni. Dunn
(1981) offre la seguente definizione: “Una politica è ‘pubblica’ perché essa è
rivolta a dirimere problemi collettivamente percepiti, e per i quali, in un dato
contesto spazio-temporale, si ritiene corretto attribuirne la soluzione alla “mano
visibile” piuttosto che alla diretta interazione fra individui” (cit. - con approvazione - da M. Giuliani 1996, 321). Ma lo stesso autore scrive anche che “(U)na
politica pubblica è l’insieme delle azioni compiute da un insieme di soggetti (gli
attori), che siano in un qualche modo correlate alla soluzione di un problema
collettivo, e cioè un bisogno, un’opportunità o una domanda insoddisfatta, che
sia generalmente considerato di interesse pubblico” (Dunn 1981). Dente (1990)
- che riporta questa seconda citazione - commenta: “È importante sottolineare
come questa definizione non dica alcune cose: non dice, ad esempio, che i soggetti che agiscono devono essere tutti pubblici, anche se è un po’ improbabile
che tra coloro che agiscono in relazione a problemi percepiti come collettivi non
vi siano anche attori dotati di legittimazione di tipo politico-amministrativo”
(Dente 1990, 15)
È anche il caso di sottolineare come il commento di Dente problematizzi il carattere pubblico/privato degli attori, e non il carattere di pubblico interesse del problema definito come “collettivo” (dove ha origine questo carattere pubblico?).
Per la “naturale” inclinazione a problematizzare il modello della domanda politica, “dalla parte” dell’attore, le critiche a questo modello tendono per lo più ad
argomentare la necessità/opportunità di realizzare forme di partecipazione allargata ai processi decisionali e attuativi delle politiche, quali la partnership pubblico/privato (Bagnasco e Le Galès 1997) ovvero riconoscendo il fatto che sog-
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Società e territorio, al plurale.
getti “privati” si dimostrano capaci di farsi promotori dell’interesse pubblico
(Schmitter e Streeck 1985). Giustamente Rusconi (1991) mette in evidenza il
rischio che l’interesse generale venga definito nei termini riduttivi dell’interesse
“congiunto” degli attori che riescono a partecipare (o vengono fatti partecipare).
E il tema del consenso - coniugato con quello della partecipazione - viene posto
al centro dell’attenzione (e delle preoccupazioni sollevate dal dibattito tra esperti e addetti ai lavori).
Il caso del “terzo settore” come terzo attore, è un caso a parte. Ota de Leonardis
(1998) ne offre una discussione che con grande chiarezza s’interroga sulle potenzialità e i limiti del “fai-da-te” sociale, sollevando - finalmente - la questione dello
statuto pubblico dei beni trattati dal mercato sociale. “Il mercato sociale è un
fenomeno emergente, per nulla univoco, attivato da intenzioni e interessi eterogenei, attraversato da incoerenze e contraddizioni e aperto a sviluppi molto
diversi. L’accento è … posto sulla tendenziale sostituzione del welfare state, che
presuppone mediazione amministrativa e responsabilità pubblica nella riproduzione sociale, con relazioni di scambio tra domanda e offerta di “beni sociali”,
che presuppongono invece capacità di autoregolazione della società” (de
Leonardis 1998, 8). Qual è il significato da dare all’aggettivo “sociale”? …
Anzitutto, l’aggettivo… può significare una sottolineatura del carattere sociale
del mercato come tale: si tratta comunque di relazioni sociali, di una forma di
organizzazione sociale … In secondo luogo il mercato è sociale in quanto
campo di azione e di organizzazione autonoma della società stessa, nella sua
dignità di società civile: dove gli attori sono sociali (non riduttivamente economici) e la materia che vi si tratta, che viene manipolata, trasformata, plasmata e
in definitiva costruita, è la società stessa. O - si potrebbe dire - in questa accezione il mercato è sociale quando la società è civile quanto basta da impegnarsi nella
sua propria riproduzione e costruzione, con le libertà e le responsabilità che
questo comporta” (de Leonardis 1998, 11). Ai due significati, corrispondono due
prospettive radicalmente diverse (il sociale come mezzo vs il sociale come fine).
Di qui la questione fondamentale: “La crescita di un mercato sociale nel campo
dei servizi e delle politiche sociali solleva una questione pubblica: a quali condizioni i beni che vi si trattano mantengono lo statuto di beni comuni?” (de
Leonardis 1998, 17). A partire dalla constatazione che “(La) dimensione pubblica
delle questioni in gioco tende ad essere ridotta alla presenza di dispositivi pubblico-statuali di regolazione necessari al funzionamento del mercato sociale,
come del resto di ogni mercato” (de Leonardis 1998, 18). Ota de Leonardis sottolinea con forza la preoccupazione che nel mercato sociale si alimentino e si
legittimino culture del “privatismo”, cioè “(q)uando il fai-da-te del volontariato
tende a trattare ogni mediazione istituzionale come un fastidio oppure opportunisticamente come uno strumento per i fini della propria organizzazione, quando le relazioni sociali su beni e problemi collettivi vengono ridotte a transazioni
su beni e preferenze private. Anche la solidarietà può diventare il sostituto privatistico della corresponsabilità verso la cosa pubblica e il moltiplicatore dell’enfasi sulla dimensione solo personale dei temi, dei soggetti e delle relazioni” (de
Leonardis 1998, 19).
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n.1 / 2000
La costruzione del pubblico e la costituzione del
Pubblico
La famiglia di approcci che riguarda i processi d’uso del territorio, anche come
- al tempo stesso - processi di costruzione sociale dello spazio, ripropone l’interrogativo se i processi in questione ammettono un soggetto, e, nel caso affermativo, come si forma un attore collettivo (ciò che è stato considerato un dato,
è precisamente quanto si tratta di spiegare).
Nella tradizione, ci si trova davanti a una duplice linea di spiegazione (Melucci
l990). Da una parte si ragiona in termini di “un’azione senza attore”, cioè di comportamenti il cui carattere collettivo dipende dalla coincidenza di circostanze
spazio-temporali. Dall’altra parte, la tradizione del marxismo ragiona in termini
di “un attore senza azione”, considera i comportamenti derivati da una condizione strutturale.
La tradizione del dualismo strutture/intenzioni, può essere superata pensando
l’azione sociale come un costrutto interattivo, attraverso la quale l’attore stesso
si costruisce. In quest’ottica, l’interrogativo “cos’è pubblico, e come si produce”,
diventa tutt’uno con l’interrogativo “chi è pubblico, e come si forma”. E la risposta è che il pubblico - come soggetto - si costituisce nel processo stesso - interattivo - che produce il bene pubblico.
Affronta il problema della formazione del “pubblico” Dewey quando discute del
“pubblico e i suoi problemi” (Dewey 1971). La prospettiva di Dewey è quella
comunitaria. Qui, però, interessa solo riprendere l’ipotesi che Dewey avanza per
rispondere alla domanda “come si forma il Pubblico”. Con le sue parole:
“L’azione congiunta, combinata, associata ... produce dei risultati. Alcuni risultati, sono oggetto di percezione, ossia si possono osservare in maniera tale che è
possibile poi tenerne conto. Sorgono quindi propositi, piani, provvedimenti e
mezzi, per ottenere conseguenze gradite ed eliminare quelle che si ritengono
nocive. La percezione genera quindi un comune interesse; ossia chi subisce l’influenza delle conseguenze s’interessa necessariamente al modo di comportarsi
di tutti coloro i quali, unendo la loro opera alla sua, contribuiscono anch’essi a
determinare i risultati. A volte le conseguenze sono limitate a chi partecipa direttamente alla transazione che le produce, mentre, in altri casi, esse si estendono
ben oltre chi ha direttamente contribuito a determinarle. Vengono così ad esistere due specie d’interessi e di misure per regolare gli atti in previsione delle
loro conseguenze: nella prima specie, l’interesse e il controllo non vanno oltre
chi è direttamente impegnato; nella seconda, invece, essi si estendono anche a
chi non partecipa direttamente all’esecuzione degli atti. In quest’ultimo caso, se
si vuole che l’interesse determinato dall’influenza di questi atti abbia un peso
pratico, deve necessariamente verificarsi un controllo, anche indiretto, sulle
azioni che li determinano … Chi subisce in misura apprezzabile l’indiretta
influenza, benefica o nociva, di un atto, forma un gruppo sufficientemente specifico del quale occorre riconoscere l’esistenza e al quale conviene dare un
nome. Il nome che abbiamo scelto è: il Pubblico” (Dewey 1971, 25-6).
Con riferimento al testo citato, mi sembra possibile mettere in evidenza alcuni
elementi del processo di formazione “del Pubblico”. Innanzitutto, abbiamo a che
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Società e territorio, al plurale.
fare con una serie di processi che danno luogo alla formazione di molteplici
“Pubblici”. Ciascuno di questi si costituisce sulla base della percezione che “qualcosa fa problema”, e, insieme, sulla base del proposito “di fare qualcosa, in ordine a quel problema”. Ciò che risulta condiviso, è la situazione avvertita come problematica dagli attori, ciascuno dal proprio punto di vista, che è diverso da quello degli altri - non richiedendo i diversi punti di vista di essere unificati affinché
si determini la volontà di mobilitarsi per far fronte alla situazione problematica . Rispetto alla connessione conoscenza/decisione, che caratterizza l’approccio
alle politiche incentrato sulla formazione del consenso come prerequisito per l’azione congiunta degli attori, qui la connessione decisiva è piuttosto quella tra
percezione e volizione (riferita ad ogni singolo attore e comune ma non incomune a tutti gli attori) (Lindblom 1990).
Se ne potrebbe concludere che se c’è intesa tra gli attori, questa non si basa sulla
condivisione di intenzioni, bensì sulla previa o contestuale esperienza che gli
attori hanno, di una cooperazione, che Pellizzoni (1998) chiama “extrapolitica”
(non deliberata ma neppure negoziata), alla gestione concreta dei problemi.
Cosa intende Pellizzoni per “cooperazione extrapolitica”? Pellizzoni fa riferimento al già citato testo di Dewey (1927) del quale riprende l’affermazione che “…
con l’attività politica la società tenta sperimentalmente di elaborare e risolvere i
problemi sociali, nel momento in cui la loro portata supera l’ambito dei diretti
partecipanti all’interazione … (La considerazione di base è che) la probabilità di
risolvere efficacemente un problema aumenta con l’incremento della cooperazione tra i partecipanti. Ma per Dewey … il fondamento della cooperazione non
sta nella dimensione politica, nella prassi di una sfera pubblica in cui i cittadini si
confrontano liberamente e autonomamente, bensì nell’azione congiunta di risorse individuali in risposta ad un problema. L’esperienza dell’intersoggettività,
della cooperazione, deve cioè realizzarsi prima e al di fuori della politica: la motivazione individuale verso il bene collettivo si determina nei limiti in cui ciascuno
vede la propria attività come un contributo ad un processo cooperativo.
L’orientamento all’intesa politica si basa sull’esperienza condivisa di una partecipazione alla soluzione dei problemi. Per aver interesse ad impegnarsi attivamente … nella sfera pubblica, il cittadino deve già avere qualcosa in comune con gli
altri: deve aver sperimentato che il contributo che egli può dare alla cooperazione sociale è socialmente riconosciuto. La ‘cooperazione prepolitica’, si fonda
sulla condivisione di valori: … il valore della cooperazione e del contributo individuale ad essa, e quindi il valore dell’individuo e della sua realizzazione personale nello scambio intersoggettivo … (n)on vanno visti, però, come valori originariamente politici, bensì come valori sociali. La virtù civica, la cooperazione
politica, si sviluppa dunque non tanto per spinta interna, ma attraverso iniziative
volte a favorire e incentivare la cooperazione nella divisione del lavoro”
(Pellizzoni 1998, 609-610).
A questo punto Pellizzoni si ripropone l’interrogativo: “Ma se la ragione è plurale, è possibile la cooperazione tra soggetti che hanno punti di vista completamente diversi sul mondo? In altre parole: quand’anche il contesto sociale sia
favorevole, com’è possibile l’intesa tra soggetti i cui valori e descrizioni dei fatti
sono totalmente incommensurabili? Se ragione plurale significa totale relativismo, completa incomunicabilità delle culture, tra le parti in conflitto è evidente-
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mente possibile solo un accordo strategico. L’intesa si basa sulla possibilità di stabilire un terreno comune tra ragioni che rimangono distinte. È possibile questo?”
(Pellizzoni 1998, 610-611).
La risposta di Pellizzoni è che questo è possibile, solo se viene adottato un nuovo
approccio alla democrazia deliberativa, che “… non va vista come un processo
esclusivamente politico, in quanto si basa su una cooperazione prepolitica alla
soluzione dei problemi. La deliberazione, poi, non si prefigge necessariamente
l’intesa sulle ragioni che portano a preferire una data soluzione, ma su una soluzione accettabile per ragioni che possono restare differenti” (Pellizzoni 1998, 612).
E ribadisce: “L’intesa può basarsi solo sulla previa o contestuale esperienza di
una cooperazione (extrapolitica) alla gestione concreta dei problemi” (Pellizzoni
1998, 613).
In conclusione, fondamenti prepolitici della virtù civica, da un lato, dall’altro pluralità e commensurabilità empirica e contestuale della ragione, rappresentano le
basi sociali e cognitive dell’interazione non strategica (non basata, cioè, sull’aggregazione di preferenze e la negoziazione tra interessi in conflitto).
Dei fondamenti prepolitici della virtù civica, s’è già riferito sopra. Resta da chiarire cosa Pellizzoni intende per commensurabilità empirica e contestuale. Con le
sue parole: “Si tratta di una commensurabilità basata sulla constatata analogia di
porzioni di esperienza, a sua volta riconducibile al fatto che la realtà non è manipolabile a piacere, anche se può essere conosciuta solo attraverso gli schemi che
utilizziamo. Essa deriva, per esempio, dalla constatazione empirica della condivisione interculturale di assunzioni sulla relazione tra congruenza e successo nel
risolvere un problema. Ciò permette sia l’avvio di un’interazione non strategica
(che parte appunto dalla descrizione approssimata di qualcosa come “problema
comune”), sia l’intesa successiva su una qualche soluzione pratica. La differenza
che passa tra commensurabilità assoluta e commensurabilità empirica richiama
quella, suggerita da Walzer (1991), tra covering-law universalism e reiterative
universalism Nel primo caso i principi e le conoscenze valide sono unici e uguali per tutti: si tratta di precisarli e farli trionfare sulle assunzioni false e ingannevoli. Nel secondo caso ci sono principi e conoscenze distinte, ciascuna delle quali
ha una sua validità. I tratti comuni che se ne possono ricavare configurano una
generalità di tipo diverso rispetto all’altro caso: essi sono appresi con l’esperienza e si qualificano per le loro differenze, per la varietà dei modi in cui sono in
grado di aderire alla situazione. C’è quindi un livello empirico, contestuale, dove
l’incommensurabilità fra quadri cognitivi e di valore non è totale” (Pellizzoni
1998, 612).
La mobilità e la pluralizzazione del concetto di mobilità
La mobilità viene concettualizzata e studiata in diversi modi, in relazione al tipo
di disponibilità dei dati, e al tipo di utilizzazione che si prevede di fare delle elaborazioni che se ne fanno, per specifiche politiche d’intervento. Esiste una relazione d’interdipendenza “a circolo vizioso” tra questi tre elementi: formato delle
analisi sulla mobilità, disponibilità dei dati, obiettivi delle politiche.
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Società e territorio, al plurale.
Martinotti (1973) ha costruito una tipologia dei movimenti di popolazione,
distinguendo: i tipi di confine attraversato (nessuno/interno/di Stato); la periodicità dei movimenti (ricorrenti/non ricorrenti: occasionali e permanenti); e tipo
di fonte dei dati (ricerche specifiche, fonti amministrative, indagini statistiche,
repertori).
Marc Wiel (1999) mette in evidenza le implicazioni della pluralizzazione del concetto di mobilità. Il passaggio è dal trattamento di singoli eventi di mobilità, al
trattamento di mobilità multiobiettivo. I primi sono quelli classificati in base alle
caratteristiche degli individui che si spostano (età, reddito, attività/inattività,
luogo di residenza, mezzo di trasporto) messe in relazione con i motivi dello
spostamento, le caratteristiche dell’ambiente urbano in cui si muovono, la frequenza e la durata degli spostamenti. Le mobilità multiobiettivo - o “peregrinazioni” - sono quelle che prevedono lungo un tragitto (es.: casa/lavoro), delle
tappe diverse (scuola o asilo, acquisti …).
Eva Lelièvre (1999) discute le ragioni di un passaggio ulteriore, consistente nella
considerazione di concatenazioni non più delle diverse mobilità di uno stesso
individuo (che se viene fatta l’analisi dei diversi luoghi con i quali un individuo
entra in rapporto, consente di arrivare a ricostruirne lo “spazio di vita”), bensì
delle concatenazioni tra traiettorie interdipendenti di più individui. Questo legame viene definito come entourage (tra menage e famiglia). Il concetto di “spazio di vita” segna l’abbandono della nozione di spazio come serie di luoghi corrispondenti a funzioni piuttosto che a persone, e l’adozione del concetto di spazio strutturato da una serie di relazioni. La Lelièvre sottolinea come l’ulteriore
considerazione delle interazioni che si sviluppano, nell’arco dell’intera esistenza,
tra i membri dell’entourage, tenendo conto di tutto ciò che viene messo in gioco
dalle scelte individuali di ciascuno di essi, rappresenta, concettualmente, un’estensione della nozione di spazio di vita. Il problema analitico rimane lo stesso:
tuttavia, l’analisi delle interazioni non solo all’interno di ogni traiettoria, ma tra
traiettorie interdipendenti, pone problemi di formalizzazione alquanto complessi (implicati dal passaggio dallo studio di biografie individuali, allo studio di biografie di un gruppo di individui).
Il passaggio dall’individuo all’entourage comporta non già di considerare, all’interno di uno stesso modello, le caratteristiche dell’unità cui vengono fatti appartenere gli individui (quartiere, impresa, città…); bensì di seguire nella sua dinamica longitudinale un gruppo la cui traiettoria è strutturata dai percorsi interattivi di ciascuno dei membri del gruppo.
È appena il caso di accennare qui al contributo che, all’avanzamento teorico
metodologico di questo ragionamento, possono portare le elaborazioni dei timegeographers (Pred 1986; Thrift 1996) a partire dal concetto di regionalizzazione
proposto da Giddens (l990), riguardante l’organizzazione nello spazio di pratiche sociali routinizzate.
La pluralizzazione del concetto di territorio. I “territori di circolazione”
Territori di circolazione (territoires circulatoires) è una locuzione introdotta da
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Alain Tarrius (1993) nel dibattito sui limiti della cultura del territorio e delle logiche del luogo, con particolare riguardo alla critica dell’orientamento che tende
ad identificare il sociale a partire dalle sue sole localizzazioni territoriali.
Tarrius s’interroga innanzitutto sulle implicazioni della scelta di utilizzare il termine immigrato invece del termine migrante. È in quanto immigrato (cioè, è in
quanto prende posto in qualche luogo, vi si localizza, sedentarizzandosi) che il
migrante pone, a sé e agli altri, problemi di inserimento e/o di integrazione. Vi è
dunque un nesso tra le due coppie di attributi: mobilità/sedentarietà, e identità/alterità. Il presupposto è che l’identità viene considerata l’espressione di
numerose modalità di appropriazione del territorio, dai confini del vicinato a
quelli dello Stato-nazione.
Tarrius si propone di ripensare il rapporto migrazione/territorio, riguardando
alla città non come luogo della sedentarietà, ma come incrocio delle mobilità. Le
mobilità non sono solo quelle spaziali: per Tarrius vi sono livelli di mobilità riferibili allo spazio (l’area del vicinato, quella urbana e peri-urbana, quella internazionale) e livelli di mobilità riferibili al tempo (i ritmi della quotidianità, del corso
della vita individuale, della successione di generazioni) e tutte queste dimensioni della mobilità vanno coniugate tra loro. Ciò facendo, mette in evidenza due
diverse modalità della costruzione sociale della città: la modalità della giustapposizione spaziale, per cui le posizioni e gli spostamenti vengono considerati
come misura dei rapporti sociali; e la modalità della sovrapposizione, per cui i
luoghi frequentati, abitati, attraversati sono considerati come elementi di vasti
insiemi territoriali che sono il supporto delle reti di relazioni sociali, e il riferimento delle diaspore. Sono questi i “territori di circolazione”: prodotto della
memoria collettiva e di pratiche sociali di scambio sempre più estese, dove valori etici, ed economici specifici creano una cultura e fanno la differenza rispetto
alle popolazioni sedentarie. Questi territori sono trasversali - dice Tarrius - rispetto ai confini “concentrici” imposti dalla visione “modernista” della pianificazione
urbanistica (fatta di centralità, cinture urbane, circonvallazioni, radiali, barriere
residenziali …). Questi territori individuano la metropoli “invisibile”.
Di diverso tipo, ma convergenti sono le considerazioni che Guido Martinotti
(1993) propone per contribuire a spiegare perché “mentre le grandi città appaiono in declino - se viste con l’occhio della statistica tradizionale - i loro abitanti
giorno dopo giorno vedono le città riempirsi e congestionarsi anziché svuotarsi”
(Martinotti 1993, 15). Martinotti suggerisce di abbandonare “le categorie tradizionali dell’analisi urbana che, come i dati statistici che a esse si riferiscono, sono
basate sui canoni dell’ecologia sociale e insistono sulla identificazione degli abitanti con la totalità della popolazione urbana” (Martinotti 1993, 15) A questo fine,
Martinotti introduce una nuova classificazione delle varie popolazioni urbane
facendo notare che “se perdono abitanti, i centri metropolitani e le città in generale si riempiono però di nuove popolazioni di consumatori metropolitani.
Composte, cioè, di persone che non risiedono nei centri urbani e che, a differenza dei pendolari, non vi lavorano in modo stabile, ma vi si recano esclusivamente per consumare, come i city users oppure (come i businessmen) per brevi
permanenze di affari che forniscono però l’occasione per consumi non di rado
quantitativamente e qualitativamente consistenti. Queste popolazioni sono al
tempo stesso il prodotto e una delle componenti principali della trasformazione
50
Pier Luigi Crosta
Società e territorio, al plurale.
metropolitana, ma sfuggono all’osservazione sistematica con gli strumenti dell’analisi urbana, tuttora puntati in larga misura sugli abitanti e in piccola parte sui
lavoratori e pendolari, cioè sulle popolazioni che caratterizzano la città tradizionale e la metropoli di prima generazione. Tuttavia la presenza di queste nuove
popolazioni è percepibile sul piano fisico, economico e politico, e introduce una
variabile che non abbiamo ancora imparato a valutare nella giusta misura, ma che
sta cambiando profondamente la morfologia sociale di quelle che suggerisco di
chiamare metropoli di seconda generazione” (Martinotti 1993, 16).
III. PICCOLO GLOSSARIO DELLO “SPAZIO
SPAZIO/QUALE DI PUBBLICO ?
PUBBLICO”.
QUALE
NOZIONE DI
Quale nozione di spazio?
Lo spazio è un luogo “in uso” - è un costrutto dell’uso - . Oggetto di osservazione è, quindi, l’uso che viene fatto del luogo (e non il luogo).
È l’uso che delimita lo spazio: i confini dello spazio non coincidono con quelli
(fisici) del luogo. I confini dello spazio sono quindi variabili nel tempo, e in corrispondenza di usi diversi.
Si possono dare usi diversi di uno stesso luogo - in tempi diversi, ma anche
simultaneamente -. Gli spazi corrispondenti ad usi diversi - ma anche a tempi
diversi - non sono (necessariamente) coestensivi, oltre che non coincidenti con
i confini del luogo cui sono riferiti.
Lo spazio viene definito dall’uso e dalle regole d’uso, in modo spesso discordante (lo spazio “di parcheggio”, è dove il parcheggio delle auto è consentito:
ma possono esserci auto anche al di fuori dei limiti dell’area di parcheggio).
In un dato luogo, possono essere previsti - e di solito lo sono - spazi per usi specifici. In corrispondenza di tali destinazioni d’uso, possono essere realizzate delle
attrezzature particolari. L’uso effettivo (ma anche quello previsto, a volte) può
risultare sia facilitato, ma anche ostacolato, dalla presenza di tali attrezzature.
Quale nozione di pubblico?
Il carattere pubblico è l’esito di interazioni d’uso: rinvia, dunque, alle relazioni
sociali che si instaurano tra gli utilizzatori (detto altrimenti: quella pubblica, non
è una destinazione d’uso).
Uno spazio pubblico, può però essere “istituito” (es.: i Giardini Pubblici). In questo caso, il carattere pubblico rappresenta un obiettivo d’uso, definito “per
decreto”, mediante l’indicazione di quali condizioni d’uso (più spesso indicate
nella forma di divieti di altri usi) devono essere osservate dagli utenti, affinché
l’uso sia pubblico.
L’uso effettivo dello spazio “pubblico per decreto” può, o non, essere conforme
all’intenzione espressa dal decreto che lo istituisce come pubblico. Non necessariamente il carattere pubblico che risulta dall’uso, dipende dalla conformità
dell’uso effettivo, con quello previsto dal decreto.
La nozione di spazio pubblico, non coincide con quella di spazio comune - o spa-
51
n.1 / 2000
zio in-comune -. Con riferimento all’uso che ne viene fatto, uno spazio può venire definito pubblico perché “aperto” (disponibile) per usi diversi da parte di
utenti diversi. Se è utilizzato da più utenti, ma per uno stesso scopo, è preferibile chiamarlo spazio-in-comune. Se ‘l’uso per molteplici usi’ da parte di più utenti non “fa problema” (non pone limitazioni, non provoca tensioni o conflitti), lo
spazio non risulta pubblico.
In definitiva, uno spazio è pubblico non perché è “istituito” come pubblico, né
perché viene stabilmente utilizzato in comune. Quello pubblico, cioè, non è un
carattere inerente allo spazio, ma un carattere che può essere conferito allo spazio dall’interazione sociale.
Si danno due casi di spazio che risulta pubblico per via d’interazione sociale. In
un primo caso, ciò può avvenire per effetto di comportamenti intenzionali dei
soggetti sociali interagenti nella situazione di compresenza. In un secondo caso,
come sottoprodotto dell’interazione sociale tra soggetti autointeressati, quando
questi apprendono l’esperienza della compresenza, in termini di convivenza.
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_______________
Pier Luigi Crosta è professore ordinario di Tecnica e Pianificazione territoriale
presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, dove insegna Politiche
urbane e territoriali al Corso di Laurea in Pianificazione territoriale, urbanistica e
ambientale. È coordinatore del dottorato di ricerca in Pianificazione territoriale
e Politiche pubbliche del territorio, attivato dal DAEST/IUAV. Coordina un programma di studio alla Venice International University (“Local Studies and
Governance” – Fall 2000). Ha curato per il Consorzio Nettuno di Roma, un corso
del DU/SIT (“Urbanistica” – a.a. ‘98/99), teletrasmesso. È coordinatore nazionale di un progetto di ricerca cofinanziato dal MURST (‘99/2000), dal titolo “Le politiche urbane e territoriali tra government e governance”. Tra le sue pubblicazioni più recenti, sono: Politiche. Quale conoscenza per l’azione territoriale, F.
Angeli, Milano, 1998 e La politica del piano, F. Angeli, Milano, 1995.
[email protected]
53
n.1 / 2000
Anthony Marasco*
La villa di Thomas Jefferson
a Monticello e il governo scopico della territorialità federale**
Il faro
L’oggetto di queste pagine
*Nel ricordo di Paolo
Costantini
** Desidero ringraziare di cuore Shaul
Bassi, Alberto Musy,
Elisabetta Pastorella,
Emma Sdegno e
Federico Schneider,
oltre che gli anonimi
referee, che hanno
letto il testo in prima
stesura. Ad essi debbo
molte buone idee e
molte correzioni. La
responsabilità degli
errori rimane comunque esclusivamente
mia.
54
Qual è il legame che unisce il federalismo ai luoghi? Sarà questo legame un nodo
puramente formale, o esiste forse una qualche relazione anche cognitiva che colleghi il governo dei luoghi alla loro percezione? In quanto segue, una teoria sui
regimi scopici della modernità verrà usata per riportare alla luce una tradizione
storica per cui alla sovranità dei luoghi veniva attribuita anche una dimensione
cognitiva. Riesaminare oggi questa tradizione potrebbe rivelarsi un qualcosa di
più di un semplice spoglio antiquario, e questo a mio parere soprattutto per
coloro che intendessero ripensare in chiave federalista le dimensioni politiche
della cura paesistica.
I regimi scopici della modernità e il problema di come
posizionare un osservatore all’interno di un regime
scopico
Secondo lo storico Martin Jay, almeno tre ‘regimi scopici’, potrebbero essere rintracciati nel susseguirsi delle teorie sulle pratiche visive della modernità: il razionalismo prospettico, il descrittivismo empirico e la vertigine barocca (Martin
1988, 3-23). Con la prospettiva si inaugurò in Europa quel processo di razionalizzazione scientifica della visione che culminerà negli studi cartesiani sull’ottica
e la percezione visiva. Seguendo il modello di Jay, tra le caratteristiche principali di questo primo regime scopico si potrebbero contare: la naturalezza, l’oggettività e la regolarità normativa della rappresentazione. La resa prospettica del
campo visivo sarebbe quindi una riproduzione fedele del modo naturale di vedere, una rappresentazione oggettiva ottenuta attraverso l’applicazione esatta di
norme razionalmente desumibili.
Il secondo regime scopico, quello empirico-descrittivo, andrebbe invece ricostruito a partire da quelle teorie scientifiche e da quelle pratiche visive che si
opposero all’egemonia discorsiva del regime razional-prospettico. Più pragmati-
Anthony Marasco
La villa di Thomas Jefferson
co, il modello empirico costituì un campo visivo razionale partendo non dagli
strumenti del calcolo matematico ma dalla dislocazione spaziale di una fisiologia
osservante. Se la costruzione razionale della prospettiva imponeva alla mente un
osservatore privo di corpo posto al vertice di una piramide di segni reali ma
intangibili, l’enfasi posta sull’osservazione empirica restituiva all’osservatore i
limiti situazionali imposti dalla dislocazione corporea. Per rendere questo tipo di
visione normativamente razionale fu promossa l’analogia tra il vedere corporeo
e l’immagine restituita da apparati ottici quali la camera oscura. Se lo strumento
cardine del vedere prospettico fu dunque lo strumento matematico, l’analogia
tra il vedere corporeo e l’osservazione strumentale rappresentò l’alternativa
empirica all’egemonia del modello prospettico sul discorso della visione razionale. Va notato che tale analogia ritornerà più oltre con lo sviluppo delle tecniche fotografiche, tecniche che altro non sono che modi di fissare l’immagine
della camera oscura.
Entrambi i modelli ideal-tipici sin qui esposti presentano zone d’ombra e punti
ciechi. Come si è detto, il modello prospettico impose alla mente un osservatore la cui posizione ideale rimase inaccessibile ad un corpo fisicamente localizzato. Allo stesso tempo, però, la risposta empirica al modello prospettico mise un
corpo in una posizione sostanzialmente innaturale al fine di garantire la naturalezza della rappresentazione. Se l’uso della camera oscura risolse infatti il problema della dislocazione spaziale dell’osservatore, la riproduzione pittorica di
quel vedere rimase comunque legata ad una resa statica e bidimensionale di una
esperienza corporea irriducibilmente fluida e tridimensionale. In definitiva, l’inserimento di un corpo all’interno del modello prospettico razionale non risolse,
ma piuttosto acuì la consapevolezza del carattere convenzionale della rappresentazione visiva. È su tale convenzionalità di resa che si inserì l’istanza del vedere barocco.
In quanto regime scopico, il barocco rappresentò l’emergere di forti tensioni
all’interno della convenzionalità normativa del vedere prospettico. Nel frequente ricorso alla figura della vertigine, la restituzione del campo visivo è spinta fino
ai limiti estremi della rappresentabilità pittorica così da mostrarne il margine
estremo. Paradossalmente, però, anche l’anti-modello barocco, come il contromodello empirico, accettò come dato di partenza le premesse del paradigma
prospettico. Se il contro-modello empirico ne tentò una ricostruzione cognitiva,
il modello barocco procedette inesorabilmente verso una sua decostruzione.
Seguendo il modello ideal-tipico offerto da Jay, si potrebbe concludere che uno
dei problemi fondamentali affrontati dall’emergere della visione moderna in
Europa sia stato come dislocare il corpo fisiologico di un osservatore all’interno
di teorie e pratiche fondate sull’intangibile dell’intellezione scientifica. In altri
termini, il problema sarebbe stato quello di posizionare l’apparato sensorio di un
soggetto osservante all’interno di griglie teoretiche volte alla rappresentazione
oggettiva della visione razionale. In questo senso, gli accecamenti del vedere
barocco sarebbero da leggersi come un avvertimento cautelativo affinché lo
sguardo umano non venga troppo facilmente ricondotto a modelli intellettivi
che non tengano conto dell’irriducibile fisicità dell’atto del vedere.
55
n.1 / 2000
La residenza di villa in quanto diagramma della relazione tra il regime scopico ed il posizionamento di un
soggetto osservante
1
Questa ipotesi si
avvale del lavoro di
studio storico dei siti
così come condotto in:
Randoph Starn (1989)
Quanto verrà ora esposto parte dall’ipotesi che il sito della residenza di villa sia
stato uno dei luoghi fondamentali dove si tentò di risolvere il problema di come
posizionare una fisiologia osservante all’interno dei diagrammi scopici aperti
dalla prospettiva razionale1. Nel predisporre una precisa relazione scopica tra l’edificio e il circondario, la tradizione rinascimentale dell’abitazione di villa spesso
fece uso di strumenti prospettici che inevitabilmente presentarono il problema
di dove posizionare l’osservatore. Nel seguire le soluzioni via via date a tale problema è possibile disegnare una traiettoria che attraversa tutti e tre i regimi scopici descritti da Jay. Questa traiettoria collega le ville italiane del Rinascimento
alle ville britanniche del Settecento illuminista passando per i fasti della reggia di
Versailles. Nel ricostruire lo sviluppo di questa tradizione sarà allora possibile rintracciare anche i nessi non ovvi tra lo sviluppo dei regimi scopici e l’articolarsi
della sovranità territoriale europea. È qui che infine emergerà un possibile collegamento tra un certo tipo di regime scopico e il governo della territorialità federale.
La villa palladiana e il regime scopico della prospettiva razionale
2
Sul Palladio si veda
l’insuperato: Puppi
(1973). Il testo più
esaustivo su Villa
Barbaro è: Azzi
Vicentini (1996)
56
Il diagramma. Tra le varie tipologie rinascimentali della residenza di villa, quella palladiana fu senz’altro la più influente. Essa rese leggibili alcuni dei temi fondamentali dell’architettura classica promuovendone la loro ‘rinascita’ e ridisseminazione2. Per quel che ci riguarda, tralasceremo qui di esaminare in profondità le caratteristiche più propriamente architettoniche di questa tipologia, concentrandoci invece sul diagramma scopico che ne caratterizzò il modello di spazializzazione. Tale diagramma è definito principalmente dalla relazione di tre
elementi nodali: l’ortogonalità della pianta, l’elevazione del piano nobile e la scenografia dell’antistante. Villa Emo a Fanzolo di Treviso realizza in modo mirabile
tutte e tre le principali caratteristiche scopiche della villa palladiana. Villa Barbaro
a Maser di Treviso, infine, ne mostrerà il punto di fuga.
Dal piano nobile di Villa Emo, chi guardi l’antistante scorgerà una fuga prospettica di linee ortogonali che gradatamente condurranno lo sguardo verso le aperte lontananze.
Il lento digradare dello sguardo dal vicino al lontano e la regolarità delle campiture prospettiche daranno all’osservatore l’impressione di ergersi su di uno spazio saldamente definito e omogeneo. Questa impressione, che è il prodotto del
regime scopico che ora andremo ad analizzare, non è una impressione che si
lasci facilmente scomporre. Infatti, la sua caratteristica chiave è nascondere il suo
carattere d’artificio scenico. Per iniziare a descrivere le origini macchiniche di
tale artificio occorrerà porsi lungo l’asse cerimoniale con le spalle all’edificio ed
osservare la fuga prospettica offerta dagli alberi piantati ai margini del viale d’accesso. Con le spalle alla facciata, dovremo prima capire come la villa palladiana
Anthony Marasco
La villa di Thomas Jefferson
FIG. 1.
Veduta dello spazio antistante Villa Emo fotografata dall’interno della villa. Fototeca della
Fondazione Cini, Venezia.
sia strutturata seguendo i principi di simmetria del corpo umano. Compreso
questo, dovremo di nuovo osservare il circondario.
Come il corpo umano, la villa palladiana è rigorosamente simmetrica sulla facciata, ma asimmetrica sui lati. Come il corpo umano, lungo i lati, il “corpo” della
villa dispone di “braccia” laterali, “braccia” che adempiono quasi sempre funzioni di lavoro, essendo granai, depositi, cucine, ecc.. A coronamento del “corpo”
della villa vi è poi il piano nobile, un punto di osservazione privilegiato che si
apre sull’antistante come la coscienza pare perspicere dall’interno della scatola
cranica. È da questa posizione privilegiata che il giardino può essere propriamente letto come una scenografia intesa a rappresentare i contorni razionali del
campo visivo. Questo accadrà perché l’edificio stesso assoggetta il circondario
estendendo gli assi della pianta ortogonale attraverso la disposizione formale dei
giardini e delle vie di accesso. Tutto è saldamente orientato dall’edificio affinché
chi osservi goda di un saldo possesso scopico del circondario.
Lo stesso effetto di prospezione scopica può essere osservato da chi si affacci dal
piano nobile di villa Barbaro per osservare il panorama.
57
n.1 / 2000
FIG. 2.
Veduta dal piano nobile di Villa Barbaro a Maser, Treviso. Si noti come l’allineamento delle statue
fa sì che le linee aeree da esse tracciate convergano tutte verso un punto di fuga posto in cima alla
fontana sullo sfondo. Tale allineamento sovrappone alla visione fisiologica dell’antistante una campitura prospettica razionalizzante. Fototeca della Fondazione Cini, Venezia.
Ma al contrario di ciò che accade a Villa Emo, a Villa Barbaro l’artificio risulta più
evidente perché più ribadito. Dal rialzo del piano nobile di Villa Barbaro, residenza di Daniele Barbaro, autore tra l’altro di La pratica della prospettiva
(1568), l’osservatore può ammirare l’ordine scenografico dell’antistante lasciando che traiettorie e punti di demarcazione conducano il suo sguardo verso un
punto di fuga prospettico localizzato sulla cima di una fontana. Qui l’intero apparato scopico palladiano è messo in atto nella sua forma più compiuta. In quel
punto, lo sguardo macchinico del soggetto epistemico e lo sguardo di potenza
del soggetto sovrano si assommano e si equivalgono programmaticamente.
L’uno pone in atto l’altro.
Rilievo politico del diagramma. A partire dal congiungersi dei due sguardi nel
punto di fuga del gioco prospettico si può iniziare a discutere il carattere anche
politico di questo vedere. Assommandosi nella scenografia dell’antistante, lo
sguardo prospettico ordina al contempo lo spazio del possesso e quello della
giurisdizione. A chi possiede ed amministra un dominio, la prospettiva fa dono
di una immagine dello spazio che è normativamente regolare, salda e asportabile in quanto rappresentazione che si appone alla mente. Dal piano nobile, quindi, lo sguardo del potente spazia lungo direttive lineari che suggeriscono al contempo la razionalità del vedere e l’appropriazione del veduto. Tutto è messo in
ordine dalla presenza silenziosa del regime prospettico - tutto è appropriato e
messo in mora dallo sguardo onnicomprensivo del possesso. È importante notare a questo punto come la villa palladiana occupi quel sito strategico in una
58
Anthony Marasco
La villa di Thomas Jefferson
mappa che si trova nel punto di intersezione tra un meridiano e un parallelo, i
predecessori delle coordinate cartesiane. Allo stesso tempo, l’elevazione del
piano nobile faceva sì che il corpo del potente fosse anche visto nell’atto di
osservare il circondario, attribuendo a tale vedere un surplus di potenza in ragione della sobria monumentalità dell’insieme3. È qui che bisogna notare che gli
stessi strumenti matematici che avevano permesso ai veneziani di far da conto e
di navigare, di rappresentare e bombardare, potevano ora esser visti in atto nel
consolidamento anche economico dell’entroterra veneziano. Per meglio comprendere a quali necessità rispondesse il prototipo palladiano fin qui descritto
occorre ricordare brevemente il carattere che andava assumendo l’espansione
territoriale della Repubblica di Venezia nel Cinquecento.
Ragioni storiche del rilievo politico del diagramma. La trasformazione della
Repubblica di Venezia da città-Stato a Stato territoriale può dirsi compiuta nel
1405 con la caduta dei Carrara e l’organizzazione dello Stato da terra. Il consolidamento territoriale della Repubblica, però, può dirsi sufficientemente concluso
solo dopo il tracollo nel 1515 dell’equilibrio di alleanze generato dalla Lega di
Cambrai. In questo lungo periodo, la caduta di Costantinopoli e la scoperta delle
nuove rotte oceaniche prostrarono l’economia veneziana imponendo una ricapitalizzazione agraria delle fortune mercantili. L’instabilità politica generata dalla
morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492, l’anno della scoperta dell’America, rese
però tale scelta problematica in ragione delle ripetute guerre territoriali che tale
morte finì per causare. Se a tutta prima l’ingerenza straniera in Italia parve fare il
gioco della città lagunare, nel 1508 Papa Giulio II indisse la Lega di Cambrai in
funzione esplicitamente anti-veneziana. Dalle numerose sconfitte e dalla perdita
quasi totale dello Stato da terra, Venezia imparò l’amara lezione della logica territoriale dei grandi Stati-nazione europei. Dalla firma del trattato di Bruxelles nel
1515, trattato che ridiede a Venezia quasi tutti i suoi domini, il governo della cosa
pubblica pose particolare attenzione alla fortificazione dell’entroterra e allo sviluppo di un’economia agraria capace di controbilanciare gli arretramenti nel
campo dei commerci marittimi. Tale riorientamento sociale ebbe delle forti
ripercussioni sull’assetto politico della Repubblica. Come notò Machiavelli nei
Discorsi (I, 55), prima delle annessioni territoriali i nobili veneziani erano nobili
più di nome che di fatto - nel senso che al loro nome non corrispondeva nessuna giurisdizione e nessuna terra. La loro ricchezza era spesso enorme, ma mobile, frutto dei commerci e del rischio calcolato. Dopo l’annessione dell’entroterra veneto tutto questo cambiò. Nella seconda metà del Cinquecento le famiglie
che avevano investito fortemente nello sviluppo agricolo delle zone di bonifica
diedero luogo a una vera e propria aristocrazia terriera.
La situazione in cui Venezia si trovò dopo il 1515 impose cambiamenti profondi.
Innanzitutto l’origine legittimativa della sovranità veneziana passò dalla manipolazione semantica di Bolle e Editti alla tenuta delle linee di fortificazione.
Sovranità territoriale e nuovi orizzonti epistemici si unirono quindi nella realizzazione di cinte murarie e bastioni capaci di resistere all’entrata in scena delle
nuove artiglierie pesanti. Nell’assedio della città di Novara del 1513, per esempio,
700 uomini morirono in soli tre minuti di fuoco, una lezione che non andò perduta in laguna. Fu nell’erigere nuove difese statuali che la matematizzazione
dello spazio condotto dalla balistica e la spazializzazione della sovranità repub-
3
Per una interpretazione marxiana di
tale relazione si veda:
Cosgrove (1984)
59
n.1 / 2000
blicana si unirono formando un nuovo aggregato. Nel commissionare a Palladio
le illustrazioni dei suoi commentari su Vitruvio, Daniele Barbaro spesso fece sì
che la rappresentazione dello spazio civile della città fosse posto all’interno dello
spazio militare della fortificazione. I commentari stessi annunciavano l’imminente pubblicazione del Libro delle fortificazioni di Giovan Jacopo Leonardi. Come
concluse Manfredo Tafuri, “gli scritti di Barbaro, Leonardi e Palladio appaiono
reciprocamente connessi fra loro, integrati nell’ambito di un unico programma
culturale,” quello che Ennio Concina chiamò l’assemblaggio della ‘macchina territoriale’ (Tafuri 1985, 192; Concina 1983). Vista l’inclusione programmatica tra
lo spazio dell’edilizia civile e la macchina da guerra, si potrà concludere per
estensione che nel portare a compimento il regime scopico palladiano a Maser
Daniele Barbaro diede forma simbolica al legame tra la manipolazione strumentale dei saperi matematici e la crescita in potenza del soggetto sovrano.
FIG. 3.
Nel predisporre un corredo di illustrazioni ai Commentari di Giulio Cesare, Palladio rese chiaramente leggibili le implicazioni strategiche dello spazio ordinato razionalmente. Si noti come gli
alloggiamenti di Cesare siano posti su di un rialzo - un ‘monticello,’ come specifica la didascalia - e
come questi alloggiamenti ricordino l’impianto biassiale tipico delle ville palladiane. In questi disegni, lo spazio strategico della guerra pare alludere chiaramente allo spazio economico della tenuta agraria. I commentari di C. Giulio Cesare (Venezia: Appresso P. de’ Franceschi, 1575), tavola
148. Department of Printing and Graphic Arts, Houghton Library, Harvard College Library, Typ
525.75.255.
Tale lezione verrà messa a pieno frutto nella Francia del secolo successivo.
Versailles: l’occlusione barocca del modello prospettico
Nel suo monumentale libro su Versailles, Chandra Mukerji ha minuziosamente
ricostruito il legame di simbiosi cognitiva tra l’espansione dei giardini di
60
Anthony Marasco
La villa di Thomas Jefferson
Versailles e le crescenti ambizioni territoriali dello Stato francese sotto lo scettro
di Luigi XIV (Mucherji 1997). Volendo leggere tale legame alla luce della teoria
dei regimi scopici della modernità, potremmo dire che Versailles realizza al contempo l’apoteosi del modello prospettico e la sua débâcle spettacolare. Come la
villa palladiana, la reggia di Versailles impone il suo dominio scopico su di un territorio prospetticamente ordinato. Ma al contrario del modello agrario veneto, la
reggia del Re Sole non assoggettò nessuna funzione pratica al dominio visuale: a
Versailles lo spettacolo del potere divenne fine a se stesso. Ciò non equivale a
dire che tale dominio fu senza scopo, tutt’altro. Il suo obbiettivo primario era di
predisporre trappole cognitive atte ad “intrattenere” una nobiltà terriera il cui
sequestro fisico e cognitivo erano fondamentali all’espansione del dominio territoriale del sovrano.
Come ben rivela la guida ai giardini di Versailles redatta per mano dello stesso
Luigi XIV, l’indirizzo strategico del parco disegnato da André Le Nôtre (16131700) è quello di svelarsi a poco a poco intrappolando chi vi entri in progressive
volute di meraviglia (de Gain –Montagnac 1908). Seguendo il modello di Martin
Jay, potremmo dire che a Versailles il regime scopico della prospettiva, invece di
giungere al suo naturale compimento nella filosofia delle coordinate spaziali di
Descartes (filosofia perentoriamente interdetta in Francia a partire da un editto
del 1671), si lascia colonizzare dal sensazionalismo proprio del regime scopico
barocco. A completamento dunque del ‘vuoto’ (anche se intricatissimo) cerimoniale messo in atto all’interno della reggia, un altrettanto ‘vuoto’ (ma meraviglioso) dispositivo scenico mostrava la territorialità del parco attraverso progressive strategie di svelamento, strategie che erano anche e soprattutto strategie di
scardinamento cognitivo. Il fine di entrambi era di catturare l’attenzione di tout
le monde, ossia di tutti i nobili di Francia, e di trattenerli all’interno della nascente griglia statuale. Tutto intorno, intanto, il parco metteva in atto sul piano simbolico l’espandersi sella sovranità territoriale francese dovuta al sequestro fisico
e cognitivo del potere giurisdizionale della nobiltà terriera. A Versailles, dunque,
il barocco porta a compimento i tratti spettacolari del suo programma anti-prospettico. Se da un lato lo scoccare della vertigine barocca ebbe un aspetto senz’altro cautelativo nei confronti delle ambizioni epistemiche dell’osservazione
razionale, dall’altro l’eclatante messa in scena di Versailles rivela uno stretto collegamento tra lo spaesamento barocco ed un tentativo anche politico, prima
ancora che cognitivo, di occludere la trasparenza comunicativa dello spazio
razionale. Ed infatti - come ben rilevò Jürgen Habermas - il lento costituirsi della
sfera pubblica in Europa si accompagnerà ad un preciso programma “anti-spettatoriale” destinato a sottrarre lo spazio discorsivo del pensiero liberale dall’ottundimento cognitivo proprio dello spettacolo barocco.
Il giardino all’inglese e il regime scopico della descrizione empirica
Se ci avviciniamo ora alla villa realizzata da Thomas Jefferson a Monticello,
Virginia, noteremo forti echi della tradizione cognitivo-architettonica palladiana
e forti echi di una programmatica esclusione di ogni strategia di svelamento sce-
61
n.1 / 2000
nografico dello spazio. Seguendo la logica dei regimi scopici proposto da Jay,
potremmo dire che a Monticello, Jefferson mise in opera una ribadita affermazione del regime scopico del descrittivismo empirico e a questa affermazione dà
un carattere marcatamente anti-spettatoriale. Per capire l’origine e le implicazioni politiche del regime visivo realizzato da Jefferson a Monticello dovremo prima
descrivere la reazione paesistica inglese agli splendori botanici dell’ancienne
régime.
Il diagramma. Dal piano nobile della villa eretta nel primo Settecento per il duca
di Marlborough a Blenheim, nello Oxfordshire, l’osservatore avrà a tutta prima la
sensazione di ammirare un paesaggio del tutto naturale. Ad eccezione di un giardino formale posto su di uno dei lati della residenza, l’intero orizzonte è occupato da vaste pasture e radi boschetti. In realtà, invece, ciò che l’occhio ripetutamente percorre è un vasto giardino architettato in cui ogni elemento è disposto ad arte per provocare impressioni pittoriche. Disegnato da Lancelot
‘Capability’ Brown (1716-1783), il parco paesaggistico di Blenheim, uno dei parchi inglesi più influenti ed ammirati, si dispone tutto intorno ad una villa che
malgrado la sontuosità rimane di sostanziale impianto palladiano. Dunque, dal
piano nobile di un edificio in simmetria antropomorfa biassiale, il corpo di chi
guarda usufruirà ancora della proiezione spaziale degli assi ortogonali della fabbrica muraria. Questi assi proiettati, però, non saranno più impressi in modo visibile sul parco botanico del giardino, ma rimarranno impliciti, scolpiti dall’atto
stesso di vedere dall’interno dell’edificio scopico. Tale introiezione del diagramma visivo ebbe in Inghilterra un carattere esplicito e programmatico.
Rilievo politico del diagramma. Uno dei luoghi comuni della cultura inglese del
Settecento fu quello di identificare il carattere illiberale dell’ancienne régime con
le innaturali simmetrie dei giardini di Versailles. A partire dai lavori realizzati da
William Kent (1685-1748), per giungere ai parchi paesaggistici di ‘Capability’
Brown, la risposta inglese agli sfarzi di Versailles fu di abolire ogni demarcazione
visibile sul parco botanico così da far confondere il giardino con la natura. È in
questo contesto che va collocata la maggiore innovazione introdotta in Europa
dal giardino all’inglese, il fossato “Ha! ha!” Invisibile dal piano nobile, il fossato
“Ha! ha!” permetteva di abolire ogni demarcazione visibile pur mantenendo
interdetto al pascolo lo spazio cerimoniale della villa. Tale innovazione consentì
quindi di identificare la mancanza di barriere visibili con il contrario di ciò che
Versailles andava rappresentando per gli inglesi. Se i giochi formali di Versailles
si identificavano dunque con la tirannide francese, la naturalezza del giardino
paesistico inglese rappresentava l’amore per la libertà ‘tipico’ della storia nazionale inglese. Non a caso Blenheim fu eretta a spese di Sua Maestà per celebrare
la vittoria del Duca di Marlborough contro le truppe francesi del 1703, vittoria
che pose fine all’espansione francese iniziata sotto Luigi XIV e che preannunciò
l’unificazione territoriale britannica del 1707. Per capire l’intera valenza del gioco
sottilmente politico dell’interramento dei confini paesistici inglesi occorre far
riferimento al carattere intrinsecamente territoriale della sovranità britannica e
alla teoria della rappresentanza politica che esso sottese.
Ragioni storiche del rilievo politico del diagramma. A partire dalla Gloriosa
Rivoluzione del 1688, l'Inghilterra conobbe la coesistenza forzata di due distinti
principi di sovranità, quello di derivazione medievale, e quello di origine classi-
62
Anthony Marasco
La villa di Thomas Jefferson
co-repubblicana. Il primo voleva il corpo materiale del sovrano impersonare la
nazione per grazia di Dio, il secondo vedeva nel popolo la vera sede della sovranità nazionale. Tra i vari meccanismi compensativi designati a stabilizzarne tale
coesistenza forzata vi fu il fatto che a rappresentare il popolo erano chiamati, per
virtù civica, solo i possessori di vasti appezzamenti terrieri. Solo essi potevano
accedere, se eletti, alla House of Commons, la camera bassa opposta alla House
of Peers di nomina regale ed ereditaria.
Dunque il popolo prima inglese e poi britannico trovò nel territorio il luogo
attraverso cui passava la propria sovranità politica, luogo che le tenute di villa
visibilmente rappresentavano in tutto il loro impenetrabile splendore. Al contrario di Versailles, dove il sovrano si mostrava in un modo spregiudicato, ma ancora sostanzialmente medievale, nelle tenute dei notabili inglesi la sovranità popolare imponeva nuove e più libere rappresentazioni del territorio. In queste tenute, l’invenzione dei fossati “Ha! ha!” permise di nascondere - per il momento - le
demarcazioni proprietarie su cui le libertà inglesi si fondavano. Sul piano dei
regimi scopici, la cancellazione delle linee di simmetria e demarcazione ben si
adattavano con lo spirito empirista che si andava diffondendo tra il Seicento e il
Settecento.
Come si è detto, chi osservi lo spazio dal piano nobile dalla villa palladiana di
Blenheim avrà l’impressione di percorrere con l’occhio un paesaggio del tutto
naturale. Ciò è dovuto all’artificio dei fossati ‘Ha! ha!’ e all’uso di categorie estetiche di origine pittorica. Questo diverso modo di condurre l’occhio causa anche
un cambio di regime scopico all’interno della villa. In altre parole, visto che
sostanzialmente a comandare l’impianto del regime scopico è il testo visuale
inscritto nell’antistante, ad una riscrittura dell’esterno parrebbe corrispondere la
ristrutturazione dell’interno. Ponendo il modello palladiano all’interno di un
giardino all’inglese da questo modello verrebbe espiantato il regime scopico
della prospettiva lineare e inserito quello del descrittivismo empirico. Ora dal
piano nobile il soggetto osservante esperisce lo spazio ‘empiricamente,’ pur
usando le direttive scopiche della villa per orientare il proprio vedere. In altre
parole, da impalcatura per il vedere prospettico, la villa diventa una sorta di
camera oscura, un apparato per la visione empirica dell’antistante.
Chi conosca La pratica della prospettiva di Daniele Barbaro potrebbe obiettare
a questo punto che Barbaro fu uno dei primi teoreti a consigliare l’uso pratico
della camera oscura. È dunque anche Villa Barbaro una sorta di macroscopico
‘strumento ottico’ e non una impalcatura prospettica come qui sostengo? Nella
Pratica Barbaro mantenne una linea mediana tra la trattatistica matematico-scientifica e le applicazioni pratiche della prospettiva. Ciò non equivale a dire che
Barbaro pensasse che la pratica empirica potesse venire prima dell’intellezione
matematica. È vero anzi il contrario. Nel “Proemio,” Barbaro attacca quei pittori
che ignari dei principi “naturali e matematici” fanno “semplice pratica”. “I pittori de i nostri tempi altrimenti celebri, & di gran nome, si lasciano condurre da
una semplice pratica, & nelle tavole loro non dimostrano sopra questa parte cosa
degna di molta commendazione, & nelle carte in iscritto niuno precetto si vede
dato da loro” (Barbaro 1568, 3). Al contrario, il trattato di Barbaro si fonda su di
una pratica guidata dalla conoscenza dei principi, infatti “con i decreti della
scienza io detti forza agli esperimenti dell’arte” (Barbaro 1568, 4). La menzione
63
n.1 / 2000
della camera oscura viene dunque relegata al fondo del volume come una mera
riprova empirica del valore dei principi teoretici della prospettiva razionale.
Scrivendo a proposito della concezione stessa dell’architettura tenuta da
Barbaro, Manfredo Tafuri notò come per Barbaro l’architettura fosse un aggregato conoscitivo e non una mera pratica utilitaria. “In quanto disciplina che invera la Sapienza, essa è, contemporaneamente, linguaggio speciale e luogo che
tiene insieme saperi e tecniche differenziate. Da un lato, l’architettura è chiamata a rivelare le ragioni della creazione divina, e rendere palese, fruibile oltre che
leggibile, la razionale armonia impressa nel cosmo. Dall’altro, essa è invocata
come struttura che assicuri l’unità del sapere, che si opponga al frantumarsi delle
lingue e delle tecniche. Per questo, l’empireia non può essere posta al fondamento dell’architettura”(Tafuri 1985, 189-90).
La traiettoria epistemica
Il transito della tipologia Palladiana dallo spazio rinascimentale a quello illuminista comportò modifiche epistemiche che tenteremo ora di mettere in luce brevemente. Secondo Rudolf Wittkower, l’architettura di Palladio va compresa a partire dal carattere eclettico della filosofia del suo primo mentore, Trissimo, e successivamente del suo quasi coetaneo Daniele Barbaro (Wittkower 1962). Sia
Trissimo che Barbaro mischiarono premesse aristoteliche a conclusioni neoplatoniche. Sarebbe questa l’origine dell’inespugnabile teoria delle proporzioni del
Palladio. Secondo quella teoria, ottenuta sia per rilievo empirico che per ricostruzione teorica, il riflesso già menzionato tra edifico e corpo umano si incentra
su di una serie di rapporti proporzionali che contengono in nuce i rapporti matematici che governano il ruotare delle sfere celesti. L’edifico dunque riveste un
ruolo anche cosmografico nel mostrare attraverso il corpo di fabbrica l’armonia
dell’universo.
Nel transitare dalla sua origine rinascimentale alla sua destinazione neoclassica,
la tipologia palladiana perse il carattere esplicitamente neoplatonico del rapporto armonico tra fabbrica e cosmo senza per questo perdere interamente il suo
carattere cosmografico. D’altro canto, il non-esplicito (ma intuibile) carattere
neoplatonico del cosmo newtoniano poteva agilmente essere reinserito nell’edificio di fabbrica ben proporzionato. La compatibilità iniziò a venire meno quando con il declinare del neoclassicismo il giardino di villa divenne il luogo dell’emersione del neo-gotico. Blenheim è in questo senso un luogo di incontro tra
una tipologia di fabbrica che ancora ricorda l’armonia proporzionale del cosmo
e uno stile arboreo che preconizza il nuovo carattere soggettivo dato all’esperienza estetica. Quando anche la residenza di campagna inglese ritornerà alla
pianta asimmetrica della sua origine ‘gotica’, l’ultima vestige cosmografica del
diagramma palladiano scomparirà mostrando la nascita di un nuovo paesaggio
percettivo, quello romantico.
Nella traiettoria epistemica tra l’oggettivismo neoclassico e il soggettivismo preromantico, la residenza di villa di Jefferson a Monticello viene a rappresentare un
momento di precario equilibrio allo scadere di un’epoca. Fu qui che percezione
e federalismo si incontrarono in un diagramma ambizioso quanto irripetibile.
64
Anthony Marasco
La villa di Thomas Jefferson
Monticello e il regime scopico della territorialità federale
Il diagramma. Come si è accennato, a Monticello Jefferson unì la tipologia abitativa della villa palladiana alla contemplazione del giardino paesistico di derivazione inglese. Nel far ciò Jefferson adattò il regime scopico della villa palladiana
alla condotta dell’osservazione empirica. Guardando verso occidente, chi osservi il prato del giardino posteriore di Monticello non vedrà nulla che immediatamente faccia pensare alla presenza di un regime scopico. Ad una certa distanza
vedrà il prato antistante terminare alla base di una radura dalla quale svetteranno poi dei bassi monti in lontananza.
Come nel caso del prototipo palladiano, il diagramma scopico dell’edificio è dato
principalmente dall’intersezione dell’ortogonalità della pianta, l’elevazione del
piano nobile, e la scenografia dell’antistante. Nel modello neoclassico inglese,
alla simmetria dell’edificio si contrapponeva l’asimmetria del parco botanico. Il
genio di Monticello fu quello di contrapporre la fabbrica muraria ad un parco
botanico non visibilmente demarcato ma comunque simmetrico all’edificio.
L’asse cerimoniale e l’asse della collina sono infatti sovrapposti in modo che l’elevazione del sito e quella dell’edificio si assommano in un’unica elevazione che
porta il piano nobile ad essere l’estrema sommità della collina abitata dalla villa.
Va notato che occupando la parte più elevata di una collina, l’asse del sito segue
l’asse di simmetria della villa orientando l’osservatore in modo che il suo corpo,
l’edificio e il sito si identifichino come il punto di vista di un’unica soggettività
sovrana, soggettività colta nella sua relazione di identità con il luogo fisico che
occupa nel paesaggio. Da questa sommità, chi si ponga ad osservare verso occi-
FIG. 4.
Rilievo della tenuta di Monticello eseguito per mano dello stesso Jefferson. Si noti con quale accuratezza Jefferson pose la sua villa a culmine del sistema di elevazioni che caratterizza il sito. Thomas
Jefferson, Monticello: Mountaintop (Plant), 1803. Curtesy of the Massachusetts Historical Society.
The Thomas Jefferson Papers, M.H.S., N225/K169.
65
n.1 / 2000
4
“When nature assigned us the same habitation, she gave us
over it a divided empire. To you she allotted
the field of science; to
me that of morals. ... I
know indeed that you
pretend authority to
the sovereign control
of our conduct in all
its parts: & a respect of
your grave saws &
maxims, a desire to do
what was right, has
sometimes induced me
to conform to your
counsels”.
5
Sul mutare degli orizzonti disciplinari che
hanno caratterizzato
l’avanzare del discorso psicologico si veda:
Robinson (1995).
66
dente il giardino godrà della proiezione della simmetria antropomorfa dell’edificio sul ‘vuoto’ del prato posteriore. Collina, fabbrica e coscienza si pongono dunque in una relazione di identità che li porta a contemplare lo spazio antistante
come un oggetto apposto alla mente.
Una lettera scritta da Jefferson alla pittrice Maria Cosway, nota ai posteri come Il
dialogo tra la mia Mente e il mio Cuore, mette in rilievo i contorni cognitivi e sentimentali di questa relazione paesistica (Peterson 1984, 866-877).
Dopo la morte della moglie Martha nel 1782, Jefferson accettò una missione
diplomatica a Parigi che si protrasse dal 1784 al 1789. Durante la sua residenza
all’estero Jefferson ebbe modo di servire gli interessi del suo paese e di frequentare il bel mondo parigino alla vigilia del crollo dell’ancienne régime.
Durante la sua permanenza a Parigi, Jefferson pare aver goduto anche di un
interludio romantico nella frequentazione (si presume) platonica della moglie di
un pittore inglese, Maria Cosway. Il Dialogo fu scritto il 12 Ottobre 1786 immediatamente dopo la partenza dei coniugi Cosway per Londra. Non di rado questa lunga lettera viene letta come un tentativo di razionalizzare la decisione di
non intrattenere una relazione adulterina con una donna che comunque amava.
La lettera, però, può essere anche letta come uno dei documenti fondamentali
per capire la configurazione mentale che Jefferson diede al suo modo di pensare, sia privato che pubblico. Inscritto in questa configurazione emergerà infine il
carattere della relazione paesistica inserita da Jefferson alla disposizione spaziale
della villa a Monticello.
Nel Dialogo il Cuore di Jefferson accusa la Mente di non aver saputo capire il
valore dell’amicizia provata per i coniugi Cosway. Secondo la Mente, invece,
sarebbe il Cuore a non aver ben calcolato il rischio di perdita che ogni attaccamento a persone in transito comporta (qui l’influenza del dolore provato per la
morte di Martha è implicito, ma ovvio). A ciò il Cuore risponde che non attaccarsi a nulla e nessuno per la paura della perdita è un computo miserabile e illogico. Da quel punto il Cuore prende il sopravvento e si assume il fardello della
ragionevolezza morale. “Quando la natura ci ha assegnato la medesima abitazione,” pondera il Cuore, “ci ha dato dominio su diversi imperi. A te ha dato il
campo della scienza; a me quello della morale”. Non va perduto il fatto che dopo
aver descritto il proprio io come una abitazione, tale abitazione viene sottoposta
ad una sovranità gerarchica. “Certo so che tu pretendi sovranità sull’intera nostra
condotta in tutte le sue parti” - dice il Cuore alla Mente - “e il rispetto per le tue
taglienti distinzioni e per le tue massime, un desiderio di far ciò ch’è giusto, mi
ha talvolta indotto di sottomettermi al tuo consiglio” (Peterson 1984, 874)4.
Dopo l’incontro con i Cosway (si legga: Maria) il cuore finalmente si rende conto
della propria sovranità sulle questioni morali e riduce la Mente al silenzio (salvo
poi rinunciare, nei fatti, a Maria e dar ragione, in concreto, alla Mente).
Per capire la logica non ovvia di un tale dialogo occorre far riferimento alla psicologia delle facoltà, un modello della psiche fondato sulla ripartizione gerarchica delle attitudini mentali5. Secondo tale psicologia, vista la posizione intermedia
dell’Uomo nella “catena dell’essere” che si estende dalla Divinità agli animali, le
facoltà della mente si dividono in due (con una terza ripartizione data alle ‘facoltà passive,’ ossia i riflessi): la volontà (vicina alla Divinità) e le passioni (vicine
all’aspetto animale della natura umana). La volontà si divide a sua volta in due, la
Anthony Marasco
La villa di Thomas Jefferson
coscienza e la prudenza. Nel modello più diffuso, quello reso famoso nell’impero inglese dallo Spectator e dal Essay on Man (1732) di Alexander Pope, le questioni morali vengono soppesate dalla coscienza. Di tale parere erano pure gli
empiristi scozzesi e John Locke. Di parere contrario erano invece Francis
Hutcheson e David Hume, che ritenevano le questioni morali di competenza
delle facoltà emotive. Jefferson pare muoversi nella seconda direzione, anche se
l’assetto del testo non è immediatamente teoretico e il resto della sua filosofia
politica pare non mostrarne traccia.
Ciò che vi è di interessante per noi nel Dialogo è che Jefferson effettivamente
pensava al suo sé in termini architettonici, e che all’interno del suo edificio psichico poneva con risolutezza la questione gerarchica del governo razionale delle
passioni. A tale spazializzazione della psiche corrispondeva come abbiamo visto
un regime scopico. Dall’interno dell’edificio, il soggetto sovrano contempla il
mondo. Visto il carattere gerarchico dato alla coscienza, il soggetto che abita l’edificio scopico dell’io guarda il mondo dall’alto verso il basso, come un sovrano.
Questo atteggiamento sovrastante è perfettamente leggibile nel passo del
Dialogo dove il Cuore indica Monticello come uno dei possibili luoghi di incontro tra Jefferson e ‘i coniugi’ Cosway. Non solo saranno tutte le bellezze naturali
del circondario l’oggetto della matita di Maria, ma Monticello stessa si porrà a disposizione come l’apice del pittoresco.
And our own Monticello, where has nature spread so rich a mantle under the
eye? Mountains, forests, rocks, rivers. With what majesty do we there ride above
the storms! How sublime to look down into the workhouse of nature, to see her
clouds, hail, snow, rain, thunder, all fabricated at our feet! and the glorious sun
when rising as if out of a distant water, just gilding the tops of the mountains, &
giving life to all nature!(Peterson 1984,874)6
Dall’alto del ‘monticello’ di cui l’edificio è il culmine, l’intero spettacolo della
natura è posto ai nostri piedi. In questo atteggiamento sovrastante il carattere
epistemico e il carattere di potere del soggetto sovrano si confondono lasciando
intravedere residui ancora medievali della rituale elevazione del corpo del sovrano. Applicando quanto letto nel Dialogo al diagramma scopico di Monticello,
potremmo dire che aprendosi all’antistante dal piano nobile, la sensibilità morale che abita l’architettura razionale dell’intellezione si apre dall’alto sia al paesaggio naturale che all’eventuale incontro con l’Altro. Il prato vuoto di
Monticello sarà dunque uno spazio d’attesa empirica nel quale osservare lo sviluppo degli eventi naturali e nel quale pensare l’eventualità di un incontro (normativamente amicale e non-erotico) con l’Altro. Il diagramma cognitivo di
Monticello, letto attraverso lo sdoppiamento delle sfere di valore (strumentale e
morale) che caratterizza il Dialogo, inizia a mostrare i segni di una suddivisione
politica oltre che cognitiva dello spazio abitato dall’io di Jefferson. Vediamo
come.
Rilievo politico del diagramma. Nel numero 49 dei Federalist Papers, James
Madison fece sua una proposta di Jefferson usando un ragionamento che ci apre
uno scorcio sulla inaspettata rilevanza politica della divisione sentimentale tra
Mente e Cuore tanto cara al Jefferson epistolografo. Ricordiamo brevemente che
i saggi riuniti in volume nel 1788 sotto il titolo di Federalist Papers sono uno dei
tre monumenti fondamentali della rivoluzione americana insieme alla
6
“E la nostra
Monticello, dove ha
steso la natura una
così ricca superficie
sotto lo sguardo?
Montagne, foreste,
rocce, fiumi. Con
quale maestosità
cavalchiamo di lassù
le tempeste! Che sensazione sublime guardar giù dentro l’officina della natura, per
vedere fabbricate ai
nostri piedi le nubi, la
grandine, la neve, la
pioggia, i tuoni! ed il
glorioso sole che sorgendo come da acque
distanti, sfiora le cime
dei monti e dà vita a
tutta la natura!”.
67
n.1 / 2000
7
Il libro nacque dalle
lettere che Jefferson
scrisse in risposta alle
numerose richieste di
chiarimenti inviategli
da corrispondenti
francesi nel 1781. Le
risposte inviate da
Jefferson vennero
riunite in volume
prima in Francia, nel
1782 e 1786, e poi in
Gran Bretagna, nel
1787. La prima edizione americana è del
1788.
68
Dichiarazione di Indipendenza redatta da Jefferson nel 1776 e alla Costituzione
federale del 1788. Nei Federalist Papers, Alexander Hamilton, James Madison e
John Jay, sotto lo pseudonimo di Publius, risposero a coloro che a mezzo stampa si opponevano alla ratificazione della nuova Costituzione federale.
Nell’invitare i cittadini dello Stato di New York a ratificare la Costituzione,
Hamilton, Madison, e Jay scrissero una delle più articolate difese dell’assetto statuale americano.
Nel Federalist numero 49, Madison riprende un’idea che Jefferson propose nel
volume Notes on the State of Virginia (Londra, 1787)7. Inclusa in quel libro era
una proposta di Costituzione per lo Stato della Virginia che Jefferson aveva stilato di suo pugno. Secondo tale proposta, qualora si fosse ritenuto opportuno
modificare la carta costituzionale in alcun modo, la strada più opportuna da
seguire sarebbe stata quella di indire un’assemblea costituente straordinaria.
Visto che la sovranità risiedeva nel popolo, solo un’assemblea eletta direttamente dal popolo avrebbe potuto dare rilevanza giuridica ad un qualsiasi atto di
modifica costituzionale. Interessante per noi è notare il procedimento di giustificazione adottato da Madison per avallare la scelta della strada costituente.
Come sempre nei Federalist Papers il ragionamento si svolge rispondendo alle
accuse pubblicate della parte avversa, dai cosiddetti anti-Federalisti. Non citerò
qui tali argomentazioni. Ciò che ci interessa è il ragionamento di fondo, e cioè:
visto che “una nazione di filosofi è improbabile quanto la stirpe di filosofi-re in
cui sperava Platone” (“a nation of philosophers is as little to be expected as the
philosophical race of kings wished for by Plato”), la proposta di modifiche costituzionali doveva essere contemplata come un’occasione rara e saliente. Quindi il
meccanismo della costituente doveva essere dimensionato in modo tale da sfavorirne un suo uso eccessivo. Di particolare gravità sarebbero stati poi quei meccanismi che avessero consentito ad una fazione (cioè ad un partito) di avere il
potere di reclamare una modifica costituzionale, magari in combutta con un altro
ramo del governo. Qualora infatti il misurato giudizio del cittadino cadesse nella
trappola del ragionar per fazioni, “le passioni, e non le ragioni, del pubblico siederebbero in giudizio” (“the passions, and not the reasons, of the public would
sit in judgement”). Ciò è particolarmente odioso perché “è il raziocinio del pubblico che solo dovrebbe controllare e regolare il governo. Le passioni dovrebbero essere controllate e regolate dal governo” (“it is the reason of the public alone
that ought to control and regulate the government. The passions ought to be
controlled and regulated by the government” ) (Cooke 1961, 343).
Proviamo ora a sovrapporre il diagramma scopico di Monticello e il programma
psichico del Dialogo al discorso politico del Federalist 49. Seguendo l’architettura gerarchica della psicologia delle facoltà, la volontà deve sempre trovare il
modo di porre un freno alle emozioni per impedire che esse si traducano in passioni. Reinserito nel contesto del discorso dei regimi scopici, questo meccanismo di razionalizzazione si trasforma in un meccanismo di stabilizzazione sensoria. Inserendo la propria fisiologia all’interno dell’edificio scopico, l’osservatore
limita il campo visivo del proprio corpo e lo assomma al regime scopico ritenuto normativo della visione. Ciò può essere chiaramente letto in un passo del
Dialogo dove un lungo elenco di luoghi vaghi precede il passo citato dove il
Cuore immagina Maria in visita a Monticello. L’elenco percorre l’itinerario dei
Anthony Marasco
La villa di Thomas Jefferson
luoghi dove Maria suscitò l’interesse (certamente anche erotico) di Jefferson.
Heart: Oh! My dear friend, how are you revived me by recalling to my mind [with
your minute descriptions] the transactions of the day! How well I remember
them all ... Go on then, like a kind of comforter & paint to me the day we went
to St. Germains. How beautiful was every object! The Port de Reuilly, the hills
along the Seine, the rainbows of the machine of Marly, the terrace of St.
Germains, the chateaux, the gardens, the statues of Marly, the pavilion of
Lucienne. Recollect too Madrid, Bagatelle, the King’s garden, the Desert. How
grand the idea excited by the remains of such a column! The spiral staircase too
was beautiful! Retrace all those scenes to me, my good companion, & I will forgive the unkindness with which you were chiding me (Peterson 1984, 869)8.
Nei luoghi che portano dall’incontro alla passione è forte l’elemento spettacolare e sensazionalistico. Per ricondurre il rapporto con Maria all’alveo amicale, il
Cuore introduce Monticello come punto di equilibrio sia scopico che emotivo. Il
raggiungimento di un punto mediano sentimentale tra intelletto ed emotività è
pure l’obiettivo della teoria politica jeffersoniana così come ci è stata mostrata in
nuce da Madison. Perché le passioni non cadano in balia di spettacoli orchestrati ad arte per ingenerare passioni prive di sentimento razionale, occorre che esse
vengano poste sotto il governo dalla ragione9 (è bene notare al margine che la
soluzione data da Jefferson al problema delle passioni è intimamente contraddittoria perché cerca nella razionalità soggettiva la soluzione di un dilemma che
è implicito in questo tipo di razionalità, e cioè il suo carattere fondamentalmente spettatoriale. Per arrivare ad una critica di questo tipo di soggettività politica
occorrerà aspettare in America l’emergere del pensiero di John Dewey).
Ragioni storiche del rilievo politico del diagramma. Nella bibliografia contemporanea uno dei punti critici di maggior contesa è se il pensiero politico americano del periodo rivoluzionario sia stato essenzialmente repubblicano o fondamentalmente liberale. La distinzione tra origini liberali e retaggi repubblicani
della teoria politica dei ‘padri fondatori’ non è leziosa. Chi accetti solo l’origine
liberale delle istituzioni democratiche americane non avrà nessuna difficoltà a
leggere in modo positivo la relazione esistente tra democrazia ed economia di
mercato. Chi invece legga anche caratteristiche repubblicane nei discorsi che
diedero origine alla democrazia americana dovrà tener conto della profonda ostilità con la quale uomini come Jefferson trattarono l’emergente dominio dei mercati finanziari.
A mio parere la ricostruzione del modello scopico di Monticello offre un punto
di incontro tra le due tendenze interpretative e quindi complica il modello liberale problematizzando il ruolo necessariamente democratizzatore del libero mercato. Il carattere fortemente cognitivo dato da Jefferson alla sua residenza mette
in luce la centralità del problema epistemico nel suo pensiero politico. All’Uomo
la natura ha dato l’intelletto e con l’uso regolato di esso tutte le superstizioni del
sedimento storico possono essere rimosse col tempo. Questa costante ricerca di
fondamenta razionali costituisce un aspetto indubbiamente liberale, lockiano del
pensiero di Jefferson. Pure liberale è il carattere di luogo privato orientato verso
il pubblico assegnato da Jefferson alla sua abitazione. In questo senso, il prato
vuoto di Monticello è il luogo verso cui il sentimento morale si apre alla contemplazione della natura e all’attesa dell’Altro. La villa di Monticello è posta dun-
8
“Cuore: Oh! Mio caro
amico quale benefico
influsso ha su di me il
tuo ricordare i nostri
trascorsi giornalieri
con i nostri amici! E
come me li ricordo
bene ... prosegui dunque come chi dà conforto e dipingi per me
il giorno in cui
andammo a St.
Germain. Com’era
bella ogni cosa! Il
Porto di Reuilly, le colline lungo la Senna,
gli arcobaleni sulle
macchine idrauliche
di Marly, la terrazza
di St. Germains, il
castello, i giardini, le
statue di Marly, i padiglioni di Lucienne.
Ridipingimi nel ricordo anche Madrid,
Bagatelle, i giardini
del Re, il Deserto. Che
idee grandiose provocava la vista di una
simile colonna! Pure
la scala a chiocciola
era bella! Ridisegnami
tutte quelle scene, mio
caro compagno, e io
dimenticherò il modo
sgarbato in cui mi disapprovavi poc’anzi”.
9
Sulla centralità della
psicologia delle facoltà nel mondo politico
neoclassico occupato
da Jefferson si veda:
Howe (1997).
69
n.1 / 2000
que in un luogo impervio, ma non è aliena all’ospitalità. Chi convalidi il suo assetto cognitivo può farvi visita e condividerne le bellezze. È qui che secondo me si
inserisce l’elemento repubblicano del pensiero di Jefferson. Per convalidare l’assetto cognitivo di Monticello e condividerne i frutti, l’Altro dovrà comprenderne
prima il carattere locale. Monticello va esperito in quanto luogo fisico localizzato
nel paesaggio. E questo paesaggio è un paesaggio naturale che contiene al suo
interno un motivo di pastorale agraria. Proviamo dunque a ripartire da quest’ultimo dato per ricostruire la valenza da dare alla suddivisione dell’io di Jefferson
in Mente calcolatrice e Cuore sentimentale.
Come si è visto, mentre la Mente fonda il proprio sapere sul calcolo, il Cuore si
apre alla contemplazione della natura e all’attesa dell’Altro. La divisione di ruoli
è localizzata da Jefferson nella divisione della sua abitazione mentale. Come
abbiamo visto, questa divisione può anche essere letta nel diagramma scopico di
Monticello. Un’altra lettura è però possibile. Jefferson usa per la prima volta il
toponimo ‘Monticello’ nel 1767 nel suo quaderno di giardinaggio (il cosiddetto
Garden Book). Se nel Dialogo la contemplazione della natura doveva essere praticata a vantaggio della passione morale, per tutta la vita Jefferson osservò la
natura di Monticello con l’occhio calcolatore della Mente. Nel quaderno di giardinaggio, come negli altri suoi diari, Jefferson divide e suddivide, calcola e computa. Il fine ultimo delle sue osservazioni barometriche, botaniche, agrimensorie
e dei suoi esperimenti agrari, ottici ed etnografici era lo sfruttamento rigoroso di
tutte le risorse offerte dal sito. A Monticello tutto era calcolato all’utile e ogni
possibile risorsa dalla mente calcolatrice del suo padrone (che malgrado questo
finì per portare l’impresa al fallimento, preferendo, ad esempio, la cucina di stile
francese a quella locale).
Monticello è dunque per il suo padrone un luogo di computo e di rendimento,
come lo era di lavoro coatto e di sfruttamento per i suoi schiavi. Ciò che dava un
carattere morale a tale sfruttamento era il discorso repubblicano della virtù civile da attribuirsi ai doveri provenienti dalla patria potestà, un discorso che nel
nord della costa atlantica veniva sempre più metaforizzato, ma che al sud veniva
ancora letto, per interesse, alla lettera. Secondo questo discorso assai ambiguo
sulla virtù greco-romana, solo colui che ha ben governato la tenuta agraria può
ambire al governo della cosa pubblica - che è un dovere da assumersi temporaneamente e con la dovuta gravitas. La configurazione neoclassica che vede il
governo del podere come il fondamento dell’amministrazione della cosa pubblica impone dunque una topografia ‘virtuosa’ (nel senso ambiguo sopra indicato)
di tante piccole località come Monticello aperte l’una verso l’altra. Tale è l’impianto microscopico di una società ‘sana’, impianto che dovrà essere replicato
sulla scala macroscopica dell’assetto federale. La virtù repubblicana si fonda
quindi sul buon governo della cosa pubblica come espressione del buon governo della località di provenienza del governante. L’apertura scopica della villa va
inserita in questo contesto: essa dispone la mente del yeoman farmer verso
quell’assetto cognitivo che meglio gli consente di legarsi alla specificità empirica
del territorio. È lì che ha origine il buon governo. Ed è pure lì che ha origine la
sovranità federale.
70
Anthony Marasco
La villa di Thomas Jefferson
Contraddizioni e colonizzazioni
Il modello cognitivo e politico impiantato da Jefferson a Monticello è intimamente contraddittorio e aperto alla possibilità di essere a sua volta colonizzato
da altre pratiche discorsive. Dal punto di vista cognitivo, l’adattamento del regime scopico della villa palladiana alla descrizione empirica maschera il fatto che
ciò che viene usato per simbolizzare l’osservazione empirica è sostanzialmente
una costruzione prospettica: per quanto non demarcata visivamente, la proiezione degli assi ortogonali sul circondario permette ancora a chi occupi la villa di
percepire lo spazio secondo le caratteristiche fondamentali della prospettiva
lineare. Questo mascheramento simbolico ci porta dal livello cognitivo a quello
più propriamente politico. Il modello jeffersoniano che lega la virtù civile al possesso di terre ben governate è ancora fondamentalmente manorile in senso britannico e destinato a fallire in un paese come gli Stati Uniti dove fin dall’inizio
vasti strati della popolazione possedevano appezzamenti terrieri. Infine, la retorica della patria potestà non potrà giustificare a lungo in una società sempre più
democratica l’impiego del lavoro coatto degli schiavi di famiglia. A quale virtù
civile e politica porta il possesso e lo sfruttamento (anche erotico) di vite
umane?10
Ogni regime scopico pare essere attraversato per sua natura da contraddizioni
ed è in larga misura colonizzabile. In un certo senso, anche il regime scopico dell’osservazione empirica è una colonizzazione e contaminazione del regime scopico del razionalismo prospettico di cui condivide l’impianto fortemente scenografico se non proprio teatrale. Allo stesso modo, il regime barocco pare funzionare come una riduzione all’assurdo delle contraddizioni presenti in entrambi i
precedenti regimi scopici. Ma a sua volta anche la contaminazione barocca è
aperta ad altre colonizzazioni. Incarnandosi nella visione strumentale degli apparecchi fotografici prima, e in quelli cinematografici poi, il regime scopico della
descrizione empirica è stato colonizzato dall’iperstimolazione sensoria dello
spettacolo barocco. A sua volta, il ritorno tecnologico del barocco, più che essere una riduzione all’assurdo della visione strumentale è stato ricolonizzato e
messo al servizio della fantasmagoria delle merci. Più che rappresentare un
punto di fuga dalla logica capitalista, il neo-barocco dei media immerge sempre
più la mente dello spettatore nel sogno senza uscita di un mondo interamente
mercificato.
10
Alludo qui alla relazione intrattenuta da
Jefferson con la mulatta Sally Hemings.
Sull’argomento si
veda: Jan Lewis and
Onuf (1999).
Conclusioni
In quanto precede, si è ripercorso un tragitto di idee che assegnava al governo
dei luoghi una dimensione anche cognitiva. L’ultimo momento edificatorio
prima del collasso di tale tradizione legava la territorialità federale ad un modello utopico di percezione mirante a creare una catena di località razionali aperte
allo studio della natura e all’incontro con l’Altro.
Molto poco di quanto Jefferson impiantò a Monticello può essere riusato oggi se non forse il desiderio di ripensare la cosa pubblica a partire da una salda stabilizzazione della percezione dei luoghi. Tale antecedente dovrebbe comunque
71
n.1 / 2000
interessare coloro che intendessero rimettere sul tavolo le dimensioni politiche
della cura paesistica. Perché ormai pare chiaro: un federalismo che abbia del
tutto perso il senso del paesaggio sarà del tutto indistinguibile dai processi di
parcellizzazione tipici della globalizzazione tardo capitalista.
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Maser,” in Una famiglia veneziana nella storia: I Barbaro, Venezia: Istituto Veneto di
Scienze Lettere ed Arti, 397-460.
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Cinquecento, Roma, Laterza
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Helm
de Gain-Montagnac, J.L.M. (1908), Ed., Memoires de Louis XIV, Paris, Garnery,
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Wisconsin Press.
Starn, R. (1989), “Seeing Culture in a Room for a Renaissance Prince,” in: Lynn Hunt, Ed.,
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Norton.
Peterson M.D. (1984), Ed., Thomas Jefferson: Writings, New York, NY: The Library of
America, 866-877.
__________________
Anthony Marasco si è laureato in Lingue e Letterature Straniere presso il
Dipartimento di civiltà Anglo-Americana dell’Università degli Studi di Ca’ Foscari,
Venezia. Attualmente è in procinto di conseguire un Ph. D. in storia delle idee
(intellectual history) presso il Dipartimento di Storia della University of
California, Berkeley. Nell’anno accademico 1996-97 è stato un intern presso la
Photograhs Collection del Centre Canadien d’Architecture/Canadian Centre for
Architecture, Montrèal, Quebec.
[email protected]
72
Patrizia Messina
Domanda di regolazione e
lavoro di rete: il caso delle
piccole e medie imprese
venete in Romania*
Passaggio a NordEst
La Regione Veneto ha orientato, soprattutto negli ultimi dieci anni, la promozione dell’apertura internazionale del sistema produttivo regionale verso i mercati
dell’Europa dell’Est. Come evidenziato da un recente documento della Giunta
Regionale: “La Regione partecipa a due importanti soggetti pubblici: la Finest
S.p.A., finanziaria specializzata nella promozione di joint-ventures e nello sviluppo di iniziative di natura commerciale e industriale e il Centro di
Documentazione Internazionale Informest, che fornisce alle imprese servizi di
consulenza, formazione e informazione commerciale-normativa” (Regione
Veneto 2000, 10).
L’attenzione prestata all’Est europeo non è dovuta solo a ragioni di vicinanza
geografica e culturale ai paesi della Mitteleuropa, ma soprattutto all’attrazione
esercitata da questi ultimi sui sistemi produttivi locali che, dopo la caduta del
Muro di Berlino, hanno trovato nei paesi come la Polonia, la Repubblica Ceca,
l’Ungheria e, soprattutto, la Romania, nuovi spazi per delocalizzare la produzione aumentando la competitività delle imprese. Come è stato notato a questo
proposito (Crestanello 1997, 121), “il fenomeno della riallocazione della produzione a imprese subfornitrici di altre aree, comporta una conservazione del controllo delle fasi della produzione effettuate al di fuori del distretto. (…) Il principale scopo di questa strategia è di ridurre i costi di produzione poiché i subfornitori sono di paesi con un basso costo del lavoro”. Il trasferimento nei paesi
dell’Est delle Piccole e medie imprese (Pmi) venete, tuttavia, riguarda solo in
parte il fenomeno della subfornitura, poiché in molti casi si tratta di nuove
imprese, non solo manifatturiere ma anche agricole e di servizi, che si costituiscono interamente nel paese ospitante e che tengono con la regione di provenienza relazioni di tipo essenzialmente commerciale, oppure producono solo
per il mercato interno, come nel caso delle imprese di costruzioni.
Secondo Corò (2000, 213), “il fenomeno della delocalizzazione ha raggiunto nel
Nord Est dimensioni consistenti, tali da far ritenere che non si tratti affatto di un
evento congiunturale quanto piuttosto di un sintomo del cambiamento strutturale dell’economia regionale, da interpretare nel quadro della nuova divisione
* Il presente lavoro fa
parte di una ricerca
più ampia di prossima pubblicazione per
i tipi dell’UTET
Libreria. (Messina
2001).
73
n.1 / 2000
1
Le Contee di Arad e
Timisoara vengono
qui considerate come
un’unica regione poiché, secondo il progetto di riforma istituzionale sul decentramento di prossima attuazione, esse verranno
unificate, insieme alla
contea di CarasSeverin, nella Regione
Cinque Ovest.
2
Uno dei problemi rilevanti quando si vuole
censire il numero
delle imprese, come
nel caso delle imprese
italiane in Romania,
ma non solo, è quello
di riuscire a fare
emergere quella realtà
fatta di micro e piccole imprese che sfuggono alla classificazione
europea delle Pmi
(meno di 50 addetti;
fatturato annuo inferiore ai 40 miliardi;
non più del 25% del
capitale deve essere
posseduto da imprese
diverse, ecc.) ma che
costituiscono una
realtà importantissima per le reti di
impresa. La rilevanza
della definizione di
Pmi è di fondamentale importanza non
solo per problemi di
ricerca sul campo ma,
soprattutto, per le politiche di incentivi
attuate dall’UE e dai
singoli Stati membri
dell’Unione.
3
È questo l’obiettivo
del progetto-intervento
Reti di impresa, reti di
governance: la comunità locale delle piccole imprese del NordEst in Romania nella
regione di AradTimisoara che sto
avviando grazie ad
un accordo istituzionale tra l’Università
di Padova e
l’Università “Vasile
Goldis” di Arad, con il
supporto logistico del
Centro Servizi
74
internazionale del lavoro”. Tuttavia, continua Corò, “bisogna ammettere che a
tutt’oggi non esistono in letteratura misure univoche sugli effettivi livelli raggiunti dai processi di decentramento all’estero della produzione”. Le difficoltà di
misurazione non sono solo di tipo statistico-metodologico ma soprattutto di tipo
concettuale, di definizione del fenomeno. Per questa ragione, sebbene al
momento risulti molto difficile fornire dei dati quantitativi sulla portata del fenomeno della delocalizzazione delle Pmi venete nei vari paesi esteri, rimane tuttavia inconfutabile che il fenomeno sta assumendo una portata decisamente
“dirompente” per gli equilibri economici dei sistemi locali.
Particolarmente interessante è, in questo senso, il fenomeno che si sta verificando negli ultimi anni nella regione romena di Arad-Timisoara1 che sta vedendo
crescere a ritmi eccezionali la presenza di piccole e medie imprese del Nord-Est,
soprattutto del Veneto. Secondo stime approssimative2 si calcola che in tutta la
Romania vi siano circa 7.000 imprese italiane, di cui oltre il 60% provenienti dal
Veneto, insediate nella sola regione di Arad-Timisoara e aventi con la regione di
provenienza relazioni continue. Basti pensare che dagli aeroporti di Treviso e di
Verona per Arad e Timisoara c’è ormai un volo giornaliero che fa la spola tra le
due regioni.
Il fenomeno di delocalizzazione delle piccole e medie imprese manifatturiere del
Veneto nella regione romena ha assunto ormai, infatti, proporzioni rilevanti: l’intero distretto della scarpa di Montebelluna, che già decentrava più dell’80% della
produzione di scarpe da tennis nei paesi del Sud-Est asiatico, ora si sta trasferendo a filiera in Romania e lo stesso sta accadendo nei settori del tessile-abbigliamento, del legno e mobile, delle costruzioni per edilizia locale. Le province
più interessate sono, appunto, quelle di Treviso e di Verona.
È da notare che le imprese si sono mosse da sole, senza usufruire di alcun aiuto
finanziario né appoggio politico-istituzionale, spinte dai vantaggi competitivi che
la Romania, nonostante una legislazione a volte inadeguata e un contesto socioeconomico in ritardo di sviluppo, offre sia per i bassi costi della manodopera dotata di una buona professionalità (un salario medio è intorno alle 250.000 lire mensili) sia per la forte disponibilità a basso costo di materie prime (legno, pellame,
materiale tessile, di costruzione, nonché terreni agricoli a costi bassissimi) sia per
essere in una fase di crescita economica e, non ultimo, per essere l’unico paese
di lingua e cultura neolatina, quindi per certi versi più vicino all’Italia, rispetto
agli altri paesi dell’Est europeo. Ci troviamo, insomma, di fronte ad un caso
esemplare in cui è possibile osservare la genesi di forme proto-distrettuali che
nascono per gemmazione da distretti storici, i quali stanno non solo trasferendo
altrove la propria attività produttiva, ma anche cercando di ricreare la rete di relazioni comunitarie che caratterizzano i distretti del Veneto. Un’occasione storica,
forse irripetibile, per analizzare la realtà produttiva e le reti di governance non
solo della regione romena, ma anche del Veneto, attraverso una comparazione
per contesti3.
In questo ambito un ruolo di crescente interesse viene svolto dal Centro Servizi
Formativi di Arad, attivato grazie ad un progetto di cooperazione internazionale
sostenuto dal Ministero degli Affari Esteri Italiano4 (MAE), che sta diventando un
punto di riferimento importante per le imprese venete presenti nella regione, le
quali si rivolgono preferibilmente al Centro servizi italiano (veneto) piuttosto
Patrizia Messina
Domanda di regolazione e lavoro di rete
che alle istituzioni locali romene, visto che queste ultime non sempre sono in
grado di costruire un vero e proprio canale di comunicazione tra la cultura delle
imprese italiane e quella del contesto locale romeno: si tratta infatti di un’attività fondamentale, qual è quella della mediazione culturale, che non può essere
offerta da istituzioni di rappresentanza, politica o degli interessi, ancora legate ad
una logica di azione di tipo “tradizionale” e monoculturale, ma deve prevedere
operatori e organizzazioni forniti di una diversa sensibilità di tipo interculturale5.
Lo stesso tipo di difficoltà incontrano, d’altra parte, le (poche) associazioni di
categoria italiane e venete che operano nella regione romena che hanno aperto
sedi a Bucarest e una rappresentanza nella regione di Arad-Timisoara. Gli
imprenditori intervistati6 ritengono, infatti, che la logica di azione di queste associazioni nel fornire servizi alle imprese sia “troppo italiana”, orientata cioè al
medesimo tipo di servizi offerti in Italia (e ai costi italiani), come per esempio la
certificazione di qualità, o la consulenza sul piano di investimento, mentre le
imprese italiane avrebbero più bisogno di capire come muoversi nel contesto
romeno per entrare in relazione con un territorio e una cultura che non conoscono a fondo e dove non possono dare per scontato che il loro sistema di riferimento e di azione sia ugualmente valido. In altre parole, le imprese venete
esprimono, se così si può dire, una domanda di “formazione interculturale”, un
aiuto per entrare in relazione con un contesto locale con cui intendono familiarizzare secondo logiche che non sono solo quelle “predatorie” del mero profitto
nel breve periodo, ma sono anche quelle del radicamento nella società locale.
Una prova in più, se ce ne fosse bisogno, che la regolazione dello sviluppo locale dei sistemi di Pmi del Veneto non è quella del puro mercato, bensì quella della
rete comunitaria, radicata nel territorio in cui la comunità delle Pmi opera.
È interessante notare, a proposito, che le imprese venete esprimono al Centro
servizi una domanda di rappresentanza e coordinamento poiché, contrariamente a quanto avviene in Veneto, in Romania non possono contare, di fatto, né su
un sostegno delle associazioni di categoria del tipo richiesto, né tanto meno su
quello delle istituzioni politiche locali della regione di provenienza: una novità
per le Pmi venete tendenzialmente restie a richiedere, in Veneto, il supporto dei
Centri servizi e che dovrebbe far riflettere sull’opportunità che, in questa fase, si
sta aprendo per un’articolazione più complessa delle politiche di regolazione
dello sviluppo locale del Veneto.
Questo tipo di Centro servizi7 si trova ad avere perciò, grazie alla sua dimensione interculturale, una posizione privilegiata che gli sta permettendo di diventare
un nodo significativo della rete che la comunità veneta e del Nord-Est sta cercando di costruire nella regione romena proprio perché si tratta di un soggetto
dotato di una specifica abilità nella costruzione di una rete lunga che sia in grado
di connettere la comunità veneta in Romania sia con le reti politico-istituzionali
del Veneto sia con quelle della Romania. In assenza di un’istituzione politica in
grado di svolgere funzioni di networking tra i due contesti locali, le imprese
venete possono contare, infatti, solo sulle reti informali di imprenditori che,
però, tendono a rimanere reti locali piuttosto “corte”, cioè non sufficienti a
garantire un collegamento tra contesti geograficamente lontani e, per di più,
caratterizzati da istituzioni politiche e da modi di regolazione differenti.
Accade così che al Centro servizi si rivolgono, generalmente, imprese e istituzio-
Formativi di Arad. Il
progetto é stato inserito recentemente nel
protocollo intergovernativo italo-romeno
ed é pertanto sostenuto dal MAE per il triennio 2001-2003.
4
Il progetto, sostenuto
dalla legge 212 MAE, è
coordinato
dall’AGFOL (Agenzia
per la Formazione dei
Lavoratori) di Venezia
e dalla Fondazione
“Vasile Goldis” di
Arad. Ringrazio
Tiberio Grunwald,
direttore del Centro
servizi e Carlo Bolpin,
presidente dell’AGFOL,
per la collaborazione
e per avermi dato la
possibilità di intervistare alcuni imprenditori veneti che hanno
avviato imprese manifatturiere nella regione di Arad-Timisoara.
5
Il passaggio dalla
multiculturalità all’interculturalità non è,
insomma, un fatto
automatico e tanto
meno naturale, ma
dipende dalla volontà
politica di costruire
una società in cui la
diversità è un valore e
non una minaccia
per l’identità sociale.
A proposito mi permetto di rimandare a
Messina (2000).
6
Sono stati intervistati
12 imprenditori veneti
incontrati in
Romania in occasione
delle Giornate delle
imprese italiane, svoltesi a Timisoara nel
maggio 2000.
7
Il Centro Servizi
Formativi, a conclusione del progetto di
cooperazione internazionale sostenuto dal
MAE (dicembre 2000),
assumerà la forma di
una Fondazione e
funzionerà pertanto
come ONG internazionale.
75
n.1 / 2000
8
Un progetto presentato tramite una di queste s.p.a. beneficia,
infatti, di un punteggio automaticamente
più elevato. Vedi per
esempio la circolare
Min.Com.Es. del
marzo 2000, e la scheda tecnica contenente
gli elementi per la
valutazione di progetti d’investimento
finanziati ai sensi
della legge 212/92 D.M. n.319 del 21.7.99.
9
Un dato che comunque rimane certo è
che negli anni
Novanta la Regione
Veneto ha praticamente annullato le
attività di scambi culturali internazionali,
finanziati con la
Legge reg. 54/1983 e
avviati negli anni
Ottanta, che sono state
ridotte al minimo a
partire dalla VI legislatura.
10
La Romania, come
gli altri paesi dell’Est
europeo, è contrassegnata da una frattura
tra centro e periferia
che vede, da un lato,
la capitale Bucarest
tendente ad esercitare
un monopolio per il
controllo delle risorse
(informative e finanziarie) provenienti
dai rapporti con l’estero e, dall’altro, la
periferia, soprattutto
quella delle zone più
sviluppate, che tende
a costruire direttamente reti di relazioni
con l’estero bypassando il governo centrale.
76
ni che vogliono entrare in relazione con la realtà produttiva della regione romena (recentemente alcune Case di riposo per anziani stanno analizzando la possibilità di chiamare in Veneto infermieri specializzati romeni), usufruendo dell’efficace “lavoro di rete” che il Centro è in grado di svolgere; al contrario le istituzioni politiche locali del Veneto, che pure stanno avviando gemellaggi con le istituzioni locali romene, non scelgono di interagire con il mondo della società civile locale, né di muoversi con una logica orientata al lavoro di rete ma, piuttosto,
sembrano agire in competizione tra loro anziché attraverso un coordinamento
regionale. La domanda di regolazione delle imprese venete che operano nel contesto romeno si rivolge, pertanto, più a un Centro servizi, in grado di mediare tra
i due diversi contesti, che a un’istituzione politica locale veneta o romena.
Altrettanto interessante è rilevare che, come è emerso dalle interviste effettuate
agli imprenditori veneti ad Arad e Timisoara, la quasi totalità delle imprese italiane non è a conoscenza e/o non ha potuto usufruire, di fatto, dei finanziamenti offerti dai programmi europei (come gli studi di fattibilità, workshop promozionali per l’impresa, fondi per la formazione, attraverso le linee dei programmi
Phare Facility, Jop, ecc.) né del governo italiano (legge 212/92 Min. Com. Es. in
cui Finest, Simest e Informest godono di un trattamento privilegiato8). Questo
perché, in primo luogo, i criteri di ammissibilità e di valutazione dei requisiti
europei non erano adeguati alle caratteristiche delle Pmi venete presenti in
Romania, in secondo luogo, perché i costi della consulenza e della procedura
burocratica rischiavano di superare gli eventuali benefici e, in terzo luogo, perché Finest e Simest hanno privilegiato la promozione di progetti di portata
ingente scegliendo come partner interlocutori proposti dal governo romeno
che, fermandosi nella capitale o nelle zone da questa proposte, non hanno
avuto, in realtà, un impatto significativo sul territorio locale in cui erano presenti le Pmi venete.
Riguardo la presenza della Regione Veneto e degli enti locali, è opinione diffusa
dei piccoli imprenditori veneti intervistati che la logica di azione degli interventi
di cooperazione attuati dalla Regione Veneto abbia privilegiato i canali politici
istituzionali dello Stato centrale romeno e delle società finanziarie come la Finest
e Informest (di cui la Regione Veneto è uno dei principali azionisti) piuttosto che
interventi in grado di attivare risorse locali di cui possono usufruire le Pmi venete presenti sul territorio romeno, realizzando un effettivo sviluppo locale.
Ancora una volta la logica di azione delle Pmi venete viene percepita dagli
imprenditori stessi, e mostra di essere visibilmente distante dalla logica di azione politica della Regione Veneto. Retorica di cooperazione e solidarietà9 a parte,
l’azione politica regionale appare, agli occhi degli imprenditori intervistati, poco
convincente e tanto più difficile da comprendere in quanto le forze politiche del
governo regionale sono quelle che dicono di battersi per il federalismo e le autonomie locali: la Regione Veneto, infatti, continua a rivolgersi a Bucarest quando
le imprese sono insediate prevalentemente nelle Contee occidentali della
Romania10, finanziando interventi che hanno, però, solo uno scarso impatto sullo
sviluppo locale delle regioni periferiche a cui partecipano le Pmi venete: tutto
questo non favorisce certamente un miglioramento del livello di fiducia degli
imprenditori veneti verso l’istituzione regionale che dovrebbe rappresentarli. Né
gli Enti locali del Veneto si sono mossi, secondo gli intervistati, in modo più effi-
Patrizia Messina
Domanda di regolazione e lavoro di rete
cace e tempestivo, anch’essi per mancanza di una reale strategia politica in tema
di cooperazione. Essi, tuttavia, vengono percepiti più vicini alle imprese venete
quando si rivolgono alle autorità locali delle province interessate di Arad e
Timisoara, bypassando in tal modo sia il governo centrale romeno sia
l’Ambasciata italiana a Bucarest la quale rappresenta, per gli intervistati, il prototipo più negativo della burocrazia gestita in senso centralistico11.
Al di là della fondatezza delle affermazioni formulate dagli imprenditori veneti
intervistati, la loro opinione, spesso argomentata con dovizia di particolari, testimonia, comunque, una distanza crescente tra la politica e l’economia nel Veneto
anche nell’ambito della cooperazione internazionale, una distanza che da alcuni
intervistati è stata espressa in modo esplicito sotto forma di disinteresse per le
vicende politiche regionali e di un dichiarato astensionismo alle elezioni regionali del 16 aprile. Va sottolineato, inoltre, che l’assenza della Regione Veneto
nella costruzione di reti tra comunità locali venete, per altri versi così intrecciate, viene puntualmente rilevata dagli intervistati con un certo disincanto, come
una specie di “profezia” che si autoavvera, nella convinzione, al tempo stesso,
che diventa sempre più necessario compensare questa carenza creando, ancora
una volta, istituzioni intermedie alternative, in grado di “governare” un sistema
che si è fatto più complesso. In questo caso, quindi, la domanda politica di regolazione, non adeguatamente intercettata da parte della Regione, tende ad essere
rivolta, significativamente, a nuove associazioni di imprenditori italiani che stanno nascendo in Romania, come il “Circolo delle imprese italiane”, che tendono
a ricostruire le medesime dinamiche di regolazione comunitaria che caratterizza
il contesto di provenienza, soprattutto del Nord-Est.
Un altro urgente problema correlato alla sfida della globalizzazione economica
riguarda la necessità per le imprese del Veneto di reperire manodopera idonea
a garantire i ritmi produttivi del Nord-Est. Come ha recentemente dichiarato il
presidente degli industriali del Veneto e di Unindustria di Padova, Luigi Rossi
Lucani, “per avere più disponibilità di manodopera la nostra associazione sta dispiegando una serie di attività volte ad attrarre nel nostro territorio giovani del
Mezzogiorno e a formare lavoratori provenienti da altri Paesi”12. Secondo stime
di Unindustria di Padova, se 5 anni fa solo il 20% delle aziende padovane avvertiva la difficoltà a trovare personale, oggi la percentuale è salita al 70% e si stima
che nei prossimi due anni le imprese della sola provincia di Padova avranno un
fabbisogno di centinaia di assunzioni di forza lavoro immigrata. Il rapporto
annuale della Fondazione Nord Est 2000 parla ancora più chiaro: valutando l’andamento demografico del Veneto e il basso tasso di natalità, si può sostenere che
per i prossimi vent’anni la tenuta del sistema produttivo dell’intero Nord-Est
dipenderà dalla capacità di attrarre forza lavoro immigrata e di integrarla nei
sistemi produttivi locali (Diamanti, Marini 2000).
Per le stesse ragioni l’emergenza infermieri, denunziata da alcune case di riposo
per anziani, che potrebbe essere risolta efficacemente attraverso la cooperazione internazionale con la programmazione di un percorso formativo adeguato
assumendo forza lavoro immigrata (come è già stato fatto da alcune regioni della
Francia, della Spagna e della Germania), sta incontrando innumerevoli ostacoli
di ordine politico e burocratico (Dal Mas 2000), resi ancora più complessi dalla
lentezza decisionale con cui la Regione Veneto sta trattando il problema “riman-
11
La giustificazione
addotta
dall’Ambasciata italiana è di essere stata
sottoposta, negli ultimi
anni, a ritmi di lavoro quasi insostenibili
se è vero, come risulta
dai dati ufficiali, che
ogni giorno devono
essere evase oltre 500
richieste ordinarie di
visto di ingresso in
Italia, mentre nella
“corsia preferenziale”
le pratiche da evadere
non scendono da
tempo sotto la soglia
dell’emergenza di
oltre mille casi. A ciò
gli imprenditori ribattono che, in ogni caso,
questo non può giustificare né il trattamento clientelare né l’arbitrarietà con cui vengono valutate le pratiche di richiesta di
visto di ingresso di
lavoratori romeni in
Italia, quest’ultimo
costituisce il vero
nodo dolente ed ha
persino costituito
oggetto di un’interrogazione parlamentare.
12
Cfr. l’Assemblea
annuale di
Unindustria di
Padova, tenutasi a
Padova il 26 giugno
2000; cfr, L. Barsotti
(2000,2).
77
n.1 / 2000
13
Mi riferisco, in particolare, al dibattito
emerso sulle cronache
nel luglio 2000 sulla
ridefinizione delle
quote dei nuovi
ingressi di lavoratori
stranieri su richiesta
delle Associazioni
industriali delle regioni del Nord, a cui il
governo Amato ha
risposto: "Prima di
stabilire nuovi ingressi
di stranieri, verifichiamo in modo certo che
non vi sia disponibilità
di lavoratori da parte
delle regioni del Sud"
(Casadio 2000, 4).
14
Intervista rilasciata
a La Repubblica 19
luglio 2000, p.4.
15
Com’è noto dalla
cronaca, il Sindaco
leghista del Comune
di Treviso, Gentilini, si
è contraddistinto per
aver assunto un atteggiamento di chiara
discriminazione nei
confronti degli immigrati extracomunitari
presenti nella città. Un
elemento su cui riflettere è che quella di
Treviso è però anche
la zona da cui molte
Pmi locali stanno
andando via verso i
Paesi dell’Est. La ricerca suggerisce, infatti,
l’esistenza di una
significativa correlazione tra le zone con
una maggiore presenza leghista, con scarse
politiche per l’integrazione degli immigrati
e, al tempo stesso, le
zone da cui provengono il maggior numero
di imprese venete
dirette in Romania
(cioè le province di
Treviso e di Verona).
78
dandolo” a Roma e dalla sostanziale mancanza di un intervento di regolazione
organico e tempestivo da parte del Governo centrale. La questione è destinata a
diventare, però, motivo di scontro politico non solo tra Stato e Regioni, o meglio,
tra governo di centro-sinistra e Regioni del Nord e del Polo, come il dibattito di
questi giorni sta mostrando13, ma anche, prevedibilmente, all’interno della stessa regione del Veneto laddove le posizioni delle piccole e delle grandi imprese
sembrano essere decisamente divergenti. Se i rappresentanti delle grandi imprese chiedono, infatti, un aumento del numero di lavoratori immigrati, al contrario
Fabio Padovan, rappresentante delle Pmi aderenti alla Life antifisco, ha significativamente dichiarato14: “Io dico basta a questo sviluppo sfrenato che stravolge la
nostra qualità della vita. Basta fabbriche, basta stranieri, basta inquinamento.
Abbiamo devastato il nostro territorio che è ormai saturo di capannoni, centri
commerciali, traffico, elettrodotti, discariche (…). Copiamo il modello federalista svizzero. Teniamoci solo le produzioni ad alto valore aggiunto, che soddisfano le esigenze dei nostri bacini naturali, e per il resto delocalizziamo, ma non al
Sud dove c’è il rischio mafia. In questo modo eviteremo l’arrivo di migliaia di
immigrati che alterano il nostro tessuto sociale”.
Il problema che rimane quindi tragicamente insoluto è proprio quello della regolazione politica di queste dinamiche dello sviluppo locale che richiederebbero
un coordinamento e una programmazione degli interventi del tutto inedita per
la cultura di governo locale e regionale del Veneto. Così, se da un lato, le politiche di integrazione degli immigrati non trovano spazio in Comuni come
Treviso15, amministrati dalla Lega, uno dei Comuni più ricchi ma anche culturalmente più lontani dai valori dell’interculturalità, dall’altro le iniziative attuate
dalle singole associazioni di categoria, senza alcun coordinamento pubblico,
rischiano di rimanere iniziative isolate e poco conosciute, pur avendo prodotto
buoni risultati.
Un esempio per tutti può essere quello dell’Api (Associazione piccole imprese)
di Vicenza che nel 1998 ha attuato un progetto di formazione di operai specializzati saldatori, reperendo la manodopera tra giovani meridionali provenienti da
Siracusa con un percorso formativo che prevedeva uno stage presso imprese
vicentine. Le imprese venete, tuttavia, secondo quanto dichiarato dai rappresentanti della stessa associazione di categoria vicentina, hanno mostrato di essere
riluttanti a trasferire parte della loro attività nel Sud del Paese poiché scoraggiate da un pregiudizio antimeridionalista, portato avanti anche dalla Lega Nord e
alimentato dallo stereotipo negativo del Sud = mafia e criminalità organizzata.
Può essere interessante rilevare che, proprio su questo problema, ben diversa è
stata, invece, l’azione svolta dalla Regione Emilia Romagna che, grazie al Progetto
Nord-Sud, dal 1996 sta avviando un intenso lavoro di rete con alcune Regioni del
Sud Italia per sostenere le imprese emiliano-romagnole che intendono delocalizzare in aree più favorevoli, oppure trovare manodopera qualificata da formare
per le esigenze delle Pmi locali (Degli Esposti 1999).
Rimane il fatto che quella dei lavoratori stranieri in Italia, e in Veneto, costituisce
un vero problema reso ancora più marcato dalla contingentazione di lavoratori
stranieri ammessi regolarmente per ogni Regione, sulla base di una quota concordata tra Regioni e Governo centrale e gestita in loco dalla Regione. Gli elementi raccolti mettono in luce come questo punto, in particolare, è destinato a
Patrizia Messina
Domanda di regolazione e lavoro di rete
diventare uno dei nodi fondamentali della “contrattazione” tra Regione Veneto e
Stato centrale nel prossimo futuro.
Riferimenti bibliografici
BARSOTTI, L. (2000), “Unindustria: non c’è manodopera”, in Il Mattino di Padova, 27
giugno, p. 2.
CASADIO, G. (2000), “Il governo frena sugli immigrati. Prima i giovani meridionali”, in La
Repubblica, 19 luglio, p. 4.
CORÒ, G. (2000), “Delocalizzazione: minaccia, necessità o opportunità”, pp. 213-220 in
I. Diamanti e D. Marini (2000).
CRESTANELLO, P. (1997), “I distretti industriali in Veneto: Cambiamenti e tendenze”, in
COSSENTINO F., PYKE F., SENGENBERGER W. (a cura di), Le risposte locali e regionali alla pressione globale: il caso dell’Italia e dei suoi distretti industriali, Bologna, il
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DAL MAS , S. (2000), “Negato il visto alle infermiere rumene”, in La Tribuna di Treviso,
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MESSINA, P. (2000), Diritti umani e società interculturale: per la costruzione sociale
di un progetto di sviluppo politico, paper presentato alle “Giornate accademiche di
Arad”, Università “Vasile Goldis”, Arad, 18-20 maggio 2000.
MESSINA, P. (2001), Regolazione politica dello sviluppo locale. Veneto ed EmiliaRomagna a confronto, Torino, UTET Libreria, in corso di pubblicazione.
_________________________
Patrizia Messina è ricercatrice di Scienza politica presso il Dipartimento di Studi
storici e politici dell’Università di Padova e insegna Governo locale presso il
Corso di Diploma per operatori della Pubblica Amministrazione. La sua area di
ricerca è focalizzata sui temi delle culture politiche locali e dei processi di governance orientati alla regolazione politica dello sviluppo locale.
[email protected]
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n.1 / 2000
Davide Barella
Gli strumenti delle politiche:
una rassegna
Il sestante
Nel campo dell’analisi delle politiche pubbliche ci sono numerosi studi che, a
vario titolo, pongono al centro della propria indagine gli strumenti delle politiche intesi come “quell’insieme di tecniche attraverso le quali i governi esercitano il proprio potere nel tentativo di assicurarsi sostegno e promuovere cambiamenti sociali” (Bemelmans-Videc et al. 1998).
Tali lavori presentano caratteristiche assai diverse: alcuni autori, infatti, prendono come campo d’indagine una specifica area di intervento (la politica economica, industriale, ambientale, ecc.) e cercano di individuare tutti i possibili modi
attraverso i quali i governi cercano di raggiungere gli obiettivi posti a fondamento della loro azione. Altri scelgono invece di concentrare l’attenzione sugli strumenti a disposizione dei diversi livelli di governo in uno specifico contesto storico e nazionale. In altri, infine, la riflessione assume un orizzonte più ampio
prendendo come riferimento l’intero spettro di azione degli apparati politicoamministrativi, nell’intento di far emergere una famiglia di strumenti, non troppo composita, a cui ricondurre l’intero complesso delle attività poste in essere
dai diversi livelli di governo.
In queste pagine mi ripropongo di fornire una prima rassegna degli strumenti di
policy prendendo come riferimento tre lavori assai diversi tra loro. L’obiettivo
non è quello di procedere ad una rigorosa comparazione dei diversi approcci utilizzati dagli autori (né di formulare un’ulteriore proposta di classificazione degli
strumenti di policy) bensì di mettere a disposizione del lettore una serie di intuizioni e suggerimenti al fine di valutare quale contributo tale approccio di studio
può fornire in chiave descrittiva, teorica e prescrittiva.
La “cassetta degli attrezzi” a disposizione dei governi.
Christopher Hood è stato uno dei primi autori che ha cercato di indagare l’attività politico-amministrativa proponendo come chiave di lettura gli strumenti a
disposizione dei governi. Il suo lavoro ha un’impostazione di carattere sistemico
e mira ad individuare e distinguere sia gli strumenti che i governi utilizzano per
promuovere e modificare i comportamenti dei destinatari delle politiche (effector) sia gli strumenti attraverso i quali gli apparati politico-amministrativi acquisiscono le risorse necessarie alla loro attività (detector). Secondo Hood, i governi dispongono, per definizione, di quattro risorse fondamentali: autorità, finanze, organizzazione e “posizione”.
80
Davide Barella
Gli strumenti delle politiche: una rassegna
Le risorse di autorità consistono nella facoltà che i governi hanno di emanare
norme giuridiche, le finanze concernono l’uso delle risorse finanziarie di cui dispone ogni livello di governo e l’organizzazione ha invece a che fare con la capacità di istituire organi, enti, istituti per lo svolgimento di funzioni e attività ritenute, a vario titolo, di interesse pubblico. La quarta risorsa base (“nodality” nel
testo originale, che ho qui tradotto con “posizione”) richiede qualche parola in
più. Ogni governo, per definizione, si trova ad essere parte di un sistema di relazioni con attori di diverso tipo (cittadini, associazioni, imprese, altri livelli di
governo, ecc.). Le relazioni possono ovviamente assumere caratteristiche e natura molto diverse; qui importa solo richiamare l’attenzione sul fatto che la posizione ricoperta dalle autorità pubbliche può essere una risorsa per alcuni strumenti.
Ognuna di queste risorse attribuisce ai governi la capacità/potenzialità di costruire specifici strumenti di politica pubblica. In particolare, l’autorità attribuisce ai
governi la capacità di certificare, abilitare, ordinare, proibire, concedere, autorizzare comportamenti e attività messi in atto dai soggetti che ricadono in specifiche giurisdizioni. Le risorse finanziarie possono invece essere impiegate per erogare sussidi, contributi, incentivi finalizzati alla promozione e/o al riconoscimento positivo di comportamenti che vanno nella direzione desiderata dai governi.
Per alcuni compiti o obiettivi, i governi possono invece optare per l’utilizzo della
risorsa organizzazione creando organismi ad hoc (dai vigili del fuoco ai servizi
sanitari). Per quanto riguarda l’ultima risorsa, nodality, Hood osserva che la
peculiare posizione e caratteristica dei governi nei processi di policy può essere
utilizzata per acquisire e diffondere informazioni e conoscenze in grado di modificare il comportamento di individui ed organizzazioni (come nel caso delle campagne di informazioni che mirano a promuovere l’uso del casco, la sicurezza nei
luoghi di lavoro, ecc.). Nella sua indagine, inoltre, Hood dispone questi strumenti lungo un continuum, dagli strumenti di natura meno coercitiva (quelli che
fanno affidamento sulla nodality e sulle finanze) a quelli di natura più coercitiva
(che impiegano l’autorità e l’organizzazione).
Carrots, Sticks & Sermon
Carrots, Sticks & Sermon (che possiamo tradurre con “carote, bastoni e sermoni”) è il significativo titolo di un recente lavoro realizzato a cura di Marie Louise
Bemelmans-Videc, Ray C. Ryst ed Evert Vedung. In questo studio gli autori circoscrivono l’indagine agli strumenti di policy che mirano a promuovere modificazioni nel comportamento di cittadini e organizzazioni lasciando in disparte
quegli interventi che operano trasformazioni sulla struttura dell’amministrazione
pubblica. In altre parole, seguendo la proposta classificatoria di Hood, il lavoro
di Bemelmans-Videc e colleghi non prende in esame gli strumenti che si fondano sull’utilizzo della risorsa organizzazione. In questo modo gli strumenti delle
politiche si riducono a tre grandi categorie in ragione del tipo di risorsa che essi
utilizzano: le regole, i mezzi economici, l’informazione.
Gli strumenti regolativi (sticks) sono impiegati sia per definire le azioni consentite, sia per limitare quelle attività ritenute dannose per una determinata società.
Tali strumenti solitamente trovano specifica e puntuale definizione in provvedi-
81
n.1 / 2000
menti normativi che stabiliscono le sanzioni da comminare qualora un soggetto
compia azioni proibite, non consentite. L’utilizzo delle regole implica sempre un
qualche grado di coercizione poiché il destinatario è obbligato a fare (o a non
fare) ciò che l’autorità prescrive. La relazione che si instaura tra apparati politicoamministrativi e destinatari è pertanto di natura autoritativa. Le ragioni che sembrano promuovere (almeno implicitamente) il ricorso agli strumenti regolativi
sono sostanzialmente due: innanzitutto si ritiene che le regole presentino un
notevole grado di certezza ed efficacia; inoltre, si dà per scontato che la loro
attuazione non incida significativamente sul bilancio pubblico. La ricerca empirica ha tuttavia messo in discussione tali assunti. Il grado di certezza delle regole
è assai variabile in ragione dei diversi contesti di policy ed inoltre la necessità di
dover disporre di apparati amministrativi finalizzati a far rispettare le norme presenta costi che non sono necessariamente ridotti (senza tener conto dei costi
della regolazione che ricadono sui destinatari).
Attraverso gli strumenti che si affidano alle risorse economiche (carrots) l’autorità mira ad indurre il comportamento desiderato ricorrendo alla distribuzione
(o alla deprivazione) di risorse materiali. In questo caso, i destinatari non sono
obbligati a conformarsi alla norma ma detengono un legittimo ambito di autonomia. In altre parole, i destinatari degli interventi sono posti di fronte ad una
scelta che consente loro anche di non mettere in atto il comportamento promosso dalla norma senza che ciò comporti necessariamente alcuna sanzione
diretta. Gli strumenti di policy che rientrano in questa categoria possono essere
ulteriormente distinti tra strumenti che mirano a promuovere il comportamento desiderato (ad esempio gli incentivi e i contributi erogati alle imprese per la
promozione dello sviluppo tecnologico) e strumenti che invece sono orientati a
disincentivare azioni e comportamenti ritenuti dannosi (ad esempio le imposte
sul consumo del tabacco). Le indagini condotte su questo tipo di strumento di
policy hanno messo in luce alcuni aspetti negativi legati al loro utilizzo. In particolare, per quanto riguarda i contributi e gli incentivi sono stati rilevati nodi problematici sia sul versante attuativo (in relazione ai criteri impiegati per individuare/selezionare i soggetti beneficiari) sia su quello valutativo (se non si predispongo opportuni strumenti di valutazione dei risultati è assai difficile riuscire a
distinguere tra i soggetti che hanno modificato il loro comportamento grazie ai
benefici previsti dalla norma e i soggetti che avrebbero comunque modificato il
loro comportamento anche in assenza dell’intervento pubblico).
Nel caso degli strumenti che ricorrono all’informazione (sermon) la relazione
che si instaura tra autorità pubblica e destinatario è di natura persuasiva ovvero
si presume di riuscire ad ottenere il comportamento desiderato attraverso la diffusione della conoscenza, la comunicazione di argomenti ragionati e la persuasione morale. L’informazione diffusa può riguardare la natura del problema, le
modalità attraverso cui le persone attualmente affrontano quel problema, le
misure che possono essere prese per modificare l’attuale situazione e le ragioni
per cui tali misure potrebbero o dovrebbero essere adottate dai destinatari.
Nell’ambito degli strumenti di informazione rientrano le campagne di comunicazione pubblica, la diffusione di materiale stampato (brochure, libri, periodici,
bollettini, ecc.). Attraverso questo strumento sono offerte informazioni, dati,
fatti, conoscenze, argomenti, appelli al senso civico; in questo caso pertanto la
82
Davide Barella
Gli strumenti delle politiche: una rassegna
scelta di adottare determinati comportamenti/azioni è lasciata completamente
alla discrezionalità/autonomia dei destinatari.
La tripartizione proposta nel lavoro di Bemelmans-Videc e colleghi si fonda, in
ultima istanza, sulla natura del rapporto che si instaura tra l’autorità pubblica (gli
organi politico-amministrativi) ed i destinatari delle politiche. Le tre categorie di
strumenti, infatti, possono essere disposte lungo un continuum in relazione al
loro grado di coercizione (come già nel lavoro di Hood). Le regole sono lo strumento che prevede il massimo grado di coercizione riducendo al minimo l’ambito di autonomia del destinatario (le norme del codice penale sono l’esempio
più incisivo); al polo opposto, gli strumenti che ricorrono all’informazione lasciano la massima libertà d’azione ai destinatari e dispongono di un basso grado di
capacità coercitiva (si pensi alle campagne d’informazione per la lotta contro il
fumo); gli strumenti di natura economica si situano invece a metà strada con un
grado di coercizione intermedia poiché tentano di modificare il comportamento
dei destinatari attraverso l’uso di incentivi e/o disincentivi materiali.
Gli strumenti del governo federale americano
The tools of government action è il sottotitolo di un’opera collettanea edita nel
1989 a cura di Lester Salamon. A differenza dei lavori precedentemente descritti, Salamon e colleghi restringono ancor di più il loro universo di riferimento e
focalizzano l’attenzione sul caso nordamericano (per di più concentrando l’attenzione soprattutto sul livello federale). Dopo aver indicato le principali difficoltà che si incontrano nell’elaborare un’esaustiva classificazione degli strumenti impiegati nei programmi federali, gli autori propongono una tipologia che si
fonda su alcune dimensioni degli strumenti: il tipo di attività pubblica prevista
(erogazione di risorse finanziarie, fornitura di beni e servizi, norme regolative), il
grado di automatismo (alto o basso) e le modalità di attuazione e gestione (elaborato lungo un continuum che ha come poli estremi da un lato gli strumenti
che richiedono un intervento diretto e centralizzato da parte dei governi e dall’altro quelli che prevedono un intervento indiretto e decentralizzato). Sulla base
di questa classificazione vengono individuati i sei principali strumenti di cui il
governo federale si avvale per conseguire gli obiettivi di policy: gli apparati e le
agenzie di governo (direct government), i trasferimenti finanziari erogati a favore dei governi statali e locali (grants-in-aid), le garanzie sui prestiti (loan guarantees), le agevolazioni finanziarie e tributarie (tax expenditures), le norme che
regolano la condotta di individui e organizzazioni (regulation), le agenzie e le
imprese istituite dal governo federale ma che godono di un’ampia autonomia
(government corporation). L’analisi di Salamon e colleghi mira in modo esplicito ad individuare i limiti e i punti di forza di ogni singolo strumento rinviando a
numerosi studi ed esempi tratti dalla realtà americana.
Le politiche che si affidano pressoché esclusivamente all’azione diretta di agenzie e apparati di governo (direct government) consentono di internalizzare i
costi di transazione e di promuovere la formazione di una burocrazia pubblica
dotata di notevole capacità ed expertise ma, per converso, rischiano di fallire (o
di dimostrarsi meno efficaci e/o efficienti) quando l’organizzazione antepone l’obiettivo della propria sopravvivenza a quello di policy.
83
n.1 / 2000
I grants-in-aid ovvero i trasferimenti finanziari a favore dei livelli di governo inferiore (rispetto a quello centrale) rappresentano uno dei principali strumenti di
politica pubblica di cui si è avvalso il governo federale. I punti di forza di questo
strumento risiedono nel suo notevole grado di flessibilità e nel ruolo assai limitato che esso affida agli apparati burocratici centrali. Al tempo stesso tuttavia i
grants-in-aid appaiono assai difficili da gestire in fase di attuazione in ragione del
loro elevato grado di complessità (che va di pari passo con la flessibilità) e possono dar luogo a conflitti tra i diversi organi di governo in ragione della maggiore o minore autonomia che essi attribuiscono ai livelli inferiori di governo. È interessante rilevare che nella realtà nordamericana tale strumento ha manifestato
risultati migliori nel campo delle politiche di natura infrastrutturale mentre si è
dimostrato assai meno efficace nei programmi di lotta alla povertà. Inoltre i
grants-in-aid hanno contribuito a promuovere e sviluppare le capacità progettuali delle amministrazioni dei livelli di governo statale e locale (soprattutto
quando queste hanno dovuto competere per ottenere le risorse stanziate dal
governo federale).
Le garanzie sui prestiti (loan guarantees) sono strumenti attraverso i quali il
governo federale s’impegna a sostenere finanziariamente specifiche categorie di
debitori qualora queste non siano in grado di far fronte autonomamente agli
obblighi contratti con le istituzioni finanziarie e creditizie. Tale strumento, in
altre parole, opera nella direzione di rendere più appetibile e/o meno onerose
quelle attività che il mercato, lasciato ai suoi tradizionali meccanismi, non è in
grado di sostenere. La principale caratteristica positiva di questo strumento
risiede nel fatto che esso non prevede (almeno sul breve periodo) alcun esborso da parte del governo federale. Peraltro anche questo strumento, come i
grants-in-aid, presenta un elevato grado di complessità in fase di attuazione.
Le agevolazioni tributarie e fiscali (tax expenditures) consistono in provvedimenti che permettono di dedurre (in tutto o in parte) dal reddito imponibile le
risorse finanziarie destinate alla promozione e realizzazione di specifiche attività.
Questo strumento ha il notevole vantaggio di non prevedere alcuna voce di
spesa sul bilancio pubblico ma, se usato con eccessiva generosità, rischia di
ridurre notevolmente le entrate fiscali, di rendere assai più laboriosa l’attività di
accertamento e, in definitiva, rischia di accrescere il grado di complessità del
sistema tributario. Inoltre, le agevolazioni tributarie, per essere efficaci, richiedono una costante attività di microregolazione sulle specifiche agevolazioni e un
apparato amministrativo decisamente abile ad individuare e sanzionare l’uso
scorretto ed opportunistico delle misure introdotte.
Lo strumento regolativo (regulation) opera attraverso l’imposizione di regole e
standard che restringono lo spazio d’azione di individui e organizzazioni al fine
di impedire comportamenti e attività ritenute dannose o comunque negativamente sanzionate. Le caratteristiche dello strumento hanno condotto a ritenere
che la sua gestione si riduca alla mera specificazione delle regole integrata da
un’attività di controllo volta ad imporre ai destinatari l’adeguamento alle norme.
Gli aspetti positivi dello strumento risiedono nella constatazione che spesso essi
non richiedono (se non in rari casi) l’istituzione di nuovi apparati amministrativi
e non presentano voci di spesa sul bilancio federale. Negli ultimi anni tuttavia
sono stati realizzati numerosi studi che evidenziano i costi “nascosti” connessi
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Davide Barella
Gli strumenti delle politiche: una rassegna
alla gestione di questo strumento sia sul versante pubblico (l’attività di enforcement può comunque richiedere ingenti risorse amministrative), sia sul versante
privato (in cui si è tentato di rilevare il costo che ricade sui destinatari finali attraverso l’analisi di impatto della regolazione).
Le government corporation, l’ultimo degli strumenti presi in esame, consistono
in organizzazioni istituite ad hoc che godono di un maggior grado di autonomia
rispetto ai tradizionali apparati di governo. Inizialmente introdotte per la fornitura di particolari beni commerciali, le government corporation sono diventate
molto popolari perché consentono di sfuggire ai tradizionali vincoli e controlli a
cui devono sottostare gli apparati pubblici (soprattutto in materia di gestione del
bilancio, reclutamento del personale e formalizzazione delle procedure). I limiti
di questo strumento sono speculari ai suoi vantaggi poiché il maggior grado di
autonomia di cui usufruiscono le government corporation rende più difficile
l’attività di controllo sul loro operato
I diversi strumenti oggetto di studio sono inoltre presi in esame con riferimento
ad una serie di dimensioni: la fattibilità amministrativa, il sostegno politico, l’efficacia, l’efficienza e l’equità. Per quanto riguarda la fattibilità amministrativa i dati
della ricerca sottolineano che gli strumenti solitamente ritenuti più semplici ed
immediati (i grants-in-aid, le garanzie sui prestiti e le agevolazioni tributarie)
presentano invece un notevole grado di complessità operativa. In relazione al
sostegno politico si registra che i policy-makers (nella ristretta accezione del
personale di governo) tendono a privilegiare gli strumenti che non prevedono
esborsi da parte del governo (quali le garanzie sui prestiti e le agevolazioni tributarie); in tal modo essi riescono a raggiungere il duplice obiettivo di dimostrarsi interessati alla soluzione di uno specifico problema (o sensibili agli interessi di una o più categorie di cittadini) e di ridurre al minimo l’impatto del programma sulle finanze pubbliche. Assai meno significativi sono i dati di ricerca
relativi all’efficacia, all’efficienza e all’equità promossa dai diversi strumenti. Tali
variabili non si prestano ad essere facilmente riconducibili alle sole caratteristiche dello strumento.
Per quanto circoscritto all’analisi della realtà nordamericana (anzi, proprio per
questo) l’indagine di Salamon e colleghi è uno dei più interessanti tentativi di
mettere al lavoro il concetto di “strumento delle politiche” cercando di individuare, su base empirica, le conseguenze (limiti e vantaggi) che si manifestano
nell’utilizzo dei diversi strumenti. Al tempo stesso l’indagine rende conto degli
ostacoli che gli autori hanno incontrato nell’individuare categorie omogenee di
strumenti. Le differenze che si registrano tra tipi (esperienze) di strumenti che
ricadono nella medesima categoria sono rilevanti quanto quelle esistenti tra
strumenti che fanno parte di categorie diverse. A questo proposito, il caso dei
grants-in-aid è abbastanza significativo. Nel corso dei decenni tale strumento si
è trasformato notevolmente, al punto che è difficile ricondurre l’insieme dei
diversi grants-in-aid utilizzati dal governo federale ad un’unica categoria omogenea. In alcuni casi l’ammontare dei finanziamenti agli altri livelli di governo
(stati e autorità locali) viene determinato sulla scorta di parametri economicosociali (numero abitanti, tassi di disoccupazione, ecc.) mentre in altri casi è l’esito di una competizione tra i potenziali beneficiari. E osservazioni analoghe valgono per ognuno dei singoli strumenti presi in esame.
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n.1 / 2000
Conclusioni
Il compito di tirare le fila del discorso è più arduo di quello solitamente richiesto
al paragrafo delle conclusioni. Infatti, pur prendendo come riferimento lo stesso
fenomeno (gli strumenti delle politiche) le indagini di Hood e quelle curate da
Salomon e Bemelmans-Videc lo affrontano da prospettive e con finalità assai
diverse. Per gli obiettivi di questo lavoro tuttavia tale caratteristica anziché essere un limite si rivela un vantaggio poiché consente di rilevare le diverse potenzialità degli studi che indagano gli strumenti delle politiche pubbliche.
Sotto il profilo descrittivo prendere come punto di aggressione gli strumenti
delle politiche pubbliche permette di cogliere da una nuova prospettiva l’attività della pubblica amministrazione. Le principali difficoltà che si incontrano
riguardano il grado di definizione delle diverse categorie degli strumenti. Se gli
obiettivi dell’indagine sono di carattere teorico, i modi di agire della pubblica
amministrazione, si tende ad individuare un numero ristretto di categorie a cui
ricondurre i numerosi e concreti strumenti di policy. Qualora invece si desideri
approfondire l’analisi sulle conseguenze connesse all’utilizzo dei singoli strumenti è necessario mettere a fuoco variabili legate al contesto di policy (e relative sfumature); in tal modo tuttavia si rischia di rendere ogni singola esperienza
concreta un caso unico da cui è difficile inferire generalizzazioni.
Porre attenzione ai diversi strumenti impiegati dagli apparati pubblici lungo la
dimensione temporale tuttavia potrebbe far emergere fasi storiche in cui si registra una maggior presenza di alcuni strumenti a scapito di altri. Il lavoro di
Salamon ed altri offre a questo proposito interessanti osservazioni. La ricostruzione (spesso solo abbozzata) del percorso storico dei principali strumenti adottati dal governo federale permette di rilevare come ognuno dei diversi strumenti indagati, pur affondando le radici in tempi assai lontani, abbia conosciuto
periodi di “successo” (i grants-in-aid, ad esempio, sono stati molto popolari
soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta mentre le garanzie sui prestiti e le
agevolazioni tributarie hanno riscosso maggior successo negli anni Settanta).
Queste ultime considerazione spostano l’accento su un piano più teorico non
appena ci si interroghi sulle origini e le trasformazioni degli strumenti di policy.
A questo proposito occorre ricordare che la puntuale definizione di uno strumento è in fondo l’esito di un processo decisionale pubblico in cui la scelta dello
strumento si intreccia con altri elementi (quali ad es. la definizione del problema, il tipo e le risorse a disposizione dei diversi attori coinvolti). Sia il lavoro di
Bemelmans-Videc che quello di Salamon rilevano alcune delle possibili variabili
che possono incidere sulla scelta degli strumenti (l’ambiente politico, le condizioni economiche, le preferenze degli attori di governo, la caratteristiche delle
agenzie pubbliche). In definitiva, la scelta dello strumento di policy non è quasi
mai una questione esclusivamente tecnica (e praticamente mai quando si tratta
di introdurre un nuovo strumento).
Ciò non toglie che molti dei risultati emersi dalle diverse indagini offrano spunti utili in chiave prescrittiva. La ricostruzione della potenziale “cassetta degli
attrezzi” a disposizione dell’operatore pubblico consente innanzitutto di individuare i diversi strumenti di cui possono avvalersi le amministrazioni pubbliche
86
Davide Barella
Gli strumenti delle politiche: una rassegna
per affrontare i problemi di policy. Le caratteristiche dello strumento e (ancor di
più) i risultati emersi dalle indagini che hanno ricostruito i processi attuativi
connessi ai singoli strumenti può inoltre far emergere i rispettivi punti di forza e
di debolezza. A puro titolo esemplificativo può essere interessante rilevare che
le amministrazioni pubbliche tendono ad avvalersi sempre più di tecniche di
aiuto alla decisione (quali l’analisi multicriterio e l’analisi di impatto della regolazione) che mirano a ridurre i limiti specifici di alcuni strumenti di policy (l’erogazione di incentivi e le norme regolative). In sintesi, un’attenta e preventiva
disamina delle diverse alternative con cui è possibile affrontare uno specifico
problema di policy può permettere di porre rimedi ai tradizionali ostacoli che si
incontrano in fase attuativa (e ad individuare ulteriori sfumature dei problemi).
Non sarà molto ma è comunque meglio di nulla.
Riferimenti bibliografici
Bemelmans-Videc Marie-Louise, Rist Ray, Vedung Evert, a cura did, (1998), Carrots,
Sticks & Sermons. Policy Instruments and Their Evaluation, New Jersey, Transaction,
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Salamon, Lester M., a cura di, (1989), Beyond Privatization. The Tools of Government
Action, Washington D.C., The Urban Institute Press.
Davide Barella è professore a contratto di Analisi delle politiche pubbliche presso
l’Istituto Universitario di Architetture di Venezia. Negli ultimi anni ha svolto indagini e consulenze nel campo delle politiche territoriali e delle politiche sociali.
[email protected]
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n.1 / 2000
Francesca Gelli
Città-Arcipelago
Il sestante
Premessa
Occorre da subito precisare che la questione di Arcipelago è stata posta filosoficamente: nel restituire il percorso che si compie attraverso i testi presi in considerazione, si è scelto pertanto di restare prossimi, per quanto possibile, al carattere proprio del discorso filosofico, che è intrinsecamente di interrogazione, più
che di costruzione di un ‘sapere certo’. Nel suo etimo infatti Filosofia non è sapere, ma tensione verso la conoscenza, e continuamente relazione con quanto si
ignora. Per questo l’interrogazione diretta delle fonti originali è importante,
accompagnata da una consapevolezza delle varie interpretazioni prodotte e dall’uso che se ne è fatto nel tempo.
Le premesse del ragionamento sono poste alla luce di due testi di Massimo
Cacciari: Geo-filosofia dell’Europa (1994, Ed. Adelphi, Milano) e Arcipelago
(1997, Ed. Adelphi, Milano); vi sono tuttavia dei richiami anche ad un testo precedente, dello stesso autore, dal titolo: Icone della legge (1985, Ed. Adelphi,
Milano). Proprio in quest’ultimo Cacciari mette a confronto due opere epocali,
in contrapposizione radicale, che “si spiegano a vicenda per antitesi”: sono, in
relazione al principio ‘dell’eterogenesi dei fini’, e nell’interpretazione del concetto di Nómos, La stella della redenzione, di F. Rosenzweig (scritta nel 1930) e
di Il Nómos della Terra, di C. Schmitt (scritta nel 1950). Nella prima, si tratta
della legge ebraica che, “de-cisa da ogni dimora, errante radice”, si contrappone
a ogni forma di Nómos nella misura in cui questo è per essenza terraneo, radicato a dei luoghi, ad un solido stare: “… anche il Nómos può uscire dal suo confine, ma sempre deve farvi ritorno, deve ristabilire il patto originario che lo collega alla terra”. L’immagine è quella delle città che sono porti. Secondo l’interpretazione di Schmitt, dice Cacciari che: “il Nómos fissa con la terra un patto
indecidibile ... solca la terra, assegna confini e vi si colloca”. Il Progetto di
Arcipelago allora è di un Nómos che “picchetta il mare di porti sicuri, bonifica il
deserto ...”.
Cacciari racconta un tempo storico ove vi è una peculiarità della regolazione politica, economica e sociale della città e delle città tra di loro, che è metaforicamente la dimensione di Arcipelago, quando la pólis non è ancora città-Stato.
Allora lo spazio di Arcipelago è dei molti, non può darsi mai unitario, dunque in
bilico significativo tra espressione di ricchezza, varietà, e rischio di estrema frammentazione. Ma proprio questo darsi distinti, differire, porta a riflettere, a interrogarsi sull’identità, ad intraprendere processi di identificazione e di rappresen-
88
Francesca Gelli
Città-Arcipelago
tazione dell’insieme delle parti, cercando un discorso che unisca, connetta. La
questione dunque potrebbe essere quella della difficile composizione di questi
‘diversi’ (interessi, visioni, forme di razionalità, ecc.), nel senso di ‘come metterli insieme’, farne sistema, in uno spazio che è piuttosto di contatto, di costruzione di alleanze. Ad un livello metaforico, si sta dicendo di una condizione attuale
delle società e delle comunità contemporanee, che chiama in causa, più in generale, la necessità di una dimensione politica e pubblica di trattamento del problema.
Dalla Geo-filosofia dell’Europa a L’Arcipelago
“Il più bell’ordine assomiglia a un mucchio di rifiuti
gettati a caso”
Eraclito, frammento 124
Non è che, poiché fatto tutto di isole, Arcipelago sia una Grande Isola. Le molteplici isole sono “tutte dal Mare distinte e tutte dal mare intrecciate; tutte dal
Mare nutrite e tutte nel Mare arrischiate”: tale è l’archi-pélagos (Cacciari 1997,
16).
Nelle rappresentazioni risalenti al VIII-VII secolo, “gli Arcipelaghi del ‘canuto
Egeo’ omerico formano corone di ponti. Le città sono porti, passaggi ” (Cacciari
1994, 14) . I confini non sono netti, non tracciano divisioni, le frontiere sono ibride, in continuo spostamento. Le parti dunque non si sono ancora compiutamente determinate, ma nessuna parte in Arcipelago è assolutamente separata.
Sono ciascuna autonoma, ma sono molte, diverse, e sono insieme.
C’è da interrogarsi sulla natura della loro connessione, come riescano ad armonizzarsi. Su che cosa sia questo connettivo, che cosa accomuni.
Originariamente il radicamento è pensabile solo nello spazio del Nómos che è
uno e divino, ed i molti nómoi póleos se sradicati da questo contesto mitico-religioso, non potrebbero più garantire ordine alcuno, apparirebbero contraddittori perché artifici degli uomini: “solo la convinzione che gli dèi sono, può farci
convinti che le leggi abbiano radice inalterabile” (Cacciari 1994, 110). Se questo
nomízein viene meno, nessuna superiore unità, nessuna duratura dimora1 è
concepibile, e Arcipelago sarebbe lo spazio di irriducibili differenze .
Ma fin dalle origini il rapporto tra il radicamento del Nómos e lo spazio della pólis è
contraddittorio: i greci vivono tragicamente questo conflitto che, afferma Cacciari, si
rivela fin dalle origini più problematico e complesso di quanto Schmitt non affermi.
È infatti “la tensione tragica tra legge divina e legge umana, tra legge non scritta e
legge scritta, che costituisce il cuore dell’idea greca del Nómos” (Cacciari 1994, 110)2.
Già l’esperienza del molteplice getta luce su una costitutiva contraddizione: il
molteplice infatti “è principio del Due3, cioè l’Altro”.
Nella lotta i distinti, confliggendo, si mostrano con maggiore nettezza: nel conflitto emerge la realtà dell’Altro, che è diverso, che non si comprende. Ma questo incontro costringe anche a riflettere su se stessi, conoscersi nei propri limiti
per poter meglio rappresentarsi nel confronto: è cercando la propria identità che
ci si scopre costitutivamente molteplici (Cacciari 1997).
Per questo il conflitto è risorsa: pone la questione del Cum, della relazione. Se
1
Abitare è, etimologicamente, uno dei
significati che si comprendono nella radice
del verbo nomízein .
2
Cacciari, M. (1994).
Il riferimento è sempre all’opera citata
di Carl Schmitt.
3
“ (...) La radice di
dỳo è la stessa di
deído, che è timore,
e del termine che
indica il tremendo,
lo spaesante, deinòs
(...)” (Cacciari
1994) . Ma è nel
familiare la radice,
possibilità stessa
dello infamiliare
(vedi Il Perturbante,
di Freud).
89
n.1 / 2000
4
Cacciari, M. (1994).
Tenendo questo come
quadro di riferimento,
forse, si troveranno
evidenti assonanze
con il discorso federalista.
5
In questa dimensione
polis è tutt’altro che
forma della cittàStato, che sarebbe un
difetto di città, nel
senso della relazione
pólis-polítes, che sarà
rovesciata con lo ius
romano, che si estenderà valevole ed
uguale ovunque, per
cui la città non avrà
modo di determinare
una sua forma autonoma di governo, e la
regolazione sarà quella dello Stato: così, la
politica non si pone
più il problema dei
molti diversi, subentra
una dimensione di
gestione, trattamento
delle differenze (che
sono da superare).
6
Heidegger sarebbe
partito da un’annotazione di Hegel, però
invertendola; Hegel in
realtà dice: “Una
calza rattoppata è
preferibile di una
calza lacerata ...”.
Proprio in questo
fraintendimento, tuttavia, sta l’interesse
della riflessione di
Heidegger.
7
Lacerare (zerreissen),
significa rompere-indue, dividere.
8
Delle versioni esistenti, mi richiamo
all’Edizione Adelphi,
del 1992, dei
“Seminari”, di Martin
Heidegger(1992,41-44).
90
Arcipelago è questo molteplice, coesistenza dei diversi (nómoi, lógoi, ecc.), è
anche già spazio del simbolico (da : mettere insieme, mettere con),
perché ha in sé il principio stesso della connessione. Dunque, in quest’altra prospettiva, occorre interrogarsi sulla possibilità che non più ciò che è ‘uno solo’,
originariamente, metta insieme, e cioè, che non ci sia propriamente un principio
unificatore: il differire stesso ha in sé il germe della tensione alla relazione, rappresenta la base da cui muoversi verso un lógos comune: Arcipelago è per sua
intrinseca natura fatto di parti che distinguendosi si ricollegano.
Secondo Cacciari, infatti: “(...) La polis ha l’impulso a crescere, s’allarga, ‘inventa’ bisogni e consumi. Questa è la dimensione della sua ‘politéia’. Conquista altri
territori (...) Polemica sarà la sua natura” (Cacciari 1994, 53).
La città, pólis, è per sua natura e costitutivamente molti, stare insieme di diversi,
non eguali, per cui Arcipelago è anche una molteplicità di forme di costituzione,
non c’è possibilità alcuna di normare allo stesso modo le diverse città, ma ognuna si dà una costituzione, in base alle sue parti4, in base a chi partecipa, e così,
con singoli e differenti processi, determina le leggi che devono ordinare il suo
territorio, ma sempre mantenendo la propria autonomia di governo in tensione
verso il Lógos comune dell’Arcipelago, in una dimensione fortemente politica, in
quanto il fine non è la negazione della contraddizione, ma la relazione dei distinti5. Arcipelago è questa “intelligenza che divide e separa” (Cacciari 1994, 19).
Il tutto non coincide con la somma delle parti. E la tensione a essere soltanto,
totalmente Uno, indistinto, indifferenziato, sarebbe il rifiuto di ogni connessione.
Il problema, filosofico e politico, della relazione dell’uno e dei molti, si costruisce a partire proprio da questa tensione a comprendere il molteplice, le differenze. Ma, appunto, quest’interrogazione su ciò che si trova differente - da sé -,
fa nascere la nostalgia dell’Uno, sentire la mancanza dell’unità perduta e porta a
riconoscere la propria singolarità, a riflettere del proprio sé, a farne discorso:
pone il grande problema della definizione e rappresentazione dell’identità, che
è fatta di questa relazione tra distinti, dentro una dimensione che accomuna.
Su questo punto mi sembra faccia chiarezza in particolare Martin Heidegger, nei
Seminari (Le Thor), 1968, quando capovolgendo un’annotazione di Hegel, dice
che: “Una calza lacerata è preferibile ad una calza rattoppata (...)6 Ciò che manca
alla calza lacerata7 è l’UNITÀ della calza. Ma, paradossalmente, questo difetto è in
sommo grado positivo perché (...) questa unità è presente in quanto unità perduta (...) Tutti i tentativi di sopprimere la “lacerazione” devono essere abbandonati, - in quanto la “lacerazione” è ciò che sta e deve rimanere al fondo (...) perché solo nella lacerazione può apparire in quanto assente l’unità.” Nella riunificazione - e non unification, unificazione, “diventare-uno” - gli opposti “non
scompaiono, c’è l’unità degli opposti che continuano a sussistere come opposti”8.
Dunque, il differire è all’origine stessa della ricerca del Cum, del bisogno di
unità, ed è via che conduce al suo raggiungimento: è infatti propriamente dalla
relazione con l’Altro, dal farne esperienza, che apprendo dell’esistenza dei diversi, della mia stessa identità, e della necessità di costruire un lógos che sia comune. Lógos comune o in-comune?
Ovvero, il comune è propriamente il differire, e quindi è un processo, continua-
Francesca Gelli
mente da farsi, da condividere partecipandovi, che accomuna le parti, e che
resterebbe inconcepibile senza di esse (Cacciari 1994).
Tale processo, che rende le parti comuni, nel loro differire, è dunque interattivo; più che produrre lógos (óo
), produce senso (óo
), o piuttosto sensi,
che nel divenire restano molteplici. Qui il passaggio è sottile e si aprono più possibilità.
Il pensiero occidentale infatti soprattutto e-duca e oggettivizza: produce la sua
elaborazione sul presupposto che il fine sia l’armonizzazione dei conflitti entro
un ‘lógos unitario’, che riconduca i distinti all’unità: il raggiungimento di come
far stare insieme i diversi passa attraverso un’indagine di tipo analitico, che “li
determina e li definisce con la massima precisione”, come ‘pratiche razionali’, “li
fa stare l’uno contro l’altro” (come bipolarismo, coppie concettuali di opposti),
li scinde e, attraverso questo passaggio di comprensione separata, assoggettamento, costruisce le modalità per farne appunto lógos unitario, “per dimostrarne l’avvenuta connessione: collegare ciò che l’opinione giudica inconciliabile”
(Cacciari 1994). Il pericolo è che questo cessi di essere un processo continuo di
elaborazione, e si stabilizzi, sottraendo al differire il suo valore essenziale di ricerca e problematizzazione della connessione, cioè sottraendo alle parti la possibilità di determinare, nell’interazione, una costruzione dell’in-comune come
apprendimento.
Qui siamo già al Malinteso di Arcipelago, cioè “al pericolo in Arcipelago, costitutivo della sua essenza, (...) di volere un asse, un centro verso cui convergere”,
mentre “lo spazio dell’Arcipelago è per sua natura insofferente alla subordinazione e alla successione gerarchica” (Cacciari 1997, 20). Cioè, alla Forma-Stato,
che liquida, di necessità, il radicamento nel Nómos antico. Lo Stato - quindi la
gerarchia, la tensione alla centralizzazione, alla totale razionalizzazione del reale,
la preoccupazione di conservare, ecc. - è il modello secondo cui sostanzialmente abbiamo l’abitudine a pensare9. L’Occidente europeo, soprattutto negli ultimi
secoli - dimenticati o malintesi i greci -, ha insistito sulla formalizzazione del pensiero della differenza sviluppandone in particolare a livello analitico, sistematico,
le conseguenze, ma patendo sempre il molteplice come mancanza di unità, nostalgia dell’uno: nell’insieme sembra difficile “liberarlo” dell’immagine, che ha fortemente interiorizzato, dell’apparato di Stato (e del suo sistema di potere, regolazione, conoscenza) come un ordine del mondo, in cui ha costruito un radicamento stratificato.
Se fare lógos necessita di passare attraverso il calcolo, la teorizzazione, e non è
più “fra-intesa tra gli enti”, se il fine è stabilizzare un sapere che definisca, che
radichi, e non interrogarsi continuamente sulla natura delle cose (che mutano,
si trasformano), non essere luogo dei díssoi lógoi, se fare le leggi diviene fondare un ordine, una costituzione ‘inamovibile’, allora la città diventa “sempre più
uno”, ed è già Stato (Cacciari 1997, 20). La differenza-come-valore è neutralizzata, i diversi sono un problema da risolvere, e si tentano modalità di educarli, di
incorporarli, temendone la contaminazione.
È piuttosto la riduzione del carattere pubblico dell’agire, e della necessità di una
regolazione degli effetti che la pluralità delle azioni (e interazioni) produce,10 alla
sola Forma-Stato.
Quando si produce questa svolta? “Ma più radicalmente è mai esistito
Città-Arcipelago
9
Così si legge in G.
Deleuze-F. Guattari
(1989), Mille piani.
Capitalismo e schizofrenia. Secondo questi
autori, differentemente da quanto avviene
nell’Occidente europeo “gli americani
hanno saputo fare
una pragmatica tra i
diversi”.
10
... per il principio
‘dell’eterogenesi dei
fini’, “cui è condannata ogni azione politica
fondata sul presupposto della naturalitànecessità del perseguimento dell’utile”
(Cacciari 1997).
91
n.1 / 2000
11
Psephòs è il lancio
nell’urna del sassolino.
12
Dunque, secondo
Cacciari, lo sradicamento del Nómos è la
perdita della sua radice divina; questo si
manifesta già nella
sofistica del V secolo, e
appare chiaro nell’ellenismo, quando al
nómos póleos si oppone il nómos phỳseos:
“stoicismo, epicureismo e scetticismo
appaiono perfetti
alleati in quest’opera
di sradicamento”.
13
Il liberalismo (il ‘linguaggio’ della ‘libertà’
del commercio, dell’economia e della tecnica ‘universali’), è un
operatore di equivalenze: “tutto deve
risultare contrattabile,
scambiabile”.
14
È la scoperta dell’eterogenesi dei fini.
92
Arcipelago” (Cacciari 1997, 34)?
Storicamente, si riconduce questo cambiamento al rovesciamento della formamentis greco-classica, avvenuta con l’Europa cristiana, che afferma la superiorità
di civis su civitas, inversione del rapporto pólis-polítes. Ma, già quando Platone
scrive Le Leggi, il processo di disgregazione di Arcipelago è in atto, ormai prevalendo “l’artificio del tutto álogos del voto”. Allora i nómoi della città appaiono
irrimediabilmente contraddittori: “nessuna superiore unità vi traluce (...) Non
con il termine nómos andrebbero chiamati, ma con quello di psephísmata: decisioni, decreti ottenuti attraverso votazioni11 (...) Non l’éthos della città, ma soltanto quello del saggio riconosce ancora la radice celeste della legge. Ma questi
è sempre più costretto a sfuggire la pólis: un mondo ormai preda di Túche, dell’azzardo, del caso; ormai questo è il mondo dell’agóne politico” (Cacciari 1994).
È quando Atene diviene, da pólis, città-Stato “violenta e tracotante”, che “vuole
comandare (...) e affermare il suo dominio, imporre il suo principio”12.
Ma è proprio la città, più complessivamente come spazio dei molti diversi, che si
danno un governo, ad avere in sé questa doppia natura, un’intrinseca contraddizione: di agire lo sradicamento, di operare la delocalizzazione, - essendole
essenziale, per la sua stessa sopravvivenza, cercare il cambiamento, innovare,
non stabilizzarsi, ritrovare sempre il differire, ridefinire i valori -, e al tempo stesso produrre un radicamento (in un corpo di leggi, di tradizioni), tenere la distanza necessaria da quest’eccesso, essere capace di “osservarlo prospetticamente”,
misurarlo, per consentire il buon governo. Deve essere democratica, ma la
democrazia presuppone gli eguali. Non il molteplice da governare, della pólis,
non questa dimensione politica. Uno ius che sia universale, e razionale, al di là
di ogni caratteristica locale.
Quando le città crescono, sviluppandosi la loro economia, soprattutto per l’incrementarsi dei traffici, dei commerci, dei bisogni degli individui e degli interessi privati, e le relazioni sono ricondotte fortemente a questa dimensione del puro
scambio13, aprendosi al rischio, all’incertezza14, si fa strada anche l’esigenza di
costituire una forma di potere, di regolazione che eserciti un controllo, super
partes, che garantisca il più possibile gli esiti, mediando i conflitti, e offra protezione, sicurezza.
Il processo di democratizzazione, affermazione della libertà dell’individuo, che
ha sradicato i costumi tradizionali, messo in discussione i confini tra i luoghi,
introduce la necessità di un governo che si costituisca come principio di ordine
da tutti riconosciuto, come capace di stabilizzare i conflitti che inevitabilmente
insorgono, utile a istituire uno spazio pubblico dell’agire. Ma non è più appunto
lo spazio del pubblico come politico, e il problema dell’in-comune non si pone
nemmeno.
La pólis appare ridotta a “prodotto dei propri interessi e garanzia della loro tutela: (...) con la stessa prepotenza con cui rivendica la propria autonomia e indipendenza chiede protezione” (Cacciari 1997).
È difficile trovare un equilibrio tra le forti tendenze all’innovazione, alla sperimentazione, le scoperte scientifiche e le invenzioni tecnologiche, le spinte al
cambiamento, che sono mosse da una dimensione di interessi privati, volte al
raggiungimento del maggiore benessere dell’uomo, e una forma di governo dell’insieme che sia lo Stato, che si dà, sempre, come essere-Stato che, “in tutte le
Francesca Gelli
lingue (...) esiste attualmente come un qualcosa di già passato”. Questo è un
conflitto che minaccia costantemente lo Stato “in quanto Stato”, “armonia duratura”: la società civile di per sé opera una de-costruzione di ogni Forma-Stato.
Ma qual è, allora, il luogo di questa conciliazione? È Ou-topia, “la negazione più
drastica di ogni rapporto con l’idea stessa di luogo”15.
Comprendere la Forma-Stato come ou-topia può porre qualche problema:
seguiamo passo per passo il ragionamento che propone Cacciari, a questo
punto, in L’Arcipelago, ricordando anche l’affermazione di Savinio che “L’Utopia
non è affatto creazione di utopisti”.
Anche perché, tutto questo discorso, vuole arrivare ad esprimere alcune osservazioni sulla condizione contemporanea delle città.
Se la Forma dello “Stato perfetto”, la Forma-Stato “ideal-tipica” è il Panópticon “tutto-vedere, tutto-osservare e controllare senza essere visti” -, qual è il fondamento su cui può poggiarsi, dimostrarsi, questa auctoritas? (Cacciari 1997, 7879).
“ (...) Tale ordine è l’unico a potere garantire augmentum scientiarum, la
costante crescita del sapere in quanto utile all’uomo (...): la promozione delle
attività dei monstratores, di quella scienza, cioè, che inventa (...) per la sempre
maggiore eudaimonía, per il sempre maggiore benessere dell’uomo. (...) Si
esprime qui l’idea di una perfetta conciliazione tra sapere e potere, come l’idea
regolativa dello Stato (...)” (Cacciari 1997, 79).
Il sapere di cui si sta dicendo è quello della razionalizzazione tecnico-scientifica,
che però appunto, non è una costruzione fine a se stessa, ma è strettamente
legata al fatto di servire all’uomo, al suo ‘stare-bene’: e l’auctoritas della FormaStato cerca un fondamento di utilità pubblicamente riconoscibile.
Ma da questa reciprocità del sapere e del potere derivano notevoli conseguenze,
per la Tecnica quanto per lo Stato. Lo Stato infatti dà “forma politica” al cambiamento, all’innovazione, prodotti dal progetto tecnico-scientifico; ma per garantire “al sapere di potere effettualmente, (...) di procedere con metodo e sicurezza”, deve darsi “perfettamente regolato, irriformabile”.
Irriformabile.
L’auctoritas del politico perde di autonomia: “… l’ideale di una politica ridotta
al ‘calcolemus’ amministrativo-procedurale nasce in Utopia”, la funzione dello
Stato risulta ridotta “al mero coordinamento della società”. E Utopia è questa
‘quintessenza’ del progetto tecnico-scientifico, di “onnivora promessa dell’uguaglianza come eliminazione del non uguale”, “radicale depoliticizzazione della vita
sociale” (Cacciari 1997, 95).
Dunque è Utopia “quell’isola che annulla Arcipelago” 16.
Ma c’è un ulteriore grado di contraddizione, in tutto questo discorso. Infatti, per
potere funzionare, per essere realistico, “l’imperativo tecnico non può esprimersi tecnicamente. È intrinsecamente costretto a rappresentarsi religiosamente ed eticamente” (Cacciari 1997, 95).
Lo Stato non potrà mai “secolarizzare ogni posizione di valore”, non sarà mai una
“macchina così potente”, è questa l’altra faccia del regime (sociale) democratico17.
C’è uno spazio, una dimensione, che resiste, che non è riconducibile ad una
codificazione, regolazione, ad una ‘scrittura’ di Stato, e che opera costantemen-
Città-Arcipelago
15
Cacciari, M. (1997).
Se per luogo si intende
uno spazio costruito
da un insieme di relazioni, e non separabile dalle dinamiche di
trasformazione di
queste, che si danno
nel tempo, e la cui
identità anzi si definisce proprio intorno a
questo processo di
cambiamento, che si
fa nel tempo, l’idea di
una forma che detta,
nel presente, le condizioni del futuro, prevedendolo, “bloccandolo” è ou-tópos .
16
Vedi pagine 78-95 di
Arcipelago.
17
Risuona la definizione di democrazia
data da C. Donolo (in:
Il sogno del buon
governo, 1992, ed.
Anabasi, Milano), su
cui avrò occasione di
tornare in seguito.
93
n.1 / 2000
18
Qui limitatamente
secondo la coincidenza, da alcuni sostenuta, del Pubblico con le
Istituzioni Pubbliche,
intese come organi e
insieme dell’attività
della produzione dei
beni pubblici.
19
Blanchot, M. (1984),
La comunità inconfessabile, ed. Feltrinelli,
Milano.
20
Perniola, Mario
(1986), Presa diretta.
Estetica e Politica,
Cluva ed., Venezia.
te (con alterni successi e insuccessi) come bilanciamento di uno dei caratteri
della società democratica, quello che va verso la disgregazione individualistica, e
che non appartiene propriamente al Pubblico18, che comunque sempre si richiama a forme possibili di regolazione.
È quello della ricerca del Cum, dell’in-comune, delle pratiche che sole possono
fare dei ‘beni pubblici’ dei ‘beni comuni’, definendo contingentemente un sistema di valori, un’identità, che recupera il senso della vicinanza, della comunità:
ma è la comunità di quelli che non hanno comunità19. Sono pratiche di amicizia
(ma di coloro che amano solo separarsi, allontanarsi) e di ospitalità (che comunque distingue), di partecipazione, capaci di riportare al centro il problema del
Cum, che tuttavia ha senso, opera congiunzione, soltanto se resta propriamente
problema.
Il Cum di ogni forma di coabitazione e di dialogo rimane tuttavia come il luogo
della differenza e del contrasto dei valori: è il recupero di questa particolare
dimensione politica.
Presa Diretta20
Se dunque la dimensione di Arcipelago è autonomia ma, insieme, philía, che
dire dell’attuale condizione delle città, ‘dell’Arcipelago delle reti (urbane, territoriali)’?
Dalla lettura dei due testi di Cacciari che ho proposto alla discussione sono
emersi alcuni aspetti che ci consentono di comprendere caratteri del più recente processo di urbanizzazione, diffusione e crescita delle città.
In quanto realtà eterogenee di nodi entro sistemi reticolari, uniti dall’economia,
le città possono essere intese come passaggi, punti di concentrazione dei flussi
e di scambio: un effetto visibile è lo spostamento incessante dei confini territoriali entro cui sono comprese, e i cui limiti sono ibridati dalla densità delle relazioni che le definiscono, in quanto parti di network che non necessariamente
hanno una base locale.
Da un lato, una conseguenza dello stare in questa dimensione plurale, molteplice, per molte città è equivalso con il problema di competere con le altre, e quindi di avere la capacità di rappresentarsi all’esterno, di costruire una strategia unitaria, con la quale rapportarsi con le altre realtà istituzionali, governative e non,
con le altre aree urbane ecc.: questo ha significato la necessità di attivare un processo di identificazione, che consenta alle molte e diverse organizzazioni, reti di
attori, ecc. e ai loro differenti interessi, di connotarsi, caratterizzarsi in un quadro
integrato, riconoscersi parti di un interesse generale. Il dover stare in un contesto fortemente complesso, eterogeneo, ha portato alla ricerca di un radicamento, per quanto continuamente in ridefinizione, come sistema di relazioni e di
valori di riferimento, e alla tensione ad una qualche forma di unità.
Le modalità del raggiungimento del consenso generale, e del trattamento delle
differenze all’interno di questo processo, sono estremamente significative, su un
piano di effetti. Per quanto spesso in misura assai limitata, un effetto indiretto di
questi processi è stato quello di attivare una certa partecipazione degli attori,
soggetti locali, anche se in un quadro di rappresentazione di interessi, ma almeno si sono date occasioni di confronto e di coinvolgimento pubblico alla produ-
94
Francesca Gelli
zione dei beni. Questo ha messo in evidenza come fatto problematico che i soggetti di politiche (pubbliche) sono una pluralità che non coincide, ma fortemente eccede l’insieme delle istituzioni, pubblicamente riconosciute come responsabili della produzione dei beni pubblici per il benessere della società.
Dall’altro la condizione di sradicamento, che il processo di democratizzazione ha
portato, l’indifferenziazione di spazio e di tempo, è stata piuttosto subita da altri
contesti urbani, città, che hanno perduto la capacità di autonomia, e quindi
anche di relazione.
L’esito è stato o il divenire di processi di omologazione, omogeneizzazione, anestetizzazione, o l’alternativa rappresentata dal subentrare di spinte separatiste, la
chiusura in localismi, per reazione, “fenomeni di tribalizzazione”, con il conseguente collassamento della dimensione pubblica, politica, crisi degli equilibri
democratici; l’economia, il mondo produttivo, si porta piuttosto verso rapporti
di dipendenza dal gioco del mercato, riduce le potenzialità innovative, di sviluppo.
Questi sono anche gli effetti della “globalizzazione” in atto, che appare sempre
più come diffusione di un unico modello di relazioni politiche e sociali21: si tratta di nuove forme di gerarchizzazione, razionalizzazione.
Tali trasformazioni si svolgono nel contesto di crisi della forma politica dello
Stato, della sua capacità di garantire il benessere collettivo, e dell’idea di pubblico come sinonimo di Stato, su cui si è articolato appunto il welfare state, con la
sua impalcatura di culture e di pratiche di organizzazioni e di attori22.
Ma quello che è venuto declinando è anche il binomio sapere-di-Stato/consenso
sociale, scienza/ideologia, nel vasto movimento di socializzazione del sapere23.
Alla fine, tanto la parola scientifica quanto quella ideologica sono interpreti di
una conoscenza che è potenzialmente di tutti.
Mi sembra efficace riproporre, in sintesi, il seguente schema di analisi di tale processo corrente di ridefinizione dello Stato, attraverso i vari livelli della sua crisi24:
- “crisi dei rapporti del potere col sapere, cioè erosione della legittimità del potere politico” che non potendo più validarsi su principi scientifici, quanto poggiarsi su un’ideologia che compatti l’opinione, costruisca il consenso, è esposto alla
contestazione ed al dissenso.
- “crisi dei rapporti del sapere col potere, cioè erosione della effettualità sociale
del sapere scientifico”, che si rinchiude in un ambito separato dal pubblico, dal
politico.
- “crisi dei rapporti del sapere con se stesso, cioè erosione della motivazione ”,
che anch’essa cade in una dimensione privata, l’attività dell’intellettuale non più
di diritto interessa la società intera.
- “crisi dei rapporti del potere con se stesso, cioè erosione della governabilità”,
impossibilità di prendere e fare eseguire le decisioni.
È crisi dello Stato, squilibrio tra capacità del politico e sfera dell’influenza dell’economico; le grandi compagnie, catene commerciali, banche, le esperienze dei
margini, ecc., minacciano l’autorità statale, quanto sfuggono al suo controllo.
La crisi viene non tanto da uno scompenso dell’equilibrio, nell’influenza, dei rapporti tra sapere tecnico-scientifico e politica, quanto da “una riduzione del significato sociale del sapere scientifico, che non è più il sapere della società nella sua
globalità (sapere di cui la società è il soggetto), ma un “sapere locale” (Perniola
Città-Arcipelago
21
Cacciari, M. (1998),
Manifesto del NordEst.
22
De Leonardis, O.
(1996). L’analisi di
Ota de Leonardis del
welfare state porta ad
evidenziare un doppio
effetto, come messa-incomune di un patrimonio ed una cultura: da un lato si
accrescono le possibilità per l’individuo di
partecipare alla vita
pubblica, di riconoscersi nell’appartenenza ad una identità
condivisa, dall’altro si
registra l’effetto perverso di una “facilitazione di un ritiro privatistico della cittadinanza” (Habermas
1992), poiché i beni e
servizi privati difettano del processo di
socializzazione che
deve investire i problemi, la loro ridefinizione ed eventuale soluzione: scambio intorno a “interessi e valori
collettivi” che alimenta la sfera pubblica.
23
Perniola (1989).
24
L’elaborazione di
questo schema analitico è ripresa da M.
Perniola, al capitolo:
“Sapere scientifico e
potere ideologico”
(1989, 22-26).
95
n.1 / 2000
1989, 22/26), perché disorganico, frammentario, occasionale: il processo di
apprendimento della società non tiene più conto solo di tradizionali modelli di
trasmissione del sapere, formazione (sistematici, riferiti a valori, ideologie, principi radicati in fondamenti che passano per la scuola, gli insegnamenti, o la pubblica opinione), quanto di una diversa organizzazione delle conoscenze, tramite
immagini e simulacri, pratiche interattive, processuali, che sfuggono, resistono
ad essere comprese entro un quadro istituzionalizzato di valori.
Non può darsi socializzazione del sapere e del potere, ma si assiste ad una “moltiplicazione di saperi e poteri locali”: locale non come quanto è stato fatto oggetto di delimitazione e conseguentemente reso debole, più facilmente controllabile, ma al contrario sfuggente, scarto, ma nel senso che “essi non riguardano più
la società nella sua globalità” e non si possono più spiegare con teorie della
società generali, poiché massimamente oggi la società non è più riducibile ad un
tutto. Habermas lo indicava come “sganciamento del sistema culturale”, caduta
nel privato. L’approccio a questo punto, conoscitivo e pratico, deve vedere la
connessione non gerarchica tra locale e globale, ma in effetto d’assieme di appartenenza, interdipendenza reciproca.
Ci siamo lasciati dietro una questione: se, propriamente, il comune è il differire,
si era detto, allora è un processo - continuamente da farsi, da condividere partecipandovi -, che accomuna le parti. E tale processo non può darsi se non che
nella forma dell’apprendimento sociale, collettivo.
“(...) Il sogno (del buon governo) consiste nell’idea che il regime democratico sia
un grandioso processo di apprendimento collettivo, reso consapevole e trasparente a se stesso dall’argomentazione politica e dalla progettazione continua di
futuri alternativi per la città” (Donolo 1992, 24).
Non vi è alcuna tecnica politica e alcun sapere scientifico, che siano in grado, da
soli, di realizzare questo processo, che è per sua natura non separabile dalle pratiche di interazione sociale e dall’insieme dei loro effetti, voluti e non. E se di una
razionalità di processo si parlerà, essa dovrà essere intesa come una condizione
che si dà quando “molte premesse eterogenee contribuiscono, anche indirettamente e involontariamente, a degli esiti (...) Le istituzioni politiche devono permettere la correzione e l’apprendimento (...)”; e ancora: “il regime democratico
è una spugna (...) perché consente la valorizzazione di effetti non voluti, di stati
di cose che sono essenzialmente sottoprodotti di processi e strategie rivolte ad
altri scopi ed in altre direzioni” (Donolo 1992, 50-51).
L’apprendimento non ha per effetto soltanto la produzione di senso, di una
forma di conoscenza, come “sviluppo di capacità e competenza di tematizzazione”, da parte di attori individuali e collettivi, o, soprattutto da parte delle istituzioni, “di capacità di correzione in tempi accettabili”, di “incremento di sapere e
sapere fare”, ma è un principio connettivo, dal momento che il suo presupposto
è che si dia la capacità di interazione tra le diverse strategie, visioni, forme organizzative, ecc. che abitano la società, fermo restando però il presupposto “della
conservazione della varietà” (Donolo 1992, 58-59).
96
Francesca Gelli
Città-Arcipelago
Riferimenti bibliografici
Blanchot,M.(1984), La comunità inconfessabile, Milano, Feltrinelli
Cacciari, M. (1985), Icone della Legge, Milano, Adelphi
Cacciari, M. (1994), Geo-filosofia dell'Europa, Milano, Adelphi
Cacciari, M. (1997), Arcipelago, Milano, Adelphi
De Leonardis, O.(1996) In un diverso welfare, Milano, Feltrinelli
Deleuze,G., Guattari,F. (1987), Millepiani. Capitalismo e schizofrenia,
Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana
Donolo, C.(1992), Il sogno del buon governo, Milano, Anabasi
Heidegger, M. (1992) Seminari, Milano, Adelphi
Perniola, M. (1989), Presa Diretta. Estetica e politica, Venezia, Cluva ed.
________________
Francesca Gelli è dottore di ricerca in Pianificazione e politiche pubbliche del territorio. Attualmente, è borsista post dottorato presso il Dipartimento di Studi
Storici e Politici di Padova. Collabora per attività di ricerca col DAEST di Venezia.
[email protected]
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n.1 / 2000
Mayday Mayday
SILVIO TRENTIN, La Crise du Droit et de l’Etat, Paris,
Bruxelles, L’Eglantine, 1935.
Nel 1935, Trentin pubblica, forse, il suo volume più importante, dal significativo
titolo: La crise du Droit et de l’Etat. Questo libro è segnalato come libro da salvare perché non è mai stato tradotto in italiano e perché è praticamente introvabile. Una sola copia pare si trovi in un’imprecisata biblioteca di Torino, mentre
circolano solo poche fotocopie di questo testo tra gli studiosi che sono interessati a leggerlo e studiarlo.
Nel 1997, un’importante casa editrice si era offerta di pubblicare il libro, una
volta tradotto in italiano, ma la famiglia, contattata a questo scopo, ha preferito
che il libro non venisse pubblicato. Alla base di questa decisione sta il fatto che
il federalista Trentin era un martire della Resistenza ed inoltre le teorie secessioniste in voga in quel periodo avrebbero potuto presentarlo come un secessionista.
Questa spiegazione, tuttavia, giustifica il rifiuto della famiglia di Silvio Trentin di
non permettere la pubblicazione di quest’opera nel 1997, ma non giustifica la
decisione di non inserire questo volume nella pubblicazione dell’opera (quasi)
completa di Silvio Trentin (decisione maturata in tempi presecessionisti). Nel
corso degli anni Ottanta, infatti, solo le conclusioni (l’ottavo capitolo) di questo
volume sono state inserite e pubblicate in italiano nel volume, a cura di Norberto
Bobbio, Federalismo e libertà. Scritti teorici 1935-1943.
Questa decisione del curatore di smembrare il testo pubblicandone solo una
minima parte deriva dal fatto che Bobbio non ha considerato rilevante, per la
comprensione del federalismo di Trentin, i primi sette e più importanti capitoli
del volume (malgrado François Geny, preside della Facoltà di diritto di Nancy,
definisca - nella prefazione del 1935 - questi capitoli come la parte permanente
ed essenziale del lavoro di Trentin). Ha contribuito certamente a determinare
questa decisione il fatto che Trentin sostenga, nei capitoli non tradotti, alcune
tesi non positiviste di dottrina del diritto. Tesi, certamente, non condivise da
Bobbio e probabilmente considerate superate. Queste tesi sono le seguenti: che
le teorie convenzionaliste (per intenderci, quelle di derivazione hobbesiana) che
considerano come esistente solo il diritto positivo, hanno creato una babele perché i giuristi di paesi diversi hanno finito per parlare lingue diverse (Trentin
1935, 28); che il diritto non consiste nelle realizzazioni che se ne fanno e che pretendere che lo siano significa identificare il razionale con il reale (Trentin 1935,
34); che, se si identifica il Diritto con il diritto positivo, finiscono per essere assimilate al Diritto anche tutte le leggi razziste, quelle fasciste, ecc. (Trentin 1935,
220).
A premessa della propria filosofia del diritto, come presentata in questo volume,
Trentin ha posto un’affermazione di Rosmini: quando l’uomo è soverchiato da
una forza brutale, allora egli scopre in sé e negli altri uomini qualcosa che nes-
98
suna forza può annullare, “una sfera alta e spirituale dove regna il Diritto”
(Trentin 1935, 60). Di conseguenza, proprio in quanto esiste questa dimensione
incoercibile, non è accettabile né convincente l’ipotesi, di origine hobbesiana,
che l’uomo libero e al di fuori dello Stato sia antisociale, cioè si comporti secondo la regola dell’homo homini lupus. Invece, suggerisce Trentin, lo Stato (nelle
sue varie manifestazioni, dalle più antiche alle più moderne) è sempre stato e
sempre sarà perché costituisce il principio su cui si basa la convivenza.
Fino a quando le attività umane restano alla mercé degli istinti l’ordine dello
Stato si concentra sul controllo del territorio; quando le attività cominciano a
essere organizzate dalla ragione, lo Stato comincia a essere percepito nella sua
dimensione razionale dell’Ordine degli Ordini o dell’Ordine delle Autonomie. Lo
Stato incorpora la finalità che la società (intesa come la somma delle finalità dei
vari ordini) si pone come obiettivo e l’unica finalità che non diminuisca l’autonomia dei vari ordini è, ovviamente, la finalità della democrazia. “È per questo
che il principio della democrazia si pone come principio direttivo dell’organizzazione positiva dello Stato” (Trentin 1935, 188), anche se bisogna ammettere
che “Lo Stato democratico è ben lontano dall’avere trovato la propria espressione positiva” (Trentin 1935, 191).
Questa proposta di uno Stato come Ordine degli Ordini nasce da un superamento del principio di sussidiarietà formulato da Proudhon. Per principio di sussidiarietà si intende che l’ordine o l’autonomia più grande si deve astenere dal
trattare o tentare di risolvere ogni problema che può essere risolto da un ordine
o un’autonomia più piccola. Proudhon, secondo Trentin, ha peccato di apriorismo perché ha presupposto una divisione artificiale e decisa una volta per tutte
dei vari livelli di Ordini delle Autonomie. Trentin chiarisce che il principio di sussidiarietà implica, “un atto di liberazione di una molteplice e sempre mutevole
realtà che lo Stato moderno violentemente comprime” (Trentin 1987, 111).
Trentin critica Proudhon su un secondo aspetto: sul fatto che ha sostenuto che
l’Italia è un Paese a vocazione federalista. Sostenere che un Paese ha questa vocazione, sottolinea Trentin, significa sostenere che altri non l’hanno affatto o l’hanno di meno. Invece, insiste Trentin, l’oggettiva vocazione federalista non sta
nella natura del Paese (bensì nella mente dei suoi cittadini) e se affermata, questa vocazione, è solo uno strumento per sostenere che il federalismo è l’ordinamento più adatto alla disciplina della vita dei popoli che si trovano o si sentono
esclusi, irrevocabilmente, dalle grandi missioni.
La flessibilità del principio di sussidiarietà è l’antidoto di Trentin alla tendenza
dello Stato a centralizzarsi e burocratizzarsi: qualsiasi Ordine degli Ordini fissato
una volta per tutte tenderebbe a burocratizzarsi esso stesso, come lo Stato, e
solo un Ordine degli Ordini molto flessibile e aperto alle modifiche che intervengono nella società civile può, con il suo continuo rinnovarsi, contrastare con
speranze di successo la tendenza a burocratizzarsi, cioè ad istituzionalizzarsi.
La Crise du Droit et de l’Etat segna una tappa importante nell’evoluzione del
pensiero di Silvio Trentin che era stato, all’inizio della sua attività di studioso,
convinto centralista e solo gradatamente, riflettendo sulle ragioni della crisi delle
democrazie e dell’avvento dei fascismi, si è convertito al federalismo, anzi, a una
formulazione coerente ed estrema di federalismo. Egli stesso ammette in uno
scritto del 1940: “Confesso che, vittima di una deformazione professionale assai
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diffusa tra i giuristi e troppo penetrato ancora nei pregiudizi di un insegnamento eccessivamente rispettoso delle forme pure del diritto, anch’io, per un
momento, ho creduto all’esistenza e all’autorità di una siffatta sedicente legge
regolatrice dell’evoluzione degli istituti giuridico-politici dei popoli moderni, il
cui enunciato, costantemente messo in luce dal giuoco automatico di ferree sanzioni tenderebbe appunto a dar rilievo a questa evidenza elementare: che il tipo
di Stato semplice-unitario attua il più perfetto equilibrio (assicurandone la più
razionale coordinazione) fra le forze sociali coesistenti nel medesimo territorio e
costituisce perciò la meta fatale verso cui è giuocoforza debbano a poco a poco
gravitare, nel loro graduale assestamento, le varie particolari forme di organizzazione adattata nella pratica dalle diverse società politiche” (Trentin 1987, 143-4).
L’allontanamento di Trentin da questa iniziale posizione comincia al I Congresso
dell’Unione Nazionale del giugno 1925, quando parla de Il decentramento amministrativo. Sostiene, in particolare, due tesi: che se il Paese si fosse dato per
tempo un adeguato decentramento amministrativo, se non fosse stato imposto
il regime equalitario-burocratico per oltre mezzo secolo, se si fosse seguita la
prassi di coinvolgere nell’amministrazione pubblica le varie realtà locali nazionali, la democrazia liberale avrebbe avuto maggiori possibilità di resistere al fascismo; che una lezione migliore della democrazia era venuta dall’Impero Austroungarico che aveva lasciato spazio allo sviluppo autarchico di molte realtà locali
e aveva permesso che l’idea di democrazia si costruisse, gradatamente, nella
mente delle persone prima che nelle istituzioni.
Questa seconda tesi è fulcro della filosofia politica del più grande filosofo italiano, il napoletano Giambattista Vico che fornisce la base filosofica più adeguata a
tutte le forme vere o sostanziali di federalismo, e a quello antropologico in particolare. Vico sosteneva che bisognasse costruire un nuovo rapporto tra i governanti e i governati basandosi su un’educazione capace di far crescere individui
autonomi, addestrati a operare come uomini liberi e non come soldati. Proprio
la grandezza della costruzione teorica di Trentin mi ha fatto ipotizzare, fin dalla
prima lettura, che avesse una qualche dimestichezza con l’opera di Vico e mi ha
spinto a cercare, nel complesso delle sue opere, le citazioni dirette dalle opere
di Vico (senza tuttavia trovarne).
Ho trovato solo una citazione indiretta, appunto ne La Crise du Droit et de l’Etat,
attraverso Giorgio Del Vecchio. Citando Del Vecchio, Trentin afferma che, per
Vico, l’uomo porta in se stesso la finalità verso cui procede, lentamente e con
arretramenti, l’umanità. Tuttavia, si può portare, a conferma di questa attenta lettura di Vico da parte di Trentin, un documento che si trova tra le carte di Trentin
custodite al Centro Studi P. Gobetti. Questo documento manoscritto mostra che
Trentin ha letto con attenzione Vico nella traduzione francese che è stata fatta da
Michelet. Si tratta di 20 fogli, scritti a matita sul fronte e sul retro (il foglio numero 14 è mancante), in cui si riportano passi dell’introduzione di Michelet e delle
Opere di Vico. Questo manoscritto è importante perché dimostra che Trentin
non ha letto Vico nella presentazione che ne avevano fatta Croce e Gentile, ma
in una versione molto più antica e più capace di tirare fuori le componenti di
federalismo antropologico che sono presenti nell’opera del filosofo napoletano.
Prima di arrivare, dopo le posizioni centraliste degli anni Venti, al volume sulla
crisi dello Stato e del Diritto, il pensiero di Silvio Trentin si radicalizza subito
100
dopo la crisi del 1929. Anzi, egli approfondisce la propria riflessione sul perché
del fascismo collegandola al perché di quella crisi. Per cinque anni consecutivi,
pubblica, ogni anno, opere di critica politica, costituzionale ed economica del
fascismo: L’aventure italienne. Légendes et réalités nel 1928, Les transformations récents du droit public italien. De la charte de Charles-Albert à la création de l’état fasciste nel 1929, Antidemocratie nel 1930, Aux sources du fascisme nel 1931, Le fascisme à Genève nel 1932. Con queste opere, egli cerca di
spiegare ai francesi, oltre che agli italiani, che la crisi italiana e l’avvento del fascismo non è fatto particolare che interessa solo il nostro Paese, ma che è conseguenza di una crisi più generale che riguarda, e che si sente in tutti i Paesi
d’Europa (e che sarà acuita dalla crisi economica successiva al 1929).
Nel 1935, viene pubblicato il libro da salvare la cui importanza è, oggi, misconosciuta perché il Trentin più noto è quello degli anni successivi al 1939, quando
comincia la sua attività nella Resistenza francese. Nel corso di quella lotta, egli
continua a pubblicare scritti di riflessione teorica tendenti a proporre, come
sbocco della lotta al fascismo, la federalizzazione di uno Stato socialista. Queste
sue idee federaliste si trovano formulate, in forma completa, nel volume Libérer
et Fédérer, del 1942. Quest’opera scritta in piena lotta di liberazione, è anche una
specie di manifesto programmatico con lo stesso titolo del movimento di liberazione francese che vede Trentin tra i suoi esponenti principali. Il volume sarà tradotto in italiano, ma non pubblicato, l’anno dopo, da Antonio Giuriolo, con il
titolo: Liberare e federare. Dare un senso e uno scopo alla rivoluzione europea in corso di gestazione. In questo testo, si trova ribadito quanto ha scritto
sulla crisi, sulla necessità della rivoluzione e sulla necessità di una nuova organizzazione dell’economia intorno a una nuova organizzazione dello Stato sulla
base del socialismo e del federalismo.
(Giuseppe Gangemi)
[email protected]
Riferimenti bibliografici
Trentin, S. (1935), La Crise du Droit et de l’Etat, Paris, Bruxelles, L’Eglantine.
Trentin, S. (1987), Federalismo e Libertà. Scritti teorici 1935-1943, a cura di N. Bobbio,
Venezia, Marsilio.
________________
Giuseppe Gangemi è docente di Metodologia e Tecnica della Ricerca Sociale
all’Università di Padova. I suoi lavori più importanti sono stati: La questione federalista. Zanardelli, Cattaneo e i cattolici bresciani, UTET, Torino, 1994;
Statistica comparativa, UTET, Torino, 1997; Metodologia e Democrazia. La
comunicazione attraverso metafore, concetti e forme argomentative, Giuffré
Ed., Milano, 1999.
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Recensioni
Asterischi
DONATELLA DELLA PORTA, La politica locale, Bologna, Il Mulino, Collana: Le vie
della civiltà, 1999, pp. 307, L. 32.000
Il titolo non ammette deroghe, è quasi un manifesto. Leggendolo, si può pensare che in inglese diverrebbe: local policy (più che politics) matters. Senza difficoltà, e ampliando la prospettiva dell’approccio politologico, a cui si rifà l’autrice, vengono toccati temi molteplici che offrono spunti per altrettante, molteplici riflessioni sul tema delle politiche locali. Ed esprime così il coraggio di soffermarsi e di costruire una possibile “cassetta per gli attrezzi” per interpretare la questione, testimoniando e contribuendo al fermento
intellettuale in atto in questi anni sulla questione in Italia.
Il taglio dell’opera è quasi formativo, permette al lettore/lettrice di costruire un percorso di lettura sulla
nuova attenzione posta al tema del locale nella politica. I vari passaggi delineati pongono luce e “costruiscono” i fondamenti lungo i quali l’autrice delinea un filo rosso interpretativo sulle vicende, attingendo da
un territorio vasto e “disordinato” della letteratura in oggetto. Il processo implicito al quale si viene sollecitati è quello di una nuova riconfigurazione dei fatti e dei mutamenti in atto attraverso l’interpretazione
della letteratura e di alcuni episodi ritenuti significativi.
Il testo si divide in due parti, dopo un’introduzione sull’evoluzione del significato della politica locale, che
è opportuno qui riprendere. Essa viene definita attraverso la triplice concettualizzazione di Bogdanor
(1987) come: “comportamento elettorale e competizione tra partiti a livello locale, [...] rapporti tra politici/amministratori/burocrati locali e istanze politiche più elevate in vista di benefici specifici, [...] influenza
della struttura di governo locale sugli organi di governo nazionale in vista degli interessi collettivi dell’unità locale”, a cui l’autrice aggiunge “... la struttura degli interessi e la sua politicizzazione”.
La prima parte del testo è riferita alla letteratura statunitense e viene dedicata ad alcuni studi classici sulla
struttura del potere locale, gli studi di comunità degli anni ‘30, l’evoluzione verso la scuola elitista, quella
pluralista e neoelitista, con ampi riguardi agli studi di caso affrontati dagli autori considerati.
La seconda parte si trasferisce all’Europa e risulta più ampia ed eterogenea. Si sofferma, nell’ordine, sugli
studi delle culture e tradizioni civiche con ampi riferimenti alle analisi classiche di Banfield e Putnam; sulla
relazione tra partiti, clientelismo e corruzione nel caso italiano; sui rapporti tra centro e periferia, soprattutto in relazione ai movimenti e ai partiti autonomisti, con parte dedicata al fenomeno della Lega; sui
movimenti urbani intesi come opportunità politiche con un’interessante ricostruzione delle lotte per l’affitto negli slum americani fino ai casi italiani legati al movimento femminista, all’associazionismo laico e cattolico e infine ai gruppi ambientalistici.
Gli ultimi due capitoli rappresentano invece più una fotografia, rielaborata, di trasformazioni del presente
nell’Italia di oggi.
Il penultimo capitolo è volto ad una ricostruzione del ruolo delle istituzioni locali, centrali ed intermedie
in Italia, con un’attenzione particolare posta alle dinamiche del processo di formazione dell’assetto territoriale, ovvero nell’evoluzione del meso-livello regionale dall’Unità agli anni ‘70 in cui le Regioni vengono
costituite fino ad oggi, sia al dibattito parallelo, e a tratti confliggente, sul federalismo, che qui viene definito come “... una trasformazione del foedus, cioè del rapporto di diritto internazionale che lega originariamente alcuni Stati, in un soggetto nuovo”, mentre “... i sistemi regionali sono derivati dal decentramento di uno Stato centralizzato” (pag. 244), non mancando di trattare alcune note sintetiche sul federalismo
fiscale e alcuni principi del federalismo con riferimenti alla lettura critica di Riker (1964) e Pasquino (1996).
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L’ultimo capitolo disegna le ultime frontiere degli studi sulle politiche pubbliche e sul potere locale, con
riferimenti alla governance, dove si pone in evidenza lo spostamento dell’accento dai soggetti pubblici
nella costruzione delle politiche ad una “rete di decisioni” su problemi collettivi selettivi, su issue.
Sul caso italiano viene posto l’accento sulle relazioni perverse tra la costruzione delle politiche ed il clientelismo degli anni ‘80 nelle grandi opere, ma anche sulle nuove tendenze verso l’autonomia locale e sugli
effetti delle leggi sull’elezione diretta dei sindaci.
Vengono così trattate, in vario modo, parole chiave come la struttura familiare, la comunità, la società civile, i partiti e le politiche.
L’interesse dell’opera sta nei suoi diversi caratteri. Innanzitutto nella duplice caratteristica della trattazione
autonoma di diversi temi, ampiamente argomentati in modo critico lasciando spazio a molteplici citazioni
dirette e ad una bibliografia tematica alla fine di ogni capitolo, insieme alla capacità di costruzione di un
filo logico del discorso.
Secondo, appunto, lo sviluppo dei temi da cui si può ricostruire il dibattito e le ragioni delle sue trasformazioni. Dalla tradizione tipicamente anglosassone di studi locali al rinnovato interesse, con vari mutamenti, dei temi in ambito europeo. È quindi un percorso insieme metodologico e storico. E infatti, nel passaggio, entrano in gioco alcune variabili in cui ci si addentra a più ampia “scala”, come nel ruolo dei partiti politici e, nel caso italiano, nel rapporto tra corruzione politica, mala-amministrazione e non-decisioni,
un focus da non sottovalutare per interpretare in modo non ingenuo le dinamiche sulle politiche locali.
Ma cosa cambia nel passaggio dagli Stati Uniti all’Italia? La riflessione risulta aperta e pone in evidenza la
diversa natura nella struttura dei poteri nei due paesi, ove, in quest’ultima convivono la natura centralistica e autoritaria dello Stato e la struttura gerarchica della burocrazia, come delineati all’origine dell’Unità,
in contraddizione con la tradizione municipalistica e l’isolamento di alcune aree, il dualismo nord/sud e la
debolezza delle comunità locali, insieme ad una rinnovata volontà di riforma. Da queste tematiche messe
in gioco nasce l’interesse per la politica locale e nelle quali naviga, felicemente, l’autrice, non perdendo mai
di vista l’ineguale rapporto tra poteri, centrale e locale, volontario e autoritativo ...
D’uso corrente la metafora dell’“attore” nel riferirsi ai soggetti coinvolti nella costruzione delle politiche
(ad esempio la stampa o i movimenti urbani), in cui è implicito il concetto di trasformazione e mutevolezza di peso, ma per alcuni versi sarebbe stato più significativo usarla al plurale per caratterizzare ancor più
la possibile pluralità di intenti anche interni alla stessa organizzazione.
Le possibili riflessioni parallele all’ultima parte del testo, e sottese alla politica sono quelle che possono riferire al rapporto tra città, poteri e definizione e costruzione di bene e interesse pubblico nelle relazioni molteplici tra soggetti e istituzioni. Ma questo travalica le finalità e l’interesse dell’opera.
Il testo non termina con una conclusione, ed è giusto che sia così, poiché gli spunti di riflessione sono molteplici e perché fornisce gli elementi per dare senso alle nuove politiche locali in Europa, ancor più in Italia.
Esso risponde a un movimento circolatorio ricco di stimoli, dall’attenzione alla politica locale in USA, ad
alcune dilatazioni di temi strutturanti i soggetti coinvolti ad un ritorno verso l’analisi metodologica delle
politiche rinnovate. Le riflessioni che se ne possono trarre sono aperte, il testo è un punto di arrivo e uno
di partenza allo stesso tempo, proprio per il suo ampio respiro.
L’opera è ricca e ben argomentata e può essere trattata in modi diversi, dalla lettura puntuale di temi di
interesse specifico ad un’ottica più ampia, come scatole cinesi, senza perdere di valore ma sviluppando,
anzi, stimoli e implicazioni volta per volta, utili e suggestive.
(Daniela Cardinali)
[email protected]
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GRUPPO DI ANCONA, (a cura di), Trasformazioni dell’economia e della società
italiana. Studi e ricerche in onore di Giorgio Fuà, Bologna, Il Mulino, 1999,
pp. 544, L. 50.000
ALESSANDRO ARRIGHETTI, GILBERTO SERRAVALLI, (a cura di), Istituzioni intermedie e
sviluppo locale, Roma, Donzelli, 1999, pp. 272, L. 38.000
IDSE-CNR, Trasformazioni strutturali e competitività dei sistemi locali di
produzione. Rapporto sul cambiamento strutturale dell’economia italiana, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 322, L. 36.000
‘Sottoporre a tensione’ il concetto di locale e fare il punto sulle tradizioni di ricerca che fino ad oggi attorno ad esso sono andate strutturandosi: questo l’ambito di interessi all’interno dei quali sembra interessante
rileggere alcuni testi recenti della letteratura sui distretti di matrice italiana.
Il tema del locale è interessato infatti in questi anni, in più modi e da più parti, da differenti programmi
disciplinari che ne stanno operando una complessa risignificazione: lo spazio del locale è riscoperto in
nuove forme di descrizione e interpretazione dei processi insediativi; è ormai da più decenni l’ambito
all’interno del quale anche le discipline economiche hanno, nello scoprire nuovi modelli di organizzazione produttiva, rivisto e riformulato parte delle proprie basi teoriche; è da sempre il ‘luogo notevole’ delle
esperienze di pianificazione italiana, mentre dalle tradizionali contrapposizioni del racconto urbanistico
autonomia/centralizzazione ci si muove ormai alla ricerca di nuove forme di relazione tra i livelli amministrativi; costituisce infine uno degli ambiti privilegiati di alcune delle esperienze storiche di rilettura della
comunità intesa come insieme di valori, materiali e non, condivisi o meno, all’interno del quale operare ‘in
modo altro’ la pianificazione del territorio. Quindi il locale costituisce oggi, in Italia, una di quelle immagini esplorative, o forse meglio una di quelle famiglie di immagini euristiche che, anche se affermarlo quando l’esperienza è ancora in corso può esporre a rischi non indifferenti, è stata capace di dare luogo ad una
generale rivoluzione disciplinare, tanto che potremmo ormai con Kuhn dire che siamo passati dalle forme
e dai tempi di una ‘scienza straordinaria’ a quelle di ‘una scienza normale’.
Tra i testi recenti che permettono di rileggere tra le righe la storia dell’affermazione del paradigma del locale nella letteratura economica italiana tre testi pubblicati nel corso del 1999 costituiscono una sorta di
punto di osservazione privilegiato: essi sembrano proporsi di fare il punto sul locale, sulle tradizioni di
ricerca e sulle famiglie di discorsi sul locale degli ultimi vent’anni. Legati ad alcune delle figure che più di
altre hanno introdotto al nuovo paradigma, essi ne ricostruiscono le diverse declinazioni all’interno della
matrice comune, ritagliando un condiviso punto di vista, rinsaldando quindi il paradigma, ma anche rimettendolo in gioco, affrontando esplicitamente la riflessione sulle possibili questioni aperte e sulle prospettive di ricerca, con una comune intenzionalità teorico-operativa e un ricorrente richiamo alle questioni attinenti alla sfera della regolazione. Essi infatti da un lato pongono in discussione la possibilità di una ‘teoria’
del locale, dall’altra ne tentano una fondazione nelle pratiche, a partire da una forte attenzione alle esigenze di una realtà italiana che in attesa di una ri-definizione delle forme di regolazione e delle istituzioni
preposte al trattamento dei beni pubblici, sta conoscendo localmente frammentati episodi di risignificazione delle sfere del pubblico e del privato.
Il primo testo Trasformazioni dell’economia e della società italiana. Studi e ricerche in onore di Giorgio
Fuà, a cura del Gruppo di Ancona, ricostruisce attraverso la figura di Fuà una tradizione di ricerca comune attorno ai temi delle trasformazioni delle strutture economiche e sociali, della diffusione territoriale, dei
legami con l’evoluzione demografica, del governo dell’economia, del ruolo dell’imprenditore. Tributo di
coloro che si riconoscono nell’attenzione di Fuà per la pluralità degli equilibri di ciascun contesto territoriale e nella sua affermazione della necessità di rottura rispetto alla retorica della dicotomia tra sviluppo e
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sottosviluppo, nella ricerca sulle cause dello sviluppo e dell’affermazione del modello NEC, il testo propone, accompagnate da brani antologici dello stesso Fuà, le riflessioni di alcuni dei più interessanti distrettualisti italiani, tra i quali spiccano quelle di Becattini, Bagnasco e Paci. In tutti e tre gli autori l’istanza di
una rilettura del paradigma appare pressante, e sempre comunque non in termini conclusivi quanto piuttosto nel senso di un possibile rilancio della questione locale. Si tratta, dice Paci, di tornare a ripensare al
locale in un momento privilegiato, quando cioè dopo anni di studi sul campo esistono dati su cui rivedere le teorie per affinare metodi e concetti. Paci individua un particolare punto debole della letteratura sul
locale: fino ad oggi abbiamo descritto con attenzione le condizioni strutturali, cioè le condizioni che si
sono rese disponibili e hanno permesso l’affermarsi di alcuni contesti locali. Come, quando e perché determinati soggetti si sono concretamente fatti portatori dello sviluppo: queste le domande che Paci sottopone alla ricerca, con una nuova attenzione per gli effetti della discontinuità, e, con Trigilia, per il ruolo della
storia amministrativa e politica e del senso di appartenenza alla comunità da parte dei soggetti che la compongono; l’atteggiamento di fondo è quello di nuova curiosità per l’individualismo creativo, a partire da
una riflessione sulle radici della spinta all’imprenditorialità autonoma e ai limiti e alle possibilità di una
società che spinge all’affermazione dell’individuo soprattutto in termini di attivazione imprenditoriale.
Interrogandosi sul senso del paradigma dello sviluppo locale come sviluppo diffuso, anche Bagnasco torna
a privilegiare rispetto alla a lui cara matrice degli effetti di lunga durata, la necessità di ripensare ad esso
non nei termini di una ‘storia naturale’; ad essere messo in discussione è il senso di spontaneità che ha
caratterizzato l’approccio disciplinare: l’assenza di politiche regionali esplicite, un racconto che ha privilegiato l’immagine di una società che si è ‘sbrigata da sola’, dice Bagnasco, non devono impedirci di ragionare su come investire su questi processi. In questo senso l’autore rilancia la ricerca sul campo.
Innovazione e congiuntura scardinano costantemente e riformulano il sistema: di fronte all’impossibilità di
una teoria generale, la strada suggerita è quella di un costante e infaticabile sforzo di accumulazione di
descrizione dei meccanismi locali e storici di queste forme di sviluppo.
Una terza strada per la ricerca è quella individuata da Becattini: anche essa caratterizzata da un approccio
operativo, si pone alla ricerca delle corrispondenze tra la classificazione dei modelli cognitivi degli studiosi e di coloro che vengono studiati, i produttori, ad esempio. La metafora del mirmecologo che cerca di
capire come le formiche descrivono se stesse si pone nella prospettiva di una ricerca che cerca di capire
come ha modificato la realtà sociale descrivendola; la ricerca sul locale ha in questi anni trasformato profondamente il modo in cui i locali si riconoscono o descrivono agli altri aprendo a nuovi sensi di identità
e appartenenza. Nella riflessione sul locale, la discussione sul significato dell’introduzione di nuove griglie
di classificazione all’interno delle realtà locali si pone come nuovo filone d’indagine nella prospettiva di
‘una ricerca come parte dell’attività pratica e dell’attività pratica come parte dell’attività di ricerca’ che è
forse uno dei più grandi insegnamenti di Fuà e di coloro che in questi anni lo hanno accostato nella ricerca e di cui il libro è testimonianza interessante. Tra interventi di varia natura e differente peso, esso è infatti costantemente animato da una nuova attenzione per il ruolo delle politiche pubbliche, che prosegue e
rilancia l’insegnamento di Fuà sul ruolo dell’economia politica e specifica i termini di una ricerca che se
pur si è mossa tra le maglie di una società che sembrava sbrigarsi da sola, ha contribuito a rimettere in discussione e tentare di decostruire e ricostruire le tradizionali categorie di pubblico e privato.
In questa direzione si muove ancora più esplicitamente il secondo testo Istituzioni intermedie e sviluppo
locale, a cura di Alessandro Arrighetti e Gilberto Serravalli. Come sostiene Jessop, di fronte allo ‘scardinamento delle istituzioni nazionali, operato da un lato dalle sovranazionali, dall’altro dai ‘livelli locali e regionali della governance’, il testo indaga sulla natura e sul ruolo delle istituzioni intermedie, cioè proprio di
quelle istituzioni che come prodotti contemporanei del capitale sociale locale, hanno costituito le condizioni dell’affermazione dello sviluppo. Intese come ‘organismi collettivi e sistemi di regole finalizzate all’offerta localmente differenziata di beni pubblici categoriali destinati cioè a specifici soggetti o categorie di
soggetti economici’, il testo ne indaga la natura di meccanismi di stabilizzazione o destabilizzazione nei
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movimenti costanti tra processi di istituzionalizzazione-deistituzionalizzazione e il contributo alla riproduzione dell’ordine sociale. Passando dalle banche agli istituti di credito, ai comuni, nel panorama dell’Italia
degli ultimi trent’anni, si discute della loro capacità e interesse relativamente all’arricchimento dei fondamenti della società civile, alla capacità di ristrutturazione delle sfere del pubblico e del privato, di fronte a
quello che Fabio Sforzi tratteggia come un contesto geografico di dissociazione tra regioni economiche e
regioni istituzionali: ‘il fatto che i sistemi locali costituiscano nella loro varietà di forme di aggregazione,
l’effettiva base strutturale dell’economia e della società italiana, solleva il problema del ruolo delle istituzioni intermedie e del loro coordinamento a scala regionale per la regolazione dello sviluppo locale’.
Interrogandosi sulle potenzialità delle istituzioni intermedie di ridisegnare forme di regolazione locali, il
testo introduce in maniera dialettica un interessante percorso di ricerca, nel tentativo di individuare radici teoriche per le istituzioni intermedie: la tesi di fondo è che l’ordine sociale, politico ed istituzionale sia
sottoposto ad una progressiva erosione a causa della discrasia tra livello macroistituzionale e microistituzionale a causa delle diverse logiche di riproduzione dei tipi di relazione ad essi legati. Mentre infatti l’istituzionalizzazione a livello macro ‘si fonda su criteri di tipo universalistico e genera standardizzazione ed
omogeneità’, ‘l’istituzionalizzazione di tipo micro incorpora criteri particolaristici d’azione e genera differenziazione dei modelli regolativi e dei comportamenti’. Tra i due livelli esisterebbero delle impermeabilità: ‘la formazione di ordini regolativi locali introduce elementi di deistituzionalizzazione strisciante dei
sistemi istituzionali nazionali, così come il rafforzamento delle istituzioni nazionali ha come presupposto
l’indebolimento degli ordini regolativi locali e ne minaccia la stabilità’. Le istituzioni intermedie giocano in
questo processo il ruolo di forme di standardizzazione idiosincratica, di potenti meccanismi di stabilizzazione tra istituzionalizzazione e deistituzionalizzazione. Il testo rilegge in alcuni contesti della Terza Italia
la storia e il ruolo di alcune istituzioni intermedie, ricostruendo un quadro in disequilibrio costante di
un’Italia in trasformazione, in cui la ri-istituzionalizzazione del livello micro scardina un livello macro in cui
si cercano nuove forme di regolazione, destinate a loro volta a scardinare il livello micro, un quadro dinamico in cui le meso-istituzioni sono messe alla prova nella loro capacità non tanto di porre fine al conflitto, quanto di strutturare l’eterogeneità rispetto ai sistemi di regolazione come fonte di ricchezza.
Il terzo testo Trasformazioni strutturali e competitività dei sistemi locali di produzione. Rapporto sul
cambiamento strutturale dell’economia italiana, a cura dell’Idse-Cnr si discosta dai primi per la natura
di rapporto di ricerca a carattere essenzialmente economico sulla realtà italiana, ma offre alcuni spunti di
riflessione su altri possibili percorsi della ricerca sui contesti e sulle caratteristiche dello sviluppo locale,
inteso in questo testo come sviluppo della piccola impresa. Esso parte dal presupposto che i sistemi produttivi locali abbiano assunto una posizione centrale nella letteratura economica pur in assenza di interpretazioni complete dei loro meccanismi formativi ed evolutivi. Di fronte al rischio di una cristallizzazione
dei modelli ad opera della letteratura e dell’assunzione di questi come dati, mentre in una prospettiva di
trasformazione istituzionale gli stessi soggetti che li hanno strutturati, ad esempio le istituzioni locali,
vanno assumendo ruoli inediti, non conosciuti in quella che spesso è stata descritta come la fase spontanea dello sviluppo locale, gli autori, dichiarando di partire da un approccio di analisi economica storicoteorica, per operare una lettura evolutiva dei processi interni di organizzazione e riorganizzazione ritengono ‘opportuno assumere una prospettiva che senza trascurare il ruolo talvolta centrale dell’industria
possa consentire di cogliere i fenomeni di interdipendenza e interazione tra settori produttivi eterogenei
su scala locale, di esplorare in particolare il ruolo dei settori dei servizi e delle istituzioni’. In questo modo,
rileggendo l’economia italiana con una documentazione precisa delle trasformazioni, per quasi tutto il
Novecento, essi tracciano una storia economica in cui si legge in controluce il ruolo delle istituzioni locali
e delle condizioni del contesto locale non solo come precondizioni ineliminabili del successo, ma anche
come fattori perennemente in gioco nel ruolo creativo di scelta delle politiche e di riformulazione dei
modelli di azione pubblica. Senza avere ambizioni propositive in questa direzione, il testo traccia una relazione forte con l’ambito operativo, rilanciando l’importanza di un percorso di ricerca nelle policies che ridi-
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segni per il nuovo pubblico e le istituzioni il ruolo di semina delle iniziative e della strutturazione di ‘eventi sociali’ favorevoli allo sviluppo. In questo senso interessante è la ricostruzione del ruolo dei gruppi di
aggregazione industriale in ambito romagnolo che permette di rileggere la storia dello sviluppo locale non
semplicemente come processo spontaneo basato sulla fiducia tra individui, ma anche come insieme di
forme nuove di regolazione all’intreccio tra istituzioni private e pubbliche.
I tre testi dunque aprono nuove possibili prospettive per la ricerca sui distretti industriali, ma anche sulle
formazioni sociali e sulle istituzioni che esse stanno contribuendo a ridefinire, rilanciando la riflessione nel
segno dell’affermazione becattiniana (G. Becattini, Il distretto industriale, un nuovo modo di interpretare il cambiamento economico, Torino, Rosemberg & Sellier, 2000): ‘la riscoperta della cruciale importanza della varietà dei contesti locali quali alimento del cambiamento rimane incompiuta e insoddisfacente
fino a che non si affronta la questione dei modi in cui essa agisce sulla generazione dei vantaggi competitivi delle imprese e dei paesi, e si riproduce nel tempo’. Dove l’accento a nostro avviso più urgente è da
porre soprattutto sulla riproducibilità nel tempo non solo delle strutture produttive, ma anche su quelle
sociali e quindi istituzionali, su quelle forme di capitale sociale a cui forse la ricerca è in grado di tornare a
guardare non solo secondo la retorica dello spontaneismo, ma anche nella retorica e nella prospettiva della
responsabilità.
(Valeria Fedeli)
[email protected]
PAOLO PERULLI, La città delle reti. Forme di governo nel postfordismo,
Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 192, L. 35.000
La crisi del modello di produzione fordista porta con sé anche la crisi del modo di regolazione gerarchica
tipico dello Stato moderno e, in particolare, dello Stato-nazione. Il saggio di Perulli è dedicato a un’analisi
tanto delle nuove forme di organizzazione della produzione e del mercato, quanto delle nuove forme di
regolazione politica: entrambe sembrano essere accomunate da una medesima forma, quella di una struttura reticolare e non gerarchica. Questo accostamento tra l’economia reticolare e le nuove forme di regolazione politica viene posto, tuttavia, in termini problematici poiché proprio la dimensione reticolare non
gerarchica, se è confacente alla logica del libero mercato, non si concilia con la dimensione della regolazione politica in cui l’attore politico è, per definizione, gerarchicamente sovraordinato. In altre parole, se
le forme a rete, caratterizzate dalla connessione continua tra le parti in mancanza di precisi confini e dall’assenza di un centro gerarchicamente ordinato, sembrano essere quelle vincenti in economia, come si
configurano allora le nuove forme di regolazione politica tendenti per definizione alla gerarchia?
L’autore cerca di fornire una risposta a questo interrogativo riprendendo quanto emerso dal dibattito sul
neoregionalismo. A questo proposito Perulli analizza la crisi dello Stato-nazione (capitolo 2) e l’emergere
dell’economia delle reti (capitolo 3) che, letti nel loro insieme, permettono di comprendere meglio, da un
lato, il riemergere dei cleavages e delle fratture regionali e locali di origine più antica e, dall’altro, la ridefinizione degli ambiti in cui, tendenzialmente, oggi vengono prodotti quei beni pubblici necessari per lo
sviluppo locale e regionale “largamente affidati agli attori territoriali intesi come nodi autoregolati” (p. 42)
della rete locale cui è affidata la regolazione complessiva. Si tratta di reti di governance (capitolo 7) cui partecipano attori politici locali, imprese private e associazioni di categoria, che sono in grado di giungere a
decisioni politiche attraverso un processo di negoziazione. “L’idea di una governance a molti livelli nasce
dalla certezza che il vecchio modello centrato sullo Stato e di tipo gerarchico (top-down) si è ormai dissolto e che il potere/autorità si sta disperdendo in molte direzioni come in una specie di big bang; che il processo è irreversibile e tuttora in corso; e che le fonti di obbedienza, lealtà e identità sono ormai diffuse” (p. 125).
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Con la crisi dello Stato regolatore del modello fordista, “i territori si organizzano strategicamente” sperimentando forme alternative di relazione tra i luoghi. Un esempio significativo è quello della “rete di città”
che ha un suo precedente nel modello anseatico: “la Hanse era una lega di città commerciali che agiva
come entità economica senza sviluppare forme statali (protezione militare, raccolta centralizzata di tasse,
ecc.)” (p. 62), una rete che gravitava su due città maggiori, come Amburgo e Brema, le quali formarono
ognuna una città-Stato che sopravvivono ancora oggi come Länder nell’attuale stato federale tedesco.
Partendo dall’analisi di questo caso Perulli sostiene l’idea che quella federalista sia la forma più adeguata a
rispondere alla logica della rete che richiede flessibilità strutturale, concludendo che: “la struttura federativa della rete ha (…) eccellenti ragioni per rivelarsi più efficiente della forma statale. (…) Entro un contesto sopranazionale come l’Europa, reti di città e di regioni potranno essere più efficienti dello Statonazione nel promuovere lo sviluppo economico, la coesione sociale e una nuova cittadinanza” (p. 66). Va
notato, tuttavia, che la “forma federale” non è incompatibile con la “forma statale” tout court ma, semmai,
con la forma dello Stato-nazione centralizzato.
L’alternativa post-fordista proposta dall’analisi di Perulli è quella della “città delle reti”. Poiché “le reti sono
chiamate a fornire cittadinanza, a permettere il gioco degli interessi, a federare autonomie” (p. 8), è possibile immaginare, secondo Perulli, una “città delle reti”, intesa non come urbs (città fisica) ma come civitas (città politica), cioè come “ordine morale” o spazio pubblico in cui entrano in relazione individui e
norme, identità e diritti di cittadinanza.
L’idea della rete come “costruzione sociale artificiale” viene proposta allora da Perulli non più come un
semplice concetto metaforico per indicare il cambiamento che caratterizza il post-fordismo, ma piuttosto
come un “paradigma intermedio” in grado di superare la contrapposizione, non solo metodologica, tra le
“scienze sociali sia individualistiche che olistiche” (p. 7). Per avallare questa tesi Perulli propone una teoria dell’attore che vede l’individuo non più come “uomo economico” o “uomo democratico”, ma piuttosto
come “uomo delle reti”, caratterizzato cioè da una ambivalenza strutturale tra una componente utilitarista,
che tende cioè a massimizzare l’utile individuale, e una componente interazionista e “multipla” quanto lo
sono gli ambiti di relazione, le norme e i sistemi di riferimento con cui entra in contatto, che rende del
tutto sfaccettata e complessa la sua razionalità.
Le reti definite da questo insieme complesso di relazioni tra individui costituiscono, secondo Perulli, vere
e proprie “costruzioni artificiali” e “non comunità naturali” ma, proprio per questo, la loro progettazione
diventa possibile e diventa oggetto di riflessione per le scienze sociali. La domanda allora diventa: “Dopo
l’epoca degli Stati nazionali e nell’era dell’economia globale, possiamo costruire istituzioni collettive basate sulle reti, una economia politica delle reti?” (p. 8). In altri termini, le reti possono essere pensate (come
già suggerito da Rullani) come “le institutions del postfordismo”? (p. 179).
Per rispondere a questa domanda Perulli accosta la metafora della rete ad altre due metafore altrettanto ricorrenti nel dibattito delle scienze sociali della fine degli anni Novanta: quella del labirinto e quella dell’arcipelago.
Il saggio parte da una ricognizione delle rappresentazioni della società date nel corso della storia del pensiero (occidentale) delle scienze sociali, ora come macchina (nel secolo XVIII, con A. Smith e A. Comte),
ora come organismo (nel secolo XIX, con Durkheim), ora come sistema (per buona parte del secolo XX,
con Parsons), fino ad arrivare ai nostri giorni in cui l’immagine che sembra prevalere è quella del labirinto
che, va sottolineato, vede la rete di relazioni a partire dal punto di vista dell’attore individuale, perdendo
la visione d’insieme delle relazioni non gerarchiche che caratterizzano la rete. Distinguere tra la metafora
della rete e quella del labirinto è perciò di estrema importanza se si vuole mantenere fede alla domanda
iniziale: possiamo costruire istituzioni collettive basate sulle reti?
Se il labirinto guarda al percorso individuale, la rete invece connette tali percorsi individuali dandone una
visione d’insieme e mettendo l’accento sulle relazioni tra gli attori. La teoria dell’attore razionale interpreta la rete come un labirinto promettendo all’attore “di guidarlo nel labirinto delle scelte”, individuando un
metodo efficiente (standard e universalistico) per ridurre la complessità. Tuttavia, come osserva Perulli,
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così facendo questa teoria “si riduce nel migliore dei casi a costruire un uomo razionale in una società irrazionale” (p. 26).
Inoltre, possiamo aggiungere, decontestualizzando l’azione dal suo ambiente culturale e relazionale, essa
non fornisce gli strumenti per comprendere l’adeguatezza dell’azione stessa rispetto alla specificità del
contesto, finendo con l’ipostatizzare una razionalità standard e ottimale in ogni caso: una logica dell’azione che mostra di essere piuttosto rigida proprio perché pretende di essere valida in qualunque contesto,
ma che, di fatto, risulta essere poco efficace nel far fronte alla molteplicità dei sistemi di significato che
caratterizzano i vari contesti relazionali e, tutto sommato, rimanendo uguale a se stessa, anche poco capace di apprendere dalla propria esperienza e di mutare nel tempo. Rete e labirinto, quindi, non solo non
indicano lo stesso oggetto, ma anche come espressioni metaforiche rimandano a due concezioni molto
diverse del rapporto tra l’individuo e il suo ambiente sociale e relazionale.
L’idea della rete come connettore in grado di creare accordi, di federare le parti, induce Perulli a rapportare il concetto di rete a quello di arcipelago (capitolo 9). Ciò che accomuna, secondo l’autore, la teoria delle
reti alla “sociologia dell’arcipelago” è, in primo luogo, l’assenza di gerarchie e di sovranità e, dall’altro, l’idea
di un legame sociale che scaturisce da un accordo tra le parti e dal vincolo morale che ne consegue.
Il risultato è una sorta di “ordine spontaneo” à la Hayek che, se riesce a spiegare la genesi di un modello
istituzionale di tipo aggregativo, basato cioè su una sorta di armonia degli egoismi e sullo scambio di utilità, non riesce a spiegare invece la genesi delle istituzioni di tipo integrativo in cui ciò che tiene insieme le
isole dell’arcipelago è, piuttosto, un’idea di “bene comune” (March e Olsen). Per comprendere la rilevanza di questa differenza basta fare riferimento al caso dei distretti industriali, spesso analizzati, non senza
contraddizioni, facendo riferimento alla teoria delle reti: cosa tiene insieme gli attori economici, politici e
sociali del distretto di Prato? Uno scambio di utilità tra i singoli attori (isole dell’arcipelago) o la condivisione di valori culturali e di un’idea di “bene comune” che fa di una molteplicità di isole un “paese” integrato? Contrariamente a quanto ritiene Perulli, se si fa coincidere la teoria delle reti con quella dell’arcipelago, inevitabilmente si finisce con il fare (più o meno volutamente) anche una scelta del modello istituzionale verso cui, si ritiene, le reti tendano ad orientare l’azione sociale: l’opzione è per il modello istituzionale aggregativo, che tuttavia non riesce a rendere conto di istituzioni integrative come quelle dei
distretti industriali.
Un ambito in cui la metafora della rete sembra essere invece molto efficace è quello della ricostruzione dei
modelli cognitivi, delle mappe concettuali con cui vengono costruite le rappresentazioni del mondo che
orientano l’azione individuale e sociale: “i fatti”, non esistono se non nella rete di attori che li costruiscono e ne condividono il senso, offrendone la chiave di lettura. Il linguaggio è forse l’esempio più suggestivo di questa rete che prende forma dalle regole e dal sistema di significati condivisi e che è, al tempo stesso, il risultato dell’interazione sociale continua, ma anche lo strumento (l’istituzione) che rende possibile
e meno problematica questa interazione.
È possibile, seguendo la stessa dinamica della definizione del linguaggio, costruire tipi di rete di relazioni
che possono condurre alla strutturazione di istituzioni sociali e politiche? Nell’opinione di chi scrive la soluzione proposta da Perulli non appare del tutto convincente dal momento che sembra rimanere troppo
legata alla necessità di elaborare una teoria dell’attore piuttosto che una teoria delle reti, passando attraverso l’idea dell’attore-rete (p. 29), senza risolvere così l’inevitabile ambiguità insita nella metafora stessa
della rete che, divenuto paradigma intermedio, cerca di mediare tra “individuo” e “sistema”, tra micro e
macro, senza mai abbandonare, nei fatti, il richiamo a una qualche teoria dell’attore, estraniato però dal
suo contesto. Per questa strada sarebbe, insomma, come pensare di poter comprendere una lingua a partire dalle azioni di un singolo attore, o anche di un insieme di attori, anziché dal contesto comunicativo
che la rete-linguaggio produce grazie alle interazioni continue tra gli attori considerati.
Il punto è che il concetto di rete riesce a descrivere le relazioni di transazione tra gli attori ma non ci dice
con quali modelli cognitivi questo scambio di informazioni diventa “comunicazione sociale”, cioè costru-
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zione sociale della rete e, quindi, istituzione. Per avere queste informazioni bisogna coniugare il concetto
di rete con quello di “contesto” culturale e istituzionale che ci permette di definire il contesto comunicativo entro cui si muovono gli attori sociali, con i loro modelli cognitivi, le norme sociali e i sistemi di valori di riferimento.
Reti e istituzioni sono quindi, e restano, concettualmente molto distanti: mentre le reti connotano relazioni
di tipo prevalentemente informale ancora non istituzionalizzate e, per questo, anche molto flessibili; le istituzioni, al contrario, connotano tipi di relazioni già codificate entro ruoli e regolate da norme condivise.
Se così stanno le cose, le conclusioni rischiano allora di non confermare quanto sostenuto da Perulli, dal
momento che lo Stato post-fordista, essendo strutturalmente caratterizzato da reti informali, o rappresenta una fase di transizione tra una forma di regolazione politica e un’altra, di cui la metafora della rete aiuta
a comprendere le nuove forme solo in parte (senza per questo costituire ancora un’alternativa compiuta e
istituzionalizzata), oppure è destinato a rimanere un sistema reticolare e informale e, quindi, a non divenire mai un’istituzione.
Se passiamo poi ad applicare il “paradigma intermedio” delle reti al campo delle riforme istituzionali, come
per esempio, nel caso italiano, le applicazioni delle leggi Bassanini del federalismo amministrativo e fiscale e gli strumenti della programmazione negoziata nei luoghi concreti, appare subito evidente che si tratta di un terreno ben più articolato e complesso, difficilmente rappresentabile in una semplice rete: è più
un groviglio, spesso inestricabile, in cui gli attori locali giocano ruoli diversi a seconda delle culture politiche locali, delle prassi amministrative consolidate, dei modelli istituzionali localmente sedimentati che
danno vita a reti di governance molto diverse da luogo a luogo. Se si prescinde da questa dimensione “concreta” dei luoghi, la metafora della rete, divenuta, come suggerisce Perulli, “paradigma intermedio”, rischia
di configurarsi più come un’opzione (per di più non sempre consapevole) che orienta l’azione sociale
verso la costruzione di istituzioni (solo) di tipo aggregativo e che, se assolutizzata, rischia di essere una
semplificazione fuorviante che appiattisce in una dimensione troppo “sottile” la densità dei luoghi in cui
vivono i soggetti in carne e ossa, oggetto della ricerca politica, sociale ed economica.
(Patrizia Messina)
[email protected]
ALBERTO MAGNAGHI, Il progetto locale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 256,
L. 30.000
Il lavoro di Magnaghi prende le mosse da una critica radicale della “forma metropoli”, modello insediativo
che riduce il territorio a spazio isotropo e indifferenziato, meramente funzionale al libero dispiegarsi delle
logiche localizzative del mercato e della produzione capitalista. L’indefinita estensione della forma metropoli sancisce una rottura epocale nel secolare processo di costruzione di “territorialità”, mette in crisi l’equilibrio nella “relazione coevolutiva fra insediamento umano e ambiente”, e genera una crescente “deterritorializzazione” (cancellazione dell’identità e della specificità dei luoghi, consumo irresponsabile di suolo,
distruzione degli ecosistemi, sradicamento delle comunità locali, disgregazione sociale, impoverimento
dello spazio pubblico). Il dilagare della deterritorializzazione, sebbene fortemente sostenuto dai processi
di globalizzazione economica, tuttavia, non è irreversibile.
Innanzitutto proprio le nuove povertà (materiali e culturali) da essa causate sono all’origine di pratiche e
aspirazioni sociali che alludono a possibili percorsi di rifondazione urbana e territoriale: le nuove “energie
da contraddizione” espresse dai movimenti sociali urbani e dai gruppi ambientalisti, implicite nell’emergere della questione identitaria, etnica e linguistica, disseminate in una molteplicità di micropratiche locali (esperienze di self-help, commercio equo e solidale, comitati di quartiere, finanza etica, nuove forme
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comunitarie “elettive”), e giunte infine a manifestarsi nella mobilitazione internazionale contro la globalizzazione a Seattle, stanno sperimentando nuovi e credibili progetti di resistenza politica e propongono
nuovi paradigmi di sviluppo locale autosostenibile.
In secondo luogo le chance per uno sviluppo locale autosostenibile alternativo alla deterritorializzazione
sembrano iscritte negli stessi caratteri del mutamento epocale: l’economia post-fordista, la trasformazione
della forma Stato in senso federalista, la centralità della concertazione territoriale nelle nuove pratiche
amministrative “post-burocratiche” e nelle relazioni industriali fanno del locale un tema di dibattito e un
ambito d’intervento strategico, sottratto alla residualità (accademica, politica ed economica) in cui era confinato fino a pochi anni or sono. Ma cos’è il locale, nell’ottica di Magnaghi? Il locale è al tempo stesso un’istanza politico-culturale e un tema teorico-progettuale suscettibile di un trattamento specifico dal punto di
vista dell’urbanistica.
Da un lato, infatti, collocando saldamente il contributo del suo “approccio territorialista” alla teoria dello
sviluppo locale nello scenario del mutamento storico in atto, Magnaghi giunge a ritenere che il locale sia
diventato oggi “un terreno, anzi il vero terreno di scontro”. L’appropriazione del locale (del capitale umano
e sociale insediato e del “patrimonio territoriale” che genera le risorse, le qualità ambientali-insediative e
gli asset localizzativi di cui si nutre il ciclo post-fordista) è al centro della competizione economica; specularmente il controllo sulle risorse e i destini delle comunità locali è al centro del conflitto sociale e della
lotta politica contemporanea.
D’altro canto va ricordato che l’approccio territorialista è anche il risultato di una ben precisa tradizione di
ricerca, di didattica e di pratica professionale maturata negli ultimi anni a ridosso di alcune Facoltà di architettura e urbanistica italiane e che, di conseguenza, una corretta valutazione del contributo del libro di
Magnaghi non può prescindere dal suo rapporto con il recente dibattito urbanistico. Fermo restando che
uno dei principali pregi del testo consiste nell’equilibrio con cui miscela argomenti tecnico-urbanistici e
gergo disciplinare con questioni e linguaggi di più generale rilevanza politico-culturale, è forse proprio in
riferimento al locale come tema di progetto urbanistico e al ruolo dell’urbanistica nella politica contemporanea che Il Progetto locale fornisce gli spunti di riflessione più interessanti. Da questo punto di vista il
libro di Magnaghi, oltre a segnare il punto di massima sistemazione di una riflessione e una pratica progettuale “alternativa e antagonista”, costituisce anche un contributo maturo in grado di aggredire con incisività alcune delle problematiche emergenti nel più generale dibattito sulla riconfigurazione degli assetti,
degli strumenti e delle tecniche della pianificazione territoriale.
Con una semplificazione estrema l’approccio territorialista può essere ricondotto a due assunti principali:
a) un’idea radicalmente partecipativa della pianificazione urbana, intesa come interazione sociale e non
come esercizio di expertise tecnico-professionali, e una concezione del ruolo del planner come “facilitatore” al servizio della comunità insediata; b) un’opzione decisa e non negoziabile per la sostenibilità territoriale (ambientale, economica e sociale) come contenuto sostantivo del progetto e un ethos progettuale
ispirato all’idea di cura del territorio, interpretato come “soggetto vivente” complesso e pluridimensionale.
Ora, dopo una stagione di affinamento dell’elaborazione teorica e della sperimentazione pratica svolte nei
contesti antagonisti dell’insurgent city all’insegna di questi due orientamenti costitutivi, l’esperienza territorialista sembra esprimere una proposta di rifondazione della disciplina urbanistica ricca di indicazioni
anche per l’organizzazione istituzionale dell’urbanistica. Al centro di tale proposta vi è il concetto di statuto dei luoghi.
Concetto poliedrico e complesso, quello di statuto dei luoghi allude innanzitutto ad una modalità della
descrizione e interpretazione territoriale, che, abbandonati i codici analitici omologanti, quantitativi e standardizzanti della tradizione geografica positivista e funzionalista, assume come obiettivo il riconoscimento
e la rappresentazione dell’identità dei luoghi, intesa come permanenza di specifiche “invarianti strutturali” del paesaggio antropico e naturale.
Ma il concetto ha, oltre a questo valore analitico, anche un risvolto decisamente normativo e progettuale.
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Lo statuto dei luoghi, nel riconoscere e codificare i caratteri identitari di lunga durata di un territorio, definisce anche le coordinate entro cui debbono collocarsi le azioni di trasformazione e ri-territorializzazione
dello stesso. Per questa ragione esso non può che avere anche un carattere contrattuale-costituzionale: è
l’atto - inevitabilmente politico, giacché derivante da processi di negoziazione e concertazione sociale - con
cui la comunità insediata in un luogo giunge a siglare un patto condiviso sul futuro del proprio patrimonio
territoriale.
È a questo punto che l’idea di statuto dei luoghi si salda con la più generale problematica comunitaria e
neomunicipalista. Lo statuto dei luoghi diviene “uno strumento del processo di rifondazione della città in
quanto municipalità”, un’occasione per sperimentare nuove forme di “democrazia comunitaria” e di autogoverno della società locale, fondate sul rafforzamento degli istituti di partecipazione civica e l’ispessimento delle reti comunitarie.
Ma, di nuovo, il discorso di Magnaghi non si risolve in un’esortazione politica: la pur forte carica utopica
dell’approccio territorialista si coniuga alla proposta di una soluzione operativa e immediatamente praticabile al problema della ridefinizione della forma del piano urbanistico, su cui, da tempo, gli urbanisti discutono sia in sede accademica che in sede legislativa. Una delle ipotesi al centro della discussione (e della
sperimentazione già avviata in alcune regioni) concerne il cosiddetto sdoppiamento del piano in un
momento programmatico-strutturale (o strategico) e un momento operativo-normativo.
Tale momento non può risolversi - sembra suggerirci implicitamente Magnaghi – nell’elaborazione di
generici documenti d’indirizzo strategico, assimilabili magari ai programmi di legislatura delle diverse
amministrazioni locali. Esso al contrario deve diventare un momento costituente dell’identità e dell’autogoverno locale, un’occasione per tornare a radicare l’urbanistica nel processo politico locale e per sancire
le scelte non negoziabili della società locale circa la salvaguardia e la valorizzazione dell’ambiente e dello
spazio pubblico quali beni comuni condivisi. Ecco allora che la rifondazione del “nuovo municipio” e la
rifondazione del progetto locale attraverso lo statuto dei luoghi diventano due aspetti dello stesso processo, necessari l’uno all’altro: non si dà democrazia locale senza strumenti di decisione realmente partecipata e non si dà conservazione e riproduzione del patrimonio territoriale (in altri termini: sviluppo locale) senza
la maturazione nel processo decisionale dei soggetti locali capaci di prendersene cura innovativamente.
(Elena Milanesi)
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DAVID HARVEY, L’esperienza urbana - metropoli e trasformazioni sociali,
Milano, Il Saggiatore, 1998, pp. 352, L. 49.000
In Italia dopo il successo nel 1993 de La crisi della modernità (traduzione di The Condition of
Postmodernity, Blackwell Pub, 1990) il pensiero di David Harvey si arricchisce nel 1998 de L’esperienza
urbana, una raccolta di alcuni saggi in parte già pubblicati tra il 1978 e la metà degli anni ‘80, riuniti secondo un preciso filo teorico (oltre che rivisti e talvolta riscritti per migliorarne la coerenza) e dati infine alle
stampe nel 1988 con il titolo originale di The Urban Experience.
La traduzione italiana, edita dieci anni più tardi ed in ogni caso successiva sia alla pubblicazione inglese che
a quella italiana de La crisi della modernità (di cui L’esperienza urbana è il fondamentale presupposto),
impone dunque una riflessione comune su due opere strettamente legate nel percorso di ricerca oltre che
sintonizzate entrambe su un doppio registro di analisi: da una parte la storia delle vicende sociali, economiche ed urbane del modernismo dall’Illuminismo ai giorni nostri, dall’altra l’indagine sulla mutata esperienza dello spazio e del tempo nella dimensione urbana contemporanea.
In questo senso la chiave di interpretazione de L’esperienza urbana è senza dubbio l’ultimo saggio
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(Accumulazione flessibile a mezzo di urbanizzazione: riflessioni sul “postmoderno” nella città americana). Qui Harvey esplicita i due temi guida del cambiamento epocale in corso dall’inizio degli anni ‘70:
la trasformazione dell’economia politica del capitalismo in seguito alla recessione del 1973 ed insieme l’affacciarsi dello stile e della retorica postmoderni che caratterizzeranno la maggior parte dei movimenti culturali sino ai giorni nostri.
La coincidenza di alcune date è per certi versi sorprendente. Christopher Jencks, nel suo The Language of
Post-Modern Architecture (1984) data alle 15.32 del 15 agosto 1972 la fine simbolica dell’architettura
moderna ed il passaggio al postmoderno, con la distruzione del complesso di abitazioni popolari PruittIgroe a St.Louis nel Missouri, costruite secondo i dettami dei Ciam; ma il 1972, data di pubblicazione di
Learning from Las Vegas di Venturi, Scott-Brown e Izenour, è proprio l’anno in cui il sistema capitalistico
(particolarmente quello britannico e statunitense), sempre più incapace di far fronte alla rigidità del mercato del lavoro se non con una disinvolta politica monetaria, inizia a sviluppare un nuovo regime di accumulazione del capitale. Lo shock petrolifero del 1973, a seguito della guerra arabo-israeliana, e la conseguente stagflazione (produzione stagnante e alta inflazione), avviano un profondo e definitivo ripensamento del compromesso fordista e con esso l’avvento di un sistema completamente diverso di regolazione politica e sociale. Accumulazione flessibile e postmoderno si presentano quindi a registrare su frequenze differenti una stessa crisi della modernità. “Il modernismo - ricorda Harvey - aveva perso qualsiasi
aspetto di critica sociale. Il suo programma prepolitico e utopico, imperniato sulla trasformazione dell’intera vita sociale per mezzo di quella dello spazio, era fallito, e lo stile moderno era finito per trovarsi strettamente collegato con l’accumulazione del capitale, in un progetto di modernizzazione fordista connotato
da razionalità, funzionalità ed efficienza. Nel 1972 l’architettura modernista era soffocata e bloccata, proprio come il potere delle grandi aziende multinazionali che rappresentava” (Harvey 1998).
Dove nasce questo rapporto così stretto tra meccanismi economici e trasformazioni urbane? È il percorso
stesso di ricerca di Harvey, geografo di formazione, che sin dai primi anni ‘70 esplora i limiti della metateoria marxiana (di cui continua tuttavia a servirsi) integrandola, citando Giddens, con l’apparato concettuale “che possa rendere lo spazio, e il controllo dello spazio, parte integrante della teoria della società”.
“Il materialismo storico - sostiene infatti Harvey - ha reso possibile lo studio delle trasformazioni storiche,
ma ha ignorato il fatto che il materialismo produce la propria geografia. (…) Il materialismo storico deve
trasformarsi in un materialismo storico e geografico. La geografia storica del capitalismo deve diventare
oggetto della nostra teoria” (Harvey 1998).
Denaro, tempo e spazio sono allora le tre categorie da analizzare nelle loro strettissime relazioni, in grado
di dare forma al processo urbano e all’esperienza della città. Il denaro, “strumento che diventa fine, la forza
più profonda e completa tra tutte quelle che cercano di riportare al centro una società in cui esso stesso
rende possibile la massima dispersione, (…) è un’astrazione concreta che esiste fuori di noi e che su di
noi esercita un potere molto reale”. La comunità del denaro, democratica e individualista, cinica e livellatrice, assoggetta silenziosamente i suoi abitanti a quella visione tragica e indispensabile della vita moderna
che offre libertà e pretende solitudine. Harvey sostiene che Marx crea “un’invisibile distanza funzionale tra
gli uomini che costituisce una protezione interna e una compensazione nei confronti di ogni eccessiva vicinanza e ogni attrito nella vita civile” (Harvey 1998). Una distanza “critica”, viene da aggiungere, che nell’architettura moderna, dal Rinascimento ad oggi, è stata sempre riconosciuta come indispensabile nel
misurare i rapporti tra gli edifici e la struttura urbana delle città.
È la natura artificiale del capitalismo industriale ad indurre una nuova percezione del tempo. Le macchine
e i loro cicli di produzione misurano secondo una cronologia inedita e prepotente il tempo del lavoro. I
datori di lavoro da subito imparano a sfruttare quanto più possibile il pluslavoro degli operai; i lavoratori,
dal canto loro, imparano velocemente a difendersi lottando per abbreviare la loro presenza nelle fabbriche.
Si contratta sulle giornate lavorative, le ferie, la pensione, il “tempo libero”. Dopo la terza generazione si
danno vita ai primi scioperi per il riconoscimento degli straordinari. “Avevano imparato fin troppo bene la
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lezione: il tempo è denaro.” Harvey sostiene che le nuove infrastrutture (la ferrovia innanzitutto), la delocalizzazione dello spazio del lavoro ed i vincoli spaziali in genere, oltre che l’introduzione dei sistemi di
comunicazione di massa (telegrafo, telefono, radio e televisione) “tutto contribuì a un nuovo senso di
simultaneità nello spazio e di uniformità totale in un tempo coordinato e uguale per tutti” (Harvey 1998).
La questione dello spazio è da sempre la più trascurata dall’analisi marxista. Sia perché di tutte le astrazioni è sicuramente la più concreta, sia perché la sua progressiva smaterializzazione è proprio alla base del
processo capitalistico che vuole tradizionalmente il primato del tempo sullo spazio stesso. Razionalizzato
e poi distrutto lo spazio nella città moderna resiste come ambito peculiare di manifestazione del conflitto.
Portato sotto l’unica misura del valore monetario nel sistema capitalistico, acquistabile, esso diventa universale ed omogeneo. Raggiunto e attraversato dalle reti infrastrutturali perde rapidamente ogni tipo di
qualità assoluta e di territorialità privilegiata. “La vittoria del tempo sullo spazio e sul territorio - sostiene
Harvey - ha avuto il suo prezzo. Ha significato l’accettazione di un modo di vita la cui essenza sono la velocità e la corsa a superare lo spazio” Una corsa al movimento che se da una parte dissolve qualsiasi senso
tradizionale di comunità (“Non c’era nessun luogo dove andare, se non ovunque” scrive Kerouac), dall’altra continua incessantemente a produrre nuovo spazio sino ad andarlo a cercare oltre i confini del globo
terrestre. Non è un caso che gli anni ‘60 sono caratterizzati dalla corsa, spregiudicata e costosa, alla conquista dello spazio extra-terrestre che culmina nel 1969 con l’atterraggio sulla Luna e si arresta bruscamente, con la settima ed ultima missione sul satellite, proprio nel 1972.
L’urbanizzazione capitalista prende dunque forma nella comunità del denaro, attraverso le astrazioni concrete di tempo e spazio. Tutto ciò genera insieme alla trasformazione fisica delle città un bagaglio continuamente aggiornato di esperienze degli individui che le abitano. Esperienze da cui nasce la “comprensione elementare del significato di spazio e tempo; del potere sociale e delle sue forme di legittimazione;
delle forme di dominio e di interazione sociale; della relazione, mediata da produzione e consumo, con la
natura; e della natura dell’uomo, della società e della vita politica”.
L’individualismo, la classe, la comunità, lo Stato e la famiglia sono, secondo Harvey, altrettanti luoghi in cui
si formano il potere e la coscienza. Essi determinano percorsi e qualità dell’urbanizzazione capitalista ma
ne sono al tempo stesso influenzati. Come l’accumulazione di capitale implica una continua distruzione e
ricostruzione degli spazi urbani ed una progressiva mutazione dei significati simbolici delle città, così altera negli individui i dispositivi di percezione e i meccanismi di consumo.
La complessità estrema di questi fenomeni è particolarmente evidente nella riflessione sulla condizione
postmoderna, che nel 1993 Harvey introduce nell’ultimo saggio per strutturarla successivamente in La crisi
della modernità. Accanto ad un nuovo decentramento delle città si registra un aumento della concorrenza interurbana che produce una mobilità più fluida ed un profondo rinnovamento dei centri di consumo
e di cultura su cui si gioca il potere di attrazione dei grandi capitali. Ma è sul terreno della produzione di
capitale simbolico che si articola la vicenda più interessante della lunga stagione postmoderna. Contro l’accumulazione standardizzata e la cultura di massa degli anni ‘60 l’architettura postmoderna, dall’inizio degli
anni ‘70, investe nel trattamento allegorico delle tipologie più familiari rispondendo alla progressiva parcellizzazione dello spazio fisico con un progressivo aumento di capitale simbolico. Capitale che si smaterializza in eventi sempre più effimeri, decontestualizzati e autoreferenziali in una vita urbana ormai configurata come “immensa accumulazione di spettacoli”.
La conclusione delle considerazioni di Harvey (da apprezzare negli ultimi capitoli de La crisi della modernità che risalgono, come abbiamo visto, al 1990) ci consegnano un mondo in cui si è verificata la predizione di Paul Valery: “Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica entrano grazie a uno sforzo quasi nullo,
provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi ci
lasciano”. Immagini che vanno risarcite con “contrattacco della narrazione” che ne sveli il reale potere e
con esso i problemi della compressione spazio-temporale ed il significato della geopolitica.
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A dieci anni dall’uscita del testo di Harvey l’esperienza urbana si arricchisce di nuove questioni.
L’esplosione della comunicazione digitale ha trasformato il fruitore passivo di immagini pubblicitarie e televisive in un navigatore decisamente più attivo dello spazio immateriale delle reti telefoniche ed informatiche. Nello spazio fisico e generalizzato del consumo si è affacciata quella figura che Aldo Bonomi chiama
del “consumattore, cioè una figura sincretica di consumatore e attore che prima si presenta come modello idealtipico di utilizzatore di stili, tempo e spazio, poi consuma merce, tempo e spazi funzionali a realizzare la sua rappresentazione”. Bonomi ha recentemente sostenuto che dopo il consumatore massificato
ed indifferenziato del fordismo ed il produttore di informazioni (che determinano le categorie merceologiche da consumare) del postfordismo, il “consumattore” dell’economia della rete e dell’indistinto è un
produttore di stili e tendenze che determinano la produzione della merce, sia che navighi su Internet o
che si dedichi al “tempo libero” (Bonomi A, Il distretto del piacere, Bollati Boringhieri, Torino 2000).
Nella metropoli diffusa della riviera romagnola, da Rimini e Riccione sino a Venezia, Bologna e Gardaland,
in questo “distretto del piacere” fatto di centri storici e parchi a tema, discoteche, motel, stazioni di servizio e centri commerciali, spazi lisci della più recente “ipermodernità”, si fa esperienza urbana “partendo da
ciò che mai avremmo pensato diventasse merce - il piacere - nella fase in cui il capitalismo espande la sua
logica ai servizi, all’informazione, al vivere, alla nuda vita”.
(Gabriele Mastrigli)
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PAOLO JEDLOWSKI, Il sapere dell’esperienza, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp. 256
L. 30.000
La crescente consapevolezza della crisi dell’oggettività del metodo scientifico della conoscenza a partire da
Husserl, in un generale quadro filosofico e culturale in cui si assiste al superamento dell’assunzione dell’oggettività come istanza di riferimento, ha reso sempre più rilevanti riflessioni che assumono come sfondo quello della vita quotidiana, tradizionalmente drasticamente separato da quello scientifico. In questa
rinnovata ottica, l’attenzione viene rivolta anche alle forme di conoscenza ‘altra’ rispetto a quella scientifica, tra le quali occupa un posto rilevante il senso comune, nonché alla possibilità di riformulare il concetto di esperienza e di riguardare ai rapporti tra esperienza e senso comune.
È questa una possibile collocazione del libro di Paolo Jedlowski, che, in estrema sintesi e con le parole utilizzate dallo stesso autore nella presentazione, “tratta dell’esperienza e del senso comune, così come si
intrecciano nella vita quotidiana” (p. 10). A tali contenuti la stessa struttura del libro appare, in un certo
qual modo (e forse inevitabilmente) intimamente connessa: “All’inizio il tono è piuttosto asettico, la scrittura è orientata prevalentemente al confronto con alcune teorie sociologiche e filosofiche. ... Poi cominciano a moltiplicarsi le citazioni letterarie, ed è quasi come se a un tratto una “storia” mi prendesse la
mano” (pp. 9-10). E infatti, partendo da una descrizione della struttura del libro, ciò che colpisce è proprio
la maniera agile in cui il rigoroso inquadramento dei concetti di senso comune e di esperienza nell’ambito di diversi filoni di pensiero, afferenti per lo più alla sociologia e alla filosofia, sia alternato a citazioni letterarie, cinematografiche, a episodi di vita quotidiana, che lasciano trasparire un personale percorso dell’autore attraverso alcuni testi ed emergere, a tratti, anche parti del suo vissuto personale. Tutto è mirato
a costruire un discorso in cui il concetto di esperienza è messo in relazione con questioni rilevanti nell’ambito del dibattito sulla modernità, in modo da giungere a presentarne un’idea che “sembra plausibile
oggi” (p. 11).
Così, nella prima parte, per tentare innanzitutto di comprendere in che cosa consista il senso comune,
Jedlowski considera le diverse accezioni che di questo concetto emergono da differenti filoni di pensiero
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che se ne sono occupati: l’ermeneutica filosofica (in particolare nella versione di Hans George Gadamer),
la sociologia fenomenologica, l’etnometodologia. Ciascuno di questi approcci, tra loro diversi ma complementari, consente di evidenziare alcuni aspetti del concetto di senso comune, che viene visto rispettivamente come “memoria sociale”, ossia come insieme di istruzioni pragmatiche e di norme morali da tener
presenti nelle varie circostanze della vita, nonché di ‘pre-giudizi’ sui quali si basa per ciascuno la comprensione della realtà; come “routine cognitiva”, ossia come forma di conoscenza tacita cui i soggetti fanno
ricorso nella vita quotidiana; come “capacità di comprendere cosa è consono ad un contesto”, ossia come
capacità di adeguare le regole al contesto e di costruire regole nella concrete interazioni della vita quotidiana. Al di là di queste diverse accezioni, il senso comune è definito essenzialmente come “un sapere
senza dubbi”, contraddistinto da un atteggiamento che porta a “dare per scontato” all’interno di una determinata cerchia sociale e in un determinato momento della storia; è un vincolo che ci costringe a vedere la
realtà attraverso una serie di stereotipi, ma anche una risorsa che ci consente di non dover mettere tutto
in discussione prima di qualsiasi azione e, quindi, in definitiva, di vivere in una società .
Nella seconda parte viene messo in evidenza come il concetto di esperienza muti nel corso del tempo e
come, in ogni epoca, richiamarsi ad esso agevoli, per certi versi, la destrutturazione delle forme di sapere
precedentemente consolidate. Anche qui l’analisi del concetto di esperienza nell’ambito di diversi filoni di
pensiero e nel corso del tempo è rigoroso, ma il riferimento ai testi comincia a diventare più personale.
Così Jedlowski tratta del passaggio dal concetto tradizionale di esperienza come saggezza, tipico del periodo greco come anche di quello medievale, al concetto di esperienza come ricerca della verità attraverso la
scienza che si afferma a partire da Galileo unitamente ai metodi della scienza moderna e che permarrà
durante l’età del positivismo; tratta dell’ulteriore passaggio al concetto di esperienza come rapporto tra
soggetto e oggetto, come percorso individuale, nella cultura romantica, che getta, però, contraddittoriamente, le basi per il concetto (opposto) di esperienza come insieme di avventure, tipico dell’esperienza
moderna, o, meglio, della frantumazione dell’esperienza nella stessa epoca. Ancora, pur essendo il concetto di esperienza assai complesso ed estremamente sfaccettato, un mutamento fondamentale per la sua
comprensione, è, secondo l’autore, quello esprimibile nella lingua tedesca attraverso i due distinti termini, Erfahrung ed Erlebnis: il primo è legato al concetto tradizionale di esperienza intesa come vissuto particolarmente significativo, nonché come processo con cui alcune competenze e aspettative si consolidano,
dando luogo così ad una capacità di fornire risposte adeguate agli eventi, in definitiva, come saggezza; il
secondo, entrato nell’uso solo verso la fine del XIX secolo e successivamente concettualizzato da Dilthey,
richiama invece il concetto di esperienza quale percezione nella coscienza del soggetto, quale rapporto tra
soggetto e oggetto, quale atto puntuale.
Ma quali sono le relazioni tra i diversi concetti di esperienza e le diverse accezioni di senso comune? Se l’esperienza tradizionale può essere messa in relazione con il concetto di senso comune come memoria
sociale, quali relazioni intrattengono esperienza e senso comune nell’orizzonte della modernità o, meglio,
nella situazione ‘postmoderna’?
È nel superamento dell’atteggiamento che “dà per scontato” che Jedlowski coglie il nocciolo del rapporto
tra senso comune ed esperienza: rispetto al senso comune l’esperienza si pone in un rapporto di tensione, di scarto che nasce dal rimettere in gioco la soggettività, intesa come capacità di opporsi a ciò che appare dato. Nel libro, queste riflessioni sono affrontate con un linguaggio che diviene sempre più personale:
a questo punto le citazioni non servono più soltanto ad inquadrare diverse accezioni e diversi concetti nell’ambito di differenti filoni di pensiero, ma anche a costruire il discorso che porta ad una personale formulazione del concetto di esperienza; è forse questo il fil rouge che lega le citazioni di diversi autori, tra
cui Benjamin, Proust, Melville, Wenders. E l’esperienza diviene una sorta di capacità di orientarsi in mezzo
a frammenti di vita che affiorano alla memoria come ricordi; o, ancora, tra frammenti delle tante vite che
si offrono oggi come possibili strade da percorrere. Diventano qui fondamentali le riflessioni sul concetto
di pausa, e sul ruolo della pausa nell’attuale formazione dell’esperienza, intesa, in definitiva, da Jedlowski
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come “ritmo” tra il vivere dando per scontato, che è proprio del senso comune, e il ritorno del soggetto
su se stesso. L’esperienza diviene cioè una sorta di capacità di ‘astrazione’, di osservazione dall’esterno del
proprio vissuto, di personale contestualizzazione, di consapevolezza della relatività della propria condizione.
Questo è, quindi, un libro sull’esperienza e sul senso comune; ma è anche forse, per certi versi, un libro
sulla situazione dell’uomo contemporaneo. Nel tentare di comprendere ciò che il concetto di esperienza
può significare di fronte ai frammenti di vita che possono essere considerati elemento caratteristico dell’attuale situazione umana, in relazione ai diversi modi in cui è possibile, nell’ambito di differenti sfere di
vita, dare le cose per scontate, il libro tratta, infatti, della odierna condizione dell’uomo, considerato nella
sua individualità e nell’appartenenza ad una società plurale e in rapidissimo mutamento.
Il concetto di esperienza diviene così utile non solo per illustrare la destrutturazione delle precedenti
forme di sapere, ma anche per cogliere alcuni aspetti problematici dei rapporti tra l’uomo contemporaneo
e i rapidi cambiamenti a cui è sottoposto.
Appare forse chiaro quanto tutte queste riflessioni siano rilevanti anche nell’ambito delle discipline territoriali e per tutti gli studiosi che si occupano, da diversi punti di vista, di territorio.
Anche in questo ambito, infatti, superata la concezione oggettivistica, si assiste al riconoscimento del carattere plurale delle forme di conoscenza messe in gioco dai diversi attori, tra le quali occupa un posto rilevante il senso comune. E ciò, sia per quanto riguarda i processi di conoscenza del territorio e i documenti che ne costituiscono, per certi versi, l’esito, sia per quanto riguarda, più in generale, i processi di trasformazione territoriale. Diviene quindi fondamentale, anche in quest’ambito, cercare di comprendere la
natura di queste forme di conoscenza ‘altra’ rispetto a quella scientifica. D’altra parte, le riflessioni sul concetto di esperienza e sui rapporti tra esperienza e senso comune possono forse contribuire a riguardare al
ruolo dei diversi attori nell’ambito dei processi di trasformazione territoriale.
(Carla Tedesco)
[email protected]
AMARTYA SEN, Lo Sviluppo è Libertà, Milano, Mondadori, 2000, pp. 355, L. 35.000
“Lo Sviluppo è Libertà” si basa su di una serie di conferenze che Amartya Sen ha tenuto come Presidential
Fellow presso la Banca Mondiale nel 1996, più una conferenza successiva del 1997. La traduzione italiana
di questo libro scritto nel 1998 è però stata pubblicata solo all’inizio quest’anno.
Lo scopo di quest’ultimo lavoro, come lo stesso Amartya Sen dichiara nella prefazione, è di stimolare la discussione pubblica (concetto a cui l’autore attribuisce grande importanza) su un tema così attuale e fondamentale come lo sviluppo.
Per raggiungere questo fine, gli argomenti trattati sono analizzati in maniera tale da risultare accessibili
anche al lettore comune. Ed in questo, a mio parere, sta al tempo stesso la grande forza e la debolezza de
“La libertà è Sviluppo”. Infatti, gli aspetti tecnici e formali vengono spesso trascurati, rinviando, per il lettore interessato, ad altre pubblicazioni.
Chiaramente, in questo modo la trattazione perde in rigore, soprattutto quando sono analizzati argomenti specialistici quali la base informativa delle teorie etiche o la teoria della scelta sociale, che risultano
comunque ostici per un lettore non-specialista.
D’altra parte, la mancanza di estremo formalismo e tecnicismo hanno il vantaggio significativo di lasciare
ampio spazio ad esemplificazioni empiriche tratte dal mondo reale, le quali si distinguono per la loro forza
illustrativa. Queste contribuiscono a tenere vivo l’interesse del lettore, concretizzando in modo esemplare
una teoria altrimenti astratta.
La caratteristica distintiva del lavoro di Sen è l’attenzione da egli posta al tempo stesso su tematiche eco-
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nomiche, filosofiche ed etiche. Quest’ultimo lavoro non è eccezione: i suoi scritti in tema di benessere,
scelta sociale, analisi della povertà e delle carestie rappresentano il background analitico anche di quest’ultimo libro.
“La libertà è sviluppo” rappresenta il tentativo di proporre una teoria dello sviluppo come espansione delle
libertà reali godute dagli individui partendo dall’ormai famoso approccio delle capacità di Sen.
Il libro si sviluppa attorno a tre temi chiave. Il primo riguarda la libertà come fine dello sviluppo e il tema
ad esso collegato della giustizia sociale. Il secondo tema principale mette in luce l’importanza strumentale
della libertà nel promuovere lo sviluppo. Ed infine, il terzo è rappresentato dalle implicazioni che, da una
tale visione dello sviluppo, derivano per le politiche pubbliche.
L’idea della libertà come fine ultimo dello sviluppo implica la profonda inadeguatezza delle tradizionali analisi dello sviluppo che concentrano l’attenzione sui progressi economici (la crescita del PNL, l’aumento dei
redditi individuali, il progresso tecnologico).
Lo sviluppo deve essere identificato con l’espansione delle libertà reali godute dagli individui, in quanto
reddito e ricchezza sono soltanto mezzi per lo sviluppo, e quindi non possono essere considerati il fine
ultimo di esso. Come lo stesso Aristotele ha affermato nell’Etica Niconomachea, la ricchezza non è il bene
ultimo che cerchiamo, la perseguiamo solo in vista di qualcos’altro.
Questa visione dello sviluppo si fonda sull’approccio delle capacità che è base informativa di una teoria
della giustizia sociale e quindi criterio per la valutazione delle politiche economiche e sociali.
L’approccio delle capacità si fonda su due concetti chiave, quello di funzionamenti (functionings) e quello di capacità (capabilities).
I funzionamenti sono le cose che un individuo riesce a fare o ad essere nel corso della propria vita. Essere
adeguatamente nutrito, sfuggire ad una morte prematura, o avere rispetto per sé sono tutti esempi di funzionamenti. Le capacità rappresentano le combinazioni alternative di funzionamenti tra le quali un individuo è libero di scegliere, quindi la libertà reale di un individuo di fare o essere ciò a cui (a ragion veduta)
attribuisce valore. I funzionamenti scelti ed acquisiti tra i vari possibili rappresentano il well-being di un
individuo. Da questa nozione di capacità deriva una concezione di benessere e di giustizia per cui il vantaggio del singolo viene giudicato in base alla capacità di una persona di fare delle cose a cui egli ha motivo di dare valore
L’approccio delle capacità si pone come alternativa sia alle teorie etiche utilitariste, la cui base informativa
è rappresentata dall’utilità aggregata, sia alle teorie libertarie, che accordano priorità assoluta alla libertà
procedurale, sia alle teoria rawlsiana dei beni primari che si focalizza soltanto sui mezzi dello sviluppo.
Quindi, l’autore fa una digressione sui pregi e i difetti di queste teorie, avvertendo il lettore disinteressato
all’argomento di saltare la discussione critica e passare direttamente all’analisi costruttiva. Ma, in realtà, l’analisi costruttiva dell’approccio risulta essere una delle più ostiche di tutto il lavoro, soprattutto per il lettore non specialista, a cui il libro è soprattutto rivolto. Quindi, ritengo che la discussione delle precedenti
teorie etiche di cui l’approccio delle capacità si presenta come alternativa non possa essere ignorato tout court.
Nonostante l’enfasi posta sulla libertà, Sen è molto critico nei confronti delle teorie cosiddette libertarie,
soprattutto nella versione proposta da Nozick. La base informativa della teoria libertaria è rappresentata
esclusivamente da “libertà e diritti di vario genere”. I diritti libertari hanno priorità assoluta. L’indifferenza
totale alle conseguenze è, secondo l’autore, il principale difetto di tale teoria, che richiede il rispetto dei
diritti anche nel caso in cui questi producano conseguenze negative sulla libertà sostanziale degli individui.
Secondo la teoria welfarista, invece, il parametro per valutare il vantaggio di un individuo è dato dall’utilità. L’utilità può indicare alternativamente la felicità, il piacere, o la soddisfazione dei desideri. Ma essere
felici, o provare piacere è soltanto uno dei molti aspetti rilevanti per una valutazione globale del well-being.
Una persona potrebbe essere felice anche in una situazione di deprivazione, avendo imparato ad accettare la situazione. Ma il suo stato di deprivazione rimane comunque, ed una valutazione basata sull’utilità non
è in grado di tenerne conto.
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Infine, per quanto riguarda la teoria dei beni primari, nonostante l’ampiezza del concetto di beni primari
che comprende “diritti e libertà, poteri e opportunità, ricchezza e reddito ... e le basi del rispetto di sé”,
essi rimangono comunque soltanto strumenti che aiutano a perseguire i propri fini. L’inadeguatezza di
questa impostazione si fonda sul fatto che essa trascura le differenze degli individui nella capacità di convertire i beni primari in funzionamenti, in well-being. Sen identifica cinque cause distinte che fanno variare il rapporto tra i beni primari e il benessere che ne ricaviamo: l’eterogeneità delle persone, le diversità
ambientali, le variazioni del clima sociale, le differenze relative ed infine la distribuzione intrafamiliare.
Nonostante, l’approccio di Sen si ponga in contrasto con le precedenti teorie etiche, esso mostra anche
alcuni punti di contatto con ognuna di esse. Con la teoria utilitaristica, l’approccio delle capacità condivide l’attenzione alle conseguenze e al benessere degli individui. Il libertarismo sottolinea l’importanza dei
processi di scelta e della libertà d’azione ed infine la teoria rawlsiana ha in comune con l’approccio delle
capacità l’attenzione per la libertà individuale.
Quindi, lo sviluppo deve avere come fine l’espansione delle capacità degli individui, quindi la libertà
sostanziale degli individui di scegliere il tipo di vita a cui (a ragion veduta) danno valore.
Questo aspetto della libertà come obiettivo deve essere tenuto distinto dal ruolo della libertà come mezzo
dello sviluppo.
L’importanza di questo secondo aspetto della libertà (che rappresenta il secondo tema chiave del libro)
deriva dal riconoscimento che le libertà sono interconnesse e si rinforzano reciprocamente. Sen discute
cinque tipi di libertà che contribuiscono significativamente al progresso economico e alla giustizia sociale:
le libertà politiche, le infrastrutture economiche, le occasioni sociali, le garanzie di trasparenza e la sicurezza protettiva.
Si tratta di libertà strumentali che promuovono direttamente le capacità degli individui, ma la loro importanza non si riduce soltanto a questo aspetto: la loro efficacia sta nelle loro interconnessioni per cui le libertà di un tipo promuovono il progresso delle libertà di un altro tipo.
Per esemplificare, la crescita economica non solo accresce i redditi individuali, ma dà allo Stato la possibilità di finanziare l’espansione dei servizi sociali (l’istruzione pubblica, l’assistenza sanitaria ...). Ancora, la
libertà politica e i diritti civili hanno effetti consistenti sulla libertà di evitare disastri economici. La conferma di questa interrelazione ci viene, sostiene Sen, dal fatto che nei paesi democratici non si verificano carestie, in quanto il governo di un paese democratico con mezzi di informazione liberi, un’opposizione efficace, è fortemente incentivato ad evitare le carestie.
I nessi empirici tra queste libertà strumentali sono messi in evidenza durante il corso di tutti i capitoli
seguenti, traendo esempi ricavati da esperienze storiche o dalla comparazione di differenti esperienze dell’attuale quadro politico economico mondiale.
Si tratta di una serie di saggi, i cui argomenti spaziano dall’analisi della disoccupazione nei Paesi cosiddetti sviluppati, alla teoria della scelta razionale, dalla pianificazione familiare all’etica degli affari, dalla povertà all’efficienza dei mercati.
Il terzo tema fondamentale del libro riguarda il ruolo della politica pubblica. Essa non solo deve fornire un
ambiente in cui gli individui siano in grado di esprimere le proprie capacità, la propria libertà individuale,
ma deve anche creare le condizioni per la discussione pubblica come base per identificare i valori individuali. Gli individui, infatti, secondo Sen, devono essere visti come agenti attivi del cambiamento e non
come ricettori passivi dei benefici erogati e l’individuazione dei valori fondamentali per gli individui non
costituisce responsabilità esclusiva della classe politica.
Nonostante questa funzione della politica pubblica sia enfatizzata con forza dall’autore, la sua operatività e
i mezzi di attuazione risultano poco chiari. Risulta evidente che il mezzo attraverso cui gli individui sono in
grado di discutere e dibattere sui valori è rappresentato dalla democrazia. Ma Sen stesso ammette come
anche in una democrazia matura, come per esempio quella degli Stati Uniti, una gran parte della popolazione non ha la possibilità di esprimere i propri bisogni, né tanto meno di identificare i propri valori.
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Secondo l’autore, queste “distorsioni” si verificano in quanto la democrazia è un sistema che crea un insieme di possibilità, ma l’uso di queste possibilità dipende dalla pratica effettiva dei diritti democratici. E questa pratica effettiva dei diritti è condizionata dai nostri valori e dalle nostre priorità nonché dai modi in cui
ci avvaliamo delle possibilità di espressione e partecipazione esistenti.
Ciò che non risulta chiaro è quindi la soluzione al problema della pratica effettiva, si tratta di una questione di politica pubblica o di un problema individuale? Se in un sistema democratico maturo coloro che non
sono in grado di definire i propri bisogni sono proprio coloro i cui bisogni sono più urgenti, la questione
si propone con forza. Non è sufficiente affermare che la democrazia offre delle possibilità, ma che la pratica effettiva è poi tutt’altra cosa. Quali sono le indicazioni pratiche per un decision-maker? Come risolvere
la problematica degli afroamericani o in generale quella (ampiamente diffusa anche in Europa) dell’esclusione sociale?
Si tratta di una serie di questioni a cui Sen sembra non dare alcuna risposta, nonostante la loro fondamentale importanza in una visione dello sviluppo come libertà.
Il lavoro termina con l’ammissione da parte di Sen che lo sviluppo come libertà è un concetto eterogeneo
che per sua natura non può essere ridotto ad una semplice ricetta da seguire nella certezza del successo.
Ciò che rende unitario questo processo di sviluppo è la libertà individuale e l’impegno da parte della società di realizzarla.
È responsabilità degli individui decidere come utilizzare le capacità che realmente possiedono, ma le capacità degli individui dipendono strettamente dalla natura degli assetti sociali, ed è in questo contesto che
entra in gioco la responsabilità dello Stato e della società nel promuovere le condizioni per lo sviluppo
delle libertà individuali: quindi, la libertà individuale come impegno sociale rappresenta la via da seguire
per promuovere lo sviluppo come libertà.
(Caterina Marchionni)
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PIER LUIGI CROSTA, Politiche. Quale conoscenza per l’azione territoriale,
Milano, Franco Angeli, 1998, pp. 112.
Insieme di vari articoli, note e comunicazioni, Politiche è una buona introduzione al pensiero di un docente che occupa una posizione originale nel paesaggio italiano dell’urbanistica e dell’analisi delle politiche
pubbliche territoriali.
Il lavoro di P.L. Crosta fa parte di una tradizione di critica della razionalità urbanistica che si è strutturata in
Italia. L’autore parte da un’idea semplice che sta alla base della cultura professionale degli urbanisti: il
piano è il frutto dell’attività dei pianificatori. L’urbanistica, il piano, sono assimilati ad un settore e ad un
corpus di conoscenza professionale ben definito. Quindi, nella cultura urbanistica corrente, il “soggetto
della pianificazione” non è considerato come problematico. Per individuarlo, basta conoscere il sistema istituzionale della pianificazione che attribuisce ruoli e funzioni. Questa dicotomia forte tra ruoli diversi (pianificatori/pianificati) – raddoppiata da una dicotomia tra forme diverse di conoscenza (esperta/ordinaria)
- ha per lungo tempo trovato una sua giustificazione nelle tradizioni riformista e marxista della pianificazione, che accordano entrambe un ruolo privilegiato al tecnico esperto che, in virtù della sua competenza
professionale, opera la mediazione tra i pianificatori (i politici) e i pianificati (gli abitanti).
Questa concezione della ripartizione dei ruoli nella pianificazione ha ampiamente segnato le esperienze
del comprensive planning che sono praticate classicamente. Essa è all’origine della produzione di un tale
sistema di piani, a cascata, che esiste in Italia. Di fronte al fallimento di questo sistema, i difensori accademici della ‘gerarchia dei piani’ hanno spesso o fustigato l’incuria degli attuatori (politici), ‘becchini dell’o-
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pera di ragione’ urbanistica, oppure chiesto un’istituzionalizzazione dei modi di coordinamento e di controllo. P.L. Crosta, ha sviluppato una riflessione critica su questi due tipi di reificazioni.
Ciò che fa problema nelle concezioni classiche della pianificazione, è in primo luogo la distinzione stabilizzata tra la conoscenza dell’esperto (che deve ispirare i pianificatori) e la conoscenza derivata dell’esperienza (quella dei pianificati). La tesi di Crosta è che il lavoro di produzione di conoscenza utilizzabile nelle
politiche territoriali può essere collettivo ed intervenire in tutti i momenti del lungo processo di costruzione del piano. Non si può e non si deve separare in un modo troppo rigido i ruoli di utilizzatori e di produttori di conoscenze, tanto meno assimilare ciascuno di questi ruoli a delle figure professionali univoche.
La conoscenza è “interattiva”, essa è prodotta da attori che interagiscono nel corso dell’azione. “La forma
di conoscenza più utile per l’azione viene durante l’azione, dagli attori stessi che vi sono impegnati” (p. 15).
La conoscenza utile per l’azione è il prodotto di una combinazione di conoscenze diverse.
Occorre quindi rimettere la conoscenza al suo posto nel processo di pianificazione. Le decisioni politiche
non sono l’esito dell’attuazione di una conoscenza ma di scelte. La conoscenza informa la decisione ma
non la sostituisce. Un’azione determinata dalla conoscenza (concepita come prodotto della razionalità di
chi abbia la legittimità a produrre la razionalità) non opera una scelta, quindi non è politica. “Per garantire
alle politiche il carattere di ‘scelte’, dobbiamo riconoscere che prodotti della conoscenza sui quali si fonda
la decisione, sono materie esse stesse di decisione” (p. 18). L’expertise, la produzione di conoscenza per
e nell’azione sono già atti di lavoro politico, lavoro d’interazione politica, che conviene aprire a tutti i portatori di conoscenze.
Questa ridefinizione del posto della conoscenza nell’azione si accompagna ad una ridefinizione dell’interesse pubblico; altrove Crosta preferisce parlare di beni comuni. Tradizionalmente, i pianificatori, sul
modello degli altri professionisti delle politiche pubbliche, intendono costruire il bene comune, l’intérêt
général, come dicono i Francesi, fuori e prima del processo di pianificazione o di attuazione della politica.
Qui l’interesse pubblico non è l’esito di un processo d’interazione politica (o allora limitato alle assemblee
istituzionali). La produzione del bene pubblico non costituisce un problema perché le entità legittime
(politiche, professionali) ne sono depositarie. A questa visione di un interesse generale come sostanza,
Crosta, ispirandosi a Lindblom e Donolo, oppone una concezione dei beni comuni come prodotti relativamente aleatori dei processi di politiche pubbliche. Il bene comune non è costruito fuori dalle pratiche
sociali. Esse generano, come effetti sottoprodotto, dei beni comuni: Crosta propone una ridefinizione relazionale del bene comune.
Qui, si torna alla questione della conoscenza. Siccome la conoscenza deve essere concepita come un prodotto dell’azione congiunta piuttosto che come un preliminare ad essa, le politiche pubbliche devono
essere considerate come spazi di interazione tra diversi tipi di conoscenze (esperte, ordinarie).
L’interazione sottomette queste diverse forme di conoscenze ad un processo di validazione crociata.
Questo processo di validazione fa lavorare i saperi nell’azione, li sottomette al mescolamento, alla contaminazione reciproca. L’ipotesi fatta dall’autore è che tutti gli attori possono dedicarsi a questo lavoro di
manipolazione dei loro saperi, degli interessi propri e di quelli degli altri. Quest’interazione consente la
condivisione di un quadro di significazione che può trasformare il processo di pianificazione in un’azione
congiunta. “È in definitiva da questo punto di vista che l’urbanistica-come-pratica produce senso comune:
attraverso la loro validazione - via interazione - i quadri di significato propri di ciascun attore vengono messi
in comune. La produzione di senso-in-comune è dunque l’effetto e insieme la condizione del costituirsi
dell’urbanistica come pratica sociale” (pp. 65-6). I beni comuni prodotti da questa pratica sociale d’interazione sono essenzialmente misurabili in termini di costruzione di capitale sociale. L’azione congiunta è
costitutiva dell’identità degli individui. L’azione collettiva mette alla prova, utilizza e costruisce il capitale
sociale degli individui e dei gruppi sociali. I beni comuni rinviano al processo di produzione della società
nel suo insieme. Sono astratti, sono dei sotto-prodotti dell’azione, continuamente “reintrodotti” nelle pratiche sociali. Partecipano alla costituzione della società e sono di conseguenza difficilmente misurabili.
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L’autore propone sia una riconcettualizzazione delle politiche pubbliche sia un modo diverso di pensare il
processo di pianificazione. Le politiche pubbliche devono essere concepite come dei processi interattivi di
politiche, ciò che consiste nel rifiutare una concezione delle politiche pubbliche come assimilabili all’azione dello Stato ed a confutare il principio dell’intenzionalità. Una politica pubblica non si deduce da un’intenzione e non si riduce a questa, per cui è soltanto costruibile ex post, è un costrutto analitico. Una politica è un contesto d’interazione che può permettere agli attori di passare all’azione congiunta. Una politica rileva dell’azione congiunta quando gli attori sono portati a riesaminare le loro griglie interpretative preliminari ed a costruire collettivamente dei significati condivisi. “Il processo di piano non consiste di interazioni tra più attori nello svolgimento dei loro ruoli, bensì è costruito dall’interazione, e solo eventualmente prende la forma di azione congiunta se i soggetti interagenti dimostrano una disponibilità a (e capacità
di) ridefinire la forma (le regole) dell’interazione, entro quadri di significato condivisi” (p. 30). A partire
dalla sua concezione dell’azione congiunta, Crosta ridefinisce, qui in un modo normativo, una pratica del
piano. Esso non è più l’attività degli urbanisti ma un’attività diffusa, una pratica sociale di produzione collettiva di quadri di significati comuni che consentirono una produzione di beni comuni. Qui ancora, l’autore si inspira a Lindblom: l’attività di pianificazione è l’attività di tutta la società, essa non è più ridotta,
come nell’ottica riformista, alla “domanda sociale” (p. 58). La pianificazione è il prodotto di una società che si
“auto-governa” o che, almeno, mette la razionalità dei pianificatori sotto il controllo dell’interazione sociale.
Per quanto riguarda quest’ultimo punto di vista, il pensiero di Crosta è debitore di un contesto politico e
scientifico italiano dove la constatazione della crisi delle regolazioni politiche ed istituzionali si accompagna ad una riflessione sulle modalità extra-istituzionali di regolazione e di produzione dell’ordine sociale.
Ma l’originalità del lavoro di Crosta è il fatto di “entrare” nella questione dei rapporti Stato-Società nell’azione pubblica dal lato dell’analisi delle forme di produzione di conoscenza - in e per - l’azione.
(Gilles Pinson)
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SASKIA SASSEN, Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla
fortezza Europa, Milano Feltrinelli, 1999, pp. 196, L. 37.000
Un tema critico, quello delle migrazioni umane, che non sempre viene presentato in maniera adeguata
nella cronaca, né considerato elemento di rilievo negli studi storici sull’Europa occidentale. Sassen parte,
invece, dal presupposto che la storia delle migrazioni possa essere considerata l’altra storia dell’Europa:
quella non visibile, trasversale alla storia ufficiale e che ha contribuito in maniera sostanziale a definire il
carattere del continente europeo.
Docente di urbanistica all’Università di Chicago, Saskia Sassen si occupa oggi di economia globale, globalizzazione e rapporto fra dinamiche economiche e processi di urbanizzazione, ma il tema delle migrazioni
ha segnato la sua formazione e l’ha spinta ad accogliere l’invito di Eric Hobsbawm a scrivere un libro sulle
migrazioni europee negli ultimi due secoli. Nasce così Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa
alla fortezza Europa.
Nel testo si intersecano tre tagli di lettura sul fenomeno migratorio: uno storico-strutturale che guarda non
solo ai milioni di europei che sono emigrati dal continente negli ultimi centocinquant'anni, ma che considera i caratteri ed i percorsi delle migrazioni interne all’Europa ed il loro impatto economico, politico e
culturale; un secondo taglio di lettura è quello che considera i processi migratori come radicati nelle origini del sistema statuale moderno. Infine si intravede un taglio di lettura meno esplicito, ma non meno rilevante, relativo alla formazione europea ed al ruolo che in essa ha giocato la figura dell’Altro, interno ed
esterno. Si spiegano così alcuni dei concetti chiave che attraversano l’opera: sistemi migratori, struttura
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delle migrazioni, confini-frontiere-statualità, migranti, rifugiati, cittadinanza, integrazione.
Assumendo un concetto di emigrazione non tanto (soltanto) associato ad eventi bellici ed a fenomeni di
intolleranza, ma legato essenzialmente alla realtà del lavoro, Sassen propone un excursus storico delle
migrazioni europee, riconoscendo che la comprensione dei fenomeni migratori attuali richiede uno sguardo di lungo periodo sull’evoluzione europea; uno sguardo capace di oltre trecento anni di storia, suddivisibili in fasi (fino al primo ‘800, dopo l’industrializzazione, dopo la Prima Guerra mondiale, attualità) ciascuna delle quali presenta caratteri distinti. Si parla di migrazioni stagionali, cicliche, a catena, ricordando
che fin dal Medioevo queste sono state alla base dei sistemi migratori di manodopera verso il Mare del
Nord, le pianure del Mediterraneo e le aree peri-urbane di Parigi, Madrid, Londra. Si ricordano i mutamenti
imposti dagli sviluppi industriali all’organizzazione del lavoro e del territorio, sottolineando come l’ingresso del capitale nell’economia agricola all’inizio del diciannovesimo secolo abbia provocato la proletarizzazione dei piccoli contadini, e dato origine ad una nuova classe di poveri; mentre, al contempo, gli sviluppi
tecnologici, lo sgretolarsi delle strutture socioeconomiche preesistenti e la concentrazione delle industrie
nelle aree urbane facevano sì che la manodopera dipendesse sempre più dai mercati mondiali, da accordi
e da politiche internazionali. Si richiamano le dinamiche di popolamento dei territori coloniali, legate alla
struttura ed al funzionamento dello Stato nazionale e all’esigenza di una classe burocratica per amministrarlo.
In questo percorso Sassen individua le peculiarità del fenomeno - che sono mutate nel tempo e se nel
Medioevo erano soprattutto artigiani e lavoratori stagionali a spostarsi, dopo le guerre napoleoniche il lavoro migrante diventa componente stabile della storia europea; certo è che nel ‘600 e ‘700 “l’emigrazione rappresentava per i paesi poveri una minaccia ben peggiore dell’immigrazione, dalla quale tutti traevano vantaggio” (p. 25) - ma sottolinea anche gli elementi di continuità, che sintetizza in una frase: “I movimenti
migratori non nascono per il semplice fatto che alcuni individui desiderano migliorare le proprie condizioni di vita, bensì sono conseguenza di una complessa serie di processi economici e geopolitici” (p. 13).
Si tratta quindi, non di eventi casuali ma di dinamiche strutturate, condizionate da andamenti storici, interessi economici, relazioni politiche.
L’interesse per la dimensione diacronica dei fenomeni, allora, non è giustificato solo dall’intento di recuperare le radici ed i caratteri antichi di fenomeni che oggi si impongono sulla scena politica. L’intento esplicito di Sassen è quello di offrire elementi per l’adozione di politiche alternative a quelle attuali a livello
europeo; politiche capaci di rispondere alle esigenze di regolazione del fenomeno ed alle domande espresse da un’opinione pubblica sempre più sensibile al tema/problema migratorio. Sassen, infatti, ribadisce più
volte l’esistenza di una profonda “contraddizione tra la politica praticata in materia di immigrazione (tuttora fortemente centrata sul principio del confine e della separazione fra entità statuali sovrane) e le strutture del sistema internazionale” (p. 16) in particolar modo quelle costitutive della crescente integrazione
economica.
In questa articolazione Sassen inserisce un ulteriore elemento: i percorsi paralleli che riguardano i rifugiati ed il modo in cui la stessa terminologia relativa ai processi ed ai soggetti coinvolti è andata mutando. Se
all’inizio del diciannovesimo secolo i rifugiati erano individuati nelle élites colte che lasciavano il proprio
paese per motivi politici e ricevevano generalmente un’accoglienza benevola da parte dei paesi di destinazione, con il conflitto franco-tedesco del 1870 iniziano le migrazioni di massa: alle emigrazioni volontarie
si affiancano le espulsioni e con il crescente nazionalismo né i rifugiati politici né i lavoratori migranti godono più di facile accoglienza. Ma il problema dei grandi flussi di rifugiati si pone dopo il 1918 ed è tema che
interseca fenomeni storici diversi: la formazione di nuovi Stati, la chiusura statunitense all’immigrazione, la
vittoria del comunismo nell’Unione Sovietica. Sassen afferma che l’Europa del periodo compreso fra il 1900
e il 1945 poteva essere definita il “continente dei rifugiati” e cita le vicende degli ebrei russi, lo sgretolarsi
dell’impero turco ed il destino delle popolazioni balcaniche, gli eventi dell'Italia fascista e della Germania nazista.
Dalle indagini storiche emerge che i fenomeni migratori hanno sempre risposto ad esigenze di carattere
economico, demografico e politico e che nel corso dei secoli essi hanno suscitato diverse risposte da parte
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delle istituzioni politiche e reazioni da parte delle società (opinione pubblica) a seconda del contesto culturale generale e della contingente situazione socio-economica.
A questo proposito Sassen offre una comparazione fra i diversi paesi europei. Così la Francia ha sempre
promosso forme di integrazione permanente nell’ambito, però, di un’immigrazione regolata, e sostenuto
l’assimilazione culturale degli stranieri, sia sul proprio territorio che nei territori d’oltremare. La Germania,
invece, è stata terra di forte emigrazione prima verso le zone del Nord Europa e poi verso gli Stati Uniti,
ma al contempo anche area di immigrazione di manodopera a basso costo. Dalla fine della Guerra Fredda
essa deve confrontarsi con le migrazioni provenienti dall’Europa dell’est che coinvolgono popolazioni di
origine e lingua tedesca e questo ha portato a rivedere in anni recenti le politiche per l’immigrazione: dal
privilegiare le migrazioni temporanee si è giunti all’attuale riconoscimento dei “concittadini stranieri”, ma
al tempo stesso le garanzie relative all’asilo politico riconosciute costituzionalmente nel secondo
Dopoguerra hanno subito una severa restrizione. L’Italia, altro caso esemplare, è stata per oltre cento anni
paese di forte emigrazione verso gli altri paesi europei, le Americhe e l’Australia, per un totale di oltre venti
milioni di persone emigrate fra il 1876 e il 1976, nonostante l’avvio della crescita economia del paese (in
queste dinamiche il territorio Veneto è citato esplicitamente come esempio di una migrazione particolarmente rilevante rispetto alla popolazione complessiva a inizio secolo, con una percentuale di quaranta soggetti migranti ogni cento abitanti). Ma l’Italia è divenuta oggi uno dei territori più direttamente interessati
dalle nuove modalità (e dalle nuove problematiche) dei flussi migratori.
L’autrice elenca, infatti, alcuni elementi di novità che caratterizzano il fenomeno nell’epoca attuale, sottolineati anche da altri autori come caratteristici del fermento di questo inizio di secolo (Castells M., End of
Millenium, Massachusetts, Blackwell 1999): le migrazioni non sempre rispettano le aspettative (e le preoccupazioni) che il discorso sui flussi genera, ovvero non si verifica alcuna invasione di massa. Ci sono oggi
nuovi territori di destinazione così come di provenienza e si espande la geografia delle migrazioni. Valgano
due esempi in proposito: la situazione di Italia, Grecia, Spagna e Portogallo, paesi che fino a pochi anni or
sono esportavano manodopera in Europa e oltre e ora mete di flussi rilevanti, molti dei quali in transito
verso altri paesi europei; in secondo luogo le realtà dell’Europa centrale, che sempre più diventano aree
di accoglimento di migranti, permanenti, temporanei o stagionali, provenienti dall’Est e dall’ex Unione
Sovietica.
Fra le novità ricordiamo anche la formazione e l’impatto degli immigrati cosiddetti di “seconda generazione”, che sta influendo sulle società di accoglienza poiché sempre più ai contingenti di manodopera straniera si vanno sostituendo vere e proprie comunità di cittadini, che si propongono sulla scena politica locale e nazionale come interlocutori e non più solamente come individui stranieri immigrati, dando origine a
ciò che Appadurai chiama “sfere pubbliche diasporiche” (Modernity at Large. Cultural Dimensions of
Globalizations, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1996). Infine, le questioni sollevate dal processo di integrazione europea, dalla liberalizzazione interna e dall’internazionalizzazione economica, in
un’Europa che nel 1990 contava quindici milioni di stranieri, un terzo dei quali di provenienza da paesi
della stessa Unione.
Questi nuovi aspetti del fenomeno interpellano le istituzioni dal livello locale a quello nazionale fino al livello europeo, in termini di libertà di circolazione, riconoscimento di cittadinanza, armonizzazione delle politiche relative. Ed è a questa esigenza di definizione delle politiche pubbliche che Sassen dedica l’ultima
parte del testo, portando a sostegno della tesi non solo le analisi storiche ma anche una serie di dati e tabelle. La conclusione è che il problema di fondo non è quello di dover respingere un’invasione ma quello di
gestire un flusso strutturato, ovvero funzionale al sistema economico dei paesi di destinazione e non solo
radicato nelle asimmetrie dello sviluppo e nelle strutture imperiali del passato. Si spiegano così le forme di
reclutamento e le responsabilità dei governi, i quali nel concertare le politiche per immigrati e rifugiati
dovrebbero tener conto di alcune analogie transnazionali: il fatto che l’emigrazione riguarda sempre una
piccola parte della popolazione, che gli immigrati sono comunque minoranze all’interno delle società di
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accoglienza, che sono frequenti fenomeni di ritorno al paese di origine ma che si sviluppa anche una tendenza
all’insediamento permanente e che i fenomeni migratori sono comunque una realtà altamente differenziata.
Le riflessioni con cui il libro si chiude riguardano soprattutto la responsabilità delle entità statuali e poststatuali (Beck, U., Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Roma,
Carocci,1999) o post-nazionali (Habermas, J., La costellazione post-nazionale. Mercato globale, nazioni
e democrazia, Milano, Feltrinelli, 1999) per il prossimo futuro su temi quali cittadinanza, identità, integrazione. L’invito di Sassen è esplicito: in un secolo in cui “ogni economia è globale e la politica economica nazionale ha più che altro funzioni di coordinamento” (p. 143) le politiche per l’immigrazione devono
abbandonare la visione legata al trinomio Stato/sovranità/frontiere ed entrare in una nuova prospettiva,
nella quale a cittadinanza ed identità si affianchino concetti quali sovranità non esclusiva, tendenze globali, coordinamento politico e coinvolgimento delle opinioni pubbliche e delle comunità nel dibattito politico relativo.
Ci sembra significativo che Sassen affronti il tema dei soggetti migranti anche in altra sede, rispetto alla realtà delle città globali (Sassen, S., Le città nell’economia globale, Bologna, Il Mulino 1997): l’economia globalizzata ha bisogno di spazi, non è vero che nell’epoca del globale tutto diviene virtuale ed i luoghi perdono di significato. Le città globali assumono un’importanza strategica perché sono i luoghi del coordinamento e della gestione delle attività globali; né sono da considerare luoghi quasi-virtuali abitati solo da
esperti finanziari e fornitori di servizi ad alta intensità di conoscenza. Le città globali sono anche spazi in
cui le dinamiche del lavoro e delle relazioni sociali si sviluppano coinvolgendo una molteplicità di lavoratori migranti che diventano essenziali per la gestione dell’economia globale garantendo i servizi di manutenzione, trasporto, pulizia e che in questo modo contribuiscono a determinare il carattere stesso delle
città, dei quartieri, dei nodi regionali dell’epoca globale. Ma qui si apre un altro capitolo, interessante anche
per comprendere la realtà attuale del NordEst italiano, che lascia l’analisi storica per entrare nel futuro
prossimo.
(Claudia Padovani)
[email protected]
STEFAN VOIGT, Explaining Constitutional Change - A Positive Economics
Approach, Cheltenham, Edward Elgar, 1999, pp. 264, GBP 55.00
Secondo la definizione di James Buchanan una costituzione è un insieme di regole consensualmente stabilite che limita l’attività degli individui nel perseguimento dei loro obiettivi. Voigt specifica meglio tre categorie di questo tipo di regole: i vincoli che le persone si autoimpongono, i vincoli che i soggetti stabiliscono reciprocamente all’interno di sistemi sociali, i vincoli imposti agli agenti che rappresentano lo Stato.
Quest’ultima categoria di norme è quella presa in considerazione da Explaining Constitutional Change.
Vengono esaminate le istituzioni che hanno il compito di definire gli organi che costituiscono lo Stato, di
delineare le competenze di tali organi, di stabilire le procedure da seguire per modificare le regole costituzionali stesse e di stabilire le regole sub-costituzionali, di specificare i diritti individuali che servono a proteggere gli individui dall’interferenza arbitraria di altri individui e dello Stato stesso.
L’importanza di questo tema per l’economia è data dal fatto che la scelta di sistemi di regole si rivela cruciale per determinare il benessere collettivo. Da non trascurare inoltre il fatto che è sempre questo l’ambito di studi in cui avviene un confronto più diretto tra diverse scuole di pensiero economico e tra diverse discipline. È qui infatti che si incrociano economia, scienza della politica e diritto, ed è in questo contesto che l’epistemologia economica dominante si trova in diretta concorrenza con gli approcci economici
basati su fondamenti pragmatico-fenomenologici. La difficoltà della valutazione delle conseguenze delle
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scelte tra regole alternative rende l’economia delle istituzioni e l’economia costituzionale uno dei domini
in cui la diversità di metodi di studio può essere più feconda.
L’obiettivo principale di Stefan Voigt è di elaborare una teoria positiva del cambiamento costituzionale:
spiegare come le costituzioni emergono o evolvono endogenizzando il processo di scelta delle regole. In
secondo luogo, Voigt si propone di comparare le conseguenze economiche di varie regole costituzionali.
L’autore cerca di comprendere le costituzioni attraverso gli strumenti dell’economia delle istituzioni fondendo l’approccio della ‘nuova economia delle istituzioni’ di North con i principi sviluppati da Hayek e
Buchanan.
Le istituzioni, nella cui classe ricadono le costituzioni, hanno l’importante ruolo economico di ridurre l’incertezza consolidando le aspettative e quindi permettono di operare delle scelte su orizzonti temporali più
ampi. Ciò consente investimenti a più lungo termine ed una maggiore specializzazione nella divisione del
lavoro. Insomma, delle istituzioni adeguate e solide sono un importante elemento per lo sviluppo economico.
Il libro inizia con l’esposizione e la critica delle posizioni di quelli che l’autore ritiene essere i due pilastri
fondamentali dell’economia delle costituzioni: James Buchanan e Friedrich von Hayek. Questo permette a
Voigt di emancipare il proprio approccio da tali tradizioni di studi delineando una teorizzazione piuttosto
indipendente che tende ad integrare gli strumenti elaborati in diversi ambiti in un corpus organico e quindi meno problematico. Da tale critica emerge anche un quadro analitico-valutativo di riferimento molto
interessante dal punto di vista epistemologico, che farà da guida alla strutturazione di questo programma
di ricerca. L’autore valuta infatti i seguenti aspetti delle teorizzazioni positive concernenti l’evoluzione delle
costituzioni: l’aspetto della conoscenza positiva, l’adeguatezza delle ipotesi, la spiegazione del canale di trasmissione delle scelte, l’applicabilità dei principi ed il riconoscimento delle implicazioni della proprietà di
coerenza dei sistemi di norme. La critica più decisa viene rivolta a Buchanan: il suo contrattualismo sostanziale non è ritenuto compatibile con una teoria positiva: il contratto ha sempre delle precondizioni, prima
fra tutte la fiducia tra le parti, in mancanza delle quali viene meno la possibilità di esistenza del contratto
stesso. Il contrattualismo si basa pertanto su ipotesi strumentali, fornisce spiegazioni altrettanto strumentali e non tiene conto dell’interazione tra istituzioni interne ed esterne.
Hayek, dal canto suo, risulta poco coerente e la sua teoria del cambiamento istituzionale è elaborata in
modo tale da risultare poco propositiva.
La cassetta degli attrezzi dell’economia delle costituzioni è individuata da Voigt nell’analisi istituzionale
comparata, nella storia economica, nella storia congetturale e nell’economia sperimentale. L’autore prosegue quindi con un’analisi degli studi di coloro che hanno prodotto materiale che può presentare un certo
interesse per questo programma. Data la relativa novità del campo di ricerca affrontato, la panoramica
risulta un po’ eterogenea, ma il filo conduttore è ben steso cogliendo gli aspetti di ogni contributo nelle
possibilità offerte dal contesto in cui è stato proposto.
La seconda parte del libro offre una critica più estesa al contrattualismo volta a mettere in dubbio la validità del concetto di contratto sociale per la teoria positiva. Voigt inquadra le costituzioni come istituzioni
spontanee, cosa legittima secondo l’autore in considerazione del fatto che vengono endogeneizzate rispetto al sistema economico. In secondo luogo, egli sostiene che le costituzioni formali rischiano di essere
banalizzate dalla realtà se non si costruiscono sulla base di istituzioni spontanee o vengono da esse supportate. Precondizione per l’efficacia di una costituzione è che sia l’espressione di una cultura di un popolo. Egli interpreta questo concetto di spontaneità come un processo di negoziazione tra gruppi d’interesse o tra governanti ed opposizioni. Passa quindi ad esaminare la differenza tra cambiamenti espliciti e cambiamenti impliciti delle regole costituzionali. Questi ultimi sono i cambiamenti di interpretazione del testo
o variazioni nelle pratiche costituzionali dovute a modifiche informali che comportano variazioni rilevanti
dell’effetto delle regole.
Vengono infine analizzati i fattori esterni che possono portare a cambiamenti costituzionali: in questo Voigt
dà giustamente poco peso al concetto di concorrenza tra costituzioni, presentando come fondamental-
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mente rilevante quello del processo di imitazione dato da supposti effetti positivi di schemi costituzionali
di paesi di successo. Questa seconda parte del libro è ben documentata con esempi di cambiamenti istituzionali di paesi di tutto il mondo in un periodo di tempo molto ampio.
L’aspetto più apprezzabile dell’opera è sicuramente l’apertura della teorizzazione economica verso aspetti
evolutivi senza l’utilizzo di modelli di difficile applicazione. La formalizzazione è limitata a semplici applicazioni di teoria dei giochi.
L’opera consolida l’invasione dello spazio politologico da parte degli economisti, tuttavia l’imperialismo
economico – così come oggi viene chiamata l’applicazione del calcolo razionale basato sull’individualismo
metodologico – risulta molto ridotto, grazie alla convergenza di diverse tecniche analitiche. Infatti, la vastità del piano d’analisi porta l’autore a ridurre la complessità del soggetto tramite l’utilizzo di diverse tecniche, adottando così un approccio non certista già a livello teorico. D’altra parte la complessità dell’argomento non viene affrontata con concetti sintetici e strumentali come nel caso di North – la minimizzazione impersonale dei costi di transazione –, ma attraverso un ancoramento pragmatico al principio di ‘creazione di senso’ da parte dei modelli utilizzati. Se pur un certo strumentalismo permane nei modelli formali
proposti, questo è in gran parte legato alla scarsa dotazione di strumenti a disposizione dell’economista
relativamente ai suoi scopi.
Il problema della valutazione degli effetti di regole diverse viene un po’ trascurato o comunque poco enfatizzato. Da un lato, Voigt sembra adottare il concetto di sistemi di regole di Hayek, dall’altro, non elabora
tutte le conseguenze che questo principio comporta. Infatti, se l’effetto di una regola dipende dalle relazioni che essa intrattiene con altre norme, allora l’impatto di una regola può essere valutato solo relativamente a tutto il sistema di regole. Ciò significa che l’effetto del cambiamento di una norma può essere studiato solo avendo in mente la particolare configurazione delle interazioni tra regole. Questo concetto trova
gli economisti in buona parte sprovvisti di strumenti analitici appropriati in quanto la loro cassetta degli
attrezzi impone loro di concepire le variabili come additive, di parlare di insiemi e non di sistemi. La valutazione dell’impatto di una variazione del sistema di regole sull’economia è comunque un problema che
Voigt cerca di evitare per concentrarsi sui meccanismi del cambiamento istituzionale.
Il concetto di ‘spontaneità’ utilizzato da Voigt nel capitolo sesto del libro, dove viene discusso il processo
di cambiamento costituzionale come processo di negoziazione, è un’interpretazione molto libera di quello hayekiano. Esso risulta poco riconciliabile con quest’ultimo ed in parte con quello sostenuto da Voigt
stesso nel capitolo precedente. Il concetto di ordine spontaneo come emersione non pianificata di norme
difficilmente può essere esteso a processi di negoziazione collettiva. Il consenso dei gruppi d’interesse non
garantisce la sostenibilità delle forme d’interazione tra essi concordate. Inoltre il concetto di gruppo d’interesse o di rappresentanza non appare compatibile con l’individualismo hayekiano che si basa sull’ipotesi di informazione imperfetta e sull’idea di processi di scoperta individuali. D’altra parte, uno dei limiti di
Hayek è che non si può concepire come ordine progettato ogni forma di azione collettiva formalizzata volta
a stabilire regole d’interazione non già esistenti. In conclusione, i concetti di ordine spontaneo o progettato di Hayek risultano di difficile applicazione pratica in molti contesti, e comunque l’interpretazione che
Voigt ne dà nel capitolo sulla compatibilità di costituzioni e norme spontanee risulta più felice di quella che
invece emerge nel capitolo dedicato ai meccanismi di evoluzione delle costituzioni.
Rivolto al pubblico di stile anglosassone, il libro risulta di piacevole lettura anche per il continentale in
quanto produce un compromesso tra l’applicazione di tecniche strettamente economiche e la discussione
di concetti di matrice culturale europea. Dispiace tuttavia notare che l’autore trascura eccessivamente il
contributo dato da Walter Eucken, padre fondatore di questo tipo di studi.
(Stefano Solari)
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n.1 / 2000
BARLUCCHI M. CHIARA, Il tipo ideale weberiano. Dalla identificazione alla
operativizzazione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1998, pp.122, L. 22.000
Raramente si ha il piacere di recensire un vero scritto di metodologia che affronti problemi metodologici
cruciali come quello dell'idealtipo weberiano. Questi scritti si riconoscono dal fatto che sono il prodotto di
riflessioni spesso lunghissime. Ed, infatti, questo volume di metodologia è la rielaborazione di una tesi di
dottorato del 1992 ed esprime il lungo lavoro di una ricercatrice fiorentina che ha pubblicato, su questo
stesso argomento, un saggio sulla rivista "Sociologia e Ricerca Sociale". Inoltre, nel periodo tra la conclusione del dottorato e la pubblicazione di questo volume, l’autrice è stata a lungo e frequentemente in
Germania ed ha potuto confrontarsi con i testi originali e la letteratura tedesca sull'argomento.
Nonostante ciò, lo scritto della Barlucchi è rimasto profondamente italiano, come dimostra lo stesso riferimento alla operativizzazione contenuto nel sottotitolo. Soprattutto, se non solo, in Italia, ormai, i metodologi rimangono ancora così attenti al tema lazarsfeldiano della traduzione dei concetti in operazioni standardizzate in modo da ridurre al minimo la discrezionalità del ricercatore. Questo presupposto specificamente italiano è condiviso dall'autrice, la quale, in coerenza con esso, chiude il volume trattando il tema
dell'impiego del tipo ideale e costruisce, a tal scopo, un’astratta tabella di presenza e assenza delle caratteristiche o proprietà che potrebbero comporre un idealtipo. Questa chiusura è perfettamente coerente
con le premesse di scuola che rimandano, oltre che ad Alessandro Bruschi, metodologo fiorentino che si
è poco interessato di questo argomento o di argomenti ad esso strettamente collegati, agli scritti di
Alessandro Cavalli, Giovanni Sartori e Alberto Marradi.
Del primo, l'autrice accoglie l'idea, poi sviluppata nelle conclusioni, che le proprietà o caratteristiche di un
idealtipo vengano considerate preesistenti all'idealtipo stesso e siano rilevabili verificandone la presenza
(indicata o codificata con 1) o l'assenza (indicata o codificata con 0). Del secondo, l’autrice accoglie l'idea
che la costruzione dei concetti proceda per genus et differentiam (cosa che Weber ha esplicitamente negato). Del terzo, l’autrice ha accolto la concezione della comparazione come confronto di proprietà o di stati
di una stessa proprietà (concezione che risale alla Logique de Port Royal e che è lontanissima dall'idea di
Weber che la comparazione sia un confronto di contesti semplificati, appunto, attraverso il ricorso a tipi ideali).
In altri termini, sia le premesse che le conclusioni operativizzanti dell'autrice., inscrivono l'idealtipo weberiano esclusivamente nella comparazione sincronica dove è più facile utilizzare strumenti tipici della thin
description (le dummy variables che illustrano le presenze e le assenze delle proprietà o caratteristiche).
Un idealtipo così descritto non ha, tuttavia, niente a che vedere con la comparazione diacronica dove è,
invece, inevitabile utilizzare strumenti tipici della thick description (la problematizzazione di ciascuna
caratteristica o proprietà e, soprattutto, la descrizione della sua genesi).
Il problema è che qualsiasi idealtipo costruito (o presentato) sulla sola base della comparazione sincronica si presenta, quasi inevitabilmente, più come uno stereotipo (che individua un comportamento medio
laddove si presentano, comunque, forti scostamenti dalla media) che come un idealtipo vero e proprio
(che individua un tratto culturale o sottoculturale che aiuta a rappresentare una struttura più o meno latente nella/della società o realtà indagata).
Se veramente gli idealtipi della ricerca sociale si costruissero in questo modo, non vi sarebbe alcuna possibilità di rispondere ai critici della comparazione come metodo (soprattutto ai tanti che si fermano al casestudy adatto più all’elaborazione di ipotesi che al loro controllo) i quali potrebbero, a ragione, denunciare
come stereotipizzante e, quindi, inutile, ogni analisi comparativa.
Il libro è comunque ben scritto e presenta un apparato bibliografico non indifferente in cui, però, il peso
dei comparativisti alla Weber è molto ridotto rispetto al peso dei neopositivisti e, comunque, dei non comparativisti.
(Giuseppe Gangemi)
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